Alberto
Caracciolo. Keywords: in cammino verso il linguaggio. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Caracciolo” – The Swimming-Pool Library.
Caramella (Genova). Filosofo.
Grice:”I like Caramella – like me, he is into the metaphysics of conversation!
And he reminds me that I should re-read Vico!” -- Grice: “I like Caramella; he prefaced
Fichte’s influential tract on ‘la filosofia della massoneria’ – but also wrote
on more orthodox subjects like Kant, Cartesio, Bergson, and most of them!” –
Grice: “Like me, he thought truth is found in conversation!” Ancora al liceo,
comincia a collaborare con Gobetti, il quale gli affida la trattazione della
filosofia su “Energie Nove”. Dopo un
primo contatto con PGobetti e La Rivoluzione liberale, su segnalazione di
questi, entra in collaborazione con Radice, da cui apprese le dottrine del
neo-idealismo di Croce e Gentile. Dopo la laurea, insegna a Genova. Per le sue
idee antifasciste fu arrestato e rinchiuso prima nelle carceri di Marassi a
Genova, e poi fu trasferito a San Vittore a Milano; fu scarcerato, ma venne
sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Ottenne, per intercessione di
Croce, l'incarico di filosofia a Messina. Vinse la cattedra a Catania. Prese
parte ai convegni organizzati dalla Scuola di mistica fascista Insegna a Palermo, ereditando la cattedra che
era stata di Gentile. Il suo allievo principale, che ne cura il lascito, è Armetta,
docente alla Pontifica Facoltà Teologica di Sicilia. La sua vasta cultura, gli permise di vedere
la continuità della filosofia antica romana classica e e, nell'ambito della
filosofia italiana, l'unità delle opposte dialettiche nella legge vivente dello
spirito e nel dinamismo della natura e della storia. Apprezzato storico della
filosofia. La sua filosofia si può definire un neo-idealismo crociano e
gentiliano, ma reinterpretatto alla luce dello spiritualismo. La sua filosofia
supera lo storicismo e la dottrina crociana degli opposti e dei distinti, e si
esprime nell'interpretazione della pratica come eticità storica.. La religione
e la teosofia rappresentano la possibilità dello spirito attento da un lato
alla concretezza dell'uomo e dall'altro all'ineffabilità. Lo spirito, anziché
risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in intima unità con il
progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la riduzione dello
spirito ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferito una distinta
funzione teoretica. Altre opere: “Problemi
e sistemi della filosofia, Messina); “Religione, teosofia e filosofia”; “Logica
e Fisica” (Roma); “La filosofia di Plotino e il neoplatonismo” Catania);
Ideologia”; “Metafisica, filosofia dell'esperienza”; “Metalogica, filosofia
dell'esperienza” (Catania); “Autocritica, in: Filosofi italiani contemporanei,
M.F. Sciacca, Milano); “L'Enciclopedia di Hegel, Padova); “La filosofia dello
Stato nel Risorgimento, Napoli); “Introduzione a Kant, Palermo); “Conoscenza e
metafisica, Palermo); “La mia prospettiva etica, Palermo); “Carteggio con Croce.
Carteggio. La dialettica del vero e del certo nella "metafisica
vichiana" di Caramella, in Miscellanea di scritti filosofici in memoria di
Caramella, Palermo. Ontologia storico-dialettica di Caramella.Lo spirito nella
filosofia di Caramella.Caramella. La verità in dialogo. Carteggio con Radice.Dizionario
biografico degli italiani. Il linguaggio come auto-analisi. 2 S. Caramella , La cultura ligure nell’alto Medioevo, in
II Comune di Genova, La recente V ita d i G io rd a n o Bruno, con
documenti e ined i t i 1, in cui Vincenzo Spampanato lia potuto finalmente
sintetizzare oltre vent’anni di ricerche bruniane, mi suggerisce l’opp o r tu n
ità di un breve eenno sul soggiorno del filosofo nella n o s tra regione, così
sulla base di quanto lo Spampanato ha messo novamente in luce come su quella
delle antiche notizie da lui rinfrescate. Cel resto l’unica seria esposizione
dei fatti che stiamo per narrare era, prima delle dotte pagine dello Spampanato,
nella biografia del Berti2: ma sommaria e imprecisa per molti rispetti. Arrivò
il Bruno in Genova poco prima della domenica delle Palme, nel 1576: anno in cui
la festa cadeva il 15 aprile? Cont raria m en te al parere del Berti, il quale
sostiene non essere capace di prova che il filosofo sia entrato nella nostra
città, dobb iam o infatti tener presente una scena del Candelaio dove tino dei
protagonisti giura, entrando in scena, sulla « benedetta coda dell’asino, che
adorano i Genoesi’3 », e il passo correlativo dello S p a c c io d e lla B e
stia trio n fa n te , che dice proprio così : « Ho visto io i religiosi di
Castello in Genova mostrar per breve tempo e far baciare la velata coda,
dicendo: non toccate, baciate: questa è la santa reliquia di quella benedetta
asina che fu fatta degna di p o rt ar il nostro Dio dal monte Oliveto a
Jerosolina. Adoratela, baciatela, -porgete limosina: Centum accipietis, et vita
aeternam p o s s id e b itis 4 ». I « religiosi di Castello» sono, è evidente,
i Domenicani di Santa Maria di Castello, dove uffiziavano fin dal secolo X V 5
: e la preziosa reliquia doveva certo esser mostrata 1 Messina, Principato,
1921-22. Vedi, per l’argomento di questa com unicazione, a pp. 269-273. 3
Torino, Paravia, 18691; 18892. 3 ed. Spampanato (Bari, Laterza), pag. 29. 4 ed.
Gentile (D ial. m orali di G. B., ivi, 1608), pp. 185-186. Q u e t if e t E c h
a r d , S c rip t. ord. praed., t. il, p. in. Società Ligure di Storia Patria -
biblioteca digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 49 al p opolo
nella precisa circostanza della c o m m e m o r a z io n e del giorno in cui
Gesù discese trionfante su ll’asina a G e r u s a l e m m e 1. Il Bruno veniva
da Roma, um ile fu ggiasco. A v ev a avu to notizia che il processo istruttorio
p endente presso l’ in q u isiz io n e, per i sospetti di erodossia avanzati
contro di lui, n o n a n n u n ziava buon esito: e così, deposto l’ abito, si
diresse verso la valle Padana. Più tardi raccontò egli stesso, ai giu d ici di
V enezia, di essere andato subito a N oli. Ma è prob abile c h e la peste, da
cui quella plaga fu proprio in quel torno di rem po violentemente aiflitta, lo
abbia genericam ente con sigliato a v o lgersi verto la Liguria, contrada m eno
infetta, o non ancora raggiunta dal contagio, e a fermarsi alm eno qualche g io
r n o a G e nova. Le sarcastiche espressioni dello Spaccio ci fanno im m
aginare agevolmente il Bruno là sulla piazzetta della vetusta ch iesa romanica,
pieno l’animo non già di ammirazione estetica perla caratteristica facciata o
per gli ornamenti molteplici dell’ interno, eh’ è tutto un m usaico di con q
uiste orientali, - e tan to m e n o di interesse psicologico e religioso per la
folla affluente ed effluente dal tempio, - ma di cruccio e di sd eg n o : lui da
p o c o a ccostatosi alle nuove idee dei riformatori oltremontani, lui per
questo costretto a fuggire di patria e dall’ am ato co n v e n to napoletano di
San Domenico Maggiore, dove gli allievi p endevano dalla sua parola, dottamente
teologizzante. La peste arrivò presto, anzi subito, anche a G e n o v a ; a
Milano l’ ambasciatore veneto Ottaviano di Mazi ne aveva già n o tizia tre
giorni dapo il 15 aprile, il m ercoled ì s a n t o 2. E allora il Bruno, com e
ci attestano, questa volta, più veracem ente, le sue note dichiarazioni ai
giudici veneti, se ne a n d ò a N oli. Forse il ricordo dantesco, che per lui u
m anista p oteva con tar qualche cosa, e la simiglianza del nom e con quello
della sua Nola; forse la persistente libertà della piccola repubblica, e anche,
chissà, qualche lettera di raccomandazione, qualche c o n siglio di amico lo
spinsero in quel tranquillo rifugio, l’ u n ic o veramente tranquillo per lui
nella storia delie sue lunghe peregrinazioni. « Andai a Noli, territorio g e n
o e se , d ove m i intrattenni quattro o cinque mesi a insegnar la gram m atica
a’ putti ». « Io 1 P e r la s t o r i a d ella re liq u ia v. Im b r ia n i, N
a ta n a r II in P ropu gnatore, Vili, 1 (1875), p. 190-91. 3 M u tin e lli,
Storia arcana ed aneddotica d’Italia, vol. 1, lib. li, pp. 306-307, Società
Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale - 2012 50 stetti in Noli....
circa quattro o cinque mesi, insegnando la grammatica a’ figliuoli e leggendo
la Sfera o certi gentiluomini...1 ». Lo Spam panato, per ragioni di coerenza
con ulteriori dati biografici, pensa che il soggiorno sia durato un po’ più di
quattro mesi; e cioè dalla fine d ’ aprile 1576 ai primi del 1577. C o m u n q
u e, le occupazioni del Nolano a Noli sono ben chiare: l’ esule cercava di trar
qualche mezzo di vita con lezioncine private. Ma anche « leggeva la Sfera a
certi gentiluomini »: la Sfera, cioè il famoso trattato di Giovanni da
Sacroboseo, professore alla Sorbona e monaco domenicano quasi contemporaneo di
Dante: che si soleva considerare come perfetta e sintetica esposizione di una
teoria fisico-geometrica fondamentale per l’astronomia tolemaica, (la teoria
delle sfere celesti), e che Γ insinuarsi dell’ ipotesi copernicana aveva, nella
seconda metà del Cinquecento, rimesso in gran voga2. Persino a Noli era d u n q
u e penetrato il novello interesse del secolo per i problemi astronomici ;
perfino a Noli alcuni giovani signori sentivano il b i s o g n o di stipendiare
un povero erudito piovuto di lontano perchè spiegasse loro il sistema del
mondo. E il Bruno cominciava di quia occuparsi direttamente di quelle indagini
che fur o n o oggetto delle polemiche da lui sostenute in Inghilterra e che
formano l’argomento della Cena delle Ceneri. Non possiamo n atu ralm e n te
sapere (a meno che venissero fuori i quaderni di q u e s t e sue legioni
liguri) s’ egli già a Noli professasse la dottrina copernicana, servendosi
della Sfera per criticare il sistema tolem aico: o invece, come il Galilei ne’
suoi corsi allo Studio di Padova, si limitasse all’illustrazione del classico
libretto. Un sacerdote napoletano, anzi padre Iazzarista, Raffaele de Martinis,
che p otè consultare gli atti del Santo Uffizio, asserisce nella sua biografia
del B ru no3 che a questi fu intentato in Vercelli un processo (che sarebbe il
quarto dopo i primi due di Napoli 1 D occ. veneti, vili, c. 8 r-v. (SPAMPANATO,
p. 6Ç8). 2 Vedi A. P e l l i z z a r i , Il quadrivio nel Rinascimento (Genova,
Perrella, 1924). 3 G . Bruno (Napoli, 1889), p. 12-13. Ma cfr. L. A mabile, in A
tti A cc. S cienze mor. e politiche di Napoli, vol. xxiv, pp. 468-469 n.; e s p
a m p a n a t o , op. cit.., p. 273 n. (e anche T occo in Arch. fiir Gesch. d e
r P h ilo s., IV, 1891, pp. 346-50; B onghi, ne La Cultura, Γ-15 ott. 1889, pp.
585-86; G en til e , G. Bruno e il pensiero del Rinascimento, [Firenze,
Vallecchi 1920, pp. 63-64. Società Ligure di Storia Patria - biblioteca
digitale - 2012 GIORDANO BRUNO A GENOVA E IN LIGURIA 51 e il terzo di Roma) «
dalla Inquisizione dello Repubblica g e n o vese»: ma dell’asserzione
importantissima (secondo la quale si potrebbe proprio pensare aver il Bruno
palesato ancora una volta la sua eterodossia nell’insegnamento di Noli) il De
Martinis non dà, e confessa di non aver potuto trovare, le prove. E la notizia
non pare affatto fondata, posto che manca ogni riferimento a questo processo
genovese nei posteriori documenti processuali di Venezia, e di Roma dove pur
dovrebbe trovarsi, posto che a Vercelli non ci consta che il Bruno facesse
soggiorno (nè quindi l’inquisizione genovese avrebbe avuto ragione alcuna di
perseguirvelo), ma solo vi passò nel 1577. « Eppoi me partii de là [da Noli] ed
andai prima a Savona, dove stetti circa quindeci giorni; e da Savona a Turino,
dove non trovando trattenimento a mia satisfazione venni a Venezia per il P o 1
». Da Venezia, di lì a due mesi, a Padova; da Padova a Brescia, Bergamo,
Milano. Qui rivestì l’ abito, e poi per Buffalora, Novara, Vercelli, Chivasso,
Torino, Susa arrivò alla Novalesa, sotto il Cenisio. Un giorno ancora e fu in
Francia, oltre monti, lanciato per la gran carraia della Sua fortuna. T r o
verà onori, trionfi accademici, soddisfazioni di filosofo e di scrittore; ma la
queta pace di Noli, mai più. ____________ S antino C aramella 1 Docc. veti., c.
8La Logica di Porto Reale. Con Prefazione del Prof. Santino ... Storia del
pensiero e del gusto letterario in Italia ad uso dei licei. La scuola di
mistica fascista e la discoperta del vero Vico L'azione combinata della
storiografia al bianchetto e della credulità strisciante fra le righe del
conformismo teologico, ha fatto sparire la notizia della sfida al neoidealismo,
che fu lanciata dalle avanguardie cattoliche inquadrate nella scuola milanese
di mistica fascista. In tal modo la memoria storica degli italiani è stata
privata della nozione necessaria a contrastare seriamente l'ideologia
totalitaria e ad avviare gli studi filosofici su un cammino di ricerca opposto
a quello tracciato dall'intossicante influsso del gramscismo. Un percorso,
quella anticipato dalla scuola di mistica fascista, che avrebbe messo capo ad
un'evoluzione del Novecento - un'autentica rivoluzione italiana - di segno
contrario al coatto e calamitoso trasferimento (narrato da Ruggero Zangrandi)
degli intellettuali fascisti nel partito di Palmiro Togliatti. L'accertata
esistenza di una forte opposizione cattolica alla filosofia di matrice
hegeliana, comunque, fa crollare i due pilastri della mistificazione comunista:
la leggenda della complicità cattolica con l'ideologia anticomunista prevalente
in Germania - leggenda sintetizzata dal calunnioso slogan «Pio XII papa di
Hitler» - e la rappresentazione degli intellettuali italiani nella figura di un
coacervo nazifascista, redento in extremis dalla longanimità del partito
staliniano. La vicenda degli oppositori italiani all'idealismo
rivela, invece, l'autonomia, la straordinaria vitalità e l'attitudine del
pensiero cattolico ad entusiasmare ed orientare i giovani studiosi, che avevano
aderito al fascismo senza separarsi dalla radice religiosa della patria
italiana. Curiosamente, l'autorità del pensiero cattolico si rafforzò nella
prima fase della II guerra mondiale, quando la Germania nazionalsocialista
sembrava avviata a vincere la guerra. Dopo che il governo italiano ebbe
sottoscritto l'alleanza con la Germania, il dubbio si era, infatti, diffuso fra
i giovani, causando la divisione dell'area fascista in due opposte scuole di
pensiero: una corrente maggioritaria, intesa a metter fine al dominio della
cultura tedesca e perciò risoluta a percorrere la via d'uscita indicata dalla
tradizione cattolica, e una corrente minoritaria, rimasta fedele ai princìpi
dell'idealismo e perciò decisa a seguire le avanguardie germaniche sulla via
del fanatismo e dell'estremismo anticristiano. Espressione del fermento in atto
durante quegli anni cruciali è un magnifico saggio di Nino Tripodi (1911 -
1988), giovane interprete delle novità introdotte nella scuola milanese di
mistica fascista dal cardinale Ildefonso Schuster e dal fondatore
dell'Università cattolica del Sacro Cuore, il francescano Agostino Gemelli
(confronta «Il pensiero politico di Vico e la dottrina del fascismo», Cedam,
1941). Tripodi, grazie ad una profonda conoscenza della filosofia italiana
tentò un audace confronto tra lo storicismo cristiano di Giambattista Vico e la
dottrina politica di Benito Mussolini. L'affinità del fascismo e
della scienza nuova, nell'acuta analisi di Tripodi, non è causata dalle letture
(Mussolini, infatti, non cita mai Vico) ma dalla comune tendenza a riconoscere
che «maestra non è la mente di questo o quell'uomo che razionalmente pone un
principio, ma la storia delle attività di tutti gli uomini che si svolgono come
debbono svolgersi perché provvidenzialmente si compia la socialità che ad esse
è intrinseca». La scelta di Tripodi cade su Vico poiché «fu perenne nel suo
spirito la distinzione tra la sostanza divina e quella delle creature, tra
l'essenza o ragion di essere di Dio e quella delle cose create, come fu perenne
ed inequivocabile la inintelligibilità di Dio se ricercata nel mondo bruto
della natura anziché in quello della storia, nella quale la Provvidenza si
manifesta, chiamando gli uomini a collaboratori della divinità». Pubblicato nel
1941 e presto rimosso dalla censura di sinistra e dall'indifferenza di destra,
il saggio di Tripodi raccoglie e approfondisce i risultati delle ricerche
iniziate da quegli studiosi cattolici (nel testo sono citati Emilio
Chiocchetti, Giorgio Del Vecchio, Francesco Amerio, Agostino Gemelli, Francesco
Olgiati, Santino Caramella, Francesco Orestano, Armando Carlini e Balbino
Giuliano) che avevano sostenuto l'irriducibilità della tradizione italiana alla
filosofia tedesca, confutando le tesi di Croce e di Gentile su Vico precursore
dell'idealismo. Tripodi afferma, ad esempio, che il pensiero fascista, per
quanto concerne l'ontologia, «ha sempre creduto nella finitezza dell'umano,
riconoscendo che esiste una parete invalicabile, sulla quale lo spirito umano
non può scrivere che una sola parola, Dio» mentre gli idealisti, convinti di
sfondare quella parete, «hanno spiegato la dottrina fascista attraverso il
monismo soggettivista o le dimostrazioni immanentistiche, falsando così gli
inequivocabili atteggiamenti dualistici di essa». Di qui il
ribaltamento della linea neoidealista e la scelta dello storicismo cristiano di
Vico quale orizzonte filosofico della tradizione vivente in Italia malgrado gli
apparenti successi della modernità: «La stessa barriera che Vico oppone, in
nome della genuinità del pensiero italiano al razionalismo, la oppone il fascismo
all'idealismo. Né Gentile, né Croce, anche se il primo ha la camicia nera e
cercò di darla al secondo pongono gli estremi della nostra dottrina». Tripodi
indica in Vico l'antagonista dell'irrealismo e del soggettivismo dominanti
nell'età moderna: «Vico non può essere idealista perché la sua filosofia
impugna Cartesio e fa impugnare in Kant gli iniziatori delle dottrine,
costruite unicamente su di una realtà interiore». La filosofia vichiana,
inoltre, è apprezzata perché rivendica la responsabilità dell'azione umana nei
fatti della storia «che altre indagini speculative avevano invece interpretato
o come involuti in una meccanica autonoma e materiale o come creazione ideale
definita dal pensiero che l'aveva posta. … La coscienza delle proprie virtù creatrici
della storia non deve però indurre l'uomo a dimenticare che la causa prima di
esse sta al di fuori della sua singolarità terrena. E non al di fuori perché
affidata al caso o al fato, ma perché contenuta nella volontà di Dio e
rappresentata nella linea tracciata dalla sua divina provvidenza».
L'invito a separare il destino dell'Italia fascista dalle chimere del
razionalismo e dalle suggestioni dell'attivismo prometeico e dell'amor fati,
non poteva essere formulato con maggiore chiarezza. Nelle penetranti tesi
formulate da Tripodi è in qualche modo anticipato lo schema della strategia
culturale elaborata, nel dopoguerra, dai pensatori dell'avanguardia cattolica
(Giorgio Del Vecchio, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Augusto
Del Noce, Francisco Elias de Tejada, Rocco Montano, Francesco Grisi, Giovanni
Torti) che nella filosofia di Vico vedranno lo strumento adatto a contrastare e
battere i poteri dell'astrazione hegeliana trasferita, intanto, nella parodia
inscenata dal gramscismo. La posta in gioco era la corretta impostazione della
dottrina del diritto naturale, in ultima analisi la soluzione del problema
riguardante il rapporto tra la giustizia ideale e le cangianti leggi che i
popoli producono nel corso della loro storia. Dagli scritti giuridici di Vico,
Tripodi trasse una indicazione che gli permise di risolvere il problema senza
nulla concedere alle dottrine storicistiche contemplanti un pensiero
dell'assoluto che evolve nel tempo: «esiste non una separazione ma una diversa
gradazione d'intensità etica tra giustizia e diritto. La prima è un diritto
naturale soprastorico, che è patrimonio universale e depositario del sommo
vero. Il secondo è dato dall'insieme delle norme che il mondo delle nazioni
partitamente elabora nel suo progressivo avvicinamento alla giustizia». Di qui
l'indicazione di due altri motivi del consenso fascista alla scienza nuova: il
fermo rifiuto delle astrazioni suggerite dal contrattualismo e la confutazione
delle teorie utilitaristiche, che ritengono l'interesse materiale unica molla
delle azioni umane. Nella definizione del comune fondamento della
teoria dello Stato, Tripodi sostiene, pertanto, che nel pensiero di Vico come
in quello di Mussolini la Provvidenza fa prevalere la solidarietà sull'istinto
egoistico: «la provvidenza ha il suo più alto attributo nel senso della
socialità che perennemente richiama agli uomini, facendo loro vincere il senso
egoistico per cui vorrebbero tutto l'utile per se e niuna parte per lo
compagno». Tripodi conclude il suo ragionamento affermando che «l'unitario
ordine di idee nel quale relativamente alla concezione dello Stato si muovono
la dottrina vichiana e quella fascista» è dimostrato dalla condivisione del
fine soprannaturale: «l'uomo trova nello Stato l'organizzazione storica che gli
consente di realizzare quei principi morali conferitigli dalla divinità e con
ciò di assolvere alla sua stessa funzione trascendente di uomo». E' evidente
che l'identificazione della dottrina fascista con la filosofia vichiana era,
per Tripodi, un mezzo usato al fine rafforzare la convinzione sulla necessità,
imposta dai dubbi destati dall'alleanza con il nazionalsocialismo, di rompere
con la cultura prevalente in Germania e di condurre all'approdo cattolico le
vere ragioni dell'ideologia fascista. E' però incontestabile che
le tesi di Tripodi erano un ottimo strumento per estinguere l'ipoteca che la
filosofia tedesca aveva acceso sulla cultura italiana. Non a caso, nel
dopoguerra, Tripodi occupò un posto di prima fila nel gruppo degli intellettuali
dell'INSPE (Giorgio Del Vecchio, Carlo Costamagna, Carmelo Ottaviano, Ernesto
De Marzio, Vanni Teodorani, Giovanni Volpe, Gino Sottochiesa, Giuseppe Tricoli,
Primo Siena, Dino Grammatico, Gaetano Rasi) l'istituto che progettava la
trasformazione del MSI di Arturo Michelini in avanguardia di una moderna e
rigorosa destra cattolica. L'attenzione prestata da Pio XII all'evoluzione del
MSI in conformità alle tesi di Tripodi, aprivano le porte del futuro alla
destra. Il congresso del MSI, che doveva tenersi a Genova nel luglio del 1960,
doveva, infatti, approvare in via definitiva la lungimirante linea culturale e
politica di Tripodi, mandando a vuoto i progetti dell'oligarchia favorevole
all'apertura a sinistra. Purtroppo la tollerata (dai democristiani) violenza
della piazza comunista impedì lo svolgimento di quel congresso, respingendo il
MSI nel sottosuolo dionisiaco del pensiero moderno e nelle magiche grotte del
tradizionalismo spurio. La lunga immersione nell'area dell'indigenza filosofica
impoverì a tal punto la cultura di destra che, quando la discesa in campo di
Berlusconi offrì un'altra occasione all'inserimento nella politica di governo,
la classe dirigente del MSI, ottusa dalla retorica almirantiana ed espropriata
dal pensiero neodestro, non seppe produrre altro che le esangui e rachitiche
tesi di Fiuggi. Nato a Genova il 22 giugno 1902 da Eleucadio e da
Francesca Delfò, segui gli studi classici nella città natale. Ancora liceale,
nel maggio del 1919, cominciò a collaborare a Energie nuove di P. Gobetti, con
il quale aveva preso contatto epistolare fin dal 17 dic. 1918, dicendosi
lettore entusiasta del periodico e seguace della dottrina filosofica crociana.
Il Gobetti, ormai orientato verso interessi più specificamente politici, affidò
al giovane C. la trattazione sulla rivista dei temi filosofici. Dal luglio
1921, su segnalazione del Gobetti, Giuseppe Lombardo Radice cominciò ad
accogliere i suoi scritti su L'Educazione nazionale. In linea con
l'orientamento pedagogico idealistico del Lombardo Radice, fin dall'inizio
degli anni Venti il C. prese le distanze dal positivismo pedagogico con un
contributo (Studi sul positivismo pedagogico, Firenze 1921), nato proprio da un
suggerimento del pedagogista siciliano che nel dicembre 1919 glielo aveva proposto
come tema di studio. È qui osteggiato un pensiero ispirato agli schemi
dell'evoluzionismo deterministico e del positivismo scientifico; in particolare
e avversato il meccanicismo naturalistico biologicoevolutivo (Spencer e
Ardigò), cui viene opposta la concezione umanistica dell'educazione di un
Angiulli, di un Siciliani, di un Gabelli. Un'idea di fondo anima le critiche
del C.: è inutile ogni speculazione teoretica che non sappia apportare nuove
indicazioni pedagogiche per il miglioramento delle condizioni di vita umana,
sociale e pratica. Nello stesso orizzonte critico degli Studi si muovono
Le scuole di Lenin (Firenze 1921), La pedagogia di Vincenzo Gioberti (ibid.
1922) e la Guida bibliografica della pedagogia, specialmente italiana e recente
(ibid. 1923), che faceva seguito alla Bibliografia ragionata della pedagogia
(Milano 1921) scritta in collaborazione con il Lombardo Radice. Nutrito
di idee democratiche, che gli facevano ritenere inadeguato per l'obiettivo
della costruzione di una "nuova Italia" il vecchio quadro politico
postunitario, il C. si impegnò politicamente partecipando alla costituzione a
Genova di un gruppo democratico di sinistra, che aveva tra i leader Arturo
Codignola. Dal 1920 collaborò sia all'Arduo, sia al quotidiano socialriformista
Il Lavoro. In particolare, tipico dei gruppo di pedagogisti che, in certo
qual modo, si ponevano nell'ambito del pensiero gentiliano (verso cui anche il
C. veniva avvicinandosi sulla scia del Lombardo Radice, sia pure su posizioni
autonome), è il tema dell'educazione come strumento di realizzazione di una
coscienza democratico-nazionale. Da qui, anche per l'influsso delle idee
gobettiane, l'attenta considerazione di quanto veniva fatto in quel campo in
Unione Sovietica, all'indomani della rivoluzione bolscevica. In Le scuole di
Lenin l'ammirazione con cui il C. guardava al piano scolastico educativo
diretto da Lunačarskij era determinata in concreto dalla considerazione che si
trattava di una rivoluzione culturale unica nella storia dell'umanitàl tesa
all'elevazione delle classi inferiori per farle partecipare alla guida della
società; la critica più forte, propria della formazione laico-democratica del
C., stava nella denuncia del carattere dogmatico delle idee del Lunačarskij,
quando questi sosteneva che la sua scuola del lavoro non era disgiungibile dal
sistema sociale comunista e dal controllo politico del partito (pp. 106-
110). Conseguita la laurea in filosofia nel 1923, nel 1924 il C. ottenne
presso l'università di Genova la libera docenza in storia della filosofia e
vinse il concorso per le grandi sedi per la cattedra di filosofia, pedagogia ed
economia negli istituti magistrali, ottenendo come sede Genova. Frattanto la
collaborazione con il Gobetti, che più che un sodalizio intellettuale aveva costituito
un formativo comune impegno politico-sociale all'insegna del programma di
democrazia liberale, lo portò in breve tempo allo scontro con il fascismo ormai
trionfante. Dell'ottobre 1925 è la diffida dei prefetto di Torino contro la
Rivoluzione liberale (alla quale il C. collaborava dal febbraio 1922) e i suoi
redattori. La conferma di questo impegno politico e intellettuale, il C. la
offrì ulteriormente curando la pubblicazione postuma di Risorgimento senza eroi
(Torino 1926) del Gobetti e continuando a far uscire IlBaretti fino al 1928,
pur orientando la rivista sempre più verso temi letterari e filosofici onde
evitare scontri ancora più aspri con il regime. Nel 1926, grazie al Croce, che
ormai era divenuto per lui - come per tanti altri antifascisti - "maestro
di libertà", assunse la direzione della collana "Scrittori
d'Italia" edita da Laterza. Nel maggio di quell'anno fu costretto a
rinunciare alla collaborazione all'Enciclopedia Italiana, a cui era stato
invitato dal Gentile, per gli atttacchi mossigli dalla stampa di regime.
Il dissenso dalla politica del fascismo ne provoco l'arresto il 21 apr. 1928;
rinchiuso prima nelle carceri. di Marassi a Genova e quindi trasferito a S.
Vittore a Milano, fu scarcerato il 6 luglio dello stesso anno. Il 16 genn. 1929
venne sospeso dall'insegnamento e dalla libera docenza. Le accuse - come si
legge in una lettera al Croce del 5 febbr. 1929 (in Il Dialogo, 1980) - erano
tra l'altro di aver collaborato "al giornale socialistoide-democratico Il
Lavoro" di Genova e di aver avuto rapporti con l'associazione antifascista
Giovane Italia, insomma di essere "in una condizione di incompatibilità
con le direttive generali del governo". Scagionato anche grazie
all'intervento del Croce, il C. fu riammesso all'insegnamento il 9 aprile e la
libera docenza gli fu restituita con d. m. del 21 giugno 1929. Venne però
destinato all'istituto magistrale di Messina, dove prese servizio dal 16
settembre. Dall'ottobre di quell'anno ottenne l'incarico di filosofia e
storia della filosofia e di pedagogia presso il magistero dell'università di
Messina. Mantenne questi incarichi finché, nel 1933, vincitore di più concorsi,
fu chiamato a coprire la cattedra di pedagogia nell'università di Catania. Nel
1935 passò alla cattedra di filosofia teoretica (che terrà fino al 1950),
conseguendo nel 1936 l'ordinariato. Furono questi anni di studio intenso.
Pur nel crocianesimo di base, si intravvede in Religione, teosofia, filosofia
(Messina 1931) e in Senso comune. Teoria e pratica (Bari 1933) lo sforzo di
plasmare un proprio e originale impianto teoretico. In dialogo con i
principali pensatori dell'idealismo tedesco e italiano, il C. si misura
particolarmente con la crociana logica dei distinti. L'indagine si muove sul
terreno dell'attività teoretico-pratica dello Spirito. Particolarmente
Religione, teosofia, filosofia rappresenta questo tentativo compiuto dal C. per
una revisione del sistema idealistico: vi è fatta emergere l'esigenza di un
pensiero spirituale più attento da una parte alla concretezza dell'uomo e
dall'altra alla ineffabilità di Dio. Perseguendo tale assunto, nella ricerca di
un ordine della verità oltre la logica e la nozione di storia del Croce, il C.
ripercorre in Senso comune le tappe storiche del pensiero occidentale, ricostruendo
la genesi della dualità dello Spirito nella filosofia greca e poi seguendola
nel suo sviluppo e nel suo problematicizzarsi nel pensiero moderno. La
concezione della filosofia come educazione e storia, la stretta connessione tra
la filosofia e la sua storia pongono il C. medianamente tra il Croce e il
Gentile, e tuttavia nel senso di una sicura indipendenza dal loro pensiero. La
sua posizione teoretica può essere così schematizzata: la teoresi è
fondamentalmente caratterizzata dalla dialettica dei distinti, mentre la prassi
genera lo scontro tra gli opposti; la sintesi dei distinti non è un tertium
quid da essi distinto, ma consiste nella loro stessa inscindibile relazione. La
loro circolarità consente, come riaffermerà in Ideologia (Catania 1942), di guardare
alla pratica come alla realizzazione della teoria, così che si può parlare e di
un finalismo teoretico della pratica e di un finalismo pratico della
teoria. All'approfondimento critico dei neoidealismo italiano, il C.
affianca l'approfondimento del rapporto tra ricerca filosofica e fede
religiosa. Egli mantiene costante il dialogo tra filosofia, scienza e fede
nelle trattazioni della piena maturità: Ideologia (Catania 1942), Metalogica:
filosofia dell'esperienza (ibid. 1945), Metafisica vichiana (Palermo 1961), in
cui è auspicata la possibilità della sopravvivenza del problema metafisico
nell'orizzonte di una metafisica rinnovata, Conoscenza e metafisica (ibid.
1966). In quest'ultima opera è affrontato il rapporto verità-conoscere,
con l'intento di delimitare i confini del sapere scientifico e di affermare
razionalmente la capacità di intelligere la realtà della rivelazione. Qui la
religione, anziché risolversi nella filosofia, colloca il proprio progresso in
intima unità con il progresso della filosofia stessa: da un lato è esclusa la
riduzione della religione ad atteggiamento pratico; dall'altro, le è conferita
una distinta funzione teoretica. La piena adesione del C. allo spiritualismo
cristiano, dunque, fa si che sia elusa la riduzione della filosofia a
metodologia, senza dover rinunciare alla fondamentale esigenza di criticità, e
che l'interesse si concentri su quelle istanze spiritualistiche, invero in lui
presenti dagli anni giovanili sia come atteggiamento di vita - lo si evince
dalle Lettere dal carcere del 1928 - sia come ricerca originale di pensiero. In
tal senso, l'adesione allo spiritualismo cristiano va dunque letta più nella
prospettiva della continuità, dinamica e perciò trasformantesi e trasformante,
che in quella della svolta. Durante la sua lunga e proficua attività
accademica, il C. ricoprì numerose cariche, tra cui quella di preside della
facoltà di lettere e filosofia dell'università di Catania (1943-45); fu
presidente di sezione del British Council di Catania (1944-50) e presidente di
sezione della Società filosofica italiana a Catania (1947-50) e a Palermo
(1951-72); fu anche presidente di sezione dell'Associazione pedagogica
italiana. A Palermo si era stabilito definitivamente allorché venne chiamato
prima alla cattedra di pedagogia (1950-52) e poi a quella di filosofia
teoretica (1952-72) presso la facoltà di lettere e filosofia. Il C. morì
a Palermo il 26 genn. 1972. Opere: Per un elenco completo si rinvia a
Bibliografia degli scritti di S. C., a cura di T. Caramella, in Miscellanea di
studi filosofici in memoria di S. C. (suppl. n. 7 degli Atti dell'Accad. di
scienze lettere e arti di Palermo), Palermo 1974, pp. 371-414. Oltre alle opere
citate ci limitiamo a ricordare qui: E. Bergson, Milano 1925; Antologia
vichiana, Messina 1930; Breve storia della pedagogia, ibid. 1932; La filosofia
di Plotino e il neoplatonismo, Catania 1940; Autocritica, in Filosofi italiani
contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Milano 1946, pp. 225-233;
L'Enciclopedia di Hegel, Padova 1947; La filosofia dello Stato nel
Risorgimento, Napoli 1947; Introduzione a Kant, Palermo 1956; La pedagogia
tedesca in Italia, Roma 1964; Pedagogia. Saggio di voci nuove, ibid.
1967. Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Casellario
politico centrale, b. 1061, fasc. 21865. Per l'epistolario del C. contributi
in: Lettere dal carcere di S. C., in Giornale di metafisica, XXX (1975), pp.
26-38; Carteggio con Croce e Gobetti, in Il Dialogo, XVI (1980), pp.63-I16;
Carteggio Lombardo Radice-S. C., a cura di T. Caramella, Genova 1983. Vedi
inoltre: M.F. Sciacca, Profilo di S. C., in Annali della facoltà di magistero
della università di Palermo, 1971-72, pp. 5-15; P. Di Vona, Religione e
filosofia nel pensiero giovanile di S. C., ibid., pp. 16-33; F. Conigliaro,
Verità e dialogo nel pensiero di S. C., in Il Dialogo, VIII (1972), pp. 56-65;
A. Guzzo, S. C., in Filosofia, XXIII (1972), pp. 165-167; M. F. Sciacca, Il
pensiero di S. C., in Atti dell'Accad. di scienze lettere e arti di Palermo,
XXXII (1971 -73), n. 2, pp. 11-24; A. Sofia, Il dialogo di S. C. con gli uomini
d'oggi, in Labor, XIV (1973), pp. 81-93; F. Cafaro, Commemoraz. di S. C., in
Nuova Riv. pedagogica, XXIII (1973), pp. 17-26; P. Piovani, La dialettica del
vero e del certo nella "metafisica vichiana" di S. C., in Miscellanea
di scritti filosofici in memoria di S. C., Palermo 1974, pp. 251 -262; M.
Ganci, S. C., ibid., pp. 361-366; M. A. Raschini, Commemoraz. del prof. S. C.,
in Giornale di metafisica, XXIX (1974), pp. 465-472; F. Brancato, S. C.: senso
fine e significato della storia, Trapani 1974; V. Mathieu, Filosofia
contemporanea, Firenze 1978, pp. 8-10; P. Prini, La ontologia
storico-dialettica di S. C., in Theorein, VIII (1979), pp. I-II; L. Pareyson,
Inizi e caratteri del pensiero di S. C., in Giornale di metafisica, n. s., I
(1979), pp. 305-330; M. Corselli, La vita dello spirito nella filosofia di S.
C., in Labor, XXI (1980), pp. 157163; M. A. Raschini, Storiografia e metafisica
nella interpretazione vichiana di S. C., in Filosofia oggi, V (1982), pp. 267-278;
M. Corselli, La figura di S. C. nel periodo giovanile (1915-1921), in Labor,
XXV (1984), pp. 71-79; G. M. Sciacca, S. C. filosofo, pedagogista, educatore,
in Pegaso. Annali della facoltà di magistero della università di Palermo,
1983-84, pp. 9-22.
Santino
Caramella. Keywords: “la verita in dialogo”, soggetto, intersoggetivita, lo
spirito oggetivo, spiriti intersoggetivi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Caramella” – The Swimming-Pool Library.
Caramello (Torino). Grice: “I
love Caramello – he exemplifies all that I say about latitudinal and
longitudinal unities of philosophy – Aquinas is a ‘great,’ and Caramello has
dedicated his life to him!” Studia al prestigioso
liceo classico Gioberti di Torino, entra in seminario e nel 1926 riceve
l'ordinazione presbiteriale con una speciale dispensa papale dovuta alla
giovane età a cui aveva completato gli studi. Si laurea a Torino. Insegna a
Torino, e Chieri. Studia e cura Aquino. Praemittit
autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in
hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de
principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet
intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit:
primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum.
In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim
demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito
dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de
quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis
autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae
fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc
dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una
quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum
consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem,
prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et
ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod
significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae
pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem.
Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo
syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro
priorum. Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis
partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia
de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes
enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat.
Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex
aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus
determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales
orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non
nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur:
sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine
convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis,
significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et
alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones.
His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad
principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae
sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum
(alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam
esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur,
posterius autem manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio
dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem,
sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio
ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum
differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica
enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in
demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat
aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis
demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis
enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enu
nciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus
negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Si
quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est
quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis
philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione
animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad
constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium.
Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus: nam affirmatio naturaliter
est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus; et per
consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat
enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem
continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione:
quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum.
Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae
possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam
esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo
dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur.
Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea,
de quibus promiserat se dicturum, sunt voces significativae complexae vel
incomplexae, ideo praemittit tractatum de significatione vocum: et deinde de
vocibus significativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat.
Et hoc ibi: nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit:
primo, determinat qualis sit significatio vocum; secundo, ostendit differentiam
significationum vocum complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum
et cetera. Circa primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem
significationis vocum; secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum
sit ex natura vel ex impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et
cetera. Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum
uno intelligitur quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones,
ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et
sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter
secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione
Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem
sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce
sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam
manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens
hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces,
significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et
diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae
eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam
in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in
Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur
elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur,
sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius
exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce,
sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba
quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde
cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter
significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter
significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud
omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae
naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde
dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum
primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae,
idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas
sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae
passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones
animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem
significationis vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam
significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo,
praemittit differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim
et cetera. Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae
vocibus, quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine
differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa
significationes vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili,
sed etiam ex causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod,
sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in
III de anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem
invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine
vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia
voces significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad
hoc quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum
significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam
autem cum vero et falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc.,
manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu;
secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi:
nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus
quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo
quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet
intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium
intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei
quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel
quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod
huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac
secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur
veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut
etiam traditur in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium:
quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur
quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione.
Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea,
philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper
est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in sola compositione
vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut
probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo
veritas est solum circa compositionem et divisionem. Ad huiusmodi igitur
evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno
modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente
verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus,
quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur
nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. Verum
enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de
quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum.
Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea
quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res
comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad
mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum
humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei,
falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse
vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui
naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum
hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria
cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae
per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed
effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam
existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem
modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in
intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse
verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a
ratione artis. Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum
divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur
esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem
divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum
convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae
conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam
divinum. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram,
ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde
sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam
existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc
etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et
divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem
considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu,
consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur
intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album
dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed
postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est
instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem
factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam
intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se
positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est
instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis:
quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita
compositio, licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc.,
inducit signum ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex
hirco et cervus et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus,
et elaphos cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam
conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel
falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium
intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus,
quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel
secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed
secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem
utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo
statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit
verum vel falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine
significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus
significativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est
subiectum huius libri; in qualibet autem scientia oportet praenoscere principia
subiecti; ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa
enunciatione; ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo
facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis,
scilicet partes integrales ipsius; secundo, determinat principium formale,
scilicet orationem, quae est enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de nomine,
quod significat rei substantiam; secundo, determinat de verbo, quod significat
actionem vel passionem procedentem a re; ibi: verbum autem est quod
consignificat tempus et cetera. Circa primum tria facit: primo, definit nomen;
secundo, definitionem exponit; ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.;
tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non
homo vero non est nomen. Circa primum considerandum est quod definitio
ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil
rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid
aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. Et ideo
quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per
quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus
ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima.
Additur autem prima differentia, scilicet significativa, ad differentiam
quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata,
sicut biltris, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo
factus. Et quia de significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex
praemissis concludit quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit
quaedam res naturalis, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus
institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex
natura, sed magis signum, quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est
signum vocale; sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret
quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in
vas. Sed dicendum quod artificialia sunt quidem in genere substantiae ex
parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae: nam formae
artificialium accidentia sunt. Nomen ergo significat formam accidentalem ut
concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni
subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto significant
quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum
autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi.
Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione
ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut
cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum artificialium
significant formas accidentales, ut concretas subiectis naturalibus,
convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res naturalis quasi genus,
ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox
significativa. Secus autem esset, si nomina artificialium acciperentur, quasi
significantia ipsas formas artificiales in abstracto. Tertio, ponit
secundam differentiam cum dicit: secundum placitum, idest secundum
institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem. Et per hoc differt
nomen a vocibus significantibus naturaliter, sicut sunt gemitus infirmorum et
voces brutorum animalium. Quarto, ponit tertiam differentiam, scilicet
sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia
hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria
possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam,
et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest
considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod
primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et
passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum
tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen
et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum
secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo
verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen.
Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod
significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto,
ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata,
scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum
quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis;
nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine
non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars
significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in
nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis;
tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in
sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera.
Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina
composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus,
haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae
est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum
unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut
imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad
significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a
composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius
significet. Deinde cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam
partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen
significat secundum placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim
est nomen, quod significat: non autem significat naturaliter, sed ex
institutione. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando
imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat non fit, sed
naturaliter est signum. Et hoc significat cum dicit: illitterati enim soni, ut
ferarum, quia scilicet litteris significari non possunt. Et dicit potius sonos
quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed
tantum quibusdam sonis proprias passiones naturaliter significant: nihil autem
horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non
significat naturaliter. Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa
quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter
significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt
quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales
similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter
significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut
Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod
eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una
res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae
similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa
diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est
nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam
nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis
sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo vero etc.,
excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus
nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non
homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut
homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut
Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque
determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae
aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici
indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera
est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est
non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens:
sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius
et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest
subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non
autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones
concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid
separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio,
id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem
affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi
dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis,
ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit
casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt
nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est
impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur
casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a
nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam
nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest
procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil
prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens
ligno infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit
consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio,
quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in
hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit
semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter
autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba,
scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum
dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum;
ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen infinitum
et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio,
quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius
definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a
nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his:
nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis
significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam
philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria
facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi:
non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae
dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione
verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad
placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum
est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut
cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae
componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his
distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum
dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi,
quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in
vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina.
Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per
se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem.
Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto,
velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio,
ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est
egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per
verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse
processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et
significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam,
quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem
pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed
quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare.
Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota
eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi
significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur
magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur,
magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper
est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum
ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba
praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit
ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est
enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod
praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius
quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio
reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem
vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae
dictiones significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem
obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba;
dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter
sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a
perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi
dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum
verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea
verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum
indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim
negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis.
Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba
a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba
vero negativa in vi duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem
curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit
quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod
est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt
verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum
consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans.
Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne
intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est
motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat
actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea
quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie
dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est
proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati
simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum
quid. Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter
casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum
dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens,
futurum autem quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per
modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam
non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed
ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et
praedicari. Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat
propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina;
secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi:
sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est
quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia
supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde
proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo
audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit
quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad
hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur
esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem
nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est
animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est
eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus
operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se,
constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex
conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat
antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem
constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus
componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad
hoc facit quiescere audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non
est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis
et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non
currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel
non esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum
subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi
notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum
quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non
esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de
quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de
decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat,
nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est
per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur
conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et
posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur:
tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et
quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis
expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter
exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc
nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit
quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est
intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret
aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum,
sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est,
sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum
vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam
compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum
dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio
significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest
intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus
nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem
Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis
sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non
significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non
esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse.
Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam
quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse,
per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse
principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret
aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est,
non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem
habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad
veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et
falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema
compositionis. Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent,
planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse,
probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid
esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam,
et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare
compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa
compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine
componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non
apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse
verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat
compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti;
significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis
absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo
significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat
hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis
vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel
actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est,
vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus;
secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum
est significat compositionem. Postquam philosophus determinavit de nomine et de
verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius
existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale
enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim,
proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo
etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera.
Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo
ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est
vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de
verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia
supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati,
ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia
significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen
vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum
compositum. Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et
verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra
enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed
solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius
pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est
significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se
non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed
quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum
compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio
competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde
subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est
significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut
affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de
affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit
affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat
aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Sed contra hanc
definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis
convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut
affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et
ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et
posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius
speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo
quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio
simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel
potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in
communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi
simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut
affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes
aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune
orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione
orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod
pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius
sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum
affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet
quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit
dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars
orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum
sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod
affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod
haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non
videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad
domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas.
Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter
ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut
paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero
mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur
ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris
organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis
principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio
imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio
convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Deinde cum dicit: dico
autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum
esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una
hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis
esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat
aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse
vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim
aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si
addatur ei verbum. Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit
falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus
quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur
ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia,
oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis,
scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars
alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem
totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus
immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de
partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur
quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est
una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse
dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una
dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba
huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola.
Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando
habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et
ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum
autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant,
licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in
nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione
nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum
quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt
huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. Deinde cum
dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui
dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum.
Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse
naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem
interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia.
Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa
interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens
operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana
significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur esse
Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio
significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et
voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex
humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam
non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed
supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius
corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet
virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis
utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc
modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis:
quamvis non naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de
principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et
dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in
secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici
enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de
aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In
prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima
oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi:
quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit
definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem
differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus
etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et
caeterae quidem relinquantur. Circa primum considerandum est quod oratio,
quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen
instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet
definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et
omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra
dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non
invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et
ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens
quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi
considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem
orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et
definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est:
ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio,
in qua verum vel falsum est. Dicitur autem in enunciatione esse verum vel
falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est
verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in
causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non
est, oratio vera vel falsa est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus
etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus.
Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum
vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis,
manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit
verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae
orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet
enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen
intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia
oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra
dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad
attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum
dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua
invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum
intellectus, in quo est verum vel falsum. Sed quia intellectus vel ratio,
non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium
pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit
quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita
etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum
quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad
tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio:
secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio,
ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non
significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed
quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur
verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de
rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur
verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam
vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et
optativa ad deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur
etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae
quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est
affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima,
subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa,
ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit
quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex
hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem
generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis:
quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet
respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio
secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant
rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio
in qua verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat
propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio
vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam,
scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi:
est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo,
praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo,
manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Circa primum
duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex
verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel
futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione
sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum
nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam
oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem
hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut
fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum
seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa. Potest autem esse
dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem
de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem,
quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur
autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum
loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia,
sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur.
Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars
formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica,
idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et
ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et
formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa
vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam
conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur
coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non
erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad
enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de
verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam
autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una
simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in
omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non
est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non
importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine
faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit
aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod
dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa.
Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem
assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in
VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia
advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per
modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma
autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa,
ita ex genere et differentia. Excludit autem quamdam rationem huius unitatis,
quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum,
quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione
coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad
unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis,
iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in
locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco
coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius
proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali,
cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta
non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam
hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum,
sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde
subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque
per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex
quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum
comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad
genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. Deinde cum dicit:
est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et
primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una;
secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum
autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam
divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et
verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem
unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos
pluralitatis. Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute,
scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est
coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes
plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo
modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales
opponuntur secundo modo unitatis. Circa quod considerandum est, secundum
Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex
autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio
quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in
unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio,
sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex
pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex
pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum
significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est
pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa
significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura
significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas
et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus
non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus
musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive
cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato
disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa,
quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit
coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non
unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter
nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione,
idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est
unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque
coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus
grammaticus logicus currit. Sed haec expositio non videtur esse secundum
intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit,
videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est
coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non
multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum
et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod
Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam
coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat
quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes,
dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis,
sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent.
Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una
simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal
gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in
prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. Et quia oppositum per
oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes,
et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes
quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno
communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est
animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et
ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter
definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis
opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non
solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus
coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et
secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo
pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde
manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures:
plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus
accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum
unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat,
sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt
simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua
uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia
quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est
coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Deinde cum
dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et
verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset
autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum
unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum
dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo
loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis.
Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest
dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum
significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione.
Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si
quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur
ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit
ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel
sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert
enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit
autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad
interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium
enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod
intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si
quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi
legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat,
manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum.
Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est
omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Deinde cum
dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum
rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno
significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis
est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit:
harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur
una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec
quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne
intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum
hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab
aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet
dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo,
enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur
in simplex et compositum. Deinde cum dicit: est autem simplex etc.,
manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod
enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo
quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae
enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod
simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet
ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc
intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt
divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti.
Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et
quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem,
volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et
negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod
non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum,
quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae
significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et
composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad
notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti
affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander
accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut
genus de suis speciebus. Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus
consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione
affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de
aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius
ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non
consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod
Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et
divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non
referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia
differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum
quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius
dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa
de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen
ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus
affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non
esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et
negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem
esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab
aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea
quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium
affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur
dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum
dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est
oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio
facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod
artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias
specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox
significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel
de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo
ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit:
quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse;
et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita
divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis,
scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat
orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes
ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa
praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio
opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi:
manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima,
determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda,
ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi:
quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni
affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat
oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoc contradictio
et cetera. Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum
propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum
prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod
enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel
est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per
comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. Sic igitur quatuor
modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum.
Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod
pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem
currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod
pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio
modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad
affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum
enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam;
ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora
procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae,
cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non
esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est,
scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae
opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet
in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur
affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non
esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non
est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad
hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae
per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est,
esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae
enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum
praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus
ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse
est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit:
quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea,
quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt
quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti
et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et
omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis.
Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod
trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde
manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia
affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito
contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem
sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset
contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non
posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit
absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per
nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo
quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni
huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod
dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen
contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut
Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem
et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis
diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset
oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec
autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal
in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis;
non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia;
aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad
aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum,
non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera
talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra
sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones
sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. Quia
philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse
contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere
diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera
contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem
enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam;
secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera.
Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam
subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum;
secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et
cetera. Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis
sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus,
quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per
divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt
singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per
definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari,
singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno
solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale,
Plato autem singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia,
sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra
res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non
sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens
divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse
universales, sed omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur
res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in
enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi
mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur
secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus
intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione
alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est
proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in
quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum
aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut
rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod
convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur
significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est
commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale,
quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est
communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute
secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum,
non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem,
puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem
Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel
de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem
intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de
anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit
autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei
quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid
accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus
remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol,
non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae
ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non
dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum
est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in
materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter
potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum
praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod
terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod
significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod
nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod
per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in
materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus
dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit
Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato
est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur
hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse
enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo
intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de
pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus
inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen
Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia.
Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia
materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed
aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit
divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re;
rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod
quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium,
quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et
est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et
cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor
modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a
singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum
sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest
ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato
aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod
homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim
intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum
quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur
aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu
ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad
esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si
dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae
etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior
est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non
sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc
modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo
attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque
quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod
ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum
dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur
ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid
quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari
autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio
enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum
quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est
divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic
enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum.
Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae
quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam
praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis
enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem
enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia
significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur
secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo,
et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas
consequitur materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc.,
ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem
subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum
in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones
diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile
est et cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum
modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed
Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum
non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab
eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem
adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt genera
affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in
qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo
est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut
cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de
universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari
individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum
aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates
est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum
universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando
autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero
quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur
de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit
haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema
distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo
convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum dicit:
quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in
indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum
per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem
manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo
quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen
universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur
contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc.,
manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in
universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de
particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per
exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem
enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem
huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed
tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec
dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis,
prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita
subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur
universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando
in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae. Sed
hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est
expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode
exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et
falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque
has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt
contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam
earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo
non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam
contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia
philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum
etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici. Alii
vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati.
Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod
inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et
sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse
contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si
contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur,
aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel
habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens
potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus
natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae
significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt
contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones
quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est,
quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis
pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de
contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio
Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non
determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret
contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret
contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non
sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque
ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid
universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum
universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae
enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis
homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum dicit: in eo vero
quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam
diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a
parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod
similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod
universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad
hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est
verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse
potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare
praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est
enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum
autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur
universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad
singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur
particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum
sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et
ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato,
sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam,
omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo
est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a
philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod
praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant
differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est
actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis;
et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si
praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat,
subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali
praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur
ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal.
Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula
quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub
homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam
subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod
quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant
rationi singularis, quod accipitur sub universali. Nec est instantia si
dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus:
disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae;
repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum
disciplinae. Signum autem universale negativum, vel particulare
affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat
veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi
enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo
nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est.
Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa
est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista,
aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac,
omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in
omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit
istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas.
Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando
universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione
enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum
est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad
particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et
hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera. Particularis vero
affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem,
quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis
enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato
singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali
particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non
habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem
affirmationis et negationis, secundum praemissa. Dicit ergo primo quod
enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur
contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una
earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit
affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis
homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis,
ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam
homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non
ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam
homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae
est universalis negativa), sunt contradictoriae. Cuius ratio est quia
contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem;
universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec
aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa
removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod
particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde
relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis
negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. Deinde cum
dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et
dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae;
sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis
negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat
extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc
pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et
negativa se habent sicut medium inter contraria. Deinde cum dicit: quocirca
has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad
verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad
contradictorias; ibi: quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum
ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in
universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et
universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae.
Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie
opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut,
non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est
albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus
homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam
album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et
nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum,
sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non
possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul
possunt esse verae. Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc.,
ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod
considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non
plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno
modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum
est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate
refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec
potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis
affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate
praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem
universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium
enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim
contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi
quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando
dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV
metaphysicorum. Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc.,
ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse
contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod
intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.;
tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem
subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio
et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi
propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare,
et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum
philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus
non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit
falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est
albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est
probus. In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli
contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro
universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia
indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem
secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem
est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam
affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam
universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa,
quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis;
et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad
quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur
indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod
non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter
quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod
materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam
Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum
secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia
huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et
ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod
indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali
negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est
potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in
genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque
genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est
potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset
potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo
indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior,
sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione
partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni
parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas
particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et
simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae
negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione
suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi
indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab
universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in
his, quae per se de universalibus praedicantur. Deinde cum dicit: si enim
turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes
enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis
affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas,
quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata:
quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum
perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo,
idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro.
Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine
existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam
homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo
est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus;
ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et
eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem
oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur
ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius
quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in
successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus,
quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec
est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae
sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit:
videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et
dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum
genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut
huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec
negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed
si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est
sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex
sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero
negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae,
in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod
affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid
singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter
sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio
neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi
opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12
n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per
exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus,
haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si
vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita,
sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae
est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae
est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum
affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi,
omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est
albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando
affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod
huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria
negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non
aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur
tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. [80426]
Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod
supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita
affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita
affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una
negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae,
aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est
vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt
contradictoria. Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit
quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum
est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua
aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter,
multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur
ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba,
et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad
veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est
albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est
alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa;
alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum
rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et
multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non
invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum
dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit
ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur
subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia
scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo
dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod
poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter
inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo,
proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de
praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de
futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de
universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia
necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in
praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem
impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et
particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus.
In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus
vel praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam
dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera
oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in
singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit
vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem:
nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in
futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen
Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad
singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel
repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc
igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus
de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum
sit vera et altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc.,
probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat
propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia
quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper
potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod
non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et
cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam
consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est
vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est
quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit:
quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco,
probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum
unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat
hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod
in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel
affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum
dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum
dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc
probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet
quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod
manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de
necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate
sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis talis.
Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit
vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat
verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non
esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est
omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint
ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. Quaedam
enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam
vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem,
quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in
pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si
autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo
dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent
contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter
causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in
paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata:
quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa
hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et
sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate
potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae
sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi;
ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia
inconvenientia memorata; ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit
ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia
sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram
determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut
in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed
omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo
inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari:
probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex
necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse.
Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter
aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt
superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non
operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea
intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis
finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum
dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur
ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta
inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem
inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et
cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando
nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc
aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur,
alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio
determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit;
ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in
omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at
vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non
ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno
affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se
habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim
propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel
non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum,
sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod
nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante
quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat
veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere
diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse
sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic
se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat
per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non
futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal
rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici,
scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc
dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea
quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et
accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in
praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.
Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse
impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et
multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est
omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae
dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum
futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate
habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur
totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc
enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec
punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur
a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit
pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem
futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim
quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere
iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad
agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra
conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam
impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate
eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem
etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse
quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse:
alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est,
incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album,
incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non
ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et
non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura
possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse.
Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per
sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam
possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex
parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi,
possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas
indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii.
Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri,
idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit
vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum
eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit;
necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum,
sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii
melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud
necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile
autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum
est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se
habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc
est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia
Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum.
Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus
corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse,
ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen
nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est
quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est
sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae
quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad
unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in
actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur quidam attendentes
posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur
necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum
Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes
quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse
est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc
concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant
quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem solvit Aristoteles
in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim
quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud
quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis
ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam,
et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet
causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa,
quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis
causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non
possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per
effusionem aquae impeditur combustio. Si autem utraque propositionum
praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere.
Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post
quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam
priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti,
vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni,
per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si
comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum,
occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et
ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum
propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt autem quidam contra
hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet
effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod
id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est
per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se
existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens
consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est
habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet
causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter
referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae
dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens
et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in
aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua
ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum.
Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur.
Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non
subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et
voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in
libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et
voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere
per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus
organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde
philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici
motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu.
Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem,
in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis.
Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt
necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias,
sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex
virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et
voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum
corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per
accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem,
quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum;
unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus
musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno
et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus,
puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per
accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum
reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per
accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem. Sed
considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut
unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen
intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format
enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens
evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut
concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum
ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a
domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant. Et
secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae
videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua
dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de
intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit.
Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse
ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque
modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum
intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne
cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et
omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile
cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius
voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute
activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens.
Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo
accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo
quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea
quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis:
voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult,
ex necessitate eveniant. Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod
cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum
eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. Nam
primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad
cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis
cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae
totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest
ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et
posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in
tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet
eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de
praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes;
quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se
sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non
potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in
aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem
simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in
comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo
unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine
temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo
necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est
quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et
futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu
aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem
non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere
in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non
tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen
certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet,
quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur
relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt
in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens,
sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes
effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem aliam
radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod
similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem
quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia,
quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se
nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse
falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones
demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam
perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt,
quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent
esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex
necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in
unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se
appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi
bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes
appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter
finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per
philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non
existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate
appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia
sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia
bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione
apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc
cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant
appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex
necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter
radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii,
quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in
quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III
Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas
hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere.
Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis
rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et
circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab
enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res
sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas
circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare
quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas;
secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi:
et in contradictione eadem ratio est et cetera. Dicit ergo primo, quasi
ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet
omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet
quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse
est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium:
impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est
illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non
esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et
similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse
est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod
omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non
esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed
ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod
est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non
idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne
ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex
suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de
esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex
necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et
per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his,
quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum
determinate esset futurum. Deinde cum dicit: et in contradictione etc.,
ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem
ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in
suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit
necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita
etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem
oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum
sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc
principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde
impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non
esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute.
Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum
cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras;
similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad
necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit
futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione.
Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter
se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in
veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter
concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit
ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem
sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio
est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria
contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut
necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et
quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in
contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt
de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars
contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se
habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit
vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex
hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel
falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale
intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni
genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram
et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his
quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non
esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in
his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum:
quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur
primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione
simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod
diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione
considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in
enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa
compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel
negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo
haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc
quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo,
quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum
veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.;
tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum
provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum
autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio
facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis,
quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem.
Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex
additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat
circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de
pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de
enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur
tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex
parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa
primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales
enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima
est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi
enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem
ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera.
Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes;
secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio,
concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. Resumit ergo
illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet
affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est
proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo
aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum;
et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de
aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum
affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut
in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur
innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed
solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in
affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum
subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una,
de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod
subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde
cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum
est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non
homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est
verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad
dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat
unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod
significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum
significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut
in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et
ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum
quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est
unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne
aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non
significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. Deinde
cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod
duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex
nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et
hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid
significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi
ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et
negare, ut in primo habitum est. Deinde cum dicit: praeter verbum etc.,
ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum
est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest
enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur
loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni
infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum
constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per
se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut
addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem
potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen
infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio
illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non
accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc
quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in
enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur
veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel
ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori
intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit
affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut
diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo
subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit,
homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non
universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus,
in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia
singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi
enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam
praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter
ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto
universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex
parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in
extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant
praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam
philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum
ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas
enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti
et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi
enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent;
ibi: quoniam vero contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit
de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de
enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et
cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum
triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de
enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum;
secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi:
similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen
infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa
primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium
enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem;
ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et
cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit
quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. Circa primum duo oportet
intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur.
Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in
enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod
nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura.
Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi
coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum
dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem
esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et
ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur
esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio
posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum,
ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. Secundo,
considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum
est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod
considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur
solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta
si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una
oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens
praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum
differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut
haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero
oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio
fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota
praedicationis. Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit
quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus,
hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum
in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio
nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum
communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam
nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non
refert utrum dicatur nomen vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor
erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem
numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio,
rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo
primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens
praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est
quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens,
praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum
duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem;
et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et
negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam,
ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia
breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. Ad
cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in
huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum
quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa,
scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices.
Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae
aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur
infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam
sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur
privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas
praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad
affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet
homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo
est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito
praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed
duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non
homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et
hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius
evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute
se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere
praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia
illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter
haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum
quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum
loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa
infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici
de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo
iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed
etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo
iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa
simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus
quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex
est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest
dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam
affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum
habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de
aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex
in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest
dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo.
Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam,
quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum
iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici
quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus,
qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His
igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum,
scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae,
se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una
est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo
consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet,
sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur
(eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam
sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut
simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non
convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam,
quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in
consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.
Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus,
scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex
una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa
privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa
simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in
minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se
habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad
infinitas. Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter
exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera
philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu
diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo
habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu
infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est
expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur
similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas.
Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet
affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum
consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam
sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa
infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero,
scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut
scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur
negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut
infinitae. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam
quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes:
loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum
praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta
secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod
adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum
negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni
autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes.
Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per
quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum
est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata
figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex
opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus
scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non
iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel
negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor
enunciationes. Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes
disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis,
idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut
non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini
adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur
ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de
infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte
praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex
parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod
praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri
et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod
non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Pietro
Caramello. Keywords: peryermeneias Aquino. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Caramello” – The Swimming-Pool Library.
Carando (Pettinengo).
Filosofo. Grice: “I like Carando; a typical Italian philosopher, got his
‘laurea,’ and attends literary salons! – There is a street named after him –
whereas at Oxford the most we have is a “Logic lane!” -- Ennio Carando (Pettinengo), filosofo. Studia
a Torino. Si avvicina all'anti-fascismo attraverso l'influenza di Juvalta (con
cui discusse la tesi di laurea) e di Martinetti. Collaborò alla Rivista di
filosofia di Martinetti, dove pubblicò un saggio su Spir. Insegna a Cuneo,
Modena, Savona, La Spezia. Sebbene fosse quasi completamente cieco dopo
l'armistizio si diede ad organizzare formazioni partigiane in Liguria e in
Piemonte (fu anche presidente del secondo CLN spezzino). Era ispettore del
Raggruppamento Divisioni Garibaldi nel Cuneese, quando fu catturato in seguito
ad una delazione. Sottoposto a torture
atroci, non tradì i compagni di lotta e fu trucidato con il fratello Ettore,
capitano di artiglieria a cavallo in servizio permanente effetivo e capo di
stato maggiore della I Divisione Garibaldi. Un filosofo socratico. La
metafisica civile di un filosofo socratico. Partigiano. Dopo l'armistizio Ennio Carando, che insegnava a La Spezia presso il
Liceo Classico Costa, entrò attivamente nella lotta di liberazione organizzando
formazioni partigiane in Liguria e in Piemonte. A chi gli chiedeva di non
avventurarsi in quella decisione così pericolosa rispondeva fermamente: "Molti
dei miei allievi sono caduti: un giorno i loro genitori potrebbero
rimproverarmi di non aver avuto il loro stesso coraggio". Ennio
Carando. Keywords: filosofo socratico, Socrate, Alcibiade. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carando” – The Swimming-Pool Library.
Carapelle (Napoli). Filosofo.
Grice: “I like Carcano; I cannot say he is an ultra-original philosopher, but I
may – My favourite is actually a tract on him, on ‘meta-philosophy,’ or rather
‘language and metaphilosophy,’ which is what I’m all about! How philosophers
misuse ‘believe,’ say – but Carcano has also philosophised on issues that seem
very strange to Italians, like ‘logica e analisi,’ ‘semantica’ and ‘filosofia
del linguaggio’ – brilliantly!” Quarto Duca di Montaltino, Nobile dei Marchesi
di Carapelle. Noto per i suoi studi di fenomenologia, semantica, filosofia del
linguaggio e più in generale di filosofia analitica. Studia a Napoli, durante i
quali si formò alla scuola di Aliotta e si dedica allo studio delle scienze.
Studia a Napoli e Roma. Sulla scia teoretica del suo tutore volle approfondire
le problematiche poste dalla filosofia e riesaminare attentamente il linguaggio
in uso. La sua tesi centrale è che correnti come il pragmatismo, il positivismo,
la fenomenologia, l'esistenzialismo e la psicoanalisi, fossero il portato dell'esigenza
teoretica di una maggiore chiarezza – la chiarezza non e sufficiente -- delle
varie questioni che emergevano da una crisi culturale, vitale ed esistenziale. Al
centro di tale crisi giganteggia la polemica fra senza senso metafisico e senso
anti-metafisica, soprattutto a causa del vigore critico del positivismo logico,
contro il quale a sua volta lui -- che ritiene necessaria una sostanziale
alleanza o quantomeno un aperto dialogo fra la metafisica e la scienza -- pone
diversi rilievi critici, principale dei quali è quello di minare alla base
l'unità dell'esperienza, alla Oakeshott -- che senza una cornice o una
struttura metafisica in cui inserirsi rimarrebbe indefinitamente frammentata in
percezioni fra loro irrelate. A questo inconveniente si può rimediare temperando
il positivismo con lo sperimentalismo, ovvero accompagnando alla piena
accettazione del metodo una piena apertura all’esperienza così come
“esperienza” è stata intesa, ad esempio, nella fenomenologia intenzionalista
intersoggetiva di Husserl. In questo senso si può procedere a mantenere una
costante tensione sui problemi posti dalla filosofia, in opposizione a ogni dogma
di sistema, e al contempo non cadere nell'angoscia a cui conduce lo scetticismo
radicale che tutto rifiuta, compresa l'esperienza. Non si tratterebbe dunque
per la filosofia di definire verità immutabili ma di sincronizzarsi col ritmo
del metodo basato sull’esperienza fenomenologico, sussumendo i risultati
sperimentali e integrandoli nel continuum di una struttura metafisica mediante
il ponte dell'esperienza. Altre opere: “Filosofia e civiltà” (Perrella, Roma);
Filosofia (Soc. Ed. del Foro Italiano, Roma); Il problema filosofico. Fratelli
Bocca, Roma); La semantica, Fratelli Bocca, Roma – cf. Grice, “Semantics and
Metaphysics”) Metodologia filosofica, una rivoluzione filosofica minore.
Libreria scientifica editrice, Napoli 1958. Esistenza ed alienazione” (CEDAM,
Padova); Scienza unificata, Unita della scienza (Sansoni, Firenze); Analisi e
forma logica (CEDAM, Padova); Il concetto di informativita, CEDAM, Padova); La
filosofia linguistica, Bulzoni Editore, Roma. Dizionario biografico degli
italiani, Roma. Ben altrimenti articolato e puntuale
ci sembra l'intervento operato sulla fenomenologia da Paolo Filiasi Carcano di Montaltino
de Carapelle, quarto duca di Montaltino, ed allievo di Aliotta a Napoli e pur
fedele estensore delle sue teorie, sulle quali, per questo mo tivo, ci siamo
nell'ultima parte dilungati sorvolando sullo scarso ruolo t-he gioca in esse
l'opera di Husserl. L'iter formativo di Filiasi Carcano (1911-1977) interseca
situazioni ed esperienze riscontrabili, come ve dremo, anche in altri giovani
filosofi della stessa generazione. Di più, nel .suo caso, c'è una singolare — e
probabilmente indotta — analogia con la vicenda teoretica del primo Husserl. In
realtà, — scrive l'autore in un brano autobiografico del 1956 — io non posso
dire di essere venuto alla filosofia in maniera diretta, per un'intima voca
zione alla speculazione o per un normale maturarsi dei miei studi e della mia
men talità giovanile, ma questa era soprattutto caratterizzata da un'intensa
passione pèrle scienze e da una viva disposizione per la matematica54. Questo
germinale orientamento, unito a una sensibilità religiosa che non tarderà a
manifestarsi, ebbe come primo e scontato effetto di allontanare Filiasi Garcano
dall'area neo-idealistica, il cui radicale immanentismo, la esclusione dei
concetti di peccato e di grazia e l'avversione per ogni for- 53 Ibidem, p. 7.
54 P. Filiasi Carcano, 17 ruolo della metodologia nel rinnovamento della filo
sofia contemporanea, in AA.W., La filosofia contemporanea in Italia. Invito al
dialogo, Asti, Arethusa, 1958, p. 219. LA PRIMA ONDATA DI STUDI
HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 59 ma di naturalismo, non potevano in alcun modo
essere accettati 55. Di qui un sentimento di estraneità e di insoddisfazione
subito denunciati fin dai primi scritti, l'intima perplessità e la difficoltà
di orientarsi in una temperie culturale già decisa e fissata nelle sue grandi
linee da altri. E, d'altro canto, un naturale rivolgersi al problema
metodologico, come pre liminare assunzione di consapevolezza circa i percorsi
teoretici che con veniva seguire per ottenere uno scopo valido, senza tuttavia
ancora nul la presumere circa la necessità di quei percorsi o la natura di
questo sco po. In tal senso, l'elaborazione di una qualsivoglia metodologia
doveva prevedere come esito programmatico, da un lato, una sorta di epochizza-
zione delle grandi tematiche metafisiche e della tradizionale formulazione dèi
problemi, dall'altro lato, un lungo e paziente lavoro di analisi, con fronto,
chiarificazióne e comprensione che consentisse di recuperare, di quelle
tematiche e di quei problemi, il contenuto più autentico. Ma più lo sguardo
critico del giovane filòsofo andrà maturando fino ad abbracciare nel suo
complesso il controverso panorama culturale del tempo, più quel programma
iniziale perderà la sua connotazione prope deutica per trasformarsi in compito
destinale, in una ' fighi for clarity* che assumeva i termini di un radicale
esame di coscienza nei confronti della filosofia. Scrive Filiasi Carcano:
Confesserò che varie volte ho avuto ed ho l'impressione di non aver abba
stanza compreso, e per questo alla mia spontanea insoddisfazione (al tempo
stesso scientifica e religiosa) si mescola un senso di incomprensione. Questo
stato d'animo spiega bene il mio atteggiamento che non è propriamente di
critica (...), ma ha piut tosto il carattere di un prescindere, di una
sospensione del giudizio, di una messa in parentesi, in attesa di una più
matura riflessione 56. Al fondo dei dualismi e delle vuote polemiche che, nella
comunità filoso- fica italiana degli anni Trenta, sembravano prevaricare sulle
più urgenti esigenze scientifiche e di sviluppo, Filiasi Carcano coglie i
sintomi dì un conflitto epocale, di una inquietudine psicologica e di
un'incertezza morale che andranno a comporsi in una vera e propria
fenomenologia della crisi. ' Crisi della civiltà ', anzitutto, come recita il
titolo della sua opera prima 57, dove al desiderio di fuggire l'alternativa del
dogmatismo fa da 55 Per questi punti mi sono riferito a M. L. Gavazzo, Paolo
Filiasi Carcano,. «Filosofia oggi», X, 1, 1987, pp. 57-74. ; * P; Filiasi
Carcano, // ruolo della metodologia, ;cit., p. 220. 57 Cfr. P. Filiasi Carcano,
Crisi della civiltà e orientamenti della filosofia 60 .CAPITOLO
TERZO contraltare l'eterno dissidio tra ragione e fede. Crisi esistenziale, di
con seguenza, dovuta al prevalere delle tendenze scettiche e antimetafisiche
su quelle spirituali e religiose. Crisi della filosofia, infine, fondata sulla
raggiunta consapevolezza del suo carattere problematico, sull'incapacità di
realizzare interamente la pienezza del suo concetto. Come moto di reazione
immediata occorreva allora, oltreché circoscrivere le proprie pre tese
conoscitive ponendosi su un piano risolutamente pragmatico, assur gere ad una
più compiuta presa di coscienza storica e conciliare la filoso fia con una
mentalità scientificamente educata. Solo, cioè, il confronto con una seria
problematica scientifica (la quale Filiasi Carcano vedeva realizzata
nell'ottica positivista dello sperimentalismo aliottiano) avreb be potuto
segnare per la filosofia l'avvento di una più matura riflessione intorno alle
proprie dinamiche interne e ai propri genuini compiti critici. E a questo scopo
parve a Filiasi Carcano, fin dai suoi studi d'esor dio, singolarmente
soccorrevole proprio l'opera di Edmund Husserl. Scri ve Angiolo Maros
Dell'Oro: A un certo punto si intromise Husserl. Filiasi Carcano pensò, o
sperò, che là fenomenologia sarebbe stata la ' scienza delle scienze', capace
di indicargli la via zu den Sachen selbsf, per dirla con le parole del suo
fondatore. Da allora è stata invece per lui l'enzima patologico di una
problematica acuta 58. Sùbito rifiutata, in realtà, come idealismo metafisico,
quale eira frettolo samente spacciata in certe grossolane versioni del tempo
(non esclusa, lo ^bbiamo visto, .quella del suo, maestro), la fenomenologia
viene aggredita alla radice dal giovane studioso, con una cura e un rigore
filologico — i quali pure riscontreremo in altri suoi coetanei — giustificabili
solo con l'urgenza di una richiesta culturale cui l'ambiente nostrano non
poteva evidentemente soddisfare. Non è un caso che Filiasi Carcano insista, fin
dal suo primo articolo dedicato ad Husserl, sul valore della fenomeno logia,
ad un tempo, emblematico, nel quadro d'insieme della filosofia contemporanea, e
liberatorio rispetto al giogo dei tradizionali dogmi idealistici che i giovani,
soprattutto in Italia, si sentivano gravare sulle spalle ". contemporanea,
pref. di A. Aliotta, Roma, Libreria Editrice Francesco Perrella, 1939, pp.
VIII-202. • s* Cff. Il pensiero scientifico ìtt Italia '(1930-1960), Creiriòria,
Màngiarotti Editore, 1963, p. 108. 39 Cfr. P. Filiasi Cartario/ Da Carierò'ad
H«w&f/, :« Ricerche filoSofìche », VI, 1; 1936; pp: 18*34. LA
PRIMA ONDATA DI STUDI HUSSERLIANI NEGLI ANNI TRENTA 61 In piena coscienza, —
scriverà l'autore nel 1939 — se abbiamo voluto scio gliere l'esperienza da una
necessaria interpretazione idealistica, non è stato per forzarla nuovamente nei
quadri di una metafisica esistenziale, ma per ridare ad essa, secondo lo
schietto spirito della fenomenologia, tutta la sua libertà 60. Tale
schiettezza, corroborata da un carattere decisamente antisistema tico e dal
recupero di una vitale esigenza descrittiva, avrebbe consentito lo schiudersi
di un nuovo, vastissimo territorio di indagine, sospeso tra constatazione
positivistica e determinazione metafisica, ma capace, al tem po stesso, di
metter capo ad un positivismo di grado superiore e ad un più autentico pensare
metafisico. Si trattava, in sostanza, non tanto di dedurre i caratteri di una
nuova positività oppure di rifondare una me- tafisica, quanto piuttosto di
guadagnare un più saldo punto d'osserva zione dal quale far spaziare sul
multiverso esperienziale il proprio sguar do fenomenologicamente addestrato. È
in questo punto che la fenome nologia, riabilitando l'intuizione in quanto
fonte originaria di autorità (Rechtsquelle), operando in base al principio
dell'assenza di presupposti e offrendo i quadri noetico-noematici per la
sistemazione effettiva del suo programma di ricerca, veniva ad innestarsi sul
tronco dello sperimenta lismo di stampo aliottiano, che Filiasi Carcano aveva
assimilato a Napoli negli anni del suo apprendistato filosofia). Il ritorno '
alle cose stesse * predetto dalla fenomenologia non solo manteneva intatta la
coscienza cri tica rimanendo al di qua di ogni soglia metafisica, ma anche e
più che mai serviva a ribadire il carattere scientifico e descrittivo della
filosofia. In un passo del 1941 si possono scorrere, a modo di riscontro, i
punti di un vero e proprio manifesto sperimentalista: Descrivere la nostra
esperienza nel mondo con l'aiuto della critica più raffi nata; cercare di
raccordarne i vari aspetti in sintesi sempre più vaste e più com prensive,
esprimenti, per cosi dire, gradi diversi della nostra conoscenza del mon do;
non perdere mai il senso profondo della problematicità continuamente svol-
gentesi dal corso stesso della nostra riflessione; infine stare in guardia
contro tutte le astrazioni che rischiano di alterare e disperdere il ritmo
spontaneo della vita: sono questi i principali motivi dello sperimentalismo e
(...) al tempo stesso, i modi mediante i quali esso va incontro alle più
attuali esigenze logiche e metodologiche del pensiero contemporaneo61. D'altro
canto, si diceva, non è neppure precluso a questo program- *° P. Filiasi
Carcano, Crisi della civiltà, cit., p. 138. 61 P. Filiasi Carcano,
Antimetafisica e sperimentalismo, Roma, Perrella, 1941, p. 120. 62
......... CAPITOLO TERZO ma un esito trascendente, e a fenderlo possibile sarà
ancora una volta, in virtù della sua cruciale natura teoretica, proprio
l'atteggiamento feno menologico. Scrive Filiasi Carcano: In realtà, il dilemma
tra una scienza che escluda l'intuizione e una intui zione che escluda la
scienza, non c'è che su di un piano realistico ma non su di un piano
fenomenologicamente ridotto: su questo piano scienza e intuizione tornano ad
accordarsi, accogliendo una pluralità di esperienze, tutte in un certo senso le
gittime e primitive, ma tutte viste in un particolare atteggiamento di spirito
che sospende ogni giudizio metafisico. È questo, com'io l'intendo, il modo
particola rissimo con cui la filosofia può tornare oggi ad occuparsi di
metafisica 62. Certo, nella prospettiva husserliana, il problema del
trascendens puro e semplice, che farà da sfondo a tutto il percorso speculativo
di Filiasi Carcano, sembrava rimanere ingiudicato o, almeno, intenzionalmente
rin viato in una sorta di ' al di là ' conoscitivo, Ma in ordine alla missione
spirituale che l'uomo deve poter esplicare nel mondo storico, il metodo
fenomenologico conserva tutta la sua efficacia. Esso —nota Filiasi Carcano
nelle ultime pagine del suo Antimetafisica e spe rimentalismo — certo
difficilmente può condurre a risultati, ma compie per lo meno analisi e
descrizioni interessanti, e tanto più notevoli in quanto tende a sollevare il
velo dell'abitudine per farci ritrovare le primitive intuizioni della vita
religiosa 63. Dato questo suo carattere peculiare e l'orizzonte significativo
nel quale viene assunta fin dal principio, la fenomenologia continuerà a va lere
per Filiasi Carcano come referente teoretico di prim'ordine, accom pagnandolo,
con la tensione e la profondità tipiche delle esperienze fon damentali, in
tutti i futuri sviluppi della sua speculazione. III.3. - LASCUOLATORINESE.
ANNIDALEPASTOREENORBERTOBOBBIO. La terza grande area di interesse per il
pensiero hussèrliano negli anni Trenta in Italia, fa capo all'Università.di
Torino e si costituisce prin cipalmente intorno all'attività 4i tre studiosi:
il primo, già incontrato e che, in qualche modo, fa da ponte fra questa e la
neoscolastica mila nese è Carlo Mazzantini; il secondo è Annibale Pastore —ne
parleremo ora — che teneva nell'ateneo torinese la cattedra di filosofia
teoretica; 6- P, Filiasi Corcano,. Crisi .della civiltà, .eit,,. p.., 184. ,: ;
63 P. Filiasi Carcano, Antimetafisica e sperimentalismo, cit., p. 153.
Paolo Filiasi Carcano di Montaltino di Carapelle. Paolo Filiasi Carcano. Paolo
Carcano. Montaltino. Keywords: semantica, quarto duca di montaltino, semantica
ed esperienza, semantica e fenomenologia, filiasi carcano, montaltino,
carapelle. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Montaltino” – The Swimming-Pool
Library.
Carbonara (Potenza).
Grice: “I like Carbonara; my favourite of his tracts are one on ‘del bello,’ –
another one on ‘dissegno per una filosofia critica dell’esperienza pura:
immediatezza e reflessione’ – but mostly his ‘esperienza e prassi,’ which fits
nicely with my functionalist method in philosophical psychology: there is input
(esperienza), but there is ‘prassi,’ the behavioural output --; I would prefer
this to the tract on the ‘filossofia critica’ since I’m not sure we need
‘reflexion’ to explain, say, communication – not at least in the way Carbonara
does use ‘reflessione,’ alla Husserl. Conseguito
il diploma liceale, si trasferì a Napoli, frequentando la facoltà di filosofia.
Ottenuta la laurea sotto Aliotta, collabora per “Logos”. Insegna a Campobasso, Nocera
Inferiore, Cagliari, Catania, e Napoli.
Con “Disegno d'una filosofia critica dell'esperienza pura”, rifacendosi
alla filosofia kantiana e riprendendo il discorso idealistico ne mette in
rilievo il tentativo fallito di Gentile di dare concretezza all’astratto.
Nell'attualismo, il ritorno all’atto, al fatto, si risolve infatti nell'atto
sempre uguale e sempre diverso del pensare, unica realtà e verità del pensiero
e della storia: «vera storia non è quella che si dispiega nel tempo, ma quella
che si raccoglie nell'eterno atto del pensare».. Il problema secondo
Carbonara anda esaminato riportandolo alla sua origine, cioè al problema del rapporto
tra esperienza e concetto, tra realtà e concetto così come era stato affrontato
dalla filosofia kantiana e che Gentile crede di risolvere stabilendo un rapporto
dialettico tra il concetto e il suo negativo all'interno del concetto stesso.
La soluzione invece era in nuce secondo Carbonara nella sintesi a priori
kantiana dove convivono forma (segnante) e contenuto (segnato) per cui la
coscienza è per un verso forma, contenitore (segnante) di un contenuto (segnato)
storico e per un altro *coincide* col suo contenuto (segnato) in quanto il
contenuto (segnato) non avrebbe realtà al di fuori della forma della coscienza
segnante. La successiva questione si pone considerando oltre il rapporto
del pensiero – il segnante -- con la materia quella collegata all'origine del
pensiero stesso. Ancora una volta Kant intravede la soluzione nella teoria
dell' “io penso” che però va ora intesa non come la struttura logico-metafisica
della realtà storica, ma come la sua struttura psicologica ma *trascendentale*
o "esistenziale", secondo una concezione della "filosofia
dell'esperienza pura" nel senso che l'esperienza coincide col divenire
della vita dello spirito e deve restare indifferente al problema, ch'è
propriamente di natura ontologica, circa la sua dipendenza o indipendenza da
una realtà diversa dal mio spirito. Il rapporto tra pensiero e materia porta
Carbonara ad indagare quello tra filosofia e scienza con “Scienza e filosofia”
in Galilei, in cui sostiene che mentre da un punto di vista filosofico non si
può andare oltre l'ambito dell'autocoscienza (il mio spirito – Il “I am hearing
a noise” di Grice) del cogito cartesiano, al contrario la scienza si basa sulla
necessità di fondarsi sul mondo esterno (nel spirito dell’altro – intersoggetivita).
Forse la soluzione di questa antinomia, sostiene Carbonara, va ricercata nell'insoddisfazione
dello stesso idealismo verso se stesso non potendo rinunciare a se stesso ma neppure
al suo opposto -- nec tecum nec sine te -- solus ipse. Si interessa anche
della filosofia rinascimentale a Firenze. Nota come in quel periodo si fosse
realizzata una fusione tra il cristianesimo e il neo-platonismo così come ad
esempio in Ficino prete cattolico che visse la sua fede come teologia razionale
dando una base filosofica, trascurando la stessa rivelazione, alla sua
spiritualità religiosa: In Ficino, il platonismo si congiunge al
cristianesimo non soltanto sul fondamento di una religiosità profonda da cui il
primo appare permeato, ma anche per una tradizione storica ininterrotta, per
cui l'antichissima saggezza, ripensata da Platone e dai neoplatonici, si
ritrova trasfigurata ma tuttavia persistente nei Padri della Chiesa e nei
dottori della Scolastica. Come apprendiamo dall'Epistolario di Ficino, la
sapienza e intesa come un dono divino e come mezzo per cui l'uomo può elevarsi
fino a Dio. Tale principio fu poi appreso da Pitagora, Eraclito, Platone,
Aristotele, i neoplatonici. Riemerse nella speculazione filosofica ispirata
dalla Rivelazione cristiana e si ritrovò quindi in Agostino. Lo stesso Cicerone
figura nella catena dei platonici romani. Riallacciandosi a quella
tradizione e meditando sui testi platonici, Ficino concepí il disegno, portato
a termine di ricostruire su fondamento platonico la teologia il platonismo vi è
considerato come il nucleo essenziale di una teologia razionale i cui princípi
coincidono con quelli della rivelazione. Tale coincidenza è il principale
argomento con cui si riesce a dimostrare l'eccellenza del cristianesimo
rispetto alle altre religioni positive. Del resto Ficino è disposto ad
ammettere che qualsiasi culto, purché esercitato con animo puro, reca onore e
gradimento a Dio. Altre opere: “L'individuo, i dividui, e la storia; Scienza e
filosofia in Galilei; Esperienza; Umanesimo e Rinascimento (Catania) Del Bello;
Introduzione alla Filosofia (Napoli; Materialismo storico e idealismo critico; Sviluppo
e problemi dell'estetica crociana; I presocratici; Esperienza ed umanesimo
(Napoli) La filosofia di Plotino; “Persona e libertà”; Ricerche di un'estetica
del contenuto”; Esperienza e prassi; Discorso empirico delle arti, Il
platonismo nel Rinascimento. Cleto Carbonara. Keywords: esperienza, dull title:
“l’empirismo come filosofia dell’esperienza”! – i periti conversazionale –
esperienza dell’altro, persona e persone – solipsism, anti-solipsismo – esperienza,
sperimento, esperire, perito, perizia, per, fare, fahren, --. altri, altro,
l’altro, l’altri. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carbonara” – The
Swimming-Pool Library.
Carbone (Mantova). Grice:
“I love Carbone; my favourite of his tracts are on the ‘unexpressible’ – a
contradictio in terminis – and on ‘the flesh and the voice’ – but the favourite-favourite are his tract on ‘il bello’ (‘eidos ed eidolon’)
and even more, his “La dialettica”. Si
laurea a Bologna con “Marxismo: i soggetti nella storia". Studia a Padova.
Insegna a Milano. Opere: Condannàti alla libertà, adattamento teatrale del
romanzo di Sartre L'età della ragione, che è stato messo in scena in quello stesso
anno. Fonda a Pisa con il sostegno del Leverhulme Trust un
Programma di ricerca sulla filosofia, concentrandolo
su alcune delle sue figure più importanti e sulle parole-chiave: l'essere, la
vita, il concetto». Dirige la collana f«L'occhio e lo spirito. Estetica,
fenomenologia, per Mimesis Edizioni. Si
concentra sulla fenomenologia di Merleau-Ponty, indagandone il duplice ma
unitario significato estetico di riflessione filosofica sull'esperienza
percettiva e sull'esperienza artistica attraverso l'esame del parallelo
interesse manifestato da Merleau-Ponty per Cézanne e Proust. Tale indirizzo di
studi si è allargato dapprima a una più vasta considerazione della
fenomenologia e poi a quella del pensiero post-strutturalistico sviluppatosi in
Francia, pur mantenendosi imperniato sul parallelo interesse per la riflessione
filosofica sulla pittura e sulla letteratura moderne. Questo ampliamento ha
inoltre condotto gli studi ad affrontare tematiche di carattere gnoseologico e
ontologico, spingendolo anche a problematizzare il tradizionale rapporto tra la
filosofia e la "non filosofia". Tli orientamenti hanno trovato sbocco
in una riflessione sul peculiare statuto delle immagini nella nostra epoca,
sulle possibili implicazioni etico-politiche del rapporto con esse e sulla
dimensione ontologica dell'"essere in comune" (morire insieme,
dividualita, dividuo). che in tali implicazioni troverebbe espressione. Cura Merleau-Ponty
(Il visibile e l'invisibile; Linguaggio Storia Natura, La Natura, È possibile
oggi la filosofia? Saggi eretici sulla filosofia della storia) e Cassirer -- Eidos
ed eidolon, il bello. Influenzato prevalentemente
da Merleau-Ponty, di cui ha sviluppato in maniera teoreticamente personale
alcune nozioni. Tra queste, spicca il concetto di "idea sensibile", intesa
quale essenza che s'inaugura nel nostro incontro col sensibile e da questo
rimane inseparabile, sedimentandosi in una temporalità retroflessa --"tempo
mitico". Alla prima di queste nozioni è dedicato il dittico “Ai confini
dell'esprimibile” e “Una deformazione senza precedente: la idea sensibile Porta
a sintesi le implicazioni filosofiche delle nozioni sopra citate nel concetto
di "de-formazione senza precedenti", con cui egli intende
caratterizzare il peculiare statuto che a suo avviso la de-formazione assume
nell'arte, al fine di staccarsi dal principio imitativo della rappresentazione
e dunque dalla concezione del modello inteso quale “forma” preliminarmente
data. Alle nozioni sopra menzionate si è andata successivamente collegando
quella di "precessione reciproca" tra l’immaginario e il reale che
Carbone ha proposto di dar conto del prodursi della peculiare temporalità
retroflessa detta "tempo mitico". Cerca di sviluppare le implicazioni
etico-politiche della concezione della memoria legata all'idea di
"deformazione senza precedenti" nella sua riflessione sue venti di
cui ha sottolineato l'irriducibile carattere visivo indagandolo pertanto
mediante un approccio anzitutto estetico. Cerca le radici ontologiche di tali
implicazioni etico-politiche della filosofia, proponendo le nozioni di
"a-individuale" e di "dividuo" per sottolineare
l'intrinseco carattere re-lazionale (e dunque il divenire e la divisibilità) di
ogni identità. Altre opere: “Ai confini
dell'esprimibile. Merleau-Ponty a partire da Cézanne e da Proust, Milano,
Guerini e Associati); Il sensibile e l'eccedente. Mondo estetico, arte,
pensiero, Milano, Guerini e Associati); Di alcuni motivi in Marcel Proust,
Milano, Libreria Cortina); La carne e la voce. In dialogo tra estetica ed
etica, Milano, Mimesis); Essere morti insieme (Torino, Bollati Boringhieri). Sullo
schermo dell'estetica. La pittura, il cinema e la filosofia da fare, Milano,
Mimesis). Una deformazione senza precedenti. la idea sensibile, Macerata,
Quodlibet). Mauro Carbone. Keywords: “individuo e dividuo” eidos, il bello,
essere en comune, mit-sein, #DialetticaDegl’EntrambiDividui -- -- --. Merleau-Ponty
‘linguaggio’, individuus, dividuus, dividuo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Carbone” – The Swimming-Pool Library.
Carboni (Livorno).
Filosofo. Grice: “I love Carboni – my favourite of his tracts is ‘between the
image and the ‘parable’” – a semiotics of communication with sections on ‘the
tacit response,’ through the looking-glass’, ‘towards the hypertext,’ and
quoting extensively from some ‘conversational-implicature’ passages in
Aristotle’s metaphysics, ‘To ask ‘why is man man?’ is to ask nothing!” “For
some expressions, analogy suffices!” Insegna a Roma, Bari, Viterbo. Altre opere: L’angelo del fare. Melotti e la
ceramica (Skira) e Il colore nell’arte (Jaca).
Cura Dorfles, Brandi, Deleuze, Guattari, Adorno. Tra le recensioni dei
suoi saggi si segnalano: Giacomo Marramao, Gianni Vattimo (“L’Espresso”), Gillo
Dorfles (“Il Corriere della Sera”), Victor Stoichita (“il manifesto”). Al
Festival delle Letterature di Mantova hanno presentato i suoi saggi Sini e Didi-Huberman. Scrive su “Nòema” e “Images Re-vues” e sulla “Rivista di
Estetica”. “L’Impossibile Critico. Paradosso della
critica d’arte, Kappa); “Cesare Brandi. Teoria e esperienza dell’arte, Editori
Riuniti); “Il Sublime è Ora. Saggio sulle estetiche contemporanee, Castelvecchi);
“Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento,
Castelvecchi); “L’ornamentale. Tra arte e decorazione, Jaca); “L’occhio e la
pagina. Tra immagine e parola, Jaca); “Lo stato dell’arte. L’esperienza
estetica nell’era della tecnica, Laterza); “La mosca di Dreyer. L’opera della
contingenza nelle arti, Jaca); “Di più di tutto. Figure dell’eccesso, Castelvecchi);
“Analfabeatles. Filosofia di una passione elementare, Castelvecchi); “Il genio
è senza opera. Filosofie antiche e arti contemporanee” Jaca); “Malevič.
L'ultima icona. Arte, filosofia, teologia, Jaca).
Drawing after the Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art
Education and the Advent of the Liberal State, Martin Myrone Drawing after the
Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent
of the Liberal State Martin Myrone Abstract From 1808 the British Museum in
London began regularly to open its newly established Townley Gallery so that
art students could draw from the ancient sculptures housed there. This article
documents and comments on this development in art education, based on an
analysis of the 165 individuals recorded in the surviving register of
attendance at the Museum, covering the period 1809–17. The register is
presented as a photographic record, with a transcription and biographical
directory. The accompanying essay situates the opening of the Museum’s
sculpture rooms to students within a farreaching set of historical shifts. It
argues that this new museum access contributed to the early nineteenth-century
emergence of a liberal state. But if the rhetoric surrounding this development
emphasized freedom and general public benefit in the spirit of liberalization,
the evidence suggests that this new level of access actually served to further
entrench the “middleclassification” of art education at this historical
juncture. Authors Martin Myrone is an art historian and curator based in
London, and is currently convenor of the British Art Network based at the Paul
Mellon Centre for Studies in British Art. Acknowledgements The register of
students admitted to the Townley Gallery was originally consulted during my
term as Paul Mellon Mid-Career Fellow in 2014–15. Thank you to Mark Hallett and
Sarah Victoria Turner of the Mellon Centre for their continuing support and
guidance, to Baillie Card and Rose Bell for their careful editorial work, Tom
Scutt for crafting the digital presentation of my research, the two anonymous
readers for their valuable critical input, and to Antony Griffiths, formerly of
the British Museum, and Hugo Chapman, Angela Roche, and Sheila O’Connell of the
British Museum, for providing access to the register and for their advice. I am
especially indebted to Mark Pomeroy, archivist, and his colleagues at the Royal
Academy of Arts for the access provided to materials there and for advice and
suggestions. I would also like to thank Viccy Coltman, Brad Feltham, Martin
Hopkinson, Sarah Monks, Sarah Moulden, Michael Phillips, Jacob Simon, Greg
Sullivan, and Alison Wright. Cite as Martin Myrone, "Drawing after the
Antique at the British Museum, 1809–1817: “Free” Art Education and the Advent
of the Liberal State", British Art Studies, Issue 5,
https://dx.doi.org/10.17658/issn.2058-5462/issue-05/mmyrone From the summer of
1808 the British Museum in London began regularly to open its newly established
galleries of Graeco-Roman sculpture for art students. The collection, made up
almost entirely of pieces previously owned by Charles Townley, had been
purchased for the nation in 1805 and installed in a new extension to the
Museum’s first home, Montagu House, which was built earlier in 1808. After some
protracted discussion with the Royal Academy, detailed below, the collection
was made available for its students in time for the royal opening of the
Townley Gallery on 3 June 1808. From January 1809, a written record was kept of
students admitted to draw from the antique. This volume survives in the library
of the Department of Prints and Drawings at the British Museum and identifies
one hundred and sixtyfive separate individuals admitted through to 1817. 1 The
register forms the focus of this essay and is presented here as a facsimile and
transcription, with an accompanying directory of student biographies (see
supplementary materials below). This may be taken as a straightforward
contribution to the literature on early nineteenth-century art education, and the
author hopes it may be useful as such. However, it also situates the opening of
the Museum’s sculpture rooms to students within a rather more far-reaching set
of historical shifts. Namely, it argues that this new form of museum access was
part of the early nineteenth-century emergence of a liberal state that
“actively governs through freedom (free ‘individuals’, markets, societies, and
so on, which are only ‘free’ because the state makes them so)”. 2 Access to the
British Museum was “free” in that there were no charges or fees. Meanwhile, the
arrangement offered a degree of freedom to the students themselves; they were
expected to be largely self-selecting and self-regulating. When the arrangement
was exposed to public scrutiny, as a result of questions asked in parliament in
1821, the freedom of access and the service this did to the public good were
emphasized. But, once closely scrutinized, the evidence suggests that this
manifestation of the freedoms encouraged by the liberal state had a social disciplinary
role (even if disciplinary function can hardly be recognized as such), in
serving to further entrench the “middle-classification” of art at this
historical juncture. 3 The conjunction of art education and a grandiose notion
such as the liberal state may be unexpected, and rests on three key assertions.
The first is that art worlds are structured and in their structure have a
homological relationship with the larger social environment. 4 The initial part
of this statement (that art worlds are structured) may not be especially hard
to swallow, given the relatively formalized and hierarchical nature of the
London art world during the early nineteenth century, when cultural authority
was vested in a small number of institutions, and the practices associated with
academic tradition in principle still held sway. However, that the structure of
the art world, in its hierarchical dimension, may also be homologically related
to the larger field of power, so that social relationships are reproduced
within this relatively autonomous sphere, is more clearly contentious, and runs
contrary to commonplace beliefs and expectations about talent and luck in
determining personal fate in the modern age—artists’ fortunes most especially.
In fact, in the period under review here, the artist became an exemplary figure
in the new narratives of social mobility: the art world came to serve as a
model of how talent or sheer good fortune could override social origins and
destinies. 5 The second assertion is that the Royal Academy and British Museum
were developing new forms of state institution, underpinned by the conjoined
principles of freedom of access and public benefit. Such has been argued
importantly by Holger Hoock, and while I depart from his arguments in some key
regards, his insights into the status of these institutions and the role of
forms of public–private partnership in their formation are crucial. 6 The third
assertion (and this marks a departure from Hoock), is that the state is not a
stable, centralized entity, or site of power either “up above” or “below”
historical actors. Instead, it is taken to be the sum of actions and
dispositions ostensibly volunteered by these historical agents in all their
multitude and variety. The crucial point of reference here is the sustained
body of work on the liberal state by the historian Patrick Joyce, deploying the
work of Bruno Latour and Michel Foucault, among others, to yield a more
materialistic and decentralized understanding of the emergence and role of
state bodies. 7 The state, in this view, is composed of technologies,
disciplinary structures, habits of mind, and ways of doing things. The
mechanics of art education, insofar as this involves the movement through or
exclusion of individuals from identified places, the arrangement of their
bodies in relation to one another and to their model, the management of their
behaviour within those places, the very motion of their bodies, hands, and eyes
under the surveillance of their peers, teachers or other authorities, may be
considered as a form of biopolitics; the student who entered his or her name
into the British Museum’s register of admission was producing his or her
governmentality. 8 The argument here is emphatically historical and states that
this arrangement, while it may have precedents and may have been seminal,
belongs to an historical moment—the emergence of the liberal state. My case,
which can be sketched out only in outline in this context, is that the
emergence of the familiar institutional arrangements of the modern art world
between the 1770s and the 1830s (in the form of actual institutions and
regulatory structures or permissions, including annual exhibitions, centralized
art schools supported by the state directly and indirectly, emphasis on
quantifiable measures of access and engagement as the test of public value, and
so forth) represents in an exemplary way the illusory freedoms promoted by
liberalism, and renewed by present-day “neo- liberalism”, as addressed by
commentators from the prophetic Karl Polanyi through to the later work of
Foucault and Bourdieu on the state, and Luc Boltanski and Eve Chiapello, among
others. 9 The early nineteenth-century art world can be proposed as a
privileged focus of attention because it was still of a scale which can allow
for the kinds of data-based analysis which must underpin any sort of
sociological exploration, and because its individual membership can be
documented in fine detail in a manner which is simply not possible at an
earlier historical date. Paradoxically, despite its announced commitment to
non-intervention and personal freedom, the emerging liberal state generated
huge amounts of documentation about society and its individual members—tax
records, parochial and civil records, the national census from 1801—which digitilization
has made more readily available than ever before, allowing this generation of
artists to be documented as never previously. 10 The production of artistic
identities through these records is not unrelated to changes in artistic
identity itself over the same timeframe. One way of realizing this might be to
consider the period outlined above—c. 1770–1830s—not as a period from the
foundation of the Royal Academy (1769) to its removal to Trafalgar Square, or
even as the era of Romanticism, as much literary and cultural history-writing
would dictate, but as the era from Adam Smith’s Wealth of Nations (1776) to the
Reform Act (1832) and the Speenhamland system, a last experiment in patrician
social care before the Poor Law Amendment Act (1834), taking in Thomas Malthus
and David Ricardo. The challenge is thinking of these two frameworks not in
sequential or spatially differentiated ways, but as simultaneous and identical.
Within this emerging liberal state the figure of the artist is attributed with
a special degree and form of freedom, what has conventionally been alluded to,
in generally sociologically imprecise ways, as a feature of “Romanticism”,
slumping into “bohemianism” and a generic idea of art student lifestyle. If
this was a moment of unprecedented state investment in the arts (from the Royal
Academy through to the Schools of Design) and government scrutiny (notably with
the Select Committees), it simultaneously saw the emergence of artistic
identities expressing the values of personal freedom, freedom from regulation,
and even active opposition to the state. I propose that art education, as it
took shape in the emerging liberal state, might be explored as a “liberogenic”
phenomenon: among those “devices intended to produce freedom which potentially
risk producing exactly the opposite.” 11 As such, it may have renewed
pertinence for our own time, although this does not entail seeing a “causal”
relationship between the past and present, or a linear genetic relationship
between then and now. In fact, the purpose of this commentary, and the larger
project it arises from, 12 is rather to trouble our relationship with that
past. The intention is not, however, to point unequivocally to the era under
consideration as here entailing “the making of a modern art world”, with the
rise of art education and museums access representing a stage towards
democratization, as illuminated in stellar fashion by the great Romantic
artists (J. M. W. Turner—famously the son of a lowly London
barber—pre-eminently). I would want instead to take seriously Jacques
Rancière’s call for “a past that puts a radical requirement at the centre of
the present”, eschewing causality and “nostalgia” in favour of “challenging the
relationship of the present to that past”. 13 If giving attention to the
“freedom” of art education at the advent of the liberal state provides any
insight at all, it should do so by troubling rather than affirming our
narratives of the genesis of a modern art world. Access to the Townley Gallery
The arrival at the Museum of the Townley marbles, together with the development
of the prints and drawings collection and its installation in new, secure rooms
in the same wing, fundamentally changed the character of the institution. As
Neil Chambers has noted, having been primarily a repository of (often
celebrated) curiosities of many different forms, quite suddenly “The Museum was
now a centre for art and the study of sculpture.” 14 The shift was acknowledged
internally at the Museum by the creation in 1807 of a distinct Department of
Antiquities, which also had responsibility for the collection of prints and
drawings. But while the significance of the opening of the Townley Gallery in
the history of the British Museum is clear, the opening of the collection to
students has barely been noticed in the art-historical literature. The register
has been overlooked almost entirely, and the relevance of this development in
student access may not even be immediately obvious. 15 Figure 1. William
Chambers, The Sculpture Collection of Charles Townley in the dining room of his
house in Park Street, Westminster, 1794, watercolour, 39 x 54 cm. Collection of
the British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum
Figure 2. Attributed to Joseph Nollekens, The Discobolus, 1791–1805, drawing,
48 x 35 cm. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of
Trustees of the British Museum Townley’s collection had already famously been
on display for many years at his private house in Park Street, London. William
Chambers’ (or Chalmers’) drawing of the Park Street display from 1794 includes
a well-dressed young woman drawing under the supervision or advice of a man,
promoting the idea that the collection was available for sufficiently genteel
students of the art more generally (fig. 1). In his recollections of the London
art world, J. T. Smith described “those rooms of Mr Townley’s house, in which
that gentleman’s liberality employed me when a boy, with many other students in
the Royal Academy, to make drawings for his portfolios”. 16 Smith’s former
employer, the sculptor Joseph Nollekens, has been identified among the more
established artists who were also engaged by Townley to draw from marbles in
the collection (fig. 2). As Viccy Coltman has noted, “The townhouse at 7 Park
Street, Westminster became an unofficial counterpoint to the English arts
establishment that was the Royal Academy: as an academy of ancient sculpture,
much as Sir John Soane’s London housemuseum in Lincoln’s Inn Fields would
become an academy of architecture in the early 19th century.” 17 Evidently, a
number of the students and artists admitted to draw from the Townley marbles
once they were at the British Museum knew them formerly at first hand from
visiting 7 Park Street; for instance, William Skelton, admitted to draw at the
Museum in 1809, had apparently already studied and engraved three busts from
the collection for inclusion in the design of Townley’s visiting card (fig. 3).
Townley had hoped for a separate gallery to be erected to house the collection,
but his executors, his brother Edward Townley Standish and uncle John Townley
were unable to agree a plan. 18 The sale of the collection to the Museum was a
compromise. With the erection of a new gallery space for the collection
underway, the Museum considered how special access might be given to artists.
That the question was posed at all should be an indication of how far the realm
of cultural consumption and production was being folded in to the emerging
liberal state at this juncture. At a meeting of the Trustees on 28 February
1807, a committee was set up to consider how the prints and drawings
collections might be used by artists, and to draw up “Regulations . . . for the
Admission of Strangers to view the Gallery of Antiquities either separately
from, or together with the rest of the Museum: And also for the Admission of
Artists”. 19 Figure 3. William Skelton, Charles Townley's visiting card,
1778–1848, etching, 65 x 96 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum With the Gallery still under
construction, the Sub-Committee was not obliged to move quickly, and it proved
to be a protracted and unexpectedly fractious affair. 20 It was not until the
Museum’s general meeting of 13 February 1808, that the principal librarian,
Joseph Planta, reported “his opinion of the best time & mode of admission
of Strangers as well as artists, to the Gallery of Antiquities”, with the
request that Benjamin West, President of the Royal Academy, be asked to attend a
further meeting. 21 After delays, he did so on 10 March, after which the
Council drew up a set of regulations. 22 These went back to the Academy with
additions and changes, which were accepted by the Council who wrote to the
British Museum on the 10 May to that effect, noting that a General Meeting of
the Academy was to take place, “to prepare the final arrangement for his
Majesty’s approbation”. 23 Accordingly, at the British Museum, the
Sub-Committee’s reports and proposals were approved by the Standing Committee,
with “Resolutions founded on the above mentioned Reports” read at the General
Meeting of 14 May. 24 The resolutions, numbered so as to be inserted in the
existing regulations regarding admissions, were confirmed in the meeting of 21
May, over three months after what should have been a straightforward matter was
raised (see Appendix, below). 25 Clause number eight, concerning the payment of
Academicians charged with the supervision of students, evidently caused some
consternation within the Academy, as recorded in the diary of Joseph Farington.
26 The relative authority of the Council and General Assembly had been a
contentious matter in previous years, and the lengthy dispute over arrangements
with the Museum reflected lingering tensions. On 12 July 1808 the proposals
were read, and “After a long conversation it was Resolved to adjourn.” 27 The
subject was taken up on re-convening on 21 July, but without resolution. 28 At
yet another meeting, on 26 July 1808, the point about the Academy’s provision
of superintendents to monitor the students while at the British Museum was
referred back to Council. 29 We have to turn to Farington’s diary for a fuller
account. He noted that the Academy’s General Assembly had met on 12 July “for
the purpose of receiving a Law made by the Council ‘That permission having been
granted by the Trustees of the British Museum for Students to study from the
Antiques &c at the Museum, certain days are fixed upon for that purpose,
& that an Academician shall attend each day at the Museum & to be paid
2 guineas for each day’s attendance’ . . . Much discussion took place.” 30 At a
further meeting: “The Correspondence of the Council with the Sub Committee of
the British Museum was read from the beginning” and “much discussion” was had
about the supervision of the students, Farington making the point that: as the
studies of the British Museum shd. be considered those of completion and not to
learn the Elements of art the Academy shd. not recommend any student whose
abilities & conduct wd. not warrant it, that it should be considered the
last stage of study, when those admitted wd. not require constant inspection;
therefore daily attendance of a Member of the Academy wd. not be necessary. 31
The point of contest may have concerned the right of the Council to organize
things independent of the General Assembly of the Academicians, and a more
general question about economy (“Northcote proposed that the Academician who in
rotation shall attend at the British Museum, shd. have 3 guineas a day. West
thought one guinea sufficient”). 32 But Farington’s point is more revealing in
indicating the expectation that the selected students of the Academy were to be
largely self-regulating, and self-disciplining; they were to be granted freedom
because they had already internalized the discipline required by these
institutions. Figure 4. Front cover, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum The matter finally settled,
students were admitted to the Townley Gallery from at least the beginning of
1809: the first entries in the register book are dated 14 January 1809 (figs. 4
and 5 to 11). On that date four students were enrolled, although only one of
them was at the Royal Academy. That was Henry Monro, the son of Dr Thomas
Monro, Physician at Bedlam and an amateur and collector who ran the influential
“academy” at his home in Adelphi Terrace. The other students included two of
the daughters of Thomas Paytherus, a successful London apothecary, and a Ralph
Irvine of Great Howland Street, who seems quite certainly to have been Hugh
Irvine, the Scottish landscape painter and a member of the landowning Irvine
family of Drum, who gave that address in the exhibition catalogue of the
British Institution’s show in 1809. Another five students registered in
February and July. This included another recently registered Royal Academy
student, Henry Sass, whose name was entered into the Academy’s books in 1805,
recommended for study at the British Museum by the architect and RA John Soane,
and the artists William Skelton, Adam Buck, Samuel Drummond, and Maria
Singleton. The mix of amateur and professional artists, young and old, and
indeed the mix of male and female students (discussed below), continued
throughout the register. View this illustration online Figure 5. Page 1,
Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection
of the British Museum. Digital image courtesy of British Museum View this
illustration online Figure 6. Page 2, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 7. Page 3, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiquities,
1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum View this illustration online Figure 8. Page 4, Register
of Students Admitted to the Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum View
this illustration online Figure 9. Page 5, Register of Students Admitted to the
Gallery of Antiquities, 1809–17. Collection of the British Museum. Digital
image courtesy of Trustees of the British Museum View this illustration online
Figure 10. Page 6, Register of Students Admitted to the Gallery of Antiques,
1809–17. Collection of the British Museum. Digital image courtesy of Trustees
of the British Museum View this illustration online Figure 11. Page 7, Register
of Students Admitted to the Gallery of Antiques, 1809–17. Collection of the
British Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Eight
of the twelve students registered on 11 November were current Academy students;
this proportion of Academy students to others continues throughout the record.
But on the same day Planta noted to the standing committee that the Royal
Academicians not having availed themselves of the Regulations in favour of
their Pupils, & many applications having been made to him for leave to draw
in the Gallery of Antiquities, he therefore submitted to the consideration of
the Trustees, whether persons duly recommended might not be admitted in the
same manner as in the Reading Room. 33 The matter was referred on to the
general meeting. 34 On 9 December 1809 the new regulations were confirmed:
Students who apply for Admission to the Gallery are to specify their
descriptions & places of abode; and every one who applies, if not known to
any Trustee or Officer, will produce a recommendation from some person of known
& approved Character, particularly, if possible, from one of the Professors
in the Royal Academy. 35 On 10 February 1810 it was instructed “That the
Regulation respecting the mode of Admission of Students to the Gallery of
Sculpture, as made at the last General Meeting be printed & hung up in the
Hall, & at the entrance into the Gallery”. 36 The students admitted through
1810 were predominantly students at the Royal Academy, but also included the
emigré natural history painter the Chevalier de Barde and Charles Muss, already
established as an enamel and glass painter. The same pattern was apparent in
subsequent years. Twenty-five students were registered in 1811 and again in
1812, before numbers dropped to twelve in 1813, eight in 1814, picking up with
nineteen in 1815, and dropping to nine in 1816. The Museum’s original
stipulation that no more than twenty Academy students be admitted each year did
not, it appears, create any undue constraints on the flow of admissions. Far
from having a monopoly over student admissions, as the Museum’s original
regulations had anticipated, the Royal Academy had apparently been distinctly
laissez-faire, doing little to try to push students forward to make up the
numbers. The galleries the students gained access to comprised a sequence of
rooms within the new wing added to accommodate the growing collection of
sculptural antiquities, notably the Egyptian material taken from the French at
Alexandria in 1801. The Egyptian antiquities dominated the galleries in terms
of sheer size, although the visual centrepiece, whether viewed from the
Egyptian hall or through the extended enfilade of rooms II–V where the Townley
marbles were displayed, was the Discobolus (fig. 12). 37 The intimate scale of
the galleries brought benefits, as German architect Karl Friedrich Schinkel
noted on his visit of 1826: “Gallery of antiquities in very small rooms, lit
from above, very restful and satisfying”. 38 But is also imposed a practical
limit on the numbers of students who could attend. This changed when, in 1817,
the Elgin marbles were put on display at Montagu House in spacious, if
warehouse-like, temporary rooms newly annexed to the Townley Gallery (fig. 13).
The spike of interest recorded in the register, with thirty-seven students
listed under the heading “1817”, must reflect this new opportunity. The
register terminates at this point, although the volume continued to be used to
record students and artists admitted to the prints and drawings room (upstairs
from the Townley Gallery) from 1815 through to the 1840s. 39 Figure 12.
Anonymous, View through the Egyptian Room, in the Townley Gallery at the
British Museum, 1820, watercolour, 36.1 x 44.3 cm. Collection of the British
Museum. Digital image courtesy of Trustees of the British Museum Figure 13.
William Henry Prior, View in the old Elgin room at the British Museum, 1817,
watercolour, 38.8 x 48.1 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum Some form of register must have been
maintained, but appears not to have survived, and evidence of student
attendance after 1817 is largely a matter of anecdotal record. 40 These later
records also, incidentally, point to the variety of student practice in the
galleries. While the Museum’s original stipulations made the presumption that
admitted artists would be drawing (“each student shall provide himself with a
Portfolio in which his Name is written, and with Paper as well as Chalk”),
students evidently worked in different media as well. James Ward referred
explicitly to “modelling” in the Museum in his diary entries of 1817; and
George Scharf’s watercolour of the interior of the Townley Gallery from 1827
(fig. 14) shows a student sitting on boxes at work at an easel, with what
appears to be a paintbrush in his right hand and a palette in his left. 41
Nonetheless, the Townley marbles had lost much of their allure. Jack Tupper, a
rather unsuccessful artist associated with the Pre-Raphaelite Brotherhood,
recalled his growing disillusion when studying at the British Museum in the
late 1830s: “So the glory of the Townley Gallery faded: the grandeur of ‘Rome’
passed.” 42 Figure 14. George Scharf, View of the Townley Gallery, 1827,
watercolour, 30.6 x 22 cm. Collection of the British Museum. Digital image
courtesy of Trustees of the British Museum The material record of student
activity in the Townley Gallery, in the form of images which seem definitely to
derive from this special access to the Museum, is extremely scarce. 43 Whatever
was produced in the Gallery was, after all, generally only for the purposes of
study, and was unlikely to be retained or valued after the artist’s death. John
Wood, a dedicated student at the Royal Academy from 1819, noted: “I am
surprised at the comparatively few drawings I made in the Antique School at the
Royal Academy, including my probationary one, not exceeding five, with an
outline from the group of the Laocoon.—In the British Museum I made a chalk
drawing from the statue of Libēra for Mr Sass”, that is, the Townley Venus,
apparently drawn by Wood as an exercise for the well-known drawing teacher
Henry Sass. 44 Student drawings after the antique must have been numerous, but
that does not mean they were preserved. J. M. W. Turner had apparently attended
the Plaster Academy over one hundred and thirty times up to the point he became
an ARA, in 1799. 45 Yet even with a figure of his stature, whose studio
contents were so completely preserved, and whose dedication to academic study
was so notable, we have only a handful of drawings which appear certainly to
derive from his time at the schools. 46 There are, doubtless, traces of study
in the Museum to be uncovered in finished works of the period. Charles Lock
Eastlake’s youthful figure of Brutus in his ambitious early work is evidently a
direct lift from the marble of Actaeon attacked by his own hounds in the
Townley collection; he had been admitted to draw from the antique in 1810
(figs. 15 and 16). But given the dissemination of classical prototypes (in
graphic form as well as in plaster) it would be hard to insist that it was only
access to the British Museum’s antiquities which made such allusion strictly
possible. Figure 15. Charles Lock Eastlake, Brutus Exhorting the Romans to
Revenge the Death of Lucretia, 1814, oil on canvas, 116.8 x 152.4 cm.
Collection of the Wiliamson Art Gallery & Museum. Digital image courtesy of
Wiliamson Art Gallery & Museum Figure 16. Anonymous, Marble figure of
Actaeon attacked by his hounds, Roman 2nd Century, marble, 0.99 metres high.
Collection of the British Museum (1805,0703.3). Digital image courtesy of
Trustees of the British Museum The Register of Students as Social Record Of
arguably greater interest than the question of the “influence” of access to the
marbles on artistic practice is the evidence the register provides about the
social profile of the students. This takes us to the heart of the question
about the relationship between art education and the state. This was, in fact,
a question raised at the time. The British Museum was in 1821 obliged to draw
up a report on student and public attendance of the Museum, prompted by Thomas
Barrett Lennard MP, who had entered a motion in the House of Commons seeking
reassurance that this publicly funded institution was not “merely an
establishment for the gratification of private favour or individual patronage”.
47 Lennard’s questions arose from a growing body of criticism directed against
the Museum, which turned on the question of whether, as a publicly funded body,
everyone could expect free access, or only a more specialist minority. As one
critic jibed in 1822, “If the British Museum is open only to the friends of the
librarians, & their friends’ friends, it ceases to be a public
institution.” 48 The report elicited by Lennard’s question provided a detailed
breakdown of admissions. With regard to providing access to draw from the
antique, the Museum indulged the impression that it not only fulfilled but
exceeded its commitment to admitting Royal Academy students: providing the
figures for the period 1809–17 (based, surely, on the register under
consideration here), the Museum’s report elaborated: The Statute for the
admission of Students in the Gallery of Sculptures being among those required
by the Order of the House of Commons, it may not be irrelevant to add, that the
number of students who were admitted to make drawings in the Townley Gallery,
from the year 1809 to the year 1817, amounted to an average of something more
than twenty. 49 Notably, this summary gives the clear impression that the
antiques were being opened to the students of the Royal Academy; such is, quite
reasonably, presumed by Derek Cash in his recent, careful commentary on admission
procedures at the Museum. 50 The report also pointed to recent changes: In
1818, immediately subsequent to the opening of the Elgin Room, two hundred and
twenty-three students were admitted: in 1819, sixty-nine more were admitted,
and in 1820, sixty-three. It asserted that, now: Every student sent by the
keeper of the Royal Academy, upon the production of his academy ticket, is
admitted without further reference to make his drawings: and other persons are
occasionally admitted, on simply exhibiting the proofs of their qualification.
According to the present practice, each student has leave to exhibit his
finished drawing, from any article in the Gallery, for one week after its
completion. 51 Thus stated, the Museum appeared to be fulfilling its public
duty in providing free access to appropriately qualified students. The bare
figures might seem to indicate a steady rise in student interest, which could
be taken as a marker of quantitative success. In one of the earliest historical
accounts of the Museum, Edward Edwards implied that the statistical record was
evidence of how Planta had progressively extended access to the Museum: “From
the outset he administered the Reading Room itself with much liberality . . .
As respects the Department of Antiquities, the students admitted to draw were
in 1809 less than twenty; in 1818 two hundred and twenty-three were admitted.”
52 At that level of abstraction the information appears beyond dispute. What I
test in the remainder of this essay is how these statements stand up to the
more individualized account of student activity represented in the biographical
record. That record does include the most assiduous students of the Royal
Academy of the time, who certainly did not need the kind of “constant
inspection” Farington worried about, the kind of student anticipated by the
Museum’s regulations. Among these we could count Henry Monro, Samuel F. B.
Morse and Charles Robert Leslie, William Brockedon, Henry Perronet Briggs,
William Etty and Henry Sass, the last two famously dedicated as students of the
Academy. 53 However, the full biographical survey of the register points to a
more complicated situation. Of the one hundred and sixty-five individuals named
in the register, it has proved possible to establish biographical profiles for
the majority: details are most lacking for about twenty-four of the attending
students, although in most of those cases we can conjecture at least some
biographical context. 54 Slightly less than half the total number of
individuals listed were recorded as students at the Academy at a date which
makes it reasonably likely that they were actively attending the schools when
they were admitted to the British Museum (eighty in all). 55 Around twenty more
established male artists attended, and several of these were formerly students
at the Royal Academy, including John Samuel Agar, John Flaxman, and James Ward.
Whether they were pursuing their private studies or undertaking more specific
professional tasks is not always clear. There are, certainly, a few cases where
the latter appears to be the case. When William Henry Hunt was admitted it was
explicitly for the purpose of preparing drawings for a publication; both
William Skelton and John Samuel Agar were probably admitted in connection with
his ongoing work engraving from sculptures at the Museum. It seems likely that
the “Students to Mr Meyer”, that is, the engraver and print publisher Henry
Meyer, were engaged on professional business, as was Thomas Welsh, recommended
by the publisher Thomas Woodfall. More striking, though, is the determined
presence in the register of artists who did not pursue the art professionally
or full-time, including the relatively well-documented Chevalier de Barde,
Arthur Champernowne, John Disney, Hugh Irvine (assuming he is the “Ralph
Irvine” who appears in the register), Robert Batty, Edward John Burrow, Edward
Vernon Utterson, and a number of others designated as “Esq”, so clearly from
the polite classes, even if their exact identities remain unclear. There are at
least fifteen male individuals who appear to come from backgrounds sufficiently
socially elevated or affluent enough to suggest they were taking an amateur
interest rather than pursuing serious studies. 56 Enough of these men are known
to have practised art to make it quite certain that they were not, at least
generally, being admitted to consult the collection without intending to draw,
and John Disney was admitted explicitly “to make a sketch of a Mausoleum”.
Notable, in this regard, are the large number of women admitted to study, most
of whom are or appear to be from polite backgrounds, including the Paytherus
sisters, Elizabeth Appleton, Louisa Champernowne, Miss Carmichael, Elizabeth
Batty, Miss Home, Lucy Adams, Jane Gurney, Maria Singleton, and Anne Seymour
Damer. 57 Some were established artists, or became so; others were pursuing art
as a polite accomplishment, or at least we can assume so given their family
circumstances; in other cases the situation is by no means clear-cut. All were
admitted without special comment or notice despite the issues of propriety
around the drawing of even the sculptured nude figure by female artists which
crops up in contemporary commentaries. 58 This may be all the more striking
given the relative paucity of women admitted as readers at the British Museum
library over the same period: only three out of the three hundred and
thirty-three admitted between 1770 and 1810, as surveyed by Derek Cash. 59 On
this evidence, the field of artistic study was, in the most literal terms,
relatively female compared even to the study of literature or history. This
points to an under-explored context for the inculcation of the students into
life as an artist: the “feminine” sphere of the home, and of siblings (whether
brothers or sisters) alongside parents. We have, surely, barely begun to
consider the family as the context in which artists are made as much as, if not
more than, the studio and academy. Nor is it straightforward to assume that
those individuals who had enrolled as Academy students also had expectations
about the professional pursuit of the art. Among the Academy students who
attended, a large proportion, including a majority of the most assiduous, were
from polite social backgrounds, with fathers in the professions, or who were
office-holders or from the landowning classes, including Henry Monro, John
Penwarne, Richard Cook, William Drury Shaw, Charles Lock Eastlake, Henry
Perronet Briggs, Alexander Huey, Thomas Cooley, Samuel F. B. Morse, Andrew
Geddes, John Zephaniah Bell, Thomas Christmas, John Owen Tudor, and Samuel
Hancock. Others were the sons of elite tradesmen, highly specialized craftsmen
or merchants, including William Brockedon, Seymour Kirkup, Charles Robert
Leslie, Gideon Manton, and John Zephaniah Bell. These were not, either,
predestined to be artists, by simply following in their father’s footsteps, but
were opting in to an artistic career, having had, usually, a decent education,
and access to material and social support. In many cases their brothers, who
shared the same upbringing, became doctors or lawyers, property-owners or
merchants. A number of individual students gave up the practice of the
art—Thomas Christmas became a landowner in Willisden; Richard Cook was able to
retire, wealthy; Seymour Kirkup languished in Rome dabbling in the arts;
William Brockedon became more engaged as an inventor and traveller; while
others were never really obliged to draw an income from their practice but
pursued art as a pastime. It remains the case that there was a high level of
occupational inheritance; perhaps thirty-eight of the students (23 percent) had
fathers who were architects, engravers or artists in painting or sculpture.
Many were the sons of established artists (including Rossi, Bone, Stothard,
Ward, Dawe, Wyatt, Bonomi, and the brothers Stephanoff); a few were part of
“dynasties” encompassing generations engaged in the arts (Wyatt, Wyon,
Hakewill, Landseer). Even then, there is the case of John Morton (noted
confusingly as “John Martin” in the register, although the address given
provides for a firm identification), who, although the son of an artist and a
student at the Royal Academy, exhibited personally as an “Honorary”, suggesting
he was not professionally engaged. That his brother became quite prominent as a
physician suggests that this was a quite emphatically middle-class family
setting. There are several points to derive from this information, even as
lightly sketched as it necessarily is here. Firstly, it is noteworthy that
while female students were a minority they were a definite presence; in this
regard, the British Museum was like other spaces of artistic study, notably the
painting school at the British Institution. 60 The observation is upheld by the
contemporary records of student attendance at the British Institution or of
copyists at Dulwich Picture Gallery, and should serve as a reminder that the
Royal Academy was exceptional among the spaces of art education in being so
entirely male. 61 Secondly, it is striking how few came from humble backgrounds
unconnected with the art world; really, only a handful, which would include
John Tannock (son of a shoemaker in Scotland), William Etty (son of a baker in
York), John Jackson (son of a village tailor in Yorkshire), and William Henry
Hunt (whose father was a London tin-plate worker). The circumstances which led
to their gaining access to the London art world are, therefore, noteworthy, as
a third and most important point would be to emphasize how emphatically
metropolitan, polite, and middle-class was the British Museum as a site of
artistic education. The Townley Gallery on student days was a place where
working artists, students, amateurs, and patrons mingled. 62 While the Royal
Academy is conventionally seen as an engine of professionalization, it is striking
that the social affiliations of artists point to strong, arguably increasingly
strong, affiliations between amateurs and professionals—to the extent that our
terminology around this point needs to be reconsidered. Looking over the
biographical survey, the kind of social suffering or precariousness typically
associated with artists’ lives, perhaps especially during the era of
industrialization, is markedly absent. When it does appear—most strikingly with
the grim life-stories of the siblings Jabez and Sarah Newell—they are among the
minority of students from backgrounds neither closely connected with the art
world, nor comfortably middle-class or genteel. The examples of stellar social
ascent and achievement on the basis of talent alone are real; but they are the
exceptions rather than representative. The relative weight of personal and
Academic connection is exposed in the record of the provision of references for
students. Of the forty-three referees recorded between 1809 and 1816, less than
half (nineteen) were Academicians. One of those was Henry Fuseli, who as Keeper
of the Academy Schools through this period must have provided references as
part of his duties, and accordingly provided the second largest number of
recommendations (nineteen; all but one students at the RA). The lead in
providing references was taken by William Alexander, artist and keeper of
prints and drawings (twenty-two; mainly but not exclusively students). Overall,
officers and Trustees were most active in admitting students. Most only ever
provided a reference for one, or at most a handful, and the jibe about “friends
of the librarians, & their friends’ friends” contains some truth. But the
same point applies to the artists, most of whom only ever recommended one
student, often known personally to them already: David Wilkie recommended his
assistant, John Zephaniah Bell; George Dawe provided a reference for his own
son; Thomas Lawrence for his pupil William Etty; Thomas Phillips and John
Flaxman, the relatives of fellow Academicians; Thomas Stothard, the son of a
neighbour (Kempe). Geography, too, seems to have played a role, with referees
often coming from the same area as their favoured student: Francis Horner
recommended John Henning, whom he had known in their native Scotland; the
Scottish George Chalmers recommended James Tannock; Arthur Champernowne put
forward William Brockedon, his protégé, whom he had supported in moving from
Devon to the metropolis to pursue art; James Northcote recommended two fellow
West Countrymen; Benjamin West, notorious for giving special assistance to
visiting American students, two such (Leslie and Morse). If the admission
procedure could be interpreted as an opportunity for the Academy to assert a
corporate, professionalized identity, based purely on merit, we can nonetheless
detect underlying patterns of kinship, personal, social, and geographical
affiliation. Simply stated, even if study at the Museum was free and freely
available, any given student would still need to access a letter of reference and
the time to go to the Museum (as well as the material means to acquire the
portfolio, paper, and chalks anticipated by the Trustees). The opening hours
for students militated against anyone attending who had to use these daylight
hours for work, a point which was made quite often with reference to the
Reading Room through this period. 63 The most assiduous students needed the
time free to study at the British Museum, something that well-off students like
Eastlake, Brockedon, Briggs, and Monro had readily available to them. Their
peers at the Academy who were obliged to work during the day to make a living,
or who were serving apprenticeships, would simply not be able to make the hours
available at the Museum. 64 The ambitious painter Thomas Christmas was free to
attend the Museum, having dedicated himself to study after working as a clerk,
but his brother, Charles George Christmas, who held down a job in the Audit
Office, would have struggled; accounting for his studies at the Academy, he had
told Farington, “He shd. continue to do the business at the Auditors' Office,
Whitehall, which occupies Him from 10 oClock till 3 each day, as it will keep
His mind free from anxiety abt. His means of living and leave Him with a
feeling of independence.” 65 Given that the students were admitted to the
Townley Gallery from noon to 4 o’clock in the afternoon, and that the Trustees
continued to prohibit the use of artificial lights in the Museum, there was
scarcely any real possibility of Charles George Christmas attending, although
he also enjoyed the comforts of a middle-class home background (their father
was a Bank of England official). With the ascent of utilitarian criticism,
visitor levels were turned to anew as a measure of the institution’s fulfilment
or failure to fulfil its “national” purpose. On strictly statistical terms, the
Museum seemed to be successful at providing opportunities for art students.
Only under the closest scrutiny, with attention to the “micro-history” of
individual lives, does that illusion start to be tested. It is, though, at this
“micro” level that we can apprehend the characteristic paradox of an emerging
cultural modernity, one that is still with us. Yet the point, to follow
Rancière, is not to see the past ascent of a present situation, but to force
ourselves to feel uneasy with that sense of recognition and its tacit model of
history. The evidence is that free access to culture and the (circumscribed)
promotion of equality were combined with socially restrictive patterns of
preferment. 66 Study at the British Museum may have been free, and freely
available to properly qualified students of the Academy, but you needed to be
in the right place at the right time, to have the time available, and, indeed,
to know or at least be able to access the right people, to get in. This point
may seem unduly sociological or even tendentious, but overlooking it involves a
denial of the socially invested nature of time, specifically, of the scholastic
time (given over to study or contemplation or to creation) mythically removed
from the influence of social forces. 67 The acts of nomination which saw
certain men and women given special access to the Townley Gallery, acts so
seemingly trivial in themselves involving perhaps only an exchange of words and
a scribbled note, were microcosmic manifestations of social authority of the
most far-reaching kind. 68 When Robert Butt, the principal manager of the
bronze and porcelain department at Messrs Howell & James, Regent-street,
was examined by the Select Committee on Arts and Manufactures in 1835, he
noted: The process by which a knowledge of the arts of painting and sculpture
is now acquired is this: a young man receives tuition from a private master; he
draws from the antique at the British Museum for a certain time, and when he
shows that he has sufficient talent to qualify him for a student of the Royal
Academy he is admitted; but the expense of acquiring that preliminary knowledge
is considerable, and the young artist must also be maintained by his relatives
during the time that he is acquiring it. 69 The following year, in a further
parliamentary committee, this time dedicated to testing out the British
Museum’s claims to public status, James Crabb, “House Decorator” of Shoe Lane,
Fleet Street, was asked, “Did you ever obtain any assistance, by means of
casts, from the better specimens of sculpture in the Museum or elsewhere?”, to
which he replied, “I should derive assistance from them if I had the
opportunity, but I have not time.” 70 Considered sociologically, as the
personal experience of these men seems to have obliged them to do, time was
certainly of the essence. The prevalence of students with secure middle-class
backgrounds at the British Museum might, then, be taken as evidence of an early
phase in the “middle-classification” of art practice, the awkward but evocative
phrase used recently by Angela McRobbie in her eye-opening observations of
careers in the present-day creative industries. 71 Whatever emphasis may be put
on equality of access to educational opportunity, however rigorously fairminded
and anonymized the tests and measures involved in admission procedures, without
forms of positive support to counterbalance or actively adjust social
inequalities, those same inequalities will tend to be reproduced,
homologically, in the educational field. This is patently not a simple matter
of social and material advantage underpinning artistic enterprise in a wholly
predictable way; such would be a nonsense, in light of the many students who
did not enjoy such advantages. Instead, it is the very flexibility built into
the exclusionary processes of the emerging cultural field which is
significant—the possibility that talented students could get access, gain
reputation, achieve success, without being limited by their social origins.
“Freeing” art education allowed for the expression of personal preferences or
dispositions at an individual level, which at an aggregate level reproduced
larger power relations. Exposing that ultimately exclusionary process, which
may be marked only in small differences, in personal dispositions and
behaviours, in the personal choices and decisions which are neither truly
personal nor really pure as choices, is no small task. This essay, and the
biographical survey accompanying it, with its details of a multitude of student
lives otherwise scarcely recorded or recognized, is intended as a small
contribution to that larger project, with the excess of data presented here
perhaps imposing, in itself, new requirements on our understanding of the
history of art education. Appendix Regulations for the admission of students of
the Royal Academy to the Townley Gallery at the British Museum (May 1808): [7]
That the students of the Royal Academy be admitted into the Gallery of
Antiquities upon every Friday in the months of April, May, June, & July,
& every day in the months of August and September, from the hours of twelve
to four, except on Wednesdays and Saturdays the Students, not exceeding twenty
at a time, to be admitted by a Ticket from the President and Council of the
Royal Academy, signed by their Secretary. [8] The better to maintain decorum
among the Students, a person properly qualified shall be nominated by the Royal
Academy from their own body, who shall attend during the hours of study; the
name of such person to be signified in writing, from time to time, by the
Secretary of the Royal Academy to the Principal Librarian of the British
Museum. [9] That the members of the Royal Academy have access to the Gallery of
Antiquities at all admissible times, upon application to the Principal
Librarian or the Senior under Librarian in Residence [10] That on the Fridays
in April, May June & July one of the officers of the Department of
Antiquities do attend in the Gallery of Antiquities according to Rotation in
discharge of his ordinary Duty. [11] That in the months of August &
September some one of the several Officers of the Museum, then in Residence, do
(according to a Rotation to be agreed upon by themselves & confirmed by the
Principal Librarian) attend on the Gallery upon the Days for the admission of
Students. [12] That the attendants in the Department of Antiquities be always
present in the Gallery during the times when the Students are admitted. 72
Footnotes The original register is held in the Keeper’s Office, Department of
Prints and Drawings, British Museum. Patrick Joyce, “Speaking up for the State”
(2014), https://www.opendemocracy.net/ourkingdom/patrick-joyce/
speaking-up-for-state. These points are made in light of a larger research
project, which has given rise to the present study: a biographical survey of
all the students of paintings, sculpture, and engraving who were active at the
Royal Academy schools between its foundation in 1769 and 1830 together with a
monograph, provisionally titled The Talent of Success: The Royal Academy
Schools in the Age of Turner, Blake and Constable, c. 1770–1840 (forthcoming).
This fuller survey indicates several important shifts over these decades,
including a fundamantal shift in the proportion of students coming
from family backgrounds in the arts and design-oriented trades, in
comparison with those coming from professional and genteel backgrounds. It
exposes, specifically, a new group whose fathers were engaged as “officers”, in
the civil service or bureaucratic roles, who in turn had a disproportionate
representation within the developing art establishment (as Academicians, or as
officials in other cultural bodies). The term “art world”, as designating a
space of co-production, stems from Howard S. Becker, Art Worlds (1984), rev.
edn (Berkeley, CA: University of California Press, 2008). As deployed here, it
is closer in conception to the sociological “field” as detailed by Pierre
Bourdieu across a succession of influential works. Notable among these, for present
purposes because of its methodological statement about the homological analysis
of the world (field) of art in relation to the field of power, is The Rules of
Art, trans. Susan Emanuel (Cambridge: Polity Press, 1996), esp. 214–15. See,
notably, the chapter on “Workers in Art” in Samuel Smiles’s Self-Help, first
published 1859 with numerous further editions. On the self-motivated artist as
the model for all forms of work, see Angela McRobbie, Be Creative: Making a
Living in the New Culture Industries (Cambridge: Polity Press, 2016), esp.
70–76. Holger Hoock, The King’s Artists: The Royal Academy of Arts and the
Politics of British Culture, 1760–1840 (Oxford: Oxford University Press, 2003)
and Hoock, “The British State and the Anglo-French Wars Over Antiquities,
1798–1858”, Historical Journal 50, no. 1 (2007): 49–72. Patrick Joyce, The Rule
of Freedom: Liberalism and the Modern City (London: Verso, 2003) and Joyce, The
State of Freedom: A Social History of the British State Since 1800 (Cambridge:
Cambridge University Press, 2013); also his “What is the Social in Social
History?”, Past and Present 206, no. 1 (2010): 213–48. On this Foucauldian
framing of art education and creative production within liberalism, see
McRobbie, Be Creative, 71–76 and passim. Karl Polanyi, The Great
Transformation: The Political and Economic Origins of Our Time (1944; Boston,
MA: Beacon Press, 2002); Michel Foucault, The Birth of Biopolitics: Lectures at
the Collège de France, 1978–1979, ed. Michel Sennelert, trans. Graham Burchell
(Basingstoke: Palgrave Macmillan, 2008); Luc Boltanski and Eve Chiapello, The
New Spirit of Capitalism, trans. Gregory Elliott (London and New York: Verso,
2007); Pierre Bourdieu, On the State: Lectures at the Collège de France,
1989–1992, ed. Patrick Champagne and others, trans. David Fernbach (Cambridge:
Polity Press, 2014). See Edward Higgs, Identifying the English: A History of
Personal Identification 1500 to the Present (London: Bloomsbury, 2011), 97–119.
Higgs’s account is, essentially, positive about the liberties and rights
secured by this rising documentation. The position taken here is more
determinedly Foucauldian. For the foundational role of statistics in
“liberalisation”, and the hidden affinities between the liberal and the
totalitarian, see Michael Foucault, “Society Must Be Defended”: Lectures at the
Collège de France, 1975–76, ed. Mauro Bertani and Alessandro Fontana, trans.
David Macey (London: Penguin, 2004). Foucault, Birth of Biopolitics, 69. A
biographical dictionary of Royal Academy students from 1769–1830. See note 3,
above. Jacques Rancière, The Method of Equality: Interviews with Laurent
Jeanpierre and Dork Zabunyan, trans. Julie Rose (Cambridge: Polity Press,
2016), 108. Neil Chambers, Joseph Banks and the British Museum: The World of
Collecting, 1770–1830 (London: Routledge, 2007), 107. The register is mentioned
in the notice of Seymour Kirkup in G. E. Bentley, Blake Records, 2nd edn (New
Haven, CT, and London: Yale University Press, 2004), 289n. Kirkup was an
unusually assiduous student at the Museum, admitted in 1809 and renewing his
ticket through to 1812. The reference in Bentley appears to be the only
published reference to the register. The admission of the Paytherus sisters to
draw at the Museum is noted by James Hamilton in his London Lights: The Minds
that Moved the City that Shook the World, 1805–51 (London: John Murray, 2007),
72, although with reference to the early Reading Room register (marked “1795”)
in the British Museum Central Archive, rather than the volume in Prints and
Drawings. See J. T. Smith, Nollekens and his Times, 2 vols., 2nd edn (London:
Henry Colburn, 1829), 1: 242. Viccy Coltman, Classical Sculpture and the
Culture of Collecting in Britain since 1760 (Oxford: Oxford University Press,
2009), 242–44. See B. F. Cook, The Townley Marbles (London: British Museum
Press, 1985) and Ian Jenkins, Archaeologists and Aesthetes in the Sculpture
Galleries of the British Museum, 1800–1939 (London: British Museum Press,
1992). Chambers, Joseph Banks, 107. 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17
18 19 Derek Cash, “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to
1836”, British Museum Occasional Papers 133 (2002), 68.
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1029–30. Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/50–52.
Library of the Royal Academy of Arts, London, CM/4/59. The British Museum,
Central Archive, C/1/5/1034. The British Museum, Central Archive,
C/1/5/1043–144. Cf. “Chapter III: Concerning the Admission into the British
Museum”, in Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum (London, 1808), 15–16. Joseph Farington, The
Diary of Joseph Farington, ed. Kenneth Garlick, Angus Macintyre, and others, 17
vols. (New Haven, CT, and London: Yale University Press, 1978–98), 9: 3284.
Library of the Royal Academy of Arts, London, GM/2/366, 370. Library of the
Royal Academy of Arts, London, GM/2/371. Library of the Royal Academy of Arts,
London, GM/2/372–73. Diary of Joseph Farington, 9: 3313. Diary of Joseph
Farington, 9: 3317. Diary of Joseph Farington, 9: 3284. The British Museum,
Central Archive, C/3/9/2426. The British Museum, Central Archive, C/3/9/2428.
The British Museum, Central Archive, C/1/5/1069. The British Museum, Central
Archive, C/1/5/1070. The arrangement of the galleries was first detailed in a
written description provided by Westmacott for Prince Hoare’s Academic Annals (London,
1809) and in Taylor Combe’s A Description of the Ancient Marbles in the British
Museum, 3 vols. (London, 1812–17). See Cook, Townley Marbles, 59–61. Karl
Friedrich Schinkel, “The English Journey”: Journal of a Visit to France and
Britain in 1826, ed. David Bindman and Gottfried Riemann (New Haven, CT, and
London, 1993), 74. The record of admissions to view prints and drawings must
have arisen from the new regulations issued by the Trustees in November 1814;
see, Antony Griffiths, “The Department of Prints and Drawings during the First
Century of the British Museum”, The Burlington Magazine 136, 1097 (1994): 536.
In March 1817 the student artist William Bewick wrote to his brother: “I last
Monday set my name down as a student in the British Museum.” See Thomas
Landseer, ed., Life and Letters of William Bewick (Artist), 2 vols. (London:
Hurst and Blackett, 1871), 1: 37. Edward Nygren, “James Ward, RA (1769–1859):
Papers and Patrons”, Walpole Society 75 (2013): 16. Jack Tupper, “Extracts from
the Diary of an Artist. No.V”, The Crayon, 12 December 1855, 368. An album of
drawings of the Townley Marbles in the British Museum (2010,5006.1877.1–40)
appears to have been collected by Townley himself, so dates to before the
installation of the marbles at the Museum. The drawings serve as records of the
objects rather than student exercises. The drawings by John Samuel Agar in the
Getty Research Institute are evidently preparatory for the prints published in
Specimens of Antient Sculpture. BL Add MS 37,163 f.106. This and other figures
in the Townley collection could also be found as casts in the Royal Academy’s
plaster schools, so even if Wood’s drawing, for example, could be traced, it
could not definitively be said to be made in the Townley Gallery. See Ann Chumbley
and Ian Warrell, Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary Life,
exh. cat. (London: Tate Gallery, 1989), 12–13. Eric Shanes, Young Mr Turner:
The First Forty Years, 1775–1815 (New Haven, CT, and London: Yale University
Press, 2016), 33–34. Hansard (House of Commons), 16 February 1821, c.724
(online at http://hansard.millbanksystems.com/commons/
1821/feb/16/british-museum). See Cash, “Access to Museum Culture”, 197–225 for
a full account of public discussions around this date. Quoted in Cash, “Access
to Museum Culture”, 208. British Museum: Returns to two Orders of the
Honourable House of Commons, dated 16 th February 1821, House of Commons, 23
February 1821, 2. Cash “Access to Museum Culture”, 71. Quoted in The Literary
Chronicle, 17 March 1821, 168. Edward Edwards, Lives of the Founders of the
British Museum (London: Trübner and Co., 1870), 520. 20 21 22 23 24 25 26 27 28
29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52
Bibliography Acts and Votes of Parliament, Statutes and Rules, and Synopsis of
the Contents of the British Museum. London, 1808. Becker, Howard S. Art Worlds
(1984). Rev. edn. Berkeley, CA: University of California Press, 2008. Bentley,
G. E. Blake Records. 2nd edn. New Haven and London: Yale University Press,
2004. Boltanski, Luc, and Eve Chiapello. The New Spirit of Capitalism. Trans.
Gregory Elliott. London and New York: Verso, 2007. See Martin Myrone,
“Something too Academical: The Problem with Etty”, in William Etty: Art and
Controversy, ed. Sarah Burnage, Mark Hallett, and Laura Turner (London: Philip
Wilson, 2011), 47–59. The barest and most conjectural biographies include those
for William Carr of New Broad Street; W. W. Torrington; Edward Thomson; Richard
Moses; and Mr Lewer. Information is most notably lacking for the trio of Miss
Cowper, Miss Moula, and Mr Turner of Gower Street; William Hamilton of Stafford
Place; William Irving of Montague Street; Thomas Williams of Hatton Garden;
Daniel Jones; M. Hatley of Albermarle Street; Miss Edgar; Miss Carmichael of
Granville Street; Mr Atwood; Mr Higgins of Norfolk Street; George Pisey of
Castle Street; Charles White of George Street; Robert Walter Page of Wigmore
Street; Henry A. Matthew; Thomas Welsh; and John Hall. Students were entered as
“probationers” for a period of three months (which might be extended), and once
registered could attend the Schools for a period of ten years. Ralph Irvine;
Arthur Champernowne; the Chevalier de Barde; John Disney; John Campbell; Edward
Utterson; John Lambert; Robert Batty; Alexander Huey; Richard Thomson; Charles
Toplis; John Frederick Williams; Edward Burrows; William Carr; W. W.
Torrington. Jane Landseer; Janet Ross; Georgiana Ross; the two Misses
Paytherus; H. Edgar; Maria Singleton; Elizabeth Appleton; Louisa Champernowne;
Miss Carmichael; Elizabeth Batty; Frances Edwards; Eliza Kempe; Ann Damer; Miss
Cowper; Miss Moula; Miss Trotter; Miss Adams; Sarah Newell; Emma Kendrick; Jane
Gurney. Gentleman’s Magazine (1820) and A Trip to Paris in August and September
(1815), quoted by William T. Whitley in his Art in England, 1800–1820 (London:
Medici Society, 1928), 263, as evidence that “It was still thought improper for
women to study from such figures” as the Apollo Belvedere. Cash, “Access to
Museum Culture”, 113. As the American Samuel F. B. Morse (a student at the
Royal Academy and the British Museum) noted in 1811: “I was surprised on
entering the gallery of paintings at the British Institution, at seeing eight
or ten ladies as well as gentlemen, with their easels and palettes and oil
colours, employed in copying some of the pictures. You can see from this
circumstance in what estimation the art is held here, since ladies of
distinction, without hesitation or reserve, are willing to draw in public.” See
Edward Lind Morse, ed., Samuel F. B. Morse: His Letters and Journals, 2 vols.
(Boston, MA: Houghton Mifflin, 1914), 1: 45. Lists of students admitted to copy
at the British Institution appear in the Directors’ minutes, NAL RC V 12–14,
and in contemporary press reports. Individuals admitted to copy at Dulwich
Picture Gallery were routinely listed in the “Bourgeois Book of Regulations”
from 1820; photocopies and notes at Dulwich Picture Gallery, C1 and H3. This is
expecially clearly expressed in James Ward’s diary notes on his visits in 1817,
meeting there the artists William Skelton, Joseph Clover, Henry Fuseli, and
William Long, but also the gentlemen collectors and scholars William Lock,
Edward Utterson, and Francis Douce (Nygren, “James Ward”). See Cash, “Access to
Museum Culture”, 217 and passim. Although the timing of the Academy’s evening
classes might seem to be more accommodating, even this may have been
challenging. The master of Richard Westall, later a watercolour painter,
“permitted him to draw at the Royal Academy, in the evenings; but for that
indulgence he worked a corresponding number of hours in the morning”.
Gentleman's Magazine, February 1837, 213. Diary of Joseph Farington, 4: 4783.
On educational tests as linking “macro” and “micro”, “both sectoral mechanisms
or unique situations and societal arrangements”, see Boltanski and Chiapello,
New Spirit of Capitalism, 32. See Pierre Bourdieu, Pascalian Meditations,
trans. Richard Nice (Stanford, CA: Stanford University Press, 2000). “Acts of
nomination, from the most trivial acts of bureaucracy, like the issuing of an
identity card, or a sickness or disablement certification, to the most solemn,
which consecrate nobilities, lead, in a kind of infinite regress, to the
realization of God on earth, the State, which guarantees, in the last resort,
the infinite series of acts of authority certifying by delegation the validity
of the certificates of legitimate existence”, Bourdieu, Pascalian Meditations,
245. The potentially trivial nature of the acts of nomination involved in
gaining access to the British Museum is highlighted in Joseph Planta’s own
account of providing recommendations (for the Reading Room) often only on the
basis of casual conversations. See Cash, “Access to Museum Culture”, 207.
Report of the Select Committee on Arts and Manufactures, House of Commons, 4
September 1835, 40. Report of the Select Committee on the British Museum,
quoted in Edward Edwards, Remarks on the “Minutes of Evidence” Taken before the
Select Committee on the British Museum, 2nd edn (London [1839]), 14. McRobbie,
Be Creative. The British Museum, Central Archive, C/1/5/1043–144. 53 54 55 56
57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 Bourdieu, Pierre. On the State:
Lectures at the Collège de France, 1989–1992. Ed. Patrick Champagne and others.
Trans. David Fernbach. Cambridge: Polity Press, 2014. – – –. Pascalian
Meditations. Trans. Richard Nice. Stanford, CA: Stanford University Press,
2000. – – –. The Rules of Art. Trans. Susan Emanuel. Cambridge: Polity Press,
1996. Cash, Derek. “Access to Museum Culture: The British Museum from 1753 to
1836.” British Museum Occasional Papers 133 (2002)
http://www.britishmuseum.org/research/publications/research_publications_series/2002/
access_to_museum_culture.aspx Chambers, Neil. Joseph Banks and the British
Museum: The World of Collecting, 1770–1830. London: Routledge, 2007. Chumbley,
Ann, and Ian Warrell. Turner and the Human Figure: Studies of Contemporary
Life. London: Tate Gallery, 1989. Coltman, Viccy. Classical Sculpture and the
Culture of Collecting in Britain since 1760. Oxford: Oxford University Press,
2009. Combe, Taylor. A Description of the Ancient Marbles in the British
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British Museum Press, 1985. Edwards, Edward. Lives of the Founders of the
British Museum. London: Trübner and Co., 1870. – – –. Remarks on the “Minutes
of Evidence” Taken before the Select Committee on the British Museum. 2nd edn.
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giornale
critico della filosofia italiana.
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d. “Positivismo italiano.”
cassiodoro: noble Italian
philosopher. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Cassiodoro," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
casalegno,
paolo. Italian philosopher author of “H. P. Grice” in “Filosofia del
linguaggio.”
cattaneo: essential Italian philosopher. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Cattaneo," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
CARCHIA (Torino). Grice:”I
once joked that if I’m introduce dto Mr. Poodle as ‘our man in eighteenth
century aesthetics, the implictum is that he ain’t good at it! Not with
Carchia: because (a) Carchia is a serious philosopher (b) he conceives
aesthetics alla Baumagarten, having to do with communication (“nome e immagine”, “interpretazione ed
emancipazione”) and with not just the aesthetis qua sensus – but its truth
value (“immagine e verita,” “l’intelligible estetico”) – a genius! On topc, my
favourite piece of his philosophising is on the torso del belvedere as
representing the ‘rhetoric of the sublime’!” Si laurea a Torino sotto Vattimo
con la dissertazione “Il Linguaggio”. Insegna a Viterbo e Roma. Studioso di
filosofia antica, traduttore. Opere: Orfismo e tragedia; Estetica ed erotica; Dall'apparenza
al mistero; La legittimazione dell'arte; Arte e bellezza; L'estetica antica, ecc. Si è anche occupato, di arte e comunicazione dei
popoli 'primitivi' e di artisti contemporanei quali Savinio, Sbarluzzi e Lanzardo.
La casa editrice Quodlibet raccoglie le sue opere postume. Rusce ad immaginare
la filosofla, a porla in immagini -- nel solco della filosofia italiana
dall'Umanesimo a Vico. Minima immoralia. Aforismi tralasciati nell'edizione
italiana (Einaudi, 1954), Milano: L'erba voglio); Comunità e comunicazione (Torino:
Rosemberg & Sellier); prefazione e cura di Henry Corbin, L'imâm nascosto,
Milano: Celuc, 1979; Milano: SE); Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato,
Milano: Celuc); Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi,
Torino : Rosemberg & Sellier); Erotica. Saggio sull'immaginazione, Milano:
Celuc) L'intelligibile (Napoli: Guida); Dall'apparenza al mistero. La nascita del
romanzo, Milano: Celuc); Il mito in pittura. La tradizione come critica,
Milano: Celuc); cura di Arnold Gehlen, Quadri d'epoca. Sociologia e estetica
della pittura moderna, Napoli: Guida) Retorica del sublime, Roma-Bari:
Laterza); Il bello (Bologna: Il Mulino); Interpretazione ed emancipazione. Torino:
Dipartimento di ermeneutica); introduzione a Karl Löwith, Scritti sul Giappone,
Soveria Mannelli: Rubbettino); “La favola dell'essere. Commento al Sofista”
(Macerata: Quodlibet); Estetica, Roma-Bari: Laterza); L'estetica antica, Roma-Bari: Laterza); L'amore
del pensiero, Macerata: Quodlibet); Nome e immagine (Benjamin, Roma: Bulzoni); Immagine
e verità. Studi sulla tradizione classica, Monica Ferrando, prefazione di
Sergio Givone, Roma: Edizioni di storia e letteratura, 2003 88-8498-112-3 Kant e la verità dell'apparenza,
Gianluca Garelli, Torino: Ananke, 2006
88-7325-151-X introduzione a Walter Friedrich Otto, Il poeta e gli
antichi dèi, Rovereto: Zandonai. L’immaginazione come
orizzonte nomade della conoscenza. Produttività e trascendentalità
dell’immaginazione nella critica del giudizio. L’immaginazione senza immagini.
La notte delle immagini, il ricordo, la memoria. L’immaginazione come
autotrasparire dell’apparenza rappresentativa. Naturalismo simbolico e
simbolica naturale. Angelologia. Alighieri: spiritus phantasticus e alta
fantasia. Gemellarità dell’immaginazione gnostica. L’immaginazione speculativa.
Simbolismo e imagismo. Il fantastico come ideologia. Il romantico.
L’immaginazione come dimora del padre. Demone e allegoria. La forza del nome.
Icona e coscienza sofianica. Mistica. Mimesi e metessi. La nuova accademia:
l’estetico. Paradigma, schema, immagine. Gianni Carchia. Keywords:
erotica, il bello, la comunicazione dei primitivi. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Carchia” – The Swimming-Pool Library.
CARDANO (Pavia).
Filosofo. Grice: “I’m sure Cardano does not mean chance by aleae! It’s a Roman
notion, not an Arabic one!” Grice: “Cardano is a fascinating philosopher, but
then so is I [sic]!” Grice: “My faavourite philosophical topic by Cardano is
what he calls, well, his Italian translators call – recall that Italian
philosophy is written in the ‘learned’! – ‘gioco d’azzardo’, ludo alaea – which
is what conversation is – what is conversation is not a game of azzardo? But
Cardano also refutes all that Malcolm says about ‘dreaming,’ never mind Freud –
Italians are obsessed with a male sleeping: Rinaldo, Tasso, Botticelli (“sleeping
Mars”), not to mention the search for the Etruscan equivalent to ‘oneiron,’ the
god – one of my most precious souvenirs is a little medal of Cardano: not so
much for his very Roman nose (charming as it is) but for the backside, which
represents Oneiron, indeed, aong the ladies!” Poliedrica figura del
Rinascimento. Riconosciuto come il fondatore della probabilità, coefficiente binomiale
e teorema binomial. A lui si deve anche la parziale invenzione dell’
implicatura e della serratura, della sospensione cardanicache permette il moto
libero, ad esempio, delle bussole nautiche ed è alla base del funzionamento del
giroscopioe della riscoperta del giunto cardanico. Animos scio esse
immortales, modum nescio. So che l'anima è immortale, ma non ho capito come funzioni
la cosa. Figlio del nobile Fazio, un giurista esperto nella matematica tanto da
essere consultato da da Vinci su alcuni problemi di geometria. Fazio conobbe
a Milano la vedova, madre di tre figli, Chiara Micheri (o de Micheriis) di cui
s'innamora iniziando con questa, che vive con la famiglia del defunto marito,
una relazione clandestina che porta al concepimento di un quarto figlio. Per
non essere coinvolto nello scandalo prega un suo amico di Pavia, il patrizio
Isidoro Resta, affinché assumesse Chiara come governante nella sua casa. Prima
che lei partorisse, i suoi tre figli morirono quasi contemporaneamente di peste
e lei tenta allora di abortire, senza riuscirci, del nascituro che ebbe il nome
di Gerolamo e che lasciò scritto nella sua autobiografia. Dopo che mia madre
tenta senza risultato dei preparati per abortire, vengo alla luce a Pavia. Come
morto, infatti, sono nato, anzi sono stato strappato al suo grembo, con i
capelli neri e ricciuti. Il bambino contrasse la peste dalla sua balia, che ne
morì, e fu allevato da altre nutrici. E trasferito a Milano dal padre che anda ad
abitare con lui solo quando ha solo sette anni, età in cui prese ad
accompagnare il padre nei suoi viaggi d'affari. Essendo delicato di salute, si
ammala gravemente. Solo dopo una lunga convalescenza poté riprendere a
viaggiare con il padre dedicandosi nel frattempo agli studi di filosofia, nei
quali ha modo di eccedere per le sue doti quando puo iscriversi a Pavia e Mantova
per studiare filosofia, contrariamente ai desideri del padre che avrebbe
preferito avviarlo agli studi giuridici. Lasciata Milano in preda alla
peste e sconvolta dalla guerra francese, si trasfere a Padova e si laurea a
Venezia. E oggetto dell'astio che molti tutori hanno nei confronti di quello
tutee geniale ma dal carattere scontroso e talora offensive. Sono poco
rispettoso e non ho peli sulla lingua, soprattutto mi lascio trascinare
dall'ira, al punto che poi mi dispiace e me ne vergogno. Riconosco che tra i
miei vizi ce n'è uno molto grande e tutto particolare: quello di non riuscire a
trattenermianzi ne gododal dire a chi mi ascolta ciò che gli risulta sgradevole
udire. Persevero in questo difetto coscientemente e volontariamente, pur
sapendo quanti nemici da solo mi abbia procurator. Nel frattempo a Milano e
morto il padre che ha regolarizzato la sua convivenza sposando la madre del
filosofo. Non potendo tornare a Milano per l'epidemia e la guerra, prese
dimora a Piove di Sacco. Esercita la sua professione a Gallarate. Ottenne
la cattedra per l'insegnamento della filosofia presso le scuole Piattine di
Milano, dove aveva insegnato anche il padre. La sua fama di esperto dottore si
accrebbe per aver risanato alcuni membri della famiglia Borromeo. Dovette
rifiutare alcuni incarichi di prestigio perché non retribuiti fino a quando e ammesso
nel Collegio dei medici di Milano. Accetta di ricoprire la cattedra di
filosofia a Pavia, rifiutando le offerte che gli venivano reiterate dal papa Paolo
III. Cura, con esiti positivi, l'arcivescovo di Edimburgo John Hamilton, malato
d'asma. Intuì probabilmente la natura allergica della malattia proibendo a
Hamilton di usare cuscini e materassi di piume. Per aumentare la sua fama volle
fare l'oroscopo all'arcivescovo e al re, e lesse nelle stelle un futuro radioso
per entrambi. Hamilton fu impiccato quasi subito dai riformatori. Il re muore
di tubercolosi. Rifiuta le prestigiose e ben retribuite offerte del re di
Francia e della regina di Scozia. Colpito da un doloroso avvenimento
riguardante il figlio Giovanni Battista, medico anche lui, che, nonostante gli
avvertimenti del padre, aveva voluto sposare una donna povera e di cattivi
costume. Per necessità economiche il figlio coabita dai parenti della moglie
avviando una convivenza caratterizzata dalla nascita successiva di tre figli e
da continui litigi dovuti anche alle infedeltà della moglie che egli decise di
uccidere, con la complicità di una serva, facendole mangiare una focaccia
avvelenata con l'arsenico. Arrestato subito per uxoricidio, il figlio confessa
il delitto e dopo un veloce processo, nonostante la difesa con tutti i mezzi
messa in atto dal padre, fu condannato alla decapitazione. Gerolamo, convinto
che la durezza della condanna fosse dovuta all'invidia dei suoi colleghi, per
sfuggire alle malevole voci che lo accusavano di intrattenere rapporti illeciti
con i suoi tutee, si trasfere a Bologna. Venne ulteriormente amareggiato dalla
condotta scapestrata del figlio Aldo che lo diffama per tutta la città e che
arriva a derubarlo così che il padre dovette denunciarlo alle autorità che
espulsero il figlio dal territorio bolognese. A questa disgrazia si aggiunse
inaspettata la notizia che si stava preparando contro di lui un'accusa di
eresia tanto che il cardinale Giovanni Morone gli consigliò di lasciare il
pubblico insegnamento della filosofia. Questa misura prudenziale non valse però
a salvare Gerolamo che fu arrestato per eresia assieme al suo tutee Rodolfo
Silvestri che non volle abbandonare il tutore. Non si conoscono le accuse
che gli erano rivolte dall'Inquisizione. Tuttavia si era distinto per una certa
imprudenza nei confronti della Chiesa, governata dal severo Papa Pio V, per
aver compilato un oroscopo di Gesù, la cui vita così sarebbe stata decisa dalle
stelle, scritto l'encomio di Nerone, persecutore dei cristiani, e soprattutto
per i suoi confidenziali rapporti con i circoli protestanti frequentati dal suo
tuteei, dal genero e dall'editore e tipografo dei suoi libri. Nonostante le
testimonianze a suo favore di quasi tutti i suoi tutee, Cardano fu messo in
carcere e poi agli arresti domiciliari sino a quando la Sacra Congregazione
tramite l'inquisitore di Bologna gli impose la professione dell'abiura prima in
forma grave (de vehementi) coram populo e successivamente in forma meno
infamante (coram congregationem). Si sottopose docilmente alla abiura
promettendo in una lettera a papa Pio V di non insegnare più pubblicamente
filosofia (la cattedra all'università gli era stata intanto tolta) e di non
pubblicare altre opere. Lasciata Bologna Cardano si trasfere, sotto la
diretta protezione di Pio V, a Roma dove fu ben accolto ma gli fu negata una
pensione che gli fu invece assegnata da Gregorio XIII che era stato suo tutee a
Bologna..E ammesso al Collegio romano. Si dedica alla composizione della sua
autobiografia De vita propria. Il punto focale della sua filosofia è il
concetto rinascimentale di “uomo universale" che dà alla sua ricerca della
verità un contenuto enciclopedico. Scrive più di duecento opere che solo in
parte furono pubblicate nel XVI secolo e che, altrettanto parzialmente, confluirono
nei dieci volumi della monumentale “Opera omnia” dove si trattano temi di
metafisica, omosessualita, mascolinita, il machio, il maschile, la medicina,
scienze naturali, matematica, astronomia, scienze occulte, tecnologia. Egli,
che si occupa anche della interpretazione dei sogni, della chiromanzia, della
numerologia, del paranormale rende difficile distinguere nella sua filosofia il
contenuti moderno del sapere dalle tradizioni metafisiche e magiche del passato.
Vuole arrivare a una sistemazione unitaria della molteplicità dei saperi così
che la nostra incerta conoscenza eviterebbe la confusione se potesse discendere
dall'uno ai molti. Ma questo obiettivo, di origine neo-platonica, sfugge però
all'uomo il quale allora è preferibile che occupi il suo intelletto in quei
campi dove riesce, quasi come un dio creatore o ‘genitore’ – o ingegnero, a
fare le cose. Questo avviene nell’aritmetica che si incarna nell'esperienza in
un rapporto astratto-concreto la cui definizione ancora non è in grado di
elaborare Dopo aver analizzato nel “De subtilitate” i molteplici principi
delle cose naturali e artificiali, si rivolge allo studio di tutto l'universo e
delle sue parti (De rerum varietate), che concepisce come legate da sim-patia
(attrazione) e anti-patia (repulsione) fra gli astri e l'uomo) e connessioni
che consentono al filosofo, che conosce il linguaggio della natura e gli
effetti degli influssi astrali sulla vita sessuale umana, di compiere quei
"miracoli naturali" che sono le magie, di elaborare previsioni
astrologiche e di stendere gli oroscopi delle religioni come quello dedicato a
Cristo. Il contributo in matematica Noto soprattutto per i suoi
contributi all'aritmetica, pubblica le soluzioni dell'equazione cubica e
dell'equazione quartica nella sua “Ars magna”. Parte della soluzione
dell'equazione cubica gli era stata comunicata da Tartaglia. Successivamente
questi sostenne che Cardano aveva giurato di non renderla pubblica e di rispettarla
come di sua origine. Si avvia così una disputa che dura un decennio. Cardano
sostenne di averne pubblicato il testo solo quando era venuto a sapere che il
Tartaglia avrebbe appreso la soluzione dalla voce dal bolognese Scipione del
Ferro. La soluzione di Tartaglia, pur essendo successiva a quella di Scipione
Dal Ferro (comunque mai pubblicata), risulta essere indipendente da questa. La
soluzione della equazione cubica è detta comunque di Cardano-Tartaglia. L'equazione
quartica venne invece risolta da Lodovico Ferrari, un tutee di Cardano. Nella
prefazione dell'“Ars Magna” vengono accreditati sia Tartaglia che Ferrari. Nei
suoi sviluppi delle soluzioni occasionalmente si serve del concetto di numero
complesso, ma senza riconoscerne l'importanza come invece saprà fare Bombelli. Nell'ambito
della scienza medica, l'esempio di Vesalio, che negli stessi anni aveva
contestato l'anatomia galenica, spinse Cardano a definire Galeno un cattivo
interprete di Ippocrate. Le sue critiche a Galeno erano comunque presentate
come parte integrante di un tentativo di recuperare una tradizione ancora più
antica e, si presumeva, più autentica. Fu il primo a descrivere la febbre
tifoide. Venne invitato in Scozia a curare l'Arcivescovo di Sant'Andrea che
soffe di asma probabilmente d'origine allergica. Seguendo i precetti di
Maimonide riusce a guarirlo utilizzando delle cure modernissime per l'epoca:
eliminare piume e polvere e mantenere una dieta controllata. Al ritorno dalla
Scozia si ferma a Londra, dove incontrò il re d'Inghilterra per il quale
redasse un oroscopo secondo il quale prospetta Edoardo VI una lunga vita
seppure turbata da alcune malattie. La sua fama di si diffuse in Inghilterra
tanto da interessare Shakespeare che nella "Tempesta" rappresenta un
personaggio molto simile a Cardano ed inoltre una prova della sua
perdurante popolarità può essere vista nel fatto che un’edizione del suo ‘De
Consolatione’ è proprio il libro che Amleto tiene in mano quando recita il suo
celeberrimo monologo ‘Essere o non essere’. De subtilitate e il libro che
Amleto tiene in mano all'inizio del secondo atto, quando Polonio gli domanda
cosa stia leggendo e lui risponde: "parole, parole, parole". Progetta
inoltre svariati meccanismi tra i quali: la serratura a combinazione; la
sospensione cardanica, consistente in tre anelli concentrici collegati da
snodi, in grado di ospitare una bussola o un giroscopio, garantendo la libertà
di movimento dello strumento; il giunto cardanico, dispositivo che consente di
trasmettere un moto rotatorio da un asse a un altro di diverso orientamento e
viene tuttora usato in milioni di veicoli. Ma pare fosse già conosciuto, anche
se porta il suo nome perché appare nella sua opera De Rerum Varietate in una illustrazione navale. L'invenzione di
questo tipo di giunto in realtà risale almeno al III secolo a.C., ad opera di
scienziati greci come Filone di Bisanzio, che nella sua opera Belopoiika lo
descrive chiaramente. Egli dette svariati contributi anche all'idrodinamica. Sostene
l'impossibilità del moto perpetuo, con l'eccezione dei corpi celesti. Pubblica
anche due opere enciclopediche di scienze naturali che contengono un'ampia
varietà di invenzioni, fatti ed enunciati afferenti all'occultismo e alla
superstizione: il De Subtilitate e successivamente il De Varietate. Introdusse
la griglia cardanica, un procedimento crittografico.A Cardano è attribuito
anche il gioco rompicapo descritto nel De subtilitate, ma probabilmente
risalente a un periodo più antico, chiamato Gli anelli di Cardano. Altre opere:
Della sua vita avventurosa e molto travagliata, rimane testimonianza nella sua
autobiografia. Ebbe spesso problemi di denaro e per cavarsela si dedicò ai giochi
d'azzardo per i quali ha una vera passione di cui si pente. Così ho dilapidato
contemporaneamente la mia reputazione, il mio tempo e il mio denaro. (zeugma –
segnato da ‘dilapidare’ – denaro, dilapidare il suo tempo, dilapidare la sua
reputazione. Pubblica un saggio sulle probabilità nel gioco, “De ludo aleae”
che contiene la prima trattazione sistematica della probabilità, insieme a una
sezione dedicata a metodi per barare efficacemente. Oltre alla produzione
dialettica, di carattere più strettamente filosofico sono invece il De
subtilitate e il De rerum varietate, ampie raccolte delle sue osservazioni
empiriche e delle sue speculazioni occultistiche. Della sua produzione
filosofica sterminata possono considerarsi come le opere più importanti:
De malo recentiorum medicorum usu libellus, Venezia, 1536 (medicina). Practica
arithmetice et mensurandi singularis, Milano. Artis magnae sive de regulis
algebraicis liber unus (conosciuta anche come Ars magna), Nuremberg. De
immortalitate. Opus novum de proportionibus. Contradicentium medicorum. De
subtilitate rerum, Norimberga, editore Johann Petreius (fenomeni naturali). De
libris propriis, De restitutione temporum et motuum coelestium; De duodecim
geniturarum -- commento astrologico a dodici nascite illustri. De rerum
varietate, Basilea, editore Heinrich Petri. Fenomeni naturali. De signo. De
causis, signis, ac locis Morborum. Bologna. Opus novum de proportionibus
numerorum, motuum, ponderum, sonorum, aliarumque rerum mensurandarum. Item de
aliza regula, Basilea (matematica). De vita propria. Proxeneta (politica).
Metoscopia libris tredecim, et octingentis faciei humanae eiconibus
complexa, Liber de ludo aleae, postumo (probabilità). Le sue opere vennero
raccolte e pubblicate a Lione in 10
volumi. L’Encomio di Nerone. A lui è dedicato il cratere lunare Cardano e
un asteroide. È intitolato a lui l'Istituto "G. Cardano" della sua città natale,
nel cui cortile interno è posta una scultura che rappresenta il giunto
cardanico, nonché infine l'omonimo collegio universitario pavese. La
blockchain "Cardano" (ADA) prende il suo nome, in quanto basata su un
approccio scientifico e matematico. Della mia vita. Somniorum synesiorum omnis
generis insomnia explicantes (Basilea). tti del Convegno, Castello Visconti di
San Vito, Somma Lombardo, Varese ed. Cardano); Università Bocconi. Equazione di
terzo grado" Il Rinascimento. Omeopatia
e allergie, Tecniche Nuove); Cardano, Edizioni Cardano, Il Prospero della
"Tempesta” somiglia tanto a Cardano
in Corriere. La tecnologia scientifica, in La rivoluzione dimenticata: il
pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli Editore); Il libro
della mia vita, Cerebro editore); Della mia vita, Alfonso Ingegno, Serra e Riva
editori, Milano). La formula segreta. Il duello matematico che infiammò
l'Italia del Rinascimento. ileae, per Ludouicum Lucium); “De propria vita” (Milano,
Sonzogno). Lugduni, sumptibus Ioannis Antonii Huguetan & Marci Antonii
Ravaud. Aforismi (Milano, Xenia). Palingenesi. Dizionario biografico degli
italiani. Il filosofo quantistico. L’avventure di Cardano, filosofo e giocatore
d'azzardo (Bollati Boringhieri, Torino Edizione); “La mia vita” (Milano, Luni).
Che sfortuna essere un genio. Indice delle Opera omnia Volume 1 Frontespizio Lettera
dedicatoria Praefatio Vita Cardani per Gabrielem
Naudaeum Testimonia Elenchus generalis Index
librorum tomi primi Previlege du roy 1.1De vita propria
Le redazioni del 1544, 1557 e 1562 (Archivio) 1.2De libris
propriis (Archivio) 1.3De Socratis studio (Archivio) 1.4Oratio ad I.
Alciatum Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis (Archivio)
1.5Actio in Thessalicum medicum (Archivio) 1.6Neronis
encomium (Archivio) 1.7Podagrae encomium (Archivio) 1.8Mnemosynon (Archivio)
1.9De orthographia (Archivio) 1.10De ludo aleae (Archivio) 1.11De
uno (Archivio) 1.12Hyperchen (Archivio) 1.13Dialectica (Archivio)
1.14Contradictiones logicae (Archivio) 1.15Norma vitae consarcinata, sacra
vocata (Archivio) 1.16Proxeneta (Archivio) 1.17De praeceptis ad
filios (Archivio) 1.18De optimo vitae genere (Archivio) 1.19De
sapientia (Archivio) 1.20De summo bono (Archivio) 1.21De
consolatione (Archivio) 1.22Dialogus Hieronymi Cardani et Facii Cardani
ipsius patris (Archivio) 1.23Dialogus Antigorgias seu de recta
vivendi ratione (Archivio) 1.24Dialogus Tetim seu de humanis consiliis
(Archivio) 1.25Dialogus Guglielmus seu de morte (Archivio) 1.26De minimis
et propinquis (Archivio) 1.27Hymnus seu canticum ad Deum (Archivio) Indice
rerum Volume 2 Frontespizio Index librorum tomi 2.1De
utilitate ex adversis capienda (Archivio) 2.2De natura (Archivio) 2.3Theonoston
seu de tranquilitate (Archivio) 2.4Theonoston seu de vita producenda (Archivio)
2.5Theonoston seu de animi immortalitate (Archivio) 2.6Theonoston seu de
contemplatione (Archivio) 2.7Theonoston seu hyperboraeorum historia (Archivio)
2.8De immortalitate animorum (Archivio) 2.9De secretis (Archivio)
2.10De gemmis et coloribus (Archivio) 2.11De aqua (Archivio) 2.12De
vitali aqua seu de aethere (Archivio) 2.13De aceti natura (Archivio)
2.14Problemata (Archivio) 2.15Se la qualità può trapassare di subbietto in
subbietto (Archivio) 2.16Discorso del vacuo (Archivio) De
fulgure liber unus Indice rerum Volume
3 Frontespizio Index librorum tomi 3.1De rerum
varietate (Archivio) 3.2De subtilitate (Archivio) 3.3In calumniatorem
librorum de subtilitate (Archivio) Indice rerum Volume
4 Frontespizio Index librorum tomi 4.1 De numerorum
proprietatibus (Archivio) 4.2Practica arithmeticae (Archivio)
4.3Libellus qui dicitur, Computus minor (Archivio) 4.4Ars
magna (Archivio) 4.5Ars magna arithmeticae (Archivio) 4.6De
aliza regula (Archivio) 4.7Sermo de plus et minus (Archivio)
4.8Geometriae encomium (Archivio) 4.9Exaereton
mathematicorum (Archivio) 4.10De proportionibus (Archivio)
4.11Operatione della linea (Archivio) 4.12Della natura de principii et
regole musicali (Archivio) Volume
5 Frontespizio Index librorum tomi 5.1De restitutione
temporum et motuum coelestium (Archivio) 5.2De providentia ex anni
constitutione (Archivio) 5.3Aphorismorum astronomicorum segmenta
septem (Archivio) 5.4In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis (Archivio)
5.5De septem erraticarum stellarum qualitatibus atque viribus (Archivio)
5.6De iudiciis geniturarum (Archivio) 5.7De exemplis centum
geniturarum (Archivio) 5.8Geniturarum exempla (Archivio) 5. De
interrogationibus (Archivio) 5.10De revolutionibus (Archivio) 5.11De
supplemento almanach (Archivio) 5.12Somniorum synesiorum (Archivio)
5.13Astrologiae encomium (Archivio) Volume 6 Frontespizio Index
librorum tomi 6.1 Medicinae encomium (Archivio) 6.2De sanitate
tuenda (Archivio) 6.3Contradicentium medicorum (Archivio) Volume
7 Frontespizio Index librorum tomi 7.1De usu ciborum (Archivio)
7.2De causis, signis ac locis morborum (Archivio) 7.3De
urinis (Archivio) 7.4Ars curandi parva (Archivio) 7.5 De methodo
medendi (Archivio) 7.6De cina radice (Archivio) 7.7De sarza
parilia (Archivio) 7.8Disputationes per epistolas liber
unus (Archivio) 7.9De venenis (Archivio) 7.10In librum Hippocratis de
alimento commentaria (Archivio) Volume 8 Frontespizio Index
librorum tomi 8.1In librum Hippocratis de aere, aquis et locis
commentaria (Archivio) 8.2In septem aphorismorum Hippocratis commentaria (Archivio)
8.3In Hippocratis coi prognostica commentaria (Archivio) Volume
9 Frontespizio Index librorum tomi 9.1In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria (Archivio) 9.2Examen XXII.
aegrorum Hippocratis (Archivio) 9.3Consilia (Archivio) 9.4De
dentibus (Archivio) 9.5De rationali curandi ratione (Archivio) 9.6De
facultatibus medicamentorum (Archivio) 9.7De morbo regio (Archivio)
9.8De morbis articularibus (Archivio) 9.9Floridorum libri sive
commentarii in Principem Hasen (Avicenna) (Archivio) 9.10Vita
Ludovici Ferrarii (Archivio) 9.11Vita Andreae Alciati (Archivio)
Volume 10 Frontespizio Index librorum tomi 10.1De arcanis
aeternitatis (Archivio) 10.2Politices seu Moralium liber
unus (Archivio) 10.3Elementa Graeca (Archivio) 10.4De
inventione (Archivio) 10.5 De naturalibus viribus (Archivio) 10.6 De
musica (Archivio) 10.7Artis arithmeticae tractatus de
integris (Archivio) 10.8Expositio Anatomiae Mundini (Archivio) 10.9In
libros Hippocratis de victu in acutis commentaria (Archivio) 10.10In
libros epidemiorum Hippocratis commentaria (Archivio) 10.11De
epilepsia (Archivio) 10.12De apoplexia (Archivio) 10.13De
humanis civilibus successionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.14De humana
perfectione (Paralipomena) (Archivio) 10.15Peri thaumason seu de
admirandis (Paralipomena) (Archivio) 10.16De dubiis naturalibus
(Paralipomena) (Archivio) 10.17De rebus factis raris et artificiis
(Paralipomena) (Archivio) 10.18De humana compositione naturalium
(Paralipomena) (Archivio) 10.19De mirabilibus morbis et symptomatibus
(Paralipomena) (Archivio) 10.20De astrorum et temporum ratione et
divisionibus (Paralipomena) (Archivio) 10.21De mathematicis quaesitis
(Paralipomena) (Archivio) 10.22Historiae lapidum, metallicorum et
metallorum (Paralipomena) (Archivio) 10.23Historiae animalium
(Paralipomena) (Archivio) 10.24Historiae plantarum
(Paralipomena) (Archivio) 10.25De anima (Paralipomena) (Archivio)
10.26De dubiis ex historiis (Paralipomena) (Archivio) 10.27De clarorum
virorum vita et libris (Paralipomena) (Archivio) 10.28De hominum
antiquorum illustrium iudicio (Paralipomena) (Archivio) 10.29De usu
hominum et dignotione eorum, tum cura et errore (Paralipomena) (Archivio)
10.30De sapiente (Paralipomena) (Archivio) Indice rerum. De
vita propria. De libris propriis. De Socratis studio. Oratio ad I. Alciatum
Cardinalem sive Tricipitis Geryonis aut Cerberi canis. Actio in Thessalicum
medicum. Neronis encomium. Podagrae encomium. Mnemosynon. De orthographia. De
ludo aleae. De uno. Hyperchen. Dialectica. Contradictiones logicae. Norma vitae
consarcinata, sacra vocata. Proxeneta. De praeceptis ad filios. De optimo vitae
genere. De sapientia. De summo bono. De consolatione. Dialogus Hieronymi Cardani
et Facii Cardani ipsius patris. Dialogus Antigorgias seu de recta vivendi
ratione. Dialogus Tetim seu de humanis consiliis. Dialogus Guglielmus seu de
morte. De minimis et propinquis. Hymnus seu canticum ad Deum. De utilitate ex
adversis capienda. De natura. Theonoston seu de tranquilitate. Theonoston seu
de vita producenda. Theonoston seu de animi immortalitate. Theonoston seu de
contemplatione. Theonoston seu hyperboraeorum historia. De immortalitate
animorum. De secretis. De gemmis et coloribus. De aqua. De vitali aqua seu de
aethere. De aceti natura. Problemata. Se la qualità può trapassare di subbietto
in subbietto. Del vacuo. De fulgure. De rerum varietate. De subtilitate. In
calumniatorem librorum de subtilitate. De numerorum proprietatibus. Practica
arithmeticae. Libellus qui dicitur, Computus minor. Ars magna. Ars magna
arithmeticae. De aliza regula. Sermo de plus et minus. Geometriae encomium.
Exaereton mathematicorum. De proportionibus. Operatione della linea. Della
natura de principii et regole musicali. De restitutione temporum et motuum
coelestium. De providentia ex anni constitutione. Aphorismorum astronomicorum
segmenta septem. In Cl. Ptolemaei de astrorum iudiciis. De septem erraticarum
stellarum qualitatibus atque viribus. De iudiciis geniturarum. De exemplis
centum geniturarum. Geniturarum exempla. De interrogationibus. De
revolutionibus. De supplemento almanach. Somniorum synesiorum. Astrologiae
encomium. Medicinae encomium. De sanitate tuenda. Contradicentium medicorum. De
usu ciborum. De causis, signis ac locis morborum. De urinis. Ars curandi parva.
De methodo medendi. De cina radice. De sarza parilia. Disputationes per
epistolas. De venenis. In librum Hippocratis de alimento commentaria. In librum
Hippocratis de aere, aquis et locis commentaria. In septem aphorismorum
Hippocratis commentaria. In Hippocratis coi prognostica commentaria. In librum
Hippocratis de septimestri partu commentaria. Examen XXII. aegrorum
Hippocratis. Consilia. De dentibus. De rationali curandi ratione. De facultatibus
medicamentorum. De morbo regio. De morbis articularibus. Floridorum libri sive
commentarii in Principem Hasen (Avicenna). Vita Ludovici Ferrarii. Vita Andreae
Alciati. De arcanis aeternitatis. Politices seu Moralium. Elementa Graeca. De
inventione. De naturalibus viribus. De musica. Artis arithmeticae tractatus de
integris. Expositio Anatomiae Mundini. In libros Hippocratis de victu in acutis
commentaria. In libros epidemiorum Hippocratis commentaria. De epilepsia. De
apoplexia. Paralipomena. De humanis civilibus successionibus. De humana
perfectione. Peri thaumason seu de admirandis. De dubiis naturalibus. De rebus
factis raris et artificiis. De humana compositione naturalium. De mirabilibus
morbis et symptomatibus. De astrorum et temporum ratione et divisionibus. De
mathematicis quaesitis. Historiae lapidum, metallicorum et metallorum.
Historiae animalium. Historiae plantarum. De anima. De dubiis ex historiis. De
clarorum virorum vita et libris. De hominum antiquorum illustrium iudicio. De
usu hominum et dignotione eorum, tum cura et errore. De sapiente.Hieronymus
Cardanus. Hieronimo Cardano. Gerolamo Cardano. Keywords: masculinity, machio –
maschile, Prospero, De signo, De signis, de Casis, signis, ac locis Morborum,
ten volumes of “Opera omnia” analytic index – he wrote about almost everything
– including logic, dialettica, metafisica, psicologia, anima, fisionomia,
same-sex, he criticised Galenus for not realizing the distinction that at 14, a
puer becomes an adolescent – his oeuvre is being examined in masculinity
studies – masculinity Italian, Bolognese masculinity. He claimed that Bolognese
males were ‘tasteful’ and underrated compared to Milaenese or Florentine males
– he lived all over the place – he had many tutees, whose names survive – he was
possibly paranoid – Silvestri was his best known tutee –analytic index of
“Opera Omnia” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.
CARDANO (Lumellogno).
Filosofo. lombardia -- Grice: “If William was called Ockham, I should be called
Harborne, and Petrus Lombardia!” -- Pietro Lombardo rappresentato in una miniatura a
decorazione di una littera notabilior di un manoscritto Pietro Lombardo o Pier
Lombardo (Lumellogno di Novara, 1100Parigi, 1160 circa) teologo e vescovo
italiano. Nacque a Novara o nei dintorni (a Lumellogno esiste una lapide
su di una casa che risorda il luogo della nascita) , all'inizio del XII secolo.
Ricevette la sua prima formazione teologica a Bologna, dove acquisì una
perfetta conoscenza del Decretum Gratiani. Dopo il 1136 si recò a Reims e poi a
Parigi, dove fino alla sua elevazione alla sede vescovile di questa città
(1159) insegnò teologia. Almeno una volta in questo periodo, tra il 1145 e il
1153, si recò alla corte pontificia, dove venne a conoscenza della traduzione
del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno, compiuta da Burgundio Pisano per
incarico di Eugenio III. Quasi certamente nel 1147 fu uno dei teologi che nel
sinodo parigino presero posizione contro Gilberto Porretano. Dopo un
breve episcopato (1159-1160) morì il 21 o 22 luglio del 1160 (non del 1164). Il
suo epitaffio si conservò nella chiesa di Saint Marcel fino alla Rivoluzione
francese. Dante lo nomina in Paradiso, X, 106-108. Oltre ai commenti
all'opera di Paolo di Tarso e ai Salmi, la sua opera maggiore rimane il Liber
Sententiarum (Libro delle Sentenze), scritta fra il 1150 ed il 1152 e per la
quale ottenne l'appellativo di Magister Sententiarum. Sebbene il testo rientri
in un genere letterario tipico della teologia medievale, ossia l'esposizione
delle sentenze delle autorità di fede (i padri della chiesa ed i riferimenti
biblici) l'opera del Lombardo, per l'ampiezza delle fonti e la sua originalità,
diverrà il testo di riferimento per la didattica nelle facoltà di teologia e
l'elaborazione letteraria nello stesso campo fino alla fine del XVI secolo.
Egli infatti attinge ad una vasta letteratura in merito, adottando anche testi
che normalmente non erano contemplati in queste composizioni, come Il De fide
ortodoxa di Giovanni Damasceno. Con la sua opera il Lombardo tenta di
sistematizzare e armonizzare la disparità e le divergenze che la pluralità
delle auctoritates aveva generato, dando luogo ad un certo scompiglio
ermeneutico e dottrinale. Riprendendo la classica distinzione agostiniana tra
signa e res, Lombardo afferma che il motivo delle divergenze non appartiene
alla natura delle cose trattate, bensì alla metodologia esegetica. Il
testo si divide in quattro parti: la prima tratta di Dio, della sua
natura e dei suoi attributi; la seconda delle creazione degli angeli, del mondo
e dell'uomo sino al peccato originale; la terza dell'incarnazione cristica e
della promessa della Grazia; la quarta dei sacramenti. Anche lo sviluppo del
testo mantiene la distinzione tra res (le prime tre parti) e signa (l'ultima)
Lo stile del Lombardo snoda l'esposizione delle sentenze coll'eleganza
dialettica di tipo anselmiano mantenendosi aderente al rispetto delle varie auctoritates
anche riguardo o stile letterario col quale egli opera una volontaria
mimesi. Il testo venne criticato sin dalla sua prima uscita per via del
cosiddetto nichilismo cristologico. Lombardo descrive infatti l'incarnazione
nei termini di assumptus homo, ossia la persona divina del Cristo avrebbe
assunto una natura umana (accessoriamente). Ciò contrastava con la
determinazione di origine boeziana per la quale la natura cristologica traeva
la sua forma da un sinolo unico di divino ed umano. Note Per approfondimenti vedere: Nicola Abbagnano,
Storia della filosofia, II, pag.30 e
seg. Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale
l'Espresso, Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola
Abbagnano, Storia della filosofia I, II,
III, quarta edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di
Filosofia, terza edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino,
Utet 1998) Nicola Abbagnano, Storia
della filosofia, II, pag. 37 e seg.
Novara, Istituto Geografico de Agostini, 2006 per Gruppo Editoriale l'Espresso,
Roma (I contenuti di questo volume sono tratti da: Nicola Abbagnano, Storia
della filosofia I, II, III, quarta
edizione, Torino, Utet, 1993 e Nicola Abbagnano, Dizionario di Filosofia, terza
edizione aggiornata ed ampliata da Giovanni Fornero, Torino, Utet 1998) Marcia L. Colish, Peter Lombard, Leiden,
Brill, 1994 (due volumi). Pietro Lombardo. Atti del XLIII Convegno storico
internazionale : Todi, 8-10 ottobre 2006, Spoleto, Fondazione Centro italiano
di studi sull'alto Medioevo, 2007.
Minuscule 714il manoscritto del Nuovo Testamento e di
"Sententiae". Libri Quattuor Sententiarum Scolastica (filosofia)
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Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Pietro Lombardo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Francesco Siri, Pietro Lombardo, in
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(altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra
versione) / Pietro Lombardo (altra versione) / Pietro Lombardo (altra versione)
/ Pietro Lombardo (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere
di Pietro Lombardo, . su Pietro
Lombardo, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Pietro Lombardo, in
Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.
Sofia Vanni Rovighi, Pietro Lombardo, in Enciclopedia dantesca, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1970. Petrus Lombardus, Opera Omnia dal Migne
Patrologia Latina con indici analitici.Hugh Chisholm , Peter Lombard, in
Enciclopedia Britannica, XI, Cambridge University Press. Refs.: Luigi
Speranza, “Philosophical psychology in the commentaries of Pietro Lombardo and
Grice,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice,
Liguria, Italia. Lombardia Grice: “It is strange that
he was called Piero da Lombardia; it would be like ‘a lad from shropshire.’
‘Lombardia,’ unlike Ockham, ain’t a townbut a full regionIt’s different with
‘veneto,’ which is toponymic and metonymic for Venice. But if Milano was the
main ever settlement in Lombardia this would be “Peter, the one from Milan.”
Lombardo Pietro Lombardo Lumellogno Cardano – Grice: “It’s only natural that he
was Pietro Cardano – after the city in Lombardy, Cardano – Plus, the
implicature that he went by “Peter of Lombardy” having been born in Piemonte,
means that the locals never saw him as one of their own!” -- Pietro Cardano – la stirpe Cardano 1600 --.
Familia patrizia di Novara. Pietro
Cardano. Keywords: Cardano. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cardano” – The Swimming-Pool Library.
CARDIA (Roma). Filosofo.
Grice: “Cardia is what I would call the Italian Hart – with a tweak – Italy and
religion is Cardia’s forte – recall that the bishop of Rome has the roots in
the ‘pontifex’ of old Rome, so he knows what he’s talking about!” – Grice:
“Like me, Cardia has philosophised, as what the Italians call a professore di
filosofia del diritto, on the ethical versus legal implicatures of the very
idea of a ‘right’ (diritto). We don’t have that economy of vocabulary in Engish
– calling Hart the professor of right would be unnacepptable at Oxford!”. Si
laurea a Roma. Clifton has chapel services and a focus on Christianity. This is
the Chapel: here, my son, Your father thought the thoughts of youth, And heard
the words that one by one The touch of Life has turn'd to truth. Here in a day
that is not far, You too may speak with noble ghosts Of manhood and the vows of
war You made before the Lord of Hosts. The magnificent Chapel sits at the heart
of Clifton both spiritually and physically and has played an important part of
life. Topped by a striking copper-clad lantern and built from soft red and
honey-coloured stone, the Chapel provides Christian calm, and forms a powerful
link between past and present. It is a place where the community come to mark
milestones and celebrate successes, and for quiet contemplation or spiritual
guidance. Brass plates placed on the back of the staff stalls mark the
names of all those who have carved out a reputation. High on the walls are
memorials of pupils of another age who died by accident or disease serving the
Empire. One bears the moving epitaph ‘A good life hath but few days but a good
name endureth forever.’ The
Chapel was built to a design by C. Hansom. It is a narrow aisleless building. It is the gift of the widow of W. J. Guthrie.
Hansom is given permission to quarry sufficient stone from the grounds of
Clifton for the purposes of the Chapel building". The Chapel building is
licensed by the Bishop of Gloucester and Bristol. Stato,
Chiese e pluralismo confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it)
settembre 2007 ISSN 1971- 8543 Nicola Colaianni (ordinario di Diritto
ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di
Bari) Quale laicità * Con questo libro Carlo Cardia si affaccia sul versante
polemistico della letteratura giuridica con la maestria affinata attraverso una
copiosa produzione saggistica e con la non comune versatilità che negli ultimi
anni lo ha portato ad occuparsi dei problemi di tutela non solo delle
confessioni religiose ma anche dei diritti umani. I bersagli della polemica
sono indicati nel sottotitolo: etica, multiculturalismo, islam, non in sé
naturalmente ma in quanto declinati in maniera rispettivamente relativistica,
separatistica, fondamentalistica. Capaci cioè di esaltare le identità oltre
ogni limite e di attentare, quindi, a quello “stato laico sociale” che, dopo
secoli di storia travagliata e i totalitarismi del secolo breve, a cavallo del
nuovo millennio ha trionfato un po’ dovunque in Europa e in tutto l’occidente.
Questo carattere ben si coglie secondo l’autore nella “rivincita dei
concordati”. Un fenomeno effettivamente impressionante, tanto più perché si
inserisce in un trend favorevole alle relazioni con le confessioni, da cui non
prendono le distanze neanche l’Unione europea, in base ad una dichiarazione allegata
al trattato di Amsterdam, e la Francia della Loi de séparation, secondo le
proposte della commissione governativa Machelon1 . Da esso Cardia deduce che lo
stato è ormai amico delle religioni, che contribuisce attivamente a sottrarre
all’irrilevanza degli affari privati e a reimmettere nel circuito pubblico,
relegando l’ostilità del laicismo ottocentesco nel museo della memoria. *
Recensione a C. CARDIA, Le sfide della laicità. Etica, multiculturalismo,
islam, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2007, pp. 202, destinata alla
pubblicazione sulla rivista “Laicità”, Torino, n. 3 del 2007. 1 Cfr. F.
MARGIOTTA BROGLIO, su Reset, n. 102/2007. Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN
1971- 8543 2 Dal quale non varranno a riesumarla le “guerricciole”, rinfocolate
dal “micro-massimalismo” di chi spera di “rivivere un po’ dell’epopea del
passato” e non si accorge che ormai lo stato italiano gli accordi li fa anche
con confessioni non cattoliche e, peraltro, non è l’unico ad integrare le
scuole private e confessionali nel sistema scolastico, ad assicurare
l’insegnamento religioso confessionale nelle scuole pubbliche, a finanziare
lautamente la chiesa cattolica ma anche le altre confessioni. L’agile sintesi
storico-politica, condotta nella prima metà del libro, consente a Cardia di
avallare questa laicità realistica, che ad altri2 è sembrata più propriamente
“praticistica”. A quella stregua l’autore tratta con sufficienza i rinnovati
contrasti tra stato e chiesa (che pure sono al centro delle preoccupazioni di
altri libri coevi3 ) tanto quanto con drammaticità le sfide suindicate. A
cominciare dal multiculturalismo, che in effetti nella versione spinta si
presenta sotto la forma di un comunitarismo senza coesione. Il “fascino
discreto” che in molti differenzialisti suscitano gli statuti personali, di
medioevale o ottomana memoria, è giustamente visto come una relativizzazione
della laicità: a vantaggio, in particolare, dell’islam. Ovviamente Cardia è severo
con la “partita giocata su due tavoli”: non si può invocare la laicità contro i
“simboli e la memoria del cristianesimo” e a favore di quelli dell’islam, per
cui “verrebbero estromessi i crocifissi, ma sarebbero ammessi il velo e la
preghiera degli islamici”. Ma i termini del paragone sono omogenei solo
apparentemente: il crocifisso fa problema per la laicità non se portato addosso
al corpo, se fa parte del libero abbigliamento dei cittadini (come il velo o
altri segni religiosi), ma in quanto esposto autoritativamente, cioè imposto,
negli spazi pubblici, scolastici, giudiziari. In effetti, è tutta la seconda
parte del libro a risentire di questa drammatizzazione impressa ai vari
scenari. Islam versus cristianesimo. Di là un sistema chiuso ad ogni interpretazione
evolutiva, un’identità fissa e immutabile, di qua una religione tollerante,
aperta all’interpretazione storico-critica dei testi sacri e alla laicità, la
quale in essa sarebbe addirittura “germinata”. La schematizzazione
diventa 2 Per esempio a P. BELLINI nel libro coevo Il diritto
d’essere se stessi. Discorrendo dell’idea di laicità. 3 Come quelli di G.
ZAGREBELSKY, Lo stato e la chiesa, o di E. BIANCHI, La differenza cristiana, o
di G.E. RUSCONI, Non abusare di Dio. Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN
1971- 8543 3 inevitabile. In realtà, l’involuzione della seconda metà del XX
secolo, a parte i fanatismi e i terrorismi, non è riuscita a spegnere le
numerose voci laiche dell’islam moderno4 né, a livello istituzionale, ad
annullare, pur frenandola, l’applicazione negli stati islamici di una legge non
religiosa, il kanun, “nel senso laico di ‘legge di stato’ (…) in
contrapposizione alla sharī ‘a” 5 . D’altro canto, bisogna riconoscere che
abbiamo tutti sovracaricato il detto evangelico “Quae sunt Caesaris Caesari,
quae sunt Dei Deo” di un significato improprio e anacronistico, in termini
appunto di laicità, che nessun biblista ha mai potuto avallare (vorrei
ricordare qui almeno Giuseppe Barbaglio, che ci ha lasciato pochi mesi fa: nel
suo La laicità del credente non cita mai il versetto di Matteo). Storicamente
poi, anche a voler retrodatare – seguendo Ernst-Wolfgang Böckenförde6 - alla
lotta delle investiture l’inizio del processo di secolarizzazione, non v’è
dubbio che per secoli la chiesa ha sostenuto la supremazia del potere
spirituale ratione peccati o salutis anche nella sfera mondana. E al giorno
d’oggi la più netta distinzione degli ordini formulata dal Concilio non sta impedendo
il tentativo di informare la legislazione italiana al magistero ecclesiastico:
è la chiesa dei no alla procreazione medica assistita (divieto dell’eterologa,
della diagnosi preimpianto dell’embrione), al testamento biologico, visto come
anticamera di pratiche eutanasiche, al riconoscimento pubblico di unioni civili
in qualsiasi forma (pacs, dico, cus, ecc.), emblematicamente (a luglio alla
Camera) al richiamo del principio di laicità come fondamento di una legge sulla
libertà di religione (che pur non tocca la chiesa cattolica). Neanche Cardia
indulge su questi punti. Il suo no è altrettanto netto. In nome della laicità e
contro il relativismo etico. Ma poiché su quei punti, con varie sfumature, il
pensiero laico (di non credenti e agnostici ma anche di credenti) è per il sì,
è evidente che ci si trova davanti ad una diversa concezione della laicità.
Tanto rispettabile nei suoi riferimenti eteronomi, divini o naturali e perciò
antichi o “ancestrali”, quanto incapace di far capire - per dirla con Jürgen
Habermas7 - “quale ruolo e significato i fondamenti giuridici
secolarizzati della costituzione possono avere per una società 4
Cfr. l’antologia di P. BRANCA e quelle più recenti di V. COLOMBO. 5 Così
ne Il linguaggio politico dell’Islam B. LEWIS, studioso fra i più citati nel
libro. 6 Cfr. E.-W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione. 7 Cfr.
J. HABERMAS, Il futuro della natura umana. Stato, Chiese e pluralismo
confessionale Rivista telematica (www.statoechiese.it) settembre 2007 ISSN 1971-
8543 4 postsecolare”, come la nostra. In una democrazia necessariamente
relativistica (se, al contrario, fosse assolutistica non sarebbe democrazia,
insegna Kelsen) la laicità alimenta norme non di supremazia ma di
compatibilità, espressive di una vocazione non paternalistica, ma
responsabilizzante, nei rapporti tra stato e cittadini: visti non come meri
educandi, da guidare nelle scelte etiche in base a valori esterni, ma come
persone responsabili delle loro scelte nella propria autonomia e capaci di
mediarle alla ricerca di quella “giusta”8 . Una laicità pluralistica e perciò
non espressiva di una sola cultura ma interculturale (come dovrebbe porsi ormai
tutto il diritto secondo Otfried Höffe9 ). Le cui sfide, e il libro di Cardia
stimola ad intraprendere questo percorso di riflessione, non vengono da una
parte sola. 8 In questo senso rilegge il da mi factum, dabo tibi
ius S. RODOTÀ, La vita e le regole. 9 Cfr. O. HÖFFE, Globalizzazione e
diritto penale. LA
LAICITA’ IN ITALIA (Carlo Cardia) (Convegno Giuristi cattolici, 9 dicembre
2006) Sommario. Premessa. 1. La laicità in Italia tra conflitto e moderazione.
2. Laicismo, intransigenza cattolica, isolamento culturale. 3. Dai Patti
Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo. 4. La crisi della
laicità. Laicità ed etica. 5. Cultura laica e questione islamica. 6. Laicità e
multiculturalismo. Ambiguità e prospettive. Premessa. E’ mia intenzione
soffermarmi sulle problematiche attuali della laicità in Italia, anche perché
sono diverse e complesse. Però, penso sia necessario dare spazio a qualche
riflessione storica che ci aiuti a comprendere meglio le questioni che abbiamo
di fronte nel tempo presente. Si tratta, più che di una analisi organica, di
spunti ricostruttivi utili a cogliere alcune costanti della nostra tradizione.
Ho avvertito questa esigenza perché l’esperienza italiana ha un tratto
caratteristico che non si rinviene altrove, avendo dato vita nello spazio di
poco più di un secolo a tre tipologie diverse di relazioni ecclesiastiche: una
laico-separatista, una di tipo concordatario neo-confessionista, e quella
costituzionale che poi si è evoluta nel quadro di una Europa che ha finito per
seguire il nostro modello. Infine, l’Italia sta vivendo una vera crisi della
laicità, in rapporto alla questione etica, e al multiculturalismo, ed è entrata
in quella globalizzazione dei rapporti tra religione e società che riguarda
l’Occidente nel suo complesso. Quindi, l’esperienza italiana non è
comprensibile all’interno di un solo orizzonte storico-culturale, mentre
l’analisi deve mantenere un respiro più ampio e saper individuare delle linee
trasversali di riflessione, dei fili conduttori che chiariscano il percorso
storico complessivo che si è compiuto. 1. La laicità in Italia tra conflitto e
moderazione Il primo filo conduttore che voglio privilegiare è il rapporto che
si è determinato tra conflitto e moderazione, tra correnti estreme del pensiero
laico, e di quello cattolico, e soluzioni storico- 2 normative che sono state
adottate. La storiografia più accreditata ci ha abituati a interpretare questo
rapporto a tutto favore della conflittualità e a discapito della moderazione.
Ancora oggi il conflitto tra Stato e Chiesa è considerato un tratto eminente
della storia italiana, il punto focale che illumina tutto il resto. Il processo
di unificazione nazionale viene letto alla luce del contrasto tra laici e
cattolici, della fine del potere temporale, della prevalenza della
modernizzazione sul conservatorismo cattolico. Anche l’epoca autoritaria che dà
vita ai Patti Lateranensi è vista in chiave di rivincita cattolica e di
sconfitta laica, come un rovesciamento di fronte rispetto all’epoca liberale.
Questa interpretazione resta valida perché permette di capire tante pagine
della nostra storia nazionale, ma può essere integrata con un’altra chiave di
lettura che aiuti a vedere anche i chiaro-scuri, i toni più morbidi, della
storia italiana. Questa chiave di lettura è quella della moderazione e
dell’equilibrio che, pur nelle vicende aspre che conosciamo, ha segnato la storia
italiana. L’Italia è stata moderata ed equilibrata nel separatismo, in parte
nel sistema concordatario del 1929, in modo speciale nella elaborazione della
Costituzione. Quando parlo di moderazione non intendo esaltare il carattere per
così dire compromissorio generalmente riconosciuto alla genti italiche. Mi
riferisco ad un dato realmente presente nelle nostre leggi, in ampi settori
della cultura laica e di quella cattolica, che ci aiuta a meglio comprendere la
storia e l’evoluzione della laicità in Italia. La moderazione del periodo
separatista si manifesta in tanti modi, ma nell’insieme consente all’Italia di
operare un sottile, solido compromesso con l’anima cattolica del paese su punti
essenziali, ed evita l’affermazione di tendenze francesizzanti che pure
esistono in esponenti della classe dirigente liberale. In Italia non si afferma
mai l’idea della reformatio ecclesiae come obiettivo proprio dello Stato.
L’aspirazione ad una evoluzione della Chiesa è parte integrante del pensiero
laico e dei riformatori cattolici dell’Ottocento, ma da noi non si trovano
tracce significative di quel disegno (tipicamente transalpino) che mira alla
costituzione civile del clero, a stravolgere le strutture ecclesiastiche, a
creare una chiesa nazionale quieta e obbediente al potere civile. La struttura
della Chiesa, gli enti ecclesiastici mantenuti, l’educazione e la disciplina
del clero, non subiscono ingerenze o stravolgimenti diretti a modificarne la
natura. Nel dibattito sulle Facoltà di teologia è il ministro Correnti che
respinge le tentazioni giurisdizionaliste e afferma che lo Stato non ha “né
interesse, né volontà, né facoltà di creare teologi”, che l’evoluzione della
religione è compito della Chiesa, e la “Chiesa troverà in sé stessa, e solo in
se stessa può trovare, la volontà e la forza di ravvicinarsi” alla modernità.
L’unico intervento chirurgico è quello che sopprime le corporazioni e le
congregazioni religiose. Ma anche in questo intervento, che storicamente si
giustifica con la necessità di ridistribuire la grande proprietà ecclesiastica,
non mancano i segni di moderazione, se vogliamo della dissimulazione. Come
quando le comunità religiose si ricostituiscono progressivamente al riparo
delle c.d. frodi pie, che consentono l’utilizzazioni di proprietà immobiliari
messe a disposizione da veri prestanome. Comunque, a nessuno in Italia è mai
venuto in mente di adottare leggi draconiane come quelle transalpine del 1901 e
1902, la prima che vieta alle congregazioni religiose non riconosciute
l’insegnamento, la seconda che prevede multa e carcere per chi apra una scuola
nella quale insegni anche un solo religioso. Ho sfioato il problema della
scuola, perché su questo terreno si opera il più grande compromesso italiano,
sul quale storici e giuristi si soffermano poco. Alla laicizzazione della
scuola italiana, con la Legge Casati del 1859, non segue la cancellazione della
presenza cattolica nel corpo scolastico pubblico. Se l’insegnamento religioso
viene escluso nelle scuole superiori, rimane però in quelle elementari. La
Legge Coppino del 1877 non dice nulla al 3 riguardo, e questo silenzio,
con l’aiuto del Consiglio di Stato, consente di mantenere l’insegnamento
religioso che, ci dice Francesco Scaduto, viene attivato da quasi tutti i
Consigli comunali e seguito dalla totalità delle famiglie italiane. Neanche si
può dire che la questione passi sotto silenzio, perché un Regolamento del 1908
conferma l’insegnamento religioso, e la Camera respinge nello stesso anno una
mozione di Bissolati che chiede di vietare ogni presenza religiosa nelle
scuole. Molto chiaramente Minghetti compara gli inconvenienti di una scuola che
preveda l’insegnamento religioso a quelli di una scuola che lo esclude, e
afferma che “i primi saranno sempre minori di quelli di una scuola che dovrebbe
essere popolare, ma che senza Dio ripugna alla coscienza popolare e addiviene
atta a soddisfare soltanto una piccola minoranza”. Si può dire che è poco,
invece è moltissimo, perché la scuola elementare è l’unica vera scuola di massa
dell’epoca. Per questa ragione l’Italia separatista ha operato le grandi
riforme della modernità ma ha saputo mantenere un raccordo di fondo tra il
sentire comune della popolazione e una legislazione non aggressiva e non
punitiva. E’ l’Italia laica e separatista che affida ai maestri e alle
maestrine della letteratura dell’Ottocento l’onere di trasmettere elementari ma
importanti valori religiosi e morali nelle nuove generazioni. 2. Laicismo,
intransigenza cattolica, isolamento culturale L’elogio della moderazione non
deve fare aggio sull’altro fattore endemico dell’esperienza italiana, su quella
arretratezza che, in modo diverso, caratterizza alcuni settori della cultura
laica, e della cultura cattolica, e che provoca per lungo tempo un isolamento
rispetto ad altre più avanzate esperienze europee e alla cultura anglosassone,
cioè rispetto al resto del mondo. Mi riferisco alle correnti laiciste che
animano la cultura politica, danno vita al pensiero più autenticamente
anticlericale, rendono la laicità ostile alla religione. Ma anche all’arroccarsi
di quell’intransigenza che frena la capacità di iniziativa dei cattolici, li
estranea a lungo dalla vita politica del Paese. Nel conflitto, e nel corto
circuito, tra intransigenza cattolica e correnti laiciste sta la radice di una
chiusura provinciale che in Italia condiziona a lungo le relazioni
ecclesiastiche. Il radicarsi di queste tendenze immette nella cultura italiana
semi che tornano a fiorire di tanto in tanto. Il laicismo estremo produce
cultura, mentalità, costume, e fa sì che anche da noi come in Francia e in
Spagna, laicità voglia dire tante cose negative: estraniazione della religione
dalla società e dalla dimensione pubblica, ostilità alla scuola privata
nonostante il liberalismo sia altrove il difensore del pluralismo scolastico,
riduzione della Chiesa ad un ambito puramente cultuale. In Italia, come
oltr’Alpe, il termine laico è contrapposto a cattolico, e questa antitesi,
sconosciuta nei paesi anglosassoni, diviene da noi categoria del pensiero e del
linguaggio. Quando faccio riferimento alle tendenze laiciste mi riferisco sia
all’anticlericalismo di matrice ottocentesca che alle correnti culturali di
grande dignità che da Spaventa a Bissolati rivivono poi in Gaetano Salvemini e
in Ernesto Rossi, e che di più aspirano ad una Chiesa riformata, apparentemente
tutta spirituale ma muta sul piano civile e sociale. Queste correnti si
ravvivano quando l’accordo del 1929 tra Chiesa e fascismo di fatto umilia la
laicità, provocando una frattura seria tra la cultura laica ed un cattolicesimo
al quale viene restituito un ruolo di primo piano, ma con il sacrificio di
altre idealità e di altri ruoli. Anche 4 l’intransigenza cattolica
riaffiora più volte nella storia italiana, impedisce a tratti di cogliere le
trasformazioni della società, di discernere gli aspetti positivi dalle spinte
disgreganti, porta all’arroccamento su posizioni che potrebbero essere evitate.
La critica più autentica a questo corto circuito non è diretta alle singole
posizioni radicali che produce, quanto al fatto che da lì è derivato un certo
isolamento rispetto alla cultura anglosassone, rispetto ad altre esperienze
europee, come quelle dell’Olanda, del Belgio e della Germania, dove già
nell’Ottocento maturano equilibri più stabili tra religione e società. Una
conferma di questo provincialismo sta nell’incomunicabilità tra esperienza
italiana ed esperienza statunitense, alla quale pure molti laici si richiamano,
senza mai averla capita e forse conosciuta. Lo stesso Salvemini, che pure
conosceva la società americana, di quell’esperienza evoca sempre e soltanto la
parola separatismo, non i suoi contenuti, né la sua anima pregna di rispetto e
di amicizia verso la religione. Possiamo verificare questa lontananza della
cultura laica rispetto alle correnti del pensiero anglosassone su un
particolare problema, quello della scuola privata, nel quale il liberalismo
italiano si è discostato dai canoni del liberalismo classico per seguire un
indirizzo statalistico destinato a dominare a lungo. C’un dibattito di metà
Ottocento (oggi dimenticato ma molto importante all’epoca) nel quale Domenico
Berti critica quei liberali che per paura di monopolio combattono la libertà di
insegnamento, e afferma che questa trae il suo diritto dall’individuo medesimo,
dalla sua libertà, ed è da annoverarsi tra “gli altri diritti naturali”. E’
Bertando Spaventa che si oppone a Berti ed esplicita la vera ragione della
contrarietà alla scuola privata. La ragione sta nel fatto che “i paladini” del
libero insegnamento finiscono per portare acqua al mulino della “libertà del
papa”, perché in Italia dare via libera alle scuole private vuol dire favorire
la scuola cattolica. Quindi, con grande trasparenza si riconosce che il vero
liberalismo postula la libertà della scuola, ma in Italia questo liberalismo
non è praticabile perché se ne avvarrebbero i cattolici. Insomma, al
liberalismo si ricorre quando fa comodo, altrimenti lo si mette da parte. 3.
Dai Patti Lateranensi al modello costituzionale di respiro europeo In Italia,
però, si ritrova un altro elemento equilibratore che consente di attenuare le
asperità e finisce col favorire le soluzioni strategiche adottate in sede di
Costituente. Parlo di quella questione romana che nessun altro Paese conosce, e
che tocca all’Italia affrontare e risolvere in modo autonomo. Anche su questo
problema vorrei offrire uno spunto ricostruttivo diverso rispetto alla
storiografia prevalente. E’ vero che la questione romana ha costituito il punto
di maggiore attrito tra Stato e Chiesa, ed ha agito come coagulo
dell’intransigenza cattolica e come bersaglio dell’anticlericalismo. Tuttavia,
pur nei termini del conflitto che conosciamo, essa ha rappresentato anche un
elemento equilibratore nel periodo separatista, nel 1929 con la stipulazione
dei Patti Lateranensi, soprattutto all’atto della elaborazione della
Costituzione democratica. Quando parlo di elemento equilibratore intendo dire
che la presenza della Santa Sede ha fatto uscire il meglio di sé dalla classe
dirigente liberale nell’Ottocento, ha attenuato gli effetti che i Patti Lateranensi
hanno avuto sulla società italiana, ha favorito notevolmente il lavoro che
ha 5 portato alla formulazione del disegno costituzionale complessivo dei
rapporti tra Stato e Chiesa. Già nell’Ottocento, la classe dirigente liberale
conferma la propria lungimiranza con quella Legge delle Guarentigie che, pur
temporaneamente, risolve la più grande questione storica europea, e, dovendo
misurarsi con un evento che interessa i cattolici di tutto il mondo, si rivela
capace di ad attenuare, smussare, equilibrare le asperità del separatismo.
Anche nel 1929, quando il Concordato ferisce duramente la laicità e la cultura
laica italiana, la soluzione definitiva del questione romana stempera il valore
politico del patto con il fascismo. Non a caso il giudizio delle forze
politiche antifasciste sui Patti Lateranensi si presenta come scisso in due:
severo e aspro, anche da parte cattolica, nei confronti dell’accordo politico
tra Chiesa e fascismo e del Concordato, ma positivo e accogliente nei confronti
del Trattato del Laterano. Sin dall’inizio Benedetto Croce approva la soluzione
della questione romana, riservando le sue critiche al Concordato. Ma anche
Gaetano Salvemini, durissimo con il Concordato, riconosce che la questione
romana è ben risolta, anzi afferma che ciò che è stato fatto nel 1929 avrebbero
dovuto farlo i liberali nel 1871. Infine, i programmi elaborati dai leader
dell’antifascismo durante la guerra in vista della ricostruzione del Paese,
concordano nel non voler rimettere in discussione i risultati del Trattato del
Laterano. Credo si possa dire che, senza una questione romana risolta in quel
modo nel 1929, forse non avremmo avuto quel tipo di rapporti con la Chiesa che
l’Italia ha elaborato nel 1946-47 e che ha saputo anticipare un modello oggi
utilizzato in un numero considerevole di Paesi europei. Nell’incontro tra le
correnti del cattolicesimo democratico e la maggioranza della cultura laica,
l’Italia trova il modo di abbandonare un certo provincialismo e riesce a
parlare un linguaggio europeo, supera quel corto circuito che l’aveva
appesantita a lungo. Le scelte del costituente non sono riconducibili al solo
articolo 7, quanto alla maturazione di una laicità che è destinata a fare
scuola, a prefigurare un modello di Stato laico sociale che diverrà prevalente
nell’Europa che si unisce e conosce la fine dei totalitarismi. Si tratta di una
laicità complessa dove converge il meglio della tradizione separatista (in
materia di libertà religiosa), e dove il laicismo è superato dal riconoscimento
pieno della presenza e del ruolo sociale della religione. Si abbatte il muro
della incomunicabilità tra religione e società, si conferma e si estende il
metodo della contrattazione e dell’incontro, tra Stato e Chiese; si supera
l’ultimo tabù dell’Ottocento, per il quale nessun culto dovrebbe essere
finanziato dallo Stato perché lo impedirebbero le differenti opinioni religiose
dei cittadini. Sul finire del Novecento questo Stato laico sociale trionfa un
po’ dovunque. Non si contano più i concordati tra Santa Sede e Stati in Europa,
che sono oltre 20, come non si contano più intese, accordi, convenzioni tra
Stato e confessioni religiose, protestanti, ebraica, islamica, e altro ancora.
Ma è nel merito delle relazioni ecclesiastiche che il modello italiano fa
scuola in Europa. Dall’Atlantico alla Russia, ovunque troviamo una laicità
fondata su principi comuni: libertà religiosa, tutelata nel quadro dei diritti
umani, riconoscimento delle Chiese come entità impegnate in molteplici
attività, sostegno pubblico alle confessioni. Insomma, un mixer tra la
tradizione nordamericana di amicizia verso la religione, e la tradizione
europea di contrattazione e reciproca integrazione. Tanto solido è questo nuovo
orizzonte di laicità sociale che ormai in Europa si discute di riforma dei rapporti
tra Stato e Chiesa soltanto in Inghilterra e nei Paesi protestanti del nord,
dove ancora esistono Chiese ufficiali sottomesse e apparentate alle dinastie
regnanti. 6 4. La crisi della laicità. Laicità ed etica La laicità,
invece, torna di attualità e vive una crisi di cui non siamo ancora pienamente
consapevoli, su terreni nuovi e in editi, come quelli dell’etica e del
multiculturalismo. Si tratta di fenomeni molto diversi, perché nel primo caso
siamo di fronte ad un uso indebito, quasi una strumentalizzazione, del concetto
di laicità, nel secondo assistiamo ad un pericoloso arretramento dei valori più
intimi dello Stato laico. Non entro nel merito del rapporto tra etica e
diritto. Non è oggetto della mia relazione, non è possibile neanche sfiorarlo nella
sua complessità. La mia attenzione è più ristretta, riguarda il rapporto che
esisterebbe tra laicità ed etica nel momento in cui un ordinamento è chiamato a
pronunciarsi su questioni decisive per la collettività, come la famiglia,
l’ingegneria genetica, l’eutanasia, e via di seguito. Alcune elaborazione
teoriche danno per scontato che il pluralismo etico non è che un altro aspetto
del pluralismo religioso, e “come oggi ammettiamo e rispettiamo le varie
confessioni religiose (…), così dobbiamo riconoscere le varie moralità che
affiancano o sostituiscono la fede religiosa”. D’altra parte, si aggiunge, come
nella religione non si dà verità oggettiva, ma solo opinioni, così in campo
etico lo Stato deve accettare tutte le convinzioni e le scelte che si contendono
il campo. Questa similitudine tra religione ed etica è accattivante, ma
nasconde un’insidia dialettica. In primo luogo perché la neutralità dello Stato
riguarda le convinzioni religiose, la sfera più intima della spiritualità e
della coscienza, non i comportamenti delle persone, tanto meno quelli che
coinvolgono gli altri. In questa materia la legge non pretende mai di definire
qual è la verità, ma sceglie sulla base di valori che hanno una loro validità
nel tempo, nella struttura sociale nella quale si incarnano, e che possono dar
vita a equilibri diversi tra etica e diritto. In secondo luogo, si trascura il
fatto che una neutralità dello Stato estesa a tutte le scelte etiche porterebbe
alla paralisi del legislatore e allo svuotamento della funzione della legge.
L’ordinamento non si interesserebbe più della procreazione, dei doveri verso i
figli, non potrebbe più disciplinare il matrimonio, dovrebbe consentire tutto
in materia di bioetica. Uno Stato eticamente neutrale dovrebbe disporre il
“rompete le righe” e preoccuparsi solo di regolare il traffico delle attività
sociali. C’è, poi, un corollario di questa impostazione che viene utilizzato
frequentemente. Si tratta di quel ritornello che in Italia viene ripetuto
spesso, secondo il quale in queste materie lo Stato deve permettere, non
proibire. Infatti, se permette non obbliga nessuno, ma se proibisce impedisce a
qualcuno di realizzarsi. Lo Stato che liberalizza l’eutanasia non obbliga
nessuno a praticarla, ma consente a chi vuole di scegliere un’altra opzione. Se
permette la fecondazione eterologa, non la impone, ma se la nega erode spazi
all’autonomia individuale. Io credo che ci troviamo di fronte ad un uso
improprio della laicità, e ad un vero sillogismo. Se applicata coerentemente,
questa logica porterebbe a risultati che ben pochi si sentirebbero di
sostenere. Si legittimerebbe la pratica della clonazione umana, perché una
legge che la liberalizzasse non costringerebbe nessuno a clonare cellule e
individui, mentre un divieto impedirebbe ad alcuni di seguire i propri
convincimenti. Dovrebbe essere permesso di intervenire sul genoma per
determinare alcune caratteristiche del nascituro, come il sesso, o il colore
della pelle o degli occhi, perché in ogni caso non si obbligherebbe nessuno a
queste operazioni, mentre vietandole si diminuirebbe l’autonomia individuale.
Questa impostazione dovrebbe indurre l’Authority inglese a rispondere
positivamente al recente quesito del Kings College, se sia lecito produrre
ibridi di umanità e animalità. Infatti, consentendo questa 7 pratica non
si impone a nessun ricercatore di creare la chimera, ma proibendola si
violerebbe la libertà di quanti non hanno remore nel procedere su questa
strada. Molti sostenitori del relativismo si dichiarano contrari alla clonazione,
alla chimera e ad altre scelte estreme, ma spesso non sanno dire il perché. E
non sanno dirlo perché dovrebbero riconoscere che clonazione e chimera possono
essere escluse soltanto se si fa leva su valori antropologici primari,
meritevoli di trovare spazio nel mondo del diritto. Si dovrebbe allora
riconoscere che la laicità dello Stato non c’entra nulla quando la discussione
riguarda questi valori. E che nel gioco democratico della discussione, del
convincimento, si determineranno gli equilibri essenziali, modificabili nel
tempo, sui confini del diritto, sul rapporto tra autonomia e solidarietà. In
questa discussione vi è spazio per tutti, per le convinzioni religiose e per
quelle filosofiche, per l’apporto delle scienze e la mediazione della politica.
Ma se il confronto viene by-passato ricorrendo alla laicità per sbarrare la
strada a determinate scelte, vuol dire allora che c’è insicurezza in alcune
posizioni relativistiche, le quali non riescono ad elaborare valori
convincenti, e utilizzano impropriamente la laicità per dare alle proprie tesi
una forza che probabilmente non hanno. 5. Cultura laica e questione islamica
L’analisi si fa più complessa se affrontiamo il tema del multiculturalismo,
perché questo fenomeno costituisce una grande opportunità ma anche un grande
rischio. Una opportunità per la laicità, che può far risaltare il suo volto
accogliente e il suo carattere universale di fronte al mischiarsi delle
popolazioni, delle pagine della storia, e della geografia. Ma anche un rischio
se con il multiculturalismo si vogliono reintrodurre nelle nostre società
antiche intolleranze, o costumi e tradizioni che evocano un lontano passato. Le
prime risposte a questo evento sono deludenti, alcune preoccupanti, ma tutte
riflettono un disorientamento generale. Vi sono a volte reazioni di tipo
islamofobico che fanno d’ogni erba un fascio, alimentano paure e diffidenze,
che vogliono negare all’islam ciò che la laicità deve garantire a tutti. Mi
sembra, però, che siano prevalenti le reazioni opposte, perché la cultura laica
sta rispondendo con uno spaesamento che tradisce incertezza e insicurezza. Il
multiculturalismo sta facendo emergere una insicurezza dei valori della
laicità, della loro validità e tendenziale universalità. Anche quell’orgoglio
che ha dato forza allo Stato laico, che ha prodotto diritto e storia, sembra
vacillare di fronte a chi appare più estraneo ai principi di libertà ed
eguaglianza. Potrei citare una pluralità di fatti, ed eventi, che sembrano
slegati tra di loro ma sono uniti da un robusto filo conduttore. Ne indico
alcuni per far riflettere sul loro significato complessivo. Pochi si accorgono
che si sta creando un divario crescente tra l’atteggiamento nei confronti delle
Chiese tradizionali e quello che si manifesta di fronte a clamorose lesioni della
laicità per motivi di multiculturalismo. Le prime riflettono un’antica
suscettibilità, quasi la memoria del conflitto, le altre sono fatte di stupore
e di silenzi. Se una Chiesa lucra ancora oggi qualche favore giuridico, si
reagisce con veemenza perché la laicità dello Stato sarebbe in pericolo. Ma se
vengono lanciate fatwe di morte contro letterati, giornalisti o registi, per
offese all’Islam, si tratta di episodi che non riguardano lo Stato laico, non
costituiscono istigazione all’omicidio. Se una fatwa viene eseguita, l’omicidio
è di competenza della cronaca nera. 8 Se in un paese europeo si discute
su temi etici, le prese di posizione delle Chiese cristiane sono viste come
espressioni di un nuovo temporalismo. Ma se, in Europa o ai suoi confini, avvengono
omicidi di donne che rifiutano regole tribali, di derivazione islamica o meno,
oppure se il diritto di cambiare religione conduce ancora alla morte o
all’emarginazione sociale, si considerano questi eventi come frutto di
arretratezza, anziché un salto indietro nella storia della laicità. Nessun
grido, nessun manifesto, nessun convegno è dedicato loro. Uno strabismo
particolare colpisce la cultura laica quando è in gioco la questione femminile.
Mentre gli ordinamenti europei adottano raffinati strumenti per rendere
effettiva la parità tra uomini e donne, normativa e pratiche aliene che
discriminano le donne, o le umiliano, non suscitano ribellione o ripulsa. Un
tempo la cultura laica reagiva con forza, definendole oscurantiste e censorie,
alle richieste di non eccedere nella liberalizzazione dei costumi, e di frenare
la licenziosità con cui veniva usata la figura femminile. Oggi tace, quasi si
nasconde, quando le donne vengono chiuse nel burqa, o si chiedono classi
separate nelle scuole, spiagge differenziate, reparti ospedalieri distinti, o
gli uomini rifiutano di essere subordinati sul lavoro a dirigenti donne, e via
di seguito. In diversi paesi occidentali, dall’Inghilterra al Canada, dalla
Germania al Belgio ai paesi del Nord Europa si moltiplicano le proposte di
introdurre la scharì’a, o suoi segmenti, senza che suscitino scandalo per la
ferita che porterebbero ai diritti umani fondamentali. Soltanto il 24 ottobre
corso, con grande ritardo, il Parlamento europeo, ha approvato una risoluzione
(peraltro molto positiva) sulla condizione delle donne, sulla illegalità della
poligamia, sulla lesione dei diritti fondamentali. Le reazioni islamiche al
discorso di Benedetto XVI a Ratisbona sono ormai note, e non mi ci devo
soffermare. Ma nessuno ha notato un fatto che, in tema di laicità, ha
sovrastato tutti gli altri. Il silenzio che i più rigorosi laicisti hanno
mantenuto nel difendere la libertà di parola e di espressione contro minacce,
violenze, ricatti. Eppure, per decenni questi gruppi hanno ripetuto sino alla
nausea il pensiero di Voltaire per il quale, anche se non si condividono le
idee di un altro, si è però pronti a spendere la propria vita perché l’altro
possa esprimere quelle idee. Ma dopo Ratisbona, non si è spesa neanche una
parola per difendere il diritto del Papa, come di chiunque altro, ad esprimere
le proprie valutazione sul rapporto tra fede e violenza. A questi silenzi si
aggiunge un fenomeno culturale meno appariscente e più sotterraneo. Il
cattolicesimo, e il cristianesimo, sono stati per due secoli letteralmente
vivisezionati per criticare e sradicare tutto ciò che sapesse di temporalismo,
di anti-modernità, per spezzare la loro alleanza con il potere politico.
Sull’intreccio tra altre religioni e sistemi politici dittatoriali, oggi prevale
l’afasia nella cultura liberale, in quella marxista o anti-istituzionale.
Sembra quasi che la critica illuministica e storicistica che, pur con asprezze
a faziosità, ha saputo fustigare, in certa misura ha contribuito a rinnovare,
le Chiese delle nostre società, scelga il silenzio di fronte a ben più pesanti
congiunzioni tra religione, violenza, dispotismi più o meno teocratici. Tutto
ciò apre degli interrogativi sul futuro della laicità in Italia e in Europa; e
li apre non su un punto o su un altro, ma sulla spinta propulsiva che la
laicità ha esercitato nel realizzare lo Stato moderno. Da questi, e altri
episodi, sta scaturendo una sorta di assuefazione rassegnata di fronte alla
mutazione genetica della laicità come la conosciamo in Occidente, che può portare
ad un esito paradossale: ad una laicità occhiuta e diffidente verso le
religioni tradizionali e ad un multiculturalismo disarmato e senza valori verso
altre religioni e tradizioni. Sarebbe la fine della neutralità dello
Stato. 9 6. Laicità e multiculturalismo in Italia. Ambiguità e
prospettive Per meglio capire i rischi di questa frattura tra laicità e
multiculturalismo torniamo per un attimo all’esperienza italiana. L’Italia,
ancora una volta, si è dimostrata più di altri Paesi equilibrata e accogliente,
non condizionata da pregiudizi etnici o religiosi. L’Italia non ha fatto la
guerra al velo, e a nessun simbolo religioso, forse perché di simboli
confessionali ne conosce tanti da tanto tempo, dalle cattedrali alle chiese,
dai conventi ai battisteri, alle fogge vestiarie di religiosi e religiose
d’ogni genere. Quindi non avvertiamo disagio per un modesto velo che peraltro
può appellarsi alla libertà di abbigliamento. L’Italia ha predisposto una vasta
rete di accoglienza e sostegno sociale per l’immigrazione; sta cercando in
tanti modi di soddisfare le esigenze di culto dei soggetti dell’immigrazione;
prevede nei contratti di lavoro spazi per pratiche religiose, diversità
alimentari, tradizioni come quello del ramadan. Ma questo che può essere considerato
legittimamente un nostro vanto, si sta trasformando lentamente in qualcosa
d’altro. Si sta trasformando nell’oscuramento di principi e valori essenziali,
e nella accettazione di una cultura della separatezza che può colpire la
laicità. Parlo della tendenza a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche,
e più in genere, tutta una simbologia e una tradizione di memorie del
cristianesimo, riprendendo concezioni laiciste superate. E’ di questi giorni la
notizia che nelle scuole, negli alberghi, in luoghi pubblici e privati
diminuiscono i presepi e gli alberi di natale per non urtare suscettibilità di
persone aderenti ad altri culti. Si realizza così quella che da tempo definisco
una partita giocata su due tavoli: quello della laicità che limita o cancella
simboli e presenze cristiane, e quello del multiculturalismo che legittima
altri simboli o presenze religiose. Sempre in Italia si manifestano i primi
sintomi di un cedimento multiculturale che mette a rischio i diritti
fondamentali dei cittadini, in primo luogo delle donne. Si accetta qua e là la
presenza del burqa, aumentano le voci favorevoli alla poligamia, si introducono
in qualche parte forme separate di vita collettiva, nelle scuole, nei luoghi
pubblici, si consente l’apertura di scuole islamiche fuori dei canoni previsti
dalle nostre leggi. Si tratta di primi sintomi, ma sono parecchi e di
significato univoco, e ci dicono che neanche noi siamo immuni dal rischio della
perdita di senso della laicità e dei suoi valori. Altra cosa sarebbe se della laicità
si offrisse il volto più maturo e accogliente, quello che sa distinguere tra
quanto di autenticamente religioso emerge da una tradizione, e quanto
appartiene ad arretratezza storica e culturale. Che sa rispettare e tutelare il
patrimonio spirituale di ciascuna religione ed etnia, ma sa criticare e
respingere ciò che collide con il sistema universale dei diritti umani, con la
libertà religiosa, con l’eguaglianza tra uomo e donna. Che sa, cioè, promuovere
il meglio della nostra e delle altrui tradizioni, ma si impegna a far arretrare
il resto. Sarebbe un’altra cosa, un’altra storia, e potremmo dedicarvi un altro
convegno.
Carlo Cardia. Keywords:
filosofia vs. teologia, italia anti-papista, il filosofo italiano deve essere
neutro in questione di religione. Verdi – il papa – stati papali – repubblica
italiana – liberta di culto – giurisprudenza – religione dell’antica roma – il
pontifice nella religione romana antica – credenza religiosa – credenza
naturale – credenza super-naturale – il sovra-naturale – il naturale – l’idea
di religione nella antica Roma – il mito romano – la mitologia romana antica –
il sacro – il pagano – la filosofia della roma antica pagana – la critica dei
antichi romani al cristianesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardia” – The Swimming-Pool
Library.
CARDONE
(Palmi).
Filosofo. Grice: “Cardone plays with a coinage, sobraumnao, in Dionigio e
Luciano – it triggers implicata: what’s wrong with ‘human’? One is reminded of
Pico (‘dignita dell’uomo’) and D’Annunzio – it is a problem of linguistic
botanising for Italian phiosophers, ‘altreuomo’ being rendered as a translation
of Emersen’s ‘plus man’ – and cf. Carlyle – D’Annunzio, who should have known
better, prefers ‘suPer,’ when we know that in the ‘volgare,’ the ‘p’ becomes
‘v’, so Cardone has it just right!” Si laurea a Roma. Membro de Partito
Socialista Unitario. Fonda "Ebe" e la rivista "Rivista".
Fonda “Ricerche filosofiche”. Fonda la Società Filosofica Calabrese. Aattività
deontologica per la realizzazione di un'etica sociale della Cultura, in difesa
e promozione della civiltà, onde onorarlo per le sue incessanti iniziative
anche in favore della fratellanza umana. Altre opere: Saggi di storia,
filosofia e diritto; Il relativismo gnoseologico” (Palmi, A.Genovesi &
figli ed); Reazione collettiva (Torino, Paravia & C); I filosofi calabresi
nella storia della filosofia, con appendice sui sociologi e gli psicologi,
Palmi, A.Genovesi & Figli ed., “La filosofia dello Stato” (Città di Castello,
Casa Editrice Il Solco); Filosofia della vita, Città di Castello, Casa Editrice
Il Solco); Umanismo (Messina); Cristianesimo, liberalismo e comunismo, Palmi,
G. Palermo ed); Il Divenire e l'Uomo, Palmi, Ricerche filosofiche, “Civiltà,
Palmi, G. Palermo ed); Vita di Gesù secondo il Vangelo incompiuto, Modena-Roma,
Guanda Editore); La filosofia di Gesù, Milano, Bocca ed); L'uomo nel cosmo.
Storia e prospettive, Palmi, Ricerche filosofiche ed); Bio critica, a cura
della sezione bibliografica della Società Filosofica Calabrese, Bologna,
Mareggiani ed); Seguito alla Bio critica, a cura della sezione bibliografica
della Società Filosofica Calabrese, Cosenza, MIT); La vita come esperienza inutile,
Cosenza, Pellegrini); L'ozio la contemplazione il gioco la tecnica l'anarchismo,
Roma, Ricerche). Ricerche filosofiche, Torino, Edizioni di Filosofia). Il
Divenire” (Padova, Rebellato Editore). Si vis pacem para pacem, Montepulciano,
Editori Del Grifo, Ludi. Bologna, Soc.
Tip. Mareggiani ed); I confini dell'anima, Palmi, Ed. Del Fondaco di Cultura); La
banca della carità” (Milano, M. Gastaldi ed., 1962 Terapia del tramonto (Milano,
M. Gastaldi); Il figlio del dittatore” (Milano, M. Gastaldi); Canti del
Sant'Elia, Poggibonsi, Lalli); L'assenza e la mancanza: meditazioni quasi
poetiche, Cosenza, MIT). Dialogo sulla solitudine. divenir e vita. Filosofo-poeta.
Un inattuale nella sua attualita. Domenico Cardone.
Domenico Antonio Cardone. Keywords: “Ricerche filosofiche”; futilitarianism,
inutilitarianism, Grice, “The philosophy of life,” Grice, “Philosophy of life”,
essere e divenire – il sovraumano, Nietzsche, Bergson, D’Annunzio, sobra-uomo,
super-uomo. Jesus as a philosopher! -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cardone”
– The Swimming-Pool Library.
CARIFI: (Pistoia).
Filosofo. Grice: “I would call Carifi a poet rather than a philosopher! He did
indeed philosophise ‘in difesa della filosofia,’ but that should read of ‘his’ ‘filosofia,’ which he
sees as an elaboration on death! My favourite are his ‘lezioni’ di filosofia
and his ‘ablativo assoluto,’ something English lacks, but ‘deo volente’
doesn’t!” -- Studia sotto Bigongiari,
tra i maggiori esponenti dell'ermetismo fiorentino, profondamente influenzato dalle voci liriche
di Rilke e Trakl, su cui si è esercitato anche come traduttore, oltre a essere
poeta, svolge l'attività di critico letterario e filosofico. Autore de “Il
segreto”. Al fianco degli studi filosofici, vi sono quelli di psicoanalisi a
Milano. Mentre nelle liriche si risente la dizione rilkiana e emerge il debito
verso Heidegger, nei componimenti successivi questi motivi vengono amalgamati a
nuove istanze della sensibilità. In particolare dopo la dura prova della
malattia, l'incidente, come lui chiama l'ictus da cui è stato colpito, i suoi
versi abbracciano una nuova forma di rarefazione dissolvente in cui l'essere,
attraversato dal dolore, cerca una via estrema di comunicazione per
ricongiungersi al mondo. Luoghi e figure dell'anima. Due sono i temi che
incardinano la sua poetica: la madre e il legame con la città natale, Pistoia,
che di quel rapporto affettivo è l'emanazione, entrambi raccolti
filosoficamente nel rimando all'infanzia, epoca originaria dei sensi, periodo
d'elezione per l'anima ma anche ingrato, di cui si fatica a cogliere l'essenza
se non a patto di una discesa spossante. Ora è l'attimo che attende, è
l'istante che prepara i tempi a un altro istante dove si deve attendere
l'infanzia, quella bastarda che era là, tragico volto dei bambini. La madre,
dolorosa musa, abbandonata dal marito quando il bambino aveva appena tre anni,
ha lungamente accompagnato e sorretto la voce del figlio. La sua scomparsa è
una perdita incolmabile nella vita e nel suo immaginario. La città rappresenta
un caldo grembo, dove tutto rimanda a quel legame dissolto ma anche alle tante
amicizie e perfino a quegli spiriti gentili di artisti e letterati che
continuano ad aggirarsi, figure di sogno, nelle strette strade del centro. Bigongiari
era di Pistoia. Era figlio del capostazione e abitava in Via del Vento, accanto
a Manzini. Nei miei viaggi onirici li vedo tutti e due, Bigongiari e Manzini,
camminare tra Via del Vento e Via Verdi, in silenzio perché parlano una lingua
muta, una lingua del deserto che solo i poeti e i mistici capiscono. Nei suoi
versi rivive di continuo la devozione spirituale per il luogo, la cui essenza
poetica sta nell'intreccio di memorie che lo abitano, un passato con cui si
misura in uno stato di incerta beatitudine tra sogno e veglia. Nasco
filosofo con una grande tensione verso la poesia. Una tensione, la mia, che si
è poi sviluppata fino a rendermi filosofo, ma soprattutto poeta. La filosofia
arriva fino ad un certo punto, da quel punto in poi c’è la poesia. La poesia
parla del cielo, delle foreste degli uomini, fa un salto verso la verità.
Abbandona il linguaggio su cui, bene o male, la filosofia regge e sceglie
un linguaggio pre-sentativo'', il linguaggio della presenza. La sua
ricerca è la risposta alle varie vicende dell’uomo. L’uomo colma e coglie sé
stesso attraverso il percorso del lume, l’apertura alla conoscenza. L’uomo mite
che miete la luce, capace di cuore della verità, che non rinuncia al pensiero
della responsabilità e della parola, è l’uomo Carifi. Non bisogna accostarsi a
lui con il timore di leggere un incomprensibile tomo di filosofia analitica
alla teoria dell’implicatura di Grice, sia pur condividendo con lui che non
esistono concetti semplici, né concetti già pronti, perché la filosofia analitica
di Grice è, Grice morto, in divenire, è in movimento. Un sottile ma preciso
filo conduttore che caratterizza la raccolta delle sue lunghe e silenziose
riflessioni è la pratica dell’intensità, destini che si rivelano fino in fondo.
Esercita il bello della profondità portandola, a tutti, sul piano conoscitivo
della conversazione. Le sue opere sono cammini culturali e spirituali dove
l’uomo ed il valore sono all’unisono un giro concentrico di piaceri. La
conversazione è un abisso che, in un’intima solidarietà, unisce il moto interiore
all’estetica dell’espressione, e la conversazione diviene il veicolo principale
dove il silenzio meditativo e contemplativo si colora di una dimensione inter-oggettiva. La
conoscenza dell'altro .L'uomo del pensiero: Roberto Edizione Polistampa, Firenze.
Poesia e filosofia convivono e si alternano nella sua vasta produzione, tra i
maggiori autori contemporanei. E conosciuto per i testi filosofici e per
l’intensa attività poetica, influenzata, a partire dagli anni Ottanta,
dall’amicizia con Bigongiari; ma anche per le traduzioni in italiano di Hesse,
Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Weil. La poesia è una stretta di mano su
«Naturart», rivista di cultura, Giorgio Tesi Editrice» Scopre il dolore con
la perdita della madre che diventa la sua ossessione poetica, descritta come un
pozzo in cui scendere. Le sue due antologie poetiche (Infanzia; Nel ferro dei
balocchi), pur seguendo percorsi diversi, si ergono entrambe su due abissi:
l'infanzia personale, ma al contempo quella di intere generazioni europee,
segnate da un legame indissolubile. Archivio Festival Letteratura, Palazzo
Ducale, Mantova. È una poesia in cui la forte componente autobiografica
trasfigura il vissuto, in quanto ciò che si racconta assume valore
paradigmatico: situazioni ed episodi emblematici in cui l’uomo incontra
l’assoluto. Incontro su «VIinforma», rivista culturale della Banca di credito
coooperativo di S. Pietro in Vincio» «La raccolta Madre, proprio perché
torna su un tema già fortemente praticato, consente di guardare al complessivo
percorso poetico di Carifi potendo distinguere in esso un momento di passaggio
e di mutamento, determinato prima dall’avvicinamento al buddismo, poi dalla
malattia. Giuseppe Grattacaso, Supplica alla madre su «Succedeoggi» Cultura
nell’informazione quotidiana» Opere Raccolte poetiche Simulacri (Forum/Quinta
Generazione, Forlì); Infanzia (Società di Poesia, Milano, rist. Raffaelli,
Rimini ); L'obbedienza (Crocetti, Milano); Occidente (Crocetti, Milano); Amore e
destino (Crocetti, Milano); Poesie (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta
Terme); Casa nell'ombra (Almanacco Mondadori, Milano); Il Figlio (Jaca Book,
Milano); Amore d'autunno (Guanda, Parma-Milano); Europa (Jaca Book, Milano); Il
gelo e la luce (Le Lettere, Firenze); La pietà e la memoria (Edizioni ETS,
Pisa); D'improvviso e altre poesie scelte (Via del Vento edizioni); Nel ferro
dei balocchi (Crocetti, Milano 2008); Tibet (Le Lettere, Firenze ); Madre (Le
Lettere, Firenze); Il Segreto (Le Lettere, Firenze ); Racconti Victor e la
bestia (Via del Vento edizioni, Pistoia); Lettera sugli angeli e altri racconti
(Via del Vento edizioni, Pistoia); Destini (Libreria dell'Orso editrice,
Pistoia); Saggi Il gesto di Callicle (Società di Poesia, Milano); Il segreto e
il dono (EGEA, Milano); Le parole del pensiero (Le Lettere, Firenze); Il male e
la luce (I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme); L'essere e l'abbandono
(Il Ramo d'Oro, Firenze); Nomi del Novecento (Le Lettere, Firenze); Nome di
donna (Raffaelli, Rimini ). Note Rainer
Maria Rilke, L'angelo e altre poesie, Via del Vento edizioni, 2008; Georg
Trakl, La notte e altre poesie, traduzione di Massimo Baldi e Roberto Carifi,
Postfazione di Roberto Carifi, Via del Vento edizioni. Tiene la rubrica mensile
"Per competenza" sulla rivista «Poesia». Per ulteriori notizie si
veda la sezione dedicata ai cenni biografici del poeta nel volume Roberto
Carifi, D'improvviso e altre poesie scelte, Via del Vento edizioni, Da Roberto
Carifi, Tibet, Le Lettere, . Da Pistoia
in parole. Passeggiate con gli scrittori in città e dintorni, Alba Andreini,
introduzione di Roberto Carifi, Edizioni ETS, .
M. Baudino, Nel mitico mondo di Carifi, «Gazzetta del Popolo»; C.
Viviani, Il mito e il nuovo inquilino, «Il Giorno», F. Ermini, Il mito per
relazionarsi al reale, «Il quotidiano dei lavoratori», G. Giudici, Il gesto di
Callicle, «L'Espresso»; A. Porta, Il gesto di Callicle, «Alfabeta», M.
Spinella, La microfisica del significante poetico, «Rinascita», nQui sento odor
di buoni versi, «Il Messaggero»; Infanzia, «Il piccolo Hans», Al fuoco di un
altro amore, Jaca Book, L'anima e la forma nel verso. «Avvenire»; P.F.Iacuzzi,
Il paradosso della poesia italiana. «Paradigma»; Utopisti e menestrelli,
«L'indice», R. Nostalgia del tragico, «Corriere del Ticino»; I Quaderni del Battello
Ebbro. Basso continuo del rumore bellico per litanie epiche sull'occidente, «Il
Manifesto». Il filo del tramonto e del rimpianto, «Il Giornale», La poesia, il
luogo del ritorno a casa, «La Nazione», La lingua continua a battere dove la
carità duole, «Il Mattino», Il buio mondo che ci avvolge, «Il Sole 24
ore», Il lato oscuro delle cose, «La Repubblica»; Sul vuoto appesi alla parola, «La Nazione», Amore
senza tempo, «Il Sole 24 ore», ; E per musa ispiratrice la nostalgia,
«Avvenire», Classici pensosi versi,
«Gazzetta di Parma», Amore per una donna e per il nulla, «Il Giorno», Gli amori
di Carifi, «La Nazione»; B. Manetti, Carifi il poeta errante, «La Repubblica»;
D. Attanasio, Amore e morte trascendenti segreti, «Il Manifesto», R. Copioli, Carifi:
il desiderio è mitico, «Avvenire», 14 maggio 1994; E. Grasso, L'amore quando il
lume si spegne, «L'Unità»; A. Donati, Intervista a Roberto Carifi, «Il Giorno»,
Doni al confine del tempo, «Il Sole 24 ore»; L'angelo poetico della solitudine,
«Il Giorno», R. Figli innamorati del proprio destino, «Avvenire»; Il male come
provocazione estetica – estetica del male -- Chiaroscuro con lampada e scialle,
«Il Sole 24 ore»; Chi son? Sono un poeta, «Il Giornale»; Il dolore nelle
sillabe, «La Gazzetta di Parma»; Un angelo in esilio, «Avvenimenti»; U.
Piersanti, Il figlio, «Tutto Libri»; Bigongiari, Carifi: parole e voce di Figlio,
«La Nazione»; Quel contratto da verificare, «Il Sole 24 ore», Angeli sospesi
tra essere e abbandono, «Avvenire», Un neoromantico invoca il cuore, i sogni,
l'addio, «Tutto Libri», Amore d'autunno,
«L'Espresso», Morte di madre. Quando la poesia "riversa la vita", «Il
Giornale», L’elegia di uno stile semplice, «Avvenire»; Quei legami vitali tra
figlio e madre, «La Nazione»; Tra infelicità e silenzio, «Il Sole 24 ore»; Un
dolcissimo amore d'autunno, «Il Giornale», L'estetica dell'amore, «Il Tirreno»,
Dalla parte del cuore, «Gazzetta di Parma»; E. Coco, Rivista de Literatura. Un
dialogo a distanza sull'alterità del figlio, introduzione a R. Carifi e U.
Buscioni, Figure dell'abbandono, maschiettoemusolino, Siena; Il pathos del
sublime: la poesia di Carifi, «Atelier», D. Fiesoli, Europa, «Il Tirreno», B.
Garavelli, Addio alla madre, «Avvenire», G. Colotti, Europa, «Il Manifesto»; La religiosa tragicità di Carifi, «Poesia»; F.
A. Scorrano, La conoscenza dell'altro. L'uomo del pensiero. Edizione
Polistampa, Firenze, S. Ramat, Roberto Carifi nel nome della madre, «Il
Giornale», Per la sezione bibliografica
questa voce trae informazioni dalla
inglese. Piero Bigongiari
Gianna Manzini Pistoia Via del Vento edizioni //poesia.blog.rainews//09/blog
Poesia Rai News L'UOMO DEL PENSIERO. Saggio sulla poesia di Carifi Tre poesie
su «Sagarana», su sagarana.net. Una recensione di Infanzia, su
margininversi.blogspot. Roberto Carifi. Il sisma silenzioso del cuore articolo
di Andrea Galgano su «Clandestino». Roberto Carifi. Keywords: filosofia e
poesia – l’implicatura del poeta – l’implicatura di Blake – l’implicatura di
Guglielmo Blake – rhyme or reason – the invention of rhyme – l’invenzione della
rima – empedocle: ragione senza rima -- Heidegger, conversation, language,
silence, being, inter-subjectivity. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carifi” –
The Swimming-Pool Library.
CARLE (Chiusa di Pesio).
Filosofo. Grice: “I like Carle – he is like Hart, only better – his Latin tract
on ‘exceptio’ is eaxactly what Hart means by defeasibility, only that Carle can
found it on Roman law – Like me, he likes the use of ‘principio,’ as when he
speaks of a ‘principle of responsibility,’ and his essays on what he calls
‘social philosophy’ is pretty akin to my concerns on cooperation as the epitome
of joint behaviour.” Insegna a Torino. Linceo. Esponente del positivismo. La dottrina giuridica del fallimento nel
diritto privato internazionale, Napoli, Stamperia della Regia Università); Prospetto
d'un insegnamento di filosofia del diritto. Parte generale, Torino, F.lli
Bocca); “La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Studio
comparativo di filosofia giuridica” (Torino, F.lli Bocca); “Le origini del
diritto romano: ricostruzione storica dei concetti che stanno a base del diritto
pubblico e privato di Roma” (Torino, F.lli Bocca); La filosofia del diritto
nello stato moderno, Torino, Unione Tipografico-Editrice); Lezioni di filosofia
del diritto” (Torino). Dizionario biografico degli italiani. Positivismo: ius – fatto – non valore – l’implicatura
di Romolo e Remo. Naturalism – giusnaturalismo – forza – autorita – ius -- LE
ORIGINI DEL DIRITTO ROMANO RICOSTRUZIONE STORICA DEI CONCETTI CHE STANNO A BASE
DEL DIRITTO PUBBLICO E PRIVATO DI ROMA. Fuit haec sapientia quondam Publica
privatis secernere , sacra profanis . HOR., poet Ars . LABOR NOR TORINO
FRATELLI BOCCA EDITORI LIBRAI DI S. M. IL RE D'ITALIA SUOQURSALI ROMA FIRENZE
Via del Corso , 216-217. Via Cerretapi, 8 DEPOSITI PALERMO NAPOLI CATANIA
Università, 12 Piazza Plebiscito , 2 S. Maria al Ros .°, 23 (N. Carosio ) (N.
Carosio )TORINO VINCENZO BONA, Tip . di S. M. Al Rettore Magnifico della
Università di Bologna, 16.11.54 TS home La nobile Università di Bologna ,
commemorando in questi giorni l'ottavo centenario dalla sua fondazione, ci
rammenta anche l'epoca, in cui essa iniziando gli studi sul diritto romano si
rese benemerita di tutto il mondo civile. Agli omaggi, che in questa occa sione
solenne convengono costi d'ogni paese, mi sia consentito di aggiungere quello
di un'opera ispirata al desiderio di mantenere viva nella gioventù studiosa
italiana la tradizione civile e politica di Roma. Di Lei Rettore Magnifico bord
Torino, Devot.mo ed obblimo G. C. 251303 سے PREFAZIONE Ritornato di proposito
allo studio del diritto romano, in seguito all'incarico affidatomi di
insegnarne la storia nella R.Università di Torino , parvemi di rileggere uno di
quei libri, la cui meditazione può riempiere tutta una vita , perché ad ogni
lettura e ad ogni età offrono campo ad osservazioni, che prima erano sfuggite .
Quegli studii di giurisprudenza comparata , che in questi ultimi anni si
vennero facendo sulle istituzioni primitive di quel periodo gentilizio, nel
quale debbono essere cercate le fondamenta , sovra cui furono poscia edificate
le città, mi parvero irradiare di nuova luce l'antichissimo diritto di Roma, e
aprire nuove vie per spiegare il processo , con cui ebbe ad essere iniziata la
formazione del medesimo. È strano infatti che, mentre il diritto romano, fra le
grandi elaborazioni del genere umano, è certamente quella , che ebbe ad essere
mag giormente studiata nei frammenti che a noi ne pervennero e nei suoi ultimi
risultati, continui pur sempre ad essere un grande mistero il processo , con
cui i Romani giunsero ad elevare un cosi grande edifizio, e il motivo per cui
essi e non altri riuscirono ad innalzarlo. La causa tuttavia di questa
singolarità deve es sere riposta in ciò, che per risolvere il problema delle
origini del diritto romano non può bastare lo studio staccato
dei frammenti , VI - nė l'esegesi applicata ai testi, ma conviene
ricomporre le epoche, raccogliere i rottami che ci pervennero di esse, colmarne
le la cune, riportarsi col pensiero alle condizioni economiche e sociali del
primitivo popolo romano, sforzarsi di rivivere in quel tempo e di pensare
in certo modo alla romana, tener conto delle parti colari attitudini
dell'ingegno romano, far procedere di pari passo la formazione della città e lo
svolgimento delle sue istitu zioni pubbliche e private: conviene insomma
ricostruire la vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale di Roma, e
cercare cosi di decifrare la pagina più splendida della vita del diritto nella
storia dell'umanità . Certo era naturale cosa , che uno stu dioso della Vita
del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale mal sapesse resistere alle
attrattive di un simile argomento, credendo con ciò, non di venir meno,madi
perseverare in quel l'ordine di studii, a cui si è dedicato con tutte le forze.
Miproposi pertanto di ricostruire il processo logico e storico, che governò la
formazione deldiritto romano, sopratutto nei suoi esordii, non coll'intento di
sostituirmi ai dottissimi nella materia, ma con quello più modesto di valermi
deimateriali che furono raccolti con tanta diligenza , sopratutto in Ger mania.
Miaccinsi poi all'arduo compito con un entusiasmo, che forse più non conviene
alla mia età ,ma che ebbe il van taggio di rendermi aggradevole la lunga fatica
, e che vorrei trasfondere nella gioventù studiosa , unitamente alla
convinzione profonda, che le grandielaborazioni dell'ingegno umano,mentre
cambiarono in maestri dell'umanità coloro, che giunsero a crearle, hanno anche
il pregio di confortare ed elevare il pensiero di coloro , che si travagliano
per comprendere il processo natu rale, che ne governd la formazione. Debbo
tuttavia una confessione al lettore benevolo : ed è che VII - il presente
lavoro , cominciato forse coll idea , non preconcetta ,ma latente, che il
diritto pubblico e privato di Roma fosse il frutto di una evoluzione
determinata dalle condizioni esteriori, in cui si trovò il popolo romano,
riusci invece a conclusioni alquanto diverse . I Romani, cosi nel formare la propria
città, come nel Pelaborare le proprie istituzioni pubbliche e private,
seguirono un processo, che chiamerei di selezione ; anziché essere dominati dai
fatti esteriori, cercarono invece di dominarli, e di sottomet terli alla logica
inesorabile del proprio diritto. Come le mura della loro città furono costruite
coi massi più solidi delle co struzioni gentilizie: cosi i concetti, che stanno
a base del loro diritto pubblico e privato, furono trascelti nel seno stesso
della organizzazione gentilizia ,ma trapiantati nella città ed isolati cosi
dall'ambiente, in cui si erano formati, si cambiarono in altrettante concezioni
logiche, che si vennero poi svolgendo ed accomodando alle esigenzedella vita
civile e politica . Anche questo fu un processo naturale; ma non è più il
processo, che governa la formazione degli strati geologici, che si sovrappon
gono gli uni agli altri e serbano l'impronta dei bassi fondi sovra cui si
vengono precipitando ,bensi il processo, che governa la formazione dei
cristalli, per cui gli elementi affini, depurati da ogni scoria, si vengono,
per dir cosi, ricercando ed attraendo e si dispongono costantemente secondo
quelle forme tipiche , che ne governano la formazione. Di quiconseguita, che
ildiritto romano non èuna produzione determinata esclusivamente dall'ambiente e
dalle condizioni esteriori; ma è già l'opera in parte consapevole dello spirito
vivo ed operoso di un popolo, il quale, valendosi di attitudini naturali, che
in questa parte si possono chiamare veramente meravigliose, riusci a secernere
e ad isolare l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani , a modellarla in
concetti VIII tipici, a svolgere i medesimi in tutte le conseguenze, di cui po
tevano essere capaci, e a trasmettere cosi alle nazioni moderne un
capolavoro di arte giuridica , che nel proprio genere può essere paragonato ai
capolavori dell'arte greca . Questo è il risultato ultimo,a cui sono pervenuto
: per la prova del medesimo invito gli imparziali amici del vero a leggere
il libro, nel quale, malgrado la varietà immensa dei particolari, ho cercato di
riprodurre quella coerenza organica , che è la carat teristica dello
svolgimento storico delle istituzioni pubbliche e private di Roma. Torino.
Roma e le istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La
fondazione della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni
e le leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a
primo aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non
avrebbe avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero
di origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il
quale, dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli
esuli e ai rifugiati dalle comunpubbliche e private di Roma. Torino. Roma e le
istituzioni delle genti italiche anteriori all'epoca romana. La fondazione
della città e i varii stadii della sua formazione. 1. Le tradizioni e le
leggende , da cui appare circondata la fonda zione di Roma, presentano a primo
aspetto un carattere singolare di contraddizione. Da una parte Roma non avrebbe
avuto infanzia , ma sarebbe stata fondata di pianta da un avventuriero di
origine latina e di stirpe regia, condottiero di una banda armata , il quale,
dopo aver circondata la città di mura, avrebbe aperto un asilo agli esuli e ai
rifugiati dalle comunanze vicine. Sarebbe il fondatore stesso che avrebbe dato
a Roma le sue istituzioni pubbliche e private , mentre il suo successore le
avrebbe data l'organizzazione del culto , finchè da ultimo Roma già ingrandita
, mediante l'incorporazione di popoli e di genti diverse , avrebbe ricevuto una
nuova organizzazione civile , politica e militare per opera di Servio Tullio ,
che si sarebbe così meritato il nome di secondo fondatore della città . Per tal
modo la forza dapprima, poi la religione e da ultimo la sapienza civile
hanno posto, le fondamenta dell'eterna città , e le sue istituzioni civili e
politiche appariscono come una creazione personale dei Re, fra i quali la
tradizione avrebbe perfino distribuito il compito . Il suo fondatore è Latino,
mentre invece è Sabino l'organizzatore del culto , e da ultimo è probabilmente
di origine etrusca quegli, che ne ha riformato compiutamente l'organizzazione
civile e politica e ha stabilito quelle istituzioni, che riceveranno poi il
proprio svolgimento durante l'epoca repubblicana. Da un altro lato invece la
stessa tradizione circonda la fonda zione di Roma di cerimonie religiose, di
carattere tradizionale, che suppongono una religione già compiutamente formata,
e fa apparire Roma nella storia con un nucleo di istituzioni pubbliche e
private , che dovranno poi svolgersi con un rigore pressochè geometrico, ma che
intanto suppongono una lunga elaborazione anteriore (1). 2. Di fronte a questa
apparente contraddizione, il maggior pro blema, che si presentava alla scienza
storica contemporanea, era quello di sostituire alla storia leggendaria delle
origini di Roma una storia viva ed organica di essa, ricercando le origini
delle istituzioni pri mitive con cui essa appare nella storia. In questa
ricostruzione la critica moderna dapprima si scosto per modo dalle tradizioni a
noi pervenute da scorgere in queste poco più di una serie di leg
gende;madovette poi riaccostarsi alle medesime, e finì per giungere a questo
risultato, che le istituzioni con cui Roma compare nella storia non possono
esser ritenute come l'opera esclusivamente personale dei Re, ma debbono essere
riguardate come il frutto di una lunga e lenta elaborazione già compiutasi in
un periodo anteriore di or ganizzazione sociale, che sarebbe il periodo
dell'organizzazione gen tilizia o patriarcale. Roma insomma, secondo i
risultati della critica moderna, avvalorati anche dagli studii comparativi
fatti sui popoli primitivi sopratutto di origine ariana , avrebbe continuata
quell'opera di formazione della convivenza civile e politica , che era già
stata iniziata dalle altre popolazioni italiche , le cui memorie risalgono ad
epoca anteriore a quella che è fissata per la fondazione di Roma. Quindi è presso
le genti latine ed italiche, che debbono essere cercate le origini delle
primitive istituzioni di Roma. 3. Secondo il computo più universalmente
adottato , Roma è stata fondata nell'anno 753 avanti l' êra volgare e sarebbe
com parsa fra popolazioni diverse, delle quali alcune in parte già erano uscite
dall'organizzazione gentilizia , e stavano avviandosi ad una vera e propria
organizzazione civile e politica . Senza entrare nella questione dei rapporti,
che possono correre fra ( 1) Per un riassunto esatto delle tradizioni intorno
alla storia primitiva di Roma fino all'anno 283 dalla sua fondazione,
accompagnato da una critica finissima per separare il nucleo primitivo della
tradizione dalle aggiunte che si fecero più tardi, è da vedersi il BONGHI, Storia
di Roma, vol. 1º. Per lo studio delle istituzioni poli tiche importa sopratutto
il libro terzo, che si occupa appunto della costituzione politica di Roma,
secondo CICERONE, Livio, Dionisio , da pag . 513 al fine. Milano, 1884. - 3 le
stirpi italiche e le stirpi elleniche e in quella della loro prove nienza
dall'Oriente ( 1), questo è certo che fra le stirpi italiche già erano
pervenute ad un certo svolgimento di civiltà e di potenza le stirpi Umbro -
Sabelliche, Latine ed Etrusche. Scavi di data recente (fatti nel 1874 e nel
1883) hanno dimostrato , che il sito occupato da Roma doveva già essere
popolato da un'epoca assai remota e del tutto preistorica. Sopratutto fu
scoperta sull'Esquilino una vasta necropoli, la cui esistenza dimostra che una
città etrusca di grande estensione ed importanza (Rasena ) sarebbe esistita
anche prima del periodo reale leggendario , e costituisce una prova molto
importante contro quella teoria che, attribuendo a Roma un'origine esclusiva
mente latina e sabina, tenderebbe ad escludere o quanto meno ad attenuare
l'influenza dell'elemento etrusco ( 2 ). (1) Tale provenienza delle stirpi
Italiche dalle razze Ariane e la conseguente loro , parentela colle Elleniche,
colle Germaniche, Celtiche e Slave, è oggidì universalmente ammessa, salvo che
si mantiene ancora sempre una grande oscurità circa l'origine della razza
Etrusca . Tra gli autori recenti ha recato un contributo alla dimostra zione di
tale provenienza il Leist, Graeco-italische Rechtsgeschichte. Jena , 1884 ,
sopratutto nella parte in cui dimostra l'identità di certi concetti primitivi
comuni agli Arii dell'India e alle genti Italiche ed Elleniche. È da vedersi la
parte, che si riferisce alle instituzioni sacrali, in cui discorre dei concetti
di rita , themis e ratio , pag . 175 e seguenti. Quest'origine comune è pure
ammessa dal BERNHÖFT, Staat und Recht der Römischen Königszeit. Stuttgart, 1882
, pag. 33 a 40. Per quello poi che riguarda il vario svolgimento, che le
istituzioni elaboratesi nell'Oriente dagli Arii primitivi ebbero a ricevere
presso gli Arii dell'India , della Persia, e poscia nell'Occi dente presso i
Greci, gli Italici ed i Germani, mi rimetto a quanto ho scritto nell'o pera :
La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale. Torino , 1880, i cui
primidue libri sono appunto dedicati a tale svolgimento. ( 2) Sono a vedersi in
proposito le notizie sugli scavi, che si pubblicano dall'Ac cademia dei Lincei.
Come riassunto degli studii topografici fatti intorno a Roma fino a questi
ultimi tempi mi sono valso dell'opera di HENRY MIDDLETON, Ancient Rome,
Edinburgh, 1885, il quale parla di questi nuovi scavi e dei resti
dell'antichissima Roma, a pag. 42 e seguenti. Fra gli autori che tendono a
scemare l'influenza del l'elemento Etrusco sopra Roma primitiva, abbiamo il
MOMMSEN , il LANGE, e fra i recenti il Pelham nella sua storia di Roma antica
pubblicata nel volume XX della Encyclopedia Britannica , ninth edition ,
Edinburgh, pag. 731, 1886 , vº Rome. Com batte questa opinione il Taddeinel suo
lavoro : Roma e i suoi Municipii. Firenze, 1886 , pag . 45 e seg . Senza
pretendere di risolvere la questione, è lecito osservare che mal si può
sostenere la niuna influenza su Roma primitiva di un popolo come l'Etrusco che
aveva già delle città in siti vicini, che conosceva quei riti con cui Roma fu
fondata, e che diede a Roma i tre ultimi re, quelli cioè, che rinnovarono più
profondamente non solo l'aspetto esteriore della città, ma anche la
costituzione politica della medesima. 4 Queste varie stirpi, che abitavano il
suolo italico , per quanto ora si ritengano tutte uscite dalla stirpe Aria,
avevano però dimen ticata la provenienza comuneed apparivano distinte fra di
loro di ori gine, di costumi e non avevano fra di loro comunanza di matri monii
; solo erano ravvicinate da feste religiose e da certi luoghi di mercato, ove
tacevano i conflitti e si praticavano gli scambi ed i commerci. Quanto alla
loro organizzazione sociale, esse , secondo l'opinione del Mommsen , del Leist
, del Lange, si trovavano nel periodo di transizione dall'organizzazione
gentilizia di carattere patriarcale all'organizzazione politica della città e
del municipio . Però anche a questo riguardo si presentavano in stadii e
gradazioni diverse . 4. Le stirpi Umbro -Sabelliche appariscono con
un carattere pro fondamente religioso ; sono dedite ancora più alla pastorizia
che al l'agricoltura ; preferiscono per formarvi le proprie sedi i luoghi
montani e conservano ancora quel carattere di fiera indipendenza, che è proprio
degli abitanti della montagna. Esse non abitano ancora in vere e proprie città
, ma in villaggi aperti, che costituiscono al trettante comunanze rurali, e
serbano le traccie di una potente organizzazione gentilizia , di cui pud
trovarsi un notevole esempio nella gens Claudia . Queste stirpi anche più tardi
dimostrarono poca attitudine alla formazione di un vero e proprio Stato, come
lo provano le sorti dei bellicosi Sanniti, che sono appunto derivati dal ceppo
Umbro-Sabellico (1). 5. Trovansi invece già in condizione più progredita , per
quel che riguarda l'organizzazione sociale , le stirpi Latine. Il Lazio infatti
appare diviso in altrettante comunanze di villaggio aperte, che sono costituite
da una aggregazione di famiglie e di genti, le quali discen dono da un antenato
comune, di cui portano il nome e professano il culto gentilizio . Tali
aggregazioni di genti, che chiamansi tribù , abitano nei vici e nei pagi; ma,
riconoscendo la loro origine co mune, anzichè avere una esistenza del tutto
separata ed indipen dente, entrano già a far parte di un'aggregazione più
vasta, che costi ( 1) In ciò sono d'accordo il Mommsen , Histoire Romaine.
Trad. De Guerle. Paris, 1882, Tome 1er, pag . 140 e seg., ed anche il Lange,
Histoire intérieure de Rome. Trad. Berthelot et Didier. Paris, 1885, Tome 1er, pag.
13. Quest'ultimo attri buisce alle genti Sabine un carattere più conservatore
che non alle Latine. - 5 - tuisce poi il populus e la civitas. Questa
aggregazione più vasta non solo aveva comune la lingua , il costume e la
religione , ma eziandio le leggi, l'amministrazione della giustizia e la difesa
contro gli attacchi e le aggressioni esterne. Essa quindi abbisognava di un
centro comune, a cui potessero metter capo le diverse comunanze di villaggio ,
il quale centro comune era l'urbs, così chiamata dall'orbita sacra che la
circondava, nel cui recinto trovavasi l'arx o fortezza , a cui riparare nei
momenti di pericolo , il tempio della divinità patrona dell'intiera comunanza ,
il luogo ove si ammini strava giustizia , il sito per il mercato e per le pubbliche
riunioni. Questi stabilimenti pertanto, più che vere e proprie città quali
noile intendiamo, erano piuttosto inizii di città future, in quanto che esse
contenevano sopratutto quegli edifizii, che avevano pubblica desti nazione.
L'urbs era in certo modo il centro della vita pubblica per le diverse comunanze
di villaggio, come lo dimostrano anche le varie porte esistenti nel muro di
cinta, le quali porgevano modo di accedervi agli abitanti dei diversi villaggi.
Si aggiunge che le varie città latine, le quali, secondo la tradizione,
sarebbero state in numero di trenta , erano anche confederate fra di loro e
mettevano capo ad una capitale, che era Alba Longa (1 ). Cid dimostra come le
popolazioni latine già fossero abbastanza pro gredite nella loro organizzazione
sociale, poichè, pur continuando an cora a vivere nelle comunanze di villaggio
, erano pero già pervenute a concepire e in parte ad attuare quella vita
pubblica comune, che doveva poi svolgersi nella città e nel municipio . 6.
Vengono infine le stirpi Etrusche, la cui civiltà è ancora og . gidi celata nel
mistero , perchè le traccie di essa furono in certo modo cancellate ed
assorbite da Roma. Non può tuttavia esser dubbio, che esse già erano in
condizione di maggior progresso eco nomico e civile delle altre popolazioni
italiche, in quanto che posse devano vere e popolose città , conoscevano le
arti e la moneta, e per essere dedite al commercio si trovavano in
comunicazione mag giore cogli altri popoli e sopratutto coiGreci. Anche presso
di queste era largamente svolto l'elemento religioso, come lo dimostra la sa
pienza loro attribuita nell'arte augurale e nella consultazione degli auspizii,
come pure la tradizione, che presso di essi esistessero libri, ( 1) MOMMSEN ,
op. e loc. cit., pag. 44 e seg .; FUSTEL DE COULANGES, La cité an tique, Paris,
1876 , pag. 274. 6 - che determinavano i riti con cui le città dovevano essere
fondate, e davano le regole secondo cui la loro popolazione doveva essere
ripartita in tribù ed in curie (1). Del resto anche l'antica costituzione della
città etrusca , secondo il Mommsen, si accostava nei suoi tratti generali a
quella della città latina, salvo che in essa il passaggio dalla organizzazione
patriar cale all'organizzazione muicipale già erasi spinto più oltre , in quanto
che le stirpi Etrusche, per essere sopratutto dedite alla na vigazione eda nei
suoi tratti generali a quella della città latina, salvo che in essa il
passaggio dalla organizzazione patriar cale all'organizzazione muicipale già
erasi spinto più oltre , in quanto che le stirpi Etrusche, per essere
sopratutto dedite alla na vigazione ed al commercio , erano state
naturalmente condotte a svolgere di preferenza le comunanze urbane, che non le
comunanze di carattere esclusivamente rurale . I capi Etruschi avevano il nome
di Lucumoni; la popolazione delle loro citt dividevasi in no bili ed in
plebei, come pure in tribù ed in curie , e se al disopra delle singole città
apparivano eziandio delle confederazioni, i vincoli pero che stringevano
insieme le varie città , che entravano a costituirle , non erano co si
intimi e stretti come quelli che esistevano fra le città della confederazione
latina. Esse infine pure presentano le traccie dell'organizzazione gentilizia ,
ma queste sono già alquanto più alterate per il maggior svolgimento a cui è
pervenuta la co munanza civile e politica (2). 7. È a questo punto dello
svolgimento dell'organizzazione sociale e della convivenza civile , che Roma
compare nella storia . Per quanto possano esservi dei dubbi sull'influenza, che
su di essa ab biano esercitato più tardi l'elemento latino e l'elemento etrusco
, questo è certo che il primo nucleo di essa ebbe ad essere costituito da un
gruppo di uomini armati di origine latina. Sono i Ra mnenses , guidati da
Romolo e usciti come colonia o per secessio da Alba Longa, che hanno fondato
quella Roma palatina, che, per la forma quadrangolare delle sue mura , di cui
sussistono ancora gli avanzi, suole essere indicata col nome di Roma quadrata
(3 ). (1) Festo, v° Rituales: « Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus
prae scriptum est quo ritu condantur urbes, arae, aedes sacrentur; qua
sanctitate muri, quo iure portae, quomodo tribus, curiae , centuriae
distribuantur, exercitus consti. tuentur, ordinentur, caeteraque eius modi ad
bellum ac pacem pertinentia » . ( 2) MOMMSEN, op . e loc. cit., pag. 155. V. il
LANGE, op . cit., pag. 14 , ove cerca di distinguere il popolo dei Rasennae,
che sarebbero secondo lui i veri Etruschi, che egli ritiene di origine Aria ma
di provenienza settentrionale, dagli abitanti del Vicus Tuscus, che
apparterrebbero invece ai Tursci, da lui ritenuti di origine Umbra. (3) È
questa la Roma, il cui pomoerium è stato descritto da TACITO, Ann. XII, 24 .
Nulla vi ha di ripugnante nella tradizione, che questa mano di guerrieri,
stabilitasi colla forza in un sito chiuso e fortificato , siasi dapprima
trovata in lotta aperta colle altre comunanze , che erano stabilite in
prossimità del Palatino. Essa però ben presto esercitò una attrazione potente
sulle popolazioni vicine, e si trasformò in un centro per la vita pubblica di
una confederazione di varie comunanze di villaggio , che erano disperse in
quell'antico septimontium , che ci è descritto dal giureconsulto M. Antistio
Labeone, il quale avrebbe compreso il Palatino, il Fagutale, la Subura, il
Cermalo, l'Oppio, il Celio e il Cespio (1). Cosi pure dovette presto entrare
nella federa zione anche una comunanza di origine sabina, che era stabilita sul
Quirinale . Di qui la conseguenza, che le tradizioni antiche ed anche gli studi
recenti, fatti sulla topografia di Roma, condurrebbero a conchiudere che Roma
primitiva avrebbe attraversato nel periodo, che suole essere assegnato al regno
del suo fondatore , due stadii ben distinti nella propria formazione. Nel suo
primo comparire infatti Roma non è ancora che lo sta bilimento romuleo , il
quale, malgrado la denominazione che già assume di vera e propria città,
consiste nella sede fortificata di una tribù di origine latina , che è quella
dei Ramnenses , ancorchè intorno ad essa già si trovi in via di formazione una
plebe, il cui numero sarebbesi accresciuto, secondo la tradizione, mediante
l'asilo aperto ai rifugiati ed agli esuli delle comunanze vicine (2 ). Più
tardi invece questo nucleo agreste di guerrieri di origine latina entra
dapprima in ostilità e poscia viene in alleanza con comunanze già prima
stabilite sui colli vicini, e allora Roma diviene centro e capo di tale
federazione, e mutasi in una vera urbs, secondo il con È pur nota la questione
relativa al pomoerium , che alcuni vorrebbero collocare entro le mura
fondandosi su Livio, I, 44, mentre altri sostengono che fosse al di là delle
mura, come lo indicherebbe la stessa parola post-moerium . La questione fu di
recente trattata con grande corredo di erudizione dal CARLOWA, Romische
Rechtsgeschichte, Leipzig , 1885. Erster Band , § 8, pag . 59 e seg ., dove
sembra propendere per l'opi nione, che il pomoerium servisse di confine fra il
territorio dell'urbs e l'ager circo stante. Cf. MIDDLETON , op. cit., pag . 45
. (1) Il testo di LABEONE è riportato dall'HUSCHKE, Iurisprudentiae anti-
Iustinianeae quae supersunt. Ed. quarta , Lipsiae, 1879. LABEO, n ° 14, pag .
111. (2 ) Un accenno a questo concetto trovasi nel Lange, Histoire intérieure
de Rome, I, pag. 25 : tuttavia non pare che il medesimo consideri lo
stabilimento romuleo come una semplice tribù . 8 cetto latino, ossia nella sede
della vita pubblica di queste varie co munanze . Questi due stadii nella
formazione di Roma primitiva , di cui non si tiene sempre sufficiente conto ,
sono accennati da diversi autori e fra gli altri anche dal giureconsulto
Pomponio , secondo il quale Romolo non sarebbe proceduto alla divisione della
città in curie su bito dopo la fondazione di essa , ma vi sarebbe invece
addivenuto soltanto « aucta ad aliquem modum civitate » , cioè quando altre
comunanze già eransi incorporate o meglio federate con essa nel l'intento di
partecipare ad una vita pubblica comune (1) . 8. Gli elementi primitivi, che
secondo la tradizione sarebbero en trati a far parte della comunanza romana in
questo suo primo pe riodo di ingrandimento , sarebbero dalla stessa tradizione
ridotti a tre tribù, cioè alla tribù dei Ramnenses, che era quella dei fonda
tori, a quella dei Titienses, di origine Sabina, stabiliti sul Quirinale , i
quali sarebbero entrati nella comunanza mediante un foedus aequum , come lo
dimostra il fatto che i capi delle due tribù avreb bero regnato insieme e
poscia i loro successori si sarebbero alternati nel comando, e a quella infine
dei Luceres, coi quali sembra in vece sia seguito un foedus non aequum .
L'origine di questo ultimo elemento è incerta , ma dovette probabilmente essere
etrusca, quando si consideri, unitamente alla loro denominazione, l'esistenza
di un antichissimo Vicus Tuscus, la serie degli ultimi re che furono di origine
etrusca, e si tenga conto del fatto che le recenti scoperte dimostrano come le
genti etrusche già avessero da epoca ante riore fondato delle vere e proprie
città in prossimità del sito , ove Roma fu edificata , Cosi intesa la
formazione di Roma primitiva, si dovrebbe venire alla conclusione, che la
incorporazione delle tre tribù nella comu nanza romana avrebbe dovuto operarsi
fin dal periodo assegnato dalla tradizione al regno di Romolo (2); il che però
non toglie, ed ( 1) POMPONIUS, L. 2 Dig. ( 1, 2 ). (2) Credo doversi accogliere
questa opinione nell' intricatissima questione, perchè non si comprenderebbe la
divisione tripartita della città , che viene attribuita a Romolo, quando il
concorso delle tre tribù non si fosse effettuato durante il suo regno. Vero è,
che nella storia primitiva di Roma havvi un momento storico, in cui per
l'aggiunzione di nuovi elementi si raddoppia il numero dei membri dei collegi
sacer dotali e quello delle centurie dei cavalieri, ma il raddoppiamento si fa
sempre sulla 9 anzi spiega anche meglio come Roma, risultando di elementi
diversi fin dalla propria origine, abbia poi accolte nella comunanza nuove
genti di origine latina, come di origine sabina e di origine etrusca, ed abbia
in certo modo esercitata una specie di attrazione sopra queste varie stirpi
italiche, come lo dimostrano le tradizioni rela tive alla cooptazione delle
genti albane, quelle relative a Celes Vi benna e alla venuta di Tarquinio a
Roma colla sua gente, ed all'in corporazione, avvenuta negli inizii del periodo
repubblicano, della gente Claudia di origine sabina. 9. Intanto però il fatto ,
che Roma avrebbe preso le mosse da uno stabilimento romuleo di origine latina ,
fondato in guisa analoga a quella con cui si fondavano anche più tardi le
colonie e con una analoga ripartizione dal territorio occupato , spiega il
carattere che Roma ebbe poi sempre a ritenere di città eminentemente latina ,
in quanto che gli elementi, che si vennero aggiungendo al nucleo primitivo ,
dovettero entrare nei quadri propri dello stabilimento la tino. Ciò accadde per
mezzo di successive federazioni, una delle quali, quella coi Luceres, sarebbe
stata un foedus non aequum , in quanto che il nuovo elemento sarebbe entrato
nella comunanza in una condizione inferiore (1 ). Conviene quindi conchiudere,
che Roma primitiva, oltre all'essere di origine latina , fu anche foggiata sul
modello delle città latine , e che quindi, al pari dell'urbs delle popolazioni
del Lazio, diventò fin dapprincipio una città federale, che può essere
considerata come il centro della vita pubblica di varie comunanze di villaggio
. È però naturale, che questa tra sformazione, per cui Roma cessò di essere
esclusivamente la sede fortificata di una tribù per diventare centro e capo di una
confe derazione, abbia fatto sentire la necessità di fortificare anche il
Capitolino, e di munire di un vallum od agger l'Aventino, co struzioni queste,
che, secondo Dionisio, si sarebbero compiute dallo stesso Romolo, ma di cui non
rimasero più gli avanzi, che sono base di tre, il che indica che già
anteriormente dovevano esservi tre tribù , che con correvano alla formazione di
Roma. Cfr. Bloch , Les origines du Sénat Romain . Paris, 1883, pag. 13 e seg .,
e per l'opinione contraria Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines.
Paris , 1886, pag. 5, nota 1. (1) Il principio « prior in tempore, potior in
iure è dai Romani applicato non solo in tema di diritto privato, ma anche in
tema di diritto pubblico. Questo con cetto è ancora espressansente enunciato
nella legge 74 , § 1, Cod. Theod . 12, 1 . « Anteriore tempore adscitos ipsa
aequum est antiquitate defendi » 10 - invece notevoli quanto alla primitiva
Roma quadrata . Vero è che questa narrazione di Dionisio fu posta in dubbio
dalla critica contemporanea ; ma egli è certo che in se stessa non ha nulla di
improbabile, in quanto che era ben naturale, essendosi estesa la co munanza
colla federazione di altre popolazioni vicine, che anche il caput ed il centro
di Roma fosse trasportato in un sito, a cui fosse più facile l'accesso dalle
varie comunanze , e che non fosse la di mora pressochè esclusiva di una delle
tribù confederate , come era della città palatina (1). Si comprende pertanto
come, sotto lo stesso Romolo o sotto i Re che lo seguirono, la fortezza della
città e il tempio della divinità patrona comune siansi fondati sul Capitolino e
come a poco a poco gli edifizii pubblici di Roma antica siansi venuti
concentrando fra il Palatino ed il Capitolino, in quel sito appunto in cui
ancora oggidi si ammirano le grandi reliquie degli edifizii pubblici di Roma
antica ; edifizii che al tempo dell'Impero già erano considerati come una
specie di museo, e come tali erano divenuti oggetto di venerazione e di culto ,
ed erano custoditi qual memoria di una vita politica, che ormai aveva cessato
di esistere . 10. A questo periodo però, che può dirsi di semplice
confederazione, ne succedette un altro , in cui cominciò ad effettuarsi una
vera e propria incorporazione delle varie comunanze di villaggio in una città ,
la quale, fortificata e chiusa in se stessa , apparisse paurosa e potente alle
popolazioni vicine. – Due cose si richiedevano per una simile trasformazione.
Conveniva anzitutto che alla distinzione delle tre tribù primitive, che
ricordava ancor sempre la loro ori gine diversa, si facessero sottentrare altre
distinzioni, le quali so stituissero al vincolo genealogico il vincolo
territoriale , e che gli elementi diversi, che erano entrati a far parte della
stessa comu nanza politica e militare , fossero anche stretti insieme, mediante
la coabitazione entro le medesime mura. Fu allora, che, secondo la vigorosa
espressione di Floro, cominciò a mescolarsi insieme il sangue di elementi
originariamente diversi, i quali finirono col tempo per costituire un unico corpo
ed un organismo coerente in tutte le sue parti (2 ). (1) Dion., II, 37. Cfr.
MIDDLETON , Ancient Rome, pag . 58 . (2) FLORUS, III, 18: « Quippe cum populus
Romanus Etruscos , Latinos, Sabi nosque miscuerit et unum ex omnibus sanguinem
ducat, corpus fecit ex membris et ex omnibus unus est » . - ll - Questi sono i
divisamenti, che, incominciando da Tarquinio Prisco , già cominciano a
delinearsi nella mente dei re. – È noto infatti che Tarquinio Prisco già
avrebbe tentato , secondo la tradizione, di aggiungere nuove tribù alle tre
primitive e di rompere così il mo dello primitivo, sovra cui Roma erasi venuta
formando. Il suo tentativo però trovò opposizione nell'augure sabino Atto
Navio, che qui evidentemente si fa interprete dello spirito conservatore del pa
triziato romano, e quindi l'opera di Tarquinio Prisco dovette li mitarsi a fare
entrare gli elementi sopraggiunti nei quadri delle tribù primitive. Gli è
perciò , che gli viene attribuito di aver raddop piato il nu mero delle
Vestali, di aver duplicato il numero delle cen turie degli equites ,
aggiungendo alle tre centurie dei Ramnenses, Titienses , Luceres primi le tre
dei Ramnenses, Titienses, Lu ceres secundi, e di avere infine anche raddoppiato
o quanto meno portato a trecento il numero dei senatori con aggiungere ai
patres maiorum gentium quelli minorum gentium (1). Così pure è ormai dimostrato
che i re anteriori a Servio Tullio già avevano iniziato dei lavori di cinta e
di fortificazione, che poi furono com presi nella cinta Serviana, e che la grande
opera di questa nuova cerchia di Roma già era incominciata sotto Tarquinio
Prisco . 11. L'una e l'altra opera fu poi continuata da Servio Tullio , che
forte dell'appoggio della plebe e di parte anche del popolo, sembra aver fatto
a meno anche dell'approvazione dei padri. Egli infatti, senza distruggere la
primitiva organizzazione di Roma, fondata ancora sulla discendenza, riusci a
creare, accanto alla medesima, una nuova organizzazione militare, politica e
tributaria , per cui la popolazione romana ricevette una nuova ripartizione in
classi ed in centurie, e il suo territorio venne ad essere diviso in tribù
locali. Così pure riusci a compiere quell'opera gigantesca della cinta , che fu
dal nome di lui chiamata Serviana , i cui avanzi formano ancora oggi la meraviglia
degli investigatori dell'antichità e dimo strano da soli la grandiosità e
l'unità del concepimento, malgrado che parecchi re avessero partecipato alla
costruzione di quelle mura e di quell'agger , che poi furono chiamati
Serviani; costruzione, che sarebbe pressochè incomprensibile se non fosse stata
compiuta col concorso di quelle plebs, ormai già fatta numerosa , che con
Servio (1) Cic. de Rep., 2, 20. V. LANGE, Op. cit. e loc. cit., pag . 81 e seg
. 12 Tullio sarebbe entrata a far parte del Populus Romanus Quiri tium ( 1). È
da questo momento che Roma appare chiusa e fortificata nelle proprie mura, già
splendida di edifizii, ricca eziandio di una popo lazione urbana, che può
ancora essere accresciuta senza che occorra di estenderne ilpomoerium . È da
quest'epoca parimenti, che Roma, forte del rigore del proprio diritto e della
propria disciplina dome stica e militare, si mette in lotta aperta con tutte le
tribù o genti, che non siano disposte ad accettarne la superiorità o l'alleanza
. Noi ci troviamo così di fronte alla Roma storica , conquistatrice e
legislatrice prima dell'Italia e poscia dell'universo, degna di essere studiata
nelle sue lotte intestine e nella sua unità compatta di fronte alle altre
genti. Tuttavia , anche dopo Servio Tullio, Roma non giunge mai a chiudere
nelle proprie mura tutta la sua popolazione , ma soltanto le quattro tribù
urbane, mentre è ben maggiore il numero delle tribù rustiche. e lo spazio dalle
medesime occupato . Per tal modo essa continua ancor sempre ad essere il centro
della vita pubblica , a cui mettono capo le popolazioni sparse nelle comunanze
di villaggio o pagi, che la circondano, ed è la sua persistenza in questo
processo già seguito in Roma primitiva e non mai abbando nato anche più tardi,
che spiega come Roma abbia potuto cambiarsi in una città , i cui cittadini
erano sparsi dapprima in tutto il Lazio , poi per tutta l'Italia , e da ultimo
per tutto il territorio dell'impero . 12. Se ho insistito alquanto lungamente
sopra questo concetto, gli è per dimostrare come non possa accettarsi
l'opinione che sull'auto rità del Mommsen e di altri fu pressochè
universalmente accolta e che a mio avviso rende del tutto incomprensibile la
storia primitiva di Roma, secondo cui questa sarebbe stata fin da principio l'unione,
la fusione, l'incorporazione di varie tribù e genti e dei territorii dalle
medesime occupati. Ciò è smentito dal processo seguito nella for mazione delle
città Latine, quale è descritto dallo stesso Mommsen , ed è in contraddizione
con tutta la storia primitiva di Roma. Roma nei proprii inizii fu modellata
sull'urbs dei popoli latini, e come tale non fu che la capitale di una
federazione e il centro della sua vita pubblica , mentre lasciò che le genti e
le famiglie con ( 1) V. in proposito l'articolo del BARATTIERI, Sulle
fortificazioni di Roma all'epoca dei re. Nuova Antologia . Gennaio 1887. - 13
tinuassero la propria vita domestica e patriarcale nelle comunanze di villaggio
, alle quali continud a lasciare i proprii territorii genti lizii. La sua formazione
pertanto non è dovuta ad un processodi aggregazione, ma ad un processo di
selezione, cosa che sarà più largamente dimostrata a suo tempo . Qui basterà il
notare che questo modo di spiegare la formazione di Roma primitiva conduce a
conseguenze molto diverse da quelle, ch e furono pressochè universalmente
adottate. Partendo infatti dall'idea di una semplice aggregazione si giunge a
trasportare le gentes fra le ripartizioni delle città, come ha fatto il
Niebhur; a so stenere col Mommsen che la primitiva proprietà di Roma fu una
proprietà collettiva come quella delle gentes , ciò che è smentito as
solutamente dal diritto primitivo di Roma, a dare collo stesso autore un
carattere assolutamente patriarcale alla primitiva costi tuzione di Roma, e ad
una quantità di altre illazioni, che rendono del tutto inesplicabile e
contradditoria la storia primitiva di quel po polo , che ha usato una maggior
logica nello svolgimento delle proprie istituzioni. Con questo sistema si
dovette necessariamente giungere a considerare la storia primitiva di Roma come
una serie di leg gende, che sarebbero state inventate da un popolo , che in
tutto il 1 resto si è dimostrato invece ben poco fantastico , nell'intento di
combinare l'umiltà delle proprie origini colla grandiosità dello svol gimento,
che ebbe a ricevere dappoi (1). (1) Parrà strano che nella mia pochezza venga a
combattere opinioni, le quali appariscono suffragate da un così gran cumulo di
erudizione e di studii. Nè io l'avrei fatto quando si trattasse di questo o di
quel documento storico, ma dalmo mento che trattasi di ricostruire in base alle
induzioni più probabili il processo, che Roma seguì nella propria formazione,
mi parve di doverlo fare, poichè sono appunto le opinioni inesatte dei grandi
scrittori, che pongono gli altri sopra una falsa via . È incredibile la
quantità di induzioni errate, che produsse nella storia di Roma la confusione
fatta dal Niebuur dell'organizzazione gentilizia coll'organizzazione politica
allorchè volle scorgere nelle dekódeS di Dionisio le gentes, e sostenne così
che queste fossero una divisione politica della città . Tutta la critica
storica tedesca si pose in questa via e tutti vollero scorgere nella città
un'aggregazione di gentes, il che rese del tutto inesplicabile la storia primitiva
di Roma. Mi basterà citare fra gli altri; il MOMMSEN, op. cit. e loc. cit.,
pag. 77 , ove dice che le genti erano incorporate tali e quali nello Stato con
tutti i loro territorii e con tutte le famiglie, che contene vano e che il
gruppo della famiglia e della gens continuava a sussistere nello Stato » ; il
LANGE, op. cit ., pag. 37 e seg ., ove con uno sforzo mirabile, ma sfortunato,
di sottigliezza, vuol trovare ad ogni costo i caratteri della famiglia nello
Stato romano; 14 - 13. Parmi invece un processo assai più logico e che può
condurre a risultati assai più verosimili quello, che ebbe già ad esser
iniziato dal Bonghi, di prendere Roma, quale essa si presenta nelle tradizioni
esa minate col sussidio della critica . Dal momento che Roma si è veramente
staccata da una popolazione latina , è naturale che essa sia stata dapprima
foggiata sul modello delle città latine, e che abbia continuata tenacemente
l'opera già da queste incominciata di organiz zare , accanto alla vita
patriarcale e gentilizia , quella vita pubblica, che dispiegasi appunto
nell'urbs e nella civitas. Roma si presenta nella storia memore di tutte le
tradizioni, che già si erano formate nel periodo anteriore dell'organizzazione
gentilizia , ed è con queste tradizioni, che si accinge ad organizzare un nuovo
aspetto di vita sociale, che è quello della vita pubblica e municipale. Essa
quindi non assorbe di un tratto nè le tribù nè le gentes, ma lascia che esse
continuino ad essere campo alla vita domestica e patriarcale ; solo richiama a
se lentamente e gradatamente tutti quegli ufficii di carattere pubblico, che
prima si compievano nel seno dell'orga nizzazione gentilizia , ed è in tale
intento che essa intraprende l'ela borazione del proprio diritto pubblico e
privato . Una volta poi che quest'opera è iniziata , Roma, con quella tenacità
di proposito , che è sopratutto propria del popolo romano , non si arresta
nell'opera sua sinchè non sia pervenuta non solo ad organizzare nel proprio
seno una vita pubblica e municipale,ma a cambiare il mondo allora conosciuto in
un complesso di città , di colonie, di provincie orga nizzate tutte a
somiglianza di se medesima, e gli abitanti dell'impero in cittadini di un'unica
città . La qual opera fu compiuta da Roma seguendo sempre quel medesimo
processo , a cui erasi attenuta nella sua primitiva formazione. 14. È per
questo motivo, che era impossibile comprendere le origini delle istituzioni
pubbliche e private di Roma senza tener dietro alla sua formazione esteriore,
quale può ricavarsi dagli studii topogra e il Sumner MainE, L'ancien droit,
trad . Courcelle Seneuil, pag. 121, dove, dopo aver detto che la gens era una
aggregazione di famiglie, e la tribù un ' aggregazione di gentes, finisce per
dire che la città non è essa stessa che « un'aggregazione di tribù e la
repubblica una collezione di persone legate per discendenza comune all'autore
di una famiglia primitiva » , il che certamente non può ammettersi. Del resto
la gravissima questione sarà trattata più a lungo nel lib. II, Cap. I, quando
si discor rerà della costituzione primitiva di Roma. 15 fici recentemente fatti
intorno all'antica Roma. Si potrebbe poi fa cilmente dimostrare, che questa
formazione progressiva, che risulta dall'estendersi della cerchia stessa di
Roma, viene anche ad essere provata dal formarsi progressivo della sua
religione, del suo senato , dell'ordine dei cavalieri, del suo esercito , dei
suoi collegi sacerdotali, ma cid risulta anche più chiaramente dalla formazione
delle sue isti tuzioni pubbliche e private, poichè ciascun popolo imprime
sopratutto il proprio carattere in quella parte dell'opera sua, in cui giunse
senz'alcun dubbio a maggiore grandezza (1 ). A ciò si aggiunge la
considerazione già stata fatta da un autore assai benemerito della
ricostruzione della storia primitiva di Roma, che è il Rubino, secondo il quale
le tradizioni, che a noi pervennero circa i primi tempi di Roma, debbono
distinguersi in due specie . Vi hanno quelle relative alla costituzione
primitiva di Roma ed agli istituti religiosi e giuridici , che sono collegati
con essa , e queste fino a prova contraria debbono essere ritenute per vere ;
perchè trattasi (1) Vi ha questo di particolare nella storia di Roma, che lo
svolgimento di essa , sotto qualsiasi aspetto sia considerato, presentasi
organico e coerente in tutte le sue parti. Ne derivò che tanto le
investigazioni pazienti e minute quanto le ricostru zioni ardite, che si
vennero succedendo, finirono per sussidiarsi a vicenda per l'intel ligenza di
Roma primitiva . Vi conferirono gli studiosi della topografia di Roma antica ,
della sua arte militare, della sua letteratura, della sua filosofia , dei suoi
mo. numenti, della sua costituzione politica e delle sue istituzioni
giuridiche. Che anzi la coerenza del suo svolgimento appare così meravigliosa ,
che vi sono autori che, se guendo soltanto il formarsi della sua religione e
dei suoi collegi sacerdotali, cerca rono di inferirne gli stadii della sua
formazione progressiva , come tentò di fare il Bouché-LECLERCQ, Les Pontifes de
l'ancienne Rome, Paris, 1871, e Manuel des institutions romaines, Paris , 1886
; altri, che tentarono di venire allo stesso risultato, seguendo lo svolgimento
di un istituto particolare, come sarebbe quello del Senato , come il WILLEMS,
Le sénat de la république romaine, Paris, 1878 , 2 vol. , come pure il Blocu,
Les origines du sénat romain, Paris, 1883, od anche quello dell'or dine dei
cavalieri, come tentò di fare il Belot, Histoire des chevaliers romains, Paris,
1866 , 2 vol. — Non può però esservi dubbio che penetrarono più profondamente
nella vita primitiva di Roma quelli sopratutto, che, come il Vico ed il
Niebuur, ne ricercarono la storia nelle lotte degli ordini, che entravano a
costituirla e nello svol gimento delle istituzioni giuridiche e politiche. Il
diritto è la grande occupazione di Roma, e quindi è quello che conserva meglio
le vestigia di un'epoca pre-romana. Esso formò il pensiero costante non solo
dei sacerdoti, dei patrizi, e dei giurecon sulti, ma ancora dei poeti, per modo
che fuvvi un autore, il quale raccogliendo, come egli dice, < ... disiecti
membra poetae » potè giungere a ricostruire in parte l'edifizio giuridico di
Roma, anche nei particolari minuti della sua procedura . Henriot, Maurs
juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, Paris, 1865 , 3 vol. 16 d'un
argomento che aveva un carattere pressochè sacro per il po polo Romano, e in
cui concentrava tutta la propria vita , per guisa che esso continuò sempre a
svolgere con pertinacia e con co stanza quei concetti e quelle istituzioni, che
furono posti durante lo stesso periodo regio . Hanvi invece le tradizioni, che
si riferi scono a racconti di guerre e ad incidenti, che le avrebbero accom
pagnate, a vicende di uomini illustri, a quei particolari insomma che dånno
vita ed attrattiva alla storia romana, e queste rimasero per lungo tempo
affidate alla leggenda popolare e poterono cosi essere alterate sia dalla
vanità nazionale che dalla vanità delle grandi famiglie di Roma. Bene è vero ,
come osserva il Bonghi, che anche nella prima parte possono essersi introdotte
delle altera zioni, che furono causate dal partito diverso , a cui appartengono
gli scrittori (1), ma siccome trattasi di istituzioni, che ebbero un pro cesso
storico non mai interrotto , cosi egli è ben più facile di rista bilire la
verità , che non quando trattasi di semplici incidenti della storia di Roma,
che, non collegandosi così strettamente col resto, potevano dare argomento ad
altrettante leggende, che si arricchivano di nuovi particolari, a misura che si
veniva ripetendone la narrazione. Dopo aver cosi seguita la formazione
progressiva della comunanza romana vediamo ora gli elementi, che si trovano in
lotta nell'in terno della medesima. (1) È da vedersi al riguardo Bonghi, La
fede degli storici superstiti di Roma antica , capitolo desunto dalla 2a parte
del II volume, che anche ora non è pubbli cato, malgrado il desiderio che
l'illustre autore e gli Italiani tutti hanno di vedere pubblicata un'opera, che
egli solo è in condizione di compiere. Rirista storica italiana. Torino, 1886.
Fascicolo 1º, pag. 25 e seg . - 17 - CAPITOLO II. Il patriziato e la plebe in
Roma primitiva. 15. Una delle circostanze più accertate della condizione di
Roma primitiva si è , che nella popolazione della medesima cominciò fin dai
primordii a manifestarsi un dualismo potente, quello cioè fra il patriziato e
la plebe. La tradizione cercò di spiegare questo dualismo dicendo, che Romolo
avrebbe aperto un asilo , ove si potessero rifu giare coloro, che per qualunque
ragione avessero dovuto abbando nare la propria città . Ciò farebbe credere che
la distinzione fra il patriziato e la plebe fosse in certo modo nata con Roma,
quando non fosse certo , che cotale distinzione già esisteva in altre città , e
non vi fossero formole antiche , che accennassero al doppio elemento coi vocaboli
di populus et plebes (1). Sembra anzi che le stesse tribù primitive, che
entrarono nella costituzione della più antica comunanza romana, già avessero
con sè una propria plebe, indipendentemente da quella che si sarebbe rifugiata
nell'asilo aperto da Romolo, in quanto che, secondo il racconto di Dionisio,
uno dei primi provvedimenti di Romolo sarebbe stato quello di affidare ai
plebei la coltura dei campi, l'allevamento del bestiame e l'esercizio delle
arti manuali, e di collocarle sotto la clientela dei padri, il che sarebbe
anche con fermato da Cicerone come pure da un luogo di Festo , secondo cui i
senatori sarebbero stati chiamati patres, in quanto che erano incari cati di
fare distribuzione di terre ad un ordine inferiore di persone (tenuioribus) (2).
( 1) La distinzione fra il populus e la plebes trovasi ancora in un documento
im portantissimo, cioè nella lex latina tabulae Bantinae, ove è ripetuta più
volte la frase « quisque eorunt sciet hanc legem populum plebemve iousisse »
formola che ha certo grande importanza quando si consideri che era tradizione
romana quella di conservare le formole arcaiche nel tenore delle proprie leggi.
Quella formola dimo stra che populus e plebes dovevano dapprima essere distinti
e che, quando i due elementi si fusero insieme nella comunanza , per qualche
tempo ancora i due voca boli serbarono rispettivamente la primitiva loro
significazione. V. la lex latina tabulae Bantinae nel Bruns, Fontes, pag.
51-53. Ed. 54. Friburgi, 1887. (2 ) Quanto al testo di Dionisio, esso è
riportato in greco e nella traduzione latina nel Bruns, Fontes, pag. 3 e nota
2. Quanto a quello di Festo, vº Patres, è bene di G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 2 18 - 16. Questo è certo che il patriziato e la plebe, anche
quando giungono a considerarsi come parti della medesima comunanza e a far
parte dello stesso popolo , il che è accaduto molto tempo dopo l'epoca della
fondazione, come si dimostrerà a suo tempo, continuano sempre a costituire due
ordini e pressochè due caste compiutamente distinte, fra le quali non esiste ne
identità di istituzioni, nè comu nanza di tradizioni, nè il diritto di connubio
. — Mentre il patriziato si presenta colle tradizioni di un passato, le cui
origini si perdono nel l'oscurità dei tempi e debbono forse essere cercate
nello stesso Oriente, e con una organizzazione potente, le cui traccie si
mantengono ancora durante il periodo storico ; la plebe invece presentasi
dapprima come una massa mobile, composta di elementi eterogenei e diorigine
probabilmente diversa ( 1). Essa ha pochissima importanza negli inizii di
Roma,ma viene sempre più crescendo in numero e in potenza, anche perchè, a
differenza del patriziato , può continuamente acco gliere nel proprio seno
nuovi elementi. Durante il periodo regio la plebe non sembra ancora essere in
condizione di affrontare la lotta col patri ziato , ma cominciando dalla
repubblica i conflitti si fanno pressoché quotidiani, cosi in materia di
diritto pubblico che di diritto privato, e dalle discussioni, che seguono fra
idue ordini, si può raccogliere che le differenze essenziali, che servivano a
distinguerli, erano essenzialmente le seguenti. I patrizi anzitutto erano e si
ritenevano i fondatori della urbs e i soli membri della civitas, mentre la
plebe era un elemento , che trovavasi in condizione inferiore e che per la
maggior parte era sopravvenuto più tardi, nè poteva quindi, secondo le idee del
patriziato , pretendere ad un pareggiamento completo . Quelli avevano
un'organizzazione potente, che era quella per gentes, la cui forza veniva
ancora ad accrescersi mediante l'istituto della qui riportarlo : a Patres
senatores ideo appellati sunt, quia agrorum partes attri buerant tenuioribus,
ac si liberis propriis » . V. Bruns, p. 351. Questi passi unita mente a quello
di CICERONE, De rep., 2, 9 : « Romulus habuit plebem in clientelas principum
descriptam » rispondono abbastanza all'opinione di coloro, che come il LANGE,
Histoire intérieure de Rome, I, pag . 59 ed il Padelletti, Storia del dir . rom
., pag . 19 , sostengono, che l'origine della plebe sia posteriore alla
fondazione della città , ed abbia solo avuto origine « coll'ammissione di
persone libere nella cittadinanza e nel territorio dello Stato ,avvenuta per
atto pubblico e accompagnata dalla concessione in proprietà di terreni da
coltivare » . PADELLETTI, op . e loc. cit. (1) Cfr. MUIRHÉAD, Hist. Introd .,
pag. 10 . 19 -- clientela ( 1). Il patriziato quindi poteva indicare la serie
dei proprii antenati e dimostrare che i medesimi eran sempre stati ingenui e
che niuno di essi erasi trovato in condizione servile. La plebe invece, se si
deve credere alle ragioni poste innanzi molto più tardi dagli oratori patrizii,
allorchè trattavasi nel 309 di Roma di respingere la legge Canuleia diretta a
togliere il divieto dei connubii fra i due ordini , non conosceva ancora la
famiglia or ganizzata in base al potere del padre ed al culto degli antenati,
per cui le unioni plebee non erano dai patrizii considerate come iustae
nuptiae, nè santificate dalla partecipazione al medesimo culto ; ma erano
semplici matrimonia , in cui il vincolo di parentela era determinato piuttosto
dalla cognazione materna, che dall'agnazione paterna. Di qui la conseguenza,
che ancora dopo la legge delle XII Tavole il patriziato non poteva comprendere
una comunanza di connubio fra esso e la plebe, come lo dimostrano le parole di
Livio relative al plebiscito Canuleio : rogationem promulgavit, qua con
taminari sanguinem suum patres confundique iura gentium rebantur (2). – Da
ultimo una differenza importantissima consisteva anche in questo , che solo il
patriziato possedeva gli auspicia , cosicchè tutti gli atti, che lo
riguardavano, assumevano un carattere solenne e religioso; mentre la plebe, pur
avendo una religione e feste ( 1) Gellio , Noc. Att., 10 , 20 chiama la plebe
quella parte della popolazione ro mana, nella quale « gentes patriciae non
insunt ». È poi noto che, secondo Livio, nelle discussioni fra patrizii e plebe
( X , 8 ) gli oratori di questa attribuivano ai primi di vantarsi di esser soli
ad avere le gentes con parole, che riassumono i titoli di superiorità del
patriziato: « semper ista audita sunt eadem : penes vos solos au spicia esse,
vos solos gentes habere, vos solos iustum imperium et auspicium domi
militiaeque ecc. » . Pare tuttavia che non possa affatto escludersi l'esistenza
di gentes plebeiae, le quali però costituivano una eccezione. La causa di
questo fatto può essere duplice ; —o queste gentes potevano derivare dalle
popolazionidelle città latine, che già avevano un'organizzazione simile a quella
delle genti patrizie, seb bene non fossero più state ammesse nel patriziato, –
o la formazione di queste gentes dovette accadere più tardi, quando una parte
della plebe, entrata a far parte della nobiltà, cercò essa pure di imitare
l'organizzazione gentilizia , il che cominciò ad es sere possibile dopo le
leggi Licinie Sestie, colle quali la plebe fu ammessa al con solato. Così
Cicerone ci attesta, che la famiglia dei Marcelli erasi staccata dall'antica
gente patrizia dei Claudii (De Orat., I, 176). Così pure egli ci parla di una
gens Minucia, che sarebbe stata plebea (In Verr., I, 45 ). Fra gli autori
recenti sull'ar gomento sono da vedersi il Voigt, XII Tafeln , Leipzig , 1883 ,
I, pag . 262 e seg . e il KARLOWA, Röm ., R. G., I, pag . 36 e 37. (2 ) Liv .,
Hist., IV , 1. - 20 popolari, non possedeva gli auspicia , nè aveva un proprio
culto gentilizio (sacra gentilicia ). Queste differenze erano tali, che sebbene
le circostanze conducessero col tempo i due ordini a far parte della stessa
comunanza, era pero naturale , che essi non potessero entrarvi alle stesse
condizioni. 17. Dalle differenze sovra enumerate questo intanto si può inferire
, che in Roma primitiva la superiorità , che si attribuiva il patriziato sulla
plebe, trova sopratutto la propria causa in ciò, che esso era già era più
progredito nell'organizzazione sociale , ed era prima uscito dallo stato di
confusione, di privata violenza e di promi scuità primitive, che esso riteneva
in parte essere ancora proprie della plebe. Esso sapeva indicare i proprii
antenati, aveva con servato gelosamente le proprie tradizioni, ed era già
pervenuto al l'organizzazione di un culto gentilizio. Di più erano le gentes,
che aggruppandosi insieme avevano dato origine alla tribù, come pure erano le
tribù, che, confederandosi insieme in conformità di certi riti e dopo aver
assunto solennemente gli auspicii, erano pervenute a fondare la città , in cui
provvedevano ai comuni interessi ed ob bed no ad una legge, espressione della
volontà comune (1 ). Bene è vero che, per accrescere la forza della loro città
del loro eser cito, era spediente di incorporare in essi anche le plebes cioè
le molti tudini, che naturalmente si venivano raccogliendo ove era fondata e
fortificata un'aggregazione di genti patrizie , ma chi tenga conto della umana
natura , che in questa parte non sembra ancora essersi modificata , non può
certo meravigliarsi se le genti patrizie abbiano applicato colla plebe la
massima : prior in tempore, potior in iure, e si siano cosi prevalse del
vantaggio , che loro somministrava una più antica esperienza delle cose civili
ed umane, per conservare a lungo una posizione privilegiata nella comunanza
civile . Piuttosto è da am mirarsi la tenacità e perseveranza di una plebe, la
quale, composta (1) Quinto all'origine ed al carattere del patriziato primitivo
di Roma, contiene delle buone ed acute osservazioni l'articolo del FREEMAN
nell'ultima edizione del l'Encyclopedia Britannica , pº Nobility , ove il
patriziato romano è posto a para gone cogli Eupatridi di Grecia, colla nobiltà
feudale, coi Pari Inghilterra ecc. È pure a vedersi il Duruy, Histoire des
Romains. Paris, 1870, I, pag . 10, ove parla del patriziato come di
un'istituzione propria delle società primitive e nota le analogie e le
differenze fra i patrizii di Roma e i bramani dell'India . Cfr. Muir HEAD, op.
cit., pag. 5-8 . - 21 dapprima di elementi eterogenei e priva di qualsiasi
organizzazione sociale, seppe col tempo in tutto e per tutto imitare
l'organizzazione propria del patriziato, creare genti plebee accanto alle genti
patrizie, contrapporre le tribù alle curie, i tribuni ai veri magistrati, e
che, appena potè ottenere il riconoscimento di un diritto , di quello cioè
della proprietà quiritaria , riusci a valersi delmedesimo come di stru mento e
di mezzo per ottenere a poco l'uguaglianza giuridica e po litica , e perfino
l'ammissione a quegli auspicia , a quei sacerdotia , e a quella scienza del
diritto , che solo molto tardi vennero ad es sere comunicati ai plebei ( 1).
18. Questo intanto può aversi per certo, che la formazione del patriziato e
della plebe costituisce in certo modo la questione fon damentale della storia
politica e giuridica di Roma. Vero è che accanto ai plebei trovansi pur anche i
servi ed i clienti, ma questi due elementi non hanno certo l'importanza della
plebe, che dovrà poi avere tanta parte nella storia di Roma, in quanto che i
servi entrano a far parte della famiglia ed i clienti rientrano anch'essi
nell'organizzazione gentilizia . Di più tanto gli uni comegli altri, al lorchè
riescono a svincolarsi dal padrone o dal patrono, entrano a far parte della
plebe, che è quella veramente , che sostiene e vince la lotta per il
pareggiamento giuridico e politico col patriziato . Quindi è che nè i clienti,
né i servi come tali riescono ad avere una piena personalità giuridica e
civile; poichè i primi scompariscono a poco a poco o si trasformano in semplici
salutatores, ed i secondi si man tengono bensì, ma non giungono mai, durante il
predominio di Roma, ad essere riconosciuti come capaci di diritto . La
questione limitasi pertanto al patriziato ed alla plebe , ed è quindi l'origine
di questi due elementi, che è il maggior problema, che offra la storia
primitiva di Roma. Cið non ostante, sinchè non siansi esaminate
l'organizzazione del patriziato e la composizione della plebe , non pud certo
affrontarsi il problema della origine delle due classi. – Basterà unicamente,
per l'intelligenza di ciò che verrà dopo, di osservare che le differenze, che
esistevano fra di esse negli inizii (1) Queste lotte per il pareggiamento sono
largamente esposte dal LANGE, Hi stoire intérieure de Rome, I, pag. 111 a 218.
I risultati poi della lotta sono riassunti nel dotto lavoro del GENTILE, Le
elezioni e il broglio nella repubblica romana, Milano, 1879, e sopratutto nel
cap . I, Le assemblee elettorali, p. 1-135 . 22 di Roma, la superiorità
pressochè incontestata dei patrizii e l'ossequio pressochè servile dei plebei
nei primi tempi della città dimostrano ab bastanza, che la loro distinzione non
potè certamente essere opera della legge, nè delle circostanze storiche
speciali, in cui Roma ebbe a tro varsi ; ma dovette essere il frutto di una
lunga evoluzione storica , la cui preparazione deve essere cercata in un
periodo anteriore di orga nizzazione sociale. Non può esservi dubbio, che
l'origine di una di stinzione, così altamente radicata nel costume e nelle
abitudini delle due classi, deve essere cercata in quei cataclismi, che
dovettero avverarsi nell'urtarsi e nel sovrapporsi delle stirpi italiche, di
origine Aria, sovra altre stirpi, che già abitavano il suolo , sovra cui esse
si arrestarono nelle proprie migrazioni. Essa è una distinzione, che deve certa
mente rannodarsi ad una divisione ben più antica , e le cui traccie si
mantengono sempre nella storia dell'umanità , che è quella fra la classe dei
conquistatori, dei vincitori, dei primi pervenuti a sta bilirsi in un
determinato suolo , e quella dei soggiogati, dei vinti, e dei sopraggiunti più
tardi a porre la propria sede in un suolo, che altri aveano prima occupato e
sovra cui i medesimi già si erano stabiliti e fortificati. Egli è certo, che
nel sopraggiungere delle stirpi italiche mi granti dall'Oriente dovette
certamente avverarsi un periodo di privata violenza non dissimile da quello,
che accadde più tardi allorchè le popo lazioni germaniche invasero l'Impero
Romano. Anche allora dovettero esservii vincitori ed i vinti, e frammezzo a
quella promiscuità di genti e a quella prevalenza della forza , che ci
ricordano ancora gli scrittori latini quando ci parlano di connubia more
foerarum e di viri duro ex robore nati, dovette sentirsi urgentissimo il
bisogno di una prote zione giuridica e di una forte organizzazione sociale (1).
Dovettero ( 1) Sono sopratutto i poeti latini, come interpreti delle primitive
tradizioni e leg gende, che alludono frequentemente a questo stato primitivo ,
in cui dovettero tro varsi le genti italiche, ora descrivendo una età dell'oro,
che assegnano al regno di Saturno, che sembra corrispondere al Savitar degli
Arii, ed ora accennando eziandio a un periodo, in cui avrebbe imperato la forza
e la violenza. È veramente preziosa in proposito e riflette mirabilmente la
coscienza primitiva delle genti italiche la raccolta , che l'Henriot ebbe a
fare dei testi dei poeti latini, che possono avere qualche attinenza col
diritto, nella sua opera col titolo : Mæurs juridiques et judiciaires de
l'ancienne Rome d'après les poètes latins. Paris, 1865, 3 vol. I testi, che ram
mentano la presunta età dell'oro, si possono vedere nel tomo I, pag. 5 a 7 e
quelli relativi all'imperio della forza da pag . 32 a 38. È poi notabile come
tutti i poeti accennino al concetto di un diritto naturale, preesistente alla
formazione del civile consorzio, e tutti esprimano con grande efficacia
l'altissima importanza, che dovette avere per l'umanità l'origine delle leggi.
23 allora succedere fra le popolazioni italiche dei cataclisminon minori di
quelli, che si attribuiscono al nostro suolo , e furono questi cataclismi, che
condussero necessariamente alla formazione di un aristocrazia territoriale,
militare e patriarcale ad un tempo, che era il solo ed unico mezzo per uscire
da uno stato di promiscuità e di violenza. Fu questa aristocrazia , che
comprese i padri nella famiglia , i pa troni nella gente e i patrizi nella
tribù, ed abbracciò cosi tutte quelle genti, le quali, memori forse di
istituzioni che eransi altrove elaborate, trapiantarono frammezzo al disordine
ed alla lotta la potente or ganizzazione gentilizia, che una volta formata si
chiuse in certo modo in se stessa e riguardo come di origine inferiore tutti
coloro che non appartenevano alla medesima. Fu questa aristocrazia po
tentemente organizzata per gentes, che costituì la classe privilegiata e che
meritava dapprima anche di essere considerata come tale ; ma accanto alla
medesima dovette naturalmente formarsi una classe subordinata , i cui gradi
corrispondono precisamente ai varii stadii dell'organizzazione gentilizia, in
quanto che comprende i servi nella famiglia , i clienti nella gente , ed i
plebei, che cominciano a compa rire colla tribù . Per tal modo nelle
popolazioni, che si vengono così organizzando, si disegnano per spontanea e
naturale formazione, due strati, che si corrispondono fra di loro , e mentre in
una lunga e lenta evoluzione, di cui non sopravisse alcun ricordo, salvo nella
lingua e negli og getti trovati nelle tombe, i padri della famiglia si cambiano
in pa troni nella gente e quindi in patrizi nella tribù, anche i servimano
messi dal padrone mutansi in clienti del patrono ed i clienti rimasti senza patrono
formano il primo nucleo della plebe . Padri, patroni e patrizi sono i sedimenti
successivi della classe dei vincitori, dei pro prietari delle terre, dei primi
organizzatori di una vita sociale; mentre i servi, i clienti ed i plebei
rappresentano i varii stadii, per cui passa la classe inferiore dei vinti, e di
quelli che, per avere una prote zione, si accalcano intorno allo stabilimento
delle casate patrizie. I primi possono indicare i proprii antenati ed escludere
qualsiasi origine servile; mentre i plebei, se giunsero col tempo ed essere
indi pendenti dal patriziato , appartennero probabilmente alla classe dei servi
e dei clienti, e non ebbero dapprima quelle giuste nozze, che ac certavano la
discendenza per la linea maschile. È in questo modo che il patriziato venne
formandosi l'alto concetto della propria su periorità e che giunse fino a dire,
se non a credere, che discendeva dagli dei (il che del resto non era
intieramente falso dal momento 24 - che avevano elevato a divinità i proprii
antenati) (1) ; mentre la plebe, memore forse della servitù antica, trovasi
dapprima in una abbie zione pressochè servile , da cui non venne a liberarsi
che quando ebbe ad essere rigenerata da un nucleo potente di famiglie latine,
che appartenevano alle città conquistate da Roma. Intanto perd fra le due
classi vi ha questa differenza , che la prima tende a tir coscriversi, anche
per la difficoltà di far entrare nuovi elementi in una organizzazione così
gerarchica , eome era l'organizzazione genti lizia, la quale non poteva
accogliere degli individui ma soltanto delle altre genti ; mentre la plebe,
appena viene ad affermare la propria esistenza, tende invece ad incorporarsi
nuovi elementi, senza vagliarne l'origine, per modo che essa pud accogliere i
vinti che non siano ridotti in ischiavitù , gli emigranti che non siano
ricevuti come clienti, e non solo può aggregare nel proprio seno delle famiglie
, ma anche individui, che essendosi disgiunti dal gruppo, a cui erano uniti,
abbisognino di protezione e di tutela . Intanto pero fra l'uno e l'altro ordine
, la grande differenza è questa , che nelle origini solo il patriziato ha una
vera posizione di diritto,mentre la plebe non ha dapprima cheuna posizione di
fatto . Il patriziato e il popolo da esso costituito è un ordine ; mentre la
plebe non è che una moltitudine , una folla non ancora or ganizzata ; quello ha
tradizioni militari , religiose , giuridiche , mentre questa non ha dapprima
che quelle costumanze e quegli usi, che possono formarsi in una folla di
provenienza diversa e di for mazione del tutto recente ; quello ha una
religione gentilizia, for matasi nel suo seno mediante il culto degli antenati,
mentre questa non ha che un complesso di credenze popolari, che ancora abbiso
gnano di ricevere una forma religiosa . Ben si comprende quindi, che la
distanza era grande e che doveva essere assai malagevole di raccogliere i due
elementi nella stessa comunanza, elaborando un diritto, che potesse essere
comune ad en trambi. Fermi cosi i caratteri generali dei due ordini, importa di
ricer care più particolarmente l'organizzazione già formata del patri ziato , e
quella ancora in via di formazione, che dovrà poi compren dere la plebe. (1)
Liv., X , 8. « En unquam fando audistis patricios primo esse factos, non de
caelo demissos, sed qui patrem ciere possunt, id est nihil ultra quam ingenuos
! » . 25 – CAPITOLO III. Il patriziato e la sua organizzazione gentilizia . sl.
Sguardo generale all'organizzazione delle genti patrizie e ai diversi gradi
della medesima. 19. Non può esservi dubbio, che a costituire il patriziato
primitivo di Roma concorsero elementi diversi, usciti per la maggior parte da
quelle tre stirpi di popoli, che secondo la tradizione entrarono a for mare la
comunanza romana. Sonvi quindi genti di origine latina, e fra queste sonovi
quelle che figurano come più antiche, genti di origine sabina, ed
altre , in numero forse minore, di origine etrusca (1). L'origine
diversa poi facilmente persuade, che le loro istituzioni tradizionali dovevano
anche essere dissimili , e che quindi quella completa analogia di istituzioni,
che in esse apparisce più tardi, do vette essere l'effetto di una lenta
assimilazione , che vennesi ope rando gradatamente mediante la loro
partecipazione ad una stessa comunanza civile e politica (2 ). 20. Tuttavia,
malgrado le differenze che potevano esservi nelle sue tradizioni, il patriziato
romano, comunque fosse originariamente composto, presenta fin dalle origini
della città le traccie di un'or ganizzazione potente di carattere patriarcale,
che è l'organizzazione gentilizia . Non è qui il caso di cercare, se questa
organizzazione per genti sia stata una necessità storica per uscire da quello
stato di conflitto e di privata violenza , che dovette avverarsi all'epoca
delle migrazioni, e se sia stata invece una istituzione, che le stirpi migranti
già avevano elaborata altrove e che loro servi per sovrap porsi alle
popolazioni indigene, il ehe sembra essere più probabile ; ( 1) L'enumerazione
delle primitive genti patrizie col riassunto delle opinioni di. verse intorno
alla loro origine e alle molteplici dirainazioni, che partirono da cia scuna di
esse, può trovarsi nel Bonghi, Storia di Roma, vol. 1°, Appendice al lib. II,
pag . 472 a 512. (2) Cfr. MUIRHEAD, Hist. Introd., in princ. Ivi l'autore cerca
perfino di determi nare la parte, che nel diritto privato dovrebbe attribuirsi
alle varie stirpi. 26 questo in ogni caso deve aversi per certo , che è in
virtù di questa organizzazione, che le primitive genti patrizie, per quanto
potessero essere diverse di numero e di potenza, appariscono perd foggiate sul
medesimo modello . Tale organizzazione tuttavia nel periodo storico già trovasi
in via di dissoluzione ; ed anche quello che ne rimane già presentasi alquanto
alterato nelle sue primitive fattezze per essersi confuso coll'elemento civile
e politico, dal quale è assai difficile sce verarlo . Ciò non ostante dalle
vestigia , che ne rimangono e che sono dovute sopratutto allo spirito
eminentemente conservatore del popolo romano, si può dedurre che l'organizzazione
gentilizia dovette nel patriziato romano presentarsi in gradazioni diverse ,
tutte stretta mente connesse fra di loro. Esse sono : la famiglia fondata
sull'a gnazione, la gente accresciuta ed afforzata dalla clientela , e da
ultimo la tribú , in cui già compare nei proprii inizii la distinzione fra il
patriziato e la plebe (1). 21. Sarebbe certo cosa di grande interesse il
ricercare qui se nelle prime origini l'organizzazione gentilizia abbia prese le
mosse dalla famiglia, o dalla gente , o dalla tribù; ma ciò ci recherebbe a
quel l'epoca e a quel sito , in cui le stirpi Arie ponevano le prime basi
dell'organizzazione patriarcale, cominciando probabilmente dal più piccolo e
più naturale dei gruppi, che era la famiglia (2 ). Qui perd non sarà
inopportuno il mettere innanzi, almeno a titolo di con gettura, che dei varii
gradi dell'organizzazione gentilizia quello, che probabilmente servi per la
migrazione delle varie stirpi dall'Oriente all'Occidente, dovette essere il
gruppo della gens. Ciò è dimo (1) Questa stessa gradazione è accolta dal SUMNER
MAINE, Ancien droit, p. 121 , ma non è invece quella seguita dal Leist, Graeco-
Italische R. G., § 18 a 36 , il quale parmi non distingua sempre abbastanza due
cose affatto diverse fra loro, che sono l'organizzazione gentilizia e
l'organizzazione politica, considerando come altret tante divisioni del
populus, non solo le tribus e le curiae, ma anche le gentes. (2) Senza voler
quientrare in una questione, chemi trarrebbe troppo per le lunghe, non posso
però tralasciare di notare, che la così detta famiglia patriarcale non deve
ritenersi come la famiglia veramente primitiva, poichè essa è già una famiglia,
le cui fattezze vengono ad essere trasformate a causa del suo entrare a far
parte della organizzazione gentilizia. È nota in proposito la discussione,
anche oggi non defi nita , fra il SumnER MAINE, Early law and custom , London,
1883 , c. VII, pag . 192 a 232 da una parte, ed il MORGAN ed il Mac-Lennan
dall'altra , come pure la cri tica fatta, alla teoria patriarcale del SUMNER
Maine, dallo SPENCER , Principes de sociologie, II, pag. 317 a 348. 27 strato
dal fatto , che è dalla gente che il patrizio romano deriva quel nome, che esso
ha ricevuto dall'antenato comune e che deve trasmet tere poi ai proprii
discendenti, e che, anche nei tempi storici di Roma, allorchè accade qualche
nuova incorporazione nel patriziato mediante la cooptatio, questa non si
effettua nè per famiglie, nè per tribù, ma per genti (1). Mentre la famiglia è
il gruppo più ristretto ed unificato in tutte le sue parti e la tribù è già una
vera e propria comunanza di villaggio, in cui si preparano gli elementi
costitutivi della città , la gente invece è il gruppo intermedio , che då
giusta mente il suo nome e la propria impronta all'organizzazione genti lizia,
perchè di sua natura è un gruppo più elastico e pieghevole di tutti gli altri,
e che può meglio accomodarsi a qualsiasi evenienza in un periodo di migrazione.
La gens infatti è più forte e nume rosa della famiglia , perchè continua a
stringere insieme le famiglie, che per discendere da un comune antenato sono
anche unite tra di loro da un medesimo culto , e intanto è più compatta della
tribus, la quale essendo già l'aggregazione di più genti, che o sono di ori
gine diversa o hanno già dimenticata l'origine comune , può già fornire
argomento a dissidii fra i capi delle varie genti, che entrano a costituirla .
La gente poi è per sua natura tale, che ora può cam biarsi in una carovana in
migrazione, ora attendarsi e stabilirsi in un determinato sito, ed ora anche
raccogliersi a guisa di un ma nipolo di soldati, e tutto ciò senza che possa
mai sorgere questione di preminenza , perchè è la consuetudine, che designa chi
debba esserne il capo e perchè il vincolo della comune discendenza fa sì che
tutti i suoi membri ne subiscano volenterosi il comando. In tanto è nella
gente, che si vengono formando e distinguendo le famiglie, come pure sono le
genti che, aggregandosi intorno ad una preminente fra le altre, dånno origine
alla tribù , la quale è già più atta ad arrestarsi in un determinato sito e ad
essere così di avviamento alla convivenza civile e politica . I tre gruppi
tuttavia sono sedimenti di una spontanea e naturale formazione, che si ven gono
sovrapponendo l'uno all'altro per modo, che appariscono tutti foggiati sul
medesimo modello , che è quello del gruppo patriarcale , e si vengono
reciprocamente influenzando per guisa, che tutti appa riscono come strati
diversi di un'unica organizzazione. Di qui la (1) Cfr. Willems, Le droit public
romain , 56 édition. Paris, 1883, pp. 25 , 30 , 31 e 48 . 28 conseguenza , che
tutti questi gruppi, dal momento che difetta an cora una vera convivenza civile
e politica , compiono l'uffizio ad un tempo di convivenza domestica e di
convivenza civile , colla diffe renza tuttavia , che nella famiglia prevale
ancor sempre il vincolo del sangue, e nella tribù già si fa strada il vincolo
civile e politico , mentre la gente è quella, che ha il carattere più
schiettamente pa triarcale ( 1) 22. Cid premesso quanto ai caratteri generali
della organizzazione gentilizia, cerchiamo di ricostruirne le principali
fattezze, desumen dole dalle traccie che ancora ne rimangono nella storia
primitiva di Roma, nella quale vi ha questo di particolare che, anche quando
un'istituzione si dissolve, si sanno mantenere le forme esteriori della
medesima. In cid sarà bene incominciare dalla famiglia, come quella che ebbe ad
esser meglio conservata e intanto costituisce il gruppo più ristretto
dell'organizzazione gentilizia . $ 2 . La famiglia come parte dell'organizzazione
gentilizia . 23. Per quanto sia vero che la famiglia , quale presentasi più
tardi nel diritto quiritario , sia una istituzione comune così al patriziato
che alla plebe, sonvi tuttavia forti argomenti per credere che la sua primitiva
organizzazione fosse di origine patrizia . Fra gli altri argomenti
l'importantissimo è questo , che una moltitudine come la plebe, che era di
provenienza diversa e di formazione ancora del tutto recente, non poteva
possedere fin dai suoi inizii una organizzazione famigliare , che presuppone
una lunga serie di antenati e perciò una lunga elaborazione anteriore. Ciò del
resto è anche dimostrato da che nelle origini il vocabolo di patres indicava
sopratutto i capi delle famiglie patrizie, e perfino gli stessi senatori, che
certo usci ( 1) Quanto ai caratteri comuni al gruppo patriarcale degli Arii,
alla gens romana ed al révos dei greci ed alla letteratura copiosissima
sull'argomento , mi rimetto alla mia opera: La vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita sociale. Torino , 1880. Lib . I, cap. I, ed all'opuscolo :
Genesi e svolgimento delle varie forme di con vivenza civile e politica .
Torino, 1878. Recarono un nuovo contributo allo studio comparativo delle
istituzioni primitive presso le genti di origine Aria , oltre le opere già
citate del Sumner Maine, il BERNHÖFT, Staat und Recht der röm . Königszeit,
Stuttgart, 1882 e il Leist, op. cit. 29 vano dal patriziato, al modo stesso che
il vocabolo di patricii in dicava i figli dei patres. Lo stesso provano eziandio
le nozze con farreate , certamente proprie del patriziato , che nelle leggi
attribuite a Romolo ed a Numa sembrano essere il solo modo con cui si po tevano
contrarre le giuste nozze (1 ). Si aggiunge infine il carattere agnatizio della
famiglia primitiva di Roma, il quale non è e non può essere un carattere
originario , ma è una conseguenza della stessa organizzazione gentilizia , di
cui la famiglia entrava a far parte. Dal momento infatti, che in questo periodo
non esisteva ancora una vera comunanza civile e politica , diveniva inevitabile
che l'organizzazione gentilizia ne assumesse le funzioni e le veci , e che
perciò anche la famiglia, in quanto ne faceva parte, venisse a ricevere
un'organizzazione piuttosto fondata sul potere del padre, che non sul vincolo
del sangue . È questa la causa per cui la fa miglia primitiva Romana sembra ,
almeno in apparenza, soffocare i naturali affetti del sangue, per guadagnare in
forza ed in potenza , unificandosi sotto la potestà del proprio capo. Una volta
poi che il fondamento della unione domestica si riponeva nella potestà del
padre, era una conseguenza logicamente inevitabile , che come il padre
prevaleva nella costituzione e nel governo della famiglia , cosi l'agnazione,
ossia la discendenza dal padre, per la linea maschile, dovesse prevalere nella
composizione diessa . È in questo senso , che la famiglia primitiva Romana
viene a costituire un organismo potente, che può essere considerato come il
primo anello e come ilnucleo più ristretto dell'organizzazione gentilizia .
Essa infatti ha una costi tuzione eminentemente monarchica, perchè tanto le
persone, che la costituiscono, quanto le cose , che ne formano il patrimonio ,
dipen dono esclusivamente dalla potestà del padre. 24. La famiglia patrizia poi
è un vero e proprio organismo, che può considerarsi in due momenti diversi.
Finchè infatti vive il padre, nel cui potere essa trovasi unificata , la
famiglia è un vero corpo vivente , che può andar soggetto a continui mutamenti,
in quanto che vi hanno persone che possono uscirne ed altre che pos sono
entrarvi. Quando poi il padre muore, quelli che un tempo erano soggetti alla
sua potestà possono ancora continuare a tenere (1) Dion ., 2 , 25 e 2, 63, il
cui testo è riportato dal Bruns, Fontes « Leges Re giae » , pag. 6 e 9 . 30
indiviso il patrimonio comune, assecondando un antico costume ro. mano, che si
esprimeva colle parole conservateci da Gellio « ercto non cito » le quali
significano in sostanza che non si dovesse pro cedere alla divisione immediata
del patrimonio (1). In tal caso si mantiene fra gli agnati un di soggetti alla
patria potestà una specie di società universale di tutti i beni, per cui sembra
in certo modo che si perpetui ancora l'esistenza della famiglia , e si ha così
quella famiglia in largo senso , di cui ci parlano ancora i classici
Giureconsulti, che la chiamavano « familia omnium agnatorum » . Questa indivi
sione dovette certamente essere frequente nei tempi primitivi e fu questa la
causa per cui, oltre la famiglia nel vero senso della pa rola , che comprende
tutti quelli che sono soggetti alla patria potestà, venne delineandosi una
famiglia più vasta , che è quella degli agnati, la quale sebbene abbia cessato
di essere unificata dalla potestà del padre, continua tuttavia ancora ad essere
unita insieme e a costituire un tutto ( consortium ), stante l'indivisione del
patrimonio . Ciò però non toglie che il concetto della famiglia agnatizia siasi
poscia cam biato e che si siano compresi col nome di agnati tutti coloro, che
(1 ) Mi fo lecito di mettere innanzi questa interpretazione delle parole
arcaiche « ercto non cito » e ciò in base a quello che ci attesta Servio , il
quale interpre tando questa espressione, dice appunto, che essa significa «
patrimonio vel hereditate non divisa » , Serv., in Aen ., VIII, 642 (Bruns,
Fontes, pag. 403). Queste parole furono poi applicate per indicare in genere la
« societas omnium bonorum » in virtù della quale , secondo l'attestazione di
Gellio : comnes simul in cohortem recepti erant, quod quisque familiae,
pecuniae habebat in medium dabat, et coibatur societas in separabilis, tamquam
illud fuit antiquum consortium , quod iure atque verbo romano appellatur cercto
non cito » . - Che poi queste parole siano in certo modo un'antica clausola
testamentaria , con cui il padre proibiva la divisione immediata appare da ciò,
che ercto deriva certamente da ercisco e cito è un avverbio che deriva da cieo
e significa « prontamente » . Vedi BRÉAL e Bailly, Dictionnaire étymologique
latin , Paris, 1886 , pº Ercisco e Cieo . Che poi veramente presso gli antichi
romani fosse consuetudine di mantenere, per quanto fosse possibile,
l'indivisione, appare dal seguente testo, che trovo citato dal KARLOWA, Röm .
R. G., pag. 93, ricavato dalle PETRI, Excep. legum romanarum , lib . I, cap .
19, De vendenda hereditate: « Consuetudo antiquorum esse solebat, ut frater de
rebus suis immobilibus non venderet nisi fratri, propinquus propinquo, nec
consors nisi consorti, si emere vellent » . È questo forse il motivo, per cui
presso i Romani un heredium potera conservarsi integro nella stessa famiglia
per parecchie generazioni, e un vicus poteva essere costituito per in tiero di
famiglie appartenenti alla stessa gens, senza mescolanza di elementi estranei.
Cid sarà meglio dimostrato nel seguente capitolo ove trattasi appunto prietà
nel periodo gentilizio > . della pro -- - - 31 erano stati sotto la patria
potestà della stessa persona, come quelli che avevano formato parte di una
medesima casa ed erano usciti dalla medesima gente (1) . 25. Tuttavia, per ben comprendere
il carattere della famiglia patrizia primitiva , vuolsi sempre aver presente ,
che essa non è già un orga nismo isolato , ma è parte di un organismo maggiore
di cui costituisce il nucleo più ristretto . Diqui la conseguenza che quel
potere del padre , che giuridicamente considerato sembra essere senza confini,
trovasi nella realtà limitato sia dal tribunale domestico , che circonda il
capo di famiglia, sia dal consiglio dei padri, che trovasi nella gente e nella
tribù , per guisa che i temperamenti, chenon vi sarebbero nella natura del
potere paterno, si incontrano invece nel costume e nell'organiz zazione
gerarchica , di cui la famiglia entra a far parte . È per questo motivo, che
tutti gli atti, che toccano in qualche modo l'organizzazione gentilizia, quali
sarebbero l'adrogatio, che serve a perpetuarla quando manca una prole diretta ,
il testamento , che modifica le regole con suetudinarie relative alla
successione, ed anche il matrimonio per confarreatio di uno dei membri della
famiglia, devono essere fatti coll' intervento , colla testimonianza e perfino
coll'approvazione dei capi di famiglia , che entrano a formare la gente e la
tribù ; il che ancora appare dalle formalità, che accompagnarono questi atti
nei primitempi di Roma. Intanto è incontrastabile, che anche la successione
legittima e la tutela assumono un carattere del tutto gentilizio , in quanto
che l'una e l'altra , sebbene non stabiliscano delle differenze per causa del
sesso o per causa di primogenitura , mirano però fino all' evi denza a
conservare il patrimonio e l'amministrazione di essa nella ( 1) Leg. 195 , $ 2
e 196 , Dig ., De verb . signif. (50, 16 ): « Communi iure, scrive Ulpiano,
familiam dicimus omnium agnatorum , nam , etsi patre familias mortuo, sin guli
singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte
eiusdem familiae appellabantur, quia ex eadem domo et gente proditi sunt » .
Qui viene ad essere evidente, che la giurisprudenza classica , che non poteva
più favorire quella indivisione che era tanto accetta agli antichi romani,
conservò però sempre il concetto della famiglia degli agnati, non più
desumendolo dalla indivisione del patrimonio famigliare, ma dalla circostanza
che gli agnati erano un tempo dimorati nella stessa casa ed erano stati sotto
la patria potestà del medesimo capo. È da vedersi sull'agnazione l'articolo del
prof. SEMERARO , Enciclopedia giuridica italiana , vº Agnazione, vol. I, parte
2*, pag . 720 . 32 linea agnatizia ; il che può scorgersi ancora nella
legislazione de cemvirale, la quale, come si vedrà a suo tempo, in questa parte
riusci a far prevalere pressochè intieramente il sistema di succes sione e di
tutela , che dovevano essere in vigore presso il patriziato durante il periodo
gentilizio . — Quanto al testamento , esso era certa mente conosciuto in questo
periodo, ma collo spirito che prevaleva nell'organizzazione gentilizia si può
affermare con certezza, che esso , dovendo essere fatto coll'approvazione del
consiglio degli anziani e nelle riunioni gentilizie della tribù, anzichè
servire qual mezzo per sottrarre l'eredità alla gente , dovette invece servire
per ritardare od impedire la soverchia divisione dei patrimoni (1). 26. Intanto
è pure da notarsi il carattere speciale, che assumeva la famiglia primitiva nel
periodo gentilizio , in quanto essa compren deva eziandio nella propria cerchia
un numero più o meno grande di servi, che in antico erano anche detti famuli,
dal vocabolo famel, che in lingua osca significa appunto servo ; dal quale,
secondo Festo , sarebbe anche derivato l'antico vocabolo famuletium , che
avrebbe significato servitium (2 ). È infatti per mezzo dei servi, a cui era (
1) Da quanto è esposto nel testo si può ricavare l'importantissima conseguenza,
che a suo tempo servirà a spiegare molte istituzioni del diritto romano
primitivo, che il concetto di comproprietà , in virtù del quale i figli durante
la vita del padre sono comproprietarii dell'heredium , e dopo la morte di esso
in certa guisa eredi di se stessi (heredes sui), come pure quello, in virtù di
cui è dal novero degli agnati, che si debbono ricavare i tutori delle femmine,
degli impuberi e dei furiosi, sono tutti concetti, la cui origine rimonta ed è
anzi un effetto della stessa organizzazione gentilizia , di cui la famiglia
entrava a far parte. Quanto al testamento fra le genti patrizie non doveva
certo essere applicazione del principio : a uti paterfamilias super familia
tutelave suae rei legassit, ita ius esto » , ma doveva mirare sopratutto
all'ercto non cito . Il testamento esisteva ,ma nell'intento di serbare il
patrimonio indiviso e di trasmetterlo tale di generazione in generazione.
L'importante concetto di questa comproprietà famigliare già trovasi nettamente
espresso in uno degli ultimi lavori del compianto Ernesto Dubois, alla cui
memoria mando qui un riverente saluto , nel suo ultimo diligentissimo lavoro
col titolo : La saisine héréditaire en droit ro main , Paris, 1880, da lui
pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit fran çais et étranger, ove,
combattendo il Maynz ed altri autori, dimostra che gli eredi suoi erano
immediatamente investiti dell'eredità , senza che occorresse accettazione della
medesima e ciò appunto in base a questa comproprietà famigliare. Al concetto
del DuBois è solo da aggiungersi, che cið era un effetto dell'organizzazione
genti lizia prima esistente, idea , che egli già aveva in germe, come lo
dimostrano le pa role con cui egli conchiude il suo lavoro, ma che non ebbe più
campo di svolgere. (2) V. Festo, vº Famuli (Bruns, Fontes, pag. 338 ). 33 affidato
il servizio rustico od urbano ( familia rustica , familia ur bana) che la
famiglia primitiva veniva ad essere organizzata per modo da bastare a qualsiasi
bisogno ed emergenza. Cio diede un carat tere speciale alla vita economica
dell'antichità e cooperò a dare alla famiglia antica il carattere di un tutto
organico e coerente in tutte le sue parti. La servitù ebbe per effetto, come
ben nota il Padelletti, di fare in guisa che i prodotti non venissero a
cambiare di possessore in tutto il corso del loro processo produttivo, perchè i
servi erano impie gati non soltanto nella produzione, ma benanche nella
trasformazione e nel trasporto dei prodotti. Per tal modo ogni famiglia tendeva
a supplire a tutti i suoi bisogni, e intanto ogni capo di famiglia poteva
apparire come possessore difondi, essere ricco di greggi ed armenti, che
costituivano in certo modo il primo capitale, e intanto attendere eziandio al
commercio dei proprii prodotti (1). Pud tuttavia affer marsi con certezza, che
durante il periodo gentilizio le genti patrizie fossero sopratutto ricche di
greggi ed armenti, come lo dimostra l'uso frequentissimo di vocaboli anche di
carattere giuridico de rivanti dall'industria pastorale ( quae ex pecoribus
pendent), il che, secondo Festo e Varrone, deriva appunto da cid, che presso
imaggiori le ricchezze ed i patrimoni si componevano sopratutto di greggi e di
armenti ( 2 ) . e (1) PADELLETTI, Storia del dir. rom ., pag. 15.
Sull'importanza della servitù nella famiglia primitiva è da vedersi il PERNICE,
M. Antistius Labeo , Halle, 1873, I, pag. 110 e seg., ove parla dei rapporti
degli schiavi colla casa di cui fanno parte, sopratutto il MARQUARDT, Das
Privatleben der Römer , Leipzig, 1879. Erster Theil, pag. 133 a 191. (2) Fra
questi vocaboli basti citare quello, che ebbe poi tanta parte nel vocabo lario
giuridico, di agere, che, secondo il BRÉAL, nel suo significato primitivo suo
nava « spingere, stimolare » , e si applicava sopratutto al gregge ; quello di
grex talvolta applicato al popolo ; quello di ovilia adoperato per significare
i recinti (septa ) ove il popolo era distribuito per dare il voto nei comizii ;
i vocaboli di abgregare, adgregare, congregare citati appunto da Festo come
vocaboli di origine pastorale ( Bruns, Fontes, pag. 331); quelli di pecunia ,
di peculium , di peculatus, di ager compascuus, e molti altri i quali spiegano
come VARRONE ( Bruns, Fontes, p. 388 ) finisca per esclamare : « Romanorum
populum a pastoribus esse ortum , quis non dicit ? Mulcta etiam nunc, ex vetere
instituto, bubus et ovibus dicitur, et aes anti quissimum , quod est flatum ,
pecore est notatum » . Si vedrà invece a suo tempo che mentre la ricchezza del
patriziato primitivo consisteva di preferenza in greggi, in mandre ed armenti,
che pascolavano nei compascua della tribù , e poscia nell'ager pubblicus della
città , la plebe invece fin dagli inizii diede sopratutto opera all'agri
coltura, concentrandosi nella coltura del proprio heredium o mancipium . Questo
G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 3 - 34 27. Del resto quello , che qui
importava, era sopratutto di mettere in evidenza il carattere gentilizio della
famiglia ; poichè essa, fra le isti tuzioni anteriori alla comunanza, è
certamente quella che conservò più lungamente il suo carattere primitivo .
Quindi anche nel periodo storico si troveranno nel patriziato romano quelle
stesse formalità so lenni e quelle cerimonie religiose , che dovevano
accompagnare gli atti relativi alla famiglia durante il periodo gentilizio . La
sola differenza consisterà in questo, che all'approvazione dei padri del gruppo
gen tilizio nella comunanza civile e politica sottentrerå - o la testimo nianza
dei dieci Quiriti che rappresentavano le curie in cui divi devasi la tribù e
l'intervento dei Pontefici , siccome accade nelle confarreatio, - o
l'approvazione delle curie, coll'intervento pure dei Pontefici, siccome accade
nella adrogatio e nel testamento , che per il patriziato verranno a compiersi
davanti all'assemblea delle curie, cioè in calatis comitiis (curiatis). Credo
ad ogni modo, che anche questa breve esposizione dei ca ratteri della famiglia
del patriziato romano dimostri abbastanza che essa non deve essere riguardata
come una istituzione del tutto pri mitiva, come alcuni vorrebbero considerarla
(1 ), in quanto che la medesima già erasi scostata in parte dalle sue primitive
e naturali fattezze , a causa della influenza, che ebbe ad esercitare su di
essa l'organizzazione gentilizia , di cui era entrata a far parte. Essa in
sommanon è più la famiglia, quale dovette uscire dagli istinti e dalle tendenze
naturali del genere umano ; ma è già una famiglia che in parte ha soffocato i
naturali affetti onde fortificarsi per la lotta per l'esistenza e per entrare
in un'organizzazione, che funge da associa zione domestica , religiosa,militare
e politica ad un tempo. Ed è anche questa la ragione, che la renderebbe a noi
pressochè incomprensi bile, se non fosse riportata nell'ambiente in cui ebbe a
formarsi. svolgimento storico pertanto conferinerebbe il risultato, a cui
giunsero lo SPENCER ed altri sociologi, secondo il quale sarebbe stato
sopratutto il periodo della vita pa storale, che avrebbe determinato la
formazione e l'afforzamento di quell'organizza zione gentilizia, che trovasi
così profondamente radicata presso il primitivo patri ziato romano ( V. SPENCER
, Principes de sociologie, Paris, 1879, II, pag. 338 e seg .). (1) Tale è ad
esempio l'opinione del Sumner Maine , che in questa parte fu com battuto dallo
SPENCER , op. e loc . cit. - 35 - $ 3 . La gens e la sua importanza per il patriziato
di Roma. 28. Se la famiglia , quale comparisce più tardi nel diritto Quiri
tario, riproduce pur sempre i caratteri dell'antica famiglia patrizia,
altrettanto invece non può dirsi della gens, la quale perciò è assai più
difficile a ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Sebbene in fatti la gens
mantengasi ancora lungamente durante la comunanza civile e politica , viene
tuttavia fin dalle origini della convivenza civile e politica , ad essere
sottoposta ad un processo di dissolu zione, in quanto che una parte delle sue
funzioni di un tempo , quelle cioè che avevano un carattere politico o militare
o legisla tivo , finiscono per essere a poco a poco assorbite dalla città . A
cid si aggiunge, che in questa parte la grande autorità del Niebhur, sulla fede
di un testo di Dionisio , a cui diede una interpretazione che non può essere
ammessa , pose gli investigatori della storia primi tiva di Roma in un
indirizzo erroneo, in quanto che condusse a cre dere per lungo tempo, che la
gens non fosse che una ripartizione politica della città (1). Per tal modo
l'organizzazione politica della (1) NIEBHUR , Histoire romaine, trad . Golbery,
Paris, 1830, Tome II , ove parla : des maisons patriciennes et des curies e
specialmente a pag. 19. Ivi l'illustre sto rico, avendo trovato che Dionisio
divideva in dekádec le curie , pensò che queste decurie non potessero essere
che le gentes e trasportò così l'organizzazione genti lizia nella città,
concetto , che d'allora in poi ha dominato le ricerche contempo ranee intorno a
Roma primitiva , per guisa che occorre pressochè universalmente di trovare che
la città di Roma si divideva in tribù , queste in curie e queste ul time in
gentes. Così, ad esempio, anche gli autori più recenti, pur avendo modifi cato
il concetto della gens con ritenerlo un ampliamento naturale della famiglia,
continuano pur sempre in questa distinzione. Citerò fra gli altri il KARLOWA,
Röm . R. G., I, § 2, il quale continua ad essere intitolato : Das Volk und
seine Glie derungen (tribus, curiae, gentes), quasi che il popolo romano sia
stato mairipartito in gentes ; ed il Leist, Graeco- Italische R.G. che segue
pure la stessa distinzione, $ 23, pag. 144. Così pure il WILLEMS, Le droit
public romain , Paris, 1883, pag. 36 , che continua ancor esso a dire, che le
curie si suddividono in gentes . Questa distin zione non fu mai accennata dagli
antichi scrittori, i quali soltanto ebbero a dire con Gellio, che i comiziä
сuriati si raccoglievano ex generibus hominum , il che significa solamente, che
nella composizione delle curie si teneva conto della discen denza, mentre
invece nei comizii centuriati si badava al censo e nei tributi alle lo calità.
Il populus insomma è ricavato dalle gentes,ma non fu mai diviso in gentes. 36
città venne ad essere confusa con quella patriarcale della gente e i due
elementi gentilizio e politico si confusero per modo che per qualche tempo fu
impossibile riuscire a sceverarli, ed anche oggi si scorgono evidenti, anche in
dottissimi scrittori, le conseguenze di tale confusione. Allora soltanto le
indagini furono rimesse in una via , che poteva condurre a qualche risultato,
allorchè gli studii , che si vennero facendo sul gruppo patriarcale
nell'Oriente, dimostrarono che anteriormente alla città era lungamente durato
un altro pe riodo di organizzazione sociale , che riceveva appunto il suo carat
tere fondamentale dalla gens, la quale, formatasi nell'Oriente , era poi stata
trasportata nell'Occidente tanto dalle stirpi Elleniche, quanto dalle stirpi
Italiche ( 1). Fu quindi collo studiare il gruppo patriar cale nell'Oriente,
ove per circostanze storiche speciali erasi mante nuto stazionario ed immobile
nelle sue principali fattezze, che si cominciò a comprendere e a ricostruire
nel suo carattere primitivo quella gente, che in Grecia ed in Roma era stata in
parte trasfor mata colla creazione dell'urbs e della civitas. Questo lavoro di
ricostruzione poté per le genti italiche essere agevolato da ciò, che Quanto
alle dekádes di Dionisio , il MUELLER ebbe a dimostrare che esse sono invece
una divisione delle centurie degli equites, al modo stesso, che esse erano pure
una divisione del senato (MUELLER, Philologus, XXXIV , p. 96-104 , 1874). Si
può infatti comprendere che i senatori, che erano cento prima e trecento
dappoi, si dividessero in decurie, e che così pure si facesse delle tre
centurie primitive degli equites, ma non si può veramente capire come le curie,
divisione dei Quiriti, che erano uomini di arme, potessero suddividersi in
gentes, le quali , essendo un ampliamento della fa miglia , comprendevano
maschi e femmine,maggiori e minori di età e così di seguito. (1) Il merito di
aver richiamato l'attenzione sul gruppo patriarcale presso le stirpi Arie, è da
attribuirsi sopratutto al SumnER MAINE, L'ancien droit, chap. V. La so ciété
primitive et l'ancien droit, pag. 107 a 163. Tuttavia mi pare giustizia il far
notare, che il primo che abbia, se non provata , almeno intuita questa
organizzazione patriarcale delle genti primitive fu sopratutto il nostro Vico,
il quale per compro varla ebbe a citare quegli stessi versi di Omero, in cui
parlasi delle istituzioni pri mitive dei Ciclopi (V. 22, Scienza nuova, lib.
II, ediz. Ferrari, Milano, 1836. Opere, vol. V , p. 269 , ove parla
dell'economia poetica e dice che i Polifemi furono i primi padri di famiglia
del mondo), dai quali prende appunto le mosse il SUMNER Maine (pag . 118 );
versi del resto, che già erano stati citati da Platone nel dia logo delle
Leggi, quando voleva appunto dimostrare che il patriarcato era stata
l'organizzazione sociale primitiva non solo presso i Greci,ma anche presso i
Barbari. Plato , Leges, III, Ed. Didot, Paris, 1848. Del resto che
l'organizzazione gentilizia sia stata comune a tutti gli Arii e quindi anche
aiGreci e agli Italici è cosa, che oggidì non forma più argomento di
discussione. (Per maggiori particolari vedi Carle, La vita del diritto , lib .
I e II, e sopratutto a pag . 90 e seg .) i 37 esse più di tutte le altre stirpi
hanno saputo attribuire al gruppo gentilizio quei contorni precisi e
determinati, che solo si rinvengono presso quelle popolazioni, che svolgono le
proprie istituzioni sotto un aspetto essenzialmente giuridico . Di qui la
conseguenza, che, a parer mio , i veri caratteri dell'organizzazione per gentes
possono più facilmente essere trovati nelle poche reliquie delle primitive
genti del Lazio , che non nella stessa India, ove l'elemento religioso
preponderante fini per assorbire e soffocare ogni altro aspetto della vita
primitiva. 29. Intanto questo ormai si può affermare con certezza, che la
gente, anzichè essere una divisione artificiale della città , deve invece es
sere considerata come il perno, intorno a cui si esplica l'organizza zione
gentilizia . Essa è un naturale ampliamento della famiglia pa triarcale, in
quanto che non comprende più soltanto coloro, che dipendono dalla stessa patria
potestà , maabbraccia tutte le famiglie, che, memori dell'antenato comune, da
cui sono discese, non solo ne portano il nome, ma ne professano e perpetuano il
culto. Però oltre questo carattere, che la gens latina ha comune colle genti
Arie, essa ha eziandio un carattere suo peculiare, ancorchè comune forse alle
genti elleniche, il quale consiste in ciò che le gentes sono considerate come
proprie di quelle aggregazioni domestiche, che oltre all'avere uno stipite comune,
sono riuscite a mantenersi perennemente ingenue, immuni cioè da qualsiasi
rapporto di servitù e di clientela. Delle gradazioni del gruppo patriarcale, la
gens è quella che possiede elasticità maggiore, perchè talvolta può avere le
proporzioni soltanto di una famiglia, col qual vocabolo infatti è talora
indicata la stessa gens: (1) e talvolta invece può avere già dato origine a
tante pro (1) Il vocabolo ad esempio di familia è adoperato per significare la
gens nel se guente passo di Festo : « Familia antea in liberis hominibus
dicebatur, quorum dux et princeps generis vocabatur pater et materfamilias ;
unde familia nobilium Pompi liorum , Valeriorum , Corneliorum (Bruxs, Fontes,
pag . 338 ). Si possono vederne molti altri esempi nel Voigt, Die XII Tafeln ,
Leipzig, 1883, II, pag . 760. In ciò si ha una nuova prova che la familia e la
gens fanno parte della stessa organizzazione, per guisa che i due vocaboli si
scambiano fra di loro . Mentre è difficile trovare negli antichi scrittori il
vocabolo di familia per indicare il populus , loro pare invece di essere più
esatti, paragonandolo ad un grez e dividendolo al pari di questo in altrettanti
capita . Del resto sono abbastanza noti i significati molteplici, che ha il
vocabolo familia nel diritto primitivo di Roma, ove significa ora un complesso
di persone o 38 paggini diverse da prendere quasi le proporzioni di una grande
e numerosa tribù, come la tradizione ci narra essere accaduto della gens
Claudia , da cui sarebbe originata la tribù dei Claudienses, e della gens
Fabia, le cui proporzioni pervennero a tale che essa poté colle sole sue forze
affrontare , secondo la tradizione o leggenda che voglia chiamarsi, una impresa
militare , che in tristi circostanze ap pariva ardua alla intiera città. 30.
Non è dubbio tuttavia , che le popolazioni italiche e sopratutto quelle del
Lazio dovettero avere un criterio per scindere la gens propriamente detta dalla
familia in stretto senso e se fosse lecita una congettura avvalorata da una
quantità notevole di indizii, la stregua dovette essere la seguente. Non vi ha
dubbio che i caratteri distintivi della famiglia primitiva erano due, cioè la
patria potestà del suo capo e l'esistenza di un patrimonio , probabilmente
chiamato here dium , che apparteneva esclusivamente alla famiglia nella persona
del proprio capo . Di qui la conseguenza , che tutti i discendenti nella linea
maschile (comprese anche le femmine non ancora uscite dal gruppo per matrimonio
e quelle entrate in esso per la stessa causa ) che dipendevano da un solo capo costituivano
la famiglia in stretto senso ; ma questa poi continuava ancora a mantenersi e a
considerarsi tale, anche dopo la morte del padre, finchè il pa trimonio
indiviso di essa perpetuava in certo modo l'unità fami gliare . Che se invece i
fratelli, dipendenti un tempo dall'autorità di un solo padre, venivano a
dividersi il patrimonio famigliare e a rompere così anche quanto ai beni
l'unità primitiva , in allora venivano ad esservi altrettante famiglie , di cui
ciascuna aveva un proprio capo, ma che tutte facevano parte di una medesima
gens, perchè continuavano ad avere il medesimo nome e il culto comune per il
proprio antenato. La gens comincia pertanto quando cessa l'unità indivisa della
famiglia , e quindi nel periodo gentilizio quelli che erano agnati e che come
tali costituivano ancora la famiglia omnium agnatorum , finchè il loro
patrimonio era indiviso, costituivano già il primo grado della gentilità ,
allorchè questa divisione era seguita . È di qui che provenne la difficoltà,
ancora non superata , per distin di cose, ora un complesso di persone, ora
soltanto un complesso di cose (fa milia pecuniaque) – ed ora infine il
complesso dei servi (familia rustica ed urbana). Cfr. Voigt, Op. cit. II, pag.
8 e segg. - 39 guere gli agnati dai gentiles, perchè colla divisione del
patrimonio gli uni si potevano convertire negli altri e fu solo posteriormente
allorchè diventò più rara questa indivisione, che si chiamarono agnati tutti
coloro, che un tempo si erano trovati sotto la patria potestà della stessa persona,
ai quali si aggiunsero poi anche quelli, che lo sarebbero stati se il comune
capo non fosse premorto . Non è quindi il caso di dover supporre col Muirhead ,
che l'ordine degli agnati, cosi nella successione che nella tutela legittima,
sia stata una creazione artificiale della legislazione decemvirale per
provvedere alla successione e alla tutela dei plebei, che mancavano di genti.
Gli artificii nelle epoche primitive sono meno frequenti che non si creda, e
non si possono supporre che quando ve ne siano prove dirette, quale è quella,
ad esempio , che abbiamo quanto alla fin zione di postliminio ed altre analoghe
. Per contro il gruppo degli agnati può benissimo essere attribuito ad una
formazione spontanea durante il periodo gentilizio, poichè era cosa naturale ,
come notd più tardi il giureconsulto, che l'essere stati un tempo sotto la
patria potestà della stessa persona e l'aver partecipato al godimento dello
stesso patrimonio dovesse distinguere il gruppo degli agnati da quello più
remoto dei semplici gentiles, che solo avevano comune la discen denza da uno
stesso antenato , ma che non avevano mai dimorato nella stessa casa, nè avevano
mai formato parte della stessa famiglia. D'altronde sarebbe veramente strano ed
incomprensibile, che la le gislazione decemvirale avesse dovuto essa creare il
concetto degli agnati, mentre è appunto quest'agnazione, che sta a base delle
or ganizzazioni domestica e gentilizia, le quali certo già esistevano pre
cedentemente (1) . C ( 1) Che l'ordine degli agnati sia stata una creazione
della legislazione decemvi. rale, è uno dei concetti veramente nuovi enunciati
dall'illustre autore dell'Historical Introduction . Egli quindi insiste più
volte sul medesimo e dopo averlo accennato a pag. 43 nel testo e nelle note 2 e
3 vi ritorna sopra a pag. 121 e 172 e note relative. Il solo suo argomento però
consiste nei due testi di Ulpiano da lui citati , ove il giureconsulto mentre
dice che : lege duodecim tabularum testamentariae hereditates confirmantur » ,
usa invece, quanto alla successione legittima, l'espressione che « legitimae
hereditatis ius ex lege duodecim tabularum descendit » , espressione che pure
adopera altrove quanto alla tutela legittima. È però evidente , che qui il
giureconsulto non parla solo della successione degli agnati, ma di tutta la
succes sione legittima, e quindi anche degli heredes sui, e dei gentiles, per
guisa che, se stesse il ragionamento del MUIRHEAD , converrebbe dire, che
secondo il giureconsulto tutto il sistema della successione legittima discende
dalle XII tavole. E questo ve 40 31. La gente intanto, dopo essere partita dal
gruppo degli agnati, che avevano diviso il patrimonio paterno, poteva poi
prendere uno svol gimento grandissimo, in quanto che essa poteva abbracciare
tutte le diramazioni per la linea maschile , che si staccavano da ciascuno di
questi agnati e non cessava mai di costituire una sola aggregazione gentilizia
, finchè tutte le famiglie continuassero ad avere lo stesso nome e a professare
il culto del medesimo antenato . Potevano perd darsi dei casi, in cui la gente
cosi pervenuta ad un numero stragrande di persone venisse a ripartirsi essa
stessa in diramazioni diverse; tuttavia anche allora il nome primitivo della
gens è sempre conservato , ma ciascuna delle diramazioni prende un proprio
agnomen o cognomen , che ne costituisce in certo modo la caratteri stica , ed è
seguendo la serie dei cognomina, che si possono seguire le propaggini tutte
della stessa pianta . Cosi accadde, ad esempio, della gens Claudia , la quale
già numerosissima conservava ancora una sola denominazione, ma che più tardi
venne assumendo una quantità di cognomina diversi, che indicano in certo modo
il punto , in cui sopra un unico ceppo cominciarono ad apparire diramazioni
diverse. Lo stesso è a dirsi della gens Cornelia e di molte altre, il che
serve, anche a spiegare come nel tempo in cui anche quella parte della plebe,
che già era pervenuta alla nobiltà cercava di imitare l'antica or ganizzazione
gentilizia , si veggano delle gentes plebeiae staccarsi da un fusto patrizio.
Ciò infatti deve probabilmente indicare un antico vincolo di clientela , che
stringeva l'antenato, da cui parti la forma zione della gente plebea, ad
un'antica gente patrizia . 32. Bastano queste considerazioni per spiegare
l'energia vitale, che ramente fu quello, che volle dire il giureconsulto ;
poichè furono appunto le XII tavole, che, nell'intento di appoggiare
l'organizzazione gentilizia, trasportarono di peso la successione legittima
esistente nelle tradizioni patrizie anche alla plebe, nel che può vedersi uno
dei motivi, per cui il cittadino romano, per sottrarsi ad un sistema di
successione, che era disadatto alla città e conduceva all'esclusione di per
sone care, credevasi quasi dimorire disonorato, se moriva senza testamento. Fu
quindi tutta la successione legittima e non soltanto l'ordine degli agnati, che
fu creazione dei decemviri, i quali la tolsero dipeso dell'organizzazione
gentilizia ; in cui già eranvi le distinzioni di heredes sui, di agnati e di
gentiles, come appare dal fatto, che tutta l'organizzazione gentilizia è
fondata sull'agnazione, il che è pure ammesso dal MUIRhead. Ciò del resto sarà
meglio comprovato quando si tornerà sul gravissimo argomento , discorrendo
della successione legittima in base alle XII tavole. Quanto all'agnazione e ai
caratteri di essa è pure da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 15 e
seg. - 4 ) - poteva avere un gruppo , che, ad una compattezza pressochè uguale
a quella della famiglia , accoppiava talvolta il numero e la forza della tribù,
sopratutto allorchè essa era capitanata da uomini di energia tenace e di
propositi costanti, come furono per parecchie genera zioni quelli, che
guidavano la gens Claudia o la gens Valeria , e come in essa potessero anche
perpetuarsi tradizioni diverse , ostili o favorevoli alla plebe dapprima e poi
al partito popolare. È questo carattere della gens, che spiega la perennità di
un numero origi nariamente piccolo di genti patrizie, malgrado una quantità di
influenze, che tendevano a dissolverle e a circoscriverne l'azione. Così pure
deve spiegarsi il fatto che, mentre le tribù primitive , di fronte alla potenza
assorbente della città , finirono per scompa rire fin dal periodo regio con
Servio Tullio , le genti invece per . durarono per parecchi secoli, sostennero in
poche una lotta lunga e pertinace con una plebe, il cui numero veniva facendosi
sempre maggiore, ed anche vinte continuarono sempre a dare un contri buto
larghissimo a quegli onori e a quelle magistrature, che per secoli erano stati
loro privilegio esclusivo, finchè da ultimo anche l'impero fini per
consolidarsi per un certo tempo nei discendenti di antiche genti patrizie, che
si erano imparentate fra di loro. Del resto questa potenza del gruppo
gentilizio fu anche sentita da quella parte della plebe, che mediante
l'ammessione agli onori fini per costituire una nuova nobiltà , come lo
dimostra il fatto , che essa per afforzarsi non trovò mezzo più efficace di
quello di ricorrere al ius imaginum e di imitare cosi una organizzazione, che
ormai trovavasi in decadenza . 33. Intanto i due caratteri fondamentali della
gens, quali si pos sono raccogliere dalle vestigia che ci rimangono delle
antiche genti italiche,malgrado le divergenze, che possono esistere nella
descrizione dei particolari minuti, si riducono essenzialmente ai seguenti,
cioè : 1 ° alla discendenza da un antenato comune, la quale rivelasi nel nome,
nel culto , e nel sepolcro comune; 2° ed alla ingenuità perenne dei membri, che
entrano a costituirla , per modo che essa deve essersi ser bata immune da
qualsiasi mescolanza con persone di origine servile. Il primo di questi
caratteri è quello che costituisce la forza, la compattezza e la perennità
dell'organizzazione gentilizia, ed il se condo, che il Pontefice Q. Muzio
Scevola volle si aggiungesse alla deffinizione dei gentiles serbataci da
Cicerone, è quello che spiega la superiorità delle genti patrizie di fronte
alla plebe . Esse ave - 42 vano attraversato un lungo periodo di lotta e di
privata violenza vincitrici sempre e non vinte mai, e quindi la loro gentilitas
era indizio, che esse appartenevano alla classe dei vincitori, il cui sangue
non erasi mai mescolato con quello dei vinti, dei servi e dei clienti, donde la
conseguenza eziandio , che il vocabolo patricii in sostanza non significava che
gli ingenui, il quale ultimo vocabolo allude ap punto alla niuna mescolanza del
loro sangue con quello servile. 34. Questi due caratteri sono dimostrati
anzitutto dalle varie diffini zioni della gens stateci trasmesse da Varrone, da
Festo, da Isidoro e da altri, le quali accennano tutte alla discendenza dei
gentili da un antenato comune, e da quella anche di Cicerone, il quale,
parlando di un nome comune (qui inter se codem nomine sunt) non esclude
certamente , ma conferma il carattere della comune discendenza e in tanto vi
aggiunge quello della ingenuità non interrotta dei gentiles. Questa del resto è
pur confermata da ciò , che la plebe stessa nelle sue discussioni coi patrizii
se non ammetteva la loro discendenza dagli Dei riconosceva però , che il vocabolo
patrizii nelle sue origini do veva significare ingenui (1). - Di qui intanto si
comprende come dapprima il patrizio e poscia tutti i cittadini romani avessero
tre appellazioni, di cui la prima (praenomen ) indicava l'individuo, l'altra
che era il vero nome (nomen) designava la gente , a cui egli appar teneva in
quanto la gente era in certo modo il gruppo che conte neva le diverse famiglie
, e la terza infine ( cognomen) designava la famiglia, in quanto questa era una
particolare diramazione, della gente (2 ). A queste appellazioni si potevano
poi anche aggiungere (1) Festus, vo Gentilis : « Gentilis dicitur ex eodem
genere natus, et is qui simili nomine appellatur » . Bruns, Fontes, pag . 339;
VARRO, De lingua latina, VIII, 4 : « Ut in hominibus quaedam sunt agnationes ac
gentilitates, sic in verbis ; ut enim ab Aemilio homines horti Aemilii ac
gentiles, sic ab Aemilio nomine declinatae gen tilitates nominales » . Bruns,
Fontes, pag. 389 ; Isiporus, IX , 2, 1 : « Gens est mul. titudo ab uno
principio orta , appellata propter generationes familiarum , id est a gi gnendo
uti natio a nascendo ». Bruns, pag. 409 ; CICERO, Top. 6 : « Gentiles sunt qui
inter se eodem nomine sunt. Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quorum maiorum nemo
servitutem servivit. Qui capite non sunt deminuti » . V. anche Liv., X , 8 . (2
) Per ciò che si riferisce ai nomi romani è da vedersi il MICHEL, Du droit de
cité romaine, Paris, 1885 ; e sopratutto la trattazione veramente magistrale
del Mar QUARDT, Das Privatleben der Römer, Erster Theil, p . 7 a 25. Ivi egli
nota come vi fossero gruppi, che non avevano cognomen , come gli Antonië, i
Duilii, i Fla minii ecc., pag. 13 , not. 2. Quanto agli esempi citatinel testo
a pag.40, è pare a ve. dersi il Bonghi, Storia di Roma, I, Appendice sulle primitive
genti patrizie, nella parte, che si riferisce alla gens Claudia e Cornelia ,
pag. 490-91. 43 uno o più soprannomi (agnomina), che servivano a contraddistin
guere l'individuo stesso o per essere egli stato adottato da altra fa miglia ,
o per impresa da lui compiuta, o per indicare le suddistin zioni operatesi
nella stessa famiglia ( 1). Può darsi che in antico potesse esservi anche
qualche indicazione della località abitata dalla gente, a cui apparteneva
l'individuo, come lo dimostrano i sopran nomiprimitividi Regillensis,
Collatinus e simili (2 ). Di questo avreb besi un indizio nel fatto, che allora
quando il territorio di Roma fu veramente distribuito in tribù locali, anche la
indicazione della tribù comparve a completare le denominazioni del cittadino
romano, e precedette anzi il soprannome suo particolare. Del resto questi
caratteri particolari della gens sono anche com provati dalla radice gen,
comune alla gens latina e al révos dei Greci, che significa generare e
produrre; come pure da ciò , che i nomi gentilizii sono nomi di persona
piuttostochè di luoghi, e che i diritti gentilizii, come il ius hereditatis, il
ius curae, il ius sepul chri sono di carattere eminentemente privato . Così è
pure dei sacra gentilicia , i quali da Festo sono annoverati fra i sacra
privata , che sono a spese delle singole genti, e contrapposti ai sacra pub
blica, che si compiono invece a pubbliche spese (3 ). Solo sembra far eccezione
il ius decretorum ; ma oltrecchè questo diritto sembra nel periodo storico
esercitarsi di preferenza in cose d'ordine privato , il medesimo pud facilmente
essere spiegato quando si consideri, che la gente aveva compiuto un tempo
funzioni politiche, che non po terono scomparire di un tratto anche colla
formazione della città (4 ). (1) Tali sono le appellazioni di Publius Cornelius
Scipio Aemilianus, di Lucius Cornelius Scipio Asiaticus, di Publius Cornelius
Lentulus Spinther, ecc. V. Mar QUARDT, op. cit., p . 15. (2 ) VARRO, De ling.
lat., VIII, 82: « In hoc ipso analogia non est, quod alii no mina habent ab
oppidis, alii aut non habent, aut non , ut debent, habent » . BRUNS, pag . 387.
(3 ) FESTUS, p Publica : « Publica sacra , quae publico sumptu pro populo
fiunt, quaeque pro montibus, pagis, curiis, sacellis, et privata , quae pro
singulis homi nibus, familiis, gentibus fiunt » . Bruns, pag . 358 . (4 ) I
casi ricordati dalla storia , in cui le gentes si sarebbero valse del ius decre
torum , sarebbero i seguenti: la gens Fabia vietò ai suoi membri il celibato e
la esposizione degli infanti (Dion. IX , 22 ) ; la gens Manlia proscrisse il
prenome di Marcus (Liv., VI, 20), e la gens Claudia quello di Lucius (Svet.,
Lib. I), che ri chiamavano per esse tristi ricordi. Più tardi però fu il
Senato, che prese simili prov vedimenti, vietando il prenome di Marcus agli
Antonië (Plut., Cic., 19), e quello 44 35. È invece assai più difficile
l'argomentare quale potesse essere l'organizzazione interna della gens da
quelle poche traccie, che ne rimangono nel periodo storico . Non si può
anzitutto accertare, se la gens avesse sempre e costantemente un proprio capo
(princeps gentis) (1), o se il medesimo invece fosse eletto dal consiglio dei
padri o indicato dall'anzianità di nascita, solo allorchè trattavasi di qualche
impresa da compiere, come quando, ad esempio , Atto Clauso avrebbe abbandonato
Regillo per recarsi a Roma. Questo però è certo , che la gente dovette avere un
consiglio di anziani o di padri, che raccoglieva in sè la somma dei poteri, e
conservava e trasmetteva le tradizioni della gente . Era nel suo seno , che si
sceglievano gli ar bitri e gli amichevoli compositori delle controversie, che
potevano sorgere fra i varii capi di famiglia, che appartenevano alla mede sima
gente . Era questo consiglio parimenti, che sull'ager gentilicius faceva degli
assegni di terre ai clienti, ed attribuiva gli heredia alle nuove famiglie
che si formavano nel seno della gente ; era ilmede simo ancora , che poteva
richiedere il servizio militare non solo dei suoi membri (gentiles), ma anche
dei dipendenti da essa (gentilicii ). Cosi pure era questo consiglio, che sovra
intendeva alla pubblica e privata condotta dei singoli capi di famiglia,
preveniva e reprimeva gli abusi dell'autorità domestica, ed impediva eziandio
che i capi di famiglia , contro il buon costume della gente, disperdessero quei
beni (bona paterna avitaque) di cui in certo modo erano custodi nel l'interesse
proprio e della famiglia e che, potendo, dovevano trasmet . tere ai proprii
eredi. Era la gente infine che , in mancanza di prossimi agnati, era chiamata a
succedere al capo di famiglia morto senza eredi suoi, e che doveva perciò anche
provvedere alla tutela perpetua delle femmine e a quella dei figli, che fossero
rimasti or di Cnaeus ai Calpurnii Pisones ( Tac., Ann., III, 17). Partivano
eziandio dalla gens i provvedimenti, che riguardavano la sepoltura. È da
vedersi in proposito l'opera di Henri DANIEL LACOMBE, Le droit funéraire à
Rome, Paris , 1886 , n . 114 , p. 97, dove dice che la gens conservò il suo
sepolcro gentilizio, finchè si mantenne la sua organizzazione e l'unione
stretta fra i suoi membri, cioè fin sotto l'impero. Fu al lora che
incominciarono i sepolcri di famiglia od ereditarii. Secondo quest'autore ($
118 , pag. 99), mentre i liberti partecipavano ai sacra gentilicia , e quindi
proba bilmente anche al sepulchrum gentilicium , essi invece erano esclusi del
sepolcro della famiglia, al quale avevano diritto soltanto gli agnati. (1 ) In
proposito del princeps gentis o magister gentis è da vedersi il Voigt , Die XII
Tafeln , II, pag. 771 e seg ., ove parla dei poteri al medesimo spettanti. - 45
- fani prima di essere pervenuti alla pubertà , come pure doveva es sere essa ,
che facevasi vindice delle offese , che fossero recate ad alcuno dei membri che
entravano a costituirla. Da ultimo fra i membri della gente esisteva l'obbligo
della reciproca assistenza, per cui dovevano essere alimentati se indigenti,
riscattati se prigionieri, sostenuti nelle loro controversie , e vendicati se
fossero stati uccisi od ingiuriati (1).Se a tutto ciò si aggiunga il vincolo
del nome, quello del culto, e quello del sepolcro, sarà facile il comprendere
come un gruppo così intimamente connesso , unito nel passato e nell'avvenire,
in vita e dopo la morte , nelle cose divine ed umane non potesse essere
facilmente distrutto dalle influenze contrarie che si vennero svolgendo nella
città (2 ). Esso continud, durante il periodo storico, ad avere una quantità di
istituzioni tutte sue proprie , come lo dimo strano i vocaboli di gentilis e di
gentilicius, l'esistenza anche nel periodo storico di un ager gentilicius,
quelli dei sacra gentilicia , del sepulchrum gentilicium , per modo che, anche
prima del for marsi della città, dovette svolgersi tutto un ius gentilicium ,
che governava appunto i rapporti fra le varie persone, che entravano a
costituire il gruppo gentilizio . Esso quindi non deve confondersi col ius
gentilitatis , che indica il complesso dei diritti spettanti ai gentiles, al
modo stesso che il ius civitatis indicherà poi i diritti spettanti al civis.
Così pure non può esservi dubbio , che il vocabolo di iura gentium , che poscia
ebbe a prendere un così largo svolgi mento, dovette nascere già in questo
periodo per indicare appunto i rapporti, che intercedevano fra le varie genti e
i capi delle mede sime ( 3 ) . (1) Quanto ai poteri della gens, tanto sui
gentiles quanto sui gentilicii, è a vedersi il Voigt, Die XII Tafeln , II , pag
. 774 . (2) La bibliografia copiosissima intorno alla gens può vedersi nel
BOUCHÉ-LECLERCQ , Institutions romaines, pag. 7 in nota , come pure nel
WILLEMS, Le droit public romain , pag. 36, nota 4 . ( 3) Fra gli autori
recenti, che tentarono la ricostruzione del ius gentilicium , sono a vedersi
sopratutto il KARLOWA, Römische R. G., pag . 35, il MUIRHEAD, Histor. Introd .,
pag. 5 a 8. Parmi tuttavia importante il distinguere il ius gentilicium , che
comprende anche i rapporti fra la classe superiore dei gentiles e quella dei
dipen denti da essi o gentilici , il ius gentilitatis che significa il
complesso dei diritti spettanti ai membri di una stessa gente (gentiles), e i
iura gentium , che governano i rapporti fra le varie gentes . - 46 $ 4. – Il
patronato e la clientela nell'organizzazione gentilizia . 36. Fra gli istituti
di questo ius gentilicium , quello che più me rita di essere preso in
considerazione è certo quello della clientela , essendo essa una delle cause
del numero e dell'importanza , a cui giun sero gli antichi gruppi gentilizii. I
clienti, durante il periodo storico , costituiscono una classe in feriore di
persone, che appare vincolata al patriziato da certe obbligazioni di carattere
ereditario, in contraccambio della protezione e difesa che esso gli accorda
(1). Le due persone, fra cui intercede questo vincolo ereditario , sono
indicate coi vocaboli di patrono e di cliente , il quale ultimo vocabolo ,
secondo l'opinione ora general mente adottata , deriva da cluere, che significa
audire nel senso di essere obbediente (2). Come tali , i clienti entrano a far
parte della gente, a cui appartiene il loro patrono, ma non assumono perciò la
quantità di gentiles ; ma quella soltanto di gentilicii e costituiscono cosi
nel gruppo gentilizio una classe di uomini, di condizione infe riore, che in
una posizione già alquanto migliorata corrisponde al l'ordine dei servi e dei
famuli in seno dell'organizzazione domestica . Essi non partecipano al ius
gentilitatis, ma sono sotto la tutela del ius gentilicium (3 ). 37. È lo
storico Dionisio quegli, che ci ha conservato l'enumera zione più
particolareggiata delle obbligazioni e dei diritti, che inter cedono fra il
patrono ed il cliente , attribuendo l'istituto della clien ( 1) Cfr. Willems,
Le droit public romain , pag . 26. Non potrei però convenire in ciò , che egli
considera i clienti come una classe speciale di cittadini di diritto inferiore
, perchè la clientela in ogni tempo fu sempre considerata come un rapporto di
diritto privato e non mai come un rapporto di diritto pubblico , che bastasse
ad attribuire da solo la qualità di cittadino. I clienti poterono poi avere
tale qualità quando ebbero degli assegni in terre dal proprio patrono ,
mediante cui poterono figurare nel censo, ma non si capisce veramente come
potessero essere considerati come cittadini e avere il diritto di suffragio
persone, le quali non potevano nep far valere direttamente le proprie ragioni
in giudizio, ma abbisognavano perciò del patrono. Questa è ancora sempre una
conseguenza della confusione fra l'organizzazione gentilizia e l'organizzazione
politica . (2 ) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vo Clueo . (3 ) Cfr. MUIRHEAD , Encyclopedia
Britannica, vº Patron and client, vol. XVIII. 1 47 tela allo stesso Romolo ; ma
egli è evidente , che anche la sua descri zione già altera alquanto le
primitive fattezze della clientela, stante lo sforzo fatto per trasportare
nella convivenza civile e politica un'istituzione, che era nata e si era svolta
nell'organizzazione gen tilizia . Secondo Dionisio , il cliente aveva delle
obbligazioni, nelle quali si può scorgere un carattere, che noi chiameremmo
semi feudale. Egli infatti deve al patrono riverenza e rispetto ; deve ac
compagnarlo alla guerra ; soccorrerlo pecuniariamente in certe occa sioni, come
nel caso di matrimonio delle proprie figlie, e di riscatto di sè e dei figli se
siano prigionieri, come pure deve concorrere con lui a sostenere le spese di
giustizia , ed anche quelle dei sacra gentilicia . Ciò tutto fa credere, che i
clienti ottenessero dai loro patroni delle terre a titolo di precario, dalla
cui coltura potevano ricavare dei proventi che loro appartenevano, e che le
terre loro assegnate facevano parte dell'ager gentilicius , proprietà
collettiva della gente ; il che non rende esatta ,ma spiega l'antica etimologia
as segnata al vocabolo di clientes, che si dicevano così chiamati « quasi
colentes » ,perché avrebbero coltivate le terre dei padri (1). Infine Dio nisio
parla perfino dell'obbligazione del cliente di non poter votare contro il
patrono, la quale dimostrerebbe come la clientela , adatta al gruppo
gentilizio, veniva ad essere un'istituzione ripugnante al carattere di una comunanza
civile e politica (2 ). Alla sua volta poi il patrono doveva al cliente
protezione e di fesa , e quindi era tenuto a provvederlo diciò , che fosse
necessario per il sostentamento di lui e della sua famiglia , il che facevasi
me diante concessione di terre, che il cliente coltivava per suo conto. Esso
doveva di più assisterlo nelle sue transazioni con altre persone,
rappresentarlo in giudizio , apprendergli il diritto (clienti promere iura ),
ottenergli risarcimento per le ingiurie patite, averlo in certo (1) È Servius,
In Aeneidem , 6 , 609 , che vuol derivare il vocabolo di clientes da quasi
colentes in quanto che scrive : « Si enim clientes quasi colentes sunt, pa
troni quasi patres, tantundem est clientem quantum filium fallere » . Bruns, op
. cit., pag. 403. Parmi tuttavia che, tenendo conto del contesto della frase di
Servio, qui il vocabolo quasi colentes non accenni tanto al coltivare le terre,
quanto piuttosto all'osservanza ed alla riverenza del cliente verso il patrono,
per guisa che anche l'e timologia di Servio confermerebbe quella oggidì
adottata . (2 ) Diox . 2 , 10. Questo passo di Dionisio, in cui egli riporta le
obligazioni rispet tive del patrono e del cliente, attribuendo in certo modo
l'origine della clientela a Romolo, è riportato in greco ed in latino dal
Bruns, Fontes, pag . 4 . 48 modo in considerazione di membro della gente,
ancorchè in con dizione inferiore, in quanto che nella gerarchia gentilizia il
cliente veniva bensì dopo gli agnati, ma era prima dei cognati e degli affini,
i quali appartenevano ad un altro gruppo ( 1). Questi obblighi poi scambievoli,
in mancanza di sanzione giuri dica, erano collocati sotto la protezione del fas
come lo dimostra la legislazione posteriore delle XII Tavole, la quale,
sanzionando un obbligazione certo preesistente, ebbe a stabilire « si patronus
clienti fraudem fecerit, sacer esto » , ed al pari di tutti gli altri rapporti
gentilizii avevano un carattere ereditario . Infine, siccome patrono e cliente
appartengono entrambi allo stesso gruppo gentilizio , ancorchè in posizione
diversa , cosi Dionisio va fino a dire, che essi non possono proseguirsi
reciprocamente in giudizio , condizione anche questa, che , consentanea al
carattere dell'organiz zazione gentilizia, ripugna invece a quello della convivenza
civile e politica , ove ognuno deve avere il mezzo di poter far valere le
proprie ragioni davanti ad un'autorità , che accorda a tutti la propria
protezione (2 ). 38. Basta questa breve esposizione per dimostrare, come la
clientela fosse un istituto nato e svolto nell'organizzazione gentilizia prima
esistente, che continuò ancora per qualche tempo a produrre i proprii effetti
nella città , ove tuttavia si trovò compiutamente disadatto , perchè ripugnava
a quell'uguaglianza di posizione giuridica , che deve esservi fra coloro , che
partecipano alla medesima cittadinanza. Essa quindi era destinata
necessariamente a scomparire o quanto meno a trasformarsi, in quanto che nella
città le persone, che tro vansi in condizione inferiore, possono essere aggruppate
nella plebe e fare a meno della protezione del patrono, essendovi un'altra
autorità che li tutela. Di qui la conseguenza , che la clientela potè ancora
mantenersi finchè i due ordini in lotta fra di loro si ( 1) MASURIUS SABINUS, «
In officiis apud maiores ita observatum est; primum tu telae, deinde hospiti,
deinde clienti, tum cognato , postea adfini » . HUSCHKE, Jurisp . ante-iust.
quae sup., pag. 124. Aulo Gellio invece accenna ad un'altra opinione, che dà la
preferenza al cliente sull'ospite. Noct. Att., V, 13. Che poi il cliente entri
in certo modo a far parte della famiglia è affermato da Festus, yº Patronus. «
Pa tronus a patre cur ab antiquis dictus sit , manifestum ; ut quia ut liberi ,
sic etiam clientes numerari inter domesticos quodammodo possunt > ; Bruns,
pag. 351. (2) Cfr. Karlowa, Römische R. G., I, pag . 39. 49 attennero ancora
strettamente alla propria organizzazione e rappre sentarono in certo modo due
elementi fra di loro contrapposti nella medesima città ; ma dopo il pareggiamento
invece dei due ordini, la clientela riusci solo più a mantenersi di nome,
anzichè di fatto ; senza più importare quegli obblighi di carattere religioso
ed ereditario , che ne conseguivano un tempo. I clientes si scambiarono cosi in
semplici aderenti, che accompagnavano il patrizio od anche l'homo novus nella
piazza e nel foro e ne costituivano in certo modo il corteo , e diventarono
anche semplici salutatores ; il che tuttavia non tolse , che il vocabolo
cliente sopravvivesse alla istituzione da esso indicata , e rimanesse ad
indicare il rapporto di colui che si affida al patrocinio legale di un'altra
persona, ricordando così uno dei primitivi uffici, che il patrono aveva
certamente avuto verso il proprio cliente. Tuttavia, anche dopo il
pareggiamento dei due ordini, allorchè la vera clientela già scompariva nei
rapporti fra i cittadini Romani, noi la vediamo sopravvivere nei rapporti dei
cit tadini Romani colle altre genti, in quanto che trovansi le traccie di un
ius applicationis, la cui origine rimonta alle tradizioni gen tilizie, col
quale un individuo, un municipio , un Re od un popolo straniero ricorrevano al
patronato di un cittadino Romano per far va lere o avanti al Senato o davanti
ai magistrati di Roma ragioni e diritti che essi non sarebbero stati in caso di
far riconoscere (1) . Così pure nell'interno della città , la clientela,
ancorchè scomparsa come istituzione giuridica , continua pur sempre ad
esercitare una grandissima influenza sopratutto nel periodo delle elezioni, nel
quale tutte le aderenze si mettono in movimento e quindi anche quelle che
ricordano uno stato di cose ormai scomparso . (1) Accenna al ius applicationis
CICERONE, De orat. 1, 39, ma sembra che già ai suoi tempi fosse assai oscuro il
carattere di questa istituzione. Sonvi però autori, che, come il MISPOULET,
vorrebbero scorgere nelmedesimo la forma contrattuale della clientela . Les
institutions politiques de Rome, Paris, 1882, I, pag. 22. In ogni caso
converrebbe pur sempre dire, che il ius applicationis poteva essere la forma,
che rivestiva il rapporto della clientela nell'epoca romana, ma non si potrebbe
affer mare altrettanto dell'epoca gentilizia . Le formole epigrafiche, da lui
citate in nota , si riferiscono alla così detta pubblica clientela, che era già
stata creata a somi glianza di quella prima esistente. Del resto punto non
ripugna, che anche la clien tela potesse assumere un carattere contrattuale e
che la formola di essa potesse anche essere analoga a quella ricostrutta dal
Voigt. « Te mihi patronum capio . At ego suscipio poichè noi troviamo qualcosa
di analogo anche nella deditio. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 4 50
39. Quanto alla clientela , fu sopratutto disputata ed ha veramente grande
importanza la questione intorno alla origine di essa . Si è sostenuto in
proposito che i clienti fossero i primi plebei stati ripartiti da Romolo sotto
il patronato dei patrizii; che essi fos sero i primi abitanti del Lazio ridotti
a vassalli; che fossero gli im migranti in Roma in seguito all'asilo aperto da
Romolo ; che essi infine fossero antichi servi manomessi, la quale opinione,
posta in nanzi dal Mommsen, si appoggerebbe sull'analogia, che corre fra gli
obblighi primitivi del cliente verso il patrono e quelli che ancora si
mantengono durante il periodo storico a carico dei liberti verso il patrono (1)
Di queste varie opinioni, quella che andrebbe a sorprendere la clientela nella
sua prima formazione e che sembra essere più con sentanea al carattere
dell'organizzazione gentilizia è l'opinione soste nuta dal Mommsen, per cui i
primi clienti della gente sarebbero stati i servi, i quali, manomessi dopo un
lungo e fedele servizio nel seno della famiglia , sarebbero diventati clienti
nel seno della gente, a cui apparteneva il proprio patrono. Ciò era non solo
naturale, ma indispensabile nell'organizzazione gentilizia in quanto che , se
cosi non fosse stato , i servi manomessi si sarebbero trovati abban donati a se
stessi e staccati da quel gruppo, al di fuori del quale non poteva esservi
protezione giuridica, finchè non fu costituita una vera autorità civile e
politica . Si aggiunge che l'organizzazione gentilizia è una formazione
naturale e spontanea , che cerca in ogni suo stadio di bastare a se stessa , e
tende così a ricavare dal proprio seno tutti i suoi successivi sviluppi. Viene
quindi ad essere na turale e serve anche a dare una certa elasticità ai varii
gruppi gentilizii e a permettere il passaggio da uno ad un altro la costu manza
per cui coloro, che erano stati famuli o servi nella famiglia, potessero essere
accolti come clienti o gentilicii nella gente . La clien tela in tal modo
veniva a costituire una condizione relativamente più elevata a cui poteva
aspirare il servo , e si comprende eziandio come la sua coabitazione in una
famiglia potesse da una parte disporre la gente a renderlo partecipe del culto
e del sepolcro gentilizio, mentre dall'altra la sua fedeltà ed obbedienza nella
qualità di servo era preparazione all'ossequio ed alla riverenza del cliente ,
(1) L'esposizione più particolareggiata delle varie opinioni, colla indicazione
degli autori, che ebbero a professarle , occorre nel .WILLEMS, Le droit public
Romain , pag. 28 ; e nel Borché-LECLERC, Instit. Rom ., pag. 9. - - 51 - 40. È
in questo senso che il concetto del Mommsen può essere accettato ; ma il medesimo
vuol essere reso compiuto col ritenere che qui dovette verificarsi un processo
, che è comune a tutte le isti tuzioni primitive, per cui, una volta creata la
configurazione giuri. dica della clientela per mezzo di elementi usciti dal
seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si poterono poi fare entrare in
essa tutti coloro, che essendosi per qualsiasi causa staccati da un gruppo
abbisognavano di collegarsi ad un altro e di mettersi sotto la pro tezione o
difesa di esso . Come quindi era stato naturale , che il servo affrancato dal
capo di famiglia diventasse cliente della gente a cui esso apparteneva, così
dovette pure essere naturale , che una volta creato il rapporto religioso,
giuridico ed ereditario della clientela fossero compresi nella medesima anche
gli immigranti, che si rifu giavano presso la gente, vincolandosi mediante il
ius applicationis ad uno dei membri di essa , che ne diventava il patrono ;
quelli, che per un diritto di guerra universalmente riconosciuto fra le varie
genti, essendo posti nella condizione di dediticii, venivano ad esser privi di
religione, di territorio, e di mezzi di sussistenza ; quelli, che erano
soggiogati e vinti da una gente o tribù, che sopravveniva e si imponeva nel
sito da essi occupato; quelli che, fermata la propria sede accanto ad uno
stabilimento di casate patrizie, ne ottenevano con cessioni di terra e
riconoscevano così il patronato delle medesime; tutti quelli insomma, che in
un'epoca di lotta e di privata violenza cercavano protezione e difesa presso la
gente, e che questa, per affi nità di stirpe o per altro motivo, riteneva di
poter accogliere nella comunanza gentilizia , assegnando perd ai medesimi una
posizione subordinata (1). 41. Cid intanto dimostra come la clientela fosse una
istituzione indispensabile in questo periodo di organizzazione sociale , poichè
serviva ad incorporare nel gruppo gentilizio persone, che altrimenti si
sarebbero trovate nell'isolamento e percid prive di diritto , e quindi, mentre
da una parte accresceva il numero e la forza delle genti, dall'altra procurava
al cliente una protezione giuridica, di cui sa rebbe stato altrimenti privato.
In questo senso non è certamente (1) Questa più larga estensione data
all'origine della clientela ,che, senza escludere l'opinione del MOMmsen, la
comprende , sembra essere giustificata dal seguente passo di Gellio, V , 13 : «
Clientes, qui in fidem patrociniumque nostrum sese dediderunt » . 52 destituita
di fondamento la potente intuizione del nostro Vico , il quale riteneva che la
clientela o come egli la chiama il famulato fosse un mezzo indispensabile per
giungere ai governi civili , in quanto che essa fu effettivamente il primo
mezzo,mediante il quale individui e famiglie di origine diversa poterono,
coll'accettare una posizione dipendente e subordinata, essere aggregate ad un
gruppo , a cui non appartenevano per nascita, senza tuttavia essere assorbiti
in tieramente nel gruppo stesso nella qualità di famuli e di servi (1) . Non
può quindi essere accolta l'opinione di coloro, che vorrebbero collocare il
cliente in una posizione intermedia fra il servo ed il plebeo, poichè sebbene
sia vero che l'uno poteva trasformarsi nel l'altro, tuttavia la clientela e la
plebe sono istituti, che compariscono in stadii diversi dell'organizzazione
sociale. Mentre la clientela appartiene ancora totalmente all'organizzazione
gentilizia , il com parire invece della plebe segna già l'iniziarsi della vita
civile e politica in seno della tribù , donde la conseguenza che la città for
mandosi soffocherà la clientela , mentre verrà invece a somministrare il
terreno, sovra cui la plebe potrà dispiegare la propria attività ed energia . $
5 . La tribus come il gruppo più ampio dell'organizzazione gentilizia . 42. Al
disopra della gens compare infine nella organizzazione delle genti Italiche
un'aggregazione più vasta , che è quella della tribú , come lo dimostra il
fatto , che, secondo la tradizione, sarebbe dal confederarsi delle tribù dei
Ramnenses, dei Titienses e dei Luceres, che sarebbe uscita la città di Roma,
allorchè essa cesso di essere il primitivo stabilimento romuleo. La tribù
tuttavia, delle istituzioni anteriori alla città, è certo la più difficile a
ricostruirsi nelle sue primitive fattezze. Siccome infatti essa, per le
funzioni eser citate , era tra le varie aggregazioni quella , che più si
accostava alla città propriamente detta , così è anche quella, che per la prima
fu assorbita dalla medesima, per modo che il nome stesso delle tre tribù
primitive di Roma sarebbesi forse perduto, se non l'avesse (1) Vico, Seconda
scienza nuova , Lib. II . Della famiglia dei famoli innanzi delle città , senza
la quale non potevano affatto nascere le città . Op. comp. Ed. Milano, 1836 ,
vol. V , pag. 296. 53 conservato la curiosità investigatrice di qualche
antiquario, e non ne fossero rimaste le vestigia nelle sei centurie degli
equites (sex suffragia) composte dei Ramnenses, Titienses e Luceres primi et
secundi (1). 43. Gli è perciò che come fu assai difficile il discernere la
gente dall'aggregazione più ristretta dalla famiglia , cosi non è meno dif
ficile il constatare in qual modo alle genti venga a sovrapporsi la tribù e
come, riunendosi le prime, venga ad apparire la seconda . Di questo pero
possiamo essere certi, che le tribù primitive di Roma risultavano composte da una
aggregazione di genti, le quali si venivano raggruppando intorno al capo di una
gente preva lente fra tutte le altre, da cui desumevano il loro nome com
plessivo, il quale percið era ricavato dalla persona, che guidava la tribù, più
che dal luogo, ove questa era stabilita . Così, per arre starsi alle due tribù
primitive, la cui origine è meglio accertata , si può essere certi, che la
tribù dei Ramnenses ricava il proprio nome complessivo da Romolo e da Remo, che
erano a capo di essa, se condo la tradizione ; il che è pure di quella dei
Titienses, il cui nome deriva da Tito Tazio capo della tribù sabina, stabilita
sul Quirinale ; nel che è anche a notarsi, che il nome della tribù viene ad
essere composto in guisa diversa da quello della gens, per guisa che mentre
parlasi di una gens Romilia , Titia è Claudia , le tribù invece vengono ad
essere dei Ramnes o Ramnenses, dei Ti ties o Titienses, e dei Claudienses. (2
). Di qui pud indursi, che la (1) Non mancano negli autori delle trattazioni
anche relativamente alla tribù ; ma di regola essa suol essere considerata come
una ripartizione della città , nè cer casi di ricostruire la tribù primitiva,
che sola può porgere il mezzo di comprendere la formazione della città . Tutti
però concordano in riconoscere, che altre sono le tribù primitive, fondate sul
vincolo genealogico, ed altre quelle posteriori introdotte da Servio Tallio ,
desunte invece dalle località , ove erano stabilite. Cfr . CARLOWA, Römische
Rechtsgeschichte, I, pag . 79 e seg . (2) Non può certamente essere accettata
l'etimologia di VARRONE, De ling . lat. 55 (Bruns, pag . 378 ), il quale
vorrebbe in certa guisa far derivare il nome delle tre tribù dalle tre parti
dell'agro, che sarebbe stato fra esse distribuito. « Ager Ro manus, primum
divisus in partes tres, a quo tribus appellatae Titiensium , Ramnium , Lucerum
» . Infatti l'opinione di Varrone in questa parte è contraddetta da Livio , da
Servio , da Dionisio , che fanno invece derivare il nome delle tre tribù non
dalle località, ma dal nome dei loro capi. È quindi evidente, che qui VARRONE
confuse in certo modo le tribù primitive con quelle di Servio Tullio, come lo
dimostra il 54 tribù comincia a delinearsi, allorchè viene ad avverarsi
un'aggre gazione di gentes, le quali, non essendo più strette dal vincolo della
comune discendenza , si raggruppano intorno al capo della stirpe pre valente
fra di esse e mentre conservano in particolare i proprii nomi gentilizii,
assumono in comune un nome, che desumono dal proprio capo. 44. Questa
formazione novella viene poi ad essere determinata ogni qualvolta un'impresa o
spedizione qualsiasi può porgere oc casione a questo aggregarsi delle gentes .
Di qui la conseguenza che la tribú - o può assumere un carattere pressochè
militare, come accadde della tribù dei Ramnenses, che sarebbesi formata fra le
genti albane in occasione di una spedizione di carattere militare, o può invece
avere il carattere di una vera e propria comunanza di villaggio , come era di
quella dei Titienses già stabilita sul Qui rinale . Tanto nell'uno quanto
nell'altro caso essa assume immedia tamente un carattere religioso, ponendosi
sotto la protezione di una divinità, comune patrona, perchè fra le genti
primitive non si pud comprendere un'aggregazione qualsiasi senza un vincolo
religioso che la stringa insieme (1). Qui intanto l'unificazione del gruppo
diventa indispensabile , anche per l'intento che la tribù si propone di con
seguire, e quindi viene ad accentuarsi assai più che nella gente la figura di
un capo, che potrà prendere il nome di praetor o di dic . fatto, che egli dopo
continua con dire: « Ab hoc agro quatuor quoque partes urbis tribus dictae ab
locis , Suburana, Palatina, Esquilina, Collina, etc. » . Del resto non pud
neppure ammettersi, che occorresse una divisione dell'agro fra le tre tribù,
dal momento che ciascuna continuava ad avere il proprio terrritorio , salvo che
si trat tasse, non di una ripartizione di territorio, ma di una divisione
meramente ammi nistrativa , come dovette appunto essere. (1) Secondo il
Bouché-LECLERCQ, la cui competenza è incontrastabile nella parte, che si
riferisce alla religione di Roma per i suoi studii sui Pontefici e sull'arte
della divinazione, il culto delle tribù de' Ramnenses sarebbe stato quello di
Marte e Quirino ; quello della tribù dei Titienses sarebbe stato quello di
Quirino e di Giano e quello infine della tribù de' Luceres sarebbe stato quello
di Giove, sebbene queste varie divinità sembrino talvolta confondersi fra di
loro, il che accade quanto a Marte e a Quirino, come pure diGiove e di Giano.
Si può aggiungere, che della triplice divinità rimasero ancora le traccie nei
tre flaminimaggiori, che erano quelli diMarte, di Qui rino e diGiove (Gaius I,
112). Di qui LECLERCQ ricaverebbe indizi dei diversi stadii, che Roma ebbe a
percorrere nella sua formazione progressiva. Institutions Romaines, pag. 477 a
494 . 55 tator, se la tribù trovasi avviata ad una spedizione ; di iudex in
tempo di pace; di magister pagi, se trattisi di una comunanza di villaggio già
ferma in un determinato sito ; dimeddix , come accadeva presso gli Osci, ed
infine anche di rex , sebbene questo vocabolo , sembri comparire di preferenza
quando trattisi del capo di una città propriamente detta . Tuttavia questo capo
suol essere nella tribù ancora designato di preferenza dalla nascita , che non
dall'elezione; come lo dimostra il fatto , che i due duci della tribù dei
Ramnenses sono entrambi di stirpe regia e per essere gemelli debbono cono scere
mediante gli auspicii quale di essi sia chiamato a fondare la città , o meglio
il primo stabilimento romuleo sul Palatino. Quando invece da capo della tribù
dei Ramnenses, Romolo debba già trasfor marsi in reggitore della civitas,
formatasi mediante la confedera zione di varie tribù , in allora , secondo
Dionisio, sarà già necessaria l'approvazione dei padri e la creazione del
popolo (1 ). Però accanto al capo si mantiene ancor sempre un consiglio, che
può continuarsi a chiamare dei patres , perchè è effettivamente composto dei
capi delle singole genti, e a cui probabilmente già viene data la deno
minazione di senatus. Infine nella tribù già può avverarsi la riunione
(comitium ) degli uomini, che colle armi ( iuniores) o col consiglio (seniores)
possono provvedere alla comune difesa od al comune in teresse ; donde la
conseguenza , che già nella stessa tribù può ve nirsi iniziando il concetto
eminentemente concreto ed organico del populus, salvo che gli elementi per
costituirlo si ricavano ancora direttamente dalle varie genti (ex generibus
hominum ), cosicchè la sua classificazione continua ancora sempre ad avere un
carattere prettamente gentilizio . 45. Questa naturale formazione della tribù
dimostra , come la me desima corrisponda fra le genti Italiche a ciò che per
l'Oriente suol essere indicato col vocabolo di vîc o comunanza di villaggio , e
fra iGreci col vocabolo di dñuos (2). Essa costituisce in certo modo (1 ) Dion.
II , 3. (2 ) V. HAUSSOULIER, La vie municipale en Attique. Pref., 3. Devo però
far no tare che, secondo l'autore, il dñuos dei Greci sarebbe già una vera
associazione civile e politica e corrisponderebbe alla curia e più soventi al
pagus, sebbene a mio avviso la curia ed il pagus siano due cose compiutamente
diverse. La curia infatti è una divisione politica delle città , mentre il
pagus sarebbe la località, in cui dimora la tribus. Crederei quindi più esatto
che il dñuos corrisponda a quest'ultima. 56 il più largo sviluppo, a cui
pervenne l'organizzazione patriarcale , perchè mentre il suo elemento
costitutivo e il modello, a cui si in forma, è pur sempre il gruppo gentilizio
, da essa pero già si vengono elaborando quegli elementi, che, trasportati
nella comunanza civile e politica , finiranno per dare origine ad un rapporto
del tutto nuovo, che è quello della civitas , il quale più non dispiegasi nel
pagus come la tribù , ma bensi nell'urbs. Ben si potrebbe osservare contro
questo tentativo di ricostruzione, che la tribù mal pud essere stata l'ultimo
stadio dell'organizzazione patriarcale, mentre essa ricompare poi come la prima
ripartizione della città ; ma anche ciò può essere facilmente spiegato quando
si consideri, che era dalla tribus, che si erano ricavati i primi ele menti, in
base a cui si costituiva la città , come lo dimostrano anche i vocaboli di
tribunus, tributum , tribunal, i quali tutti richiamano l'antica tribù, e
quindi era conforme al processo costantemente seguito nelle formazioni
Italiche, che l'edifizio novello della città si ripartisse nell'interno sul
modello degli elementi primitivi, che con correvano a costituirlo . D'altronde
è noto , che le tribù di Servio Tullio hanno un carattere di preferenza locale
e non già genealogico come le tribù primitive (1 ). 46. Intanto, senza volere
per ora trattare a fondo dell'origine della plebe, non sarà inopportuno
indicare, che è certamente colla formazione delle tribù , il cui nucleo è ancor
sempre composto di genti patrizie, che può essersi iniziata la formazione della
plebs, essendo naturale che attorno ad uno stabilimento di genti patrizie, che
già riconoscono un capo , si venisse formando una comunanza plebea, che
provvedesse al proprio sostentamento, o coltivando terre concesse dalle genti o
dal capo di esse, o esercitando i mestieri e le professioni diverse. Il bisogno
di questo nuovo elemento poteva essere sentito dalle stesse genti, per quanto
esse coi loro servi e coi loro clienti fossero organizzate in guisa da poter
bastare da sole a tutte le loro esigenze. Ciò è comprovato eziandio da quelle
Quanto al diverso svolgimento di questi varii elementi nell'India , nella
Persia , in Grecia e in Roma, vedi Carle, La vita del diritto nei suoi rapporti
colla vita so ciale. Lib . I e II, come pure : Genesi e sviluppo delle varie
forme di convivenza civile e politica , colle opere ivi citate. ( 1) La
distinzione è fatta nettamente da Dionisio (4 , 15), il quale chiama la tribù
primitiva qulai revikai e quelle di Servio Tullo qulai totikaí. - 57 antiche
formole , in cui parlasi di populus et plebes, dualismo il quale fa credere che
dovette esservi un tempo, in cui si chiamo populus l'assemblea politica e
militare ricavata dal seno delle genti, secondo il rito e l'ordine prescritto
dalle consuetudini e dalle tra dizioni, mentre invece si chiamd plebes dapprima
e poscia plebs (da pleo , riempire) quella moltitudine ragunaticcia , che dopo
essersi cominciata a formare con clienti rimasti senza patrono e che come tali
venivano ad essere esclusi dal gruppo gentilizio , potè poi una volta formata
accrescersi in guise varie e molteplici. Questo infatti risulta dalla storia
delle primitive istituzioni sociali , che il compito più difficile nella grande
povertà delle idee primitive è la forma zione di un nuovo gruppo ; ma quando
esso è formato e corrisponde alle esigenze dei tempi, viene ad essere un
potente richiamo per tutti gli elementi, che per questo o quel motivo si vengono
stac cando dall'organizzazione prima esistente , e che abbandonati a se cercano
un nucleo novello a cui possano aderire. § 6 . Sguardo sintetico ai varii
gruppi dell'organizzazione gentilizia . 47. Riassumendo questa lenta e faticosa
ricostruzione dell'orga nizzazione sociale delle genti Italiche anteriore alla
città , credo che la medesima abbia abbastanza dimostrato, come
l'organizzazione stessa siasi venuta svolgendo mediante un processo di naturale
e spontanea formazione, costituita in certo modo da altrettanti sedimenti, che
si vennero sovrapponendo l'uno all'altro, in modo pero che gli ele menti, che
formansi in ciascuno di essi, subiscono delle trasforma zioni allorchè passano
in quelli che vengono dopo. Infatti, anche lasciando in disparte la grave
questione della pro venienza delle genti Italiche , è molto probabile, che esse
già re cassero con sè l'organizzazione gentilizia, quantunque la medesima non
avesse forse assunto quelle determinazioni precise, che acquisto più tardi.
Furono i conflitti delle genti colle stirpi già stabilite sullo stesso suolo ,
le lotte fra vincitori e vinti, e quelle eziandio fra le stesse genti migranti,
che presto dimenticarono la discendenza comune, che produssero un irrigidirsi
dei varii gradi dell'organizza zione gentilizia e condussero alla formazione di
una potente ari. stocrazia territoriale, militare e religiosa ad un tempo, che
attrasse 58 anche i vinti nei quadri del proprio ordinamento , collocandoli
però in una posizione subordinata a quella dei vincitori. Ne consegui che la
famiglia , per rendersi atta a sostenere i con . flitti cogli altri gruppi, si
venne concentrando e raggruppando sotto il potere del proprio capo, il quale
sembra quasi perdere l'aureola di padre per assumere quella di sacerdote, di giudice
, di uomo di guerra e di fondatore di una schiatta destinata a perpetuarsi.
Intanto le per sone, cheda lui dipendono, si dividono in liberi o figli e in
servi o fa muli, due vocaboli che si contrappongono fra di loro ed indicano due
classi di uomini, che per molti secoli rimarranno distinte per contrassegnare
in certo modo la discendenza dei vincitori e quella dei vinti. Di qui quel
carattere eminentemente monarchico della costi tuzione della famiglia
gentilizia , che tenacemente conservato nella famiglia quiritaria fini per
attribuire alla medesima quella speciale impronta , che i giureconsulti romani
più non ravvisavano nelle istituzioni famigliari degli altri popoli. La gente
invece continua sempre a ritenere alquanto dell'ela sticità primitiva, nè giunge
ad una concentrazione uguale a quella della famiglia ; ma intanto, memore del
culto del proprio antenato , custode gelosa delle proprie tradizioni, riunita e
resa compatta dai comuni pericoli, accresciuta dai clienti, si cambia anch'essa
in una specie di corporazione potente, che continua ad essere il perno del
l'organizzazione gentilizia, e mentre da una parte tiene unite le famiglie,
dall'altra , aggruppandosi con altre genti, dà origine alla tribù . Intanto
però anche in essa continua quel dualismo, che già erasi rivelato nella
famiglia , salvo che i rapporti fra quelli, che un di furono i vincitori e
quelli che furono i vinti, rimettono al quanto della propria rigidezza , e
vengono cosi a trovarsi di fronte i gentiles ed i gentilicii, i cui rapporti.
prendono un carattere pres sochè giuridico nel patronato e nella clientela .
Così pure nella gente , accanto all'elemento monarchico della famiglia , già
viene a svolgersi un elemento, che potrebbe chiamarsi aristocratico , il quale
costituisce un consiglio degli anziani, che concentra in sè medesimo le
principali funzioni, che appartengono alla gente. Da ultimo nella tribu havvi
pur sempre un'aggregazione di genti, ma intanto fra le medesime già distinguesi
una gente , che predo mina su tutte le altre e viene così ad essere ritenuta
come di stirpe regia . Di qui la conseguenza , che in essa compare la figura di
un capo, che è il principe della gente, che predomina su tutte le altre,
conservasi il consiglio degli anziani, che già mutasi in senato , 59 perchè è
già composto dei capi di genti diverse , ma intanto aggiun gesi l'elemento
democratico o popolare , che componesi di tutti gli uomini, che, ricavati dalle
varie genti, possono valere come uomini di armi o come uomini di consiglio .
Cid però non toglie, che continui sempre il dualismo, che già esi steva negli
altri gruppi in quanto che accanto al popolo formasi la plebe, la quale trovasi
dapprima al di fuori della comunanza gentilizia e ha percid più un'esistenza di
fatto , che non un'esistenza di diritto . Essa è dapprima riguardata con
disprezzo dal patriziato, perchè esce dai quadri consacrati dalla religione e
dal diritto delle genti; ma cið non toglie, che passandosi dall'organizzazione
gentilizia alla città essa sia l'unico elemento, che possa sostenere la lotta
coll'antico ordine di cose . Per tal modo si avverò nel periodo gentilizio una
vera forma zione naturale delle varie condizioni di persone e dei varii
elementi, che entrarono più tardi a costituire la comunanza civile e politica.
Che anzi, mentre dura ancora il periodo gentilizio, già si vengono lentamente e
gradatamente elaborando quei concetti, che serviranno poi di base alla futura
città : Tantae molis erat romanam condere gentem . Non è già che questo
processo di naturale formazione sia proprio soltanto delle genti Italiche, in
quanto che le traccie di essa ap pariscono evidenti presso tutte le stirpi di
origine Aria ed anche presso quelle di origine Semitica e Camitica (1). Nessuna
però giunse a racchiudere i varii stadii di questa formazione in forme più
determinate e precise delle stirpi italiche, e furono esse parimenti che,
gettando nel crogiuolo i materiali tutti elaborati e conservati nel periodo
gentilizio, seppero ricavarne le basi e il fondamento del l'eterna città . (1)
Ciò è stato provato largamente dal SUMNER MAINE, L'ancien droit , pag. 107 a
163. È poi interessantissima a questo proposito la comparazione, che viene
facendo il Revillout fra l'organizzazione domestica dei Romani e quella che
vigeva presso gli Egiziani nella sua opera col titolo : Cours de droit égiptien
, Paris, 1884, della quale può considerarsi come un compimento, per ciò che si
riferisce alle forme di celebrazione del matrimonio, il lavoro del suo allievo
PATURET, La condition juri dique de la femme dans l'ancien Egipte, Paris, 1886.
- 60 CAPITOLO IV . La proprietà nel periodo gentilizio e gli istituti attinenti
alla medesima. S 1. – Dubbii circa l'origine della proprietà nella storia
primitiva di Roma. 48. Fra i problemi, che presenta la storia delle istituzioni
primitive di Roma, uno fra i più difficili per comune accordo degli autori è
certo quello, che si riferisce all'origine di quella forma di proprietà , che
suol essere indicata col nome di proprietà quiritaria, la quale in certo modo
venne ad essere il modello, sovra cui si foggið la proprietà presso la maggior
parte dei popoli civili. A questo proposito le tradizioni a noi pervenute
sembrano presen tare alcune contraddizioni a prima giunta inesplicabili. Da una
parte infatti, anche dopo la formazione della città , si rinvengono ancora le
traccie di una proprietà collettiva , conosciuta sotto il nome di ager
gentilicius e di ager compascuus,mentre dall'altra la proprietà qui ritaria si
presenta fin dai proprii inizi con un carattere cosi assoluto ed esclusivo, che
sembra perfino escludere la possibilità dell'esistenza anteriore di una
proprietà collettiva. A cið si aggiunge, che mentre da una parte la storia
primitiva di Roma ci dipinge il patriziato fin dai più antichi tempi in
condizionitali da concentrare nelle sue mani tutto il capitale (pecunia )
allora esistente, e come il proprietario pressochè esclusivo di una gran parte
del territorio , dall'altra la tradizione parla di una ripartizione fatta da
Romolo del territorio Romano e di un assegno da esso fatto di soli due iugeri
(bina iugera) ai capi di famiglia, che lo avevano seguito, il quale assegno
avrebbe co stituito il primo patrimonio (heredium ) del più antico patriziato ,
che era quello della tribù dei Ramnenses (1). (1) Ecco i principali passi di
antichi scrittori che si riferiscono all'argomento : VARRO, De re rustica, 10,
2 : « Bina iugera , quod a Romulo primum divisa viritim , quae heredem
sequerentur, heredium appellarunt» . Plinius, Hist. nat., 18, 2 , 7: « Bina
tunciugera populo romano satis erant, nullique maiorem modum attribuit
(Romulus) » . Lo stesso Plinio poi, 18 , 3, 10 scrive : « M. Curii nota dictio
est, perniciosum intel legi civem , cui septem iugera non essent satis . Haec
autem mensura plebi post ex ictos reges adsignata esto. Brons, Fontes, pag.
387. Se ne ricaverebbe pertanto - 61 49. Non è quindi meraviglia se le
congetture a questo proposito siansi avviate in direzioni compiutamente
diverse. Alcuni riten nero che la proprietà privata in Roma sia stata una
creazione dello Stato , ma contro questa opinione si è giustamente osservato ,
che l'idea di una sovranità territoriale fu affatto ignota ai Romani, per guisa
che un'imposta fondiaria qualsiasi sarebbe loro parsa un segno di soggezione
odioso tanto, che fino all'Impero Roma e l'Italia ne furono escluse ( 1). In
senso contrario si fa perd notare, che non può ammettersi che la proprietà in
Roma siasi potuta sottrarre a quella evoluzione storica , che sarebbesi
avverata presso tutti i popoli, in quanto che Roma avrebbe esordito con un
concetto della proprietà , che presso gli altri popoli non si rinviene che
quando essi sono pervenuti al termine della loro evoluzione. Ne deriva che,
lasciando in disparte le gradazioni diverse delle opi nioni intermedie, le
teorie estreme si potrebbero ridurre essenzial mente alle seguenti. Vi ha
l'opinione del Niebhur, del Mommsen , seguita anche da molti altri, fra cui
noterd il De Ruggero, secondo cui la proprietà in Roma, come presso gli altri
popoli, sarebbe prima esistita sotto forma collettiva e non sarebbesi cambiata
in proprietà esclusivamente privata ed individuale , che colla ammessione della
plebe alla cittadinanza e cogli assegni di terre fatti dallo Stato ai che ai
primi fondatori dello stabilimento romuleo l'assegno non fu che di due iugeri,
mentre poi più non parlasi di altri assegni fatti anche al patriziato. Per
contro gli as segni posteriori, incominciando da Numa, appariscono fatti ai
plebei ed anzi aipiù po veri della plebe. Solo fa eccezione Cicerone, il quale
direbbe che Numa avrebbe diviso fra i cittadini l'agro pubblico conquistato
sotto Romolo « agros divisit viritim viribus » « De rep. II, 14 » , ma in ciò è
contraddetto da Dionisio , il quale parla di una di stribuzione da Numa fatta
ai più poveri, II, 62. Quanto agl'assegni attribuiti ai re, che vennero dopo,
sono tutti fatti alla plebe, ed è dopo le leggi Licinie Sestie, che i medesimi
furono portati a sette iugeri. Ciò è attestato fra gli altri da Columella, De
re rustica , 1, 3, 10 , « Post reges exactos Liciniana illa septem iugera ,
quae plebi tribunus viritim diviserat,maiores quaestus antiquis retulere, quam
nunc nobis praebent amplissima vetereta » . Ho citato questi varii testi per
provare, che il solo assegno fatto ai primi padri o capi di famiglia fu quello
di due iugeri attribuito a Romolo, mentre gli altri sono fatti alla plebe; il
che dimostra che i padri dovettero continuare ad avere i loro agri gentilizii.
(1) V. PADELLETTI, Storia del diritto Romano, con annotazioni del prof.
Cogliolo , Firenze, 1886, pag. 214, ove si sforza , e a parer mio, inutilmente,
a dimostrare che il piccolo heredium di due iugeri poteva bastare ai bisogni
della famiglia , stante la coltura intensiva applicata al medesimo. - 62
singoli cittadini (1 ) ; e vi ha quella invece, sostenuta con ardore dal nostro
Padelletti, secondo cui sarebbe affatto esclusa questa origine collettiva dalla
proprietà, in quanto che l'istituto della medesima, quale si è svolto fin dai
più antichi tempi di Roma, per usare le sue stesse parole, avrebbe assunto un carattere
spiccatamente pri vato ed avrebbe segnato il grado più perfetto, a cui sia
pervenuto il regime della proprietà (2). 50. È poi degno di nota che siccome
oggidi la ricerca intorno all'origine delle proprietà assunse le proporzioni di
una questione economica e sociale, in quanto che ad essa si rannodano teorie
diverse intorno all'ordinamento delle proprietà , così la ricerca delle sue
origini presso un popolo , le cui istituzioni esercitarono tanta influenza
sopra tutti gli altri, ha assunto eziandio il carattere di un problema
economico e sociale . Sonvi infatti coloro che, come il Laveleye ed altri
autori più o meno apertamente favorevoli ad un ordinamento collettivo della
proprietà , vogliono trovare, anche presso ( 1) L'autore, che primo approfondì
i concetti dell'ager publicus e dell'ager pri vatus, è certamente il Niedhur,
Histoire romaine, III, pag. 175 a 222. Egli però sembra partire dal
preconcetto, che anteriormente a Roma non esistesse proprietà privata, e che
questa fosse stata costituita mediante gli assegni stati fatti alla plebe. La
sua opinione fu seguita dal Puchta , Corso delle Istituzioni. Trad.
Turchiarulo, $ 285 , dal MOMMSEN, Histoire romaine, I, chap. XII et XIII, pag .
189 e seg. Segue pare questa opinione il De-RUGGERO nei suoi dotti articoli
sull'ager publicus-privatus, e sulle agrariae leges, inserti nell'Enciclopedia
giuridica italiana , come pure nel suo precedente lavoro, La gens in Roma
avanti la formazione del comune. Napoli, 1872. (2 ) PADELLETTI, op . cit., pag
. 220. Nota 1°. La questione dell'origine collettiva della proprietà cominciò
dall'essere posta in campo dal Sumner Maine, L'ancien droit, chap. VIII,
Histoire de la propriété primitive, pag . 231 a 288. Essa poi fu allar gata dal
Laveleye del suo libro, La propriété et ses formes primitives, dove si oc cupa
della proprietà presso i Romani da pag . 177 a 193. Di recente poi la
discussione -surse di nuovo, a proposito della proprietà primitiva presso i
Germani, in occasione di una dissertazione letta dal FUSTEL DE COULANGES
all'Accademia di Scienze morali e politiche di Parigi, in cui egli sostiene che
anche i primitivi Germani avrebbero conosciuta la proprietà famigliare e
privata. Alla discussione presero parte il GEFFROY, il Glasson, l'AucoC e il
Ravaisson, e ne uscì una specie di studio comparativo fra la proprietà e la
famiglia romana e la proprietà e la famiglia dei primitivi Germani. Compte
rendu de l'Académie des sciences morales et politiques, 1885, 1er vol., pag.
705 a 812 e 2me vol., pag. 1 a 66. L'opinione del FusTEL DE COULANGES, quanto
alla proprietà privata già conosciuta dai Germani, era stata già sostenuta in
modo anche più esclusivo dal Denman W. Ross, The early of Land-holding among
the Germans. Boston, 1883, pag. 40. 63 i Romani, le traccie di una proprietà
collettiva,mentre altri, soste . nitori invece della proprietà privata ed
individuale, cercano di avere per sè l'autorità di un grande popolo per
giustificare la forma di proprietà che è loro prediletta . Il vero si è che
tanto l'una come l'altra teoria solleva dei grandi dubbi. Da una parte infatti,
quando si riconosca presso i Romani solo una proprietà originaria mente
collettiva , viene ad essere inesplicabile come un popolo , che suole procedere
così gradatamente nella trasformazione delle proprie istituzioni giuridiche,
abbia potuto senza altro operare una rivolu zione così radicale nel concetto
della proprietà . Dall'altra , se si sostiene che la proprietà Romana fu
senz'altro una proprietà asso luta ed esclusiva , non è men vero che il popolo Romano
sembre rebbe appartarsi da tutta l'evoluzione della proprietà , quale almeno
sarebbe stata formolata da coloro , che si occuparono delle forme pri mitive
dalla medesima assunte. In questa condizione di cose non pud negarsi la gravità
e la im portanza del problema, e questo è certo che il medesimo non potrà mai
essere risolto , finché non si ricerchino le condizioni della pro prietà presso
le genti del Lazio, per mettersi cosi in caso di ap prezzare le trasformazioni,
che esse ebbero a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla comunanza
civile e politica . 51. Tuttavia, prima di inoltrarsi nella ricerca, non sarà
inopportuno di premunirsi contro alcune idee, che, sopratutto in questi ultimi
tempi, si vennero introducendo intorno alla legge di evoluzione sto rica, che
governa la proprietà. Il Laveleye, in una notevole opera sua , ha cercato di
stabilire sopra una grande quantità di fatti una legge storica, secondo cui la
proprietà avrebbe cominciato dall'e sistere sotto forma collettiva e poi sarebbe
venuta assumendo un ca rattere sempre più individuale, lasciando così
sottintendere, che l'u nico rimedio di ovviare a questa individualizzazione
soverchia della proprietà sarebbe quello di richiamare l'istituzione ai propri
inizii ( 1). (1) L'opera del LAVELEYE è quella già citata col titolo: La
propriété et ses formes primitives. Paris 1874, e la legge storica ricordata
nel testo è da lui formolata nello stesso primo capitolo, pag. 4 ,il che
giustifica alquanto la censura fattaglidal PADELLETTI di essersi sforzato a
dimostrare una tesi. Del resto le idee del LAVELEYE hanno tro vato molti
seguaci e possono anche essere accettate in certi confini, con che non si
voglia cambiare in una legge storica generale un fenomeno, che ebbe solo a veri
ficarsi in un periodo dell'umanità stessa, cioè nel periodo gentilizio. Di più
si potrebbe 64 Senza entrare ora nella discussione di questa legge, devesi però
notare, che ricerche di altri investigatori imparziali, fra i quali lo Spencer,
hanno già dimostrato , che una legge di questa natura non pud essere ammessa,
in quanto che presso popoli del tutto primitivi già si trovano le traccie di
una proprietà privata ed individuale (1 ). Quindi è che l'unica legge storica ,
relativa all'evoluzione della pro prietà , che allo stato attuale degli studi
possa formolarsi, sarebbe che la proprietà , essendo una istituzione
eminentemente sociale, ebbe in tutti i tempi ad assumere tante forme, quanti
sono gli stadii per corsi dall'organizzazione sociale . Sopratutto poi la
storia delle isti tuzioni giuridiche presso i varii popoli dimostra, che le
sorti della proprietà si presentano strettamente connesse con quelle della fa
miglia , cosa del resto che può essere facilmente compresa quando si consideri,
che il primo bisogno della famiglia fu certamente quello di assicurare il
proprio sostentamento . Siccome perd la famiglia nel periodo, che suole essere
chiamato patriarcale , entra essa stessa a far parte di un organizzazione
maggiore, che è l'organizzazione gentilizia , cosi anche la proprietà finisce
per assumere tante con figurazioni diverse, quanti sono i gradi di questa
organizzazione sociale. Ciò può scorgersi anche presso quei popoli, i quali
sono recati come esempio da quelli, che sostengono che nelle origini sa rebbe
prevalso il regime collettivo della proprietà , quali sarebbero le antiche
comunanze dell'Oriente e anche dell'Occidente, il cui ter sempre notare al
LAVELEYE e con esso al SUMNER MAINE che, finchè non sia provato che
l'organizzazione patriarcale è l'organizzazione veramente primitiva, non si
potrà neppure sostenere che la forma di proprietà , che trovasi durante
l'organizzazione gentilizia , sia la forma veramente primitiva . Quanto alla
letteratura copiosa sull'argo mento, può vedersi il dotto lavoro del VioLLET, Précis
de l'histoire du droit français. Paris, 1886 , pag. 481 e 482. L'autore
ritiene, che la proprietà privata e la collettiva possano essere ugualmente
antiche, ma che nella origine abbia avuta prevalenza la proprietà collettiva,
mentre la proprietà individuale sarebbe stata ristretta a qualche cosa mobile
di uso esclusivamente personale. Questa proprietà collettiva si sarebbe poi
venuta frazionando ed avrebbe assunto un carattere sempre più individuale, in
quanto che la proprietà famigliare e privata avrebbe prevalso su quella più
estesa della tribù. L'autore però non spiega , come ciò abbia potuto
accadere,mentre il pas saggio può invece essere seguìto presso i Greci ed i
Romani. VIOLLET, op . cit., pag . 71 e 72. (1) V. SPENCER , Principes de
sociologie, vol. III, Paris, 1883, pag . 717, ove egli parla « de la fausseté
de la croyance mise en avant par certains auteurs, à savoir que la propriété
individuelle était inconnue aux hommes primitifs » . - - 65 ritorio , secondo
consuetudini antichissime, suole essere ripartito in varie parti, di cui una
viene ad essere assegnata alle singole fa miglie ; l'altra è lasciata a prato
ed a pascolo, ove i singoli capi di famiglia possono pascolare un numero
determinato di capi di be stiame; e l'altra infine è considerata come proprietà
della intera comunanza, ancorchè sovra di essa continuino ancora ad esercitare
certi diritti i singoli comunisti (1). Or bene se la legge dell'evoluzione
storica della proprietà è contenuta in questi, che sono i suoi veri confini,
credo di poter af fermare in base ai fatti, che la storia della proprietà
romana non solo non costituisce un'eccezione alla medesima, ma è quella invece,
che conserva le traccie più evidenti di tale evoluzione. § 2. – La domus, il
vicus ed il pagus e i loro rapporti colle varie forme di proprietà . 52.Non è
dubbio anzitutto , che presso i Romani le sorti della pro prietà e quelle della
famiglia procedettero strettamente connesse fra di loro . Basterebbe a
dimostrarlo il fatto, che il Quirite, come si vedrà a suo tempo , entrò nella
comunanza civile e politica nella sua doppia qualità di capo di famiglia e di
proprietario sopratutto del suolo , e che nel diritto primitivo di Roma i
poteri del capo di famiglia sopra le persone e le cose si presentano così
strettamente uniti fra di loro , che un solo vocabolo , quello appunto di
familia , comprende le une e le altre (2). A ciò si aggiunge che è un prin
cipio, costantemente applicato dai Romani, quello per cui non può esi stere nè
alcuno stadio di organizzazione sociale , nè alcuna corpora zione anche di
carattere sacerdotale senza che le debba essere asse gnato un patrimonio , il
quale, indicato col vocabolo generico di ager, (1) V. LAVELEYE, op. cit., Chap
. II, V , VI, come pure il SUMNER Maine, Village Communities. London , 1872 ;
Early history of institutions. London , 1875. Early law and custom . London,
1883. (2 ) Questa è la significazione che il vocabolo « familia > riceve
nell'antico diritto, come lo dimostrano le espressioni familia habere , emere,
mancipio dare e simili. Che anzi essa talvolta significa direttamente la
proprietà, come può vedersi nella Lex latina tabulae Bantinae. Le varie
significazioni del vocabolo familia , coi testi che loro servono di appoggio,
possono vedersi nel Roby, Introduction to Justinian's Digest. Cambridge, 1884.
Notae ad Tit. « de usufructu » , pag. 48, vº Familiae. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 5 - 66 può essere chiamato , secondo i casi, ager privatus,
gentilicius, compascuus, publicus, communis, peregrinus e simili (1). Ciò prova
fino all'evidenza , che il Romano primitivo, allorchè si presenta nella storia,
ha già il concetto profondamente radicato , che non possa quasi esservi la
famiglia senza una proprietà , che le serva di sede e le fornisca i mezzi di
sostentamento , e che questo con cetto fu da esso applicato a tutte le altre
corporazioni, le quali tutte furono primitivamente modellate sulla famiglia .
Non è quindi pos sibile il sostenere, che la proprietà privata o meglio
famigliare possa , presso i Romani, considerarsi come una creazione dello
Stato, ma conviene necessariamente ammettere che fosse conosciuta già prima, se
appena fondato lo Stato, il primo atto che esso compie , secondo la tradizione,
è quello di assegnare una proprietà ai singoli capi di famiglia. È questo il
motivo per cui anche qui, per comprendere l'istituto della proprietà quale
comparisce in Roma, conviene cer carne l'origine presso le genti, fra cui Roma
si è formata . Vero è che sono pochissime le vestigia veramente genuine, che ci
riman gano dello stato di cose, che esisteva anteriormente a Roma ; ma tuttavia
anche con pochi frammenti non è impossibile la ricostru zione di questa
condizione anteriore, quando si tenga conto del pro cesso costantemente seguito
dai Romani, anche nel periodo storico , che è quello di trasportare nel periodo
seguente i concetti e le istituzioni, che ebbero ad elaborarsi nel periodo
anteriore. 53. Intanto un primo sussidio può aversi in questo carattere del
l'organizzazione gentilizia , per cui essa, a misura che giunge a produrre un
nuovo gruppo, che si sovrappone e si intreccia al pre cedente , viene ad essere
naturalmente condotta a creare una sede esteriore, in cui il gruppo stesso
possa trovare il proprio svolgimento . Come più tardi la sede esteriore della
civitas è stata l'urbs (2 ) , così le sedi esteriori dei varii gruppi
gentilizii sembrano, presso le an tiche genti italiche, essere state indicate
coi vocaboli certo antichis simi di domus, di vicus e di pagus (3 ). (1) Cf.
De-RUGGERO, Enciclopedia giuridica italiana , vº Ager publicus-privatus. Vol.
I, Parte II“, pag. 604. ( 2) L'antichità di questi vocaboli è dimostrata dal
fatto, che già nel sanscrito si trovano i termini corrispondenti. Ciò può
vedersi nel Pictet, Origines Indo Européennes ; Paris, 1877, II, pag . 305 ,
come pure nel BRÉAL, Dict. étym . lat. ai vocaboli indicati. (3) Non vi è
dubbio , che tutti questi vocaboli già esistevano anteriormente alla - 67 Domus
è la sede del capo famiglia coi proprii figli e coi proprii servi, sede, che può
anche avere un cortile ed essere circondata da un piccolo orto e forse anche da
un piccolo ager, che uniti colla casa costituiscono un tutto , che con un
vocabolo non meno antico poteva es sere chiamato heredium da herus, od anche
mancipium , perchè di pendeva direttamente dalla manus del capo di famiglia,
intesa come la somma dei poteri al medesimospettanti, o infine anche familia ,
perchè comprendeva tanto i liberi quanto i seroi (1 ). Non vi ha poi dubbio che
è dalla domus, che si staccherà più tardi il concetto di domi nium e si capisce
anche che di questo dominium , il quale potrà poi acquistare una larghissima
estensione, la parte più sacra, più preziosa, quella , da cui il capo di
famiglia si separerà più a malincuore e che egli vorrebbe perpetuare nella
famiglia , continuerà sempre ad essere riposta in quel nucleo primitivo, che
costituiva l'heredium , e che nel diritto quiritario prese poi il nome di
mancipium . 54. La riunione poi delle abitazioni di diverse famiglie ,
provviste di un cortile e cinte da uno spazio , a somiglianza diquelle che
Tacito ci descrive presso i primitiviGermani (2 ), viene a costituire il vicus,
il quale di regola nella organizzazione gentilizia suole comprendere le
abitazioni delle familiae, che dividono il medesimo culto e appar tengono alla
medesima gente . Il vicus quindi ha ancora un carattere del tutto patriarcale e
si comprendono cosi le circostanze attestateci da Festo : che i vici si
trovavano di preferenza presso quei popoli, che non avevano ancora delle città
, quali erano i Marsi ed iPeligni;che essi erano stabiliti fra i campi (in
agris); e che se essi già avevano un luogo di mercato , non avevano però sempre
un luogo, dove si am ministrasse giustizia, nè sempre nominavano un magister
vici, a somiglianza del magister pagi, che ogni anno si nominava invece nel
pagus (3). Cid dimostra , che se il vicus poteva svolgersi formazione della
comunanza, e quindi dalla loro esistenza si può argomentare che dovevano pur
conoscersi le istituzioni, che con essi erano indicate. (1) Quanto alle domus
familiaque è da vedersi il numero stragrande dei passi raccolti dal Voigt, Die
XII Tafeln , II, pag . 6 e 7 , nota 2 . (2 ) TACITUS , Germania, XVI. (3) Festo
, vº Vici, fa, quanto al vocabolo di vicus, ciò che suol fare per ognialtro
vocabolo, la cui significazione siasi venuta trasformando, indica cioè le
significazioni diverse, che ilmedesimo ebbe ad assumere. Egli quindi esamina il
vicus, finchè trovasi ancora fra i campi (in agris), ed è a proposito di questo
primo vicus, che egli dice « sed ex vicis partim habent rempubblicam , et ius
dicitur, partim nihil eorum et 68 talvolta in guisa da prendere le proporzioni
ed avere le esigenze del pagus, nei casi ordinarii però era la sede di una
comunanza puramente gentilizia. Era poi naturale, che come le singole fa miglie
in esso avevano il proprio heredium , cosi anche il vicus, sede della gente ,
fosse circondato dal proprio ager gentilicius, sul quale si potevano anche fare
gli assegni ai clienti (1 ). 55. Viene ultimo il pagus, ove esiste un sito per
il mercato , ma che contemporaneamente può anche servire per amministrarvi
giustizia , sito, che probabilmente può già essere chiamato forum (2),almodo
stesso che in esso già trovasi il magister pagi, dal cui nome ebbe a derivarsi
senza alcun dubbio quel vocabolo di magistratus, che tamen ibi nundinae
aguntur, negotii gerendi causa » ; poi trova il vicus nel seno degli oppida , e
dice che comprende « id genus aedificiorum , quae continentia sunt his oppidis,
quae itineribus regionibusque distributa inter se distant, nominibusque
dissimilibus discriminis causa sunt distributa » . Tuttavia , anche nella città
, il vicus indica ancora qualche cosa di privato, cioè quei vicoli privati, che
dànno accesso esclusivo ad abitazioni contigue. V. Bruns, Fontes, pag. 375. (1)
L'interporsi di un elemento estraneo nel seno del vicus era poi naturalmente
impedito da quella antica consuetudine romana, per cui il fratello vendeva al
fra tello, il vicino al vicino, il consorte al consorte. V. sopra pag. 30, nota
1. Che poi esistesse veramente una proprietà spettante al vicus e destinata ad
uso comune degli abitanti di esso lo dimostrano certe iscrizioni, in cui il
vicus quale persona giuridica fa contratti di compra e di vendita, Corpus
inscrip. latin . I, 603; del resto anche il Digesto ammette il vicus a ricevere
donazionie legati. L. 73, 1 Dig. (30 , 1). È da vedersi, quanto ai vocaboli con
cui ebbe ad essere indicato il vicus nelle lingue Indo-Europee, il Pictet,
Origines Indo-Européennes, II, pag . 308. Quanto al con cetto del vicus e delle
vicinitas presso i Germani vedi il DENMAM W.Ross, Land holding among the
Germans. Boston , 1883 , pag. 46. (2) Il vocabolo di forum è uno di quelli, che
ci indica il processo col quale le genti latine, trovato una volta il vocabolo,
venivano trasportandolo a tutte quelle significazioni, che corrispondevano al
concetto ispiratore del medesimo. Noi sappiamo da Festo, che forum significd il
vestibolo di un sepolcro, ove convenivano i parenti per dare l'estremo saluto
al defunto. V. Bruns, Fontes, pag. 339; poi sappiamo da VARRONE, De lingua
latina , V , 145, che le genti latine « quo conferrent suas con troversias et
quae vendere vellent quo ferrent, forum appellarunt » ; infine l'abbre viatore
di VERRIO Flacco colla sua consueta diligenza ci dice che « Forum sex modis
intellegitur ; primo negotiationis locus ; alio, in quo iudicia fieri, cum
populo agi, contiones haberi solent; tertio cum is , qui provinciae praeest,
forum agere dicitur, cum civitates vocat et de controversiis earum cognoscit,
ecc .) Brons, loc. cit. Per tal modo il luogo di convegno per i parenti, che
piangono un defunto, viene col tempo a convertirsi nel sito , ove il magistrato
romano risolve le controversie fra le città ed i popoli. 69 servirà ad indicare
tutte le cariche della città . Nel pagus per tanto havvi già un accenno alla
vita civile, e quindi si può rite nere con certezza, che esso è già la riunione
di più vici e comprende il complesso delle abitazioni occorrenti per un'intera
tribù . Ciò del resto è dimostrato dal fatto , che le tribù rustiche di Servio
Tullio presero il nome di tanti pagi, che prima esistevano nella stessa
località . Così pure, nota il Lange , è dimostrato che il pagus Succusanus fu
sostituito dalla tribus Suburana, che è una delle quattro tribù urbane dello
stesso Servio, come pure vi sono iscri zioni, che parlano di un pagus
Aventiniensis e di un pagus lanicu lensis, nei quali nomi è anche degna di nota
la terminazione di essi, che è analoga a quella, con cui si indicano le popolazioni,
che com pongono le tribù (1). È poi anche naturale , che questo pagus abbia pur
esso un ager, certamente situato a maggiore distanza, perchè in prossimità vi
sono gli agri gentilicii, e che questo ager chiamisi compascuus, e che
comprenda talvolta eziandio , oltre il sito vera mente destinato per il pascolo
, anche delle siloae e dei saltus (2 ) . $ 3 . L'ager privatus, gentilicius,
compascuus. 56. Intanto da questa configurazione esteriore dell'organizzazione
gentilizia si può inferire che , almodo stesso che questa venne forman dosi per
una naturale sovrapposizione di varii gruppi, così anche le varie forme di
proprietà si vennero assidendo l'una sull'altra . L'ager (1) LANGE, Histoire
intérieure de Rome, I, pag. 23. (2 ) Cfr . NIEBHUR, Histoire Romaine, III, pag.
112. Del saltus è da vedersi la diffinizione di Elio GALLO conservatasi da
Festo , pº Saltus. I saltus potevano essere oggetto di proprietà collettiva del
pagus e della città , ed anche di proprietà privata . È poi degno di nota, che
il vocabolo saltus, allorchè già si venivano formando i lati fondi permodoche,
secondo Plinio , sei persone possedevanometà dell'Africa (Hist. nat., XVIII,
7), finì per significare quegli immensi dominii, posseduti da privati e soventi
anche dall' Imperatore, sovra cui dimorava una popolazione, di carattere
pressochè colonico, che dipendeva più dall'arbitrio del possessore o del suo
procurator, che non dalle leggi dell'Impero. Riguardo ad uno di questi saltus,
situato appunto nell'Africa e chiamato Saltus BURANITANUS, si scoperse di
recente nel 1880 una importante iscri zione, che contiene una petizione della
popolazione del saltus all'Imperatore. Fondan dosi su di essa l'ESMEIN ,
sostiene che in questi saltus abbia cominciato a formarsi l'istituzione del
colonato. — Mélanges d'histoire du droit et de critique. Paris, 1886 , pag. 293
a 322. V. pure FUSTEL DE COULANGES, Le colonat romain . Paris, 1885. - 70 si
viene, per dir così, atteggiando in tante guise, quanti sono i gruppi che si
vengono sovrapponendo. Presentasi anzitutto la casa (domus od anche tugurium ,
se nel con tado) colla sua corte, coll'orto e col campicello attiguo, che appar
tiene alla famiglia nella persona del suo capo, e ne costituisce l'heredium ,
la familia , il mancipium (1); ma siccome ogni capo di famiglia , oltre questa
parte sostanziale del suo patrimonio, può anche avere un capitale circolante,
composto di greggi e di armenti e di altre cose mobili, così è naturale , che
accanto al concetto dell'here dium si formi quello del peculium , accanto a
quello della familia quello della pecunia e accanto a quello del mancipium
quello del nec mancipium ; distinzione, che tornerà poi in acconcio per
spiegare a suo tempo la famosa divisione del diritto quiritario fra le
resmancipii e le res nec mancipii( 2).Che veramente questa forma di proprietà
già preesistesse alla comunanza romana viene ad essere provato da cid , che fin
dal primo formarsi di questa occorrono i concetti di herus, di heredium , di
heres, il qual ultimo vocabolo ha pur la stessa origine di herus e scrivesi
talvolta anche semplicemente eres, per guisa che anche questo vocabolo in
antico significava , se non il vero proprietario, al meno il comproprietario,
come lo prova la testimonianza di Festo , secondo la quale « heres apud antiquos
pro domino ponebatur » . Non vi ha poi dubbio , che con questi vocaboli ha
eziandio strettis sima attinenza il vocabolo di herctum o erctum , che
significa ripar tizione da erciscere, donde proviene la denominazione
certamente antica dell'actio familiae erciscundae. Tuttavia, comegià si
accennd, è un costume antichissimo quello indicatoci dall'« ercto non cito » di
Aulo Gellio, la cui significazione letterale è, a mio avviso, quella di non
venire ad una pronta divisione e che indica il più antico dei con (1) Trovo
confermata la descrizione sovra esposta dell' heredium dal dottissimo lavoro,
di recente pubblicato dal Voigt, così benemerito degli studii sull'antica Roma,
col titolo , Die römischen Privataltertümer und römische Kulturgeschichte,
estratto dall' Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft , pubblicato dal
Beck in Nördlingen , pag. 750 a 931. Quivi il Voigt, pag . 772, ritiene che
l'heredium com . prenda l'hortus, l'ager , la cohors o chors, il pomatum , più
tardi detto anche pomarium , e di più la casa, detta anche tugurium , che
comprende il granarium , il foenilium , il palearium ecc. Ivi poi si trova
citata tatta la letteratura sull'argomento, compresa anche la italiana , così
spesso trascurata . (2 ) Anche il Voigt, op. cit., pag. 782, sembra accostarsi
alla significazione qui attribuita al dualismo di familia pecuniaque, senza
però accennare alla correlazione, che sembra esistere eziandio fra heredium e
peculium ,mancipium e nec mancipium , 71 sorzii e delle società , che è quella
fra i fratelli e gli agnati, che lascia vano indivisa l'eredità ed il
patrimonio ( 1). Intanto la conseguenza viene ad essere questa , che i vocaboli
di mancipium e di manceps, quelli di familia e di pater familias rimontano
tutti al periodo gen tilizio, e segnano, insieme con herus ed heredium ,
l'atteggiamento diverso sotto cui poteva essere considerata la figura
molteplice del capo di famiglia . Diquesti vocaboli però quello che significava
meglio il potere giuridico del capo di famiglia era quello certamente di man
ceps e di mancipium , ed è questa forse la causa , per cui il vocabolo , che
prevarrà più tardi neldiritto quiritario sarà quello di mancipium , al quale
solo più tardi sottentrerà quello di dominium ex iure Qui ritium . 57. Non vi è
poi dubbio, che all'heredium ed all’ager privatus si sovrapponesse l'ager
gentilicius, che era quello spazio, non com preso negli heredia , che trovavasi
nei dintorni e nelle circostanze del vicus e ritenevasi come proprietà
collettiva della intiera gente. Era su quest'ager gentilicius, che potevansi
fare degli assegni ai clienti, i quali però non avevano una vera proprietà, ma
ritenevano e godevano le terre loro assegnate a titolo di semplice precario (
2). Dell'esistenza diquesto ager gentilicius e del modo di ripartirlo noi
troviamo ancora un esempio durante il periodo storico , in occasione della
venuta a Roma di Atto Clauso , e della sua gente. Questi veniva di Regillo per
porre la propria dimora nel territorio stesso di Roma, senza che vi siano
elementi nè per affermare nè per negare, che egli con ciò avesse rinunziato
all'agro gentilizio, che doveva certamente essere posseduto colà da una gente
che, come la Claudia all'epoca (1) Questa induzione, a cui già ebbi occasione
di accennare, parlando della familia omnium agnatorum , trova una conferma nel
diligente lavoro del POISNEL , Les sociétés universelles chez les Romains,
specialmente in quella parte ove si occupa del pri mitivo consortium ,
accennato da Aulo Gellio, il quale avveravasi tra fratelli ed agnati, stante l'indivisione
del patrimonio .(Nouvelle revue historique de droit français et étranger, 1879
, I, pag. 443 a 462). È anche degna di nota l'attinenza fra i vo caboli di
consortium e di consors con quello di sors, che dapprima indicava la quota di
eredità spettante a ciascuno. V. BRÉAL, Dict. étym . lat., vu Sors. Ciò è anche
con fermato dall'antica espressione di familia inercta nel significato di
indivisa , ricordata da Paolo Diacono 118, 8 . Cfr. in proposito i passi citati
dal Voigt, Die XII Ta feln , II, pag . 112, nota 18 . ( 2) Festo, v° Patres.
Tale è pure l'opinione dell'Esmein , Les baux de cinq ans en droit romain .
(Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 , p. 222). - 72 della sua venuta a
Roma, avrebbe, secondo la tradizione, compresi ben cinque mila clienti. Questo
è certo, che dal momento che egli abbandonava la sua sede originaria e veniva
accolto nel patriziato romano, mediante la cooptatio , gli fu dato un tale
spazio di ter reno oltre l'Aniene, che egli potè assegnare due iugeri in
godimento a tutti i suoi clienti, oltre al che gli sarebbero ancora rimasti 25
iu geri per sè e la sua gente . Questo assegno di territorio , mediante il
quale fu la gente Claudia, chediede il nome a quella tribù rustica, non impedi,
secondo Dionisio, che fosse eziandio assegnato ad Atto Clauso un sito nel
circuito stesso di Roma, ove potesse abitare egli e la sua famiglia (1). È
facile il vedere, che qui occorrono i concetti tanto dell'heredium , quanto
dell’ager gentilicius, e si ha pur anche la prova , che nell'organizzazione
gentilizia era alla stessa gensod al con siglio di essa , che si apparteneva di
fare il riparto fra le singole famiglie ed anche gli assegni ai clienti. Di qui
deriva la conseguenza , che, fra le varie forme della proprietà nel periodo
gentilizio, quella che predomina sopra tutte le altre è la proprietà della
gente, ossia l'ager gentilicius; perchè almodo stesso che è nella gens, che si
formano le famiglie , cosi è pure dall'ager gentilicius, che si ricavano gli
heredia . Cosi pure è anche probabile che, in mancanza di eredi suoi,i quali
possono in certo modo essere considerati quali comproprietarii dell'heredium ,
e in difetto eziandio di agnati prossimi, che mantengano ancora indiviso l'asse
paterno, questi heredia tornino all’ager gentilicius, cioè alla sorgente stessa
, da cui essi furono staccati. 58. Da ultimo sonvi eziandio molti indizii
dell'esistenza di una proprietà , che consideravasi come spettante alla intiera
tribù , e che prendeva il nome di ager compascuus, di compascua,di pascua, presso
le genti del Lazio piuttosto dedite alla pastorizia , e di communia o
communalia nell'Etruria (2 ). Pud darsianzi, che un ager compascuus potesse
esservi già nello stesso vicus, come lo dimostrerebbe la def finizione di Festo
: compascuus ager relictus ad pascendum com muniter vicinis ; ma in ogni caso
non vi ha dubbio , che questo com . pascuus ager certo esisteva nel pagus e già
dava origine ad una ( 1) Dion., V , 40. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag.
283, 84 . (2) L'esistenza di questi compascua è dimostrata da diversi passi,
sopratutto di agrimensori. Basti il seguente di FRONTINO: « Est et pascuorum
proprietas, pertinens ad fundos, sed in commune, propter quod ea compascua
communia appellantur, qui busdam provinciis pro indiviso » . Bruns, Fontes,
pag. 334 . 73 specie di pubblico reddito (vectigal), consistente nel
contributo, che dovevano dare gli abitanti, che ivi pascolavano i proprii
greggi ed armenti, contributo , che all'epoca romana viene poi ad essere
indicato col nome di scriptura (1). Una prova dell'esistenza di questi pascua e
di ciò, che essi costituirono forse le prime sorgenti di reddito pub blico, può
ricavarsi da un testo prezioso di Plinio , il quale, dopo aver detto che
pecunia a pecude appellatur , cosa del resto che è attestata da tutti gli
antiquarii, aggiunge questo particolare im portantissimo : etiam nunc in
tabulis censoriis PASCUA dicuntur omnia , ex quibus populus reditus habet, quia
diu hoc solum vectigal fuerat (2 ); il che vuol dire in sostanza , che i
Romani, in questa parte conservatori come in tutto il resto, finirono per
indicare col vocabolo primitivo dei pascua, che costituivano la proprietà
collet tiva della tribù , tutta quella parte della proprietà collettiva del po
. pulus, ossia dell’ager publicus, da cui il popolo stesso ricavava qualche
reddito . Del resto l'esistenza di questo ager compascuus sarebbe anche
accennata in quel tradizionale riparto , che Romolo avrebbe fatto fra i
Ramnenses, quando aveva fondata la Roma Palatina, poiché delle tre parti una sarebbe
stata assegnata al Re ed al culto ; l'altra alle singole famiglie e avrebbe
costituito gli heredia ; e la terza sarebbe stata appunto l'ager compascuus,
che fu anche la prima forma di ager publicus, in cui le genti patrizie,
probabilmente de dite ancora in parte alla pastorizia, potevano far pascolare i
proprii greggi ed armenti (3 ). i 59. Credo che le cose premesse dimostrino
abbastanza : 1. Che, anche anteriormente alla formazione della città , la
proprietà già esi stesse in tante gradazioni, quanti erano i gruppi, che
entravano nella stessa organizzazione gentilizia , per modo che vi era una
proprietà privata o meglio famigliare , una proprietà gentilizia , e una
proprietà spettante alla comunanza della tribù ; 2º Che di queste varie forme
di proprietà , quella che predominava era la proprietà gentilizia , perchè da
essa uscivano e ad essa ritornavano gli heredia , come poi erano anche i capi
di famiglia delle varie genti, che avevano il godimento dei compascua ; nel che
può forse trovarsi l'origine pro (1) NIEBHUR , Histoire romaine, III, pag . 212
; Voigt, Die römis. Privataltert., pag. 787 ; LANGE, Histoire intér. de Rome,
pag . 150. (2) Plinio , Hist. nat., 18 , 3, 11. (3) Dion., II, 7. Cfr. NIEBHUR,
Hist. rom ., III, pag. 211. - 74 - babile di quel fatto importantissimo nella
storia di Roma, per cui le genti patrizie riputarono per qualche tempo di avere
da sole il diritto di occupare l'ager publicus, il quale nella città non è che
una tras formazione ed un ampliamento per mezzo della conquista del primitivo
ager compascuus (1); 3. Che queste varie formedi proprietà nel periodo
gentilizio si intrecciano insieme per modo, che si vengono tempe rando e
limitando scambievolmente per guisa, che il potere giuridi camente illimitato
del capo di famiglia sul proprio heredium nel co stume gentilizio viene ad
essere trattenuto da una quantità di tem peramenti, che ne impediscono
qualsiasi abuso per parte del capo di famiglia ; 4º Che quindi anche quel
potere, che più tardi fu affidato al pretore di interdire nel iudicium de
moribus quel padre di fa miglia che disperdesse i bona paterna avitaque,
dovette certamente rimontare alle consuetudini gentilizie e che probabilmente
appartenne al consiglio degli anziani della gens di frenare queste dispersioni
e prodigalità del capo di famiglia con un iudicium , che era veramente de
moribus e con una formola, che certo dovette essere analoga a quella più tardi
adoperata dal Pretore (2 ). S 4. – Di alcune questioni del diritto primitivo
attinenti alla proprietà gentilizia . 60. Le cose premesse intanto ci mettono
anche in condizione di poter risolvere in poche parole alcune questioni
grandemente agitate fra gli interpreti del diritto romano primitivo . La prima
di esse sta in vedere se gli antichi heredia , ossia quei bina iugera, che
Romolo avrebbe distribuito ai capi di famiglia e di cui Varrone dice che erano
così chiamati in quanto che heredem sequerentur, debbano o non ritenersi
inalienabili, e se i figli debbano considerarsi come com proprietarii del
patrimonio del padre. Senza occuparci per ora della trasformazione, che subi
l'heredium ossia la proprietà famigliare e (1) Questa esclusione dei plebei
dall'agro pubblico, almeno nei primi tempi della Repubblica , è attestato da un
testo di Nonio MARCELLO, riportato dagli Annali di qualche autore più antico, «
Quicumque propter plebitatem agro pubblico eiecti sunt ,, Bruns, Fontes, pag.
391; il che è pur confermato da un passo di Sallustio , Hist. I, 9: « regibus
exactos servili imperio patres plebem exercere, agro pellere » . (2) Cfr.
MUIRHEAD, Histor. introd., pag . 32, il quale accenna per nota, che anche in
Grecia vi era un' eguale sollecitudine per i beni aviti. 75 privata colla
formazione della città , noi possiamo perd affermare con certezza ; lº che
questo concetto dell'heredium esisteva già anterior mente ed erasi naturalmente
formato durante il periodo gentilizio; 2º che l'heredium doveva potersi
alienare dal capo di famiglia, perchè, se questa alienazione non fosse stata
possibile , non si comprenderebbe il concetto e l'esistenza di un commercium ,
come pure non si compren derebbe l'esistenza certo antichissima di un iudicium
demoribus, di- a retto appunto ad impedire l'imprudente e prodiga dispersione
di questo patrimonio , che nel suo concetto informatore era destinato ad essere
trasmesso dai genitori nei figli e da questi ai nipoti ; 3º che tuttavia questa
alienazione, durante il periodo gentilizio , dovette essere gover nata da
solenni formalità e dovette forse anche compiersi colla ap provazione o quanto
meno colla testimonianza dei notabili del vil laggio ; 4º che infine nella
primitiva organizzazione gentilizia i figli si riputavano comproprietarii
sopratutto di quella parte del patri monio paterno che costituiva l'heredium ,
il che sarebbe in certo modo indicato dal vocabolo heres, che in antico avrebbe
significato comproprietario , e che posteriormente continuò a significare la
mede sima cosa mediante l'espressione più completa di heredes sui (1). 61.
Insomma nel concetto primitivo il padre è come custode e deten tore del
patrimonio famigliare nell'interesse suo e della sua prole. È questo
probabilmente il motivo, per cui non dovette nei primitempi di Romaavere nulla
di ripugnante almodo dipensare e diagire del tempo quel concetto giuridico del
diritto quiritario primitivo , che ora a noi appare cosi ostico e pressochè
inesplicabile, per cui tutto ciò che ap. partiene od è acquistato dalla moglie,
dai figli, dai servi, finisce per essere considerato come di spettanza del
padre e tutto ciò, che essi stipulano od acquistano, deve in certo modo
ritenersi fatto per conto e nell'interesse del capo di famiglia . Questo
concetto infatti, mentre indica l'unificazione potente della famiglia romana
sotto l'aspetto giuridico, prova eziandio la comunione ed intimità di vita, che
do veva esistere nel costume della medesima ; comunione ed intimità di cui il
diritto non si occupa , perchè non doveva occuparsene, ma che sono largamente
attestate da tutti gli scrittori, che richia (1) Ciò è anche confermato dalla
nota proposizione di Gaio, II, 157: « Qui quidem heredes sui ideo appellantur,
quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quo dammodo domini
existimantur » . 76 mano la memoria della primitiva famiglia , governata dal
mos pa trius, ac disciplina (1). Ad ogni modo la conseguenza ultima della
nostra ricerca è questa, che, se gli heredia erano alienabili allorchè
l'individuo era ancora legato nei vincoli strettissimi dell'organizza zione
gentilizia , per maggior ragione dovettero esser tali, quando egli venne ad
essere libero cittadino di una libera città . 62. Intanto se si ammette che
nell'organizzazione della proprietà nel periodo gentilizio la forma prevalente
è quella della proprietà gentilizia, in quanto che essa da una parte origina la
proprietà pri vata e famigliare e dall'altra si estende al godimento della
proprietà collettiva della tribù, è facile il dedurne la conseguenza , che il
sistema di successione, allora introdotto dal costume e che fini col tempo per
cambiarsi in successione legittima, dovette proporsi essenzial mente per iscopo
di mantenere e perpetuare la proprietà nella gente con impedire che la medesima
potesse passare ad estranei. Si com prende pertanto , che in base al costume
gentilizio la proprietà vada ai figli , che ne sono comproprietarii, ed anche
agli agnati prossimi, finchè essi mantengono indiviso il patrimonio paterno, ma
appena questi manchino, dovranno succedere i gentiles e questi non indivi
dualmente, come alcuni credono, ma collettivamente in quanto cioè formano la
comunanza gentilizia . Ed il motivo è questo , che se la legge di una città pud
favorire il riparto immediato fra gli eredi, il co stume invece di una
comunanza gentilizia favorisce invece per quanto esso può l'ercto non cito ,
come dicevano gli antichi Romani, cioè l'indivisione e la comunione dei
patrimonii; perchè essa mira , non a favorire lo svolgimento dell'individualità
del capo di famiglia , ma a rendere compatto per quanto è possibile il gruppo,
in cui gli individui vengono ad essere pressochè assorbiti. Parimenti è certo
incontrastabile , che la successione, quale com pare nei primitivi tempi di
Roma e quale esisteva anteriormente , non ammetteva nè distinzioni di
primogenitura , nè distinzioni di sesso , quanto alle persone che erano
chiamate a succedere ; ma si può anche (1) Cic., Cato maior, 11, 37, parlando
di Appio Claudio il cieco scrive: « Quatuor robustos filios, quinque filias,
tantam domum , tantas clientelas Appius regebat et caecus et senex ... Tenebat
non modo auctoritatem , sed etiam imperium in suos ; metuebant servi,
verebantur liberi, carum omnes habebant; vigebat in illa domo mos patrius ac
disciplina o . - 77 - essere certi, che il costume dovette certamente dirigersi
costantemente , se non a favorire il primogenito, almeno ad impedire, che si venisse
alla divisione del patrimonio, ed anche ad evitare, che le femmine colla libera
disposizione della parte di sostanza , che loro apparteneva , potessero
compromettere gli interessi della gente . Ciò infatti viene ad essere
comprovato dalla tutela perpetua , a cui le donne erano soggette per parte
degli agnati ; tutela che aveva sopratutto lo scopo di sottrarre alle femmine
la libera disposizione delle proprie cose , e che col tempo diventò per modo
odiosa, che esse, aiutate dai giu reconsulti, trovarono modo di sottrarvisi
mediante quell'espediente giuridico , di carattere eminentemente romano, che è
la coemptio fiduciaria (1) 63. Quanto alle istituzioni dell'adrogatio e del
testamentum , non può esservi dubbio , che esse dovettero certamente esistere nel
costume antico dei maggiori, anche anteriormente alla formazione di Roma, in
quanto che esse sono istituzioni, che compariscono compiutamente formate , come
appare da ciò che le XII tavole , nei frammenti a noi pervenuti, non parlano
dell'adrogatio e quanto al testamento non fanno che confermare una istituzione
preesistente. Di più era ben naturale , che il concetto dell'una e dell'altro
dovessero presentarsi naturalmente a capi di famiglia , che da una parte erano
tutti in tesi al culto dell'antenato e dall'altra erano fissi nel pensiero di
perpetuarsi in una posterità , che continuasse il proprio culto genti lizio.
Istituzioni quindi, come l'adrogatio e come il testamento, erano acconcie e
indispensabili ad una organizzazione come la gentilizia , ma intanto cosi l'una
che l'altra non potevano nella medesima ser vire come mezzo per soddisfare ad
un affetto o ad una predilezione capricciosa , ma dovevano avere l'unico scopo
di provvedere alla per petuazione della famiglia e del suo culto (2 ). (1)
Questa coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una
persona che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet
tere da lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio,
I, 137. Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i
tutori, anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo
per liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46.
Potrà sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà ,
anche dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della
famiglia, ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a
fare in guisa che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo
carattere è incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio,
la quale era una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di
perpetuare una famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto
di prole maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa
sovrabbondava. Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba
giudicare dalle for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella
comunanza ro mana (dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge,
l'intervento dei pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie )
conviene certamente inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi
nel periodo gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul
ceppo sterile di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva
forse bastare l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece
fra famiglie, non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva
certo esservi l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe
lasciar luogo a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se
si considera , che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis
calatis, cioè davanti all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del
tutto analoghe a quelle proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo
spirito infor matore del testamento in questo periodo gentilizio doveva essere
del tutto analogo a quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua
natura è tale che, come può essere un mezzo per far valere, dopo la
propriamorte, l'impero di una volontà arbitraria , così può anche es sere
ilmezzo per impedire, che si avveri fra gli eredi quella riparti zione e
quell'uguaglianza di parti, che può essere introdotta o dalla legge o dalla
consuetudine. Ora è certo , che la successione invalsa nel periodo gentilizio ,
secondo cui succedevano prima i figli, poi gli agnati prossimi, e infine la
gente collettivamente considerata era bensi già intesa a conservare il
patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due inconvenienti dal punto di
vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel diritto , che i figli avevano
di venire ad una ripartizione immediata dell'asse paterno in porzioni uguali,
divisione che face i sacra , e in ciò ha un'attinenza anche col testamento. Di
più in questo periodo la proprietà e la famiglia sono ancora strettamente
connesse fra di loro, per modo che non può essere il caso di scindere affatto
le istituzioni che le riguardano . 79 vasi per stirpi e non per capi, e l'altro
era quello dell'uguaglianza fra maschi e femmine, il che faceva si, che ana
femmina, passando a matrimonio, sottraesse alla famiglia una parte del
patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste conseguenze, che sono per noi
da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi di famiglia , che miravano
sopratutto a conservare integro il patrimonio e a perpe tuarlo come tale nella
famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi di famiglia, che si ispiravano
a questo concetto e che nel fare testamento dovevano anche avere l'approvazione
degli anziani, che pure avevano la stessa tendenza, non potevano certamente
servirsi di esso per sottrarre la loro sostanza alla famiglia od alla gente.
Essi invece dovevano servirsene o per impedire la pronta ripartizione del
patrimonio , usando le antiche parole « ercto non cito » – o per accentrare per
la maggior parte il loro patrimonio in uno soltanto dei figli, – o infine per
scemare la quota spettante alle femmine, come quella , che doveva essere
riguardata come una sottrazione fatta al patrimonio vero della famiglia
perpetuantesi nella linea mone della famiglia e del suo culto (2 ). (1) Questa
coemptio fiduciaria, in virtù della quale la donna passa in manu di una persona
che non diventa marito di lei, nell'intento solamente di farsi manomet tere da
lui per essere liberata dalla tutela degli agnati, è ricordata da Gaio, I, 137.
Fu questa coemptio, che fece dire a CICERONE, pro Murena, 12, 27, che i tutori,
anzichè essere i protettori delle donne, si erano cambiati in un mezzo per
liberarle da ogni tutela . (2) Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag . 45 e 46. Potrà
sembrare poco logico, che io qui discorra , trattando della proprietà , anche
dell'adrogatio, che ha piuttosto rapporti coll'organizzazione della famiglia,
ma ho creduto di poterlo fare in quanto anche l'ad rogatio mira a fare in guisa
che il capo famiglia abbia un erede, che ne perpetui 78 64. Questo carattere è
incontrastabile per ciò , che si riferisce al l'antica adrogatio, la quale era
una istituzione gentilizia ed aveva in certo modo per intento di perpetuare una
famiglia ed un culto , che sarebbero andati perduti per difetto di prole
maschile, togliendo da un'altra famiglia l'elemento che in questa sovrabbondava.
Trattavasi quidi un vero affare di stato e quindi, se si debba giudicare dalle
for malità, che furono poscia seguite dal patriziato nella comunanza ro mana
(dove per compiere un'adrogatio volevasi, comeper una legge, l'intervento dei
pontefici e l'approvazione del popolo radunato in curie ) conviene certamente
inferirne, che solennità non minori dovettero ri chiedersi nel periodo
gentilizio. Se questo trapianto dell'innesto di una famiglia sul ceppo sterile
di un'altra si operava fra le famiglie della stessa gente, poteva forse bastare
l'approvazione del consiglio della gente , ma se seguiva invece fra famiglie,
non appartenenti alla stessa gente ma alla stessa tribù, doveva certo esservi
l'approvazione dei padri delle tribù. 65. La cosa invece potrebbe lasciar luogo
a qualche dubbio per ciò che si riferisce al testamento , ma se si considera ,
che in so stanza anche il testamento patrizio in comitiis calatis, cioè davanti
all'assemblea delle curie, compievasi con formalità del tutto analoghe a quelle
proprie dell'adrogatio, converrà inferirne ,che lo spirito infor matore del
testamento in questo periodo gentilizio doveva essere del tutto analogo a
quello , che ispirava l'adrogatio . Il testamento per sua natura è tale che,
come può essere un mezzo per far valere, dopo la propriamorte, l'impero di una
volontà arbitraria , così può anche es sere ilmezzo per impedire, che si avveri
fra gli eredi quella riparti zione e quell'uguaglianza di parti, che può essere
introdotta o dalla legge o dalla consuetudine. Ora è certo , che la successione
invalsa nel periodo gentilizio , secondo cui succedevano prima i figli, poi gli
agnati prossimi, e infine la gente collettivamente considerata era bensi già
intesa a conservare il patrimoniu nella gente, ma intanto aveva an cora due
inconvenienti dal punto di vista gentilizio . L'uno di essi con sisteva nel
diritto , che i figli avevano di venire ad una ripartizione immediata dell'asse
paterno in porzioni uguali, divisione che face i sacra , e in ciò ha
un'attinenza anche col testamento. Di più in questo periodo la proprietà e la
famiglia sono ancora strettamente connesse fra di loro, per modo che non può
essere il caso di scindere affatto le istituzioni che le riguardano . 79 vasi
per stirpi e non per capi, e l'altro era quello dell'uguaglianza fra maschi e
femmine, il che faceva si, che ana femmina, passando a matrimonio, sottraesse
alla famiglia una parte del patrimonio uguale a quella di un maschio . Queste
conseguenze, che sono per noi da approvarsi, non potevano sembrare tali a capi
di famiglia , che miravano sopratutto a conservare integro il patrimonio e a
perpe tuarlo come tale nella famiglia . Si può quindi essere certi, che i capi
di famiglia, che si ispiravano a questo concetto e che nel fare testamento
dovevano anche avere l'approvazione degli anziani, che pure avevano la stessa
tendenza, non potevano certamente servirsi di esso per sottrarre la loro
sostanza alla famiglia od alla gente. Essi invece dovevano servirsene o per
impedire la pronta ripartizione del patrimonio , usando le antiche parole «
ercto non cito » – o per accentrare per la maggior parte il loro patrimonio in
uno soltanto dei figli, – o infine per scemare la quota spettante alle femmine,
come quella , che doveva essere riguardata come una sottrazione fatta al
patrimonio vero della famiglia perpetuantesi nella linea maschile . Si può
quindi conchiudere, che per lo genti patrizie il testamento non dovette
certamente essere un mezzoper. disporre liberamente e a capriccio delle proprie
cose, come fu poi il testamento nel di ritto quiritario ; ma dovette servire
alle medesime per conseguire quello scopo , che anche oggi si propongono bene
spesso i capi delle famiglie, anche non patrizie ma solo ricche ed agiate,
allorchè , dettando il loro testamento , cercano d'accentrare la loro fortuna
in una od in poche persone, nell'intento di assicurare ciò che con linguaggio
antico e moderno suole essere chiamato il decoro e la dignità della famiglia .
66. Pervenuto a questo punto, parmi di aver dimostrato in un modo, che avendo
convinto me potrà forse anche persuadere gli altri, che le genti patrizie ,
anche anteriormente alla formazione della città , già conoscevano una proprietà
privata , attribuita al capo di famiglia . Ciò perd non toglie, che
quest'ultimo fosse ben lontano dall'avere quella libera disposizione delle
proprie cose per atto tra vivi e per testamento , che trovasi invece
riconosciuta senza alcun confine nel diritto quiritario, e ciò perchè lo
spirito dell'organizza zione gentilizia si informava tutto all'intendimento di
serbare in tegro il patrimonio alla famiglia, ancora indivisa, degli agnati dap
prima e in mancanza di essa alla gente. Come dunque potrà essersi operata
presso un popolo , di spirito 80 così eminentemente conservatore, una trasformazione
cosi radicale nel carattere della proprietà da cambiare la medesima di
proprietà gentilizia in quiritaria , allorchè esso passò dal periodo gentilizio
alla convivenza civile e politica ? Ecco il gravissimo problema, al quale non
credo che siasi data ancora una soddisfacente risposta , a causa del l'idea
universalmente accolta sull'autorità delNiebhur e del Mommsen , che lo Stato
romano siasi formato mediante la fusione e l'incorpo razione di varie genti e
tribù. Secondo questi autori infatti, lo Stato costituendosi avrebbe in certo
modo incorporato in sè la proprietà gentilizia , cambiandola cosi in territorio
nazionale, e sarebbe poi addivenuto al riparto di una parte di esso a favore
dei singoli capi di famiglia, ritenendo il restante come ager publicus. Fra gli
au tori, che trattarono largamente e di recente il gravissimo tema, mi limito a
citare il De-Ruggero, come quegli che riassume nettamente la opinione
universalmente seguita . Egli, dopo di aver premesso che prima della formazione
dello Stato esisteva soltanto la proprietà col lettiva o gentilizia, la quale
apparteneva alla gens e non alle sin gole famiglie , viene alla conclusione
seguente : « Fondatosi quindi « il comune e lo Stato con la unione di più
genti, esso sarebbe « divenuto , come la gente stessa nel periodo della sua
autonomia, « proprietario del territorio generale di tutte le genti romane,
cioè * del territorio nazionale. E come la gens lascia alle sue singole «
famiglie la coltivazione e l'uso di alcuni terreni ( fundi), rima « nendo gli
altri proprietà comune ; cosi anche lo Stato lascia ai privati una parte del
territorio come proprietà (adsignatio ro « mulea) e ritiene per sè un'altra
parte destinata a tutta la citta « dinanza (ager publicus) » ( 1). Di fronte ad
una teoria così recisa, conforme del resto alla opinione generalmente seguita ,
mi sia lecito osservare , che anzitutto non è provato , che prima della
formazione dello Stato non vi fosse che la proprietà gentilizia , e che la
gente non lasciasse alle famiglie, che la coltivazione e l'uso di alcuni ter
reni. I vocaboli certamente preesistenti di herus, heres, heredium , che senza
alcun dubbio si applicavano al capo di famiglia, provano invece che il concetto
di una proprietà privata già preesisteva fra (1) DE- RUGGERO, V° Ager
publicus-privatus, nella Enciclopedia giuridica italiana , vol. I, parte 2*,
pag. 604. Del resto queste sono le idee che l'autore aveva già sostenute
nell'opuscolo La gens avanti la formazione del comune romano, Napoli, 1872, e
che stanno pure a base del suo dotto ed interessante articolo sulle Agrariae
leges nella stessa Enciclopedia giuridica italiana . 81 le genti del Lazio ;
poichè se così non fosse stato non sarebbesi trovata la parola già preparata ed
acconcia per indicare gli assegni fatti ai capi di famiglia , e gli assegni si
sarebbero fatti alle genti, alle tribù e non ai singoli capi di famiglia , o
meglio a ciascun individuo, che seguiva Romolo nella sua intrapresa. Viha di
più , ed è che, tenendo conto del carattere delle genti latine, in cui l'idea
del mio e del tuo presentasi in ogni tempo cosi profondamente radicata , non
può essere probabile che le gentes e le tribù , che potevano essere ed erano in
effetto in condizioni disuguali quanto ai loro possedimenti, come continuarono
ancora ad esserlo dopo , si siano contentate dimettere tutto in comune,
malgrado la loro origine diversa , per starsi paghe ai bina iugera, assegnati
da Romolo. Si aggiunge, che se tutta la fortuna del pa triziato primitivo
Ramnense si riducesse soltanto ai due iugeri, non si saprebbe veramente
comprendere come la medesima potesse bastare per la famiglia coi servi e coi
clienti. Del resto non consta , che siavi veramente alcun autore antico , che
accenni a questa specie di societas omnium bonorum , per cui si sarebbero messi
in comune tutti gli agri gentilicii. Noi sappiamo soltanto, che Romolo , in
base ad un costumetradizionale fra le genti latine, che doveva già esistere
prima e che fu applicato anche più tardi in occasione dell'impianto di colonie,
divise il territorio da lui occupato in parte fra i proprii seguaci, mentre
un'altra parte ritenne per sè e per ilculto , ed un'altra riservò a titolo di
pascolo comune. Intanto perd le varie genti, che parteciparono alla fondazione
della città , dovettero continuare a te nere i proprii agri gentilicii, come lo
dimostra il fatto , che anche all'epoca di Servio Tullio le varie tribù
rustiche continuarono a prendere il nome da quelle genti patrizie , che
dovevano avere più larghi possessi nel territorio delle medesime. Vi ha di più
, ed è che la tradizione accenna a due testamenti, fatti durante il regno
stesso di Romolo , a favore del popolo Romano, coi quali questo avrebbe
ereditato dei campi presso Roma, ed anche quello stesso campo Marzio ,che
avrebbe poi costituito il primo nucleo dell'ager publicus; fatti e tradizioni
queste, che sarebbero del tutto incomprensibili, quando lo Stato romano nella
propria formazione fosse diventato il proprietario di tutti i territorii
gentilizii, e li avesse poi distribuiti ai singoli privati (1) . Inoltre se
Romolo , come dicesi, avesse imitato (1) I testamenti, a cui qui si accenna ,
sono quelli ricordati da Aulo Gellio, Noct. Attic., VII, 7, 4 , 6, e che egli
attribuisce l'ano ad Acca Laurenzia, la quale fino G. CARLE , Le origini del diritto
di Roma. 6 82 il sistema gentilizio, i capi di famiglia avrebbero dovuto
soltanto avere la coltivazione e l'uso dei fondi loro assegnati, mentre la pro
prietà avrebbe dovuto spettare alle genti; e ciò mentre noi sap piamo, che non
vi fu mai proprietà più assoluta, che la proprietà quiritaria fin dai proprii
inizii. Del resto convien dire, che l'opinione, di cui si tratta, è per sè una
conseguenza logica ed inesorabile del rite nere col Mommsen, che Roma primitiva
sia risultata dall'incorpora zione e fusione delle varie genti e tribù ; poichè
è naturale che con un tale sistema lo Stato avrebbe dovuto incorporare ogni
cosa nelle proprie mani e farne poi il riparto ai singoli capi di famiglia .
Solo sarebbe a spiegarsi come lo Stato, creando esso la proprietà fami gliare e
privata , l'avesse costituita senz'altro cosi illimitata , senza confini e
senza alcuna sua ingerenza , quale appare essere stata la proprietà quiritaria
. Tutte queste incoerenze invece scom pariscono quando si ritenga che il comune
romano, a somiglianza delle altre città latine, sul cui modello era costituito
, non assorbi nè le tribù, nè le genti, nè le famiglie, ma intese solo a
costituire fra di esse un centro di vita pubblica, e non distribui quindi ai
privati altre terre, salvo in parte quelle , che da esso furono conquistate sul
nemico. Quanto alla divisione dell'agro fra le tre tribù , a cui ac cenna
Varrone, la medesima non potè essere che una divisione pu ramente
amministrativa, con cui si riconobbe alle varie tribù la parte del territorio ,
che già loro apparteneva, prima che entrassero a far parte della stessa
comunanza. Di qui la conseguenza, che la proprietà quiritaria , ed anche la
famiglia, con cui essa appare stret tamente congiunta , non possono essere che
quella proprietà e quella famiglia , che già esistevano nell'anteriore
organizzazione gentilizia , salvo che le medesime, staccate dall'organizzazione
stessa , apparvero con un carattere di assolutezza, che prima era temperato
dall'am dall'epoca romulea avrebbe lasciato allo Stato certi campi siti presso
Roma, e da lei ereditati dal proprio marito ; e l'altro alla vestale Gaia
Taracia , che avrebbe lasciati al popolo romano tutti quei campi presso il
Tevere, che presero poscia il nome di Campus Martius, dove si radunarono più
tardi i comizi centuriati. Pongasi pure che i due racconti siano leggendarii;
ma essi certo hanno un fondo di vero ed indicano quanto meno, che'i cittadini
romani non hanno mai creduto che lo Stato fosse il proprietario di tutto il
territorio. I due testamenti sono anche citati dal De Rug GERO, V ° Ager
publicus privatus, nell'Enc. giur. it ., pag. 609 e 610. Devo però di chiarare
che questa divergenza di opinione nulla toglie alla stima che ho grandis sima
per l'autore, così benemerito per gli studi di diritto pubblico romano. 83
biente in cui si erano formate . La causa poi, per cui gli assegni di terre
furono fatti ai singoli capi di famiglia , o meglio ai singoli seguaci di
Romolo proviene da ciò che essi entrarono nella comu nanza non come membri delle
genti ma nella loro qualità di capi di famiglia , donde la conseguenza, che di
fronte alla nuova forma zione della convivenza civile e politica , mediante una
federazione fra le varie tribù , più non si trovarono di fronte che la
proprietà del capo di famiglia (ager privatus) e la proprietà dell'ente col
lettivo (ager publicus). Continuano però ancora sempre a mantenersi nel fatto
gli agri gentilizii, i quali però sono naturalmente destinati a scomparire, a
misura che si dissolve l'organizzazione gentilizia, in quanto che a costituire
il populus primitivo non entrano già i membri delle genti, come tali , ma
soltanto i capi di famiglia in quanto sono ad un tempo proprietariidi terre ;
il qual carattere del populus viene ancora ad accentuarsi maggiormente colla
costituzione Serviana, in base a cui ognuno partecipa ai diritti ed agli
obblighi di cittadino (munera), in proporzione del censo . Del resto si dovrà
più tardi ritornare su questa questione fonda mentale della storia primitiva di
Roma, e allora si avrà la più ampia dimostrazione, che questo e non altro fu il
processo seguito nella for mazione della città , e per conseguenza anche nella
formazione della famiglia e della proprietà, quali comparvero nel diritto
quiritario . § 5. – Sguardo sintetico allo svolgimento delle varie forme di
proprietà nel diritto romano. 67. Per ora intanto , prendendo le mosse
dall'ordine logico dei fatti e delle idee, che si vennero svolgendo fin qui,
cercherò di riassu mere logicamente e sotto forma di ipotesi quello svolgimento
del l'istituto della proprietà , che più tardi apparirà comprovato nell'or dine
dei fatti. Pongasi che una mano di uomini forti ed avventurosi, apparte. nenti
a genti diverse ma tutte di stirpe latina (nomen latinum ), si raccolgano
intorno ad un duce di stirpe regia e sotto la sua guida abbandonino la loro
residenza gentilizia , per recarsi a fondare uno stabilimento fortificato sul
Palatino. Essi, lasciando per ora in disparte il rito religioso seguito nella
fondazione, cominciano dall'occupare il suolo necessario per erigervi il loro
stabilimento, e cercano anche di fortificarsi in esso , per essere in caso di
difendersi dalle popola 84 zioni vicine, le quali, per appartenere forse a
stirpi diverse, non pos sono vedere di buon occhio quest'ospite novello e
pericoloso . Quanto al suolo conquistato ed occupato , è naturale che si
cominci dal ripar tirlo , secondo le regole tradizionali seguite dai maggiori e
che con tinueranno ad essere applicate anche più tardi nel fondare nuove
colonie (1). Del suolo quindi sono fatte tre parti: una è assegnata al loro
capo, al culto , ai publici edifizi ; l'altra è divisa fra i singoli capi di
famiglia in altrettanti piccoli heredia di due iugeri, i quali po tranno essere
ritenuti sufficienti quando si consideri, che questi capi di famiglia
continuano ancor sempre ad avere i loro agri gentilizi nei dintorni, e solo
abbisognano di uno spazio per costruirvi le loro case , con un cortile ed un
orto ; e l'altra infine è lasciata a pascolo comune per i singoli capi di famiglia
, che possono immettervi i proprii greggi ed armenti, pagando un corrispettivo
(scriptura), che costi tuirà il primo reddito pubblico . — Fin qui però noi non
abbiamo an . cora, che la tribù dei Ramnenses e lo stabilimento romuleo da essa
fondato sul Palatino . 68. Pongasi ora, che, in seguito ad ostilità seguite con
altre comu nanze stanziate sui colli vicini, gli uomini atti alle armi e abili
per consiglio di queste varie tribù , rappresentati dal proprio capo, con
vengano sotto forma di foedera, di entrare nella loro qualità di capi di
famiglia e di proprietarii di terre a far parte della stessa comunanza civile e
politica. È naturale allora, che il centro e la ( 1) Cfr. De RUGGERO, V ° Ager
pub. priv ., op. cit ., pag. 603 e 604 , ove considera appunto questo riparto
attribuito a Romolo « come una istituzione fondamentale romana che,
conservatasi nei tempi posteriori, poteva naturalmente essere attribuita ,
nella ricostruzione che si faceva posteriormente della storia e del diritto
primitivo di Roma, anche al fondatore e al legislatore di questo » . Ciò lascia
credere che l'autore vegga in questo riparto, che pur è attestato da tanti
autori e che d'altronde non ha nulla d'improbabile, in quanto che lasciò anche
le sue traccie nella centuria in agris e nel centuriatus ager, ricordati da
Festo e da VARRONE, una invenzione di tempi poste riori. Non mipare che siavi
motivo per un dubbio di questa natura, solo che si spieghi la formazione di
Roma primitiva, come veramente è accaduta . Che poi il centuriatus ager e la
centuria in agris non comprendessero tutto il territorio romano, nè tutto
l'ager romanus conglobando in esso anche gli agri gentilizi, ma solo la parte
di esso , che era conquistata sul nemico, risulta oltre che dalla definizione
datane da VARRONE e da Festo, anche da un testo di Siculo Flacco, citato dallo
stesso DE RUGGERO, vº Ager pub. priv., pag . 604, nota 1 : « Antiqui agrum ex
hoste captum victori populo per bina iugera partiti sunt. Centenis hominibus
ducentena iugera dederunt» . Cfr. NIEBHUR, Histoire romaine, III, pag. 329. -
85 fortezza dell'urbs si trasportino in un sito , a cui possano avere facile
accesso gli abitanti delle varie comunanze, quale sarebbe il sito, che è fra il
Palatino ed il Capitolino, il quale verrà così ad essere la comune fortezza e
servirà per la costruzione dei pubblici edifizi e sacri. È perd a notarsi, che
per eseguire un simile accordo , siccomei capidi famiglia entrano come tali
nella comunanza e non quali membri delle genti e delle tribù, così non sarà punto
il caso , che si mettano in comune gli agri gentilizii e i pascoli delle varie
tribù. Quindi se le genti e le tribù erano prima ricche ed agiate e possedevano
larghi spazii di suolo, sopra cui disperdevano i proprii servi e clienti,
continueranno ad essere tali e a poterlo fare anche dopo. Ciò che viene ad
essere comune fra di esse è soltanto l'urbs, in quanto essa comprende i pub
blici edifizii, i templi consacrati alle divinità , che la proteggono, non che
l'arx o fortezza , che serve per assicurare la comune difesa . Intanto , di
fronte a questa nuova specie di comunanza, teatro ed organo della vita civile,
politica e militare, non esistono che capi di famiglia proprietarii di terre e
quindi le sole istituzioni, che abbiano un'im portanza giuridica , politica e
militare negli inizii della città, sono la proprietà e la famiglia unificate
sotto il proprio capo . Pongasi ora, procedendo innanzi, che questa mano di
uomini forti raccolta in esercito entri in lotta con altre comunanze e che, in
virtù di un diritto delle genti universalmente riconosciuto, venga soggiogan
done le popolazioni e conquistandone il territorio; allora sarà na turale, che
questa comune conquista appartenga dapprima al popolo stesso e sia cosi
considerata come un ager publicus, che verrà con trapponendosi a quell'ager
privatus, che già prima apparteneva ai singoli capi di famiglia . Questo
infatti è il dualismo, che domina tutta la storia economica di Roma. 69.Però, a
misura che si accrescono le conquiste, l'ager publicus pud anche crescere
permodo da sopravanzare ai pubblici bisogni e quindi si comprende, che quelli,
che cooperarono alla sua conquista, ne do mandino la ripartizione almeno
parziale. Dapprima tali assegni sul l'agro pubblico (adsignationes viritanae)
sono fatti ai più poveri, i quali sono per tal modo posti in condizione di
avere quella pro prietà , che è riputata necessaria per partecipare alla
comunanza ; ma poscia , di fronte all'incremento sempre maggiore dell'ager pu .
blicus, si comincia anche a disporne in guisa diversa. Continua sempre ad
esservi una parte dell'ager , che è distribuita fra i più poveri della città e
fra quelli, che partono per fondare una 86 colonia, e si ha cosi l'ager
adsignatus, che serve per somministrare ai cittadini poveri quella proprietà ,
quel censo , quell'ager privatus censui censendo, che è ritenuto necessario per
far parte della vera cittadinanza. — Un'altra parte invece sarà venduta ai
pubblici incanti (ager quaestorius), o sarà data in affitto, mediante il
pagamento di un corrispettivo, detto scriptura (ager vectigalis). Il primo di
questi continuerà ad accrescere l'ager privatus, ma non più quello della classe
povera, ma di quella ricca ed agiata , che possiede già il ca pitale per
acquistarlo ; ed il secondo, quello cioè dato in affitto , finirà col tempo per
dare origine a quelle lunghe locazioni, che quasi si assomigliano a vere
compre- vendite, dalle quali uscirà poi una nuova forma di contratto, che è
l'enfiteusi. Infine dell'ager pu blicus pud ancora rimanervene una parte, la quale,
o per essere sterile o scoscesa (propter asperitatem ac sterilitatem ), non
trovi compratori nè affittavoli, o che il consiglio dei padri non abbia rite
nuto opportuno di mettere in vendita (1). Questa parte continua na turalmente
ad appartenere all'ager publicus e ancorchè immensa mente ampliata colle
conquiste corrisponde in certa guisa ai pascua o compascua , che esistevano
nelle antiche tribù. Quindi si comprende come i padri delle genti patrizie,
memori ancora del diritto che ave vano di slargare nei pascua i proprii greggi
ed armenti (compascere), affermino il loro diritto di occupare questa terra in
certo modo abban donata e di spargere in essa le tormedei clienti e dei servi
ed anche dei liberi, che siano alla loro mercede. Sorge per tal modo il concetto
dell'ager occupatorius, il quale, non essendo stato acquistato, non può certo
essere oggetto di proprietà privata , ma costituisce le cosi dette
possessiones, le quali, dopo essere durate per qualche tempo, acquistano un
carattere pressochè giuridico e dånno occasione di ( 1) Tutto questo processo
ci è attestato dagli agrimensori romani, dei quali sap piamo, che avevano
grande autorità anche nelle provincie. L'autore, che primo mise in evidenza
l'importanza dei loro scritti , fu il NIEBHUR, che loro dedicò una speciale
dissertazione, che può vedersi nell' Histoire romaine, IV , pag. 442 a 474. Ora
poi sta preparando un lavoro di lena sugli agrimensores i l prof. Biagio
Brugi. Quanto alle affermazioni, che sono contenute nel testo , sono esse abbastanza
giustificate da quegli estratti degli agrimensores, che sono raccolti dal
Bruns, Fontes, pag. 411 e 418 . Qui infatti io non mi proponeva di entrare in
particolari discussioni, ma bensì di mettere in evidenza il processo , che i
Romani ebbero ad applicare costantemente nella distribuzione di un agro, che
veniva crescendo colle loro conquiste. 87 svolgersi alla protezione pretoria ,
la quale fa cosi entrare nelius honorarium l'istituto giuridico del possesso
(1) . 70. Intanto tutta questa parte dell'ager publicus, che è cosi lasciata
alla occupazione, viene ad essere come una sottrazione alle ripar tizioni
gratuite fra quelle classi inferiori, che non hanno mezzi e capitali per
tentare una occupazione, e che, anche avendoli, non sa rebbero dal Senato autorizzati
a farla , e quindi tra il patriziato antico , a cui si aggiunge col tempo la
nuova nobiltà plebea , e la plebe minuta viene ad esservi una opposizione di
interessi. Da una parte si ha interesse a provocare nuovi riparti per impedire
le occu pazioni e per limitare le occupazioni stesse , che col tempo minac
ciano di trasformarsi in latifondi; e dall'altra parte ogni ripartizione, se
riguarda terreni già occupati, appare in certa guisa come una usurpazione di
possessi lungamente durati, e se riguarda terreni solo conquistati di recente,
appare come una sottrazione a quel diritto di occupazione, che il patriziato
attribuisce a sè stesso . Di qui le lotte intorno alle leggi agrarie, le
trasformazioni del concetto ispiratore delle medesime, e infine la insufficienza
di esse per risolvere la grande questione sociale dell'epoca , allorchè
l'antico patriziato e la nuova nobiltà plebea si strinsero insieme contro una
plebe minuta, che già cominciava a cambiarsi in una turba forensis , e che
incapace di durare in lunghi e persistenti sforzi già si era as suefatta a
preferire alle conquiste legali gli spettacoli del circo e le distribuzioni di
frumento . (1) Con cid non intendo però di ammettere l'opinione del Niebhur,
del SAVIGNY e di altri, che farebbero nascere il concetto della possessio
coll'ager pubblicus. Io credo anzi, come dimostrerò a suo tempo, che la
possessio, come istituzione di fatto più che di diritto, avesse origini ben più
antiche, e che la medesima sia stata anzi il modo, con cui i plebei occuparono
le prime terre nei dintorni della città patrizia, il che però non toglie che la
prima tutela giuridica del possesso abbia anche potuto cominciare colle
possessiones nell'agro pubblico : cosicchè accade del possesso, come di un
grandissimo numero di altre istituzioni, che prima cominciano ad esistere di
fatto e solo più tardi entrano a far parte del diritto civile di Roma. Che
anzi, dacchè sono in quest'ordine di idee , aggiungerà ancora che il concetto
dell'ager occupaticius già erasi formato anche prima delle occupazioni del
patriziato sull'ager publicus. Lo dimostra Festo, vº Occupaticius, ove scrive:
< occupaticius ager dicitur qui desertus a cultoribus frequentari propriis,
ab aliis occupatur ». (Bruns, Fontes, pag. 348, la qual deffinizione dimostra
che anche fuori dell'ager publicus poteva formarsi l'ager occupaticius, il
quale perciò differisce dall'occupa torius. 88 71. Intanto è sempre da questo
ager publicus, che ricavansi eziandio gli assegni, che si sogliono fare alle
colonie , alle città benemerite del popolo romano, e infine alle stesse
provincie. Trattandosi di colonie , questi esemplari di stabilimenti che Roma
crea a somiglianza di sè stessa , traendone la popolazione dal proprio seno, si
applica quel medesimo sistema, che si applica per la popo lazione della città ,
il sistema cioè delle adsignationes viritanae, fatte ad ogni capo di famiglia,
ed hannosi così quegli agri, che gli agrimen sori chiamano divisi et adsignati,
i quali sono fuori di Roma una imitazione di quegli assegni di piccoli heredia,
che facevansi un tempo ai cittadini poveri di Roma. Se trattisi invece di città
benemerita , a cui il senato e il popolo sovrano intendano di dare un segno di
soddisfazione ed un cor rispettivo ad un tempo per i servizii prestati, havvi
l'ager mensura comprehensus, il quale, essendo assegnato come proprietà
collettiva ad una città , non è determinato che nella sua generale misura.
Infine se trattasi di delimitare in modo almeno generico i confini del
territorio di una popolazione si ricorre alle indicazioni delle valli, dei
fiumi, dei torrenti, delle grandi strade, dell'acqua pen dente , a quelle
indicazioni insomma, che in un periodo ancora molto remoto serviranno poi ad
indicare il territorio , che dalla natura stessa sembra essere segnato ai singoli
stati e alle nazioni, e si avrà così quell'ager , che gli agrimensores chiamano
arcifinius (1). Infine anche nelle porzioni di agro pubblico , che sono vendute
all'incanto o date in affitto (ager quaestorius,ager vectigalis), pos sono
esservidelle parti,che, per essere scoscese o sterili, non possono trovare da
sole nè compratori, nè affittavoli , e in allora questi siti si aggregano a
quelli, che già furono venduti o a quelli dati in af fitto « in modum
compascuae » , il che significa che essi , a somiglianza dei primitivi
compascua, si ritengono appartenere per la proprietà o per il godimento ai più
vicini fra quelli, che hanno comprato od affittato gli altri. Di qui la
creazione di una specie di proprietà o dipossessione privata , con pertinenze consistenti
in pascoli accessorii, la cui proprietà e il cui godimento possono dare
occasione a ques tioni fra i giureconsulti per vedere se , vendendosi od
affittandosi il fondo principale senza parlare del pascolo accessorio , anche
questo debba ritenersi compreso nella vendita o nell'affittamento , sul che (1)
V. Frontinus, De agrorum qualitate et condicionibus , lib. I, 1, 2 , 4 , 5 .
BRUNS, Fontes, pag. 411. 89 i giureconsulti risponderanno affermativamente,
quando non consti dell'intenzione contraria dei contraenti (1) . 72. Pongasi
infine, e anche quest'ultima supposizione è stata una realtà , che la piccola
tribù del Palatino,mutatasi poi nella città dei sette colli, divenga
conquistatrice dell'universo allora conosciuto, e quindi anche legislatrice del
suo suolo; ma essa continuerà pur sempre ad applicare, nel piccolo e nel
grande, entro l'Italia e fuori di essa , nella proprietà e nel possesso , nel
territorio italico e nel suolo pro vinciale, quei concetti, che ebbe ad
applicare nelle proprie origini, e che noi abbiamo dimostrato essersi già
preparati in un periodo anteriore alla formazione stessa della città . Certo
questi sono svolgimenti logici, che precorrono la serie dei fatti, ancorchè
siano fondati sopra di essi; ma non sono inopportuni per mettere ordine in una
materia , che le minute indagini hanno tal volta resa intricatissima, e dånno
anche un esempio sensibile del pro cesso semplice, ma sempre logico e coerente
, che Roma ebbe ad applicare non solo nell'estendere il concetto della sua proprietà
a tutto il territorio da essa conquistato ,ma anche nell'estendere la sua
cittadinanza e l'impero della sua legislazione al mondo allora cono sciuto .
Sono i grandi popoli che con mezzi semplici e pressochè tipici applicati in
proporzioni e in condizioni diverse sanno conse guire i grandi effetti. È
questo un esempio di quella dialettica po tente e pressochè celata , che senza
apparire negli scritti dei giure consulti, i quali sembrano talvolta smarrirsi
nei casi singoli e nelle fattispecie , trovavasi tuttavia nei loro intelletti,
ed era certo nella mente del popolo da essi rappresentato . Più tardi non
mancheranno le occasioni di scorgere altre applicazioni di questo processo
dialet tico , che, mentre non appare allo sguardo, stringe però con una coerenza
meravigliosa le parti più disparate della giurisprudenza romana . (1) V.
Higinus, 117. « In his igitur agris quaedam loca , propter asperitatem aut
sterilitatem , non invenerunt emptores ; itaque in formis locorum talis
adscriptio facta est in modum compascuae ; quae pertinerent ad proximos quosque
possessores, qui ad ea attingunt finibus suis » . Bruns, pag. 414 . Frontinus
poi, De controversiis agrorum , soggiunge: « Nam et per haereditates aut
emptiones eius generis (pascuo rum ) controversiae fiunt, de quibus iure
ordinario litigatur ». Bruns, pag. 415. È da vedersi a proposito di tali
controversie lo scritto del Brugi, Dei pascoli acces sorii a più fondi alienati
. Bologna, 1886 . 90 - CAPITOLO V. I concetti fondamentali direttivi della vita
pubblica e privata durante il periodo gentilizio . § 1 . Sguardo generale
all'argomento . 73. In una organizzazione come quella che ho cercato di
ricostruire, così nelle persone che entravano a costituirla , che nei
territorii che le servivano di sede, sarebbe affatto fuor di luogo il ricercare
delle norme direttive della vita pubblica e privata , che potessero meritarsi
il nome di leggi nella significazione, che noi sogliamo attribuire a questo
vocabolo. Ormai il lavoro di secoli ha strettamente legato il vocabolo di legge
e la significazione sua propria alla convivenza civile e politica . Senza
negare che un tempo l'uomo abbia ricavato l'idea di una legge direttiva delle
cose umane dalla contemplazione dell'ordine, che governa l’universa natura,
questo è certo che il vocabolo di legge, nella sua significazione
originariamente romana, che poi fu adottata da tutti gli altripopoli, significa
ormai« l'espressione di una volontà collettiva, che si imponga alle singole
volontà indi. viduali » . Esso quindi suppone la distinzione fra l'ente
collettivo ed i singoli, fra lo Stato organo ed interprete della volontà comune
eimembri che entrano a costituirlo . È quindi inutile cercare delle leggi, nel
senso proprio della parola, in un'organizzazione, in cui lo stesso gruppo compie
ad un tempo le funzioni domestiche e le funzioni politiche, e nel quale
pertanto non si può rinvenire la di stinzione fra il tutto in sè e le parti,
che entrano a costituirlo e neppure quella fra la vita pubblica e la vita
privata . 174. Siccome tuttavia qualsiasi stadio di organizzazione sociale sup
pone di necessità delle norme, che lo governino, cosi noi possiamo indurre, che
queste norme non dovettero mancare nel periodo gen tilizio . Anzi si può anche
aggiungere, che fra le varie forme di or ganizzazione sociale quella , che
tende più di qualsiasi altra a strin gere in certe regole precise cosi i
rapporti domestici, che quelli della vita esteriore, è certo la comunanza
gentilizia , la quale, essendo esclusivamente fondata sulla eredità , finisce per
trasmettere , di gene razione in generazione, non solo il sangue degli
antenati, non solo 91 il patrimonio e il territorio da essi conquistato, ma
anche il nucleo delle tradizioni dei maggiori. Si aggiunge, che al modo stesso
che le genti, fisse nell'esempio dei proprii antenati, finiscono per mutarli in
oggetto di culto , cosi anche le loro tradizioni tendono, non per impostura di
uomini ma per un naturale processo di cose umane, ad assumere un carattere
sacro e religioso, per cui qualsiasi atto anche meno importante finisce per
acquistare una significazione re ligiosa. È questa tendenza , cheha condotto
tutte le comunanze gen tilizie a diventare pressoché immobili e stazionarie, e
che avrebbe prodotto forse il medesimo effetto fra le genti italiche, come lo
pro dusse fra le genti indiane, che appartengono alla medesima stirpe , quando
fra esse non si fosse formato un nuovo focolare di vita, che fu quello che
brucid nel tempio di Vesta, cambiatasi in patrona della città (1) . Che anzi
non dubiterei di affermare, che quello stesso spirito conservatore , che appare
in Roma primitiva, sopratutto per parte del patriziato , non è che una
trasformazione di questa ten denza naturale delle comunanze gentilizie a
diventare immobili e stazionarie , quando sono pervenute a quel maggiore
sviluppo, che può comportare il principio informatore di esse . Dal momento in
fatti, che questa tendenza all'immobilità e a fare entrare ogni ele mento in
quadri precisi, determinati dal costume e consacrati dalla religione, male può accomodarsi
ad una città piena di vita , i cui elementi nuovi più non possono ad un certo
punto entrare nei quadri antichi, è ben naturale, che la tendenza stessa
riducasi a trapiantare nel nuovo terreno quanto più si possa dell'antico ordine
di cose ed a lottare per la conservazione di esso , come chi è pro fondamente
convinto di lottare per uno scopo religioso e santo . È questo culto del
passato, che contraddistingue le genti italiche (1) È abbastanza noto come in
quella guisa che la famiglia aveva per centro il focolare, che le serviva anche
di altare, così la città aveva pur essa un pubblico focolare nel tempio di
Vesta , la quale per tal modo di dea del focolare domestico venne a cambiarsi
in custode e patrona del focolare della città. Questo invece è da essere
notato, che le recenti scoperte intorno al locus Vestae hanno dimostrato, come
questo focolare si trovasse a piedi del Palatino presso il Foro e fuori della
Roma quadrata ; il che serve a provare sempre più, che la vera città , di cui
doveva essere centro il tempio di Vesta , non era già lo stabilimento romuleo
primitivo , ma bensì la città dei Quiriti, che risultò dalla confederazione
delle varie comunanze. In una casa poi attigua altempio di Vesta dimorava,
secondo la tradizione, il Re (domus regia Numae), il quale, come custode della
città, doveva pur trovarsi nel centro di essa . Cfr. LANGE, Histoire intérieure
de Rome, I, pag . 39. 92 dalle elleniche. Mentre queste colla loro intelligenza
acuta e pro fondamente critica, appena ebbero analizzate le proprie tradizioni,
rivestite anch'esse di carattere religioso , le abbellirono e trasforma rono
colla propria fantasia e finirono per ridurle in frantumi, la credula e
religiosa Italia invece colla sua intelligenza più tarda, ma colla sua volontà
più tenace le conservo a lungo e potè cosi rica varne tutto il succo vitale,
che contenevasi in esse (1). 75. Questo intanto è certo , che appena noi
possiamo arrestare lo sguardo, non sulle gesta primitive delle genti italiche,
che solo più tardi furono argomento di storia , ma sul linguaggio di esse e
sulle traccie della loro civiltà , che sopratutto ci serbd il culto per i tra
passati, noi riconosciamo immediatamente , che tutte le loro tradizioni, le cui
origini sono celate in un remotissimo e misterioso passato , hanno già assunto
un carattere sacro e religioso . Una religione, per nulla immaginosa ed
estetica come la ellenica, ma eminente mente pratica ed applicata con cura
minuta a tutte le emergenze della vita, ha già consacrato le basi della
organizzazione gentilizia , per modo che le genti italiche, sempre occupate da
divinità , che sovraintendono a ciascun atto della vita, cercano con tutti i
mezzi di riconoscere i segni della benevolenza o malevolenza divina. Per gli
atti della vita quotidiana questa volontà potrà essere indicata anche dai
piccoli incidenti della vita ;mentre per i fatti di importanza mag giore per il
gruppo, è la volontà del cielo, che deve essere consul (1) Osserva giustamente
il SUMNER Maine, L'ancien droit, pag. 72 « che mentre l'intelligenza greca
colla sua mobilità e la sua elasticità era incapace di chiudersi nella stretta
veste delle formole legali ; Roma invece possedette una delle qualità più rare
nel carattere delle nazioni, che è l'attitudine ad applicare e a svolgere il diritto
come tale, anche in condizioni non favorevoli alla giustizia astratta, non
scompagnata tale attitudine dal desiderio di conformare il diritto ad un ideale
sempre più elevato » . Del resto il primo, che con occhio veramente acuto abbia
scrutato le attitudini mentali diverse dei Greci e dei Romani, è il nostro
Vico, De uno et universo iuris principio et fine uno. Proloquium . D'allora in
poi il para gone non è più venuto meno. Lo fanno gli storici, come il Mommsen,
il LANGE ed altri; lo fanno parimenti gli studiosi della giurisprudenza
comparata, comeil MAINE, op. cit ., il Freeman, Comparative politics, London ,
1873, l'Hearn , Arian Household , London , 1879, il IHERING, L'esprit du droit
Romain . Per maggiori particolari in proposito mirimetto al libro : La vita del
diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, . ove ho tentato di richiamare
alle facoltà psicologiche prevalenti presso i due popoli il diverso
svolgimento, che i medesimi ebbero a dare alla religione, al diritto, ed alle
istituzioni sociali e politiche. Libro II, cap . I, pag . 85 e seg . - 93 tata
. Di qui quella osservazione antichissima del volo degli uccelli, che è
d'origine latina, e l'altra dell'osservazione delle viscere degli animali da
sacrifizio , che è di origine etrusca, e quel concetto per noi pressochè
incomprensibile degli auspicia , che appartengono al magistrato e che danno al
suo potere una consacrazione religiosa e giuridica ad un tempo (1) . $ 2 . Del
carattere religioso inerente ai concetti primitivi del mos, del fas e del jus.
76. Per attenersi tuttavia a quel complesso di norme, che riflet tono la vita
pubblica e privata, intesa questa distinzione in un senso che possa applicarsi
al periodo gentilizio , noi troviamo che anche in questa parte le genti
italiche mostrano fin da principio decisa tendenza a racchiudere le loro
tradizioni in forme certe e precise, e a designarle con vocaboli di
significazione determinata , la cui semplicità primitiva sembra indicarne
l'antichità remota. Questi vocaboli per le genti latine sono quelli dimos, di
fas e di jus, i quali tutti nelle origini sembrano presentarsi con una
significazione, che tiene del religioso e del sacro. Del mos infatti noi
abbiamo una definizione conservataci da Festo : mos est institutum patrium , id
est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum .
Qui è nota bile anzitutto la significazione larghissima, attribuita al
vocabolo, per cui tutte le patrie tradizioni sarebbero inchiuse nel medesimo,
come pure l'esplicazione che viene dopo, la quale , restringendo in appa renza
il contenuto del vocabolo , indica in sostanza che la parte ( 1) V.
BouchÊ-LECLERCQ, Histoire de la divination dans l'antiquité, IV, p . 180-183; e
lo stesso autore, Institutions romaines , pag . 533 a 540. Questo ricorrere
agli auspizii in ogni affare pubblico e privato è attestato da Servio, In Aen .
I, 346: « Romani nihil nisi captatis faciebant auguriis et praecipue nuptias »
, e da CICE RONE, De divin . I, 16 : « Nihil fere quondam maioris rei nisi
auspicato ne privato quidem gerebatur , quod etiam nunc nuptiarum auspices
declarant » . Per quello poi, che si riferisce agli auspicia , alle varie loro
specie , alla procedura so lenne, da cui erano accompagnati, ed alla
importantissima distinzione fra auspicia privata e publica, distinzione, che fu
anch'essa un effetto della formazione della città, non ho che a riferirmi alla
trattazione magistrale del Mommsen, Le droit pubblic romain . Trad. Girard ,
Paris, 1887 , pag. 86 a 135. 94 prevalente nelle istituzioni dei padri era
sopratutto quella, che si riferiva alla religione ed alle cerimonie di essa (
1). Questo carattere religioso non ha poi bisogno di essere provato quanto al
vocabolo di fas; poichè il fas delle genti italiche è para gonato dagli stessi
scrittori latini alla Oeuis dei Greci, e col tempo fu questo vocabolo di fas,
che, distinguendosi sempre più da ogni altro elemento estraneo , fini per
significare quelle norme di carat tere esclusivamente religioso , che si
riferiscono agli auspicia , al l'arte augurale ed alle cerimonie del culto ( 2
). Infine i più recenti investigatori del significato primitivo del jus, quali
il Leist, il Bréal, al quale aderisce anche il Muirhead, sareb bero diavviso ,
che il medesimo nelle proprie origini avesse eziandio una significazione
religiosa . Cosi il Bréal ritiene, che il ious antico dei latini, cambiatosi
poscia in ius, sia perfettamente conforme al iaus, che occorre nel sanscrito
più antico , vocabolo, la cui significazione è alquanto vaga ed incerta, ma che
egli ritiene essere quella di « volontà, potenza, protezione divina » (3).
Questa primitiva signifi (1) Festo, vo Mos. È poi notabile come lo stesso
Festo, confermando il carattere religioso , comune al mos ed al fas,
definisca il ritus dicendolo un « mos compro batus in administrandis
sacrificiis » . Bruns, Fontes, pag. 343. (2) Festo, v° Themin , scrive: «
Themin deam putabant esse, quae praeciperet ho minibus quid fas esset, eamque
id esse existimabant, quod et fas est ». Bruns, Fontes, pag . 372. Lo stesso
concetto ebbe ad esprimere il poeta Ausonio , Edyl. 12 : Prima deum Fas Quae
Themis est Graiis ..., Per altri passi è da vedersi il Voigt, Die XII Tafeln ,
I, pag . 102. È poi degno di nota, che nelle formole antiche occorre sovente la
frase « secundum ius fasque » , la quale indica in certo modo il bisogno di
dare al diritto anche l'appoggio del fas. (3) II BRÉAL trattò la questione in
un suo articolo « Sur l'origine des mots dési gnant le droit et la loi en latin
» , pubblicato nella Nouvelle revue historique de droit Français et étranger,
1883 , pag. 603, la cui conclusione è la seguente : « Pour nous résumer, le
droit, qu'on a appelé la création la plus originale du génie « latin , et qui a
l'air de sortir tout d'une pièce de la tête des décemvirs, comme la « poésie
épique de la tête d'Homère, a ses origines dans le passé le plus lointain ; «
il est inséparable des premières idées religieuses de la race » . Questo è pure
il concetto del LEIST, Graec. Ital. R. G., pag . 175 a 211. Il MUIRHEAD, Hist.
Introd ., pag . 18 , segue l'opinione del Bréal. Parmi però, che questa
etimologia non debba fare abbandonare intieramente quella dalla radice
sanscrita < iu , che significa stringere, legare, unire, la quale
indicherebbe la funzione, che il diritto compie di vinculum societatis humanae.
Questo è certo , ad ogni modo, come nota il Bréal, che le parole mos, fas e ius
debbono essere considerate come caposti pite, e quindi, più che derivare da
altre, sono esse che diedero dei derivati, quali. 95 cazione del vocabolo
spiega poi come tanto i Greci quanto i Latini attribuissero un carattere
religioso e sacro al vóuoç ed alla lex , sebbene questi due vocaboli siano di
più recente formazione, e ri tenessero la legge come un dono degli dei; come
pure spiega quel sentimento , le cui traccie occorrono ancora in Roma, per cui
si ama meglio di lasciar cadere in dessuetudine il diritto costituito, che non
di abrogarlo espressamente . 77. Intanto questo carattere comune a questi
diversi vocaboli e ai concetti inchiusi neimedesimi, conduce ad inferire, che
dovette forse esservi tempo, in cui furono contenuti in qualche concetto più
vasto e comprensivo, del quale essidebbono perciò considerarsi come specifi
cazioni ed aspetti diversi. Questo concetto , secondo il Max Müller ed anche
secondo il Leist, sarebbe stato dagli antichi Arii significato col vocabolo di
rita , il quale esprime ora l'ordine che regge l'uni verso , col suo alternarsi
del giorno e della notte , ed ora l'ordine stesso della natura, in quanto
governa il generarsi, il crescere e il disparire degli esseri viventi (1). A
questo vocabolo di rita corrispon dono perfettamente i concetti del ritus, del
ratum e della ratio dei latini, ed anche quello , che essi indicano
coll'espressione di rerum natura , per guisa che anche il concetto di « ius
naturale » nel senso che ebbe ad essergli attribuito da Ulpiano di un « ius
quod natura omnia animalia docuit » potrebbe rannodarsi a questi primitivi con
cetti (2 ). Lo stesso Leist poi osserva, che al concetto fondamentale di rita o
di ratio la sapienza antichissima degli Arii associa altri con sarebbero quelli
di fari, iubere , iustitia, iudes , iurgium , iniuria e simili. Una trat
tazione poi di questo elemento etico e religioso dell'antico diritto,
sussidiata da una larghissima erudizione, occorre nel Voigt, Die XII Tafeln ,
I, cap . I, p. 97 a 125. ( 1) Leist, op . cit., pag . 187 . (2 ) Ciò
confermerebbe l'asserzione contenuta nelle Institut. Justin . II, 1, 12 , «
palam est autem vetustius esse ius naturale, quod cum ipso genere humano rerum
natura prodidit: civilia enim iura tunc esse caeperunt, quum et civitates
condi, et magistratus creari,et leges scribi caeperunt » . Questo è certo poi,
che a questo diritto naturale primitivo anteriore alle leggi accennano soventi
i poeti latini. Cfr. Henriot, Meurs jur. et judic. Vol. I, in princ. Conviene
quindi indurne che il concetto di un diritto naturale cominciò in certo modo ad
essere sentito dall'universale co scienza , e solo più tardi diventò anch'esso
argomento di una elaborazione filosofica , che si operò sopratutto in Grecia .
V. in proposito la classica opera del Voigt, Das ius naturale, bonum et aequum
et ius gentium der Römer, 4 vol., Leipzig , 1856-76 . - 96 - cetti, che sono
espressi coi vocaboli di orata , a cui corrisponde il fas e il ratum dei
latini, due vocaboli che sovente procedono uniti : di dhāma, che egli dice
analogo alla Oeuis greca e infine quello di svadhā, che corrisponderebbe
all'čnog od neos dei Greci e quindi anche al mos dei latini, mentre infine il
concetto di dharma già si accosterebbe, quanto alla sua significazione, al
vocabolo latino di lex , il quale sarebbe però sopravvenuto più tardi (1). 78.
Parmi tuttavia che la parentela ed analogia fra questi varii concetti possa
essere facilmente spiegata , quando si consideri che fra i latini il vocabolo
di ratum e quello più astratto di ratio , si asso ciano talvolta al fas, al ius
ed anche al mos. Si può quindi inferirne con fondamento, che il ratum , da cui
derivò poi ratio , significava l'ordine, che governa il corso delle cose divine
ed umane, mentre il fas, il mos ed il ius, che dapprincipio si presentano tutti
circondati da un'aureola religiosa , significherebbero i diversi aspetti, sotto
cui si manifesta questa forza o volontà operosa , che muove e regge l'u niverso
(2 ). Il fas quindisarebbe la stessa volontà divina, in quanto si estrinseca
nei fenomeni della natura, ed è interpretata da coloro che sanno conoscerne il
significato riposto. È quindi dal fas, che derivano i riti e le cerimonie del
culto, le quali sono appunto intese a rendere propizia agli uomini la volontà
divina, e che presso le genti italiche assumono anche esse il carattere
contrattuale del « do ut des » (3 ). Il mos significa la stessa volontà divina,
ma non più in ( 1) Leist, Op. cit. e loc. cit. (2) Questo scindersi dal
concetto primitivo appare nelle parole di Virgilio « Fas et iura sinunt» , che
Servio commenta con dire « id est divina humanaque iura per mittunt; nam ad
religionem fas, ad homines iura pertinent » . In Aen . I, 269 (Bruns, Fontes,
pag. 405). La parentela poi fra i vocaboli di ratum e di ratio è dimostrata dal
Leist con una quantità di passi da lui citati a pag. 199 dell'opera : Graec.
It. R. G. ( 3) Ciò appare da tutte le formole primitive, che si indirizzavano
agli dei di una città nemica , per ottenere che i medesimi abbandonassero la
città stessa . V. HUSCHKE, Iurisp . anteiust. quae supersunt, pag. 11. Nota in
proposito il Bouche-LECLERCQ, Institutions romaines, pag. 461, che il culto
romano era una procedura del tutto analoga a quella delle « legis actiones >
che i pontefici trasmisero poi più tardi ai giureconsulti. Che anzi per i
Romani il sacrifizio è una offerta fatta in uno scopo interessato e la
preghiera, che necessariamente l'accompagna, è una stipulazione, il cui effetto
è infallibile, se essa sia concepita nei termini sacramentali, fissati dal
costume (rite ). Ciò significa che è per tal modo immedesimata coi Romani
l'idea secondo la quale il diritto formasi mediante la convenzione e l'accordo,
che essi in ogni argomento scorgono una specie di contratto. - 97 quanto si
rivela con segni, la cui interpretazione è lasciata ai sacer doti; ma bensì in
quanto si palesa in quella tacita hominum conventio, che dà appunto origine al
costume ed alla consuetudine . Infine il ius è sempre questa stessa volontà
divina , ma in quanto viene ad essere interpretata e statuita espressamente
dagli uomini, che ap partengono alla comunanza , nell'intento di provvedere
alle esigenze della medesima. Per tal modo da un unico ceppo sonosi staccate
propaggini diverse ; ma siccome esse continuano ancora sempre ad essere in
comunicazione fra di loro , così è molto difficile il preci sare la
significazione di ciascuna , sopratutto nel periodo geatilizio , allorchè
vindice di questi varii aspetti della volontà divina era l'au torità
patriarcale del padre e del consiglio degli anziani. 79. È poi'degno di nota,
che questi varii concetti, negli inizii di Roma, si presentano come patrimonio
esclusivo delle genti patrizie come appare da ciò , che queste chiamano le
usanze plebee non già col vocabolo di mores, ma con quello di usus; ed anche da
ciò che la cognizione del fas e del ius fu per lungo tempo un privilegio del
patriziato ed una causa della sua superiorità sopra la plebe. In ciò può con
fondamento scorgersi una prova , che queste nozioni dovet tero elaborarsi in
altro suolo ed essere trapiantate da genti migranti dall'Oriente sul suolo
italico , ove hanno poiservito per l'educazione di stirpi, che si trovavano in
condizioni inferiori di civiltà . Sebbene qui non possa essere il caso di
cercare in quale ordine questi varii concetti siansi venuti formando, non è
tuttavia inoppor tuno di avvertire, che, nelle origini, il primo a prodursi,
almeno nell'ordine dei fatti, dovette probabilmente essere il mos, il quale,
dopo essersi formato pressochè inconsapevolmente nel seno delle co munanze
patriarcali, viene poi mutandosi in una tradizione, che si trasmette di
genitore in figlio e che col tempo assume un carattere sacro e religioso . È
poi nel seno di questo mos primitivo, che si opera una distinzione, in virtù
della quale una parte di esso riceve una sanzione religiosa, e l'altra una
sanzione giuridica , mentre una parte continua sempre ad avere un carattere
puramentemorale e costituisce ciò che le genti latine chiamano i boni mores.
Intanto egli è certo , che le genti italiche si presentano con questi varii
concetti, già com piutamente formati, e che fra essi ha già acquistata una
incontesta bile prevalenza quello del fas. Fu il fas, che primo ebbe a ricevere
vera elaborazione e a concretarsi in certe massime, riti e pratiche, che
tendono a diventare immutabili e ferme, come la vo G.CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 98 im lontà divina, di cui si ritengono essere l'espressione.
È poi sotto la . protezione del fas, che si vennero elaborando i concetti del
ius e e dei boni mores, al modo stesso che più tardi sarà sul modello del ius
pontificium , che verrà a formarsi il ius civile. Quasi si direbbe che,
mancando ancora un'autorità abbastanza salda per porsi alle passioni dell'uomo
in un periodo di lotta e di violenza , siasi sentita la necessità di porre
sotto la protezione divina anche quelle regole, che appariscono indispensabili
per il mantenimento della convivenza sociale . Intanto queste considerazioni intorno
ai concetti fondamentali, che costituiscono il substratum della sapienza
popolare delle genti ita liche, ci preparano la via a comprendere il processo
storico, secondo cui venne svolgendosi ciascuno di essi. $ 3. — Il fas e il mos
e la loro importanza nel periodo gentilizio . 80. Il vocabolo di fas esprime
per le genti italiche, ciò che i Greci, più fantastici ed immaginosi, giunsero
perfino a personificare nei concetti di Themis ,Nemesis , Adrasteia (1). Esso è
l'espressione della volontà divina, in quanto impone e regge l'ordine delle
cose divine ed umane, e vendica in modo irresistibile le violazioni, che l'uomo
rechi al medesimo colle proprie azioni. Nel fas pertanto non è solo compresa
una parte , che si riferisce ai riti e alle cerimonie del culto, ma una parte
eziandio , che contiene delle norme che ri guardano l'umana condotta. Che anzi,
siccome la riverenza per la divinità non è propria di questa o di quella gente,
ma è comune alle varie genti, cosi è anche sotto la protezione del fas, che si
trovano tutti quei rapporti fra le varie genti, senza di cui sarebbe stato
impossibile, che esse potessero entrare in comunicazione le une colle altre. È
quindi il fas, che determina i modi in cui debba es sere dichiarata una guerra,
e copre della sua protezione coloro, che sono inviati a trattare le alleanze e
le paci. È esso parimenti che dà un carattere sacro a quell'istituzione
dell'ospitalitá (hospi tium ), che ebbe un così largo sviluppo presso le genti
primitive , e che poi ricompare, come hospitium publicum , dopo la formazione (
1) Per una più larga prova di questa analogia, vedi CARLE, La vita del di
ritto, pag . 111 , cogli autori ivi citati. 99 della città, come pure è il fas
che consacra le obligazioni, che inter cedono fra il patrono ed il cliente . È
esso, che condanna le violenze dei figli verso i genitori, le nozze incestuose,
il falso giuramento e il venir meno ai voti fatti alla divinità , e alle
promesse, che sotto il suggello della fides siansi fatte anche ad uno
straniero. Esso in somma nei primordii sembra abbracciare i rapporti fra i
membri della famiglia , quelli fra le varie genti, e quelli infine fra le varie
tribù ; donde la conseguenza, che anche più tardi, allorchè si tratto di patti
fondamentali fra il patriziato e la plebe, questa per assicu rarne
l'adempimento non trovò altro mezzo , che di porre i medesimi sotto la
protezione di quel fas, che esercitava tanto impero fra le genti patrizie, come
lo dimostra il concetto ispiratore delle cosi dette leges sacratae (1). 81. Chi
poimanchi a questo complesso di norme, sopratutto allorchè lo faccia di
proposito (dolo sciens), mentre offende gli uomini reca pure offesa alla
divinità , e quindi deve espiare il proprio fallo ,me diante certi sacrifizii,
le cui traccie occorrono ad ogni istante nel ius pontificium e negli scritti
dei più antichi giureconsulti, che si erano formati sullo studio di esso ; i
quali sacrificii prendevano il nome di piacula, e dovevansi anche fare,
allorchè altri cadeva in fallo per semplice imprudenza (imprudens). Di qui si
raccoglie, che già dall'epoca più remota , a cui rimontino le tradizioni,
trovasi la distinzione, almeno fra le genti patrizie, fra colui che abbia
compiuto un delitto di proposito (dolo malo , dolo sciens, prudens), e quello
invece, che l'abbia compiuto solo per imprudenza (imprudens), nel che si
avrebbe una prova, che queste genti già erano pervenute a tale da analizzare
l'atto umano e scrutare perfino l'intenzione dell'agente, sebbene più tardi il
diritto quiritario abbia dovuto fare un passo in dietro , come quello che
doveva applicarsi a classi, che non erano tutte giunte allo stesso grado di
sviluppo ( 2). Che se il fallo sia tale ( 1) Sul carattere delle leges sacratae
è da vedersi la dissertazione del Lange, De sacrosanctae tribuniciae potestatis
natura, eiusque origine. Lipsiae, 1883. Sono poi diversissime le guise,
mediante cui le promesse, che non avevano ancora san zione giuridica , si
mettevano sotto la protezione del fas. Sopratutto a ciò serviva il giuramento,
la cui larghissima applicazione, nel periodo storico , appare dal dili gente
lavoro del Bertolini, Il giuramento nel diritto privato romano. Roma 1886, Cap.
II, pag. 43 a 78 . (2 ) Cid è dimostrato dal fatto , che la distinzione fra
l'omicidio commesso di pro posito e quello commesso per imprudenza già occorre
nelle leges regiae attribuite 100 da non potersi espiare in questa guisa , in
allora il reo viene assogget tato ad una specie di espiazione sacrale , la cui
forma tipica consiste nella capitis sacratio . Questa doveva essere pena
gravissima durante il periodo gentilizio, poichè il colpevole veniva con essa
ad essere sot toposto ad una specie di scomunica religiosa e domestica , che lo
stac cava dal gruppo gentilizio, di cui faceva parte, e lo poneva in certo modo
fuori delle leggi divine ed umane, per guisa che sebbene il sa crifizio della
sua vita non potesse essere accetto agli dei, esso poteva perd essere ucciso
impunemente da chicchesia . Di qui il carattere di espiazione sacrale , che
informa ancora tutto il diritto penale pri mitivo di Roma, durante il periodo
esclusivamente patrizio, come pure i vocaboli e i concetti di expiatio,
supplicium , di consecratio bonorum , di interdictio aqua et igni, i quali
confermano l'osser vazione del Voigt, secondo la quale le primitive genti
patrizie avrebbero ravvisato nei delitti più un'offesa alla divinità , che non
agli uomini, a differenza delle plebi, che risentivano di preferenza l'offesa e
il danno materiale ( 1) . Non potrei quindi ammettere l'opinione di coloro, i
quali, suppo nendo le genti italiche in una condizione del tutto primitiva e
come nella loro infanzia, mentre sotto un certo aspetto erano già nella loro
età matura , vogliono ad ogni costo trovare nel diritto penale pri mitivo di
esse le traccie della vendetta privata . Se cið intendasi nel senso che erano i
singoli capi di famiglia, che dovevano essere essi i vindici del proprio
diritto e proseguire le offese, che loro fos sero recate, in mancanza di
un'altra autorità che lo facesse per essi, ciò può essere facilmente ammesso .
Che se invece si intenda che nella stessa comunanza gentilizia dovessero
spesseggiare le rea zioni violente e le vendette, cio più non può conciliarsi
col rat tere patriarcale di una comunanza, ove tutto è già regolato dalla a
Numa. V. Bruns, Fontes, pag. 10. Tale distinzione poi incontrasi frequentemente
in ciò , che a noi pervenne degli scritti dei pontefici dei veteres
iurisconsulti. Che anzi pare, che, secondo il Pontefice Quinto Muzio Scevola ,
i fatti commessi contro il fas allora soltanto potessero espiarsi colla
piacularis hostia , quando fossero com piuti per imprudenza ; mentre non
ammettevano espiazione, quando fossero commessi di proposito. Ciò appare dal
seguente passo tolto da VARRONE, De ling . lat., 6 , 4 , § 30 : « Praetor, qui diebus
fastis tria verba fatus est, si imprudens fecit, piacu lari hostia piatur; si
prudens dixit, Quintus Mucius ambigebat eum expiari non posse » . Altri esempi
occorrono in Huschke, Iurisp. anteiust. quae sup ., pag. 15 . ( 1) Voigt, XII
Tafeln . I, pag. 484. 101 religione e dal costume. Non potrebbe certo
affermarsi che anche le genti italiche non abbiano attraversato uno stadio, in
cui dovette dominare la forza, la vendetta e la privata violenza ; ma l'organiz
zazione patriarcale e i vincoli strettissimi di essa erano già un mezzo per
uscire da tale condizione di cosa . Quindi, se si deve giu dicare dal diritto
primitivo di Roma patrizia , sarebbero così poche le traccie , che rimangono in
esso della privata vendetta , nel senso che suole attribuirsi a questo
vocabolo, da doverne inferire che nel pe riodo gentilizio la religione,
compenetratasi in ogni atto della vita , ne aveva già cacciata la vendetta ed
aveva esclusa perfino la com posizione a danaro , almeno nella cerchia delle
genti patrizie. Che se il padre di famiglia può incrudelire contro la moglie e
la figlia adultera e contro l'adultero (sorpresi in flagrante ), o contro il
ladro, egli lo fa più come giudice e come investito di un carattere
sacerdotale, che non come uomo, che si abbandoni all'impeto della collera e
della vendetta . La religione ha già incatenato le passioni dell'uomo, ed è
solo più fra la plebe, che ancora si trovano le traccie della privata vendetta
e della composizione a danaro , le quali poi ricompariscono in qualche parte nella
legislazione decemvirale , come quella che era comune ad entrambe le classi
(1). (1) Fra gli autori, che cercano di dare una larga parte alla privata
vendetta nel primitivo diritto Romano, havvi il MUIRHEAD , Hist.introd., pag.
52. Egli argomenta da ciò , che colui il quale commetteva un omicidio per
imprudenza doveva fare l'of ferta di un ariete agli agnati dell'ucciso ; da ciò
che il vendicare la morte di un congiunto ucciso era un dovere per i superstiti
per acquetare i mani di lui ; dal diritto del padre e del marito di uccidere la
figlia o la moglie sorprese in adulterio unitamente all'adultero; dal taglione,
le cui traccie ancora rimangono nella legisla zione decemvirale, e perfino dal
diritto del creditore di chiudere nel carcere privato il debitore, chemancasse
ai proprii impegni. Parmi tuttavia, che di questi fatti alcuni indichino invece
la preponderanza dell'elemento religioso, e gli altri siano concessioni, che il
diritto decemvirale fece al modo di pensare e di agire proprio della plebe, presso
la quale avevano ancora certamente una più larga parte la privata vendetta, il
taglione e la composizione a danaro. Cfr. Ihering, L'esprit du droit Romain .
Trad. Meulenaere. Paris, 1880, I, pag. 131 a 168, ove discorre della giustizia
privata e delle forme, con cui essa era esercitata . Finchè quindi si dice, che
sono i singoli capi di famiglia, che, in mancanza di una autorità investita dal
pubblico potere, perseguono essi stessi le ingiurie e le violazioni di diritto,
di cui furono vittima, si afferma una verità indiscutibile; ma ciò non deve più
confondersi coll'esercizio sregolato di una privata vendetta, che non prende
norma che dalla violenza della passione, dal mo mento che la religione e la
consuetudine già hanno determinato la procedura solenne, a cui egli deve
attenersi per ottenere soddisfazione dell'ingiuria o del danno sofferto, e che
l'organizzazione gentilizia aveva appunto per iscopo di porre termine alla pri
vata violenza fra coloro che appartenevano alla medesima gente o tribù . 102 82.
Accanto però a queste regole dell'umana condotta , che già sono munite di
sanzione religiosa , sonvene delle altre che, appoggiate unicamente al costume,
costituiscono, per cosi esprimerci, una specie di morale primitiva . Esse
vengono indicate col vocabolo di mos patrius, di mores maiorum , di boni mores,
e costituiscono un complesso di norme direttive della pubblica e privata
condotta , le cui traccio si trovano più tardi ancora nel iudicium demoribus,
at tribuito al Pretore , e sopratutto nel regimen morum , affidato alla
custodia dei censori. Anche questi mores maiorum si sono venuti formando
durante il periodo gentilizio , nella cerchia sopratutto delle familia e delle
gens, e sono quelli, a cui deve essere attribuito l'obsequium e la reverentia
verso gli ascendenti, la pudicitia delle mogli e il mantenimento della fides ,
anche per quelle promesse, che non fossero munite di sanzione giuridica e che
fossero fatte anche ad uno straniero (1) . Erano questi boni mores, che da una
parte contenevano in certi confini il potere delle varie autorità , le quali,
giuridicamente considerate, apparivano senza alcun confine ; e che dal l'altra
colpivano colla sanzione efficace della disistima generale della comunanza
coloro , che mancavano a certi doveri, i quali non erano muniti di sanzione
giuridica . Così, ad esempio , furono i bonimores, che ancora molto più tardi
condussero l'opinione pubblica dei citta dini Romani a condannare al disprezzo
quei prigionieri di Annibale che, lasciati liberi sotto la condizione del
ritorno, credettero di libe rarsi dalla promessa mediante lo stratagemma di
ritornare imme diatamente nel campo e di sostenere di aver così attenuta la
loro (1) Questo concetto trovasi espresso da Publio Siro , allorchè scrive :
Etiam hosti est aequus, qui habet in consilio fidem . Del resto sono
diversissime le guise, con cui i poeti esprimono l'efficacia moralmente
obbligatoria delle promesse. È qui che compariscono i concetti del pudor humani
generis , del foedus, che talvolta significa anche il patto e la convenzione
privata, il concetto della casta fides, quello della santità inerente alle
parole, in quanto che .. immutabile sanctis Pondus inest verbis; concetto che
trovò poi la sua espressione giuridica nell' « uti lingua nuncupassit, ita ius
esto » . Così pure nell'Andria di Terenzio trovasi elegantemente espresso il
concetto, che l'obbligazione è un vincolo che la volontà impone a se stessa
colle parole : ..... coactus tua voluntate es; ..... concetto che trovò pur
esso forma nell'assioma giuridico : « quae ab initio sunt vo luntatis ; ex post
facto fiunt necessitatis » . Per altri esempi può vedersi l'HENRIOT, Meurs
juridiques et judiciaires, I, pag. 439 , e III, in princ. • . -- 103 promessa.
Del resto è sempre questo concetto del buon costume, che tornerà poi a
penetrare, per opera della classica giurisprudenza,nella compagine
soverchiamente rigida del diritto civile romano, come lo dimostrano le
considerazioni di ordine morale, che talvolta occorrono nei grandi
giureconsulti, l'influenza che esercitò mai sempre l'existi matio anche sulla
capacità di diritto , e l'introduzione dell'infamia , della ignominia, della
levis nota, che danno in certo modo una configurazione giuridica alle varie
gradazioni della publica disistima, in cui sia incorsa una determinata persona
(1 ). Al qual proposito non sarà inopportuno di osservare, che quella
separazione fra l'ele mento esclusivamente giuridico ed il morale, che tardò
così lunga mente ad operarsi nella scienza, presentasi invece con una meravi
gliosa nettezza nel diritto primitivo di Roma, il quale, dopo essersi separato
dal fas e daiboni mores, continuò logicamente la propria via , e assunse così
quel carattere di rigidezza e di logica pressochè inumana, che solo più tardi
fu temperato nella classica giurispru denza, la quale di nuovo richiamò in esso
quell'alito morale , da cui almeno in apparenza erasi dapprima compiutamente
disgiunto (2). 83. Intanto , per ciò che si riferisce ai bonimores, non è più
la religione, che si incarica di punirne le violazioni, ma sono i capi stessi
dei diversi gruppi, che vegliano sovra quel retaggio del buon costume, che loro
ebbe ad essere trasmesso dagli antenati. Sono quindi il padre nella famiglia,
il consiglio degli anziani nella gente ed il magister pagi nella tribù , che sovraintendono
almantenimento di questa morale primitiva ; mentre è poi la disistima generale
della comunanza, che condanna al disprezzo e all'isolamento coloro, che abbiano
esercitato professioni ignominiose , o abbiano mancato alla fede promessa , o
abusato del potere loro spettante , o abbiano infine commessa alcuna di quelle
azioni, che , senza senza essere colpite (1) Cfr. Muirhead, Hist. Introd., pag
. 31-34 . Basta leggere le commedie di Plauto, e fra le altre specialmente il
Trinummus, per scorgere la significazione lar ghissima, che davasi al vocabolo
di boni mores, e come fosse altamente sentita l'im portanza di essi di fronte
alle leggi e l'impotenza di queste, quando quelli comin ciavano a venir meno .
(2 ) Ciò verrà ad essere largamente provato , allorchè si parlerà della
formazione del ius Quiritium , e si dimostrerà come il medesimo sia dovuto ad
un ' astrazione potente, mediante cui si riuscì ad isolare l'elemento giuridico
da tutti gli elementi affini. 104 dalla sanzione religiosa o giuridica,
incorrono però nella disappro vazione generale . Se il modo in cui formasi
questa generale opi nione e l'influenza , che essa esercita, male possono
scorgersi ancora in una grande città, in cui già scomparve ogni traccia della
vita patriarcale, possono invece essere anche oggidi facilmente compresi quando
si arresti lo sguardo ad una comunanza di villaggio, ove tutti si conoscono e
debbono necessariamente essere in rapporto fra di loro, ed ove le colpe dei
padri pesano più duramente sulla riputa zione dei figli. § 4. – Le origini del
ius nel periodo gentilizio . 84. Se ora si vogliano cercare le origini del ius
nel periodo gentilizio , apparisce fino all'evidenza, che fu soltanto ,
collocandosi in un posto intermedio , fra il fas da una parte ed i boni mores
dall'altra , che potè riuscire e farsi strada quel ius, che doveva poi ricevere
cosi largo sviluppo durante il periodo della comunanza ci vile e politica .
Sonvi in una comunanza certi modi di operare e di agire, che, per essere
costantemente ripetuti in modo uniforme, fini scono per acquistare un carattere
pressochè obbligatorio per tutti coloro, che trovansi in una determinata
condizione sociale, e danno cosi origine non più al mos propriamente detto, ma
a quella for mazione giuridica, che viene poi ad essere indicata col vocabolo
ef ficacissimo di consuetudo, il quale in certo modo contiene in sè la propria
deffinizione (1). Colui che manca a queste regole non offende solo la divinità
e non viola solamente il buon costume, ma viene meno ad obbligazioni, che sono
imposte dalla convivenza, cui appar tiene e si sottrae cosi alle esigenze della
vita sociale. Fra i fatti irreligiosi ed immorali viene così formandosi una
categoria di fatti umani, in cui appare soltanto in seconda linea l'offesa alla
religione ed alla morale, mentre viene ad essere evidente sopratutto l'offesa
(1 ) Servius, In Aen . 7.601: « VARRO valt morem esse communem consensum omnium
simul habitantium , qui inveteratus consuetudinem facit » . Del resto questo
passaggio del costume, che ha carattere morale , in consuetudine, che ha
carattere giuridico, è indicato anche da molti passi dei classici
giureconsulti, che possono trovarsi raccolti nell'Heumann, Handlexicon zu den
Quellen des römisches Rechts. Jena, 1879, Va Mos e Consuetudo. - 105 alla
comunanza , a cui altri appartiene e il danno che vengono a soffrirne gli altri
membri della comunanza (1 ) . Di qui la conseguenza, che comincia già ad
operarsi, nel seno delle comunanze anche patriarcali, comeuna specie di
selezione, per cui dal complesso dei precetti religiosi e morali se ne vengono
sceverando alcuni, che assumono il carattere giuridico propriamente detto . Na
turalmente questo lavoro di selezione non può ancora spingersi molto oltre,
fino a che trattasi di una comunanza, che adempie a funzioni domestiche,
religiose e civili ad un tempo; ma intanto già comincia ad avvertirsi il
carattere particolare di certi precetti, che appariscono più rigidi di quelli
puramente morali e religiosi, per ot tenere l'adempimento dei quali non può più
bastare una sanzione meramente religiosa , né la disistima generale , ma vuolsi
una specie di sanzione coattiva da parte della intiera comunanza e
dell'autorità che la governa. Al modo stesso , che già fra le genti e le tribù
si vengono gradatamente svolgendo quelle arces, quegli oppida, quei
conciliabula , quei fora , che sono il primo nucleo , intorno a cui verrà poi a
svolgersi l'urbs e la civitas; cosi, anche frammezzo ad una con vivenza , i cui
precetti hanno ancora sopratutto un carattere religioso e morale, già
cominciano a presentarsene alcuni, che assumono un carattere civile e politico
. Che anzi, per continuare nello stesso pa ragone, al modo stesso che la città,
limitata dapprima ad essere il rifugio degli abitanti dei villaggi, viene poi
ad essere il luogo, ove si amministra la giustizia e si tengono le riunioni, e
viene infine ad abbracciare nella sua cerchia anche le abitazioni private , e a
sot trarre all'organizzazione domestica e gentilizia tutte quelle funzioni di
carattere civile e politico, a cui essa prima adempiva; così anche (1) Questo
concetto , per cui chi manca al diritto offende non solo l'individuo , ma reca
un danno alla intiera comunanza , che ora noi diremmo danno sociale , è un con
cetto profondamente sentito dai Romani primitivi, il quale ebbe ad essere
variamente espresso dai poeti latini. Basti riportare dall'Henriot, op. cit .,
vol. III, pag. 10 e segg. questi versi di Pubblio Siro : Multis minatur, qui
uni facit iniuria : Tuti sunt omnes, ubi defenditur unus ; Omne ius supra omnem
iniuriam positum est ; e quello di Orazio : « nam tua res agitur, paries quum
proximus ardet » , come pure le frequenti scene di Plauto e di TERENZIO, in cui
una persona ingiuriata chiama gli altri testi in testimonio e chiede aiuto con
formole, che hanno una precisione giuridica : « Obsecro vos, populares, ferte
misero atque innocenti auxilium » , ovvero : Obsecro vestram fidem , subvenite
cives » . - 106 - questo primo nucleo di precetti giuridici, che negli inizii
abbisogna ancora dell'appoggio della religione e del costume e si modella sul
fas, viene col tempo accrescendosi sempre più , e richiamando a se una quantità
di precetti, i quali nell'organizzazione anteriore non avevano che un carattere
religioso e morale . Per tal guisa il ius viene in certo modo accrescendosi a
spese degli elementi, da cui si è staccato; quando poi sentesi forte abbastanza
per procedere per proprio conto , afferma senz'altro la propria indipendenza, e
assume, per opera sopratutto dei Romani, un processo tutto speciale nel proprio
svolgimento , che chiamasi appunto iuris ratio, mediante cui finisce per
qualche tempo per isolarsi anche troppo da quegli elementi, da cui ricavò il
suo primitivo nutrimento . Quel carat tere pertanto di rigidezza , che suole
condannarsi nel diritto primi tivo dei Quiriti, è la miglior prova della sua
potenza ed energia ; perchè indica come l'elemento giuridico ormai fosse giunto
a tale da potersi svolgere senza più tener conto delle considerazioni reli
giose e morali, al modo stesso che la città, teatro del suo svolgi mento, ormai
era pervenuta a tale da cercare ancor essa di spo gliarsi di ogni traccia della
influenza gentilizia e patriarcale. 85. Questo è poi degno di nota , che anche
quando il ius viene ad affermare la propria esistenza separata continua pur
sempre a svolgersi sotto due forme, che corrispondono alle due sorgenti da cui
esso ebbe a derivarsi. Havvi infatti la parte, in cui il diritto cerca in certo
modo di imitare la solennità del fas, ed è quella in cui esso viene ad essere rivestito
della forma di lex ; quando cioè il popolo, interrogato dal magistrato , dà una
forma solenne ed espressa alla propria volontà (iubet atque constituit) ,
creando cosi il ius legibus introductum . Intanto si mantiene sempre un altro
aspetto del ius, in cui la volontà collettiva del popolo si manifesta nella
formazione lenta delle proprie consuetudini, che i Romani conside ravano come
il frutto di una tacita civium conventio ( ius moribus constitutum ). Ad
ognimodo però il ius, prenda esso il carattere di una regola , che il popolo
pone a sè stesso, o di una norma, che for misi tacitamente nel costume, è pur
sempre il frutto di un ac cordo espresso e tacito dei cittadini, e deve essere
considerato come l'espressione di una volontà comune, che si sovrappone alla
volontà dei singoli individui. Finchè esso è in via di formazione può essere
argomento di discussioni, le quali hanno luogo nelle riunioni meno solenni del
popolo, che chiamansi contiones ; ma allorchè la - -- 107 legge viene ad essere
posta e costituita con quei riti solenni, che accompagnano i comizii, la vox
populi viene ad essere considerata come vox dei, e debbono ubbidirvi tutti
coloro, che cooperarono a formarla , non eccettuati quelli che erano di avviso
contrario . Vi ha di più, ed è che accanto a questo dualismo se ne delinea ben
presto un altro , per cui distinguesi una parte del diritto , che si riferisce
all'interesse generale della comunanza, e chiamasi ius publicum ; e una parte
invece, che si riferisce all'interesse parti colare delle famiglie e delli
individui, che entrano a costituirla , e chiamasi ius privatum . Il primo si
forma sulla piazza e nel foro, fra gli urti ed i conflitti delle varie classi,
lascia le sue traccie nella storia politica della città, e si esplica mediante gli
accordi e le transazioni, cheavvengono fra patriziato e plebe; mentre l'altro
viene elaborandosi pressochè tacitamente nella coscienza generale del popolo, e
trova i suoi interpreti nei pontefici dapprima e nei giu reconsulti più tardi.
Intanto però l'uno e l'altro sono in certa guisa atteggiamenti diversi di un
medesimo diritto, in quanto che il di ritto pubblico è in certo modo il
palladio , sotto la cui protezione può nascere e svolgersi il diritto privato
(1). 86. Insomma al modo stesso , che l'urbs fu il frutto di una lenta
formazione, mediante cui si vennero sceverando dalle abitazioni pri vate gli
edifizii aventi pubblica destinazione, e che il formarsi della civitas e del
populus si dovette al raccogliersi e al riunirsi di tutti gli uomini (viri) che
col braccio o col consiglio potevano provve dere alla difesa ed all'interesse
comune ; cosi anche la formazione del diritto primitivo deve essere attribuita
ad una specie di elabo razione, che venne operandosi nella coscienza generale
di un po polo, e all'attrito dei varii elementi, che entravano a costituirlo ,
(1) È da vedersi, quanto alla distinzione fra diritto pubblico e privato, il
Savigny, Sistema del diritto privato romano, vol. 1', $ IX , trad. Scialoia,
pag . 48 e segg. Sopratutto importa il notare, che il diritto pubblico e il
privato, nel concetto romano, sono due atteggiamenti diversi del medesimo
diritto (duae positiones), e non deve essere dimenticato il detto, che Bacone
certo ricavò dallo spirito del diritto romano, secondo cui « ius privatum sub
tutela iuris publici latet », De augm . scient., lib . VIII, proem . al
trattato de iust. univ., afor. 3. Quanto alle altre suddistinzioni, che
presentansi nel campo del diritto, è da consultarsi il Voigt, Die XI] Tafeln ,
I, pag . 115 a 124, come pure lo stesso autore, Das ius naturale, gentium etc.
Leipzig , III, A , pag. 347. 108 mediante cui da tutti gli elementi etici e
religiosi, che già si erano formati durante il periodo gentilizio , si vennero
sceverando tutti quelli , che potevano ritenersi indispensabili per il
mantenimento della convivenza civile e politica. La città insomma che, piccola
dapprima e limitata a pochi edifizii, si venne però sempre ingran dendo a spese
delle comunanze di villaggio, che erano entrate a costituirla , deve essere
considerata come il crogiuolo , in cui si get tarono indistintamente tutti gli
elementi della vita patriarcale, per sceverarne ed isolarne quella parte, che
aveva un carattere essen zialmente giuridico , politico e militare. Fu questa
una specie di chimica scomposizione, che un popolo mirabilmente atto a
sceverare nel fatto umano tutto ciò, che in esso si presenti di giuridico, e a
concretarlo in forme tipiche e precise, venne in certo modo com piendo a
benefizio del genere umano. Espresse quindi una grande verità il poeta
coll'esclamare : Fuit sapientia quondam Publica privatis secernere sacra
profanis (1); poichè tale veramente fu il compito delle città primitive e
quello sopratutto di Roma. 87. Il nucleo di questi precetti, di carattere
esclusivamente giuri dico , fu dapprima assai scarso , e si ridusse a quel poco
che una città , ancora nei proprii esordii, poteva sottrarre ad
un'organizzazione come la gentilizia , che ancora aveva tutta la sua vitalità
ed energia . Poscia però col crescere della città , coll'estendersi delle sue
mura , col fondersi insieme degli elemeuti, che entravano a costituirla ,
coll'in corporarsi di nuovi elementi nel populus , quel ius, che prima aveva
solo una posizione subordinata , si cambiò invece in tutore e custode della
vita pubblica e privata , e fu riconosciuto come sovrano nel seno della
comunanza civile e politica. Fu allora che, consapevole della propria forza e
dell'ufficio , che gli era affidato , si riaccostò di nuovo a quell'elemento
religioso e sopratutto etico , da cui aveva dovuto disgiungersi, allorchè nel
periodo della propria formazione non riconosceva più altra guida, che una
logica esclusivamente giu ridica (iuris ratio ) . Di qui intanto deriva la
conseguenza, che Roma, pur ricevendo ( 1) HoR ., Ars poetica . 109 le proprie
istituzioni dal passato , ci fa però assistere alla formaz one lenta e graduata
di un diritto, che venne adattandosi alle esigenze della convivenza civile e
politica , e differenziandosi sotto molteplici aspetti. Questo diritto tuttavia
può essere logicamente spiegato in tutto il suo processo , ed anche nelle
distinzioni che comparvero in esso , in quanto che è stato veramente una
costruzione logica e coe rente in tutte le sue parti, che venne svolgendosi «
rebus ipsis dictantibus et necessitate exigente » . 88. Che questo sia stato
veramente il processo , con cui si esplicó il diritto in Roma, risulterà poi
con tanta evidenza dallo svolgersi della comunanza romana, che per ora non
occorre altra dimostra zione. Bensi importa, ed è assai più difficile
determinare, quali siano i rapporti, che primi ebbero ad assumere un carattere
giuridico, e quali siano stati gli aspetti essenziali, sotto cui si presentó
questo primitivo diritto presso le antiche genti italiche. Finchè noi siamo
nelle mura domestiche e nel seno della fa miglia la religione comune, la
riverenza verso il proprio capo, il suo carattere patriarcale, il suo potere
pressochè senza confini, non che l'autorità moderatrice di quel consiglio o
consesso di parenti, da cui egli è circondato , creano un'organizzazione di
tale natura, che può bastare a qualsiasi emergenza, senza che occorra perciò di
ri correre al diritto propriamente detto . Che anzi, se il diritto cer casse di
penetrare nelle mura domestiche, la fiera indipendenza dei padri riguarderebbe
ciò come una violazione del proprio domicilio ed una usurpazione della propria
autorità , come lo dimostra ancora il padre dell'Orazio , uccisore della
sorella, allorchè osserva che se il proprio figlio non avesse a ragione uccisa
la sorella (iure caesam ) sa rebbe toccato a lui di provvedere (1). Se quindi
la moglie, i figli, gli schiavi manchino a quei doveri, che sono fissati dal
costume e con sacrati dalla religione, sarà il padre stesso , che sarà vindice
dei loro (1 ) Liv., Hist., I, 24. Di qui si può' raccogliere, come non possa
ammettersi l'o pinione di coloro , i quali vorrebbero senz'altro attribuire ai
re, come primimagistrati di Roma, la giurisdizione per giudicare di qualsiasi
misfatto. V. CLARK's, Early roman law , pag. 54 - 108. Deve invece ritenersi a
questo riguardo col MuiruEAD , Histor. Introd ., pag. 69 e seg., che la
giurisdizione criminale del re o magistrato venne gradatamente svolgendosi
frammezzo alla giurisdizione dei capi di famiglia , e a quella che apparteneva
alle singole genti, quanto ai delitti , che erano commessi da membri, che
entravano a costituirle. 110 falli , salvo che in certi casi di maggior gravità
, come quando trat tisi della moglie adultera , non stata sorpresa in
flagrante, egli dovrà circondarsi del tribunale domestico e pronunziare la
condanna, dopo averne sentito l'avviso . Allorchè poi l'azione, che recò danno
altrui, sia stata compiuta da un altro capo di famiglia, o da persona soggetta
al potere del medesimo, sarà fra i due capi di famiglia, che la questione dovrà
essere risolta , e se quest'ultimo non intenda di riparare il danno arrecato
dal suo dipendente, non avrà nulla di ripugnante al modo di pensare dell'epoca
, che egli consegni la per sona, che ha recato il danno, al capo di famiglia,
che ebbe a soffrirlo, mediante l'antichissimo istituto delle noxae deditio (1).
Cosi pure (1) È noto a questo proposito come nell'antico diritto, distinguasi
fra noxia e noxa, per cui mentre il vocabolo noxia in sè avrebbe significato il
danno, veniva anche dai poeti adoperato per significare la colpa , mentre il
vocabolo noxa si adope rava per significare il peccato, il delitto, ed anche la
pena di esso ; donde la espres sione di noxae deditio , la quale trovava poi
una larga applicazione, tanto nei rap porti fra i capi di famiglia , quanto
eziandio nei rapporti fra le varie genti e tribù, come si vedrà trattando del
ius pacis ac belli nel periodo gentilizio. V. Festo, vº Noxia (Bruns, Fontes,
pag. 346). Intanto dalla estesa comprensività del vo cabolo di noxa o di nocia
, nella sua significazione primitiva , parmi di poter infe rire con fondamento,
che nelle origini uno stesso vocabolo significò ad un tempo la colpa , che
cagionava il danno, e il danno, che derivava da essa , e che non dovette
esservi distinzione fra colpa e danno di carattere civile e colpa e danno di
carattere penale, come neppure dovette distinguersi fra colpa contrattuale ed
extra-contrat tuale od aquiliana. I concetti e i vocaboli sono sinteticamente
potenti nel diritto primitivo, sopratutto romano , ed è solo col tempo, che in
essi si osservano quegli atteggiamenti diversi, che costituiscono poi
altrettante configurazioni giuridiche di un unico concetto fondamentale. Un
altro carattere del diritto primitivo si è anche questo, che esso prende di
regola le mosse da un vocabolo di significazione mate riale, e poi gli
attribuisce una significazione sempre più estesa e perfino traslata . Abbiamo
un esempio di ciò nel vocabolo rupere, che nella sua significazione primi tiva
dovette certo significare il rompere materialmente un membro, od altra cosa ;
ma fu poscia recato ad una significazione traslata , attestataci da Festo , per
cuiru pere significa damnum dare, al modo stesso che rupitias e ruptiones
finiscono per significare ogni maniera di danno. È uno dei processi più
consueti nel diritto primi tivo di Roma, quello per cui una volta formato un
concetto od un vocabolo giuridico non si teme di estenderlo a tutte le
configurazioni affini. Come si estese il parrici dium ad ogni uccisione di un
uomo libero, il che si vedrà più sotto ; così il membrum rupere o la rupitias,
essendo stato il danno, che prima ebbe ad essere configurato giuridicamente,
passò poi ad indicare qualsiasi danno. Rimando in proposito al dot tissimo
lavoro del collega G. P. Cuironi, La colpa nel diritto civile odierno. Torino,
1887, 2 vol. Di quest'opera credo di poter dire, senza offendere la modestia
dell'a mico, che servirà a rimettere in onore fra noi quel mirabile magistero,
che ha fatto la - 1 - 111 gli è tenendo conto della posizione rispettiva , in
cui in questo pe riodo si trovano due capi di famiglia , che si può comprendere
il nascere e lo svolgersi di certe procedure, che più tardi appariscono strane
e pressochè incomprensibili. Tale è, per dare un esempio, quella del furtum
lance lincioque conceptum , in cui abbiamo un capo di famiglia, che ricercando
una cosa statagli derubata può ottenere di entrare nella casa del vicino , in
cui teme sia stata nascosta; ma cid a condizione di fare anzitutto una
libazione propiziatoria ai lari della casa , in cui egli si inoltra, il che è
dimostrato dal piatto, che egli tiene fra mano (lance), e intanto deve
stringersi la persona con un cingolo (lincio ), che gli impedisca di nascondere
qualsiasi oggetto. Sembra però, che questa perquisizione domiciliare dovesse
per un senso di pudicizia arrestarsi dinanzi al cubiculum della moglie, con che
però il capo di casa giurasse che nulla di deru bato vi era stato nascosto (1).
Del resto in questa primitiva condi grandezza della giurisprudenza romana,
secondo cui, una volta che si è formata una configurazione giuridica , la
medesima non deve più essere perduta di vista nelle in definite trasformazioni
e distinzioni, che pud subire nelle vicissitudini delle legisla zioni e della
giurisprudenza , ma deve sempre essere richiamata alle proprie origini e
seguita nella sua dialettica fondamentale . L'autore tratta dei concetti di
rupere, di rupitias, di culpa nel primo volume della 2a parte, cap . I, § 1°,
della lex Aquilia , pag. 6 e segg. (1) L'Esmein in un suo recente scritto col
titolo: La poursuite du vol et le serment purgatoire, trova le traccie di una
procedura analoga a quella, che seguivasi per il furtum lance lincioque
conceptum , anche presso il popolo di Israele nel fatto di Rachele, che avendo
sottratti gli idoli di Labano, li aveva poi nascosti sotto le coperte del
cammello , sovra cui essa si era seduta; come pure nel fatto narrato da
MACROBIO , Saturnalia , I, 1, cap. VI in fine, ove si narra di un Tremellio, a
cui sarebbesi imposto il soprannome di Scrofa , perchè avendo rubata una scrofa
uccisa, aveva poi fatto sedere sopra di essa la propria moglie, e aveva
giurato, in via di purgazione, che colà non eravi altra scrofa, fuori di
quella. Ciò dimostra come questa procedura primitiva siasi naturalmente formata
presso popoli diversi ; ma non potrei convenire nell'apprezzamento dell'autore,
per cui nelle epoche primitive non si guarderebbe che all'adempimento delle
forme esteriori della procedura; poichè nel fatto stesso citato da MACROBIO,
noi abbiamo l'opinione generale, che segna a dito colui, che ricorse a
quell'ignobile stratagemma, imponendogli il soprannome di Scrofa ( V. Esmein ,
Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886, pag. 233 et suiv.). L'autore poi, il
quale avvertì che il piatto , tenuto fra mani da colui, che ricercava la cosa
derubata nel furtum lance lincioque conceptum , ricorda in certo modo la liba
zione propiziatoria ai lari e ai penati, che dovevasi fare prima di metter
piede nella casa altrui, è il Leist, Graec. Ital. R. G., pag. 241. Sul furtum
lancie lincioque conceptum è da vedersi la dissertazione del Gulli, Del furtum
conceptum se condo la legge delle XII Tavole . Bologna, 1884. - 112 zione di
cose, mancando ancora un'autorità , che siasi fatta ella stessa investigatrice
e punitrice dei misfatti, si comprendeche sia il derubato che prosegue il ladro
, il marito offeso che tenga dietro all'adultero e sorpreso l'uccida, e si
richiederà ancora lungo tempo prima che in Roma l'autorità pubblica si
incarichi direttamente della punizione di questi e di altri misfatti ( 1). Che
se la riparazione non venga ad essere accordata all'offeso , sarà anche
naturale , che impegnisi una lotta fra le due famiglie , e che associandosi
alle medesime le genti, a cui esse appartengono, il duello privato mutisi
talvolta in un conflitto fra le due genti, ed anche in una guerra fra le tribù,
di cui esse entrano a far parte . 89. Cosi è pure dei rapporti interni fra i
diversi membri, che entrano a costituire la gente, quali sarebbero i rapporti
fra il patrono ed il cliente, ed anche i doveri della ospitalità , poichè essi
cadono sotto la protezione religiosa, e le violazioni di essi sono punite me
diante la pubblica disistima, e coll'intervento dell'autorità patriar cale e
del consiglio degli anziani, custodi e vindici delle tradizioni dei maggiori.
Siccome però nella gente già vengono ad esservi di versi capi di famiglia, che
hanno una propria familia , un proprio heredium , un proprio peculium ; cosi
comprendesi come nel vicus già possano sorgere delle controversie di carattere
giuridico fra i diversi padri: controversie che talvolta possono anche essere
rese più accanite dal vincolo stesso di parentela , che intercede fra le
famiglie che appartengono alla medesima gente. È tuttavia ancora sempre
verosimile, che l'interporsi di qualche anziano , che goda la fiducia comune
dei contendenti, possa indurli ad un amichevole com ponimento ; il che spiega
come nei vici siavi sempre un luogo per il mercato, in quanto che la
distinzione del mio e del tuo già rende possibile il commercium , manon vi si
rinvenga sempre il luogo per amministrare giustizia (2). Infatti il carattere
esclusivamente patriar cale dei rapporti, che intercedono fra i membri di essa
, rendono ( 1) Ciò accade sopratutto, quanto all' adulterio , che cominciò a
formare oggetto di un iudicium publicum solo colla legge Iulia , De adulteriis,
che fu una di quelle con cui Augusto cercò , ancorchè con poco frutto, di far
rivivere il buon costume. V. in proposito l'interessante articolo dell'Esmein ,
Le délit d'adultère à Rome e la loi Iulia , De adulteriis (Mélanges d'histoire
de droit, pag . 71). (2) Quanto al vicus e al difetto , che talora trovasi in
esso di un magistrato per amministrarvi giustizia, vedi sopra pag . 67. 113
ripugnante l'idea di una vera e propria lite, non solo fra patrono e cliente,
ma anche fra i padri o capi di famiglia , che discendono dal medesimo antenato
e hanno per mettersi d'accordo fra di loro l'autorità dei proprii anziani. 90.
Nella tribù invece, già si trovano di fronte capi di famiglia , che
appartengono a genti diverse e che più non discendono dal mede simo antenato ,
nè partecipano allo stesso culto gentilizio : quindi già viene ad imporsi il
bisogno di provvedere in qualche modo all'am ministrazione della giustizia, più
non essendovi un'autorità di ca rattere esclusivamente patriarcale , che possa
imporsi ai capi di famiglia, che sono di discendenza e d'origine diversa .
Dovette quindi probabilmente essere questa necessità di provve dere
all'amministrazione della giustizia , che suggerì l'idea di una autorità
chiamata a dirigere e ad amministrare il pagus (magister pagi), la cui
primitiva destinazione è ancora indicata dai nomi di iudex e di praetor, ed
anche da quello di tribunal (derivato cer tamente da tribus), che significava
dapprima il seggio, più elevato sovra cui collocavasi quegli che era chiamato
ad amministrare giu stizia, e indicava così anche esteriormente la posizione
cospicua , in cui egli trovavasi di fronte agli altrimembri della comunanza (
1). Queste controversie intanto non possono naturalmente sorgere che fra i
varii capi di famiglia, i quali, memori delle loro tradizioni, sono dapprima
troppo altamente compresi del proprio diritto , perchè sia necessario che
intervenga una legge a dichiarare quello che loro appartenga; ma hanno
piuttosto bisogno di essere contenuti nell'esercizio violento delle proprie
ragioni e di conoscere il processo , che debbono seguire per ottenere
giustizia, senza dover ricorrere alla privata violenza . È questo il motivo,
per cui presso tutti i popoli primitivi la prima forma che giunse ad assumere
il diritto fu quella dell'actio , che è il complesso degli atti e dei riti
solenni, che si debbono compiere per far valere il proprio diritto davanti al
magistrato : atti e riti solenni, che presso genti come le latine, le quali
imitano coi gesti e coi riti (1) La posizione elevata del tribunal, sovra cui
trovasi assiso il magistrato, perchè « sedendo quiescit animus, et sedendo ac
quiescendo fit animus prudens » trovasi soventi accennata dai poeti latini,
come indizio della dignità , a cui era assunto colui, che era chiamato ad
amministrare giustizia. V. Henriot, Mæurs juridiques et judi ciaires de
l'ancienne Rome, III, pag. 14 et suiv.). G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 8 114 giudiziarii, ciò che un tempo dovette seguire nei fatti, finiranno
per contenere una storia simbolica dei varii stadii, per cuidovette pas sare
l'amministrazione della giustizia, prima di giungere ad essere accettata e
riconosciuta dallo spirito fiero ed indipendente dei primi capi di famiglia .
91. Che se si volesse spingere anche più oltre questa ricostru zione del
diritto primitivo, che ebbe a svolgersi nel seno della tribù, potrebbe
affermarsi con certezza , che le due prime figure di rei, contro cui la
giustizia umana abbia dovuto associare i proprii sforzi colla giustizia divina
e colla esecrazione della generale opinione , do vettero essere quella del
parricidas e del perduellis. Ivi infatti è sopratutto l'uccisione del padre di
famiglia , che per il carattere pa triarcale della comunanza viene ad essere
considerato come padre rimpetto a tutti i membri di essa, i quali talvolta
continuano ancora a chiamarsi col nome di fratelli (1), che è il grande
misfatto contro le leggi divine ed umane, il quale pudmettere in lotta le
famiglie fra di loro , ed anche rimanere impunito , quando l'autorità comune
non si mettesse in movimento contro di esso. Nèripugna al carat tere della
comunanza patriarcale, che la punizione del parricida acquistasse in certo modo
un carattere tradizionale e fosse accom pagnata da certe pratiche, che possono
anche avere un significato simbolico , e che potrebbero anche essere state
portate dall'Oriente. Tali sono quelle, che più tardi ancora accompagnano la
punizione del parricida ; pratiche tradizionali, che anche oggi in parte
sopravvi vono e non possono dirsi compiutamente abbandonate anche presso le
nazioni civili (2 ). Così pure dovette essere un processo del tutto natu (1)
Questa circostanza , che tutti i membri della comunanza patriarcale si chiamino
fratelli, è attestata dal Sumner MAINE quanto al villaggio Indiano: The early
hi story of institutions, pag. 238, e qualche cosa di analogo dovette accadere
ancora nella tribù italica , ove non vi ha dubbio, che i capi di famiglia erano
generalmente indicati col vocabolo di patres ; poichè di questo stato di cose
rimasero ancora le traccie in Roma primitiva . (2) È nota la punizione
tradizionale contro il parricida, ricordata ancora nella L. 9 , Dig. (48 , 9)
Poena parricidii more maiorum haec instituta est, ut parri cida , virgis
sanguineis verberatus, deinde culleo insuatur cum cane, gallo gallinaceo et
vipera et simia ; deinde in mare profundum culleus iactatur » . Qui il giurecon
sulto lascia travedere, che la pena del parricidio era stata conservata nel
costume e trasmessa per via tradizionale (more maiorum ). Essa pertanto dopo
essersi man tenuta nel costume più che nella legge, contro i parricidi in senso
stretto, ebbe poi ad essere sanzionata dalla lex POMPEIA, De parricidiis. 115
rale, che condusse l'opinione generale di una comunanza patriarcale a ravvisare
un nemico in colui, che gettava la perturbazione nella comunanza stessa e si
disponeva a tradirla coi nemici di essa ; co sicchè non dubitarono di applicargli
il nome stesso , che davano al nemico , con cui erano in guerra, il qual nome
era quello appunto di perduellis. Cið intanto darebbe una spiegazione molto
proba bile e naturale del fatto, che fece meravigliare gli stessi Romani, per
cui Romolo prima e Numa dopo avrebbero chiamato col nome di par ricidas anche
l'uccisore di un uomo libero, non che di quello per cui le prime e sole
autorità incaricate di perseguire e punire i mi sfatti in Roma primitiva
avrebbero assunto il nome di quaestores par ricidii e di duumviri
perduellionis. Anche qui la legislazione della città avrebbe cominciato dal
riconoscere come pubblici reati quelli, che già avevano cominciato ad assumere
questo carattere nello stesso periodo gentilizio , e a questi sarebbe poi
venuta aggiungendo man mano quelli la cui repressione appariva necessaria ;
madi ciò si avrà campo a discorrere lungamente in luogo più opportuno (1). 92.
Ma vi ha di più , ed è che nella tribù , come noi abbiamo visto a suo tempo,
già si incomincia la formazione di due ordini diversi di persone, che sono i
patrizi e i plebei, i quali ultimi più non entrano nei quadri
dell'organizzazione gentilizia , ma già cominciano ad es sere indipendenti dal
patriziato , sebbene ancora si trovino in con dizione assai inferiore e non abbiano
potuto ancora dimenticare la loro antica origine servile. Di fronte a questa
condizione parmi non sia temeraria la conget tura, che mi permetto di
avventurare, secondo cui, nel periodo della tribù e nel seno del pagus, non
dovette soltanto cominciarsi lo svol gimento dell'elemento giuridico, ma questo
diritto primitivo dovette assumere due forme essenziali ; in quanto che altro
dovette essere il diritto , che governava i rapporti fra i padri, che
appartenevano alla stessa comunanza gentilizia, ispirato all'idea della loro
parità ed uguaglianza di condizione; ed altro invece il diritto , che venne a
svolgersi nei rapporti, che necessariamente dovettero stabilirsi fra l'ordine
superiore dei padri e quello inferiore della plebe , il quale non potè a meno di
ritenere qualche traccia della superiorità che (1) La questione del parricidium
e della perduellio sarà trattata nel lib. II, di scorrendo delle leges regiae.
116 si attribuivano i primi e dell'inferiorità di condizione, in cui sape vano
di trovarsi i secondi. È solo col dare la debita parte a queste due forme del
diritto primitivo, le quali del resto trovano la loro base nelle condizioni di
fatto dei due ordini, che si possono spiegare certe istituzioni pri mitive del
diritto romano, quali sarebbero quelle del mancipium , del nexum , della manus
iniectio e simili; le quali, a mio avviso, come dimostrerà a suo tempo, sono
tutte forme giuridiche, che non trovarono applicazione nei rapporti fra i padri
e i loro discendenti patrizii, ma soltanto nei rapporti fra i patrizii ed i
plebei. Se si comprende infatti che un plebeo, il quale non aveva dapprima
altra garanzia da dare che quella della propria persona, fosse co stretto a
dare a mancipio sè stesso o la propria figliuolanza, o ad obbligarsi con quella
severità , che era propria del nexum primitivo , e che il patrizio
insoddisfatto potesse mettere la mano sopra di lui e trascinarlo nel suo
carcere privato , mediante la procedura della manus iniectio ; questi modi di
procedere non si possono invece comprendere fra due capi di famiglia
appartenenti alle genti pa trizie. Nè serve il dire, che queste istituzioni
passarono poi effet tivamente nel diritto quiritario ; poichè anche questo fu
l'opera dei patrizii, i quali, dettandolo, avevano sopratutto per iscopo di
gover nare e di reggere le plebi. Di più è un processo del tutto romano quello
per cui, quando si è creato un vocabolo o un concetto, non si dubita di
trapiantarlo in condizioni anche diverse da quella in cui ebbe a formarsi ( 1
). Sarà quindi opportuno tentare la ricostruzione dell'una e dell'altra forma
di questo primitivo diritto per trovare in esso la spiegazione alcune
singolarità del tutto peculiari al diritto quiritario . (1) Lo svolgimento di
questa teorica può vedersi in questo stesso libro Capo X , ove si tratta
appunto di alcuni primitivi concetti del diritto quiritario. . T 117 - CAPITOLO
VI. Il diritto primitivo delle genti patrizie. $ 1. Di alcuni caratteri
generali del diritto primitivo delle genti patrizie. 93. I giureconsulti
classici col dire che il ius hominum causa constitutum est, enunciarono una
verità , che trova una piena con ferma nei fatti , quando seguasi il processo ,
con cui il diritto primi tivo vennesi formando fra le genti del Lazio . Credo
di aver dimostrato , che finchè trattavasi di persone, che appartenevano al
medesimo gruppo, il fas, il mos e l'autorità pa triarcale, stabiliti in seno
delle varie aggregazioni, potevano bastare a qualsiasi emergenza. Così invece
non era, allorchè i capi di fa miglie, appartenenti ai diversi gruppi, venivano
a mettersi in rapporto fra di loro ; poichè in allora , mancando la comune
discendenza e l'autorità patriarcale di un capo, conveniva di necessità porre
le reciproche obligazioni sotto l'impero di un comune diritto. Di qui
provennero alcuni caratteri importantissimidel diritto primitivo, che possono
spargere molta luce sulla formazione del diritto quiritario , e dileguare una
quantità di sottigliezze, che furono immaginate per spiegare quel diritto ,
senza cercarne la causa nelle condizioni sociali, che ne determinarono la
formazione. 94. Il primo di tali caratteri sta in questo, che i rapporti giuri
dici, nel vero senso della parola , sorsero dapprima fra i capi di gruppo ,
anzi che fra i singoli individui, che erano assorbiti ed uni ficati nel
medesimo. Di qui le solennità, che dovevano necessaria mente accompagnarne gli
atti, come quelli che non riguardavano gli interessi particolari di questo o di
quell'individuo ; ma si riferi vano all'interesse dell'intiero gruppo da lui
rappresentato , e così avevano, per usare il linguaggio moderno, un'importanza
pressochè internazionale. Non fu pertanto amore di formalismo, che guido un
popolo così eminentemente pratico, come il romano, nella forma zione del
proprio diritto ; ma questo , nei suoi esordii apparve ingombro di formalità e
d i finzioni, solo perchè , dopo essere stato preparato in un periodo di
organizzazione sociale, fu trapiantato 118 in un altro dallo spirito
conservatore del popolo romano. Anzichè archittettare formalità artificiose, i
romani si valgono invece di quelle, che si erano formate nella realtà dei fatti
in un periodo anteriore, e con piccole modificazioni, che sono rese necessarie
dalle nuove esigenze, fanno entrare in esse i rapporti, che si vengono
svolgendo più tardi nella comunanza civile e politica (1). Nel che se guono un
processo, che non abbandonarono neppure più tardi; quello cioè dinon creare
giammai una forma novella, finchè quella già prima (1) Il formalismo è certo
uno dei caratteri più salienti del diritto primitivo di Roma. Si comprende
quindi, che gli autori contemporanei se ne siano largamente occupati e fra gli
altri il SUMNER Maine, L'ancien droit , Chap. II, in cui si oc cupa delle
finzioni legali, e sopratutto poi il JHERING , che ebbe a dedicarvi buona parte
del III volume della sua opera : L'esprit du droit Romain , da pag. 109 fino al
fine. La conclusione, a cui sarebbero venuti questi autori, sarebbe,che questo
forma lismo del diritto primitivo di Roma debba essere attribuito alla
predilezione del popolo romano per l'elemento esteriore ; carattere, che Roma
avrebbe comune con tutti i popoli primitivi, e proveniente da ciò , che i
medesimi riguardano più alla forma che alla sostanza. Senza voler qui entrare
in una discussione, che mitrarrebbe troppo in lungo, mi limito unicamente ad
osservare, che il formalismo non è un fenomeno, che comparisca presso i popoli
veramente primitivi;ma che esso compare soltanto, al lorchè istituzioni
formatesi in un'epoca si trasportano in un'altra, in cui più non si comprenda
la significazione delle medesime. Dei popoli primitivi non si può dire , che
essi siano amici della formalità ; perchè essi cercano di esprimere ciò che
sentono col gesto, cogli atti e colle parole ad un tempo, e quindi hanno una
mimica , la quale, anzichè essere artificiosa ed architettata , tende ad essere
l'espressione effettiva e reale delle loro sensazioni ed emozioni. Quindi il
formalismo, anzichè essere l'indizio di un popolo primitivo, è invece l'effetto
dello spirito conservatore, che trasporta forme create in un periodo ad un
altro, in cui esse hanno perduto qualsiasi significazione . Tutte le forme, che
si conservano come tali, sono sopravvivenze di un'epoca trascorsa , che sono
trapiantate in un'altra , la quale più non le capisce, e quindi si limita ad
osservarle pressochè materialmente. Ciò accade nella religione, nella morale ,
nel di ritto, e accadde certamente nel diritto di Roma, il quale, se diventò
formalista, fu perchè il patriziato romano volle conservare le vestigia del
passato e fare entrare nelle forme preparate nel periodo gentilizio i nuovi
rapporti , che erano creati dalla convivenza civile e politica. Non è quindi da
ammettersi, che la forma esteriore del diritto si elabori prima della sostanza
di esso ; nè che i popoli primitivi diano maggior importanza alla forma, che
alla sostanza. Forma e sostanza invece si presentano dapprima indissolubilmente
congiunte, ed è solo più tardi, allorchè si vorrebbero conservare le forme
antiche, e fare entrare nelle medesime una sostanza nuova , che si viene alla
conseguenza, per cui a forma dat esse rei. » Ciò che accade nel diritto,
avverasi eziandio nel linguaggio, il quale nella sua prima formazione adatta la
parola al concetto; il che non impedisce perd , che più tardi, trasportandosi
la stessa parola ad un altro concetto, si venga alle significazioni traslate ,
la cui origine può talvolta essere poi difficilmente compresa . 119 esistente
possa ancora bastare al bisogno. Del resto non può neppure dirsi, che negli
inizii di Roma questo diritto fosse veramente disac concio, dal momento che
allora soltanto si usciva da una condizione di cose , in cui il padre
rappresentava effettivamente quel complesso di persone e di cose , che
dipendevano da esso . Quindi era natu rale, che per qualche tempo il diritto
primitivo conservasse quel medesimo carattere, che aveva acquistato durante il
periodo genti lizio ; solo cominciò a diventare artificioso e disadatto alle
nuove condizioni sociali il diritto primitivo di Roma, quando al padre si venne
sostituendo il cittadino, e più ancora quando al cittadino si sostitui l'uomo
libero. Del resto non è poi difficile il ricostruirsi nel pensiero
un'organizzazione, in cui sia veramente il padre, che compia tutto ciò, che si
riferisce al gruppo da lui rappresentato , per guisa, che esso sia padre quanto
ai figli, padrone quanto ai servi, patrono quanto ai clienti, e rappresenti il
gruppo da lui governato , ogni qualvolta trattasi di entrare in rapporto con
altri gruppi. Di questo padre antico ci hanno conservato la imponente figura
non tanto gliscrittori di cose giuridiche, che lo irrigidiscono di troppo
perchè lo riguardano sotto l'aspetto esclusivamente giuridico ; ma gli altri
scrittori latini, allorchè ci dipingono, ad esempio, Appio Claudio, capo di una
grande famiglia , custode geloso dell'antico costume, il quale continua,
ancorchè vecchio e cieco, ad esercitare, venerato e temuto ad un tempo, la
propria autorità sui figli, sui servi, e sopra un nu mero grandissimo di
clienti ( 1). Del resto anche il diritto lascia di quando in quando travedere
quest'aureola patriarcale , che circonda il capo di famiglia , come lo
dimostrano le seguenti parole attribuite ad Ascanio : « Moris fuit,unumquemque
domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quod
appareret quid quisque de reditibus suis, quid de arte, de foenore lucrove sepo
suisset, et quo die, et quid idem sumptus damnive fecisset.» (2 ). Tuttavia
anche questa descrizione tende già a dare all'autorità del padre un carattere
essenzialmente giuridico;mentre invece , riportan doci al periodo gentilizio ,
questa figura primitiva presentasi anche (1) Cic., Cato maior, II , 37. È poi
sopratutto nei poeti latini, e specialmente nei comici, come Plauto, che si può
facilmente scorgere la differenza fra la patria po destà, quale era
giuridicamente concepita é quale invece esisteva nel fatto. È da vedersi in
proposito l'Henriot, Moeurs juridiques et judiciaires de l'ancienne Rome, tome
1er , pag. 347 a 356 . (2 ) V. Bruns, Fontes juris romani antiqui. Edit. V ,
Friburgi, 1887 , pag. 397 . 120 più imponente col suo carattere patriarcale e
religioso ad un tempo ; e quindi si può comprendere come l'acceptum ,
l'expensum , lo spon sum , lo stipulatum , l'actum , il iussum del capo di
famiglia si cam biassero in altrettanti atti solenni, che diventarono poi il
substratum di altrettante configurazioni giuridiche in un periodo posteriore
(1). 95. Un secondo carattere poi sta in questo , che il diritto primitivo
presentasi fra questi capi di famiglia appartenenti a genti e a tribù diverse ,
come il solo mezzo per stabilire e mantenere la pace fra i medesimi. Se infatti
il suo impero non fosse riconosciuto non avreb besi altro espediente , che
quello di ricorrere alla manuum consertio , la quale, allargandosi dalla famiglia
alle genti, e da queste alle tribů , manterrebbe le medesime in uno stato di
guerra permanente, i cui ran cori si verrebbero poi perpetuando di generazione
in generazione (2). (1) Accenno qui ad un concetto, che sarà svolto più
largamente altrove. Diregola si suol cercare nel diritto quiritario il
complesso di tutti gli atti e dei negozi giu ridici, che potevano essere
richiesti dalle condizioni sociali del popolo, fra cui esso vigeva. Esso invece
non comprese dapprima tutti i rapporti giuridici, che già esi stevano nel
costume e nella consuetudine ; ma cominciò dal comprendere quelli, che erano
resi più urgenti dalle esigenze della vita civile e politica. Fu in questo
modo, che esso comincia dall'essere un ius quiritium , che si aggira su
pochissimi concetti fondamentali, i quali si adattano a tutte le possibili
evenienze; poi trasformasi nel ius proprium civium romanorum ; quindi
assorbisce anche nella propria cerchia le istituzioni del ius gentium ; e da
ultimo giunge ad informarsi persino al iusnaturale; concetti questi che, se non
avevano ancora una configurazione scientifica, vivevano però già nella
coscienza generale del popolo romano, fin dal proprio esordire nella storia .
(2) Ciò mi conferma in una antica convinzione , che ho già avuto occasione di
esporre nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale.
Lib. I, Cap. I, pag . 38 e seg., la quale consiste in ritenere, che anche nelle
epoche pri mitive il diritto non confondesi colla forza ; ma compare invece
qual mezzo per reprimere la forza e la violenza . So che questa opinione ebbe
ad essere combattuta da egregi giovani, che si occuparono dell'argomento, e fra
gli altri dallo Zocco-Rosa, Preistoria del diritto. Milano 1885, pag. 31, e dal
Puglia , L'evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura
penale, pag. 42, nota ; ma i fatti mi in ducono a persistere nella medesima.
Non è già che io neghi, che siavi stato un periodo, in cui abbia predominata la
forza e la privata violenza : ma quando pre sentasi il diritto, esso non solo
non confondesi colla forza, ma si propone senz'altro di reprimerla,
obbligandola a seguire certi processi, che ne impediscono le esagera zioni e
gli eccessi. In questo senso aveva ragione il poeta di scrivere : Nam genus
humanum . Ex inimicitiis languebat; quo magis ipsum Sponte sua cecidit sub
leges arctaque iura . Lucretius, De rerum natura, Lib . V , v . 1144-46. 121
Cid è anche dimostrato dal carattere del tutto particolare, che assu mono le
guerre in questo periodo, e che si mantiene ancora per qualche tempo nella
storia primitiva diRoma. Tali guerre infatti il più spesso prendono le mosse da
qualche controversia, di carattere pressochè famigliare, che viene poi
estendendosi mediante le aderenze e le pa rentele, e riduconsi in sostanza a
scambievoli scorrerie, che le varie tribù e genti vengono facendo nei
rispettivi loro territorii; scorrerie , che si sospendono mediante le induciae
nella cattiva stagione, e vengono poi ad essere riprese nell' anno seguente.
Ciò fece quasi credere, che queste genti primitive fossero in uno stato
perpetuo di guerra; il che non può essere ammesso , perchè è contraddetto dalle
solennità stesse, che accompagnano così le dichiarazioni di guerra, come la
formazione delle tregue, delle alleanze e delle paci, il che apparirà meglio a
luogo più opportuno. 96. Un ultimo carattere infine, sta in ciò, che la
formazione del primitivo diritto non si avvera dapprima nei rapporti interni
dei sin goli gruppi; ma piuttosto nei rapporti fra le famiglie, fra le genti, fra
le tribù, o almeno fra i loro capi, per guisa che i primi vocaboli di
significazione eminentemente giuridica contrappongono sempre l'uomo all'uomo,
ed indicano dei rapporti amichevoli od ostili, che vengono a svolgersi fra i
diversi capi di gruppo . Di qui la conse guenza in apparenza strana, ma
certamente fondata sui fatti, che la formazione di un diritto , che governava i
rapporti fra le varie genti, dovette precedere la formazione del diritto
privato propria mente detto : il che è dimostrato anche dalla considerazione,
che negli antichi scrittori si discorre dei iura gentium , prima ancora che si
discorra del ius quiritium e del ius civium romanorum . Infatti: i iura gentiun
, i foedera, le sponsiones fra i capi delle varie genti erano già rapporti, che
si erano svolti anteriormente alla formazione della comunanza romana, mentre il
ius quiritium dapprima e il ius civile più tardi nacquero e si svolsero colla
stessa città di Roma; il che appare eziandio dal processo delle cose sociali ed
umane, che ci è descritto dagli antichi poeti latini. Intanto fu sopratutto sui
mercati, ove comparivano i varii capi di famiglia , ed ove, oltre gli scambi,
si potevano anche trattare le alleanze e le paci, che cominciò la formazione di
un vero e proprio diritto ; il quale, esplicandosi fra capi di famiglia, che
appartenevano a genti diverse, e che non erano ancora soggetti al medesimo
diritto , dovette necessariamente essere dapprima piuttosto un ius gentium ,
che non un diritto , che - 122 potesse chiamarsi ius civile. Questo anzi non
potè formarsi altri menti, che col trasportare fra i cittadinidella medesima
città quelle forme, che si erano prima elaborate nei rapporti contrattuali fra
i capi delle varie genti e famiglie ( 1). Si può quindi affermare, che anche
quel diritto primitivo di Roma, che appare nella storia con caratteri di
maggior rozzezza e violenza, non trovi sempre la pro pria origine nella forza,
come molti sostengono ; ma che in parte abbia avuto invece un'origine
essenzialmente contrattuale, come la città , in cui esso era chiamato a
ricevere il suo svolgimento . Il diritto , anziché doversi confondere colla
forza, compare invece, allorchè si comincia ad uscire da uno stato di privata
violenza , e se la forza continua ancora nei rapporti fra le varie tribù, gli è
perchè esse non riuscirono ancora a sottoporsi, mediante accordo, all'impero di
un medesimo diritto . Fu solamente più tardi, allorchè la città co minciò ad
essere abbastanza forte e potente, per imporsi ai singoli gruppi, che
l'autorità civile potè penetrare eziandio nelle mura do (1) Non mi dissimulo
l'arditezza di una idea, che conduce in sostanza a dire, che si formò dapprima
il ius gentium , che non lo stesso ius civile , e che il ius quiri tium fu un
diritto, formatosi dapprima fra le genti e i loro capi, e poscia trapiantato
fra i quiriti: ma questo processo è per tal modo confermato dai fatti e ne
appari ranno man mano prove così evidenti , che mi sembra impossibile il
poterlo negare. Del resto la ragione di esso trovasi in questo, che mentre la
famiglia poteva fare a meno del diritto nei suoi rapporti interni; questo
invece era indispensabile nei rapporti fra le varie famiglie e fra le varie
genti. Che anzi , dacchè sono nel do minio delle induzioni, aggiungerò ancora ,
che ai iura gentium dovette precedere il senso di quei iura naturalia , quae
natura omnia animalia docuit ; per guisa che il diritto nel suo svolgimento di
fatto sarebbe prima uscito dalle tendenze spontanee dell'umana natura ; poi
sarebbe stato elaborato nei rapporti fra le varie genti; e solo più tardi
sarebbe comparso nell'interno della città . Esso insomma nei fatti seguì un
processo del tutto opposto a quello che seguì la scienza del diritto in Roma;
la quale cominciò invece dalle cautele del ius civile; poi venne ad abbracciare
anche l'equità del ius gentium ; e più tardi soltanto giunse ad innalzarsi
all'umanità del ius natu rale. Vi ha però questa differenza , che i iura
naturalia primitivi sono l'opera in consapevole degli istinti dell'umana natura
, e i primitivi iura gentium consistono in un complesso di pratiche fra le
varie genti, imposte dalle necessità di fatto ; mentre il ius gentium accolto
dal pretore e il ius naturale dei giureconsulti sono già nozioni astratte , a
cui essi pervennero, mediante la riflessione ed il ragiona mento, e forse
neppure da soli, quanto al ius naturale, ma col sussidio della filosofia greca
, più atta a svolgere questi concetti speculativi ed astratti. Mi rimetto,
quanto allo svolgimento del concetto di ius gentium e di ius naturale, a ciò
che ho scritto nella Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, pag
. 179 a 194 , lasciando a chi legge di notare le modificazioni, che qui sonovi
arrecate. 123 mestiche, e sostituirsi a poco a poco alle norme di carattere
esclusi vamente religioso e morale, imponendo un diritto , a cui tutti devono
inchinarsi, perchè è l'espressione della volontà collettiva e comune. $ 2 . Il
connubium e il commercium nel periodo gentilizio . 97. I caratteri del diritto
primitivo, che ho fin qui cercato di ricavare dall'esame dei fatti, appariscono
eziandio dai vocaboli più antichi, che presso le genti latine abbiano avuta una
portata ve ramente giuridica, quali sono quelli di connubium , di commercium e
di actio, e dalla significazione, che questi vocaboli ebbero ante riormente
alla formazione stessa della città . Infatti non può esservi dubbio , che tutti
questi concetti già avevano un contenuto preciso , allorchè comparve la
comunanza romana; ma essi non indicano ancora un complesso di diritti, che
appartenga a questa od a quella per sona, ma piuttosto dei rapporti, di
carattere pressochè contrattuale , che esistono fra le famiglie , le genti e le
tribù e i capi rispettivi delle medesime. La stessa actio , nel suo significato
giuridico, ha un'origine pressochè contrattuale, come lo dimostra il fatto, che
essa suppone il rimettersi di due persone ad un'autorità accettata da entrambi,
ed una reciproca scommessa fra i contendenti, con cui entrambi affermano di
essere nel buon diritto . Fu solo più tardi, che questi vocaboli, i quali
significavano primitivamente deirapporti, che inter cedevano fra le varie genti
e i loro capi, trapiantati fra i cittadini della medesima città vennero a
costituire altrettanti capi saldi, da cui si staccarono le forme essenziali,
sotto cui ebbe poi a svolgersi il diritto quiritario . È poi degno di nota,
come questi vocaboli, che primi acquista rono una significazione giuridica,
abbiano questo di particolare , che contrappongono l'uomo all'uomo, indicando
per tal modo come il diritto sia veramente nato colla società umana, e sia
chiamato ad essere il vinculum societatis humanae. Nel connubium infatti ab
biamo una persona, che esce da una famiglia per entrare in un'altra ; nel
commercium abbiamo una persona , che, obligando se stessa od alienando la sua
proprietà , addiviene a quelle molteplici relazioni di affari e di negozii
giuridici, di cui si intesse la vita sociale sotto l'aspetto economico;
nell'actio infine, abbiamo parimente una persona che, ritenendosi lesa in
questo o in quel diritto da un'altra persona, 124 - lo afferma e lo fa valere
di fronte alla medesima, appigliandosi a quei mezzi, che possono conciliarsi
colle esigenze della vita sociale . Per tal modo il ius pone l'uomo di fronte
all'altro uomo, e si può af fermare con ragione che hominum causa constitutum
est. Intanto ciascuno di questi concetti è eminentemente sintetico e compren
sivo per modo che ognuno può servire come punto di partenza a tutto un
complesso di diritti ; il che apparirà ancora , allorchè Gaio, riassumendo
l'elaborazione scientifica di molti secoli, finirà per con chiudere, che : omne
ius vel ad personas, vel ad res, vel ad actiones pertinet (1). (1) Non ignoro
come questa classificazione sia stata di recente combattuta sopra tutto in
Germania , e fra gli altri. dallo stesso SAVIGNY, il grande iniziatore del
movimento contemporaneo negli studii storici intorno al diritto, il quale
giunse fino a sostenere, che la distinzione di Gaio non aveva nè valore
storico, nè valore intrinseco . Traité de droit Romain . Trad . Guexoux, Paris
1840 , I, pag. 387 a 404. Parmi tuttavia, che chi consideri la correlazione
perfetta, che vi ha fra la classifi cazione teorica di Garo, e i concetti, da
cui il diritto quiritario ebbe a prendere le mosse, e tenga conto di quella dialettica
potente, che stringe insieme le varie parti della giurisprudenza romana,
malgrado i quattordici secoli, per cui durò l'ela borazione di essa , possa
difficilmente ammettere, che qui trattisi, come il SAVIGNY dice a pag. 390,
dell'opinione individuale di un giureconsulto, e che come tale sia priva di
qualsiasi valore storico ed intrinseco . Essa invece ha valore storico ed in
trinseco ad un tempo, perchè compenetra tutta la giurisprudenza romana ; in
quanto che sarà facile il dimostrare a suo tempo, che nel diritto civile romano
tutta la parte relativa ai diritti di famiglia e quindi alle persone non fu che
uno svolgi mento del concetto primitivo del connubium ; tutta quella relativa
alle cose non fa che una deduzione dal concetto di commercium ; e infine quella
, che si riferisce alle azioni, non fu che il frutto di un'elaborazione lenta e
non mai interrotta del concetto primitivo di actio. Cfr. al riguardo Carle , De
exceptionibus in iure Ro mano. Torino, 1873, pag . 13. L'autore , che pose
meglio in evidenza la correlazione fra connubium , commercium ed actio , fu il
LANGE, Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13, in nota . Che anzi i
giureconsulti proseguirono lo svolgimento di queste forme essenziali del
diritto, senza mai confondere lo svolgimento dialettico dell'una con quello
dell'altra; per modo che certe singolarità del diritto romano solo si pos sono
spiegare, in quanto che la dialettica giuridica non consentiva di confondere
due ordini diversi di idee. Di più se fosse qui lecito di porre innanzi una
conside razione, che potrà parere troppo filosofica , non dubito di affermare,
che nel con cetto romano la distinzione seguita da Gaio esprime tre
atteggiamenti diversi del diritto compreso in tutta la sua larghezza, il quale
appartiene alla persona, si spiega sulle cose, e infine violato affermasi
mediante l'azione. È da questa concezione sintetica e potente del diritto in
Roma, che procede la primitiva indistinzione fra il diritto personale , il
diritto reale e l'azione, che serve a difenderli. 125 98. Fra questi concetti
presentasi anzitutto quello di connubium , che nella sua significazione
primitiva indica la facoltà, che appar tiene ad individui, i quali appartengono
a genti diverse, di impa. rentarsi fra di loro, mediante quelle nozze , che dalle
genti sono rico nosciute come giuste e legittime (1). Esso ha per effetto di
mescolare le stirpi, e quindi si comprende, che nell'alto concetto, che avevano
le genti patrizie dei proprii an tenati e del sangue, che correva nelle loro
vene, questo dovesse essere un rapporto, in cui tendevano piuttosto a
restringersi, che non ad estendersi. Solo le genti, che appartenevano al
medesimo nomen, fosse questo il latino, il sabino o l'etrusco, avevano fra di
loro comunanza di connubii, il che è anche provato dalla tradi zione, secondo
cui, se i Ramnenses vollero avere il connubium coi Titienses, dovettero
ricorrere alla violenza ed alla forza ; il che perd non tolse, che il
mescolarsi del sangue delle due tribù sia stata la causa del loro successivo
affratellarsi per formare una medesima città . Furono infatti le donne di
origine sabina che (secondo una tradizione, la quale se non è vera è certo ben
trovata ) si interposero fra i mariti ed i fratelli e riuscirono così ad
affratellarli nella stessa città , dando perfino il loro nome alle curie, in
cui essa è ripar tita (2). Cosi pure si comprende, che anche fra le genti, che
ap partenevano allo stesso nomen e facevano anche parte della stessa tribù , il
connubium non potesse esistere fra i due elementi, di cui (1) È questa la
significazione primitiva , che si attribuisce al vocabolo, allorchè parlasi di
connubium fra le varie genti, o fra il patriziato e la plebe. Fu solo nel
diritto quiritario, che il ius connubië passò a significare il diritto di
addivenire alle iustae nuptiae , e venne così a dare origine a tutti quei
rapporti giuridici, che si riferiscono alla famiglia. È da esso infatti, che
deriva la manus, che fonda la fa miglia; la patria potestas, che spiegasi,
allorchè nascono dei figli ; e infine la stessa successione legittima, la quale
si avvera , allorchè , morendo il capo di famiglia , si discioglie quel gruppo,
e si riparte quel patrimonio, che in lui trovavansi unificati. (2 ) Questa
tradizione è riferita da Livio e da Dionisio : ma non sembra essere confermata
dai fatti, perchè alcuni dei nomi delle curie primitive, che giunsero fino a
noi, sembrano essere tolti più dai luoghi che dalle persone . V. LANGE, Hist.
intér. de Rome, I, pag . 48. Ad ogni modo questa è una tradizione, che se non è
vera , è certo ben trovata, in quanto che dimostra l'importanza, che dovette
avere un avvenimento che la rompeva col passato , e rendeva possibile il
connubium fra persone, che non appartenevano al medesimo nomen , preso nel
senso di stirpe e di schiatta. Fu questa prima mescolanza del sangue latino col
sabino, che rese possibile la potente attrazione esercitata da Roma su tutte le
stirpi italiche, il che è riconosciuto da CICERONE, De Rep., II, 7. 126 l'uno
in origine rappresentava la classe dei vincitori e l'altro quella dei vinti.
Non poteva quindi esservi connubio, nè fra i liberi ed i servi, nè nè fra i
patroni ed i clienti, e neppure fra i patrizii ed i plebei. Queste varie
gradazioni costituivano pressochè due caste diverse, il cui sangue non doveva
confondersi, come lo dimostrano le lunghe lotte, che si dovettero sostenere
anche più tardi per ac comunare i matrimonii fra il patriziato e la plebe ( 1).
Intanto pero questo connubium , frammezzo a genti, che costitui vano per così
dire altrettante piccole potenze , riducevasi in realtà a staccare una donna da
un gruppo, di cui prima faceva parte , per trasportarla in un altro ; il che
importava eziandio un cam biamento nel culto gentilizio , perchè essa
abbandonava quello dei suoi padri per diventare partecipe di quello del marito.
Di qui la necessità per le giuste nozze di una cerimonia religiosa, come quella
della confarreatio, a cui assistevano i capi di famiglia della gente e delle
tribù , a cui apparteneva lo sposo e la moglie , e che importava la comunione delle
cose divine ed umane (2 ). Di qui la conseguenza eziandio , che quanto era
dalla moglie recato con sè dovesse diventare ( 1) A chi chiedesse col
linguaggio ora adottato, se le genti italiche praticassero l'endogamia o
l'excogamia (V. SPENCER , Principes de sociologie, II, Chap. IV , pag. 225 a
250 ), si dovrebbe rispondere, che esse sotto un certo aspetto erano exogame,
perchè ritenevano nefarie le nozze fra persone strette da un certo vincolo di
paren tela, fra quelle persone cioè, fra cui esisteva, secondo l'antico
linguaggio , il ius osculi, ossia fino al sesto grado; mentre poi erano
endogame nel senso, che il patrizio per scegliere la propria compagna non
poteva uscire dalle genti, che appartenevano allo stesso nomen. Pare però, che
questa consuetndine tradizionale siasi modificata dagli stessi romani, i quali,
misti fin dalla origine, furono anche in seguito i più facili a me scolare il
proprio sangue con altre stirpi. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e costitu
zionale di Roma. Torino, 1881, pag. 46 . (2) Parmi allo stato attuale degli
studii incontrastabile l'opinione, che considera la confarreatio , come
esclusivamente propria delle genti patrizie. Tra gli autori re centi seguono
tale opinione : l'EsMein nella sua dissertazione: La manus , la pater nité et
le divorce , pubblicata nei Mélanges d'histoire de droit, Paris, 1886 ; il
Glasson, Le mariage civil et le divorce, Paris, 1884, pag. 154 a 180 , e pare
anche il nostro Brininel suo bel lavoro sul Matrimonio e divorzio nel diritto
romano , Bologna , 1886, pag. 49. Del resto varii indizii di questa origine
patrizia della con farreatio si hanno nel carattere religioso della cerimonia,
nei dieci testimonii che ricordano le dieci curie delle tribù , e in ciò che le
leggi regie da Dionisio attribuite a Romolo ed a Numa, non ricordano che le
nozze confarreate . V. Bruns, Fontes, pag. 6 e 9. Per ciò che si riferisce alla
famiglia romana è fondamentale l'opera dello SCHUPFER, La famiglia nel diritto
romano. Padova, 1866 . 127 proprietà del marito, o di colui, sotto la cui
potestà trovavasi ancora il marito ; e che la medesima, per entrare nei quadri
del gruppo, a cui veniva ad aggregarsi, cadesse sotto la manus del capo di
famiglia , ed acquistasse la posizione migliore, che poteva esservi nella mede
sima, che era quella di figlia ( filiae loco). 99. Viene in seguito il
commercium , il quale in questo periodo non significa ancora quel complesso di
diritti, che scaturiscono dal dominio , ma ha il suo vero e proprio significato
di rapporti com merciali,che possono intervenire fra i capi di famiglia ,
appartenenti a genti diverse ( 1). Qui il rapporto è assai più superficiale, ed
è per sua natura tale , che può essere di reciproco vantaggio per i con
traenti. Il commercium pertanto prende un più largo sviluppo ; ed esiste non
solo fra il patriziato e la plebe, fra cui era reso in dispensabile dalla
coesistenza sul medesimo suolo , ma anche fra coloro, che appartengono a stirpi
diverse . Che anzi fra queste sonvi anche le stirpi, che, per avere attitudine
maggiore ai commerci, fan nosi in certo modo intermediarie dei medesimi fra le
varie genti e tribù; il quale ufficio fra le genti italiche sembra essersi
compiuto sopratutto per opera dell'elemento etrusco . Sono questi commerci, che
vengono ravvicinando le varie genti, e conducono gradatamente a cambiare certi
siti neutrali in luoghi di riunione ad epoche de terminate e fisse
(conciliabula , fora) (2 ). È poi un grande vantaggio (1) Anche qui la
significazione primitiva del vocabolo commercium appare da ciò, che Roma fin
dagli inizii trovasi circondata da popolazioni, con cui pratica il com mercium
. È solo per opera del diritto quiritario , che il concetto di commercium ,
applicato fra i cittadinidi una medesima città, dà origine al ius commercii,il
quale poi, sviscerato negli elementi , che entrano a costituirlo, viene a
scindersi; nel ius emendi ac vendendi , che in antico operavasi colla
mancipatio ; nel nexum , da cui deriverà la teoria delle obbligazioni; e infine
nella testamenti factio, che comprende la facoltà di fare e di ricevere per
testamento, e quella perfino di essere testimonio nel medesimo. Cfr . Lange,
Histoire intérieure de Rome, I, pag. 13. Per tal modo nello svolgimento
dialettico del diritto quiritario la successione legittima e la te stamentaria
vengono a spiegarsi in un diverso ordine di idee in quanto che la prima dipende
dal connubium (V. sopra pag. 125 , nota 1), e l'altra deriva dal commercium .
Questa forse è la vera ragione della massima: « Ius nostrum non patitur eumdem
in paganis testato et intestato decessisse , earumque rerum naturaliter inter
se pugna est. » Pomp., I, Dig. (50 , 17). È proprio infatti dei giureconsulti,
che essi una volta , che hanno separato due ordini di idee, non li confondano
più insieme, il che apparirà più chiaramente altrove. (2) Secondo il SUMNER
Maine, qualche cosa di analogo sarebbe anche accaduto fra 128 per una comunanza
incipiente, se la medesima sia posta in tal sito da richiamare alle proprie
fiere ed ai proprii mercati le popolazioni vicine ; vantaggio , che fu una
delle cause , per cui Roma, diventata ben presto un emporio per il commercio
delle popolazioni latine , potè esercitare sovra di esse un'attrazione ed
assimilazione potente ( 1). le antiche comunanze di villaggio dell'Oriente ;
fra le quali esistevano degli spazii di terreno neutrali, che servivano per
trattare le paci e per il mercato (Village Communities, pag . 188 e seg.).
Secondo l'autore, si avrebbe un indizio della primi tiva associazione del
commercio e della neutralità negli attributi di Mercurio, dio comune alle
stirpi di origine aria , che da una parte sarebbe il dio dei termini, il primo
dei messaggeri ed ambasciatori, e per ultimo anche il patrono del commercio ,
dei confini, e un poco anche dei furti e dei ladronecci. Intanto da questa
circostanza in apparenza di poco rilievo, per cui nel medesimo sito si facevano
gli scambii e si trattavano le alleanze e le paci fra le varie genti, derivò
questa importantissima conseguenza , che come in quest'epoca non si distingueva
il diritto privato dal pubblico, così non distinguevasi il diritto commerciale
, da quel diritto, che ora si chiame rebbe internazionale. L'uno e l'altro
erano compresi nel ius gentium , il che spiega come questo vocabolo talvolta
indichi soltanto dei rapporti fra cittadini e stranieri, e talvolta comprenda
anche i rapporti di carattere pubblico fra varii popoli. Non pud però esservi
dubbio , che il ius gentium , allorchè viene a penetrare nel diritto romano,
per opera del pretore, appare circoscritto ai rapporti privati fra cittadini e
stranieri , ed ha quindi un carattere essenzialmente commerciale. Ciò è molto
bene dimostrato dal Fusinato nel suo accurato lavoro : Dei Feziali e del
diritto feziale, pubblicato negli atti dell'Accademia dei Lincei. Memorie della
Classe di scienze mor. stor. filol., 1884 , Vol. XIII, pag. 451 a 590 ,
specialmente a pag . 465 ; del quale credo di poter dire, senza offendere la
modestia di un collega ed amico, che ha cominciato ad introdurre qualche
concetto direttivo in una materia , che certo ne aveva grande bisogno. È poi
noto, che la grande autorità sull'argomento è il Voigt, Das ius naturale, bonum
et equum , gentium , etc. Leipzig , 1856-76 ; Vol. 4 , dei quali il 2° si
occupa pressochè esclusivamente del ius gentium . Fra il modo di vedere di
questi autori e quello qui esposto corre però questa differenza, che essi ri
tengono il concetto ed anche la denominazione del ius gentium , come opera
riflessa dei giureconsulti ; mentre per me il ius gentium esisteva nel fatto e
nella parola anche anteriormente e solo più tardi riuscì a trovar posto anche
nel diritto civile di Roma. Sembra tuttavia che prima fossero adoperate le
espressioni di iura gentium , e di iura naturalia , mentre dopo i vocaboli
adottati sono quelli di ius gentium e di ius naturale, i quali indicano
l'unificazione, che vi si è operata . (1) I1 MOMMSEN, Histoire Romaine, I,
Chap. 4, diede tale importanza alla posi zione eminentemente commerciale di
Roma, da ritenere la popolazione primitiva di essa comededita al commercio e
Roma come una città commerciale. Il PADELLETTI ha combattuta tale opinione
(Storia del diritto romano, pag . 17) e parmi in verità che il fatto, per cui
Roma diventò l'emporio delle genti del Lazio, possa essere spie gato senza
dire, che essa fosse una città sopratutto commerciale ; poichè anche per una
città agricola e militare ad un tempo, come era Roma nei propri inizii, po teva
essere grandemente utile di essere in tal sito, da richiamare il commercio -
129 100. Fu sui mercati, dove convenivano persone appartenenti a co munanze
diverse, che dovettero formarsi quelle convenzioni più semplici, fondate
unicamente sul consenso dei contraenti, e fra le altre anche la compra e
vendita , che alcuni vorrebbero far nascere solo, quando Roma era già divenuta
una grande città . Solo deve avver tirsi, che questa compra e vendita
primitiva, avverandosi talvolta fra capi di famiglia, che appartenevano a
comunanze diverse , fra cui non esisteva forse comunione di diritto, non
dovette naturalmente ritenersi perfetta , se non era accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, come ebbe a stabilire anche
più tardi la legislazione decemvirale. Fu qui parimenti, che dovette na scere e
svolgersi quella sponsio o stipulatio, la quale, allorchè poi ottenne di essere
riconosciuta dal diritto quiritario, venne ad essere il mezzo più semplice e
più acconcio per dar forma giuridica ad ogni maniera di convenzioni (1). Furono
eziandio queste fiere , che die delle popolazioni latine. Può darsi anzi, che
anche questa posizione eminentemente commerciale l'abbia resa meno esclusiva
nell'accogliere nuovi elementi. Del resto anche i Romani sentivano l'eccellenza
della posizione della loro città, e ce ne parla CICERONE, De Rep. II, 5 . (1)
Non può quindi , a parer mio, essere giustificata l'opinione di coloro , i
quali ritengono, che solo più tardi si fosse introdotta in Roma l’emptio
venditio, e che la sponsio e la stipulatio , che certo già esistevano nei
rapporti fra le varie genti, fossero state invece importate di Grecia , per ciò
che si riferisce alle convenzioni private. L'opinione erronea proviene dal
credere, che il diritto quiritario comprendesse dap prima tutto il diritto in
uso presso i romani; mentre invece esso fu una codifica zione e un adattamento
progressivo del diritto già esistente nelle consuetudini. Esso quindi comincid
dal comprendere solo quella parte di esso, che era confermata da una lex
publica , come lo dimostrano le antiche espressioni di agere per aes et libram
, di facere testamentum , nexum , mancipium secundum legem publicam . Quindi,
ac canto al ius quiritium , visse sempre in Roma un ius gentium , che, senza
aver rice vate le forme quiritarie, era però sempre adoperato e forse anche
applicato nelle controversie dai recuperatores, anche anteriormente
all'istituzione del praetor pere grinus. Ciò è provato dai poeti latini e
sopratutto da Plauto, che ne dànno come usuali e frequenti certe forme di
negozii e di atti, che non risultano ancor sempre penetrati nel diritto
quiritario. Ciò poi è indubitabile per la sponsio o stipulatio, atto romano per
eccellenza , dai romani applicato nei trattati pubblici e nelle con venzioni
private. Può darsi quindi, che le genti italiche l'avessero comune colle el
leniche, e che la espressione spondeo fosse anche comune ai due popoli; ma i
romani non ebbero certo bisogno di apprenderlo dai greci , nè aspettarono ad
adoperarlo solo verso la metà del V secolo , come sostengono fra gli altri il
MurueAD, Histor. Introd., pag . 227 e 228, e il Leist, Graeco- Italische Rechts
geschichte , p.465-470 . Solo può ammettersi, che, dopo aver vissuto lungamente
nell'uso e davanti ai recuperatores, la sponsio o stipulatio penetrò anche
nello stretto diritto civile e fu adottata come forma propria del medesimo. G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma. 9 130 dero più tardi occasione al
giureconsulto Manilio di concretare in poche parole delle formole acconcie per
concepire quelle vendite, che sono più frequenti per una popolazione agreste ;
delle quali formole alcune pervennero a noi e potrebbero trovare riscontro in
formole, ancora oggi usate nelle stesse occasioni, salvo che queste non hanno
più la sobrietà e precisione antica (1). È qui infine, che dovette prepararsi
la formazione di un ius gentium primitivo, che ha dapprima un carattere
commerciale , come il commercium da cui esso deriva, e che, accanto al diritto
proprio di ogni singola gente o tribù, era indispensa bile per le transazioni
commerciali fra i capi di famiglia , appartenenti a genti ed a tribù diverse.
Sia pure, che solo più tardi questo modesto ius gentium , formatosi sulle fiere
e suimercati, richiami l'attenzione del pretore, e gli dia animo per scostarsi
dalle formalità ormai divenute soverchie del ius proprium civium romanorum (2)
: cid però non toglie , che le origini di quelle lente formazioni, che si
verificano nella coscienza generale di un popolo, si debbano talvolta anche
cercare in un'epoca di gran lunga anteriore, come accade delle piccole
sorgenti, che solo appariscono degne di osservazione e di ricerca , quando si
scorge il corso maestoso del fiume, che ebbe a derivarsi da esse . $ 3 .
L'actio e la sua storia primitiva. 101. Da ultimo non può esservi dubbio che,
già nel periodo gen tilizio , dovette essersi formato il concetto dell'actio,
ma questa non significava ancora un mezzo accordato dalla legge o dal pretore,
per far valere in giudizio un proprio diritto , ma era , per dir cosi, il
diritto stesso , che mettevasi in azione, estrinsecandosi in quel complesso di
atti, che erano indispensabili per ottenere il proprio riconoscimento (3) . (1)
Il poco, che pervenne a noi delle formole Maniliane, trovasi riportato dall'Hu
SCHKE, Iurispr . anteiust. quae supersunt, pag. 5, ed è una prova
dell'attitudine dei veteres iurisconsulti a sceverare da un fatto tutto ciò,
che in esso eravi di giuridico, modellandolo in una formola tipica, che potrà
poi servire per tutti i casi dello stesso genere. (2 ) Cfr. sopra , pag . 128 ,
nota 1. (3 ) Accostasi a questo concetto dell'actio, nella sua significazione
primitiva , l'OR TOLAN, Histoire de la legislation romaine, XI Edit., Paris,
1880 , pag. 139, ove scrive, parlando dell'azione nel periodo decemvirale: «
Action, sous cette période, est une dénomination générale ; c'est une forme de
procéder, une procédure considérée 131 - È a questo punto, che si può trovare
la ragione, per cui il diritto primitivo di tutti i popoli e quindi anche il
romano si è sviluppato dapprima sotto forma di azione e di procedura , che non
come legge , che determini i diritti rispettivi dei cittadini. Finché il capo
di fa miglia è esso il sovrano nella propria casa , egli non ha bisogno, che la
legge venga a ricordargli quali siano i suoi diritti. Questo diritto egli porta
con sè e ha profondamente impresso nella sua coscienza: quindi, se il medesimo venga
ad essere violato, egli non può aspet tare che uno Stato, che quasi ancora non
esiste, si metta in moto per ottenere la riparazione dal torto, che ebbe ad
essergli arrecato . Come quindi è il capo di famiglia, che vendica l'adulterio
, che corre sui passi del ladro , che lo ha derubato, e ne perquisisce la casa,
mediante certi riti, che sono determinati dal costume e a cuiniuno oserebbe
ribellarsi, perchè sono sotto la protezione del fas: così è pur egli che,
quando si vede occupato un fondo, od usurpato uno schiavo, o sottratto un
figlio, si mette in movimento ed in azione e afferma in presenza ed a scienza
della intiera comunanza, che è suo quel fondo , quello schiavo, quel figlio .
Quindi è, che l'azione viene ad essere naturalmente la prima manifestazione del
diritto . Prima esso esisteva allo stato latente , ed ora si produce, si
afferma, perchè incontro una persona, che ebbe a violarlo . Quest'azione
tuttavia, non è an cora la legis actio ; perchè in compierla l'uomo offeso non
ispirasi ad una legge, che forse non esiste ancora, ma ispirasi al senso in
timo e profondo del proprio diritto. Tuttavia è in questo momento sopratutto ,
sotto la sferza dell'offesa e sotto l'impeto dell'indignazione, che il capo di
famiglia può anche trascendere nel far valere il proprio diritto, e ricorrere
anche alla violenza ed alla vendetta . Quindi è , che se per avventura verrà a
formarsi nel seno della comunanza qualche forma di procedura, la quale, mentre
da una parte rispetta la fiera indipendenza dell'uomo, consapevole del proprio
diritto , dal l'altra contenga il prorompere violento di colui, che ebbe ad
essere dans son ensemble, dans la série des actes et des paroles, qui doivent
la constituer. » Qui però l'autore parla già della legis actio ;ma se noi
andiamo più oltre nei tempi, allorchè essa non è ancora legis actio,ma
semplicemente actio, questa non è ancora un modo di procedere, ma è soltanto un
modo di agire, ed è anzi il diritto stesso in azione (Cfr. Carle , La vita del
diritto, pag. 40 ). È poi notabile, come per i latini il vocabolo agere indichi
un'azione continuata, che può scindersi in parti di verse ; mentre facere si
adopera di preferenza invece per indicare un'azione, la quale compiesi, per
così dire, in un unico contesto. 132 offeso nel proprio diritto , l'occasione
non dovrà certamente essere trascurata . Sarà quindi prima il mos, che comincia
coll'additare la via consuetudinaria , a cui debbe appigliarsi colui, che vuol
far valere il proprio diritto ; poi sarà il fas, che interverrà anch'esso e dichiarera
empio chi non segua quel determinato rito ; ed infine sarà anche il ius , che
verrà notando in certo modo i varii stadii, per cui passò quella procedura , e
obbligherà i contendenti a passare, almeno per forma (dicis gratia ), per
ciascuno di questi stadii. Sarà in tal modo, che all'actio violenta, rozza,
avida, appassionata dell'individuo sottentrerà la legis actio, consacrata dalla
legge, compassata e lenta , quasi per attutire le passioni irrompenti dei
contendenti; ma che intanto ricorderà ancora gli stadii dell'anteriore violenza
, quasi per ricordare che a quella dovrebbe farsi ritorno, quando la legge non
fosse rispettata. Non è quindi da approvarsi, a mio avviso , l'opinione di
coloro , i quali ritengono che il prevalere delle norme procedurali nel
primitivo diritto , e quindi anche nel romano, sia prevenuto da ciò , che
sarebbesi prima badato alla forma, che alla sostanza. La ragione di questo
fatto è molto più profonda e deve essere cercata nelle origini stesse della
convivenza civile e politica . La causa del fatto sta in ciò , che l'opera
della legge negli inizii fu sopratutto necessaria non tanto per assicurare il
diritto , quanto per reprimere le reazioni violente, a cui abbandonavasi colui,
il cui diritto era violato . In questa parte diritto privato e diritto penale
seguirono analoghe vicende. Al modo stesso , che le leggi penali non mirarono
dapprima tanto a punire i misfatti, quanto piuttosto a porre dei confini alla
privata vendetta , e resero cosi obligatoria quella composizione a danaro, che
dapprima dipendeva dall'accordo delle parti : cosi anche le norme procedurali
comparvero le prime, non tanto perchè i popoli primitivi comprendessero più la
forma che la sostanza ; ma perchè il primo e più urgente bisogno di una società
, in via di formazione, era quello di impedire fra i consocii la manuum
consertio, ossia l'esercizio violento delle proprie ra gioni ( 1). (1) Per lo
svolgimento parallelo della vendetta e della pignorazione privata, è da
vedersi: Del GIUDICE , La vendetta privata nel diritto Longobardo, Milano, 1876
. Sembra poi attribuire la precedenza delle norme di procedura , presso i
popoli pri mitivi, alla prevalenza , che presso di essi ha la forma sulla
sostanza, lo stesso Sumner Maine, The early history of institutions , Lect. IX
, ove, discorrendo della forma primitiva dei rimedii legali, scrive « che in
uno stadio delle cose romane i - 133 102. Intanto non vi ha forse nel
vocabolario giuridico parola , che presenti al giureconsulto filosofo e storico
una più lunga storia di cose sociali ed umane, dei vocaboli di agere e di actio
, e che lo faccia rimontare più oltre nelle tenebre e nella oscurità del
passato . Nella loro significazione primitiva di « stimolare » e di « spingere
» , questi due vocaboli sembrano ancor richiamare gli antichi abitatori del
Lazio, che, pastori di greggi, prima di diventare reggitori di popoli,
spingevano al largo le proprie mandre e i proprii armenti (1). Me mori e quasi
alteri della propria origine, non dubitarono di applicare il medesimo vocabolo
a significare l'attività del magistrato, che si spiega in rapporto col popolo
(ius agendi cum populo ), ed anchequella di colui, che forte della convinzione
nel proprio diritto intraprende quella specie di conflitto e di lotta , che
dovette in quei primi tempi essere necessaria per ottenere il riconoscimento
delle proprie ragioni. Questo è certo, che fra capi di famiglia dal carattere
fiero ed in dipendente non dovette esser così facile il conseguire, che essi si
sottoponessero ad un'autorità per la decisione delle loro controversie, e non è
quindi meraviglia se l'avvenimento dovette loro apparire così importante, che
ritennero opportuno di conservare la memoria dei diversi stadii, che hanno
dovuto attraversare per giungervi. 103. Allorchè sorgeva una controversia fra
capi di famiglia , ap partenenti alla medesima tribù , il modo più naturale di
risolverla dovette certamente essere quello di rimettersi ad uno o più arbitri
ed amichevoli compositori, che dovevano essere concordati fra le parti, come lo
dimostra un antico costume, che gli scrittori latini attribuiscono ai proprii
maggiori (2 ). Era poi naturale, che queste persone, chiamate a risolvere la
controversia , dovessero essere scelte fra i padri ed anziani del villaggio ;
del che rimasero le traccie anche in Roma, ove i iudices furono per secoli
tratti dall'ordine dei padri diritti ed idoveri sono piuttosto un'aggiunta
della procedura , che non la procedura una mera appendice aidiritti ed ai
doveri. » (1) V. BRÉAL, Dict. étym . latin ., v° Agere. (2 ) Cic., Pro
Cluentio, 43: « Neminem voluerunt maiores nostri, non modo de existimatione
cuiusquam , sed ne pecuniaria quidem de re minima esse iudicem , nisi qui inter
adversarios convenisset » . Del resto, anche secondo la legislazione decemvi
rale, sembra che alla discussione della causa precedesse un tentativo di
componi menti, come lo dimostra il fram ., Rem , ubi pacant, orato , tavola II,
legge 14, se condo la ricostruzione del Voigt, Die XII Tafeln , p . I, pag.
696. 134 o senatori, e solo dopo una lunga lotta, che si avvero già sul finire
della Repubblica fra il partito degli ottimati e quello popolare, po terono
anche essere scelti fra gli equites (1). 104. La cosa però veniva a farsi più
grave, allorchè i contendenti non si mettevano d'accordo per un amichevole
componimento. Non vi ha nulla di ripugnante, che essi, compresi vivamente del
proprio diritto , trovandosi sul fondo stesso o davanti allo schiavo , oggetto
della controversia, cominciassero dall'affermare altamente il proprio diritto
sul fondo o sullo schiavo. Che se niuno di essi cedeva, lo studio della natura
umana ci insegna anche ora , che non è punto improbabile, che essi potessero
addivenire a quella vis realis , a cui secondo Gellio fu poi sostituita la vis
festucaria , e che si effettuasse cosi fra di essi una vera e propria lotta,
che prese il nome dimanuum consertio (2 ). È però consentaneo eziandio al
costume patriarcale che, quando due persone sono cosi in lotta fra di loro,
possa anche in terporsi fra di esse una persona autorevole, la quale goda la
comune fiducia, e che loro imponga di separarsi colle parole, che più tardi sa
ranno pronunziate dal pretore nella procedura quiritaria : « mittite ambo
hominem » . Tace allora la lotta: i contendenti, fatti umili dal l'autorità
stessa di chi intervenne fra di loro e dallo stato stesso di violenza , in cui
furono sorpresi (3), chiamano entrambi a testimoni la divinità , che la ragione
è dalla parte loro, e per dare energia mag giore alla propria affermazione
aggiungono alla medesima una scom messa , la quale, per essere accompagnata
dall'affermazione giurata di rimettersi al giudizio della persona intervenuta
fra di essi, può prendere il nome di sacramentum . Si ha cosi una successione
di fatti, che conducono naturalmente la persona autorevole, che si è in (1) La
legge che trasportò dall'ordine dei senatori a quello degli equites la ca
pacità ad essere giudici fu la lex SEMPRONIA iudiciaria del 632 di Roma,
proposta da C. Gracco, la quale dovette però dar luogo a gravi lotte ed
agitazioni, che sono fatte manifeste dalle leggi giudiziarie degli anni, che
vengono dopo. È da vedersi in proposito ORTOLAN, Histoire de la législation
Romaine, $ 283, pag. 228 e seg . (2) Aulo Gellio , Noct. attic., XX, 10 , $ 8
10 . (3) Questo sentimento veramente sociale ed umano del pudore, che guadagna
colui che si appigliò alla violenza , trovasi maravigliosamente espresso da
OVIDIO , Fasto rum III: « Et cum cive pudet conseruisse manus. » È però a
notarsi, che il poeta limita quel senso di pudore alle violenze fra i
cittadini: con quelli che non sono tali sarebbe tutt'altra cosa . - 135 -
terposta , ad essere giudice non tanto della ragione o del torto dei
contendenti, quanto piuttosto della scommessa intervenuta fra i me desimi;
sebbene però venga ad essere naturale conseguenza del suo giudizio, che debba
ritenersi aver ragione chi vincerà la scommessa e torto colui, che perderà la
medesima. Fin qui pertanto , non si ha che un processo di cose sociali ed
umane, di cui si potrebbero trovare le traccie anche ai nostri giorni, e che
dovette certo essere frequente, allorchè le contese erano so stenute dai capi
di gruppo, che non conoscevano altra autorità supe riore, salvo quella, che
avessero accettata di comune accordo. Pongasi ora, che questo processo di cose
si ripeta più e più volte frammezzo a genti, che, come le italiche, siano use a
modellare in formole ed in gesti solenni tutti gli atti tipici della loro vita
giuridica , e allora si potrà facilmente comprendere, come siasi venuta
formando quel l'actio sacramento , che costitui poi l'azione fondamentale di
tutto il diritto quiritario , e fu dai quiriti conservata con cura così gelosa,
che, già abolite le altre azioni delle leggi, l'actio sacramento continud
ancora a celebrarsi davanti al tribunale quiritario per eccellenza, che è il
tribunale dei centumviri. Non è quindi il caso di ridurre questa primitiva
azione ad una pantomina incomprensibile , nè di cam biare il popolo maestro al
mondo nel diritto in un architetto di for malità e di sottigliezze senza scopo
; ma è il caso piuttosto di leggervi la storia delle vicende, che ebbe a
percorrere l'amministrazione della giustizia , riportandola in quell'ambiente
patriarcale, nel quale soltanto si può riuscire a ricostruirla nelle sue
primitive fattezze (1). 105. Qui tuttavia non posso passare sotto silenzio
l'opinione messa innanzi da una grande autorità , quale è il Bekker, e che fu
poi anche divisa da molti altri autori, secondo cui dovrebbero ritenersi più an
(1) È già da qualche tempo, che rivelasi negli scrittori la tendenza a dare una
spiegazione naturale della formazione dell'actio sacramento . Se ne possono
vedere degli accenni nel Maynz, Cours de droit Romain , Bruxelles , 1876.
Introduction, $ 20, Vol. I , pagg. 59 e 60 ; nel SUMNER MAINE , Early history of
institutions, Lect. IX ; nel MUIRIEAD, Historical Introduction , pag. 191 e 192
; nel BUONAMICI, Storia della procedura romana. Pisa , 1866 , vol. I, in princ.
Non credo tuttavia che essa sia stata studiata nell'ambiente stesso, in cui ha
dovuto formarsi, nè che siasi dimostrato che essa debba riguardarsi come una
sopravvivenza di un'epoca anteriore. È però noto, che Omero nell'Iliade, Canto
XVIII, v. 690 a 705 , descrive, sopra uno dei compartimenti dello scudo di
Achille, una procedura del tutto analoga a quella dell'actio sacramento. 136
tiche della stessa actio sacramento, quelle altre forme di azioni, che sono
indicate col vocabolo di manus iniectio e di pignoris capio , in quanto che le
medesime ricorderebbero più direttamente l'uso della forza per far valere il
proprio diritto (1) . Lasciando per ora in disparte la pignoris capio , che ha
solo una importanza secondaria , per i pochi casi in cui fu ammessa , importa
anzitutto notare, che il vocabolo di manus iniectio può essere tolto in due
significazioni diverse, anche secondo la legislazione decem virale . Havvi
anzitutto la manus iniectio , a cui ricorre colui che, dopo aver invitato
inutilmente il debitore a seguirlo avanti al magi strato , gli pone addosso la
propria mano e lo trascina in ius, som ministrandogli però quei mezzi di
trasporto, che possano esser neces sari per lo stato dimalattia , in cui egli
si trovi (2 ). In questo senso però non havvi ancora una vera legis actio , ma
solo un mezzo per otte nere la comparizione del convenuto davanti al
magistrato. Invece la vera manus iniectio, in quanto costituisce una legis
actio , consiste nel potere, che appartiene al creditore di porre la sua mano
sopra il nexus, l'aeris confessus, ed il iudicatus per trascinarlo nel suo
carcere privato, e costringerlo così al pagamento del proprio debito od a
lavorare per lui finchè sia soddisfatto (3 ). ( 1) BEKKER, Die Actionen der
römisches Privatrechts, Berlin , 1874-75 , 2 vol. V. particolarmente vol. 1,
pag. 18-74 . Del resto un tale concetto è stato in parte enunziato anche dal
JHERING , L'esprit du droit romain , Trad. Maulenaere, Paris, 1880, salvo che
egli dà poi alla manus iniectio, come legis actio, una significazione del tutto
speciale. Vedi vol. I, § 14 , e vol. III, § 56. (2) A questa manus iniectio
accennasi nella prima legge delle XII Tavole : « Si in ius vocat, ito. Ni it,
antestamino : igitur em capito. Si calvitur pedemve struit, manum endo iacito.
, (3 ) Sonvi persino degli autori, i quali dubitano che la manus iniectio possa
es sere considerata come una vera legis actio , in quanto che essa non
richiederebbe l'intervento del magistrato e avrebbe solo luogo quando trattasi
di esecuzione. Fu questo il motivo, che indusse il JHERING , op. e loco cit., a
dare una significazione speciale alla manus iniectio. Quanto alla letteratura
sull'argomento e alle discus sioni, che di recente sorsero intorno alla
questione, se la manus iniectio debbe rite nersi come una vera legis actio , è
da vedersi il MUIRHEAD, Histor. Introd ., Sect. 36 , pag. 201 e seg. Parmi
tuttavia , che il dubbio non possa esistere, quando si tenga conto della
significazione larghissima, che ha il vocabolo di legis actio nell'antico
diritto; nel quale esso indicava in sostanza i diversi genera agendi in
conformità di una les publica , per modo da comprendere la stessa in iure
cessio , allorchè ser viva per effettuare una adozione, una emancipazione, una
manomissione, od un trasferimento di proprietà . V. quanto alla manus iniectio
il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 616 . 137 Or bene la manus iniectio , cosi
intesa, non può certamente essere considerata , come di formazione anteriore
all'actio sacramento. Per verità mentre questa contiene la storia delle varie
peripezie, per cui passò lo stabilimento dell'umana giustizia, e quindi richiama
ancora un'epoca , in cui non eravi amministrazione di giustizia ; la manus
iniectio invece, quale appare nelle XII Tavole , suppone già stabilita una
amministrazione della giustizia , in quanto che essa è un modo di procedere
all'esecuzione contro colui, che o siasi ob bligato colla solennità del nexum ,
o abbia confessato il proprio de bito davanti al magistrato , o sia stato
condannato al pagamento . Nè serve il dire, che la manus iniectio primitiva,
essendo un mezzo per il privato esercizio delle proprie ragioni, dovette essere
applicata anche in altri casi ; mentre la legislazione decemvirale l'avrebbe
circoscritta ai casi da essa determinati, nell'intento di im pedirne gli abusi.
A ciò infatti si può facilmente rispondere, che se fra i capi di famiglia delle
genti patrizie si può comprendere una procedura solenne, come quella dell'
actio sacramento , in cui le due parti sono eguali fra di loro e finiscono per
accordarsi nell'accettazione di un giudice della loro scommessa, è invece
affatto ripugnante una procedura, come sarebbe quella della manus iniectio. Non
è un'eguale che può sottomettersi ad una procedura di questa specie, per quanto
egli possa essere profondamente convinto del proprio torto . Fra due eguali,
che siano in contesa, può compren dersi la manuum consertio , e in seguito
l'accettazione di un arbitro; ma non mai che uno obbedisca pecorilmente al
cenno dell'altro , e si lasci cosi stringere nei ferri e nelle catene del suo
carcere privato. 106. Con ciò tuttavia non voglio dire, che la manus iniectio
sia stata direttamente introdotta dalla legislazione decemvirale, e che non
esistesse anteriormente alla medesima. Ritengo anzi, che essa doveva già
esistere da lungo tempo : ma intanto a questo proposito mi fo lecito di
avventurare la congettura , che la manus iniectio dovette essere una speciale
forma di procedura , che non si adoperava già nei rapporti fra i capi di genti
patrizie, ma bensì unicamente nei rapporti, che intercedevano fra il creditore
patrizio ed il debitore plebeo . Si comprende infatti, comeun'aristocrazia
territoriale, come quella delle genti patrizie, potesse anche adoperare modi
simili di procedura verso una classe , che nei primi tempi non aveva ancora
dimenticato l'o rigine servile . Quindi è, che la manus iniectio deve essere
con 138 siderata comeuna delle istituzioni, che non appartiene al diritto , che
dovette formarsi nei rapporti fra i capidelle genti patrizie, ma bensi a
quello, che dovette formarsi nei rapporti fra la classe dominante e la classe
inferiore: il che spiega eziandio come la legislazione decemvirale l'abbia solo
ammessa contro i nexi, gli aeris confessi e i iudicati, e come la plebe abbia
lottato cosi lungamente per l'abolizione del nexum , il quale forse era ancora
un segno dell'antica sua sogge zione servile , come sarà dimostrato a suo
tempo. Per quello poi, che si riferisce all'esercizio privato delle proprie
ragioni, mi limito ad osservare, che esso nel dominio del diritto pri vato
corrisponde alla vendetta privata nel campo dei delitti e delle pene. Quindi,
come è esistita la vendetta privata anche fra le genti italiche, così dovette
anche esservi un tempo, in cui fra queste esi steva l'esercizio privato delle
proprie ragioni. Questo tuttavia può affermarsi con certezza , che l'intento
supremo dell'organizzazione gentilizia fu quello di impedire fra i membri di
esse cosi la pri vata vendetta , che l'esercizio privato e senza confini delle
proprie ragioni. Fu a questo scopo, che il fas, il ius e il mos riunirono i
proprii sforzi, e solo a forze riunite riuscirono a cacciare dalla co munanza
la privata violenza, che continud a dominare fra le per sone, che non
appartenevano alla medesima e quindi non avevano fra di loro comunanza di
diritto . Quindi non è più nell'organizza zione gentilizia, che deve cercarsi
l'esercizio privato delle proprie ragioni, dal momento che in essa tutto è
regolato dal mos e dal fas, e che il suo intento supremo fu quello dimettere
termine allo stato anteriore di privata violenza . Fin qui si considerarono
soltanto le norme direttive dai rapporti giuridici, che intercedono fra i capi
dei diversi gruppi, norme le quali finiranno per dare in parte origine a quel
diritto , che sarà poi chiamato ius quiritium dapprima e ius civium romanorum
più tardi; ora importa cercare invece , quali rapporti corressero fra i varii
gruppi collettivamente considerati, e quale sia stata l'origine del primitivo
ius pacis ac belli. - 139 CAPITOLO VII. La formazione di un ius pacis ac belli
durante il periodo gentilizio . $ 1. Sguardo generale ai rapporti fra le genti
primitive. 107. Anche i rapporti fra le varie genti, collettivamente
considerate, hanno nel periodo gentilizio un carattere esclusivamente
patriarcale , e appariscono modellati sui rapporti, che possono intercedere fra
i varii capi di famiglia . E a questo proposito parmi anzitutto opportuno di
rettificare un concetto, che ormai suole essere ripetuto come un dogma, mentre
in verità non merita di essere considerato come tale. Di regola suol dirsi, che
lo stato naturale delle antiche genti fosse lo stato di guerra . Esse invece
non erano nè in uno stato di pace, nè in uno stato di guerra; ma si
consideravano come indipendenti le une dalle altre e non avevano fra di loro
comunanza di diritto . Era quindi facile , che fra loro scoppiasse la guerra ,
ma questa non era però lo stato naturale di esse . Ciò sarebbe come dire, che
due per sone che non si conoscano e non abbiano fra di loro alcun rapporto
giuridico siano fra di loro in lotta . Potrà darsi che esse siano in reciproca
diffidenza , e che stiano in guardia : ma non percid pud dirsi che siano in
guerra effettiva fra di loro. Ci vorrà pur sempre qualche causa , od anche
semplicemente un pretesto, perchè l'una si arresti minacciosa contro dell'altra
(1) . (1) Sarebbe qui inutile citare tutti gli autori, che professano questa
opinione; mi basterà ricordare il LAURENT, Histoire du droit des gens, nei tre
primi volumi relativi all'Oriente, Grecia , Roma; il JHERING, L'esprit du droit
romain , I, il quale attribuirebbe a questo stato di guerra il concentrarsi
delle genti antiche nella città , a cui esse appartengono ; il che è certamente
vero, ma non proviene unicamente dalle guerre esteriori , ma anche da ciò, che,
creandosi una nuova forma di connivenza sociale, era naturale, che tutte le
forze ed energie vitali si concentrassero in essa. Anche il Fusinato sembra
dividere la stessa opinione nel suo lavoro : Dei Feziali e del di ritto feziale
, Roma, 1884, « Atti della R.Accademia dei Lincei » , Memorie, Classe scienze
mor. stor. filologiche , vol. XIII , Introd ., Cap. I , al quale io mi rimetto
quanto alla bibliografia completissima sul tema di questo capitolo. Egli
tuttavia già trova, che il popolo Romano sarebbe stato, fra le altre genti, il
meno esclusivo su questo punto, a differenza del PADELLETTI , Storia del
diritto romano, pag . 67, 140 108. Che questi fosse lo stato dei rapporti fra
le genti primitive è provato dalla distinzione, che nell'antico linguaggio già
viene fatta fra hostis e perduellis. Hostis chiamavasi quello straniero , con
cui non eravi rapporto di diritto , e contro il quale il popolo romano si
riservava piena ed intera la propria autorità giuridica e la propria libertà di
azione ; mentre perduellis, nella sua significazione arcaica , come lo indica
lo stesso vocabolo , era colui con cui era scoppiato il dissidio , e col quale
, per mancanza di un comune diritto , veniva ad essere necessità di appigliarsi
alla guerra . Fu solo più tardi, che il vocabolo di hostis assunse una
significazione più dura e significò effet tivamente il nemico. In allora le
significazioni accettate furono le seguenti: peregrinus chiamasi colui, col
quale non havvi nè ami cizia , nè ospitalità , nè alleanza ; hostis quegli, con
cuiRoma trovasi in guerra aperta ; perduellis infine colui, che nell'interno dello
Stato cerchi di recare perturbazione e conflitto, mettendosi in lotta coll'in
teresse della patria sua. Questa trasformazione si opera però lenta e note
relative , il quale attribuirebbe al popolo romano una esclusività maggiore
degli altri popoli,per trattarsi di un popolo agricoltore, conservatore e
guerresco ad un tempo . Per parte mia ritengo, che i Romani in questa parte si
governassero colle norme stesse delle altre genti italiche, come lo dimostra il
fatto che il primitivo ius foeciale è loro comune cogli altri popoli, da cui
sono circondati. Non posso però ammettere che essi, sopratutto nei primi tempi,
si ritenessero in stato naturale di guerra cogli altri popoli ; perchè in tal
caso tutte le formalità dell'antico ius foe ciale si convertirebbero in una
commedia inesplicabile e in contraddizione col prin cipio direttivo dei
rapporti fra le varie genti. Quanto agli argomenti, che sono messi in campo,
essi consistono in sostanza nella primitiva significazione di hostis e nel
passo di Pomponio, Leg. 5 , § 2 , Dig. (49, 15 ). Del vocabolo hostis, si
discorrerà più sotto, e quanto al passo di PomPONIO , egli, anzichè affermare
che gli stranieri fossero nemici, dice anzi espressamente che « si cum gente
aliqua neque amicitiam , neque hospitium , neque foedus amicitiae causa factum
habemus, hi hostes quidem non sunt » . Tuttavia siccome con questa gente non vi
ha comunione di diritto, così contro di « aeterna auctoritas esto » , donde la
conseguenza, che se le cose nostre cadono in loro mano, diventano loro proprie,
e così pure se le cose loro vadano in mano dei romani: certo la conseguenza è
grave , ma essa non è una conseguenza dello stato di guerra , ma bensì di ciò
che fra i due popoli non esiste comunanza di di ritto . Nè vorrei si dicesse,
che la questione sia soltanto di parole, poichè se la guerra fosse lo stato
naturale, non si saprebbe veramente come CICERONE abbia potuto scri vere: «
nullum bellum esse iustum , nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut de
nuntiatum ante sit , et indictum » , De off , I , II , e De Rep., III , 23. Del
resto anche questa opinione è una conseguenza del ritenere, che le cerimonie
del diritto feziale fossero semplici formalità esteriori, il che certamente non
dovette essere, allorchè questa procedura fra le genti venne ad essere
introdotta. essa - 141 mente, e nella stessa legislazione decemvirale, che,
come tutte le leggi, tende a conservare i vocaboli nella loro significazione
arcaica , il vo cabolo di « hostis » , continua ancora sempre a significare
colui, col quale non esiste comunione di diritto , come lo dimostrano le espres
sioni ricordate da Cicerone di « status dies cum hoste » e l'altra « adversus
hostem aeterna auctoritas esto » . Del resto , che il vo cabolo hostis negli
esordii non suonasse nemico , nella significazione, che noi siamo soliti
attribuire a questo vocabolo , viene anche ad essere dimostrato dall'analogia
evidente , che corre fra i vocaboli di hostis e di hospes, il quale ultimo
sarebbe una sincope di hosti-pes, che significherebbe « o protettore dello
straniero o straniero ricevuto in protezione » ; donde anche i vocaboli di
hospitium e di hospitari(1). 109. Fermo questo concetto dei rapporti, che
intercedevano fra le genti, che non entravano a far parte della medesima
tribù e non avevano perciò comunione di diritto fra di loro, viene ad essere
facile il comprendere come qualsiasi rapporto giuridico fra di esse dovesse
derivare dalla convenzione e dal patto; per modo che anche il pri mitivo ius
pacis ac belli dovette avere un'origine contrattuale, analoga a quella , che
abbiamo riscontrato nei rapporti privati fra i diversi capi di famiglia .
Infatti al rapporto di carattere negativo, che intercede fra le varie genti,
per cui sono estranee le une alle altre, pud poi sottentrare il rapporto positivo
di pace o di guerra. Tanto l'uno come l'altro in dicano, che le genti sono già
uscite da quello stato di indifferenza reciproca, in cui si trovavano fra di
loro . Quindi perchè siavi lo stato di pace, già occorre che fra le genti sia
intervenuta una conven (1) V. BRÉAL, Dict. étym . lat., Paris. 1886, vº Hospes
e Hostis. Del resto questo trasformarsi dalla significazione di hostis viene ad
essere indicato con una mirabile chiarezza da CICERONE , allorchè scrive : «
Hostis enim apud maiores nostros is di cebatur, quem nunc peregrinum
dicimus.....; quamquam id nomen durius iam effecit vetustas; a peregrino enim
recessit, et proprie in eo , qui contra arma ferret, re mansit » . De off., I,
12. Ciò è poi confermato da VARRONE, De ling. lat., V , I (Bruns, Fontes, p.
377). Intanto l'analogia , che vi ha fra hostis straniero, ed hospes, che signi
fica e lo straniero ricevuto in protezione » , come pure il fatto, che nelle
origini per duellis significava il nemico esterno ed interno ad un tempo,
costituiscono una nuova prova, che in quei primordii non distinguevasi la
guerra pubblica dalla privata, nè i dissidii interni delle guerre esterne. Fu
solo più tardi, nel seno della città e nei rap porti delle città fra di loro,
che potè operarsi questa distinzione, e in allora talvolta i reggitori della
città si appigliarono alle guerre esterne per sopire le lotte interne. 142
zione od un patto (come lo dimostra l'analogia fra il vocabolo di pax e quello
di pactum ) ; al modo stesso che, accid siano in istato di guerra, occorre, che
siavi una dichiarazione della medesima, tanto più se trattisi di genti che,
senza essere in rapporto giuridico fra di loro, riconoscano perd l'impero del
fas. Si può quindi affermare con certezza, che anche il ius pacis ac belli già
erasi formato anterior mente alla formazione della comunanza romana , e che la
medesima in questa parte non fece che attenersi a pratiche e a riti, i quali,
prepa ratisi in un periodo anteriore ed affidati alla custodia di un collegio
sacerdotale, furono poi applicati con qualchemodificazione ai rapporti, che
vennero a svolgersi più tardi fra i popoli e le città . Di qui in tanto, derivd
la conseguenza, che il diritto, che suol essere chiamato foeciale , essendo
stato trapiantato da uno in altro periodo di or ganizzazione sociale, acquistò
un carattere artificioso , che lo fece talvolta apparire come un ostentazione
puramente esteriore, diretta non a provare che le guerre si facessero per una
giusta causa , ma piuttosto a dissimulare l'ingiustizia intrinseca della guerra.
Non può tuttavia esservi dubbio, che essó, trasportato nell'ambiente, in cui
ebbe a formarsi, ha dovuto essere una procedura viva e reale, la quale ebbe ad
essere determinata dalle condizioni, in cui si trova . vano le genti primitive.
§ 2 . - Il ius pacis , ossia l'amicitia , l'hospitium , la societas nel periodo
gentilizio. 110. Siccome nel periodo gentilizio i rapporti di pace, che si ven
gono a stabilire pressochè contrattualmente fra le varie genti, si riducono in
sostanza a rapporti fra i capi delle medesime; cosi essi finiscono per
modellarsi e per ricavare la propria denominazione dai rapporti stessi, che
possono intercedere fra i loro capi. In altri termini quei vocaboli stessi, che
indicano le gradazioni diverse, in cui pos sono trovarsi i capi delle varie
genti, sono pur quelli, che desi gnano il vincolo più o meno stretto , in cui
possono essere le varie genti o i varii popoli, fra cui intervenne una
convenzione dipace; cosicchè i vocaboli anche qui vengono a dimostrare, come in
quei primi tempi non esistesse la distinzione fra i rapporti pubblici dei varii
gruppi ed i rapporti privati fra i capi, da cui essi erano rap presentati. I
vocaboli, intanto , che indicano questi rapporti pubblici e privati ad un
tempo, sono quelli di amicitia , di hospitium societas. 143 111. Prima
presentasi l'amicitia , che indica quel rapporto contrat. tuale, che intercede
fra due genti diverse o meglio ancora fra i capi di esse, senza che il medesimo
imponga obbligo reciproco di difesa e di aiuto in tempo di guerra. La gente
amica è quella , a cui si potrà , in caso di bisogno, ricorrere per un favore e
con cui si intenda di intrattenere amichevole commercio . L'amicizia quindi
conduce già ad un riconoscimento del diritto della gente amica, e quindi se una
persona, od una cosa venga a cadere in mano di una gente amica , questa non
potrà appropriarsela ; il che sarebbesi potuto fare, allorchè non fosse
esistita fra di loro alcuna comunanza di diritto . Possono tuttavia esservi dei
casi, in cui i reciproci commerci, fra individui, che appartengono a tribù
diverse, porgano occasione al sorgere di controversie . Quindi fra i patti ,
che accompagnano i trattati di amicizia, dovette essere frequente quello, che
più tardi noi troviamo indicato col vocabolo di actio e specialmente con quello
di reciperatio ; il quale è certamente bene appropriato per significare il
rapporto , a cui intendeva di accennare, malgrado le difficoltà di in
terpretazione a cui esso diede luogo. È nota in proposito la definizione di
Elio Gallo : Reciperatio est, cum inter populum , reges, natio nesque et
civitates peregrinas lex convenit, quomodo per recipe ratores reddantur res
reciperenturque, resque privatas inter se persequantur. La sua interpretazione
non può dar luogo a dubbio , quando diasi al vocabolo di lex la sua
significazione primitiva di con venzione e di patto ; interpretazione, che del
resto è anche imposta dall'espressione di « lex convenit » . È evidente
infatti, che qui trat tasi di un patto intervenuto prima fra le tribù e più
tardi fra i popoli, le nazioni e le città, nell'intento di permettere ai membri
delle genti, delle tribù e delle città di far valere rispettivamente le proprie
ragioni presso la gente, tribù o città , con cui trovansi in rapporto di ami
cizia ; come pure è evidente la correlazione, che intercede fra questo vocabolo
e quello di rerum repetitio , che costituiva, come si vedrà fra poco, uno dei
preliminari, che precedevano la vera dichiarazione di guerra. Questo vocabolo è
poi meglio spiegato da quello di reci procare, il quale, secondo Festo ,
significa « ultro citroque poscere » cioè far valere rispettivamente le proprie
ragioni: vocabolo , che anche oggidi conserva l'antica sua significazione in
quei trattati fra gli stati e le nazioni, che chiamansi di reciprocità e
direciprocanza . Ciò infine spiega eziandio , come si chiamassero recuperatores
quei giudici od arbitri, che erano chiamati a risolvere le controversie degli
stranieri fra di loro e dei cittadini cogli stranieri. Infine si 144 viene
anche a darsi ragione, come in una città come Roma, che fu sempre un emporio di
tutte le genti, i recuperatores abbiano finito per essere una autorità
giudiziaria , pressochè permanente, la quale, mentre decideva le questioni con
stranieri, poteva anche essere chiamata a risolvere delle controversie fra i
cittadini, in quei casi sopratutto , in cui non si trattasse di applicare il
ius quiritium , ma piuttosto quei iura gentium , che fin dai primi tempi
dovettero almeno di fatto esistere accanto al medesimo. A proposito dei re cuperatores,
si è poi lungamente disputato se i medesimi fossero chiamati soltanto a
risolvere controversie di diritto privato, o se potessero essere chiamati
eziandio a risolvere controversie di carat tere pubblico fra i popoli e le
genti. La definizione di Elio Gallo sembra comprendere le une e le altre , in
quanto che essa accenna alla ricupera delle cose tolte da un popolo ad un altro
, e alla prose cuzione delle cose private. Se quindi fosse lecito avventurare
una congettura, misembrerebbe essere probabile, che in quell'epoca , in cui
ancora mal si distingueva la ragion pubblica dalla privata , i recu peratores,
che erano persone scelte fra le due genti amiche, potes sero essere arbitri
dell'uno ed un altro genere di controversie , perchè queste tenevano del
pubblico e del privato ad un tempo . Allorchè invece , al disopra delle genti,
venne a formarsi la città , e per tal modo cominciò a distinguersi la cosa
pubblica dalla privata , i re cuperatores ebbero circoscritta la propria
competenza alle contro versie di carattere privato . Fu in allora che i
recuperatores si man tennero per le controversie di indole privata, e che i
fetiales furono creati invece per le controversie, che insorgevano fra i varii
popoli; fu allora parimenti che la recuperatio fu ilmodo, con cui gli individui
res privatas inter se persequuntur, mentre la rerum repetitio di ventò un
preliminare della guerra; fu allora infine che i iura gentium si vennero
biforcando, e mentre da una parte il vocabolo di ius gen tium rimase ad
indicare un complesso di norme, che governava i rap porti diindole privata,
quello invece di ius foeciale o di ius belli ac pacis fu adoperato per indicare
i rapporti di carattere pubblico fra i popoli e le città . Anche qui insomma
non si fece che applicare un processo , le cui traccie sono evidenti in ogni
argomento, il quale consiste nel « publica privatis secernere, sacra profanis
Di qui derivò quell'incertezza di significazione, che questi vocaboli sem .
brano avere nelle proprie origini; incertezza, che non dovette recare imbarazzo
a coloro , che avevano operate queste distinzioni; ma che complica invece
grandemente l'opera di coloro che tentano - 145 - fondarsi sovra pochissime
vestigia di ricostrurre l'opera com - piuta (1). 112. Almodo stesso poi, che
nei rapporti fra i privati dopo l'amico viene l'ospite, il quale già viene
accolto nella casa e per qualche tempo entra in certo modo a far parte della
famiglia ; cosi nei rap porti fra le varie genti, al disopra dell'amicitia ,
viene a comparire l'hospitium . L'ospitalità , che diventa un ufficio di
cortesia presso le nazioni civili, è invece una vera necessità presso tutti i
popoli pri mitivi, i quali senza di essa si troverebbero isolati gli uni dagli
altri. Non è quindi meraviglia, se i doveri dell'ospitalità , oltre al fon
darsi sul costume, entrino eziandio sotto la protezione del fas , e se la
medesima, presso le genti primitive, tenda ad acquistare un ca rattere
ereditario . L'ospite entra in un certo senso a far parte della stessa
famiglia, come lo dimostra il fatto che gli antichi giurecon sulti disputavano
perfino, se gli ufficii verso l'ospite dovessero pre cedere o susseguire quelli
verso il cliente : nella quale questione, (1) V. quanto alla definizione della
recuperatio, HUSCHKE, Jurisp . ante-iust. quae sup., pag . 97 , n ° 13. Questa
congettura , che d'altronde è molto semplice, ha il van taggio di risolvere
parecchie controversie, che furono largamente trattate dal Voigt, Das ius
naturale, gentium , etc., II, e dal Fusinato , Dei Feziali e del diritto
feziale . Essa spiega anzitutto come un solo vocabolo, quello di ius gentium ,
possa presentarsi con un duplice significato (V. FusInATO, Op. cit., Introd . ,
Cap. I, § 1, pag. 463 , dove egli combatte in parte l'opinione del Voigt). Essa
spiega in secondo luogo, come la recuperatio, che più tardi trovasi solo
applicata alle controversie private, nell'antica sua definizione comprenda
invece anche quelle di carattere pub blico. Di qui una divergenza fra il
Fusinato da una parte, che vorrebbe negare ai recuperatores « ogni competenza
giudiziaria in interessi di pubblica natura » , Op. cit ., Cap. V , § 2º, e il
SelL ed il Rein da lui citati , che sostengono invece un'opinione diversa .
Credo poi chenon possa essere posta in dubbio l'analogia stret tissima fra
recuperatio e rerum repetitio , sebbene i due vocaboli abbiano ciascuno una
propria significazione, poichè recuperatio significa reciproca actio, mentre
rerum repetitio significa il tentativo, che un popolo fa per riavere ciò che
gli fu tolto, prima di appigliarsi alla guerra . Del resto questa stessa
analogia compare fra le noxae datio del diritto privato e le noxae deditio dei
cittadini colpevoli contro il diritto delle genti, di cui discorre lo stesso
Fusinato al Capo V , § 3º. Ciò significa pertanto, che noi ci troviamo di
fronte ad un processo logicamente applicato in tutte le di stinzioni, che si
vennero introducendo fra i rapporti pubblici e privati, e quindi la coerenza
stessa dei risultati, in varii argomenti ad un tempo, dimostra come sia fondata
la congettura di cui si tratta. Come poi i recuperatores fossero in Roma
an’autorità giudiziaria , pressochè permanente, appare da ciò , che essi non
erano ignoti alla stessa legislazione decemvirale, il cui impero era ristretto
ai soli cittadini. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 10 - 146 mentre vi
era chi collocava prima le persone affidate alla tutela del capo di famiglia,
poi il cliente, quindi l'ospite ; Masurio Sabino invece preponeva l'ospite al
cliente. Tutti però erano concordi nel ritenere, che l'ospite dovesse avere la
precedenza sui cognati e sugli affini. Non pud quindi essere temeraria la
congettura, che l'ospitalità e la clientela fossero nell'organizzazione
gentilizia due istituzioni, che avevano una correlazione fra di loro ; colla
differenza, che la ospi talità importava solo una difesa e protezione
provvisoria, mentre la clientela importava un rapporto di protezione
permanente. Sotto quest'aspetto pertanto , si poteva dire che il cliente veniva
prima del l'ospite; maquando invece si consideri che la clientela importa subor
dinazione e dipendenza , mentre l'ospitalità può alternarsi in guisa che
l'ospitato di un giorno sia l'ospite in un altro , ben si pud com prendere il
motivo, per cui Masurio Sabino concedesse sotto questo aspetto la precedenza
all'ospite sopra il cliente, in quanto che l'ospite e l'ospitato erano in
rapporto di uguaglianza fra di loro , il che non accadeva del patrono e del
cliente ( 1). 113. Così il concetto dell'amicitia , che quello dell'hospitium ,
do vettero nel periodo gentilizio avere un carattere pubblico e privato ad un
tempo. Fu solo posteriormente, quando dalle genti e dalle tribù uscirono le
città, che cosi l'amicitia come l'hospitium subirono quella distinzione , che
si operò in qualsiasi altro argomento, per cui si ebbero l'amicitia e
l'hospitium pubblico e privato. Che anzi nella transizione fuvvi un periodo, in
cui la casa stessa del re dap prima e del magistrato dappoi servì per
accogliere gli ospiti del popolo romano ; ma, a misura che si venne distinguendo
l'ente collettivo dello Stato dalla persona dei singoli cittadini, si dovet
tero anche distinguere l'amicizia e l'ospitalità in pubblica e in privata .
Cosi fu un effetto della pubblica amicizia , che il cittadino romano, quando
era fatto prigioniero di guerra , godesse senz'altro del diritto di postliminio
, appena ponesse il piede nel territorio di un re alleato od anche solo amico ,
poichè da quel momento comin ciava ad essere « pubblico nomine tutus » (2).
Parimenti l'hospitium pubblicum , allorchè fu accordato non solo ad un
individuo, ma alla intiera popolazione di una città, venne a cambiarsi in certo
modo nella ( 1) V. sopra il passo di Masurio Sabino a pag. 48, nota 2 . ( 2) L.
19 , $ 3 Dig . (49 , 15 ) . 147 concessione della civitas sine suffragio : il
che rende non desti tuita di fondamento l'opinione di coloro , i quali, dietro
l'autorità del Niebhur, vogliono trovare nel concetto dell'hospitium pubblicum
la primitiva significazione, che, secondo Festo, sarebbe stata attri. buita al vocabolo
di municipium (1). 114. Infine al disopra dell'amicizia e dell'ospitalità ,
presentasi la societas. Qui non trattasi più di semplici officii di cortesia ,
ma di obbligazioni che già assumono un carattere giuridico; poichè la 80 cietas
fra le genti, al pari della societas fra i privati, è un acco munare le proprie
forze per il conseguimento di un intento comune, e per ripartire i vantaggi,
che si possono ricavare dall'opera insieme associata . I patti e le condizioni
di questa societas possono essere molto diversi; ma di regola essa importa
alleanza difensiva ed offen siva delle genti, fra cui interviene, e una
conseguente ripartizione del bottino. Di qui la conseguenza, che mentre
l'amicizia e l'ospita lità possono anche trovare origine nel fatto e nella
consuetudine ; la societas invece suppone una convenzione espressa fra le genti
ed i popoli, fra cui interviene: quindi con essa viene a sorgere il con cetto
del foedus, il quale ebbe larghissimo svolgimento e diede luogo ad
importantissime conseguenze nel periodo gentilizio . $ 3 . - N foedus e le sue
svariate applicazioni nel periodo gentilizio . 115. Per quanto sia dubbià
l'origine della parola, questo è certo , che l'essenza del foedus sta nella
fides, che stringe quelli che entrano in confederazione fra di loro, e che il
medesimo, nei rapporti fra le varie genti, compie quello stesso ufficio , a cui
adempie il contratto fra i singoli capi di famiglia . Infatti, sebbene di
regola sogliano ado perarsi come sinonimi i due vocaboli di societas e di foedus
, è pag . 104. (1) NIEBhur, Histoire romaine, III, pag. 79 e seg . Questa
opinione fu di recente sostenuta dal TADDEI, Roma e i suoi municipii , Firenze,
1886, 8 31, Senza negare che possa esservi esistito un qualche rapporto fra
l'hospitium pubblicum e il municipium , nella prima delle significazioni che è
attribuita a quest'ultimo vo cabolo da Festo , vº Municipium , vuolsi però
avere presente che l'hospitium è isti tuzione di origine gentilizia, mentre il
municipium suppone già esistente e svolta la convivenza civile e politica . 148
però facile l'avvertire, che i medesimi, sopratutto negli inizii, dovet. tero
avere significazione diversa . Mentre infatti la societas indica il rapporto,
in cui entrano le genti ed i popoli, il vocabolo di foedus invece significa di
preferenza l'accordo, la convenzione, con cui questo rapporto viene ad essere
stipulato . Che anzi, siccome fra le genti non si distinguono i rapporti di
carattere pubblico da quelli di carattere privato : cosi il vocabolo foedus si
presenta dapprima con una larghissima significazione, instesse convenzioni e
stipulazioni private e, sopratutto nei poeti, significa persino quelle
convenzioni tacite, che sembrano strin gere tutti i popoli, che si trovino in
analoghe condizioni di civiltà : convenzioni e rapporti, che sono appunto
indicati col vocabolo di foe dera generis humani, poichè il popolo che vi
venisse meno sem brerebbe in certo modo uscire dal novero dalle umane genti.
Tali erano fra gli antichi l'inviolabilità e l'immunità dei legati, senza la
quale sarebbe stata impossibile qualsiasi trattativa fra genti, che non avevano
fra di loro comunione di diritto ; tale era eziandio quel costume veramente
umano per cui, terminata la battaglia, ad divenivasi ad una breve tregua, acciò
i due eserciti potessero addi venire alla sepoltura dei morti. Di più , anche
nei rapporti fra le genti, il foedus non significava soltanto la confederazione
o l'al leanza; ma poteva significare qualsiasi accordo , che venisse a seguire
fra due popoli, sia per conchiudere la pace, sia per rimettere la decisione
della guerra ad un duello fra individui scelti negli eser citi che si trovavano
di fronte, ed anche quell'accordo, in base a cui si addiveniva alla deditio di
un popolo ad un altro e se ne fissa vano le condizioni. Il foedus insomma
indica il momento, in cui l'elemento contrattuale comincia a penetrare nei
rapporti fra le varie genti; ed è perciò , che, malgrado tutti i dubbii che
possano avere gli etimologi, non so trattenermi dall'esprimere la persuasione
profonda, che il vocabolo di ius foeciale, con cui si indicava il complesso
delle pratiche e delle trattative, che poterono seguire fra i varii popoli così
in pace, come in guerra, non può essere che una corruzione ed una sincope di
ius foederale (1) . (1) Gli etimologi non possono accertare che foedus origini
da fides, nè che foeciale derivi da foedus : ma questo è certo, che le parole
di fides , foedus, foeciale, come sembrano avere una parentela materiale, così
hanno una strettissima attinenza , quanto al concetto dalle medesime espresso,
ed è questo il motivo, per cui continuo a scri vere ius foeciale a vece di ius
fetiale. Quanto alla larghissima significazione pri 149 116. Intanto il foedus
è il rapporto fra le genti e le tribù , che suppone un maggiore progresso
nell'organizzazione sociale . Qui infatti non è più il caso di un semplice
ufficio di amicizia e di ospitalità ; ma trattasi già di un rapporto che assume
il carattere giuridico , in quanto che il foedus impone alle genti e alle
tribù, che vi addiven gono, delle vere e proprie obbligazioni giuridiche,
sebbene queste continuino ancora sempre ad essere sotto la protezione del fas.
Gli è perciò, che col foedus già comincia a comparire quell'istituto della
stipulazione giuridica , che le genti latine recarono non solo nelle con
venzioni private, ma eziandio nelle convenzioni di pubblica natura ;
stipulazione che, a mio avviso , dovette probabilmente essere prima adoperata
per i rapporti di carattere pubblico, che non per quelli di carattere privato .
Quanto alle formalità solenni, che accompagnavano il foedus, ritengo, che se
più tardi potè essere attribuita importanza sopratutto all'elemento esteriore,
che serviva per dargli il carattere di iustum , come lo dava al testamento,
alle nozze e a qualsiasi altro atto ; questo è però certo, che le cerimonie,
che accompagnavano la conclu sione del foedus nel periodo, in cui si vennero
formando, dovettero avere una reale ed effettiva significazione . Non doveva
quindi nel periodo gentilizio esservi un pater patratus, che addivenisse alla
formazione dell'alleanza : ma erano i padri o capi effettivi delle genti, che
da essi erano rappresentati, quelli che conchiudevano il patto. Così pure
dovette anche avere una efficace significazione l'obtestatio deorum , per cui chiedevasi
la divinità in testimonio del patto , che interveniva fra di essi, e si poneva
il trattato sotto la protezione del fas, chiamando la collera del cielo contro
colui, che venisse meno al patto intervenuto , e simboleggiando, col ferire con
un coltello di selce la vittima, il modo, con cui la divinità avrebbe col pito
il violatore del patto (1). mitiva di foedus, essa appare sopratutto dall'uso
che ne fanno i poeti latini, pei quali indica dapprima qualsiasi patto fra gli
individui e fra le genti; quindi anche qui abbiamo una parola , che si riferì
dapprima ai rapporti pubblici e privati ad un tempo; argomento questo che gli
uni non si distinguevano dagli altri. Questo significato primitivo di foedus fu
presentito dal nostro Vico, allorchè chiamò le re ligioni, le sepolture ed i
matrimonii i foedera generis humani. Il duplice significato pubblico e privato
di foedus occorre poi nel seguente passo di Liv., Hist., I, 1: « Aenean apud
Latinum fuisse in hospitio : ibi Latinum , apud penates deos, dome sticum
pubblico adiunxisse foedus, filia Aeneae in matrimonium data ». ( 1) Questo è
provato anche da ciò , che nel primo caso narratoci di un patto se 150 117.
Questo ad ogni modo è fuori di ogni dubbio, che il concetto del foedus, vincolo
religioso e giuridico ad un tempo fra le varie genti e le tribù, ebbe
certamente a precedere la formazione della comunanza romana, e dovette anche
prima ricevere applicazioni molteplici e diverse, durante il periodo
.gentilizio . Il foedus può essere anzitutto il mezzo, con cui si pone termine
allo stato di guerra fra diverse tribù, e siccome al momento, in cui si
addiviene al medesimo, le sorti delle armi possono essere diverse per i
contendenti, cosi è probabile, che già , anteriormente a Roma, dovesse esservi
quella distinzione, di cui essa poi fece così larga ap plicazione fra il foedus
aequum ed il foedus non aequum . Eranvi infatti dei casi, in cui il foedus,
nella significazione di convenzione e di trattato , serviva, come ricorda
Gellio , per dettare la legge ai vinti; altri in cui, senza opprimere affatto
quello dei contendenti, per cui volgessero sfavorevoli le sorti della guerra,
il medesimo in una posizione di ossequio e di subordinazione verso quello che
stava per vincere, il che costituiva appunto il foedus non aequum e dava
origine ad una specie di clientela di un popolo verso un'altro , che nell'epoca
romana fu poi indicata coll'espressione « at maiestatem Populi Romani coleret »
; altri infine, in cui, essendo incerte le sorti della guerra , si poneva
termine alla medesima con un aequum foedus e si veniva, secondo i patti, alla
reciproca restituzione dei prigionieri di guerra e all'abbandono del territorio
occupato (1). si poneva 118.Per quanto poi si riferisce a quella distinzione
fra foedus e spon sio, stata invocata qualche volta dai Romani, sembra che la
mede sima costituisca già un'applicazione, eminentemente giuridica , trovata
dallo stesso popolo romano e posteriore alla formazione della città . È noto in
proposito, che i Romani ritenevano per foedus il trattato guìto secondo il ius
foeciale , che è quello relativo al combattimento degli Orazii e dei Curiazii,
DIONISIO ci narra, che il medesimo fu solennemente stipulato , e che due
cittadini eletti a ciò, facendo le veci di padri dei due popoli, lo sancirono a
nome di ciascuno d'essi. Dion ., III, 5. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I, pag.
99. Ritengo poi verosimile l'opinione del senatore Pantaleoni, ricordata dal
Fusinato , Le droit in ternational de la République Romaine, Bruxelles, 1885.
Extrait de la Revue de droit international, pag. 18 ; secondo cui il coltello
di selce rimonterebbe all'età della pietra, poichè questo studio di conservare
anche materialmente l'antico è ve ramente nel carattere romano. (1) Quanto alle
varie specie di foedera fra le città ed i re è da vedersi Livio , XXXIV, 17.
Esempii poi di foedera non aequa possono vedersi in Gellio , Noc .att., VI, 5 ,
e nello stesso Livio, XXX, 15 e II, 25. 151 - stipulato coll'intervento del
pater patratus e colle cerimonie tutte del ius foeciale, mentre sponsio era la
pace giurata soltanto dal generale . Mentre il primo obbligava direttamente il
popolo Romano, l'altra invece , quando non fosse ratificata dal senato ,
obbligava solo a fare la consegna del generale, che aveva giurato la pace. Ora
è evidente, che questa distinzione cosi ingegnosa e sottile presuppone già il
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente detta. Finchè
trattasi di tribù o di genti, è il pater o capo effettivo della tribù, che la
guida nelle sue imprese militari, e quindi è egli stesso, che tratta la pace
circondato da altri capi, ed adempie alle cerimonie tutte di carattere
religioso , che devono accompagnare la stipulazione del foedus. Non occorre
quindi ancora l'artificio del pater patratus, nè l'intervento dei feziali,
perchè esso possa obbligare direttamente il proprio popolo . Quando invece
trattasi di una città , tanto più se retta a repubblica , il generale non può
più dirsi che rap presenti il popolo e il senato , e quindi egli non può
addivenire che ad una semplice sponsio, la quale, per essere cambiata in un
vero trattato , abbisogna della ratifica del senato e dell'adempimento delle
cerimonie del diritto feziale. Intanto perd, siccome il generale è colpevole
per aver giurata una promessa, che non mantiene o per aver obligato il popolo
oltre i limiti del suo mandato ; cosi il senato , che non ra tifica il suo
operato , si appiglia alla noxae deditio del generale stesso. Intanto si
comprende, che altri popoli, come i Sanniti, al tempo della pace delle forche
caudine, i quali non erano ancora pervenuti ad un eguale sviluppo della loro
organizzazione civile e politica, stentassero a comprendere questa sottigliezza
giuridica dei Romani: poichè per essi il loro generale era anche il loro capo
ef fettivo , e quindi poteva obbligare direttamente il popolo da lui rap
presentato (1). (1) Non parmi quindi, che possa essere il caso di introdurre
qui la triplice distin zione, a cui accenna il Mommsen, Le droit public romain
, pag. 281, fra la semplice sponsio del capitano, il foedus foeciale e il
foedus del solo capitano; poichè è di chiarato abbastanza chiaramente da Livio
, che tanto il foedus che la sponsio , se siano fatte iniussu populi , non
possono obbligare il popolo Romano, Livio, IX , 4 , 5 , 8. Quindi la vera
distinzione viene ad essere questa : o la convenzione è opera del solo
capitano, iniussu populi ac senatus, che sono quelli che inviano i feziali, e
in allora abbiamo una semplice sponsio ; o invece vi ha il iussus populi ac
senatus, che inviano i feziali e abbiamo il vero foedus: donde la prova che la
distinzione dovette essere un effetto del passaggio dall'organizzazione
gentilizia all'organizza zione politica . Cfr. Fusinato, Dei Feziali e del
diritto feziale, Cap. IV, § 3º. 152 - 119. Non credo poi si possa ammettere col
Mommsen , che sulla forma del foedus abbia esercitata una visibile influenza la
teoria del contratto , in quanto che nel foedus sarebbesi adoperata per
analogia la forma della stipulazione, come quella che era considerata come il
modo generale e di diritto comune per contrarre le obbliga zioni. Ciò è del
tutto impossibile : perchè è certo che esistevano già il foedus e la sponsio
nei rapporti fra i varii popoli e che l'uno e l'altra già si stipulavano con
quella forma determinata, assai prima che i giureconsulti costruissero la
teoria della stipulazione e ne fa cessero applicazione alle convenzioni private
. Del resto la forma della stipulazione, adoperata dai Romani nei rapporti
colla divinità , nella formazione della legge, nella conclusione dei trattati
di pace, solo più tardi sembra essere stata accolta nel diritto civile romano
ed applicata alle convenzioni private; per guisa che vi sono autori, che
ritengono la stipulazione nelle convenzioni private come di impor tazione greca
. Il vero si è, che nel diritto primitivo trovasi sempre un'analogia fra i
rapporti di diritto pubblico e quelli di diritto privato ; la quale deriva da
ciò , che nel periodo gentilizio tanto gli uni come gli altri sono rapporti tra
capi di gruppo, e quindi le stesse forme, che servono nei rapporti fra le varie
genti, possono poi anche servire nei rapporti contrattuali e privati. Sonvi
però molte pratiche comuni agli uni e agli altri e fra le altre havvi quella
della sponsio , che sembrano aver acquistato forma ed efficacia giuridica prima
nei rapporti fra le genti, che nei rapporti dicarattere privato. Del resto cid
è anche attestato da Gaio , che chiama sottigliezza il voler applicare la
teoria della stipulazione privata alla sponsio del generale romano ; poichè, se
si venga meno al patto, non ex stipulata agitur, sed iure belli res vindicatur
( 1). (1) V. Mommsen, Le droit public romain , pag. 281, il quale , secondo la
tradu zione Gérard , di cui mi valgo, scrive : « En ce qui concerne la forme,
le principe du droit civil a fait employer ici par analogie les formes de la
stipulation , parce qu'elle était considérée comme le mode général et de droit
commun de contracter des obligations » . Parmi, con tutta la riverenza al
dottissimo autore, che questa proposizione non possa essere accolta , e che
sarebbe vera piuttosto la proposizione inversa . Infatti secondo il MUIRHEAD ,
Hist. Introd., pag . 227, e molti altri , la sponsio o stipulatio nelle
convenzioni private non sarebbe penetrata di Grecia in Roma, che verso la metà
del V secolo : epoca, in cui la teoria della sponsio e del foedus, nei rapporti
fra le città ed i popoli , aveva già ricevuto tutto il suo svi luppo. Quindi è
che pur non ainmettendo l'opinione del MTIRHEAD, in quanto che ritengo che la
sponsio fosse romana fino dalle origini e vivesse nel costume, anche - 153 120.
Un'altra applicazione del foedus era anche quella , per cui tribù e genti, che
potevano anche non essere in guerra fra di loro , stringevano fra di loro
un'alleanza, i cui patti potevano essere molto diversi, ma che il più spesso
costituiva una lega difensiva ed offensiva ad un tempo ; la cui idea tipica pud
essere ricavata dal foedus latinum , detto anche foedus Cassianum , il cui
tenore ebbe ad esserci conservato da Dionisio . È poi notabile , che queste
specie di alleanze fra tribù e popoli vicini, siccome per lo più dipendevano da
relazioni ed aderenze fra i capi di gruppo , cosi si venivano for mando e
disfacendo con grande facilità, per cui bene spesso l'alleato di oggi poteva
essere il nemico di domani. Il che tuttavia non toglie, che la forza e
l'efficacia del patto d'alleanza sia cosi profondamente sentita, che
stipulavasi talvolta che essa dovesse durare eterna ed im mortale, come lo
erano i popoli, fra cui interveniva. Ciò è dimostrato dall'energica espressione
adoperata nel foedus latinum , secondo la quale la pace e l'alleanza fra romani
e latini doveva durare : « dum coelum et terra eandem stationem obtinuerint »
(1) . 121. Infine un'altra importantissima applicazione del foedus nelle epoche
primitive, è quella , in virtù della quale più tribù , che possono anche essere
di origine diversa , societatem ineunt fra di loro, nel l'intento di formare
una stessa civitas e di partecipare così ad una vita pubblica comune. È stato
questo il foedus, che ha servito per la formazione dell'urbs e della civitas
dei latini, e che fu anche il tipo , sovra cui ebbe ad essere foggiata Roma
primitiva; il qual ca rattere è importantissimo, in quanto che induce ad
affermare che Roma nei suoi inizii ebbe un carattere federale e pressochè con
trattuale . Dal momento infatti, che fra le varie tribù mancava il vincolo
della comune discendenza , non poteva esservi che quello della fides, e quindi
è nel foedus, che deve essere cercata l'origine prima dientrare nel diritto,
conviene pur sempre riconoscere che la teoria della sponsio si svolse prima nei
rapporti fra le genti, che non nel diritto civile di Roma. Giu stamente quindi
Gaio voleva tener distinte le due cose: poichè, dalmomento che la sponsio nei trattati
fra i popoli erasi distinta da quella nelle convenzioni private, non era più il
caso di confonderle insieme(Gaius, Comm . III, 94). Da questa nasceva l'actio
ex stipulatu , mentre dalla violazione di quella nasceva la guerra. I due isti
tuti, che nella origine potevano essere uniti, ora seguono invece ciascuno la
propria via, come la recuperatio e la repetitio rerum , il ius gentium e il ius
belli ac pacis e simili, e più non debbono essere insieme confusi. ( 1) Dion.,
VI, 95. 154 della città . Se la tribù può ancora essere una formazione del
tutto naturale, perchè è l'effetto del primato , che una gente acquista sopra
le altre che la circondano ; la città invece suppone di necessità l'accordo
delle varie tribù , che entrano a costituirla , accordo, che riveste appunto la
forma di un foedus (1). § 4. — Dei mezzi per l'annessione e per il distacco
degli elementi , che partecipano alla stessa comunanza . 122. Intanto egli è
evidente, che allorquando le cose sono per venute a tale, che nell'organizzazione
gentilizia , in cui prima do minava esclusivamente il vincolo di discendenza,
già comincia a pe netrare l'elemento federale e contrattuale , questo non può a
meno di attribuire all'organizzazione stessa una elasticità e pieghevolezza ,
che essa prima non poteva avere. Infatti egli è sopratutto da questo punto ,
che nel seno della tribù e della città , costituita mediante la federazione di
varie tribù, cominciano a comparire dei mezzi, i quali o servono ad aggregare
alla comunanza un nuovo elemento , o ser vono invece a staccarne un elemento,
che prima ne faceva parte per trasportarlo altrove. Fu in questa guisa, che,
già anterior mente alla formazione della comunanza romana, si erano venuti
svolgendo gli istituti della cooptatio, della concessio civitatis sine
suffragio , della secessio e della colonia ; la cui nozione è indispen sabile
per comprendere la storia primitiva di Roma. 123. In virtù della cooptatio le
genti, che già entrarono a far parte di una medesima comunanza civile e
politica, possono accoglierne delle altre a far parte della medesima. Essa fu
applicata più volte in Roma primitiva; come lo dimostra la cooptazione delle
genti Al bane, dopochè Alba fu , secondo la tradizione, distrutta da Tullo
Ostilio , e fu applicata eziandio alla gente sabina, capitanata da Atto Clauso
. ( 1) Questa origine federale delle città costituite sul tipo latino pud
servire a spiegare il fatto, per cui i Latini nella loro qualità di socii coi
Romani abbiano messa innanzi la pretesa , che Roma e il Lazio dovessero dare
origine ad una comu nione ed unità di governo ; per cui dei consoli uno dovesse
essere nominato dal Lazio e l'altro da Roma, e il senato dovesse comporsi in
parti eguali dai due popoli. Vedi Liv. VIII, 3, 4, 5. Cfr . WALTER, Storia del
diritto di Roma, Trad . Bollati, Torino , 1851, I, S 85 e seg ., pag . 108 ).
155 È poi questa istituzione, che ci dà la ragione per cui, durante il periodo
di Roma patrizia , la cittadinanza non era conceduta ad in dividui, ma a genti
collettivamente considerate, in quanto che la cooptatio era per sua natura
applicabile all'intiero gruppo gentilizio e non ai singoli individui ( 1). Non
pud poi esservi dubbio, che questa cooptatio, per essere una istituzione
eminentemente patrizia , doveva certainente essere accom pagnata da cerimonie
religiose ; perchè la gente , che era ammessa nella tribù o alla città,
diventava eziandio partecipe della religione di esse, ne aveva comuni gli
auspicia , ed il suo capo poteva anche conseguire un seggio nel senato . Quasi
si direbbe, che la cooptatio di una gente nella tribù o città corrispondeva
alla adrogatio per la famiglia . Quindi si comprende, come al modo stesso che
l'adrogatus, per essere disgiunto dalla gens, di cui faceva parte, doveva prima
addivenire alla detestatio sacrorum ; così anche il gentile, per uscire
dall'ordine delle genti patrizie e passare, ad esempio , nella plebe, il che
chiamavasi transitio ad plebem , doveva pure appigliarsi ad una specie di
abdicatio o detestatio sacrorum ; alla quale dovette appunto assoggettarsi
Clodio , allorchè abbandono l'ordine patrizio e passò alla plebe per poter
essere nominato tri buno (2 ) È poi degno di nota, che questa cooptatio ebbe
pure ad essere applicata ai collegi sacerdotali, finchè i medesimi furono
esclusiva mente tratti dall'ordine patrizio , e fu solo più tardi, allorchè
anche la plebe fu ammessa ai sacerdozii pubblici del popolo romano, che ad
alcuni fra essi fu applicata l'elezione popolare, la quale anzi fini per essere
affidata ai comizi tributi. 124. Quando poi la città cesso di essere
esclusivamente patrizia , in allora noi vediamo svolgersi, qualmodo di
accrescere la popola zione, la concessione della civitas sine suffragio , in
virtù della quale gli abitanti di una città vicina, che venivano a prendere il
( 1) Dion ., III, 29 ; Liv ., 1, 30. Cfr. Willems, Le droit public romain ,
pag. 25 ; CARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag. 34. (2) La necessità di
una specie diabdicatio, anche per uscire da una gens, è provata dal seguente
passo di Servio, In Aen . 2, 156 : « Consuetudo apud maiores fuit, ut qui in
familiam vel gentem transiret , prius se abdicaret ab ea , in qua fuerat, et
sic ab alia reciperetur ». Quanto alla transitio ad plebem , è da vedersi Cic.,
Brut., 16 , e Aulo Gellio, XV, 27 . 156 nome di municipes (a munere capiendo),
recandosi a Roma, erano ammessi a partecipare ai diritti e alle obbligazioni
del cittadino, esclusa però la partecipazione al godimento dei diritti
pubblici, che consistevano nel ius suffragii e nel ius honorum . Fu con questo
mezzo, che Roma incominciò a mettere le basi di quel sistema mu nicipale , per
mezzo del quale tutti gli abitanti prima delle città del Lazio e poi quelli
delle città italiche, finirono per essere considerati come cittadini di Roma,
che era la patria communis; il che però non impediva, che ogni città avesse una
propria amministrazione municipale. Questo carattere dei municipia , i quali in
sostanza erano città per sè esistenti, che venivano ad essere associate alle
sorti di Roma, fu espresso da Gellio con dire , che imunicipia , a differenza
delle colonie, veniunt extrinsecus in civitatem et radicibus suis nituntur. Ciò
però non tolse , che il concetto del municipium abbia subito poi delle
trasformazioni profonde, le quali sono indicate dalle significazioni diverse, che
Festo attribuisce a questo vocabolo ( ). i 125. A questi duemezzi, con cui
veniva accrescendosi il numero di coloro, che partecipavano alla stessa civitas
, se ne contrapponevano invece degli altri, che servivano piuttosto a
trasportare altrove una parte della popolazione, sia che ciò occorresse per il
vantaggio della stessa città , come accadeva nella colonia , sia che una parte
di essa si trovasse in condizioni incompatibili col rimanente, nel qual caso si
ricorreva alla secessio e all'expulsio. Non può esservi dubbio, che il sistema
delle colonie, che prese poi cosi largo sviluppo in Roma, esisteva già prima
nel costume delle genti italiche, ed era anzi loro comune colle genti
elleniche, sebbene il suo scopo potesse essere diverso. Ciò è dimostrato dal fatto,
che, secondo la tradizione, la tribù dei Ramnenses non dovette essere dapprima,
che una colonia di Alba Longa. Le colonie poi sono gruppi di famiglie, le
quali, collettivamente considerate, si staccano dalla madre patria , colla
approvazione di quelli che rimangono, la quale si manifesta nella lex coloniae
deducendae, e colla buona volontà di coloro che partono, i quali debbono perciò
farsi iscrivere nel numero dei coloni. Ciò ebbe ad essere espresso da Servio
con dire, che le (1) I principali passi degli autori, relativi almunicipium e
alla colonia , possono trovarsi raccolti nella eruditissima opera del Rivier,
Introdution historique au droit romain , Bruxelles, 1881, pag. 135 a 140 ; la
quale contieneun numero grandissimodi passi di autori e questi raccolti con
molta sagacia. 157 colonie « ex consensu pubblico, non ex secessione conditae
sunt » . Di qui la conseguenza, che la colonia porta con sé la religione, la
lingua, le tradizioni della tribù o della città , dalla quale si stacca e si
organizza a somiglianza di essa, per guisa che, secondo la efficace espressione
di Gellio, le colonie sono quasi effigies parvae, simula craque della madre
patria, e sono quasi propaggini della città, da cui sonosi staccate ,
comequelle , che continuano ancor sempre a mantenersi in rapporti con essa (ex
civitate quasi propagatae sunt) (1). Punto non ripugna , che le colonie nelle
loro origini siansi cosi chiamate a colendo ; in quanto che può darsi
benissimo, che esse fossero in certo modo delle spedizioni agricole, che
partivano da una tribù , sta bilita sopra un territorio , per trasportarsi
sopra un altro suolo , quando quello prima occupato più non potesse bastare ai
bisogni della intiera popolazione. Però anche in questa parte, allorchè riuscì
a delinearsi l'istituto della colonia , nulla impedi che esso potesse essere
rivolto ad intenti di diversissima natura, marittimi, militari, commerciali, e
che servisse anche a diminuire il numero soverchio della plebe, quando essa ,
raccolta nella sola città, già cominciava a cambiarsi in una factio forensis e
a diventare pericolosa . 126. La secessio invece sembra contrapporsi alla
cooptatio, colla differenza che questo vocabolo, in cui non havvi accenno ad
alcun rito religioso , sembra aver trovato origine piuttosto nei rapporti fra
patriziato e plebe, che non in seno all'ordine patrizio . Ad ogni modo la
secessio , intesa in largo senso , ha luogo allorchè un ele mento già ammesso
nella comunanza , trovandosi incompatibile colla medesima, se ne stacca
volontariamente e recasi altrove a porre la propria sede . Lasciando anche a
parte i tentativi di secessio per parte della plebe, i quali non ebbero mai un
esito definitivo , può forse scorgersi un esempio di secessio , ancorchè
dissimulato dalle tradizioni, nel fatto della gens Fabia, che abbandonava Roma
coi suoi numerosi clienti per stabilirsi alla Cremera, ove poi fini per essere
distrutta dai Sanniti, lasciando un solo superstite , che entrò di nuovo a far
parte della cittadinanza romana (2 ). (1) Servio, In Aen ., I, 12 ; Gellio ,
XVI, 13. L'importanza delle colonie nel periodo gentilizio fu già messa in
evidenza dal Vico, Prima scienza nuova, Lib. II, Cap. 42. Intorno alle colonie
ed alle varie loro specie, è accurata la trattazione del WALTER, Storia del Dir
. Rom ., Trad . Bollati, $ 204-212. (2) Quanto alla tradizione circa la gens
Fabia , vedi Bonghi, Storia di Roma, I , pag. 418 . 158 Alla secessio , che è
volontaria , si contrappone invece l'expulsio , quale fu quella , che ebbe ad
avverarsi per la gens Tarquinia ; espul sione, che per la intimità del vincolo
, che stringe insieme i membri di una medesima gente, dovette poi essere estesa
a tutti coloro che portavano quel nome, non escluso quel Tarquinio Collatino ,
marito a Lucrezia , il cui oltraggio , secondo la tradizione, era stata
occasione allo scoppio di quella rivoluzione patrizia e plebea ad un tempo ,
che condusse alla trasformazione del governo regio in repubblicano. Intanto
questi varii istituti, unitamente all'amicitia , all'hospitium , alla societas
e al foedus, che serviva a dar forma giuridica e so lenne a tutti i rapporti
amichevoli fra le varie genti e tribù, avendo in gran parte avuto origine nel
periodo gentilizio , dimostrano abba stanza come la città , la quale era uscita
dalla federazione e dall'ac cordo, potesse anche subire dei mutamenti, che si
operavano nella stessa guisa . Essa aveva mezzi diversi per accrescere o
scemare il numero di coloro, che partecipavano alla stessa comunanza. Finchè
infatti la città fu esclusivamente patrizia , potevano bastare la cuoptatio o
la expulsio, mediante cui una gente poteva essere ac colta o respinta
dall'ordine patrizio , e cosi entrare od uscire dalla partecipazione alla
stessa comunanza. Quando poi patriziato e plebe si fusero insieme ed entrarono
così a far parte dello stesso esercito e dei medesimicomizii, in allora si
svolgono la secessio da una parte e la concessio civitatis dall'altra , e
quest'ultima potè essere consen tita cum suffragio o sine suffragio . 127.
Infine havvi la colonia che, adoperata prima dalla tribù e poscia dalla città ,
serve a questa per trapiantare le sue propaggini altrove; mentre il municipium
viene a convertirsi in un mezzo,me diante cui popolazioni,che avevano altrove
la propria sede ed avevano anzi una propria amministrazione ed una propria
vita, vengono ad es sere ammesse a partecipare alla vita pubblica della città ,
senza però essere ammesse agli onori ed al suffragio. Sarà solo più tardi,
allorchè il sistema municipale sarà svolto in tutte le sue conseguenze, che le
città latine prima e le città italiche dappoi, pur serbando il diritto di
partecipare alla amministrazione della loro patria originaria , otter ranno
tuttavia la partecipazione alla piena cittadinanza di Roma, che comincierà cosi
ad essere considerata come la communis patria . Così viene preparandosi
l'organismo della città per guisa, che essa possa essere capo e centro di
qualsiasi vasto impero, e mentre le - 159 popolazioni, ammesse alla
cittadinanza romana, avranno ancor esse interesse al mantenimento della grandezza
romana, sarà però sempre in Roma, dove si decideranno le sorti del mondo e si
eleggeranno i magistrati chiamati a governarlo (1). Solo più ci resta a vedere
, se anche le varie forme, sotto cui ebbe a svolgersi il ius belli, già aves
sero avuto origine nello stesso periodo e come siansi venute formando. $ 5 . -
Il ius belli durante il periodo gentilizio . 128. In proposito già si è
dimostrato , come non possa ammettersi il concetto, pressoché universalmente
accolto, che la guerra debba essere considerata come lo stato naturale delle
genti italiche . Esse invece si considerano come straniere le une alle altre e
non hanno fra di loro comunione di diritto . Quindi al modo stesso che
occorrono degli accordi, perché si trovino in condizione di amicizia e di pace;
cosi è necessario che intervenga qualche fatto speciale, che le faccia uscire
da questo stato di reciproca indifferenza, accið esse possano essere
considerate come in stato di guerra . Quanto alle cause , che possono far
scoppiare una guerra, esse sono determinate dalle condi zioni sociali, in cui
si trovano le tribù ed i popoli diversi. Appena uscite da uno stato nomade, in
cui dovette dominare la privata vio lenza, le genti si fissarono in territorii,
i cui confini non erano an cora ben determinati, e quindi dovettero essere
frequenti le questioni di confine e le reciproche usurpazioni di territorio. Di
più pud ac cadere, che una comunanza nella sua totalità (populus da populari) o
gli uomini singoli ,che appartengono alla medesima (homines Her munduli)
abbiano commesso devastazioni e saccheggi nel territorio della comunanza
vicina. Così pure può avvenire, che una contro versia insorta fra due famiglie,
appartenenti a tribù diverse, ingros sandosi mediante le parentele e le
aderenze dell'una e dell'altra , come avvenne appunto in occasione della
cacciata da Roma di Tarquinio e della sua gente, prenda le proporzioni di una
vera e propria guerra . Siccome poi le varie genti e tribù sono in questo pe (
1) A questo proposito però fu giustamente notato, che una delle cause della de.
cadenza di Roma fu l'impossibilità, in cui erano le popolazioni delle città
italiche di prendere parte effettiva alla vita politica di Roma,.in cui finiva
perciò per pre valere la turba forensis. Vedi a questo proposito GENTILE, Le
elezioni e il broglio nella Repubblica Romana. 160 riodo rappresentate dai
proprii capi; cosi punto non ripugna che le sorti della guerra siano anche
rimesse ad un combattimento singolare fra individui, col patto che l'esito
della guerra dipenda dalle sorti di un privato duello. Così pure, è nel
carattere del tempo che, quando si incontrano i due capi, essi vengano fra loro
ad un combattimento non dissimile da quello, che la tradizione attribuisce a
Giunio Bruto e ad Arunte, il più forte fra i figli di Tarquinio , e che la
moltitudine dei combattenti si arresti a contemplare la lotta fra i proprii
capi. Niuna maggior gloria potrà ottenersi, che quando uno dei capi potrà avere
le spoglie dell'altro, ed è a questo concetto certamente che rannodasi il culto,
che ancora trovasi così radicato in Roma, per cui le spoglie opime, che erano
quelle appunto che dal capo di una tribù erano state tolte a quello dell'altra
, erano appese nel tempio di Giove Capitolino, ed i fasti e gli annali
ricordavano le volte in cui rinnovavasi il memorabile fatto (1). 129. Per
quanto questimodi di pensare e diagire possano riuscire singolari per noi, che
siamo giunti a scorgere nella guerra un rap porto fra due Stati; questo è però
certo , che i medesimi trovano una naturale spiegazione nel fatto , che durante
il periodo gentilizio i rap porti fra le stesse tribù non riescono ancora a
distinguersi da quelli fra i capi, che le rappresentano. Diqui conseguita, che
il concetto della guerra fra i popoli ancora si confonde col duello fra i capi
che lo rappresentano; il che è dimostrato fino all'evidenza dall'origine co
mune dei vocaboli duellum e bellum , come appare dal vocabolo perduellis, che
mentre ancora accenna al duellante significa già il pubblico nemico (2 ). Ciò
spiega eziandio le traccie, che occor rono anche in Roma di duello giudiziario,
poichè in esso noi abbiamo quel mezzo , che serve per risolvere le controversie
fra i popoli appli (1) È ovvio osservare l'analogia ,che presentano le
primitive guerre di Roma con quelle, che Omero ci descrive nell'Iliade, ove
soventi gli eserciti si arrestano spetta tori delle gesta dei proprii capi.
Quanto alla spiegazione del culto per le spoglie opime parmi così naturale, che
mi meraviglio di non averla trovata negli autori, che da me furono letti. (2) A
questo proposito osserva il BRÉAL, Dict. étym . lat., vº Duo, che il cambia
mento di duellum in bellum è analogo a quello di duonus in bonus, di Duilius in
Bilius, di duis in bis, per guisa che come da duo derivd duellum , così da bis
potè derivare bellum . Del resto il vocabolo di duellum per bellum occorre
ancora sovente nei poeti latini e fra gli altri Plauto chiama i Romani «
duellatores optimi » . - 161 - cato a risolvere una controversia privata fra
individui; il che in so stanza costituisce il processo inverso di quello , in
cui il duello fra due individui viene ad essere adoperato qual mezzo per
risolvere la guerra fra due popoli, e dipende perciò dal medesimo ordine di
idee, cioè dal sostituirsi dei rapporti pubblici ai privati e viceversa . È
nello stesso modo, che possiamo riuscire a darsi ragione di quella analogia
costante , che non può a meno di essere notata fra le formalità, che
accompagnano la dichiarazione di guerra, e quelle , che accompagnano l'azione
che il capo ili famiglia propone in giudizio . 130. È solo infatti questo modo
di riguardare le cose, fondato sulla realtà dei fatti ed ispirato al modo di
pensare degli uomini e dei tempi, che può condurre a dare una spiegazione del
tutto naturale di quella procedura grandiosa e solenne, che accompagna appunto
la dichiarazione di guerra . Per quanto tale procedura, tras portata dallo
spirito conservatore dei Romani in un'epoca diversa da quella in cui erasi
formata, possa apparire artificiosa e siasi talvolta considerata come un
complesso di formalità esteriori, archi tettato per celare l'ingiustizia e la
prepotenza di un grande popolo; questo è però certo , che essa , ricondotta col
pensiero all'ambiente in cui ebbe a formarsi, viene ad essere l'immagine di
modi di pen sare e di agire veri e reali, che intanto poterono essere espressi
in modo così vigoroso ed efficace, in quanto furono a quell'epoca profondamente
sentiti (1 ). 131. Questo intanto è fuori di ogni dubbio , che i varii stadii
del dramma corrispondono mirabilmente alla realtà dei fatti, quali dovet tero
svolgersi in un'epoca patriarcale . Una popolazione vicina o uomini
appartenenti alla medesima in vasero il territorio della comunanza ,
saccheggiandone i raccolti ed (1) Le formole grandiose del ius fociale ci furono
conservate sopratutto da Livio, nel libro primo delle sue storie , ove descrive
il processo per la dichiarazione di guerra al cap. 32; quello per la
conclusione di un'alleanza al cap. 24 ; e quello per la deditio al cap . 38.
Come è notabile la solennità di esse , così è degna di attenzione la coerenza
che esiste fra queste varie procedure, le quali perciò appari scono come lo
svolgimento di un medesimo concetto. Quanto alle divergenze circa la loro
interpretazione e ai tentativi di ricostruzione di formole, che a parer mio
appariscono del tutto complete, mi rimetto all'opera del FusinaTO, I Feziali ed
il diritto feziale , Cap. 3 , 4 e 5 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma.
11 162 esportandone mandre ed armenti. La comunanza ne è profonda mente commossa
, e il capo di essa , che è pur sempre il padre co mune di tutti, accompagnato
da altri capi di famiglia , recasi in persona sul confine del territorio, che
appartiene al popolo unde res repetuntur; quivi, chiamando in testimonio le
divinità patrone della sua comunanza , quella che protegge il confine e il fas,
protettore comune ditutte le genti, espone l'ingiuria e il danno sofferto , e
questo ripete a chiunque incontri per la via , e da ultimo sulla piazza del
villaggio, spergiurandosi di dire il vero. Questa parte preliminare chiamasi
clarigatio, da questo dichiarare ad alta voce e ripetuta mente il torto
sofferto, e repetitio rerum , dal chiedere la restituzione delmal tolto. Se le
cose, che eglidomanda, sono restituite , egli ritorna con esse, e cogli uomini,
che hanno compiuto il saccheggio, che gli sono consegnati, mediante la noxae
deditio ; ma se egli non ottiene soddisfazione, ha luogo l'obtestatio deorum ,
con cui chiede in testi monio le divinità del suo popolo e tutti gli altri Dei,
che il popolo , di cui si tratta , è ingiusto e vienemeno al diritto ( populum
illum iniustum esse , neque ius persolvere). Viene infine l'ultima parte della
dichiarazione di guerra, in cui il capo del popolo offeso , dopo essersi
consultato coi suoi, dichiara al popolo offensore la guerra, get tando entro i
confini del suo territorio un dardo intriso di sangue accompagnato dalle parole
: « bellum indico facioque » , e si ha così in un solo atto l'indictio belli e
l'initium pugnae. 132. È fuori di ogni dubbio, che questa procedura,
eminentemente patriarcale, dovette assumere alcun che di artificioso per essere
adat tata ad un popolo , come il romano: poichè il medesimo aveva una co
stituzione politica molto complicata, in base alla quale i feziali, che si
erano recati per la rerum repetitio , dovevano poi tornare per avere l'avviso
dei padri, e forse anche la deliberazione del popolo intorno alla guerra , che
trattavasi di fare; ma questo è certo, che anche così trasformata essa non
perde le sue primitive fattezze . Tolgasi il pater patratus, che, anche essendo
una finzione, richiama pur sempre l'im poneute figura del patriarca primitivo ;
tolgansi i feziali, che erano sacerdoti, i quali, al pari di ogni altro
collegio sacerdotale del popolo románo, avevano solo per compito di custodire
le tradizioni, relative al diritto di guerra e di pace , senza avere alcuna
competenza intorno alla giustizia intrinseca della causa, per cui si addiveniva
alla guerra o all'alleanza ; e non si potrà a meno di riconoscere, che tanto la
repetitio rerum , accompagnata dalla clarigatio, quanto l'obtestatio 163 deorum
, quanto infine l'indictio belli, sono altrettante procedure, che serbano il
colore e il carattere di un età patriarcale e richiamano scene vive e reali,
che dovettero seguire in quella primitiva condi zione di cose. Ciò però non
toglie, che le procedure del diritto fe ziale , al pari delle antiche procedure
dell'actio sacramento e simili, allorchè furono trapiantate nel seno di un
organizzazione sociale di altra indole e natura , affidate alla custodia di un
collegio sacerdotale , rese complicate dei varii congegni di una costituzione
politica , che più non consentiva un perfetto adattamento delle medesime, assun
sero di necessità un carattere alquanto artificioso , e apparvero come forme,
vuote di contenuto e conservate solo per imitazione dell'an tico, da un popolo
, che in sostanza si era già spogliato di ogni ca rattere patriarcale , ed era
venuto nel proposito tenace di conquistare e di sottomettere le altre genti. Il
diritto feziale tuttavia rimane an cora sempre ad attestare, che in un'epoca
remotissima dovette già essere conosciuto un tentativo di amichevole
accomodamento nelle controversie, non solo fra i privati, ma anche fra le varie
genti. Era pero naturale , che questa sopravvivenza dell'epoca patriarcale
fosse destinata a scomparire, a misura che diventava più difficile di pene
trarne l'intima significazione. Tuttavia, anche in questa parte , appare sempre
lo spirito conservatore del popolo romano , che continuò a conservare e a
tenere in onore l'istituto dei feziali, anche allorchè il diritto , di cui essi
erano i depositarii ed i custodi, era andato compiutamente in disuso . 133.
Intanto non pud essere negata eziandio una certa analogia fra questa procedura
e quella , che abbiamo visto svolgersi nell'actio sacramento . Siccome però
queste procedure non sono invenzioni di pontefici e di giureconsulti, come
alcuni le avrebbero ritenute , ma sono forme tipiche di fatti , che un tempo
dovettero seguire nella realtà : cosi, per essere il processo effettivo
veramente diverso nel venire al duello od alla guerra fra due popoli, e nel
sorgere di una controversia fra due privati, ne derivò, che le due procedure
non poterono essere perfettamente conformi, comevorrebbe sostenere il Danz, ma
dovettero di necessità riuscire diverse. Nell'actio sa cramento noi abbiamo la
storia di una controversia fra due capi di famiglia , i quali, stando già per
venire alle mani, piuttosto che ab bandonarsi alla forza ed alla violenza,
accettano l'interposizione di una persona autorevole , scommettendo di essere
dalla parte della ragione e chiamando lui a giudice della scommessa. Fra due
genti 164 invece non può esservi altro giudice che la divinità, e quindi, dopo
aver reclamato il mal tolto, è questa, che chiamasi in testimonianza del
l'ingiustizia, che quel popolo ha commessa , e a nomedella medesima divinità
gli si dichiara la guerra « extremum remedium expedien darum litium » . Quello
è il processo , che si è seguito per strappare i contendenti alla privata
violenza e per indurli ad accettare l'au torità di un arbitro o di un giudice :
questo è il processo , che deve seguirsi prima di cedere alla triste necessità
della guerra (1). 134. Che poi vi fossero buone ragioni, perchè una procedura
solenne precedesse una dichiarazione di guerra , appare dalle dure conseguenze,
che il consenso delle genti aveva attribuito al diritto di guerra. Questa nel
periodo gentilizio era un vero duello fra due popoli, che non doveva cessare,
finchè uno non avesse portato nel proprio tempio le spoglie opime dell'altro .
Era guerra di uomini e guerra anche fra gli Dei dei due popoli, come lo provano
le for mole che ci furono conservate , con cui quel popolo , che faceva delle
stipulazioni e dei contratti « do utdes » anche cogli Dei, cercava di attirare
a se il favore delle divinità del popolo , con cui era in guerra (2). Una volta
poi, che questa era intrapresa ben potevasi dire, che la guerra diventava lo
stato naturale dei due popoli; perchè se si tol gono le tregue (induciae), o
per seppellire imorti o a causa della cattiva stagione, la guerra si continuava
finché non si veniva ad un trattato di pace, o non si avverasse la dedizione di
uno dei popoli in guerra . La deditio era per un popolo ciò , che per un
privato il darsi a (1) È mirabile lo sforzo di sottigliezza fatto dal dotto e
compianto Danz, prof. a Iena, per trovare una identità, che non esiste. I suoi
ragionamenti sono riportati dal Fusinato nell'opera più volte citata , Cap.
III, § 4. Intanto tutto questo sforzo di acutezza è ancor esso una conseguenza
dell'aver ritenuto il diritto primitivo di Roma, e quindi anche il diritto
feziale, come una costruzione essenzialmente formale e non basata sulla realtà
dei fatti. Se invece si ritenga, che tutto il diritto primitivo di Roma dovette
in altri tempi essere up complesso di reali ed effettive procedure, non si
potrà certo pretendere che l'actio sacramento e l'indictio belli, avendo com
piuto un ufficio diverso , potessero essere pienamente identiche fra di loro.
Quanto alle loro analogie esse sono facilmente spiegate, stante l'indistinzione
fra il diritto pubblico e privato,durante il periodo gentilizio. (2) Queste
formole ci furono conservate da MACROBIO, Saturn ., 3, 9 , $ 8 6 a 13 , il
quale dice di averle ricavate da un libro antichissimo di un certo Furio (cuius
dam Furii), che l'HUScake ritiene possa essere un A. Furio Anziate , scrittore
di diritto sacro e di annali in versi. Esse sono riportate dall' HUSCHKE,
Iurisp . an teiust. quae sup ., pag. 11. - 165 mancipio , cioè un perdere
famiglia, patria, territorio, religione, libertà e non avere altra speranza,
che quella della clemenza del vincitore. Erano le sue divinità , che l'avevano
abbandonato, e a lui non rimaneva, che di accettare rassegnato la propria sorte,
entrando in quella classe dei vinti, che formava un eterno dualismo con quella
dei vincitori (1). Che anzi i Romani applicavano anche a se stessi quel
medesimo diritto di guerra, e fu soltanto colla fin zione del diritto di
postliminio, che riuscirono ad attribuire effi cacia ad atti, che il cittadino
romano aveva compiuto, mentre era prigioniero di guerra , e a fare astrazione
dal tempo , che egli aveva trascorso in tale qualità presso il nemico . 135.
Sono queste dure conseguenze del diritto di guerra , che spiegano quanto
dovesse essere profondo il solco, che erasi venuto scavando fra la classe dei
vincitori e quella dei vinti, e come fra essi non potesse esservi, nè comunione
di matrimonii, nè di reli gione , salvo dopo una lunga convivenza nei quadri dell'organizza
zione gentilizia , in cui i vinti formarono la classe dei servi, dei clienti e
per ultimo quella dei plebei, mentre i vincitori costituirono quella dei padri,
dei patroni e dei patrizi. Intanto di tutto questo periodo, in cui le genti
italiche vennero elaborando la religione, il diritto , la famiglia , le
istituzioni, il co stume, non un solo nome proprio è sopravvissuto : dei veri
grandi uomini, dei veri fondatori di una convivenza sociale non si conosce nè
la patria , nè il nome, nè l'epoca precisa , in cui siano vissuti; ma se la
memoria degli uomini è perita, sopravvissero perd le isti tuzioni e tutti i
concetti fondamentali, che costituirono poi la base della futura grandezza di
questi popoli. Fin qui del patriziato e delle sue istituzioni, di cui dovette
essere lungo il discorso, perchè era lungo il suo passato ; ora importa stu
diare le condizioni della plebe , la quale se non ha per sè il passato , dovrà
perd avere una gran parte nell'avvenire della città . (1) La formola della
deditio ci fa conservata da Livio, I, 38. È notabile : che in essa intervengono
anche i Feziali ; che si domanda se il popolo che fa la deditio è in sua
potestate ( il che prova che un popolo , al pari di una persona, poteva essere
sotto la potestà di un altro); e che è serbata affatto la forma contrattuale
della stipu lazione: « Deditisne vos populum Conlatinum , urbem , agros, aquam
, terminos, de « lubra , utensilia, divinaque humanaque omnia, in meam
populique romani ditio « nem ? – Dedimus. At ego recipio » . 166 CAPITOLO VIII.
Le origini della plebe e la sua prima organizzazione. 136. Le cose premesse
intorno all'organizzazione ed alle istituzioni proprie delle genti patrizie ci
pongono finalmente in condizione di prendere in esame la questione della
origine della plebe e della sua posizione giuridica di fronte al patriziato
negli inizii della comu nanza romana. La genesi di questo elemento, che, poco
importante dapprima, fini per esercitare tanta influenza sull'avvenire della
città , è certo il più importante problema della storia primitiva di Roma, e
quindi si comprende che gli autori tutti siansi travagliati intorno al medesimo
ed abbiano anche proposto opinioni compiutamente di verse (1). Sonovi alcuni,
fra i quali il Lange, che vorrebbero rannodare l'origine della plebe alla
caduta di Alba e alla conquista di altre città latine, la cui popolazione sotto
Anco Marzio sarebbe stata tras portata a Roma (2 ). Certo un tale avvenimento
non potè a meno di avere grande importanza per accrescere il numero ed assicurare
l'avvenire della plebe romana; ma egli è impossibile riconoscere in questo
fatto l'origine primitiva della plebe, dappoichè, secondo la tradizione, la
medesima sarebbe già esistita all'epoca della prima fondazione di Roma;
cosicchèRomolo prima e Numa dappoi già avreb bero preso dei provvedimenti per
l'ordinamento di essa . (1) L'enumerazione delle varie opinioni circa l'origine
della plebe colla indicazione degli autori, che le professano, può vedersi nel
Willems, Le droit public romain , pag. 31, e nel Bouchè-LECLERCQ, Manuel des
institutions romaines, pag. 11, né 3; come pure nell'opera , ancora in corso di
pubblicazione , del prof. LANDO LANDUCCI, col titolo : Storia del diritto
romano dalle origini fino a Giustiniano. Corso scola stico. Padova , 1886 ,
pag. 274 ; opera che,mentre nel testo offre riassunti i risultati, a cui son
pervenuti gli studii sulla storia del diritto romano, nelle note porge no tizia
agli studiosi della ricchissima letteratura sull'argomento. (2) Il Lange,
Histoire intérieure de Rome, I, pag. 56 e segg., tratta largamente la questione
e considera la plebe primitiva di Roma, come una moltitudine di pe regrini
dediticii , il cui nucleo più importante sarebbe uscito dalle città latine. A
suo avviso, essa è dapprima affatto estranea al popolo delle curie, la quale
opinione è pure seguita dal KarlowA, Römisches Rechtsgeschichte, I, § 9, pag.
62 e segg ., -- -- 167 Non può parimenti ammettersi col Vico, che la plebe
fosse origina riamente costituita da clienti ammutinati contro l'ordine dei
padri ( 1), in quanto che, durante il periodo regio , la plebe non trovasi an
cora in condizioni tali da impegnare la lotta col patriziato ; lotta che,
sebbene siasi forse iniziata al tempo dei re, cominciò solo ad essere argomento
di racconto e di storia col periodo repubblicano. A ciò si aggiunge, che anche
durante la lotta i clienti ed i plebei appariscono in opposizione fra di loro ,
comeappare dai richiamidella plebe contro la clientela , che costituiva la
forza maggiore dell'or dine patrizio. Tuttavia questo fatto, che condusse
taluni a con siderare la plebe e la clientela , come due termini inconciliabili
ed opposti fra di loro, non ha impedito, che più tardi sianvi state delle
famiglie, che originariamente erano in condizione di clienti, e che poi il
quale considera anzi la plebe comeuna popolazione residente fuori della cerchia
della Roma primitiva, e nota che il Celio , l’Appio e il Cispio , secondo una
osservazione stata fatta di recente , hanno un nome identico a quello proprio
di genti plebee . Anche il Voigt, Die XII Tafeln , I , pag. 258, viene alla
conclusione che i plebei non solo non partecipassero alle curie ; ma che essi
costituissero una corporazione distinta , la quale, dopo l'istituzione del
tribunato della plebe, si sarebbe organizzata nei comitia tributa . La
corporazione esercitava sui suoi membri un potere di coerci zione, ne quid ex
publica lege corrumpent. Il suo magistrato era il tribunus plebis ; al modo
stesso che i suoi giudici non sarebbero stati dapprima i centumviri, ma i
decemviri , che sarebbero stati tratti dalla plebe. È quindi questa l'opinione,
che contrappone più apertamente il populus e la plebes, e ci fa assistere alla
lenta fu sione dei due elementi, anche dopo che entrarono a formare parte della
stessa comu. nanza. Questo è certo, e cid apparirà meglio a suo tempo, che
quella singolare isti tuzione del tribunato della plebe , che non riesce mai ad
inquadrarsi perfettamente nella costituzione politica di Roma, dimostra
abbastanza, che se colla legislazione decemvirale i due ordini cominciarono ad
essere governati da un comune diritto; essi continuarono però ancora per lungo
tempo a costituire due classi sociali com piutamente distinte, e recarono un
contributo molto diverso sia nello svolgimento della costituzione politica ,
che in quello del diritto privato di Roma. Cfr. al riguardo PADELLETTI, Storia
del diritto romano, pag. 19 , e la nota del prof. Cogliolo, in cui pare che
l'annotatore si scosti dall' opinione certamente troppo recisa del Padel LETTI,
il quale sostiene che patriziato e plebe siano stati, fin dalle origini,
ammessi a far parte della assemblea delle curie. (1) Il luogo, in cui il V100
svolge più chiaramente questo suo concetto, è nella prima Scienza nuova, lib.
II , Cap. XXXII, dove scrive : « che le prime repubbliche sorsero dagli
ammutinamenti dei clienti, attediati sempre di coltivare i campi per li
signori, dai quali essendo fino all'anima malmenati, gli si rivoltarono contro
; e dai clienti così uniti sorsero le prime plebi; onde, per resister loro,
furono i nobili dalla natura portati a stringersi in ordini » : Di qui appare,
che anche il Vico fa rimontare l'origine della plebe ad epoca anteriore alla
formazione della città. 168 recarono un contributo potente alla plebe nella sua
lotta col patri ziato ; donde si può argomentare, che anche nella plebe
primitiva possono essere entrati degli antichi clienti, che per circostanze di
varia natura erano stati prosciolti dal vincolo della clientela . Cosi stando
le cose , ha molto del verosimile l'opinione del Mommsen, che in qualche parte
si accosta a quella del Vico , secondo cui il nucleo primitivo della comunanza
plebea si sarebbe venuto formando per mezzo di clienti, che di fatto si
trovavano svincolati dal loro patrono per l'estinzione della gente, da cui essi
dipendevano (1). Se non che si presenta ovvia l'osservazione, che quando questo
fosse stato il solo mezzo per costituire la plebe, la medesima diffi cilmente
avrebbe potuto, fin dal periodo regio , prendere così grandi proporzioni da
imporsi al patriziato e farsi accogliere nella città . Quindi è, che l'opinione
del Mommsen trova forse un opportuno compimento nella teoria del Niebhur, il
quale , tenuto conto del modo, in cui le comunanze plebee si erano formate in
condizioni sto riche analoghe a quelle in cui trovavansi i primitivi
stabilimenti delle genti patrizie, venne a considerare come una legge storica
costante, quella per cui accanto ad uno stabilimento di casate pa trizie,
chiuso e fortificato in sè stesso , formasi naturalmente una specie di
comunanza plebea ; la quale, senza partecipare dapprima agli onori, ai
suffragi, e ai matrimonii della città patrizia , pud tut tavia giungere ad una
certa indipendenza dalla medesima, mediante il possesso e la coltura delle
terre, e mediante l'esercizio dei mestieri e delle professioni diverse (2 ).
Tuttavia anche l'opinione del Niebhur ( 1) MOMMSEN , Histoire romaine, I, Chap.
V , pag. 103 e segg. Questa opinione fu poiadottata dal WILLEMS, Le Sénat de la
République Romaine,Paris, 1878, pag. 15 . (2) Ritengo che anche oggi il Niebhur
sia l'autore, che è pervenuto a studiare con vedute più larghe l'origine della
plebe. Di regola esso è annoverato fra coloro, i quali ritengono che la plebe
sia stata composta delle popolazioni vicine a Roma, state dalle medesima
sottomessa . Tale è, ad esempio, l'opinione, che gli è attribuita dal WILLEMS
dal Bouchè-LECLERCQ, op. e loc. cit. La lettura invece del capitolo intitolato
: « La commune et les tribus plébéiennes » della Histoire romaine, tome II,
pag. 135 a 174 , mi ha convinto che il NIEBHUR si è fatta una idea più larga
della questione. Le conquiste, secondo lui, hanno bensì contribuito ad
accrescere e a trasformare la plebe romana, sopratutto coll'incorporazione
delle popolazioni latine; ma intanto essa già preesisteva nelle stesse tribù
primitive, costituiva una specie di vera comunanza separata e distinta dal
patriziato, composta mediante l'ammessione di cives sine suffragio, e di
clienti rimasti senza patrono (op. e loc. cit ., pag . 149). Tuttavia misia pur
lecito di constatare, che l'autore, il quale ha meglio compreso quel carattere
169 lascia ancor sempre senza spiegazione quello stato di inferiorità e di
abbiezione , pressochè servile, in cui una parte almeno della plebe trovasi di
fronte al patriziato negli inizii di Roma; cose tutte, che non si
comprenderebbero quando si trattasse di possessori e di cul tori di terre, che
fossero stati sempre indipendenti dal patriziato . 137. Tutte queste
considerazioni mi confermano nell'opinione già altrove manifestata , che il
fenomeno della formazione primitiva della plebe debba cercarsi nella
sovrapposizione delle genti italiche di origine aria sovra altre razze già
preesistenti. In quel periodo di privata violenza, che non dovette essere
dissimile da quello, che ebbe poi ad avverarsi, allorchè le razze germaniche
invasero l'Impero, gli elementi in urto ed in lotta fra di loro dovettero
dividersi in due classi, cioè, in quella dei vincitori e in quella dei vinti ;
in quella di coloro, che erano tenuti compatti dalla potente organizzazione
genti lizia , e in quella di coloro, che non erano ancora cosi progrediti nella
loro organizzazione domestica e sociale. Quelli costituirono la classe
dominante dei padri, dei patroni, dei patrizii e si vennero sempre più fortificando
nella loro ferrea organizzazione gentilizia , e tentarono di fare entrare nei
quadri della medesima anche la classe dei vinti, ponendola nella condizione
subordinata di servi e di clienti. È in quest'epoca di lotta e di conflitto ,
che è mestieri di cercare l'o rigine prima di quella distinzione di classi, che
si trova agli inizii della comunanza romana; al modo stesso , che è nell'epoca
feudale , che deve essere cercata l'origine di quelle distinzioni di classi, le
cui traccie simantennero a lungo dappoi, e la cui lotta diede eziandio origine
al movimento democratico odierno. Per trovare quindi la prima origine della
distinzione converrebbe poter scomporre le po polazioni italiche primitive,
conoscere le stirpi diverse da cui esse provennero, e determinare la posizione,
in cui i vinti ebbero a tro varsi di fronte alla potente organizzazione dei
vincitori ; problemi tutti, per la cui risoluzione ci mancano per ora gli
elementi necessarii. particolare della città antica, per cui essa suppone il
concorso di due elementi, di cui l'ano superiore e l'altro inferiore, le cui
lotte danno vita e movimento alla città, è certamente il nostro Vico . La città
patrizia non è ancora che un ordine e una cor porazione di padri; mentre è la
città patrizio-plebea , che ci porge lo spettacolo della lotta tra quelli, che
intendono sopratutto a conservare l'antico ordine di cose , e quelli che
abbisognano di innovare per migliorare la condizione presente. 170 138. Forse
tali indagini potrebbero anche condurre al risultato , che fra le varie
comunanze di villaggio ve ne erano di quelle dedite alle armi ed organizzate
per genti e che come tali appartenevano al patriziato e costituivano una specie
di aristocrazia territoriale;mentre poi ve ne erano delle altre, prive di
tradizioni, dedite soltanto al lavoro dei campi e all'esercizio delle
professioni e dei mestieri di versi (quale sembra essere stato ad esempio il
vicus Tuscus), che costituivano delle comunanze plebee . Quest' ultime
naturalmente dovevano trovarsi in una specie di dipendenza e pressochè di vas
sallaggio , rimpetto alle prime; il che potrebbe spiegare in certi con fini
quei forcti ac sanates, di cui ci parla Festo , che comprende vano le
popolazioni superiori ed inferiori a Roma e trovavansi in dipendenza rimpetto alla
medesima, la quale tuttavia già accomunava ad essi una parte del proprio
diritto , cioè il ius nexi manci piique ( 1). Tuttavia , se ciò può esser vero
delle plebi rurali, questo si può affermare con certezza , che certamente un
buon dato della plebe primitiva e sopratutto della plebe urbana di Roma ebbe ad
uscire dalla classe, che trovavasi in condizione inferiore nell'orga nizzazione
gentilizia . Cid soltanto può spiegare la superiorità incon trastata del
patriziato e l'abbiezione pressochè servile di una parte della plebe, che
tradisce ancora quel sentimento di rispetto e di paura, che ha il servo
affrancato per il suo antico padrone (2 ). (1) La questione intorno alla
condizione dei forcti ac sanates è una delle più difficili, che presenti la
storia primitiva di Roma, per la povertà ed anche la muti lazione dei passi
degli autori, che vi si riferiscono (V. Festo , vº Sanates , quale è riportato
nel Bruns, Fontes, pag . 364, nella Va edizione, pubblicatasi in quest'anno dal
Mommsen). Io credo tuttavia , che la medesima, dandoci un concetto del tratta
mento giuridico , che i Romani usavano colle popolazioni circostanti a Roma,
possa porgerci dei dati preziosi per argomentare quale fosse la condizione
della plebe, du rante il periodo esclusivamente patrizio. Rimetto quindi
l'esame della questione al Capitolo I di questo stesso libro. (2) Ecco quindi
la conclusione, a cui parmi di poter venire. Nella plebe primitiva di Roma
voglionsi distinguere due correnti: una uscita dalla stessa organizzazione
gentilizia forma il primo nucleo di una popolazione , che ha sede contigua allo
stabili mento patrizio, ma non è più compresa nei quadri del medesimo; l'altra
invece, per conquiste o per immigrazione, viene ad incorporarsi in questo
nucleo primitivo, e l'accresce per modo da richiamare l'attenzione sopra di
esso . Questi due elementi appariscono accennati dalla tradizione stessa
intorno alla plebe primitiva, poichè altra è la plebe, che già appartiene alle
varie tribù, e che viene ancora ad essere col locata sotto la clientela dei
padri , ed altra è la plebe, che la tradizione dice rac -- - 171 - 139. La
formazione poi di questa plebe dovette cominciare, allorchè i vincoli
dell'organizzazione gentilizia già cominciavano a rallentarsi. Ciò accadde
quando alla gente , che era ancora stretta insieme dal vincolo della
discendenza, cominciò a sovrapporsi la tribù; la quale comprendendo elementi,
che potevano essere di origine diversa, fini per non riuscire sempre a chiudere
nei suoi quadri, consacrati dalla religione, tutti gli elementi, che si
venivano affollando intorno alla medesima. Cominciò cosi a formarsi al di fuori
dell'organizza zione gentilizia , che era l'unica riconosciuta dalle genti
patrizie , una moltitudine ed una folla, il cui primo nucleo può essere uscito dal
seno stesso della medesima, ed essere anche costituito da clienti rimasti senza
patrono ; al modo stesso, che le comunanze popolari del medio Evo erano in
parte costituite da famiglie , che un tempo erano vassalle del feudatario .
Siccome però nell'epoche primitive ciò che è più difficile è il creare
l'elemento novello , mentre il mede simo, una volta formato, può poi
accrescersi in varie guise ed acco . gliere tutti coloro, che , per questa o
quella considerazione, si trovano spostati nell'anteriore organizzazione: cosi
questo primo nucleo , dopo essersi staccato dalla stessa organizzazione
gentilizia , venne richia mando e quasi attraendo a sè rifugiati di altre
comunanze ; servi fuggitivi; immigranti, che non amavano di porsi sotto la
protezione del patriziato , o che, per motivi religiosi o di altra natura, non
erano ammessi alla medesima; popolazioni di vinti, che perdevano territorio ,
religione e famiglia ; abitatori di vici, che si erano dati all'esercizio dei
mestieri e delle professioni diverse ; cultori di terre, che di fatto si erano
stabiliti sul territorio situato nelle circostanze dello stabilimento patrizio
; popolazioni stabilite superiormente od inferiormente a Roma, a cui per
necessità di commercio si dovette dapprima accordare quel ius nexi mancipiique,
di cui parlano le dodici Tavole, quanto ai forcti ac sanates. Ciò spiegherebbe
anche come queste popolazioni, il cui nome era diventato inesplicabile per gli
stessi antiquarii romani, abbiano col tempo perduta la loro an tica denominazione,
in quanto che, a misura che estendevasi la do minazione romana, tutte queste
popolazioni vennero ad essere com prese nella plebe, e non fu cosi più il caso
di attribuire ad esse una colta mediante l'asilo offerto da Romolo. È parlando
di questo asilo, che Livio, I, 8 , ebbe a scrivere : « E. (asylo) ex finitimis
populis, turba omnis , sine discrimine liber seu servus esset, avida novarum
rerum , perfugit ; idque ad caeptam magnitu dinem roboris fuit » . 172 speciale
posizione giuridica. Per tal guisa il nucleo primitivo si venne ingrossando, e
quando le genti patrizie volgero lo sguardo at torno a sè videro in esso una
plebs, che nel significato primitivo suona moltitudine o folla. Il nome
pertanto , che le fu dato , corrisponde alla impressione, che questa folla deve
aver fatto sopra una classe di uomini, che non conosceva altra organizzazione
fuorchè la gentilizia . Le genti infatti non potevano scorgere in essa
dapprima, che ceti di uomini riuniti in una guisa , che per esse non aveva quel
carattere religioso e sacro , che avevano tutte le loro istituzioni. Non
potevano infatti chiamarla un populus, perchè non era nè divisa in curie , nè
aveva consiglio di anziani, nè aveva un magistrato , che la diri gesse , nè era
insomma un « coetus hominum iuris consensu et uti. litatis comunione sociatus »
, e quindi la chiamarono plebes. Di qui il dualismo fra populus et plebes, che
trovasi in alcune formule arcaiche ; dualismo, che per essere l'effetto di
cause naturali viene a presentarsi non solo in Roma, ma in tutte le comunanze
delle genti italiche. Di queste tuttavia , se ne hanno di quelle, in cui
quest'elemento è tenuto in umile stato , come sarebbero le città etrusche, ed
altre invece, in cui esso già ottiene qualche concessione, quali sarebbero
appunto le città latine. Il primo senso del patriziato per quest'elemento
novello , che prendeva ad esistere fuori dei quadri della propria gerarchia ,
dovette essere di un disprezzo non dissimile da quello, che più tardi i
patrizii manifestarono per quei concilia plebis, che pur dovevano trasformarsi
nei comizii tributi ; ma al lorchè il numero di questa plebe venne facendosi
sempre più grande, si comprende come questo elemento dovesse di necessità
essere te nuto in conto, sopratutto in una comunanza di carattere belligero,
quale era la romana . 140. Narra infatti la tradizione, per bocca almeno di
Dionisio e di Cicerone, che il fondatore della città avrebbe collocata la plebe
nella clientela del patriziato , e incaricato i padri di farle assegnidi terre,
a titolo di precario , non dissimili da quelli, che essi facevano ai clienti.
In verità per una città eminentemente patrizia , come era Roma primitiva, il
miglior modo per organizzare la folla , che aveva seguito l'esercito del
fondatore o che erasi accalcata intorno allo stabilimento da essa fondato , era
quello di farla entrare nella ge rarchia dell'organizzazione gentilizia. Fin
qui pertanto la plebe non è ancora veramente tale , ma è costretta ancora nei
quadri della clientela. Pero a misura che la fortuna nascente di Roma od 173
anche l'apertura stessa di un asilo ai rifugiati e agli esuli dalle altre città
(questo vetus urbis condentium consilium , che non è poi cosi improbabile, come
ebbe a farlo la critica storica ) cominciarono a richia mare nei dintorni della
città una quantità di individui e di capi di famiglia di provenienza diversa ;
anche la clientela venne ad essere insufficiente per comprendere nei proprii
ranghi questa folla di uo mini, di cui una parte potè forse essere di origine
ellenica ed etrusca, ed avere tradizioni e credenze diverse da quelle dai
fondatori della città . Era stata la lunga coabitazione come servi e famuli
nella famiglia , che nell'anteriore organizzazione gentilizia aveva servito a
preparare la clientela delle genti patrizie . Questa preparazione invece
mancava nel nuovo elemento , che accorreva nei dintorni di Roma; per tal modo
l'antica istituzione religiosa ed ereditaria della clientela venne ad essere
inadeguata e disacconcia al bisogno ed inetta a dare un'organizzazione al nuovo
elemento . Quasi si direbbe che , collo svolgersi della città , l'antica forma,
sovra cui si era modellata l'anteriore organizzazione sociale, che colla tribù
già erasi alquanto sgretolata , venne a rompersi affatto . Quindi mentre tutto
prima era compreso nella gerarchia gentilizia , colla città in vece comincia a
farsi palese e a colpire lo sguardo questo ele mento novello , che guadagna e
richiama a sè tutto ciò , che sfugge all'antica organizzazione. Dapprima il
fatto dovette colpire l'ordine stesso dei padri, e loro parve strano di dover
riconoscere, che l'or ganizzazione gentilizia più non potesse bastare ad ogni
emergenza. Ma col tempo fu necessità arrendersi all' evidenza, e l'elemento
nuovo non poteva essere trascurato per una comunanza come la Romana di
carattere eminentemente belligero , e che abbisognava perciò di un contingente
sempre nuovo per riempire le file del proprio esercito . Sopratutto il nuovo
elemento doveva apparire im portante per il re, il quale da una parte poteva
trovare in esso un sussidio potente per la formazione dell'esercito, e
dall'altra, as sumendo la qualità di patrono non dei singoli plebei, ma dell'in
tiera classe , poteva anche trovare in essa un appoggio per bilanciare la
soverchia influenza dei padri. Questi infatti, memori, che il re era il loro
eletto ed il rappresentante , a cui avevano affidato i proprii auspicia , lo
volevano naturalmente ligio ai proprii interessi e mira vano a valersi di esso
per trasportare anche nella città l'organiz zazione per genti e per tribù , per
quanto la medesima male si accon ciasse alla nuova condizione. 174 - 141. Gli è
questo il motivo, per cui noi vediamo, secondo la tra dizione, prendersi dai
re, che vengono dopo, una serie di provve dimenti nell'intento di organizzare
la plebe. Mentre Romolo , dopo avere, secondo Dionisio, affidato alla plebe la
coltura delle terre e l'esercizio delle arti manuali, si limita a porla sotto
la clientela dei padri, e si vale cosi di un istituto vecchio per comprendere
un ele mento nuovo (1), Numa invece già prende quanto alla plebe due
importantissimi provvedimenti. Il primo è quello di distribuire direttamente ai
più poveri, che sono appunto quei tenuiores, di cui parla Festo, e che
appartengono alla plebe, l'ager conquistato da Romolo, e che era venuto ad ac
crescere l'ager publicus ; il quale provvedimento produsse l'effetto , che la
plebe da questo momento, almeno in parte, cesso di essere sotto il patronato
dei patres. Però siccome i cambiamenti sono e devono essere lenti; cosi al
patronato dei patres sembra sottentrare una specie di patronato del re, il
quale fa alla plebe quegli assegni di terre, che dapprima erano affidati ai
patres (2). Forse può darsi che dapprima questi assegni di terre, fatti dal re
alla plebe sull'ager publicus, fossero soltanto a titolo di semplice precario,
come quelli che erano fatti dai patres ai clienti sull'ager gentilicius ; ma in
tanto è già un passo importante per la plebe quello di non dipen dere più
direttamente dai capi delle genti, ma di essere sotto il patronato o almeno
sotto la protezione diretta del re, custode e ma gistrato della città . L'altro
provvedimento, ricordato da Plutarco , e che egli dice essere stato altamente
lodato, fu quello per cui Numa avrebbe di (1) Dion., 2 , 9 : « Romulus postquam
potiores ab inferioribus secrevit ;mox legem tulit et quid utrisque faciendum
esset disposuit : patricii sacerdotiis et magistra tibus fungerentur et
iudicarent, plebeiï vero agros colerent et pecus alerent etmer. cenarias artes
exercerent » (Bruns, Fontes, pag. 3 ). (2 ) Quanto a questa ripartizione fatta
da Numa, vi ha divergenza fra CICERONE, De rep ., II, 14, secondo cui la
ripartizione si sarebbe fatta viritim ai cittadini in genere, mentre DIONISIO
vuole che siasi fatta ai più poveri , II , 62. Cfr. Bongur, Storia di Roma, I,
pag. 85. - Per quello che si riferisce al patronato del re sopra la plebe,
ritengo col KARLowa, che ilmedesimo non possa essere preso nella signifi
cazione giuridica attribuita al vocabolo (Röm . R. G., I , pag . 63 ). Ciò
tuttavia pon toglie , che la plebe, dopo essersi resa indipendente dal
patriziato, abbia trovato nel re il suo protettore naturale, e siccome tale
protezione non si comprendeva al lora che sotto la figura di clientela, così
gli autori considerarono il re come patrono o la plebe come sua cliente . - 175
- stribuito quella parte della plebe, che era dedita alle arti manuali e
all'esercizio delle professioni diverse, in corporazioni di arti e mestieri
(collegia ), che furono nove: quella cioè dei suonatori di flauto, degli orefici,
dei muratori, dei tintori, dei calzolai, dei cuoiai, dei fabbri, dei vasai e
l'ultima di tutte le altre professioni, dando alle medesime proprie riunioni e
i proprii riti. Vero è, che questo provve dimento ebbe ad essere posto in
dubbio dalla critica e fra gli altri dal Mommsen , e che probabilmente i
collegi, la cui formazione si attribuisce a Numa, potevano già esistere
precedentemente, sopra tutto nel vicus Tuscus, la cui popolazione fu una delle
prime ad essere compresa nella plebe romana : ma non è punto improbabile che,
come erasi cercato di provvedere alla plebe dedita alla coltura delle terre ,
cosi si cercasse di dare un'organizzazione alla plebe dedita agli esercizi
delle arti e professioni diverse , o di consacrare almeno l'organizzazione, che
già esisteva precedentemente o che tro vavasi in via di formazione ( 1). Non è
quindi il caso di respingere la tradizione, dal momento che non vi ha nulla di
meglio da sosti tuirvi ; almodo stesso che è meglio accettare anche le figure
alquanto leggendarie dei re , piuttosto che sostituirvi qualche cosa, che non
ha neppur più della leggenda, la quale è pur sempre intessuta sopra un fondo di
vero. 142. Intanto questo si può affermare con certezza, che fin dagli inizii
di Roma cominciò ad apparire un dualismo nella plebe ro mana, che, accennato
fin dall'epoca di Romolo con affidare alla plebe la coltura delle terre e
l'esercizio delle arti manuali, già comincia a delinearsi con Numa, il quale ad
una parte della plebe fa assegni di terre e l'altra distribuisce per arti e
mestieri, e che più tardi finisce per accentuarsi molto più recisamente. Havvi
infatti in Roma, fin dai proprii esordii, una plebe rurale, composta di piccoli
possidenti , ed (1) PLUTARCO, Numa, 17 : « De ceteris eius institutis maximam admirationem
« habet plebis per artificia distributio ; haec vero fuit: tibicinum ,
aurificum , fabrorum « tignuariorum , tinctorum , sutorum , coriariorum ,
fabrorum aerariorum , figulorum ; « reliquas artes in unum cöegit , unumque ex
iis omnibus fecit corpus ; consortia et < concilia et sacra cuique generi
tribuens convenientia » (V. BRUNS, Fontes, pag. 11 ). L'autore , che sembrava
porre in dubbio questa distribuzione della plebe in arti e mestieri, sarebbe lo
stesso MOMMSEN , De collegiis ac sodaliciis ; Liliae, 1843, citato dal MUIRHEAD
, Histor. Introd., pag. 11 ; ma pare che nella Storia Romana accetti la
ripartizione stessa come una verità di fatto. - 176 - una plebe, composta di
artieri, commercianti, esercenti le arti e le professioni diverse . L'ideale
della prima è quello sopratutto di mu tare le sue possessioni di terre in una
proprietà indipendente, che la ponga in condizione di provvedere al
sostentamento di sè e della propria famiglia ; quello insomma di avere
quell'heredium o man cipium , che pur appartiene al capo della famiglia
patrizia . A questa plebe, che non abita nelle mura di Roma, ma nelle
circostanze di essa , dovette probabilmente dalla città patrizia essere
riconosciuto quel diritto , che più tardi da Roma fu pure riconosciuto alle popo
lazioni vicine, che sono indicate col nome di forcti ac sanates , cioè il ius
nexi mancipiique. Cid pud essere argomentato da cid, che Roma di regola suole
seguire gli stessi processi in condizioni anaa loghe e quindi è probabile, che
questa plebe, che risiedeva fuori della città, e costituiva in certo modo una
popolazione circostante alla medesima, fosse trattata nel modo stesso , in cui
da essa furono poi trattate le altre popolazioni vicine. L'altra parte della
plebe invece, mancando di altra organizzazione , cerca di rafforzarsi, come
farà più tardi anche la popolazione commerciante dei comuni del Medio Evo,
mediante le corporazioni di arti e di mestieri. Quelli, che apparten gono alla
plebe rurale, convengono in Roma i giorni di mercato per vendervi i loro
prodotti, e per conoscere anche i provvedimenti, che siano presi nell'interesse
comune ; mentre gli altri, che apparten gono alla classe dei piccoli
commercianti ed artieri, formano fin d'allora il primo nucleo di quella plebe
urbana, nel seno della quale si formerà più tardi quella forensis factio, che
già comincia ad apparire sotto la censura di Appio Claudio, e getta il
discredito sulle tribù urbane. 143. Già erasi così delineata la distinzione fra
plebe rurale ed urbana, quando sopraggiunse un avvenimento, il quale diede una
grande compattezza all'organizzazione della plebe romana, e mentre ne accrebbe
il numero e la potenza , le diede anche un nuovo indi rizzo e ne assicurò
l'avvenire. Questo avvenimento fu l'aggregarsi alla plebe romana della parte
più povera della popolazione di Alba, la cui distruzione è attribuita a Tullo
Ostilio, e quella del trasporto od anche, come pare più probabile, della
riunione alla plebe di Roma per opera di Anco Marzio, della popolazione di
varie città latine da lui conquistate. Questo nuovo contributo venne ad
accrescere la forte plebe rurale, vivamente affezionata al fondo da essa
coltivato, e disposta a porre la vita per la difesa di esso, e fece entrare
nella - 177 plebe un elemento , la cui origine era analoga a quella del
patriziato , e che aveva già un'organizzazione domestica, non dissimile da
quella del medesimo. Fu il rifiuto del corpo chiuso del patriziato primitivo di
Roma di ricevere nel proprio seno queste famiglie delle città la tine, che
assicurò l'avvenire della plebe romana, incorporando in essa un elemento , che
portò nella lotta per il pareggiamento giuri dico e politico una tenacità e
perseveranza, non dissimili da quelle, che contraddistinguono il patriziato
romano. Di qui la conseguenza, che come era stata latina l'organizzazione del
patriziato romano, poichè gli elementi sopraggiunti erano entrati nei quadri
della città latina ; così fu sopratutto latina la massa più forte della plebe
ro mana, quella massa, di cui una buona parte entro più tardi a costi tuire la
nuova nobiltà. Senza questo elemento la plebe primitiva, di origine diversa e
che in parte era forse di origine servile, avrebbe molto probabilmente
continuato lungamente a mantenersi tale ;mentre questo innesto di famiglie
latine, che nel loro paese nativo tenevano già un certo grado, per cui loro
dovette riuscire grave di vedersi respinte dai quadri dell'ordine patrizio,
portò forza , organizzazione , tenacità nella plebe e ne assicurò l'avvenire,
fino a che questo ele mento vigoroso e vitale non fini per uscire dalla plebe
stessa, che aveva resa potente , e aggregandosi alla nobiltà abbandonò la plebe
minuta agli spettacoli del circo e alle distribuzioni di frumento . 144. Per
comprendere però un avvenimento di questa natura , importa farsi un'idea chiara
della lotta, che vi era fra Alba da una parte e Roma dall'altra . Erano
entrambe due città latine, cioè due centri di vita pubblica fra varie comunanze
di villaggio , ed erano troppo vicine per poter coesistere. L'una o l'altra
doveva cedere, e la conseguenza era per la soccombente di dover scompa rire
come città e come urbs, per modo che le comunanze, che mettevano capo ad essa,
dovessero invece fare capo a quella , che riusciva vittoriosa . Il patto quindi
che, secondo la tradizione, ebbe ad essere suggellato fra i capi dei due
popoli, con tutte le cerimonie del diritto feziale, era che, trattandosi di
popoli fratelli, si dovessero rimettere al combattimento di tre per parte le
sorti della guerra (1) . (1) Questo intento della guerra Albana è messo in
evidenza dalle parole, che Livio, I, 27, attribuisce a Tullo Ostilio nella
concione tenuta avanti ai due popoli prima di condannare allo squartamento
Metto Fuffezio : « Quod bonum , faustum G. CARLE, Le origini del diritto di
Roma. 12 178 La lotta quindi leggendaria fra Orazii e Curiazii era lotta di pre
dominio fra le due città, la cui parentela era ricordata e riconosciuta , ed
era una specie di giudizio di Dio per sapere quale dovesse preva lere : senza
che occorra di sforzarsi col Lange a volere che il numero dei tre corrisponda
alle tre tribù, e che il nome di Curiazi provenga dalle curie (1). Conseguenza
dell'esito del duello fu , che la città soccombente perdette la propria
esistenza separata e fu distrutta come urbs, e quindi le genti patrizie albane
furono aggregate al patriziato romano, a cui si aggiunsero cosi i Tullii, i
Servilii, i Quinzii, iGe ganei, i Curiazii, i Clelii, le cui genti pero, per
essere sopraggiunte più tardi, furono poi collocate dallo stesso Tullo Ostilio
o da Tar quinio Prisco nel novero delle gentes minores . Tutta la popolazione
invece, che, nelle condizioni, in cui allora si trovava, non poteva entrare nel
patriziato entro in massa nei ranghi della plebe, e una parte di essa , cioè la
più povera, ebbe anche degli assegni di terre. Cid pure accadde, quando Anco
Marzio vinse altre comunanze latine , e ne aggregò la popolazione alla plebe
romana; il che fu dalla tradi zione espresso con dire, che Anco Marzio aveva
trasportata a Roma la popolazione di quattro città latine (2 ). 145. È a questo
punto pertanto , che la plebe acquista in Roma una vera importanza, e che viene
ad essere indispensabile di trovare un modo per farla entrare, ancorchè a
condizioni disuguali, nella cittadi nanza romana; tentativo cominciato con
Tarquinio Prisco , e condotto a compimento da Servio Tullio (3). Mentre
Tarquinio Prisco non riesce felixque sit populo romano ac mihi,vobisque,
Albani; populum omnem Albanum Romam traducere in animo est; civitatem dare
plebi; primores in patres legere : unam urbem , unam rempublicam facere » . (1)
Lange, Histoire intérieure de Rome, I, pag . 35. (2) Questi fatti attestati
dalla tradizione e da tutti gli storici rendono a parer mio non accoglibile
l'opinione sostenuta con molta erudizione dal PANTALEONI nella sua Storia
civile e costituzionale di Roma, lib . I, cap. 6 , pag. 97 a 113, Torino, 1881,
secondo cui il partiziato romano sarebbe stato Sabellico , mentre la plebe
sarebbe stata Latina. Questi fatti invece dimostrano, che la popolazione delle
città latine era essa pure divisa in patriziato ed in plebe, cosicchè quel
dualismo che presentasi in Roma già preesisteva nel Lazio . Del resto l'ipotesi
del dotto au tore sarà poi presa in esame quando si tratterà della legislazione
regia , Lib. II, cap . IV, discorrendo del contributo recato dalle varie stirpi
italiche alle istituzioni giuridiche di Roma. (3) L'importanza grandissima per
l'avvenire della plebe romana di quest' innesto 179 che a conglobare i
rappresentanti di queste varie genti nei sacer dozii, nel senato e nell'ordine
dei cavalieri , raddoppiandone il numero, e continua a lasciare la plebe nella
condizione, in cui prima si trovava ; Servio Tullio invece inizia una
organizzazione novella, che può comprendere così nelle file dell'esercito, che nelle
riunioni dei comizii quella plebe, che è già pervenuta a tale po sizione
economica e sociale, da interessarla alla cosa pubblica . È da questo punto
parimenti, che la plebe rustica di Roma comincia ad essere più apprezzata che
la plebe urbana, e che principia ad avverarsi fra i due ordini la possibilità
della formazione di un diritto comune ai medesimi. Il motivo di questo
ravvicinamento deve anche essere riposto nel fatto , che le istituzioni del
patriziato e quelle del nuovo elemento , aggiuntosi alla plebe, non erano a
grande distanza fra di loro ; poichè l'uno e l'altro avevano la medesima
organizza zione domestica , ed oltre a ciò fra queste famiglie latine ve ne
erano di quelle che un patriziato , meno esclusivo e geloso dei suoi privilegi,
avrebbe potuto accogliere nel proprio seno (1). Ferma quest'origine della plebe
e questa primitiva organizzazione della medesima, veniamo a ricercare quali
fossero le istituzioni giu ridiche, che essa poteva possedere all'epoca, in cui
entrò a far parte della comunanza romana. di forti popolazioni latine sulla
plebe primitiva , in parte di origine servile , è un fatto riconosciuto da
tutti gli storici. Cominciò a notarlo il NIEBHUR, e dopo di lui il Mommsen, il
Lange e molti altri. (1) Nota molto accortamente a questo proposito il Gentile
, Le elezioni e il bro glio , pag . 142, che « quella nobiltà, che poscia fu
chiamata nuova e che in gran parte esce di ceppo latino, non era tanto nuova ,
quanto sembra alla prima; perchè discendeva dalle vecchie aristocrazie di comunità
italiche, venute ad aggregarsi allo stato romano, e che avevano aspirato agli
onori in quella cittadinanza , a cui più o meno recentemente erano ascritte ».
Di qui la conseguenza , a cui egli allude a pag. 150, che « la costituzione
romana , eminentemente democratica nei principii, colla piena sovranità
popolare nel nome, lasciava il reggimento della cosa pubblica , immobile nella
mano di pochi » . - 180 CAPITOLO IX . La posizione giuridica della plebe di
fronte al patriziato . 146. Se posta questa origine della plebe e questa
primitiva or ganizzazione della medesima, si domandasse ora in che consistesse
la plebe all'epoca, in cui essa appare nella storia di Roma, sarebbe necessità
di rispondere con una deffinizione di carattere negativo . La plebe infatti è
negli esordii di Roma tutto quel nucleo di indi. vidui e di famiglie di origine
diversa, che di fatto trovasi stabilita nel territorio romano, nei dintorni
della città patrizia ; ma che intanto è priva ancora di qualsiasi posizione
giuridica, perchè non entra a far parte dell'organizzazione gentilizia . Essa
è, come dice Gellio, quella parte di popolazione, che è stabilita di fatto sul
suolo romano, ma in cui « gentes patriciae non insunt » (1); o meglio an cora
quella parte di tale popolazione, che, non essendo compresa nei quadri della
organizzazione gentilizia, non può dapprima entrare nelle curie e negli ordini
della città patrizia . Al modo stesso , che più tardi si chiamerà peregrinus
chiunque non sia cittadino di Roma, o non sia in guerra con essa, e per passare
anche ad un altro ordine di idee si chiameranno con Gaio nec mancipii tutte
quelle cose, che non appartengono alla cerchia prima formatasi della res
mancipii, e anche più tardi si diranno in bonis tutte quelle cose, che appar
tengono ad una persona senza appartenerle ex iure quiritium ; cosi alla domanda
in che consista la primitiva plebe di Roma si pud solo rispondere , che essa è
quell'elemento, che esiste accanto al po pulus, ma che non entra nei quadri di
esso , consacrati dalla reli gione; quell'elemento, che esiste di fatto sul
territorio della città patrizia, ma che non è compreso nell'organizzazione
giuridica e politica di essa . Ora e sempre sarà questo il punto di vista , a
cui si colloca il popolo romano, il quale ferma il suo sguardo sopra di sè,
sopra il suo culto , sopra la sua religione, sopra la sua urbs, la sua civitas,
sopra il suo diritto , e in base al medesimo classifica e dispone tutto il
rimanente dell'universo , secondo la posizione, che esso tiene riguardo a sè e
alle proprie istituzioni. Questo modo di (1) GELL., Noct. att., X , 21, 5 . -
181 - procedere del resto non sembra esser proprio soltanto dei Romani, che
chiamano tutti gli altri popoli hostes o peregrini; ma anche dei Greci, che
hanno una sola qualificazione per tutti gli altri, che è quella di Barbari;
anche dei cristiani del Medio Evo, che chia mano tutti gli altri col nome di
infedeli; ed in genere sembra es sere proprio di tutte le stirpi Ariane, anche
nell'Oriente, le quali cre . dono di avere il diritto di sovrapporsi a tutte le
altre. Che anzi questo modo di procedere può anche ritenersi comune a tutto il
genere umano, sopratutto nelle epoche primitive, in cui ogni popolo , chiuso in
sè stesso, mal conoscendo il rimanente, giudica ed ap prezza ogni cosa ,
facendo sè il centro dell'universo (1). È sempre applicando questa logica
superba, ma ad un tempo ingenua e del tutto conforme alla natura dell'uomo, che
il popolo formato dalle genti patrizie, chiamò plebe tutto ciò , che non era
compreso nei suoi ordini, cioè nelle sue genti e nelle sue curie, e che poscia
il populus romanus quiritium , dopo che già comprende va la plebe , vide una
folla e moltitudine di peregrini e di hostes in tutti quelli , che non erano
compresi nei quadri della città romana. Di qui con seguita , che la definizione
di quell'elemento, che è il solo ad essere tenuto in conto , implica eziandio
la deffinizione negativa di quello , che ne costituisce il contrapposto . 147.
Se quindi è solo il populus delle gentes, che possiede un diritto , ne verrà
comeconseguenza , che la plebe non può negli inizii avere rimpetto ad esso che
una posizione di fatto, e continuerà ad esser sempre in questa condizione,
finchè il populus non le verrà facendo qualche concessione, o la plebe stessa
troverà modo di ac costarsi all'organizzazione del populus, e di penetrare ,
sotto questo o quell'aspetto , nei suoi ordini e nei suoi quadri, consacrati
dalla religione e tutelati dal diritto . La plebe insomma è un elemento, che ha
una posizione di fatto , e che si viene avviando alla conquista di una
posizione di diritto . Essa è nella stessa posizione, in cui saranno poi i
Latini e gli Italici, allorchè formeranno già il grosso dell'e sercito romano,
e intanto non saranno ancora ammessi alla cittadi. (1) Fo qui applicazione di
un concetto del Vico, il quale certo vide molto addentro alla natura dell'uomo
primitivo. Tale concetto costituisce anzi la prima degnità della sua Seconda
scienza nuova, secondo cui: « L'uomo per l'indefinita natura della mente umana,
ove questa si rovesci nell'ignoranza, egli fa sè regola dell'universo » . Solo
è a notarsi, che i Romani ciò non facevano per ignoranza ,ma perchè veramente
attri buivano a se stessi una superiorità sugli altri. 182 nanza romana :
mentre questi ricorreranno in tale intento alla guerra sociale, la plebe
ricorrerà invece alle lotte civili, finchè non avrà ottenuto il pareggiamento
civile e politico . Qui, comenel resto , il processo della logica romana è
sempre il medesimo; incomincia da tanti cerchi, che si vengono formando
nell'interno della città , e che poi si vengono sempre più allargando, finchè
non giungono a comprendere tutto l'universo conquistato dalla eterna città .
148. Ciò premesso si può comprendere, quale potesse essere lo stato delle
istituzioni giuridiche presso la plebe primitiva di Roma. Esse erano
istituzioni, che avevano un'esistenza di fatto : ma a cui il patriziato non
annetteva effetti e conseguenze giuridiche. Tuttavia , anche considerate sotto
questo aspetto , le istituzioni plebee non po tevano certo avere fra di loro un
' analogia , che possa paragonarsi con quella , che esisteva fra le istituzioni
delle genti patrizie, la quale erasi fatta più intima, stante la loro
partecipazione alla stessa co munanza civile e politica . Anzitutto si
cercherebbero indarno presso la plebe quei concetti fondamentali, che abbiamo
trovato cosi nettamente delineati presso le genti patrizie coi vocaboli di fas,
di mos e di ius. Alla plebe invece non si applica dal patriziato che il
vocabolo di usus, che riceve però presso di essa una larghissima applicazione.
Per verità è coll'usus, che si vengono a rivelare esteriormente le unioni ma
trimoniali della plebe, le quali non importano comunione delle cose divine ed
umane. Parimenti è col mezzo dell'usus, che nelle consuetudini plebee potè
avverarsi l'appropriazionedelle cose esterne. Non essendovi presso di essa
quelle forme, che a giudizio del patriziato sono indispensabili per l'acquisto
ed il trasferimento dei beni; così è solo, mediante l'usus, che appartenga ad
una persona, a scienza e pazienza di tutti gli altri, che viene a manifestarsi
non tanto la pro prietà , quanto la possessio , che dapprima tiene luogo di
essa . In fine sarà eziandio , mediante l'usus, che, allorquando verrà a morire
un capo di famiglia plebea , i suoi figli prima, e in sua mancanza i suoi
congiunti ed anche i suoi vicini verranno a mettersi a possesso dei beni da
esso lasciati; e avrà così origine quella singolare istitu zione dell'usucapio
pro herede, che il buon Gaio trovava disonesta ed immorale, perchè non era
coerente al principio dell'agnazione posto a fondamento della successione
quiritaria (1). Tutto ciò insomma, (1) GAIO , Comm ., II, 53, 54. 183 in cui
predomina l'usus auctoritas (per usare l'efficacissimo voca bolo adoperato
dalla legislazione decemvirale), piuttosto che il ius propriamente detto, tutto
ciò che si fonda di preferenza sul fatto che sul diritto , è da ritenersi di
origine plebea , e solo più tardi entrò a far parte del diritto quiritario
sotto il nome di usucapio, di usureceptio, di possessio e simili. Cid spiega
anche il motivo, per cui , allorchè la legislazione decemvirale attribuì
carattere giuridico a queste istituzioni, essa abbia dovuto imporvi delle limi
tazioni e prescrivere delle condizioni, alle quali poi si aggiunsero quelle
richieste più tardi dalla giurisprudenza , perchè siavi usu capione, e perchè
il possesso possa ottenere protezione giuridica . Ciò del resto era una
conseguenza delle condizioni reali, in cui trovavasi la comunanza plebea; poichè
se in un patriziato, dalle an tiche tradizioni, tutto era preveduto e regolato
con norme e regole fisse, le quali se non avevano sempre un carattere giuridico
, avevano almeno un carattere religioso e morale ; in una comunanza invece,
composta di individui e di famiglie di origine diversa , priva di tra dizioni e
di recente formazione, i rapporti fra i singoli individui non potevano essere
governati, che dall'usus (1). (1) Credo non occorra qui di richiamare
l'attenzione sulla grandissima importanza, che ha questa induzione per spiegare
l'origine dimolte istituzioni primitive di Roma, e sopratutto quell'usucapione,
che appare introdotta dalla legislazione decemvirale. Colla medesima viene ad
apparire l'unità di concetto, a cui si informarono idecem viri, allorchè
introdussero contemporaneamente l'usus auctoritas per l'acquisto della manus,
per l'acquisto della proprietà immobile e mobile, e per l'acquisto anche del
l'eredità. L'usucapio infatti era l'unico mezzo per mutare al più presto la
posizione di fatto, in cui trovavasi la plebe, in una posizione di diritto. Ciò
spiega eziandio come la primitiva possessio non dovesse richiedere nè giusto
titolo, nè buona fede, e come sia stata necessaria una lunga elaborazione ,
perchè potesse uscirne la teorica del possesso e quella a un tempo
dell'usucapione, le quali hanno fra di loro strettissima attinenza . Così pure
si spiegano le definizioni di Ulpiano e di Modestino, secondo cui : <
Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii »
, senza che richiedasi altra condizione. Lo stesso è a dirsi degli sforzi dei
decemviri per trattenere l'istituzione da essi accolta in limiti tali , che non
la rendessero pe ricolosa per la convivenza sociale, escludendola per le cose
rubate, e consentendo alla moglie , che coabitava colmarito, di interrompere
l'usucapione della manus, mediante il singolare istituto del trinoctium .
Intendo però di riconoscere, che un avviamento a questa spiegazione già può
ravvisarsi nel MUIRHEAD , Histor. Introd., pag. 48 e 179, nella sua ingegnosa
congettura intorno all'origine della usucapio pro haerede, e nell' Esmein nel
suo recente articolo sull' « Histoire de l'usucapion » che si trova nei suoi
Mélanges d'Histoire de droit, Paris, 1886, pag. 171 a 217. Solo credo di 184
149. Parimenti, è sempre sotto l'influenza di queste speciali con dizioni, in
cui trovasi la plebe, che i suoi commercii non possono essere governati da
forme solenni, simili a quelle che si erano for mate fra i padri delle famiglie
patrizie; ma dovettero svolgersi con forme semplici, quali erano suggerite dai
bisogni di una comunanza, in seno a cui non era ancora organizzata una vera
propria pro tezione giuridica . Fu quindi certamente nei rapporti della comune
plebea , che dovette anche svolgersi l'emptio-venditio , accompagnata dalla
tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo, e questo fu forse anche il
motivo, per cui presso gli antichi, secondo Festo , emere pro accipere
ponebatur, in quanto che emere era vera mente prendere la cosa comperata (1).
Fu in essa parimenti, che dovette aver origine quel singolare istituto della
fiducia , il quale serve qual mezzo per accordare una efficace garanzia al
proprio creditore, lasciando a sua mano la cosa , che deve servirgli di malle
veria (2 ). Fu parimenti in essa , che dovette svolgersi quel modo aver
allargato il concetto riunendo istituzioni, che potevano apparire disparate , e
dimostrando, che l'opera dei decemviri fu in questa parte indirizzata a dare
carat tere giuridico ad istituzioni, che avevano solo un'esistenza di fatto
presso la comu nanza plebea. (1) Sarebbe infatti pressochè incomprensibile, che
un popolo nelle condizioni eco nomiche, in cui trovavasi allora il Romano, e
del quale una parte aveva già attra versato, e non inutilmente, tutto un
periodo di organizzazione sociale, potesse igno rare contratti , come l'emptio
venditio, la locatio conductio , e simili. Essi dovevano certamente esistere,
quand'anche non fossero per avventura penetrati nel diritto qui ritario. Cfr.
MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 49 ; COGLIOLO , Prefazione, pag. XI, alla
traduzione del GOODWIN , Le XII Tavole , eseguita dal Gaddi, Città di Ca
stello, 1887. È poi noto, che la disposizione della legge decemvirale, per cui
la ven dita non è perfetta, che col pagamento del prezzo, è anche coinune alla
Grecia ; il che dimostra , che dovette essere determinata da comuni necessità ,
in quanto che la vendita seguiva talora fra persone, che appartenevano a genti
e a comunanze diverse, e non sarebbe stato facile riavere la cosa, quando non
ne fosse stato pagato il prezzo. (2 ) Anche l'istituto della fiducia è uno dei
più antichi e dovette nascere nella comunanza plebea , perchè fuorusciti ed
immigranti senza posizione giuridica non potevano ricorrere che a quella . Si
spiega pertanto il largo uso , che se ne fece nel diritto primitivo di Roma, in
quanto che vi si ricorre nel testamento, per la nomina di un tutore, per la
concessione di un pegno e forse in molti altri casi ancora, che dovettero
verificarsi pel costume e non penetrarono nel diritto quiritario propria mente
detto. Ciò è dimostrato dalla frequenza, con cui nei poeti latini e sopratutto
nei comici occorre il caso, in cui una persona, allontanandosi, affida il
patrimonio e la figliuolanza (mandat familiam pecuniamque suam ) ad una persona
di sua confi denza . Questo costume è anzi il perno, intorno a cui si aggira il
Trinummus di PLAUTO . 185 - semplicissimo di fare testamento , che ci venne più
tardi ancora de scritto da Gaio nelle sue forme primitive ed arcaiche, e che dovea
servire più tardi come base al testamento quiritario per aes et li bram , per
cui il plebeo , che muore senza figliuolanza , affida ad un amico il suo
patrimonio e le sue sostanze, indicandogli la maniera in cui dovrà poi
distribuirli, quando egli sarà morto . Del resto è questo il modo che ancora
oggidi torna opportuno all'emigrante , che, trovandosi in pericolo di vita ed
essendo lontano dalla patria e dalla famiglia, affida ad un amico , che avrà la
fortuna di tornare in patria, tutto ciò, che egli ha potuto risparmiare ,
perchè lo riporti a coloro, che gli sono cari. Che anzi, dacchè siamo nella
ricostruzione di quest'ordine di idee, parmi che a questo modo pri mitivo di
fare testamento si rannodi senz'alcun dubbio quella istitu zione del fedecommesso
, che, mantenutasi per certo nel costume, senza poter penetrare nella cerchia
rigida del diritto civile romano , fini tuttavia per trionfare negli inizii
dell'Impero e trionfo , perchè popu lare erat (1) . Quel testamento quindi, che
per un capo di famiglia patrizia doveva essere fatto coll'approvazione
dell'assemblea della tribù dapprima, e poi davanti ai comizii della città e
serviva sopra tutto a perpetuare l'heredium nelle famiglie , e ad impedire che
il patrimonio uscisse dalla gente ; per i membri invece della comunanza plebea
non poteva essere che un atto di fiducia , un rimettersi, (1) Il testamento
primitivo, a cui accennanoGaio, Comm. II, 102 , ed anche Gellio , XV, 27, 3, è
una specie di mancipatio cum fiducia, in virtù della quale una persona « si
subita morte arguebatur, amico familiam suam , id est patrimonium suum
,mancipio dabat, eumque rogabat, quid cuique post mortem suam dari vellet » .
Ciò indica che la prima forma, sotto cui comparve il vero testamento, quello
che poi si svolse nel testa mento per aes et libram , fu il
fedecommesso,malgrado tutte le difficoltà che il mede simo incontrò poi per
passare dal costume nel diritto civile romano. È poi degno di nota, che i
Romani più tardiritennero di aver ricevuto dai peregrini questa istituzione del
fedecommesso , che certo già esisteva nella primitiva comunanza plebea. Gaio in
fatti, Comm . II, 285, scrive : « ut ecce peregrini poterant fidem commissam
facere et ferre : haec fuit origo fideicommissorum » ; il che mi conferma
nell'induzione, che il primitivo diritto plebeo , di fronte al diritto già
elaborato delle genti patrizie, dovette compiere quello stesso ufficio, che più
tardi il diritto delle genti verrà a compiere di fronte al diritto civile di
Roma. Che il fedecommesso poi, ancorchè non accolto nel diritto quiritario,
abbia sempre continuato a mantenersi nel costume, è provato ad evidenza dai
comici latini. Fra gli altri esempi basti il seguente tolto dall'Andria di
TERENZIO , I, 5 : « Bona nostra tibi permitto et tuae mando fidei » . È da
vedersi in proposito l’Henriot, Mours jurid . et judic., I, pag. 411 e segg .
186 che altri faceva ad un amico o ad congiunto , acciò egli distribuisse le
sue cose per il tempo, in cui avrebbe cessato di vivere. 150. Lo stesso infine
è a dirsi dei modi di procedere contro il debitore in questo primitivo diritto
plebeo . Sarebbe inutile cercarvi la forma solenne dell'actio sacramento , che
era nata e si era svolta fra capi di famiglia , che sentivano la loro
superiorità ed indipen denza ; ma è più facile che trovisi fra la plebe l'uso
della manus iniectio , ed anche quello della pignoris capio, istituzioni che sa
rebbero incomprensibili fra capi di famiglie patrizie , ove sono già penetrati
il fas ed il ius, ed hanno escluso, almeno nei rapporti fra i capi famiglia ,
l'uso di farsi ragione colla forza e l'esercizio della pignorazione privata
(1). Così pure è naturale, perchè conforme alle condizioni della plebe, che in
essa ancora si rinvengano le traccie della privata vendetta, del taglione, come
pena di colui che ha recato un danno, della composizione a danaro per un furto
sofferto, e perfino anche per un adulterio ;perchè queste sono tutte
istituzioni, che sono consentanee col modo di agire e di pensare di una
comunanza plebea, mentre ri pugnerebbero all'organizzazione gerarchica e di
carattere religioso , che era così fermamente stabilita presso il patriziato (
2). La plebe (1) L'origine plebea dell'actio sacramento è esclusa dal carattere
religioso inerente alla medesima ed anche dalla circostanza, che noi la
troviamo comune alle genti italiche ed elleniche, come lo dimostra la
descrizione, che ne troviamo in OMERO , Iliade, Canto XVIII, ove descrive lo
scudo di Achille, il che può indurre a credere, che essa fosse già importata
dall'Oriente. Quanto alla manus iniectio , essa poteva esistere fra la plebe,
come esercizio privato delle proprie ragioni; ma non poteva avere la
significazione giuridica , che vi attribuì il patriziato. In questo senso
ritengo, che la manus iniectio fosse una procedura usata dai padri contro i
debitori plebei, il che cercherò di provare nel capitolo seguente. ( 2) Questa
varia concezione del delitto presso ceti di persone, che erano in con dizioni
sociali compiutamente diverse , può essere facilmente compresa . Il patrizio sente
di far parte di una corporazione religiosa e civile ad un tempo, e quindi può
scorgere nel delitto un'offesa al costume dei maggiori, una violazione del fas,
ed un danno alla comunanza: non così il plebeo, che è ancora soltanto un
individuo, o un capo di famiglia, pressochè isolato in una comunanza in via di
formazione. È quindi naturale, che egli nel delitto senta sopratutto il danno
materiale che gliene deriva , che consideri la noxa (colpa ) come una noxia
(danno) : che quindi reagisca contro quel danno; ricorra al taglione; venga
alla composizione a danaro; e così riverberi in modo più schietto
l'impressione, che dovette fare il delitto nelle epoche primitive. Quegli vede
già ogni cosa attraverso al gruppo di cui fa parte, e quindi comincia 187 primitiva
nel delitto sente sopratutto il danno e reagisce contro di esso ; mentre il
patriziato già vi scorge un peccato contro la divinità e già comincia a
ravvisarvi un danno, che colpisce l'intiera comu nanza . Tutte le istituzioni
insomma, che non presuppongono una lunga preparazione anteriore , che non hanno
una storia nel passato , ma che trovano direttamente la propria radice nelle
tendenze naturali dell'uomo e nei bisogni immediati di una comunanza, che è
soltanto in via di formazione, e in cui entra ad ogni istante un nuovo ele
mento , che si viene aggregando, debbono essere ritenute di origine plebea .
Non chiedansi alla plebe nè i iura gentium colle cerimonie solenni, da cui sono
circondati, né le procedure, che contengono una storia del passato, nè gli
auspicia , che ad ogni atto pubblico e pri vato imprimono un carattere
religioso ;ma solo chiedasi ad essa il senso di quel ius naturale, quod natura
omnia animalia docuit. Sarà anzi questo connubio di un elemento onusto di
tradizioni con un altro vergine di esse , che potrà rendere possibile la
formazione di un di ritto , che finirà per dar forma giuridica a tutta
l'immensa suppel lettile dei rapporti derivanti dalla civil convivenza. Come
quindi esistevano , fin dagli inizii di Roma le traccie del ius gentium ; cosi
vi erano anche quelle del ius naturale, non come idea filosofica, pre sente
alla mente di un giureconsulto, ma come un complesso di forze e di energie
inerenti all'umana natura, che spingevano una comu nanza in via di formazione a
provvedere a tutti i bisogni e a tutte le esigenze , che si venivano
presentando. Per talmodo ciò che più tardi verrà ad essere nozione astratta ,
negli inizii è forza ed energia , che spinge, come direbbe il Vico , l'uomo ad
celebrandam suam so cialem naturam . Basta questo per dimostrare, come anche
negli usi della plebe potesse esistere un materiale greggio , che potè a poco a
poco ricevere forma giuridica nel diritto quiritario. Per tal modo certe
istituzioni, che compariscono solo più tardi, poterono già esi stere , come
usi, da un'epoca ben più antica . Cid serve intanto a spiegare come nel diritto
quiritario non trovisi dapprima una quan tità di atti e di negozii, senza cui
sarebbe stato impossibile ogni com già a scorgere nel delitto un'offesa
collettiva ; mentre questi non sente ancora che il danno privato, che possa
derivargliene. È questa la ragione, per cui i delitti nel diritto quiritario si
presentano dapprima col carattere di offese private, e solo a poco a poco si
convertono in delitti pubblici. Cfr. Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 434. 188
mercio per un popolo , le cui istituzioni giuridiche e politiche già dimostrano
assai progredito . Qui intanto , per non spingere questa ricostruzione a
particolari troppo minuti, arresterò l'attenzione alle due istituzioni
fondamentali del diritto privato , che sono la famiglia e la proprietà . 151.
Se noi consideriamo la plebe riguardo all'organizzazione della famiglia , quale
è giudicata dai patrizii, noi troviamo che essa non ha le iustae nuptiae,madei
semplici matrimonia , quasi ad in dicare che i plebei potevano bensi indicare
le loro madri, ma non potevano indicare con certezza i loro padri. Al qual
proposito si deve ammettere col Muirhead, che, trattandosi di persone, alcune
delle quali erano di origine servile, potesse anche esistere una certa qual
rilassatezza nelle unioni matrimoniali dell'infima plebe. Non sembra tuttavia ,
che la congettura possa spingersi fino al punto , a cui la spinge il Bachofen,
secondo il quale, fra gli elementi che entra vano a costituire la plebe,
avrebbero dovuto esservene di quelli (e sarebbero quelli di origine etrusca ,
abitanti nel vicus Tuscus) i quali avrebbero solo conosciuta la parentela dal
lato delle femmine, e si sarebbero cosi trovati nella condizione del
matriarcato (1 ). Senza affermare, nè negare il fatto, perchè mancano gli
elementi per decidere, credo pero didovere osservare che, quando questo fosse
stato , ne sarebbero rimaste maggiori traccie ed indizii. Il vocabolo dima
trimonia per sè significa soltanto, che la plebe riconosceva la pa rentela dal
lato di madre, ossia la cognazione, mentre l'organizza zione della famiglia
patrizia fondavasi esclusivamente sul vincolo dell'agnazione. Quindi quello
solo , che noi possiamo affermare con certezza, si è che nella plebe primitiva
quanto che serve talora ad indicare leesisteva una famiglia, costi tuita sulle
sue basi naturali, cioè fondata sulla cognazione e sulla affinità . Ed è anche
facile trovare la ragione di questo fatto , la quale consiste in questo, che la
famiglia plebea, appunto perchè non era ancora entrata a far parte
dell'organizzazione gentilizia , cosi non aveva ancora potuto subire
quell'artificiale ordinamento , che veniva ad essere necessario per una
famiglia, che doveva servire di convivenza domestica e politica ad un tempo.
Era quindi naturale , che la plebe , non avendo l'organizzazione gentilizia
fondata sull'a (1) Cfr. Muirhead, Histor. Introd ., pag. 34 e 35 ; e il
Bachofen, Das Mutterrecht Stuttgart, 1861, pag. 92. 189 gnazione, cercasse modo
di rafforzarsi mediante vincoli più natu rali e più facili a comprendersi,
quali sono appunto quelli della co gnazione e dell'affinità . Non è quindi il
caso di contrapporre alla famiglia patriarcale una famiglia matriarcale ; ma
solo di dire, che la plebe, non avendo la famiglia fondata sull'agnazione,
aveva in vece quella fondata sulla cognazione, in quanto che quella potrà aver
valore per le genti dalle antiche tradizioni, mentre questa pud essere capita e
sentita da chicchessia . 152. Qui però si potrebbe opporre che, così essendo ,
male si com prende come nel diritto quiritario a vece della famiglia , fondata
sul vincolo del sangue, che certo dal nostro punto di vista avrebbe do vuto
essere preferita , abbia invece avuta prevalenza la famiglia, fon data sull’agnazione,
e come solo più tardi la cognazione sia riuscita a correggere almeno in parte
la famiglia primitiva romana. Cid tuttavia può essere facilmente compreso,
quando si consideri, che la città , in cui trattavasi di entrare, era stata
fondata dai patrizii; che questi erano i forti ed i ricchi, mentre i plebei
erano, almeno negli esordii, i deboli ed i poveri ; che quelli avevano una
posizione di diritto , e che questi erano solo tollerati per la loro posizione
di fatto. Era quindi naturale, necessario , che la plebe, sopratutto quando fu
for temente compenetrata dall'elemento latino, la cui organizzazione domestica
era analoga a quella delle genti patrizie, si sforzasse di imitare anche in
questa parte il patriziato, e che anzi col tempo le famiglie plebee, che erano
pervenute al ius imaginum , si sforzassero di imi tare perfino l'organizzazione
per gentes in un'epoca , in cui essa åveva già certamente perduto della propria
importanza. 153. Del resto è incontrastabile, che di questo fondamento
cognatizio della famiglia plebea rimasero delle traccie nella legislazione pri
mitiva di Roma, sopratutto in quelle istituzioni domestiche, che dovettero
probabilmente essere di origine plebea . Così, ad esempio, è notabile che la
legislazione decemvirale, mentre assegna la suc cessione legittima e la tutela
legittima agli agnati, lascia invece al gruppo dei cognati e degli affini
(cognati et adfines ) il diritto ed il dovere di proseguire e porre in accusa
l'uccisore di un parente , quello di appellare da una sentenza capitale
pronunziata contro un congiunto : disposizioni, che possono considerarsi come
sopravvivenze 190 e quasi accenni di vendetta privata , la quale, come si è
visto sopra, sussisteva sopratutto in seno alla plebe (1) . Insomma la
conclusione ultima sarebbe questa , che Roma, fin dai suoi esordii, non ignorò
la famiglia fondata sulla cognazione e la possedette anzi sotto la umile
apparenza di un'istituzione plebea ; che tuttavia questa famiglia naturale, nel
periodo di formazione del di ritto civile di Roma, fu in certo modo soverchiata
dalla famiglia agnatizia, propria del patriziato ; e solo riusci di nuovo più
tardi, comemolte altre istituzioni, a rientrare in modo indiretto nella cer
chia del diritto romano, sotto la protezione del pretore e del diritto delle
genti. Nè questa è conseguenza di poca importanza , perchè colla famiglia si
connette tutto il sistema della successione e della tutela legittima, le quali
perciò penetrarono eziandio coll'organizza zione gentilizia della famiglia nel
diritto quiritario . Cid intanto spiega eziandio, come in via di reazione nello
stesso diritto quiritario abbia preso così largo svolgimento l'istituzione del
testamento , perchè questo era il solo mezzo per sottrarsi alle conseguenze di
un sistema di successione legittima, ispirato ancora al concetto di serbare in
tegro il patrimonio nelle gentes; sistema, che una piccola minoranza di genti
patrizie era riuscita ad imporre ad un numero assai mag giore di famiglie , e
che col tempo , col dissolversi della organizza zione gentilizia, fini per
divenire grave allo stesso patriziato . 154. Per quello poi, che si riferisce
alle condizioni economiche della plebe, è assai probabile che la medesima,
prima di giungere ad una vera proprietà di diritto, abbia cominciato dall'occupare
di fatto quella parte di suolo, sovra cui i plebei venivano a stabilirsi nelle
vicinanze di Roma insieme colla propria famiglia . Dapprima queste possessioni
figuravano, od erano in effetto assegni loro fatti o dai padri o dal re come
loro patroni, od erano anche terreni incolti , sovra cui si arrestava la
famiglia plebea, per fondarvi il proprio tugurium e dissodarvi attorno un
piccolo ager. Questo stato primitivo di cose può essere indotto da alcuni passi
di Festo, che si riferiscono a questi primitivi possessi ed all'occu pazione di
agri, che, per mancanza di coltivatori, fossero stati ab bandonati. Egli
infatti scrive: Possessiones appellantur agri late patentes, publici privatique
, quia non mancipatione sed usu ( 1) Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 35 .
- ! - 191 tenebantur, et ut quisque occupaverat, colebat (1). Qui infatti è
evidente, che non si parla solo di possessioni nell'agro pubblico , ma anche di
possessioni di carattere privato , e furono queste , che do vettero appunto
essere le prime possessioni della plebe. Ciò è pure confermato dallo stesso
Festo, ove scrive : occupaticius ager di citur, qui desertus a cultoribus
frequentari propriis, ab aliis occupatur ( 2), indicando cosi l'esistenza di
una consuetudine, per cui, se l'agro era abbandonato dai suoi cultori, ne
sottentravano degli altri. Del resto che le possessioni dovessero acquistarsi
in questo modo, in seno alle comunanze plebee , lo dimostra l'importanza , che
presso di esse acquistò l'usus auctoritas. Tale importanza appare dal fatto,
che secondo le leggi decemvirali bastava il possesso di un anno per l'acquisto
delle cose mobili e quello di due anni per quello delle immobili ; disposizione
questa, che dovette uscire dagli usi proprii della plebe. Mentre infatti,
presso le genti patrizie, tutto era governato dal mos e dal fas; in una
comunanza plebea, che era soltanto nella propria formazione, non poteva esservi
altra autorità , che quella dell'usus, e doveva apparire proprietario quegli,
che in effetto usucapiva la cosa od il fondo, del quale si trattava. La pro
prietà non poteva ancora in questa condizione di cose distinguersi affatto dal
possesso , e quindi si comprende che il giureconsulto più tardi ancora dicesse:
dominium rerum ex naturali possessione cae pisse , Nerva filius ait ; eiusque
rei vestigium remanere de his , quae terra , mari, coeloque capiuntur ; nam
haec protinus eorum fiunt, qui primi possessionem eorum apprehenderint (3). Si
com prende parimenti, comein una comunanza di questa natura, che dap principio
era costituita da una massa mobile ed eterogenea, dovesse ri. tenersi
sufficiente il breve termine di un anno per l'usucapione delle cose mobili, e
di due anni per l'usucapione di quelle immobili ; e cið nell'intento di poter
trasformare con celerità lo stato di fatto in stato di diritto, il possesso in
proprietà. Se in una comunanza già formata importa di allungare il termine
dell'usucapione, acciò essa non serva come mezzo per usurpare il diritto
esistente; in una co (1) V. Festo, v° Possessiones ( Bruns, Fontes, pag. 354):
la qual definizione è ri portata tal quale anche da Isidoro (BRUNs, pag. 411).
(2 ) V. Festo , Occupaticius. Di qui già il RUDDORF ebbe ad indurre che l'ager
occupatorius non doveva confondersi coll'ager occupaticius (Bruns , Fontes,
pag. 348, nota 6). Vedi per l'opinione contraria Karlowa, Röm . R. G., I, pag.
95 . (3 ) Paulus, L. 1, § 1, Dig . (41, 2 ). 192 munanza invece, la quale sia
in via di formazione e attragga in sé nuovi elementi, importa di abbreviare il
termine di tale usuca pione, acciò lo stato di fatto mutisi al più presto in
uno stato di diritto . Con tale sistema una famiglia plebea, quando fermava il
piede sopra un suolo incolto od abbandonato ( possessio, da pedum quasi
positio) aveva appena tempo a metterlo in coltivazione, che già ne diventava
proprietaria ex iure quiritium , e intanto , appena un posto rimaneva vacante,
veniva ad esservi quello, che lo occu pava, e dopo breve tempo era considerato
ancor esso come legittimo proprietario . Certo non poteva esservi un migliore
sistema per po polare immediatamente il territorio circostante a Roma, e per
popo larlo di famiglie che, affezionandosi al suolo, finissero per prendere
interesse alla grandezza e all'avvenire di quella città patrizia, sotto la cui
protezione e tutela la plebe aveva potuto diventare anch'essa proprietaria del
suolo (1 ). Ciò però non dovette accadere di un tratto; ma solo a misura che i
commerci fra Roma patrizia e la popola zione circostante conducevano alla
formazione di un comune diritto . 155. Fu quindi solo col tempo, che queste
possessioni, tollerate dai padri, od anche dai medesimi o dal re assegnate ai
plebei a titolo di precario, poterono cambiarsi in una specie di proprietà di
fatto più che di diritto, sovra cui essi vivevano colla propria famiglia .
Intanto questo piccolo podere coi frutti, che se ne potevano ricavare e che
portavansi al mercato , porgeva anche alla plebe occasione di entrare in
commercio col patriziato. Si comprende quindi, che quando le cose furono a tal
punto , che i re sentirono la conve nienza di aggregare la plebe alla
cittadinanza romana , anche per afforzare l'esercito della città patrizia ,
dovesse sorgere naturalmente l'idea , attuata poi da Servio Tullio , di
ammetterli alla comunanza, in quanto erano capi di famiglia , e avevano uno
spazio di terra, sovra cui potevano vivere colla propria famiglia . Siccome poi
la plebe non conosceva altra proprietà , che la privata , o meglio quella , che
ap (1) Trovo in Gellio, Noc. Att., XVI, 11 un passo, che dimostra come i Romani
comprendessero l'importanza, che aveva la proprietà per interessare la plebe
alle sorti della Repubblica : « Sed quoniam res pecuniaque familiaris obsidis
vicem pignorisque esse apud rempublicam videbatur, amorisque in patriam , fides
quaedam in ea, firmamentumque erat » . Fu questo , aggiunge Gellio, il motivo,
per cui i prole tarii, e i capite censi, solo tardi e quando non se ne potè
fare a meno, furono chia inati a far parte dell'esercito. 193 partiene al capo
di famiglia , non aveva agro gentilizio , e non doveva neppure dapprima essere
ammessa ad immettere i proprii greggi nell'ager compascuus della tribù, al modo
stesso che più tardi non fu ammessa all'occupazione dell'ager publicus, la
quale occupazione dapprima ritenevasi come un privilegio dell'ordine pa trizio
; cosi ne derivò la conseguenza , che l'unica proprietà , che poteva essere
riguardata come posta a base della comunanza patrizio-plebea, perchè era la
sola, che fosse comune ai due or dini, era la proprietà privata . Cid può
servire a spiegare il fatto , che da Servio Tullio in poi quasi più non si
discorre degli agri gentilicii, che pur continuavano sempre ad appartenere alle
genti: ma solo più dell'ager privatus, delmancipium , dei praedia censui
censendo, e dell'ager publicus . Questi sono l'unica proprietà della plebe ;
mentre l'occupazione dell'agro pubblico è una gran sor gente della ricchezza
del patriziato . Quindi si comprende l'affetto tenace, con cui la plebe si
attacca alla propria terra, il suo sotto porsi al duro vincolo del nexum ,
piuttosto che alienarla, e la lotta , che essa sostiene per ottenere quelle
ripartizioni dell'ager publicus, che le porgevano mezzo di entrare nella vera
cittadinanza di Roma. Intanto siccome questa proprietà e il commercio , che
derivava da essa , erano gli unici diritti, che la plebe avesse comuni col
patri ziato : così viene eziandio a spiegarsi, come gli atti tutti del
primitivo diritto quiritario assumano un carattere essenzialmente mercantile ,
e siano tutti fatti entrare forzatamente sotto le figure del nexum e del
mancipium , come meglio apparirà più tardi. 156. Dalle cose premesse si può
raccogliere la conclusione se guente , quanto ai rapporti, che intercedono fra
il patriziato e la plebe negli esordii della comunanza romana. Per quanto debba
ri tenersi, che il primo nucleo della plebe siasi costituito mediante ele
menti,che si vennero staccando dalla stessa organizzazione gentilizia, perchè
più non potevano essere compresi nei quadri della medesima; tuttavia la plebe,
avendo richiamati a sè tutti coloro , che si trovarono spostati nell'anteriore
organizzazione, crebbe per modo in numero ed importanza da costituire di fronte
alla città patrizia una vera e propria comunanza plebea , che doveva di
necessità essere presa in considerazione. Siccome tuttavia la plebe è fuori di
quella organiz zazione, che è l'unica riconosciuta dal patriziato ; così essa
viene dapprima ad essere lasciata a se stessa ed è considerata come una
moltitudine ed una folla , la quale ha bensì una esistenza G. CARLE , Le origini
del diritto di Roma. 13 194 di fatto, ma che è priva di qualsiasi posizione
giuridica di fronte al patriziato . Di qui il dualismo fra i due ordini, che,
nato già nella tribù , viene a costituire il gran dramma della comunanza civile
e politica . In questa infatti son chiamati a convivere due elementi: di cui
uno ha una posizione di diritto , ha la città , ha gli auspicii, le
magistrature, gli onori; mentre l'altro non ha che una posizione di fatto , più
tollerata che riconosciuta, e non può fare as segnamento , che su quello spazio
di terra, sovra cui si è stabilito colle proprie famiglie, ed è solo
poggiandosisopra di esso , che potrà entrare a fare parte della comunanza. Per
quello poi, che si riferisce alle loro istituzioni religiose, giu ridiche e politiche,
non corre una minore differenza fra i due or dini. Mentre il patriziato è nei
vincoli delle tradizioni e del culto dei suoi antenati, dei concetti, che forse
ha recati dallo stesso Oriente, e trovasi fra le strette dell'organizzazione
gentilizia , che dopo aver fatta la sua forza, comincia ora ad impedirne il
naturale sviluppo e a cambiarlo in un'aristocrazia chiusa in se stessa ; la
plebe invece ha l'inconveniente, ma al tempo stesso il vantaggio di en trare
nella vita politica , senza la memoria dei maggiori ed il culto di essi, senza
essere vincolata dalle proprie tradizioni, e trovasi cosi in condizione di
ubbidire al proprio interesse, alle proprie esi genze, ai bisogni e alle
necessità della nuova organizzazione so ciale. A ciò si aggiunge, secondo la
profonda osservazione del Kar lowa, che nell'uomo della plebe per la prima
volta compare la nozione per cui l'uomo libero, sciolto da ogni vincolo sociale
e gen tilizio , deve essere riguardato come persona, ossia come capace di
diritto e di obbligazioni; per guisa che anche il maggior concetto , a cui
abbia saputo elevarsi il diritto romano, che è quello di rico noscere l'uomo
libero come capace di diritto, ebbe in parte a svol gersi sotto l'influenza
dell'elemento plebeo (1). 157. Per tal modo Roma si trovò di fronte al problema
di far convivere nelle stesse mura, e di sottoporre all'impero delmedesimo (1)
KARLOWA, Römische Rechtsgeschichte, I, pag . 64. L'autore, che ebbe giusta
mente a notare che il più alto concetto, a cui giunse il diritto privato di
Roma, è quello che l'uomo libero , come tale, sia capace di diritto, è il
compianto Bruns, Geschichte und Quellen des römisches Recht's, $ 3, in
HoltZENDORFF's, Encyclo pädie , I, pag. 105, 4.ed . — È da vedersi in proposito
il Brugi, Le cause intrinseche della universalità del dir. rom ., Prol.,
Palermo, 1886 . 195 diritto due ordini, di cui uno era ricco di tradizioni e
stretto nei vincoli del passato , mentre l'altro , per le speciali sue
condizioni di fatto , non aveva per sè che il presente e sopratutto l'avvenire.
Il problema per la plebe era quello di mutare la sua posizione di fatto in una
posizione di diritto , e per il patriziato quello di dare alla plebe un diritto
e di farla entrare nei quadri della sua città , senza comunicarle che gradatamente
quel fascio di tradizioni reli giose , giuridiche e morali, di cui esso era
gelosissimo conservatore. Certo il problema era di difficile risoluzione, ma la
logica giuri dica di Roma seppe risolverlo in un modo, che può veramente dirsi
meraviglioso . La conseguenza venne ad essere questa, che il di ritto, che
venne formandosi in Roma, si presenta antico sotto un aspetto e nuovo sotto un
altro. È antico nei concetti, nelle forme, nei vocaboli stessi, che già tutti
esistevano precedentemente ed erano stati elaborati dal patriziato nel periodo
dell'organizzazione genti lizia ; ma è nuovo in quanto che nelle forme antiche
penetra uno spirito nuovo e si fa entrare tutta una nuova vita civile e poli
tica , che più non poteva essere contenuta nei quadri dell'organiz zazione
gentilizia . Nella formazione di questo diritto tutto ciò che è di forme
solenni, di concetti già elaborati, di istituzioni aventi carat tere religioso
e morale, viene ad essere di origine patrizia ; mentre tutto ciò , che trova
origine nel semplice usus, nella semplice pos sessio, nel fatto più che nel
diritto , e non è avvolto ancora in forme solenni e tradizionali, deve
ritenersi piuttosto di origine plebea . La distanza stessa poi, a cui
trovavansi i due elementi, che dovevano entrare a far parte della medesima
città, obbliga il diritto quiritario a prendere le mosse nella propria
formazione dai concetti elemen tari della proprietà e della famiglia , che
erano i soli, che fossero comuni ai due ordini, per venire poi all'elaborazione
lenta e graduata di tutti gli altri istituti giuridici. Per tal modo nella
formazione del diritto pubblico e privato di Roma noi abbiamo un nucleo co
piosissimo di tradizioni, di concetti e di vocaboli, già preparati in un
periodo anteriore, che viene in certo modo a fondersi nel cro giuolo della
comunanza civile e politica , per guisa che, precipitando e cristallizzando
lentamente e gradatamente, finisce per dare origine ad un diritto, del quale si
può dire con ragione, che si è formato rebus ipsis dictantibus et necessitate
exigente . Solo resta a spiegare , come in questa condizione di cose siasi de.
terminata la prima formazione del diritto quiritario nello stretto senso , che
suol essere attribuito a questo vocabolo. 196 CAPITOLO X. Le prime origini del
Jus Quiritium nei rapporti fra patriziato e plebe. 158. Non può certamente
negarsi, anche da uno schietto ammi ratore della logica, che ha governata la
formazione e lo svolgimento del diritto privato di Roma, che esso nei proprii
esordii presentasi con un carattere di rozzezza e di violenza , che desta
un'impressione sfavorevole e pressochè di ripugnanza, e spiega anche
l'affermazione di coloro, che ebbero a considerarlo , come l'opera esclusiva
della forza . Tale impressione è prodotta specialmente da certi vocaboli e
concetti, che occorrono nel primitivo jus quiritium : vocaboli, che portano con
sè l'impronta della forza e della violenza. Fra questi vocaboli non deve essere
annoverato quello di manus, che nel di ritto quiritario significò il potere
spettante al capo di famiglia sulle persone e sulle cose, che da esso
dipendono, in quanto che questo vocabolo se da una parte indica la forza e la
potenza , che si impone; dall'altra può anche significare la protezione e la
difesa, che la manus accorda a tutti coloro , che da essa dipendono. Si
aggiunge, che questo vocabolo di manus o qualche altro , che corrisponda al me
desimo, sembra essere stato adoperato nella stessa significazione dalle altre
stirpi di origine ariana (1). Sonvi invece nel primitivo ius quiritium altri
vocaboli, come quelli di mancipium , di nexum , di manus iniectio , che non
solo si ispirano al concetto della forza , (1) È abbastanza noto in proposito
che alla manus del capo di famiglia romano corrisponde anche nella sua
significazione materiale il mund ed il mundium del capo di famiglia germanico ;
il che però non toglie che i due istituti abbiano rice vuto un diverso
svolgimento presso i due popoli, sopratutto per ciò che si riferisce al potere
del padre sui figli . V. in proposito : VIOLLET, Histoire du droit français,
Paris, 1886, pag . 412, cogli autori citati a pag. 447. Del resto fra il
primitivo diritto romano e il primitivo diritto germanico vi hanno ben altre
istituzioni, che si corrispondono, e fra le altre potrebbesi forse fare un interessante
raffronto fra il ius applicationis dei Romani, e il comitatus e la commendatio
presso i popoli Germanici. 197 ma, applicandosi anche alle persone, sembrano
recare con sè l'idea di soggezione e di dipendenza di una persona da un'altra.
È quindi assai difficile a spiegarsi, come mai dal mos e dal fas delle genti
patrizie, e dall'usus, che veniva formandosi nel seno della plebe, abbiano
potuto scaturire concetti di questa natura , a cui manca non solo quell’aureola
religiosa , da cui sono circondate le istituzioni gentilizie, ma perfino quel
carattere di fiera indipendenza, che con traddistingue le istituzioni primitive
dei popoli italici. 159. Ritengo tuttavia , che questa apparente contraddizione
fra questi concetti del primitivo ius quiritium e gli elementi, che avreb bero
contribuito alla sua formazione, possa essere spiegata, quando si ammetta la
congettura, a cui ho accennato più sopra parlando dell'actio sacramento e della
manus iniectio , e sulla quale importa qui di insistere più lungamente. La
congettura sta in questo, che nelle istituzioni del diritto quiritario vene
hanno alcune, che si erano formate nei rapporti fra i capi delle famiglie
patrizie, e perciò nel seno stesso delle genti e delle tribù; ma ve ne hanno
eziandio delle altre, le quali dovettero invece formarsi ed assumere un
contenuto preciso nelle lotte e nei conflitti fra la classe dei vincitori e
quella dei vinti. Il ius quiritium primitivo non governo solo rapporti fra capi
di famiglia uguali fra di loro e appartenenti alla stessa tribù ; ma dovette
eziandio reggere i rapporti fra le genti organizzate nella tribù e la
moltitudine e la folla, per la maggior parte di origine servile, che ancora
circondava i primitivi stabilimenti patrizii. Quindi se era naturale, che la
prima parte del ius quiritium portasse le traccie della fiera indipendenza di
quei capi di famiglia, dei quali nemo servitutem servivit ; la seconda invece
doveva portare quelle della soggezione, a cui era ridotta la classe inferiore.
Non può cer . tamente presumersi, che questi due ordini di persone potessero en
trare in rapporti giuridici fra di loro , sopra un piede di assoluta
eguaglianza . Quindi mi sembra naturale, che il primitivo ius qui ritium , a
somiglianza del diritto feudale, che ebbe poi a formarsi in una condizione di
cose non dissimile da questa , debba in qualche parte portare le traccie della
superiorità, che si attribuivano i vincitori, i conquistatori, i primi
organizzatori di una convivenza sociale, e dell'abbiezione invece, a cui erano
ridotti i vinti, i con quistati e quelli, che, non essendo ancora pervenuti ad
una organize zazione sociale, abbisognavano perciò di protezione e di difesa .
198 160. Questo è certo che anche più tardi noi troviamo una disu guaglianza di
condizione giuridica fra Roma e le popolazioni, da cui essa è circondata ; come
lo dimostra ancora l'accenno, che più tardi è fatto dalla legislazione
decemvirale dei forcti ac sanates, ai quali, secondo Festo , sarebbe stato
accordato unicamente il ius nesi man cipiique. Da questo peculiare rapporto
giuridico , che intercede fra Roma e le popolazioni circostanti, mi sembra di
poter dedurre con fondamento, che quel nexum e quel mancipium , che poscia
vennero a significare dei rapporti privati fra i cittadini, abbiano potuto un
tempo indicare dei rapporti, che correvano fra le genti patrizie e le
popolazioni di diritto inferiore e pressochè vassalle , che abitavano nel
territorio circostante a Roma. Che anzi qui mi pare opportuno di dare
svolgimento ad un concetto , che fino ad ora potè solo essere accennato, ma non
svolto . Il medesimo consiste in ritenere , che la condizione primitiva della
plebe, di fronte alla città patrizia , dovette essere analoga a quella , in cui
ci vengono descritti posteriormente i forcti ac sanates, in base alla
legislazione decem virale . È un magistero eminentemente romano quello di
seguire sempre il medesimo processo, allorchè si avverano le stesse condizioni
di fatto. Ora non è dubbio, che la plebe in Roma primitiva era costituita da
popolazioni circostanti, superiori ed inferiori a Roma, in condi zioni quasi
del tutto simili a quelle, in cui Festo ci descrive essersi poscia trovati i
forcti ac sanates . È quindi naturale e del tutto pro babile, che Roma abbia
fatto dapprincipio alle popolazioni, che lo erano più vicine, e che
costituivano così la prima plebe, la posizione stessa, che fece poi ai forcti
ac sanates ; che cioè abbia loro rico nosciuto dapprima il ius nexi
mancipiique, il diritto cioè di obbli garsi, di acquistare e di trasferire la
proprietà nei modi riconosciuti dal suo stesso diritto . Ciò era necessità ,
perchè fossero possibili i commercii fra patriziato e plebe ; e intanto spiega
eziandio , come i primi concetti, che compariscano nel diritto quiritario,
comune ai due ordini, siano appunto quelli del nexum e delmancipium , i quali
perciò , al pari di quello del commercium , al quale corrispondono, si svolsero
dapprima fra popolazioni diverse, e poi furono portati nei rap porti interni
fra i membri di una stessa città. Roma patrizia insomma avrebbe in questa parte
usato il più semplice dei processi. Dapprima avrebbe considerata la plebe come
una popolazione circostante alla città , con cui non poteva a meno di essere in
commercio, e perciò avrebbe accordato alla medesima quel ius nexi mancipiique,
che anche più tardi continuò ad accordare ai forcti ac sanates. Quando 199 -
poi la plebe fu anch'essa incorporata nella città, e coll'ampliamento delle
mura serviane una parte delle abitazioni dei plebei si trovò entro il recinto
dell'urbs, quel diritto , che prima governava i rap porti, che intercedevano
fra due popolazioni distinte, continud natu ralmente a governare i rapporti dei
due ordini, in quanto essi fa cevano parte della stessa comunanza; quello , che
era dapprima un diritto esterno, divento diritto interno, e fu il punto di
partenza dello svolgimento del ius quiritium . Certo questa non è che una
congettura fondata sul processo solitamente seguito dai Romani; ma fornisce una
spiegazione così naturale delle cose, e così conforme al metodo romano, che non
mi sembra temerità di aggiungerla alle altre, che già si escogitarono al
riguardo. Intanto , come ho già altrove avvertito (1), viene eziandio a
comprendersi il motivo, per cui questa speciale posizione giuridica dei forcti
ac sanates, poscia sia scomparsa per guisa da non sapersi più comprendere il
signifi cato della medesima, poichè col tempo anch'essi entrarono a far parte
della plebe romana, e quindi mancò ogni ragione per serbare loro questa
peculiare condizione giuridica. & neaco (1) V. sopra Cap. VIII, n . 138-39,
pag. 170-171. Il solo passo, che a noi pervenne intorno ai forcti ac sanates, è
di Festo , ed il medesimo è ancora in tale stato, che fu assaidifficile la
ricostruzione di esso. L'OFFMANN, Das Gesetz d . XII Tafeln von den Forcten und
Sanaten . Vienna, 1866, ritiene che il passo delle XII Tavole , a cui Festo
accenna , vº Sanates (Bruns, Fontes, pag . 664), fosse così concepito :
mancipatoque ac forcti sanatique idem iuris esto » . Questa lezione stata
adottata dal LANGE, Hist. intér. de Rome, I, pag . 171, fu respinta dal
MOMMSEN, sulla conside razione che qui trattavasi di determinare la condizione
dei forcti ac sanates in sè considerati, e non di metterli a comparazione coi
nexi ac mancipati, dei quali non si saprebbe poi dire , quale potesse essere la
speciale posizione giuridica . Il Voigt, Die XII Tafeln, I,pag. 273 e 733 ,
Tab. XI,6 , ricostruirebbe invece la legge in questa guisa : e nexum
mancipiumque, idem quod Quiritium , forcti sanatisque supra infra que urbem
esto »; ma non pare che sia nell' indole della legge decemvirale di en trare in
particolari così minuti. Parmi quindi di adottare piuttosto il testo della
legge, quale sarebbe accettato dal MOMMSEN ; ~ Nexi mancipiique forcti
sanatesque idem iuris esto » ; il che significherebbe in sostanza ciò, che pure
dice il Voigt, che cioè i forcti ac sanates possono obbligarsi e trasferire il
proprio mancipium nel modo riconosciuto dal diritto quiritario, cosicchè
verrebbe ad essere probabile, che la loro posizione fosse precisamente quella
della plebs, allorchè era già ammessa in questi confini al commercium ,ma non
aveva ancora il connubium . Quanto alle varie lezioni proposte è da vedersi il
Mommsen nella nota al Bruns , Fontes , pag. 365 ; ed anche il MUIRHEAD, Histor.
Introd ., pag. 111, nota 12, ove proporrebbe la se guente ricostruzione: «
nexum mancipiumque forcti sanatisque idem esto » ; pure avrebbe la medesima
significazione. Non conosco però che altri abbia cercato di . la quale 200 161.
Del resto , checchè si possa dire di questa induzione, questo deve certo essere
ammesso, che il ius quiritium , il quale, sebbene comparisca con Roma, pud
tuttavia avere le sue radici, in epoca di gran lunga anteriore, almeno in parte
si formò in un periodo di lotta e di violenza fra gruppi e ceti di persone, che
si trovavano in condi zione affatto diversa , in quanto che alcuni di tali
gruppi e ceti già erano pervenuti alla formazione di consorzii civili ed umani:
mentre gli altri ancora vivevano in uno stato di promiscuità e confusione, che
le genti patrizie riputavano nefario. Non può quindi essere mera viglia , se
alcuni dei resti, che giunsero fino a noi, portino ancora i segnidelle lotte e
dei conflitti, che vi furono fra vincitori e vinti, non che della soggezione e
della dipendenza , in cui erano le classi inferiori. Al modo stesso , che i
ruderi delle costruzioni primitive di mostrano, colla rozzezza e coll'enormità
delle loro proporzioni, quali edifizii in quell'epoca fossero necessarii per
ripararsi contro i cataclismi del suolo : così i resti, che ancora ci rimangono
del primitivo ius qui ritium , in questi vocaboli, che sono sopravvissuti ai
tempi, in cui si sono formati, dimostrano quali specie di vincoli si potessero
richiedere per richiamare da una condizione pressochè nefaria , per usare l’es
pressione del Vico , le moltitudini e le folle ad celebrandam suam socialem
naturam . Gli uomini in questa epoca dovettero sentire l'impotenza loro di
fronte ai terrori della sconvolta natura, ai pe ricoli delle fiere, e agli
scontri continui con genti di origine stra niera, e quindi non poterono
preoccuparsi tanto della loro libertà , quanto sentire il bisogno di ripararsi
sotto la protezione di quelle genti, che prime erano riuscite ad organizzarsi e
a fortificarsi sotto il potere dei loro capi. Cid spiega come l'antico vocabolo
di « iobi lare » abbia potuto significare il gridare salvezza per l'aperta
campagna e come i deboli fossero nella necessità di fare appello alla fede ed
alla protezione dei forti, e disposti ad accettare la posizione portata dal
mancipium e dal nexum , pur di averne la protezione e la difesa. Non era perciò
un diritto mite ed umano e pieno di grada zioni delicate e sottili , che poteva
nascere in questi inizii dell'organiz zazione sociale, sopratutto nei rapporti
fra classi, di cui una era su periore e l'altra inferiore ; ma bensi un diritto
rozzo e violento , che risentisse in certo modo della lotta , da cui esso
usciva, e che da una inferire da questa disposizione la condizione giuridica
primitiva , in cui si trovò la plebe di fronte alla città patrizia. - 201 parte
avesse l'impronta della superiorità dei vincitori e dei forti e dall'altra
dell'abbiezione, a cui erano ridotti i vinti ed i deboli (1). 162. Si comprende
quindi come in questo periodo , la manus, armata di lancia , pronta da una
parte ad atterrare il nemico, a seguirlo fuggi tivo e a farlo prigioniero di
guerra , e dall'altra disposta a difendere tutti i proprii dipendenti, potesse
presentarsi come l'espressione più , naturale e più energica ad un tempo per
significare il potere giu . ridico, che spetta al capo di una famiglia sopra
tutte le persone, che da lui dipendono, e per significare eziandio l'unità
della famiglia nei rapporti esteriori. Genti come le italiche, le quali,
secondo l'at testazione di Servio, avevano nella loro ingenua personificazione
di tutte le energie proprie dell'uomo dedicato ad un nume le varie parti del
corpo, cioè l'orecchia alla memoria, la fronte all'ingegno , la destra alla
fede, le ginocchia alla pietà e alla misericordia, perchè abbracciano le
ginocchia coloro che implorano , non avevano che ad applicare il medesimo
processo per dedicare la manus ad espri mere il potere unificatore della
famiglia (2). Non era forse la manus che atterrava il nemico e lo faceva
prigioniero di guerra e che intanto proteggeva moglie , figli, clienti e servi?
Non era essa , che riuniva e stringeva la famiglia nella sua compagine interna,
e che serviva a renderla forte e compatta contro le aggressioni esterne ?
Intanto però è evidente, che la manus, intesa in questo significato , poteva
solo spettare a quei capi di famiglia, che avevano serbata intatta la loro
autorità di diritto, perchè non erano mai stati sotto ( 1) Buona parte di
questi concetti trovasi accennata qua e là dal Vico ; na è avvolta in una forma
fantastica , proveniente dall'idea preconcetta di voler conside rare i Romani
come i rappresentanti di quell' epoca eroica , che, secondo le sue teorie,
avrebbe susseguito quei tempi,che egli chiama divini, e preceduto quelli, che
egli chiama umani; idea , che finì per condurlo a considerare come una leggenda
tutta la storia primitiva di Roma, fino alla prima guerra Cartaginese. Ciò però
non impedisce che le sue divinazioni, anche non essendo vere, se applicate a
Roma sto rica, possano contenere del vero, se riportate all'epoca veramente
patriarcale ed eroica, che avrebbe preceduta la fondazione di Roma. In
proposito è da vedersi il MORIANI, La filosofia del diritto nel pensiero dei
Giureconsulti romani, Firenze, 1856 , pag. 14 e segg., ove parla dell'origine
del diritto e dell'etimologia del vocabolo ius. (2) Servius, In Aen., 3, 607 :
« Phisici dicunt esse consecratas singulis numinibus singulas corporis partes :
ut aurem Memoriae, frontem Genio, dexteram Fidei, genda Misericordiae , unde haec
tangunt rogantes. Iure pontificali , si quis flamini genua fuisset amplexus,
eum verberari non licebat » . 202 posti a servitù, e primi erano pervenuti a
fondare una vera organiz zazione sociale. Il concetto quindi di manus, in
quanto è l'unificatore della famiglia e dà alla medesima la compattezza
necessaria per re spingere ogni aggressione , dovette prima formarsi nei
rapporti fra le famiglie, le genti e le classi diverse, che non nei rapporti
interni della famiglia ; perchè la causa , che determino questo irrigidirsi
della famiglia , non fu interiore alla medesima, ma bensì esterna , ossia la
necessità di provvedere alla lotta per l'esistenza . Dal momento per tanto, che
il concetto di manus ha un'origine, che potrebbe chia marsi pressochè esteriore
ed internazionale, ne consegue eziandio, che nel conflitto delle genti il
concetto della manus, in quanto indica un potere, che non ebbe giammai a
soccombere sotto la schiavitù, non potè essere applicato che ai capi delle
famiglie patrizie, e non già alla folla e alla moltitudine, di cui erano
circondati gli stabili menti dei padri. Si comprende pertanto, come nel diritto
quiritario primitivo continuamente comparisca la manus, la quale è quella , che
lotta nella manuum consertio ; che rivendica nella vindicatio ; che trascina il
debitore nella manus iniectio ; che distendendosi lascia in libertà lo schiavo
(manu emittit) ; che obbliga la propria fede nella dextrarum iunctio; e da
ultimo è anche quella, che afferrando il vinto, lo trasmuta in mancipium . Essa
quindi non ha soltanto una significazione relativa alla costituzione interna
della famiglia, ma dap prima ha sopratutto una significazione, quanto ai
rapporti esteriori in cui la famiglia può trovarsi, essendo la manus, che la
rende unita e compatta nel respingere ogni aggressione. Sarà solo più tardi,
che essa verrà a significare il complesso dei poteri giuridici, che ap
partengono ai quiriti, in quanto essi costituiscono una specie di ari stocrazia
fra la moltitudine e la folla , da cui sono circondati. Però almodo stesso ,
che la manus in questa significazione è già il frutto di una specie di
astrazione, cosi deve pur dirsi del concetto del qui rite . Senza entrare
nell'etimologia della parola e senza discutere se la medesima venga da quiris
lancia, o da curia , come vorrebbe il Lange; questo è certo che in ogni caso il
vocabolo di quiriti non significa i membri delle genti patrizie individualmente
considerati; ma li indica in quanto appartengono ad uno stesso populus, che ora
ra dunasi nelle curie , ed ora costituisce un esercito . Come tali i qui riti
trovansi in una posizione privilegiata e quindi sono essi sol tanto, a cui
appartiene la manus, come simbolo del diritto quiritario; sono essi soli, che
abbiano le iustae nuptiae ; che sappiano consul 203 tare gli Dei cogli auspizii
; e che partecipino direttamente al bene fizio delle istituzioni proprie della
città (1) . 163. Malgrado di ciò è improbabile, che nel periodo anteriore alla
fondazione della città , e in quello della città esclusivamente patrizia non
intercedano dei rapporti fra la classe dominante e quelle inferiori, da cui
essa è circondata . Sarebbe tuttavia a meravigliarsi, se in questi rapporti
essi si trattassero alla pari, e se le istituzioni, che dovettero nascere in
questa condizione di cose, non portassero le traccie della disuguaglianza di
condizione, in cui si trovavano le due classi . Il plebeo , che non ha una
posizione giuridica , e che quindi non può offrire garanzia di sorta al
patrizio , quando voglia entrare in rapporto con esso , non può avere altro
mezzo che quello di darsi a mancipio o divincolarsi col nexum , per guisa che,
se esso non paghi, possa essere ridotto alla condizione di mancipio ,
assoggettandosi cosi alla manus iniectio. Di qui la conseguenza , che i
durissimi concetti del mancipium , del nexum , della manus iniectio, prima di
diventare istituti proprii del diritto quiritario , in cui presero poi una
significazione speciale, dovettero significare dei rapporti, che si stabilirono
fra patriziato e plebe, prima che entrassero a far parte della stessa comunanza
; il che spiega appunto quel carat tere di soggezione e di dipendenza di una
persona ad un'altra, che è loro inerente . Che anzi, siccome le origini di
certi concetti primitivi debbono talora cercarsi in un periodo anteriore a
quello , in cui essi appari scono e cominciano a prendere una forma determinata
e precisa , cosi anche questa significazione dei vocaboli di mancipium , di
nexum , di manus iniectio non è ancora quella assolutamente pri mitiva ; ma
conviene cercarne le origini nelle lotte, che dovettero esistere in epoca più
remota fra i vincitori ed i vinti, fra i con quistatori ed i conquistati. In
questa indagine non può esservi altra luce fuori di quella, che viene dalla
significazione diversa, che as sunsero i vocaboli, di cui si tratta . 164.
Nella povertà del linguaggio giuridico primitivo il vocabolo mancipium ebbe ad
assumere significazioni molto diverse , che però riduconsi a due essenziali ; a
quelle cioè per cui significa : - o ciò (1) LANGE, Hist. inter. de Rome, I,
pag. 29. 204 che è soggetto al potere del capo di famiglia – o il modo per
trasfe rirlo di una ad altra persona. Nel primo significato mancipium in dica
anzitutto il prigioniero di guerra, stato ridotto in schiavitù ; poi indica
eziandio tutto cid , che può essere preso e assogettato colla manus : quidquid
manu capi subdique potest,uthomo, equus, ovis ; infine indica eziandio,
allorchè il diritto quiritario è già formato, il complesso delle persone e
delle cose, che dipendono dalla manus del capo di famiglia. Questa serie di
significazioni, che si vengono sempre più estendendo, contengono in compendio
la storia dell'istituzione. Non può esservi dubbio, che il primo mancipium
dovette essere lo schiavo ed il vocabolo era anche acconcio ad esprimerlo , in
quanto che questo era stato veramente manu captum e poi ridotto in schia vitù ;
poscia l'analogia lo fece estendere eziandio alle cose e persone, che erano
assoggettate in modo analogo al potere della persona, quali erano i cavalli e i
buoi, allorchè domati cominciavano a dipendere dalla mano dell'uomo; infine,
quando la manus prese la significazione traslata , per cui essa designa il
potere del capo di famiglia , tanto le persone, che le cose soggette al
medesimo, poterono essere indi cate col vocabolo di mancipium . Giunge però
tempo, in cui questo vocabolo sembra per la sua stessa origine essere disadatto
a signi ficare tanto le persone, che le cose soggette al capo di famiglia, ed
in allora esso scompare in questa significazione, ma continua ancora sempre a
mantenersi nella sua significazione primitiva, che era la vera ; come lo
dimostrano le disposizionidell'editto degli edili curuli col titolo de
mancipiis vendundis, ove il vocabolo continua sempre a significare lo schiavo (
1 ). (1 ) Quanto al tenore dell'Editto curule vedi Bruns, Fontes , pag. 214.
Non potrei ciò stante ammettere la significazione, che il MUIRHEAD ebbe di
recente a proporre per i vocaboli di mancipium e di mancipatio , colla quale
egli direbbe , che mancipium significa eziandio il potere, ossia la padronanza
del manceps, e che perciò debba ritenersi come sinonimo di manus; donde egli
deriva, che mancipare non deriverebbe da manu capere, ma piuttosto da manum
capere (Histor . Introd ., pag.61). Oltrecchè questa etimologia non servirebbe
veramente a spiegar meglio la significazione primitiva del vocabolo ; parmi
eziandio che contraddica all'uso, che i giureconsulti fecero di questo
vocabolo, attribuendo costantemente al medesimo una significazione passiva , la
quale indica piuttosto la soggezione di una persona o di una cosa , che non il
potere che appartiene sulla persona o cosa soggetta. Noi ve diamo infatti, che
mentre occorrono talvolta le espressioni di habere manum , habere potestatem ,
habere dominium , i giureconsulti invece non direbbero mai habere man cipium
nel senso di significare un potere, che spetti ad una persona,al modo stesso -
205 Se non che il vocabolo mancipium non significa soltanto ciò , che è
soggetto al capo di famiglia , ma indica eziandio il trasferimento , di cui
possono essere oggetto le cose , che entrano a costituirlo . Ciò è dimostrato
dall'espressione vigorosa della legislazione decemvirale, nella quale si dice
facere mancipium , facere nexum , al modo stesso, che direbbesi facere
testamentum . Or bene non vi ha dubbio , che anche il facere mancipium deve
avere subito delle trasforma zioni profonde nel proprio significato . Facere
mancipium infatti dovette negli inizii indicare il darsi o il prendere a
mancipio, la dedizione del vinto o la presa del vincitore, per cui quello viene
in tutto ad essere a disposizione di questo. Ciò è dimostrato da questo che i
servi, che erano chiamati mancipia ex eo , quod ab hostibus manu capiuntur,
sono anche chiamati servi dediticii, in quanto che essi provenivano da una
specie di resa o di dedizione del vinto al vin citore (1). Cid però non tolse ,
che il concetto del facere mancipium si applicasse eziandio a persone libere,
che potevano dare se stesse a mancipio , od anche a persone, che dipendevano da
esse , come accadeva nella noxae deditio . Che anzi è molto probabile , che nel
periodo, in cui i plebei non erano ammessi a far parte della citta dinanza, il
solo mezzo, che essi avessero per trovare protezione e difesa, fosse quello di
darsi a mancipio . Infine, allorchè il mancipium prese quella significazione,
eminentemente giuridica, per cui significa il complesso delle persone e delle
cose, soggette al capo di famiglia , anche il facere mancipium ricevette una
larghissima applicazione, per modo che la mancipatio verrà ad essere come il
perno, sovra cui si modellano tutti gli atti, che modificano in qualche modo il
potere del capo di famiglia (2 ). che non adoperano mai il vocabolo di nexus
per indicare il creditore, ma sempre per designare il debitore. Convien quindi
dire, che mancipium significò sempre la cosa soggetta o la trasmissione della
medesima, ed è anche questo il significato , che ha sempre conservato dipoi,
allorquando accade ancora di usare il vocabolo di mancipio. A ciò si può anche
aggiungere, che il vocabolo di capio nella sua significazione giuridica suole
sempre essere accompagnato dall'ablativo, come accade nell'usucapio ,
nell'usureceptio e simili. (1) A questo proposito è notabile il seguente passo
di Festo, Vº Quot.: Quot servi tot hostes in proverbio est, de quo Sinnius
Capito existimat esse dictum initio quot hostes tot servi» quod tot captivi
fere ad servitutem adducebantur » , BRUNS, Fontes, pag. 359. (2) Per la
larghissima esplicazione della mancipatio nel diritto quiritario è da vedersi
il Longo, La mancipatio, parte 14, Firenze, 1886. 206 165. Passando ora alla
manus iniectio , noi riscontriamo nella medesima un processo del tutto analogo.
Non può esservi dubbio che essa dovette essere dapprima il modo effettivo , con
cui il vinci tore afferrava il vinto , in base al diritto di guerra e lo
riduceva in schiavitù . Il suo concetto quindi nacque anch'esso nella lotta e
nella violenza ; ma poscia dai rapporti fra vincitori e vinti fu tra sportato
anche fra le persone, che appartenevano alla stessa co munanza e significò
l'esercizio privato delle proprie ragioni, come lo dimostra la seguente
deffinizione di Servio : manus iniectio di citur, quotiens, nulla iudicis
auctoritate expectata , rem nobis de bitam vindicamus. Pare però, che quest'esercizio
privato delle proprie ragioni, che non si può conciliare coll'esistenza della
pubblica autorità , non fosse riconosciuto dal diritto quiritario, che in
alcuni casi soltanto . Infatti nel diritto quiritario noi troviamo la manus
iniectio in due significazioni. Essa è il modo per trascinare avanti al
magistrato colui che invitato a venirvi siasi rifiutato ; ma in ciò non havvi
ancora un esercizio privato delle proprie ragioni, bensì un mezzo per ottenere
la presenza del convenuto avanti al magistrato . La manus iniectio poi, nella
legislazione decemvirale, è anche un mezzo di esecuzione contro il proprio
debitore ; ma in questo senso è solo ammessa in alcuni casi, cioè : contro
coloro che o abbiano confes sato il proprio debito (aeris confessi) ; contro
coloro che siano stati condannati (iudicati); o infine contro coloro, che si
siano ob bligati mediante il nexum (nexi). Ora di queste varie applicazioni del
diritto di esecuzione privata contro il debitore, quella, che ri guarda gli
aeris confessi ed i iudicati, suppone già un intervento dell'autorità
giudiziaria ; mentre quella, che riguarda il nexum , ri monta certamente ad
epoca anteriore alla formazione della comu nanza , il che fa credere che la
manus iniectio nelle proprie origini abbia avuto una stretta attinenza col
nexum (1). Cid miporge quindi occasione di discorrere brevemente di esso e di
dimostrare, che anche l'istituto del nexum è una di quelle istituzioni
primitive, che trovo solo applicazione nei rapporti fra il patriziato e la
plebe, e che poi entró a far parte del diritto quiritario. 166. Il nexum è
certo uno degli istituti, che diffonde una triste aureola sul diritto primitivo
di Roma. La sua origine è ignota ; ma (1) V.sopra , Cap. VI, § 3, n . 105-6,
pag. 135 e seg . - 207 si può affermare con certezza , che essa rimonta ad
epoca anteriore alla formazione della comunanza romana: poichè la tradizione
già attribuisce a Servio Tullio dei provvedimenti diretti a limitare gli
effetti, che derivavano da esso . Lo stesso è a dirsi della legislazione
decemvirale, che lo suppone già esistente e si limita a trattenere in certi
confini i maltrattamenti contro il debitore. Fu poi notato a ragione dal
Niebhur, che il nexum con tutti i tristi suoi effetti apparisce soltanto nei
rapporti fra il patriziato e la plebe; per guisa che la sua abolizione si
riduce ad una specie di questione sociale fra le due classi; come è anche
dimostrato da ciò , che Livio consi derd l'abolizione di esso come una vittoria
della plebe sopra il pa triziato . Vero è, che questo fatto può anche essere
spiegato con dire che solo il patriziato era in condizione di fare degli
imprestiti alla plebe , e che perciò esso solo aveva interesse al mantenimento
di questo « ingens vinculum fidei » ; ma parmiche il carattere vero di questa istituzione
possa essere più facilmente spiegato , quando si cer chino le cause , che vi
hanno dato origine. Il nexum dovette essere un modo di obbligarsi di colui, che
, non avendo altre garanzie da offrire al proprio creditore, obbligava
direttamente la propria persona. Ora è questa appunto la condizione, in cui si
trovò il plebeo di fronte al patrizio , anteriormente alla formazionedella
comunanza romana, allorchè, sprovvisto di qualsiasi diritto , non aveva altro
mezzo , per trovare protezione o credito , che o di dare a mancipio se o la fa
miglia , o di vincolarsi col nexum . Quello era una specie di dedizione di se
stesso e questa era una specie di ipoteca, che egli consentiva sulla propria
persona . Siccome poi, come si vedrà a suo tempo e come del resto fu già
ritenuto dal Niebuhr, il nexum non obbligava che la persona, e non attribuiva
qualsiasi diritto sui beni di esso ; cosi in parte si comprende che il diritto
del creditore sul debitore , sia stato spinto a quelle estreme esagerazioni,
che a noi riescono pressochè inesplicabili ( 1). 167. Quanto al vocabolo poi
non può esservi dubbio , che esso ebbe ad assumere significazioni molto
diverse. ( 1) Liv. VIII, 28 , in princ.: « Eo anno plebi romanae velut aliud
initium liber tatis factum est, quod necti desierunt » ; e più sotto : « victum
eo die ingens vin culum fidei. Cfr. Niebhur, Hist. Rom ., III, pag. 375. Della
portata e degli effetti del nexum , come pure del mancipium , si discorrerà più
sotto; poichè qui importava solo di cercare l'origine dei vocaboli e dei
concetti coi medesimi significati. 208 Anche qui è probabile , che il nexum
nella sua primitiva signifi cazione indicasse veramente i vincoli, a cui
sottoponevasi lo schiavo fuggitivo ; ma che poscia dalla significazione
letterale siasi fatto pas saggio alla significazione giuridica . Tuttavia
rimangono ancor sempre le traccie delle due significazioni, in quanto che gli
storici chiamano col vocabolo di nexi, ora quelli che si trovano già condotti
nel car cere privato del debitore, ed ora invece i debitori, che si sono ob
bligati colle forme solenni del nexum . Del resto anche questo vo cabolo, al
pari di quello dimancipium , significa non solo il vincolo fisico o giuridico,
a cui altri si sottopone, ma eziandio l'atto con cui egli contrae il vincolo
stesso (nexum facere). La conclusione intanto viene ad essere cotesta, che
tutti questi istituti più rozzi, che appariscono nel primitivo ius quiritium ,
dovet tero aver avuto origine nei rapporti fra i vincitori e i vinti, i quali
trasformati in varia guisa furono poi estesi anche ai rapporti fra il
patriziato e la plebe. Sarebbe insomma anche qui accaduto cið, che pure accadde
delle altre istituzioni del diritto quiritario , che esse si svolsero dapprima
fra le varie genti o almeno fra i diversi capi di gruppo e furono poiapplicate
nei rapporti dei quiriti fra di loro . Al modo istesso , che i concetti di
connubium , di commercium e dell'actio sacramento si spiegarono dapprima fra le
varie genti ed i loro capi, e solo più tardi si svilupparono nel diritto
quiritario ; così i concetti del mancipium , del nexum , e della manus iniectio
, dopo essersi formati fra la classe dei vincitori e quella dei vinti, ed
essersi poi applicati ai rapporti fra il patriziato e la plebe, si tra
sformarono in istituzioni proprie del diritto quiritario . Di qui il carattere
di rozzezza, di violenza, inerente ai medesimi, che rese necessaria la loro
trasformazione ed anche il cambiamento dei vo caboli, con cui furono indicati,
a misura, che vennero sempre più pareggiandosi le due classi, dopo che
entrarono a far parte della stessa comunanza civile e politica. 168. Che se,
riassumendo, si volesse ora dare uno sguardo sinte tico a quelle istituzioni
esistenti fra le genti italiche, anteriormente alla fondazione della città , che
si vennero ricostruendo a poco a poco , noi possiamo scorgere fin d'ora, che
già si erano poste le basi fondamentali del diritto pubblico, privato ed
internazionale, che ebbe poi a svolgersi in Roma. Quanto al diritto pubblico
infatti, già erasi elaborato il concetto del potere monarchico, di cui avevasi
il modello nel capo di famiglia ; - 209 quello di un elemento aristocratico ,
che era rappresentato dal con siglio degli anziani, proprio della gente; e
quello infine di un ele mento popolare e democratico, il quale già aveva
cominciato a svolgersi nelle tribù e a presentare quel dualismo fra patriziato
e plebe, che doveva poi ricevere nella città tutto lo svolgimento , di cui
poteva essere capace. Furono questi elementi che, accomodati alle esigenze della
vita civile e politica, servirono di base alla co stituzione primitiva di Roma
e condussero naturalmente allo svolgi mento dei poteri, che furono attribuiti
al re , al senato ed al popolo. 169. Così pure quanto al diritto privato, già
erano in pronto gli elementi diversi, i quali,amalgamandosi insieme, dovevano
porre le basi del diritto civile di Roma. Eravi infatti un diritto proprio
delle genti patrizie, che, appoggiandosi da una parte sull'elemento religioso
del fas e dall'altra sopra l'elemento morale del mos, già aveva dato origine ai
concetti fondamentali del connubium , del commercium e dell'actio sacramento ,
ed aveva elaborato tutte quelle forme tradizionali e solenni, in cui si fecero
entrare a poco a poco i nuovi rapporti giu ridici, ai quali diede occasione il
formarsi e lo svolgersi della convi venza civile e politica . Esisteva
parimenti, ancorchè solo in via di formazione, un diritto proprio della
comunanza plebea , fondato so pratutto sull'usus auctoritas, il quale, per
essere più semplice nella sua forma, più alieno dalle solennità , più libero da
ogni influenza del passato poteva meglio adattarsi alle esigenze della vita
civile e po litica . Da ultimo già cominciava ad elaborarsi un diritto , che
non poteva dirsi proprio, nè del patriziato, nè della plebe, mache ten deva a
racchiudere in forme rozze e primitive i rapporti, che inter cedevano fra di
essi. Questo diritto era tutto uscito dal concetto fondamentale della manus, in
quanto esprime il potere del capo di famiglia patrizio , ed aveva dato origine
ai concetti del mancipium , del nexum e della manus iniectio, i quali,
debitamente trasformati, si dovranno poi convertire in altrettanti concetti
fondamentali del diritto quiritario . È quest'ultimo elemento, che attribuisce
al ius qui ritium quel carattere di rozzezza e di forza, che lo
contraddistingue. Tuttavia fu esso che, isolando l'elemento giuridico
dall'elemento re ligioso e dal morale, con cui prima trovavasi confuso , viene
a for mare il primo nucleo di quel ius quiritium il quale , assimilando col
tempo istituzioni patrizie e costumanze plebee , finirà per conver tirsi in un
ius civile, che poteva convenire alle due classi, che erano chiamate a far
parte della stessa comunanza civile e politica . G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 14 210 170. De ultimo, anche per quello che si riferisce a
quei rapporti, che con vocabolo moderno si potrebbero chiamare internazionali,
già erausi poste le basi di un ius belli ac pacis, e si erano elabo rati i
concetti dell'amicitia, dell'hospitium ,della societas, e del più importante
fra tutti , che era quello del foedus, il quale poi doveva somministrare il
mezzo per far partecipare più tribù alla stessa vita politica , militare e
giuridica, e per dare cosi origine alla città . Questa parimenti, traendo
profitto dagli istituti della cooptatio, della co lonia , della concessio
civitatis sine suffragio , del municipium , pos sedeva anche i mezzi per
accrescere la sua popolazione e per esten dere il proprio impero . I materiali
quindi erano in pronto : solo rimane a vedersi il pro cesso , col quale Roma,
gittandoli tutti nello stesso crogiuolo, abbia saputo scegliere ciò , che in
essi eravi di vigoroso e di vitale , e sia così riuscita a ricavarne lentamente
e gradatamente la propria co stituzione politica, e quel diritto privato, il
quale svolgendosi sempre sul medesimo modello e sempre arricchendosi di nuovi
elementi, finirà per diventare tale da poter essere accettato da tutte le
genti. Intanto una delle cause, che condurrà a questo risultato , sarà la
distanza stessa , a cui trovansi i due ordini, che debbono insieme con tribuire
alla formazione della città . Sarà tale distanza infatti, che forzerá la
costituzione di Roma a percorrere tutte le gradazioni, di cui possa essere
capace, e che obbligherà il diritto privato di Roma a riconoscere la capacità
di diritto ad ogni uomo, purchè libero . Per tal guisa tutte le gradazioni del
senso giuridico , dalle più semplici e naturali alle più sottili e raffinate,
cadranno sotto l'elabo razione dei giureconsulti, e l'universalità del diritto
romano dovrà sopratutto essere attribuita a ciò, che esso è la più completa e
pre cisa espressione di un complesso di sentimenti eminentemente sociali ed
umani, che nacquero e si svolsero insieme colla convivenza ci vile e politica.
- 1 LIBRO II. Roma e le sue istituzioni nel periodo esclusivamente patrizio
("). CAPITOLO I. Genesi e carattere della città primitiva. 171. Nella
storia non vi ha forse avvenimento , il quale abbia eser citata maggiore
influenza sulle sorti dell'umanità che il passaggio dall'organizzazione
gentilizia alla comunanza civile e politica . Sotto quest'aspetto non sarà mai
abbastanza approfondita la storia pri mitiva di Roma, perchè non vi ha
certamente altro popolo , che abbia più vivamente sentito, e quindi più
profondamente scolpito nelle proprie istituzioni questa importantissima
trasformazione, che (* ) Pervenuto a questo punto della trattazione, trovomidi
fronte ad una lettera tura così copiosa , che mi sarebbe impossibile di poter
indicare la bibliografia , che può riferirsi ad ogni singolo argomento. Siccome
quindi l'intento del libro è quello unicamente di tentare una ricostruzione
delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma primitiva ; così mi limitero
ad indicare in nota gli autori, di cui prendo in esame le opinioni, e i passi
di antichi scrittori, sui quali si fonda l'opinione da me sostenuta, e non mi
fard anche scrupolo di citare una traduzione, quando non tenga l'originale,
sopratutto di autori tedeschi. Quanto alla bibliografia , essa potrà essere
facilmente trovata nei recenti trattati di storia del diritto romano, o di
introduzione storica allo studio del diritto romano, quali sono in Francia
quelli dell' ORTOLAN, del Bouché -LECLERCQ, del Maynz, del MISPOULET, del
Roblou et Delaunay, del MORLot, ecc.; nel Belgio quelli del Maynz, del Rivier,
del WILLEMS, ecc.; in Ger mania quelli del Bruns, del BARON, del KARLOWA, del
Voigt, dell'HERZOG , ecc.; in Inghilterra quelli del MUIR EAD e del Roby; e
nella nostra Italia quelli del PA DELLETTI-Cogliolo, e del LANDUCCI, ecc.;
trattati, che ho citato già , o che mi occor rerà di citare in seguito. Mi
perdoni il lettore: ma la sola bibliografia, fatta un po ' a dovere , mi
avrebbe assorbito il volume. 212 accadde nell'organizzazione sociale . A ciò si
aggiunge , che lo spirito conservatore del popolo Romano ha fatto si , che esso
, modellando e svolgendo la città primitiva, abbia sempre conservato le traccie
delle istituzioni preesistenti, e dei periodi diversi, per cui passò la nuova
formazione. Di qui la conseguenza , che quando si riesca a penetrare il
processo logico , stato seguito dai Romani nella fondazione della loro città,
si potranno determinare con rigore geometrico non solo l'orientamento materiale
di essa, e il modo , con cui furono costrutte le sue mura ; ma eziandio la
serie di quei concetti fondamentali, che , preparati in un periodo anteriore,
ricevettero poi nella città tutto lo sviluppo, di cui potevano essere capaci.
Già si è veduto , come nella organizzazione gentilizia siasi svolta la famiglia
colla sua distinzione fra i padroni ed i servi, la gente con quella fra patroni
e clienti, e infine la tribù con quella fra patrizii e plebei. È da questo
punto dell'evoluzione sociale e da questo dualismo costante, che incomincia la
formazione della città . Trattasi pertanto di vedere in qual modo, con questi
elementi, che si erano naturalmente formati e sovrapposti gli uni agli altri,
abbia potuto essere iniziata la convivenza civile e politica. Fu questa una
continuazione del medesimo processo formativo dell'organizzazione gentilizia ,
o fu invece il risultato di qualche nuova energia o forza operosa , che si
introdusse nell'organizzazione sociale ? 172. Le teorie, che furono escogitate
in proposito dagli studiosi della storia primitiva di Roma, sono molte in
numero e diverse nei risultati a cui giunsero ; quindi per noi sarà necessità
di arrestarsi alle principali. Per il Mommsen, il Sumner Maine, e per la
maggior parte degli autori moderni, la città primitiva avrebbe nei proprii
esordii un ca rattere eminentemente patriarcale, e non sarebbe in certo modo,
che un ulteriore svolgimento della stessa organizzazione gentilizia ; essa
sarebbe un edifizio, le cui proporzioni si sono fatte più grandi, ma che è
foggiato sempre sul medesimo modello . A quel modo, che la famiglia ingrandita,
dando origine a diramazioni diverse, avrebbe costituita la gente , e che le
genti, riunendosi insieme, avrebbero dato origine alle tribù ; cosi
l'aggregazione delle tribù in un numero determinato, che sembra essere diverso
secondo i varii popoli, avrebbe dato origine alla civitas. Afferma pertanto il
Mommsen, che la famiglia e la gente non solo avrebbero somministrati gli
elementi, da cui fu costituita , ma anche il modello, sovra cui sarebbesi fog
--- - - 213 giata la comunanza civile e politica . Il re della città sarebbesi
mo dellato sul capo di famiglia, e avrebbe i poteri patriarcali al mede simo
spettanti; il senato non sarebbe che un consiglio di anziani, come lo prova il
nome di patres, dato per tanto tempo ancora ai senatori, e compierebbe nella
città quella medesima funzione, che il tribunale domestico compieva nella
famiglia , e il consiglio degli anziani nella gente e nella tribù ; il populus
non sarebbe che la riu nione delle gentes , per guisa che sarebbe cittadino
ogni individuo , che appartenga ad una di tali gentes ; e da ultimo il
territorio ro mano comprenderebbe i territorii riuniti, che appartenevano alle
varie gentes, le quali pertanto sarebbero incorporate nello Stato nella
condizione stessa, in cui prima si trovavano , e con tutte le fa miglie , che
entravano a costituirle ( 1). Tale a un dipresso sarebbe eziandio la teoria del
Sumner Maine, il quale si limita a dire , che come la tribù era stata una
riunione di gentes, cosi la città era dovuta all'incorporazione di varie tribù
(2). Il Lange invece, mentre si studia in tutti i modi per dimostrare, che lo
Stato e il suo ordi namento è fondato sulla famiglia , e che il diritto
pubblico di Roma sarebbe in certo modo uscito dal seno del diritto privato, e
sareb besi modellato sul medesimo, viene poi a riconoscere, che la città
primitiva è già fondata sopra una specie di contratto , il quale avrebbe
modificato i poteri patriarcali del re, e al principio dell'e redità avrebbe
fatto sottentrare quello dell'elezione (3 ). Il Jhering invece scorge nella
costituzione primitiva di Roma un carattere essenzialmente militare. Per lui il
re sarebbe un condottiero, un capitano , e il suo potere sarebbe, in sostanza,
un militare im perium , destinato sopratutto a mantenere la disciplina
nell'esercito , e percid accompagnato dal ius gladii ; la curia da conviria sa
rebbe una riunione di uomini armati, che si chiamano quiriti da quiris, asta ,
che è il contrassegno del potere aimedesimi spettante ; il populus romanus
quiritium sarebbe l'assemblea complessiva dei guerrieri, portatori di lancia ;
e infine le gentes stesse , in cui egli ritiene ancora che si dividano le
curiae, sarebbero gruppi naturali, basati bensì sulla discendenza , ma già
raffazzonati secondo le esi ( 1) Mommsen, Histoire Romaine. Trad . DeGuerle.
Paris, 1882, I, pag. 77 et suiv . (2 ) SUMNER MAINE, L'ancien droit. Trad .
Courcelle Seneuil. Paris, 1874, pag . 121. (3) Lange, Histoire intérieure de
Rome. Trad . Berthelot et Didier, Paris, 1885 , pag . 37 . 214 - genze di un
esercito ; donde quel numero fisso di trenta curiae , in cui sarebbe ripartito
il popolo primitivo di Roma, le quali poi sareb bero suddivise in trecento
gentes (1). A queste vuolsi eziandio aggiungere la teoria , così splendidamente
esposta dal Fustel de Coulanges, secondo la quale quella religione, che avrebbe
fondata la famiglia e la proprietà , la gente e la tribù, sarebbe pur quella ,
che avrebbe fondata e cementata la primitiva città. La civitas pertanto sarebbe
per lui l'associazione religiosa e politica delle famiglie e delle tribù ;
mentre l'urbs sarebbe il luogo di riunione, il domicilio, e sopratutto il
santuario di questa associa zione, nella quale ogni istituzione assumerebbe un
carattere essen zialmente religioso ( 2 ). 173. Non è a dubitarsi, che queste
varie opinioni contengano tutte alcun che di vero, e che ognuna possa invocare
delle analogie e degli argomenti, che le servano di appoggio ; ma intanto
ciascuna di esse , collocandosi ad un punto di vista esclusivo, mal pud
riuscire a spie gare in modo coerente la natura cosi varia e complessa della
costi tuzione primitiva di Roma: il cui concetto sembra sbocciare da una
sintesi potente , la quale non può altrimenti essere ricostruita , che
riportandoci nell'ambiente stesso , in cui essa ebbe a formarsi . È questo il
motivo, per cui è impossibile spiegare quel carattere di unità e di varietà ad
un tempo, con cui Roma compare nella storia , senza seguire la lenta e
progressiva formazione della città, e tener conto delle necessità reali ed
effettive , a cui le genti primitive cer carono di soddisfare, creando la
comunanza civile e politica . Or bene io non dubito di affermare che,
collocandosi a questo punto di vista , apparisce fino all'evidenza, che la
città per le po polazioni latine non può essere considerata come una
continuazione del processo formativo dell'organizzazione gentilizia prima
esistente ; ma inizia un nuovo ordine di cose sociali, e segue un indirizzo (
1) V. IHERING , L'esprit du droit romain . Trad. Maulenaere. Paris, 1880, I, $
20, pag . 246 e segg.; dove mette molto bene in evidenza il carattere militare
della primitiva costituzione romana, e l'influenza che esso esercitò anche
sullo svolgersi del suo diritto; alla quale opinione in parte anche si accosta
lo SchweGLER , Rö mische Geschichte, I, pag . 523. ( 2) FUSTEL DE COULANGES, La
cité antique. Paris, 1876. Liv . III, Chap. IV , p . 155. È però a notarsi, che
l'autore è a un tempo fra quelli, che a ragione insistono sul carattere
confederativo della città primitiva . Cfr. pag. 147. 215 . compiutamente
diverso, il quale doveva logicamente condurre alla dissoluzione
dell'organizzazione sociale preesistente. Per verità si è veduto più sopra,
come le popolazioni latine, che avevano preceduta la fondazione di Roma, già
fossero pervenute ai concetti dell'urbs, del populus, della civitas. Che anzi
tali concetti, per le popolazioni del Lazio, erano già stati il frutto di una
lunga evoluzione. Esse avevano cominciato dal costruire dei siti fortificati
(arces, oppida ), in cui le comunanze rurali potessero cercare rifugio nei
momenti di pericolo , e in cui potessero ricoverarsi coi proprii greggi e coi
proprii armenti in un'epoca , in cui erano quotidiane le scorrerie e le
depredazioni nei rispettivi territorii delle varie co munanze. Il primo bisogno
pertanto , a cui le genti del Lazio ave vano cercato di soddisfare, era stato
quello di provvedere alla co mune difesa . Poscia, siccome la sicurezza è
condizione, che favorisce gli scambi ed i commerci, così fu naturale, che,
accanto a questi luoghi fortificati, si siano formati dei siti ( fora ), a cui
le genti convenivano per scopo di commercio , e dove, occorrendo, si tratta
vano anche le alleanze e le paci. Col tempo infine questa mede sima località
apparve anche sede opportuna così per l'amministra zione della giustizia, che
per la trattazione di quegli affari, che riguardassero l'interesse delle varie
comunanze (conciliabula ) (1). Per genti poi, in cui era vivo il sentimento
della religione, era naturale, che questa comune fortezza e questo luogo di
convegno (comitium ) fossero posti sotto la protezione di una divinità , non
propria di questa o di quella gente, ma comune alle varie genti ; e fu anche in
questa guisa, che le menti giunsero a concepire una reli gione collettiva al di
sopra di quella propria delle singole famiglie e genti. 174. Per tal modo il
concetto della città non sboccið di un tratto , ma ebbe ad essere provato e
riprovato in varie guise sotto forma di arces , di oppida , di fora, di
conciliabula , di comitia , e infine di urbes; e fu soltanto, allorchè questa
lenta costruzione ebbe ad essere compiuta, che i riti, secondo cui le città
dovevano essere fon date e la loro popolazione doveva essere ripartita ,
assunsero un (1) Questa idea , che è fondamentale nella presente trattazione,
ebbe ad essere accennata e dimostrata più sopra, nei suoi varii aspetti, nel
lib . I, ai numeri 5, 14 , 66 , 99 . - 216 - carattere sacro e religioso , per
modo che ogni fondazione di città ebbe ad essere accompagnata da cerimonie
religiose . L'urbs venne così ad essere il frutto di una lunga evoluzione, che
già erasi inco minciata in seno alla stessa organizzazione gentilizia . Essa
per tanto, fin dai suoi primordii, non si presenta sotto l'aspetto di una
aggregazione di gruppi gentilizii, come vorrebbero il Mommsen e gli autori
sopra citati; ma piuttosto come il frutto di una specie di selezione, per cui
dal seno stesso dell'organizzazione gentilizia , si viene sceverando ed
isolando tutto ciò , che si riferisce alla vita pub blica . Quindi la città
primitiva viene ad apparire come un centro e un focolare di vita pubblica , fra
varie comunanze di villaggio, la cui vita domestica e patriarcale continua a
svolgersi nei vici e nei pagi. Di qui la conseguenza, che se essa sia
materialmente consi derata, cioè come urbs, non si presenta, nelle proprie
origini, come la riunione delle abitazioni private; mapiuttosto come la
riunione in una orbita sacra degli edifizi, aventi pubblica destinazione, come
la fortezza, il santuario comune, la dimora del re (custos urbis ) e dei
sacerdoti (sacerdotes populi), il luogo ( forum ) ove si tiene il mercato e si
am ministra la giustizia , il sito ove si tengono le riunioni (comitia ) per
deliberazioni di pubblico interesse ; donde la curia , il qual vocabolo designa
tanto il luogo di riunione, quanto il complesso delle persone che vi si
riuniscono . Che se poi la città primitiva sia riguardata negli ele menti, che
entrano a costituirla , essa non è più l'organizzazione delle gentes o delle tribù
, nelle quali si comprendevano anche le donne, i vecchi ed i fanciulli; ma è
solo il complesso di quegli uomini, ricavati dalle gentes e dalle tribù , che
possano aver partecipazione attiva alla vita pubblica ; di quegli uomini cioè,
che possano difendere la cosa pubblica come soldati (iuniores), o che col
proprio consiglio possano giovare alla medesima nelle deliberazioni, che la
riguardano (se niores). L'urbs insomma è il risultato di una selezione, in
virtù della quale si raccolgono in uno stesso sito tutti gli edifizi, che hanno
pubblica destinazione; il populus è una selezione, per cui fra i membri delle
gentes si organizzano, in esercito ed in comizii ad un tempo , coloro, che
siano in età e in condizione di provvedere alla difesa ed all'interesse comune;
la civitas infine, è quel rapporto speciale, che intercede fra le persone, che
compongono il populus, in quanto esse appartengono alla medesima cittadinanza ,
e parteci pano alla stessa vita politica e militare . 175. La città latina
pertanto , e quindi anche Roma, che è un 217 esemplare tipico della medesima,
anzichè essere un'aggregazione di gentes e di tribus, corrisponde invece a un
nuovo aspetto di vita sociale: cioè al nascere ed allo svolgersi di una comune
vita poli tica , frammezzo a popolazioni rurali, che continuano ancora a svol
gere la loro vita domestica nelle comunanze patriarcali. Allorchè essa compare
, quella organizzazione gentilizia, che aveva prima com piuto le funzioni di
associazione domestica e politica ad un tempo, si viene biforcando : mentre la
vita privata continua a spiegarsi nelle pareti domestiche, ed in gruppi
concentrati sotto l'autorità del capo di famiglia , la vita politica invece
prende a svolgersi nella piazza e nel foro, e dà cosi origine a quelle
discussioni e a quelle lotte, che costituiscono la vita e il movimento della
città. Di qui la conseguenza, che la città , dopo aver ricavato gli elementi,
che entrano a costituirla , dalle comunanze che la circondano, finisce per
preparare la via alla estinzione dell'organizzazione gentilizia , e sopratutto
di quelle gradazioni di essa , che prima compievano eziandio una funzione
politica , quali sarebbero la gente, la tribù e la clientela . Le istituzioni
invece, che colla sua formazione vengono ad affermarsi e a costituire le due
basi dell'organizzazione sociale , sono i due elementi estremi, cioè: la
famiglia da una parte, la quale finisce per richiamare a sè medesima tutto
quello, che si riferisce alla vita domestica ; e la città dall'altra , poichè
essa , essendo la meta e l'aspirazione comune, tende ad attirare nella propria
cerchia tutte le energie naturali e sociali, che possono conferire a darle
forza e con sistenza . Di qui la conseguenza, che le due figure preponderanti,
negli inizii della città , vengono ad essere il pater familias, il quale è il
solo, che abbia piena capacità di diritto, ed il populus, il quale richiama a
sè tutti gli elementi vigorosi e vitali, che esistono nelle comunanze, che
colla propria federazione hanno dato origine alla città. Siccome perd l'opera
si viene compiendo gradatamente; cosi sarà necessario un lungo svolgimento ,
prima che la città si possa affatto spogliare di quelle forme, che essa ricava
ancora dall'orga nizzazione gentilizia , e prima che la famiglia possa perdere
quel carattere pressochè civile e politico , che essa aveva assunto durante il
periodo gentilizio . 176. Si può quindi conchiudere, che il processo formativo
della organizzazione gentilizia e quello della città si avverano in guisa com
piutamente diversa , e sono avviati in senso pressochè contrario ed opposto. -
218 Mentre il processo formativo dell'organizzazione gentilizia , in tutte le
sue gradazioni, consiste in una stratificazione di gruppi natu rali, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e intanto continuano sempre ad essere
foggiati sul medesimo modello , che è quello della famiglia patriarcale; la
città invece non deve più la sua esistenza ad un processo di aggregazione , ma
ad un processo, che potrebbe chiamarsi diselezione. Essa non comprende più
tutta la vita sociale , come la tribù; ma tende invece ad isolare l'elemento
giuridico , po litico e militare dagli altri aspetti di vita sociale, che si
spiegavano strettamente uniti, e pressochè confusi gli uni cogli altri
nell'orga nizzazione patriarcale . Di qui derivano alcune importantissime
conseguenze. – Mentre l'organizzazione gentilizia , per quanto abbia già in sè
qualche cosa di artificiale, in quanto che in essa la famiglia deve anche
compiere funzioni politiche, può tuttavia ancora considerarsi come una pro
duzione naturale , come quella che è composta di gruppi uniformi, che si
sovrappongono gli uni agli altri, e il cui vincolo, vero o supposto, è pur
sempre quello della discendenza da un antenato comune; la città invece viene
già ad essere il frutto dell'accordo, del contratto , della federazione insomma
di varii elementi, che si associano per costituirsi un centro comune di vita
politica, e per provvedere così alla comune utilità ed alla comune difesa.
Mentre l'organizzazione gentilizia , comprendendo persone, che si suppongono
derivare da un medesimo antenato , tende a mantenere una proprietà comune e
collettiva; la città invece, uscendo dalla federazione e dall'accordo, tende ad
assicurare ai singoli capi di famiglia le possessioni e le terre, che loro
appartengono, solo se parandone quel complesso di beni e di interessi, che
riguarda l'uni versalità dei cittadini, il quale costituisce così un patrimonio
co mune, che col tempo sarà indicato col vocabolo di res publica. Mentre infine
il principio informatore dell'organizzazione gentilizia consiste nell'eredità e
nella discendenza , per guisa che in essa tutto tende ad acquistare un
carattere ereditario; il principio in vece informatore della comunanza civile e
politica , appena essa compare , viene ad essere quello della capacità e
dell'elezione. 177. Tutto questo svolgimento della città primitiva, che solo
erasi iniziato presso le popolazioni latine, potè spingersi con Roma a tutte le
conseguenze, di cui poteva essere capace. Allorchè essa compare, il periodo di
incubazione della città può 219 . già ritenersi compiuto , e quindi le
cerimonie, che ne accompagnano la fondazione, già hanno assunto un carattere
sacro e religioso . È cogli auspizii, che incomincia la fondazione di Roma, per
conoscere a quale dei due fratelli debba essere affidata la fondazione e il reg
gimento della città . Tuttavia la Roma Palatina , finchè è contenuta. nei
limiti dello stabilimento romuleo, non pud ancora chiamarsi una vera e propria
città ; ma è piuttosto lo stabilimento fortificato di una aggregazione di
genti, dedita di preferenza alle armi, che è la tribù dei Ramnenses. Tutto è
ancora patriarcale nella medesima; il suo re, che è il sacerdote, il capitano,
e che non è ancora eletto, ma è designato dalla propria nascita e dagli
auspizii ; i suoi anziani, i quali non sono che i padri delle genti, che
entrano a costituire la tribù ; e infine anche il suo populus, che è composto
ancora di persone, che si ritengono unite dal vincolo della comune discendenza
, come lo dimostra la loro stessa denominazione di Ramnenses, derivata dal nome
del proprio capo. Non è quindi appena stabilitosi sul Palatino, che Romolo,
secondo la tradizione, procede alla costituzione politica della città . Secondo
Livio, ciò accade soltanto dopo la guerra coi Sabini, e secondo Ci cerone
aspettasi perfino la morte di Tito Tazio, capo dei medesimi(1 ). È da questo
momento, che la città assume un carattere federale e pressochè contrattuale. Le
singole tribù infatti continuano a risie dere ciascuna sopra il proprio colle,
e ad avere delle proprie forti ficazioni; ma è il Capitolium , che mutasi nella
fortezza delle varie comunanze, come pure gli edifizii pubblici si vengono
raccogliendo nel sito , che trovasi fra il Palatino ed il Capitolino. È quivi
che è collocato il locus Vestae, la domus regia Numae, le novae cu riae, da non
confondersi colle curiae veteres (2 ), il cui sito era sul Palatino, edifizii
tutti, che, secondo il rito , dovevano trovarsi nel cuore stesso della città .
Non consta quindi che le tribù confederate abbiano abbandonate le proprie
possessioni e le proprie terre; ma ciò, che esse ebbero comune fu soltanto la
città ed il governo di essa, come lo dimostra il fatto , che secondo la
tradizione vi sarebbe stato un breve periodo di tempo, in cui Romolo e Tazio
avrebbero ( 2) (1) Livio, I, 13; Cic., de Rep. II, 8. Cfr. più sopra, i numeri
85, 86 . « Novae curiae (scrive Festo) proxime compitum Fabricium aedificatae
sunt, quod parum amplae erant veteres a Romulo factae » . Tuttavia vi restarono
an cora sette curie, che continuarono a compiere i loro sacra nel sito antico
(Bruns, Fontes, pag . 346 ). 220 regnato contemporaneamente: il che significa ,
che ciascuno di essi avrebbe conservato la qualità di capo della propria tribù.
Non è quindi meraviglia , se la città primitiva presenti ancora per qualche
tempo le traccie dell'organizzazione gentilizia, perchè il trapasso dalla
semplice tribù ad una vera e propria città si operò solo gra datamente .
Intanto però la trasformazione viene ad essere iniziata e proseguita
senz'interruzione fin da quel momento, in cui al vin . colo della discendenza
si sostituisce quello della federazione e del l'accordo, e alla trasmessione
ereditaria sottentra il principio del l'elezione. 178. A ciò si aggiunge, che
Roma, fin dai proprii esordii, si trovo in una condizione diversa da quella
delle altre città latine , da cui trovavasi circondata . Essa infatti non
costitui soltanto un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze
rurali; ma diventò ben presto un centro di vita urbana, contrapposta alla vita
rustica dei campi. I suoi primi fondatori, pur conservando i proprii agri genti
lizii, avevano ottenuto nel recinto stesso della città uno spazio di terra, ove
avevano potuto costruirsi una casa , circondata da un orto . Per tal guisa in
Roma non eravi soltanto l'elemento, che conveniva nei giorni di festa, o di
pubbliche riunioni, o per causa di fiera e di mercato; ma eravi una parte
eziandio , e questa era quella dell'antico patriziato, che, pur conservando la
propria dimora gentilizia , aveva posta sede permanente dentro la città , o in
prossimità di essa. Fu in questa guisa , che Roma diventò ben presto , secondo
l'espressione del Mommsen, l'emporio del Lazio, e che, dopo aver cominciato ,
al pari delle altre città latine, dall'essere un centro di vita pub blica fra
diverse comunanze , cambiossi ben presto eziandio in un centro urbano , la cui
vita si contrappose a quella dei campi, e venne cosi accrescendosi
costantemente, mediante quell'attrazione, che i centri urbani esercitano anche
oggi sulle popolazioni, da cui tro vansi circondati. È questo che spiega come,
durante lo stesso periodo regio , Roma da sola già potesse conchiudere un
foedus aequum con tutta la confederazione latina, e come l'intento costante dei
re sia stato quello di estenderne la cerchia per guisa da comprendere in essa
anche le abitazioni private dei cittadini. Intanto agli altri dua lismi, che
presenta Roma fin dai proprii inizii, debbe anche aggiun gersi quello, per
cuidistinguesi la vita urbana dalla vita rustica; come lo dimostra il fatto che
il patriziato romano ha serbata sempre la consuetudine di passare un periodo di
tempo fra le mura della città , 221 e un altro invece alla campagna (ruri),
frammezzo alle proprie pos sessioni gentilizie : consuetudine, che anche oggi
può dirsi mantenuta dal patriziato romano. 179. Di qui la conseguenza , che
Roma, in una lunga e lenta evoluzione, poté compiere in ogni sua parte quello
svolgimento , che solo erasi iniziato presso le altre popolazioni latine . Essa
riusci a sceverare la vita pubblica dalla privata , l'elemento sacro dal pro
fano, la vita urbana dalla vita rustica , la vita militare dalla vita civile;
ed effigid questi atteggiamenti diversi della vita sociale ed umana con un
linguaggio così efficace e scultorio, che nessun'altra città può in questa
parte competere con essa . Di queste varie distin zioni, quella , che cominciò
ad effettuarsi fin dal periodo di Roma esclusivamente patrizia, fu la
distinzione fra la vita pubblica e la vita privata; mentre la distinzione fra
l'elemento sacro ed il profano cominciò solo ad operarsi, allorchè la plebe,
che non era partecipe del culto gentilizio , fu anche ammessa a far parte della
cittadinanza romana; e da ultimo la distinzione fra la popolazione rustica ed
urbana, solo prese a farsi evidente, allorchè la città si accorse di essere in
parte dominata dalla turba forense . Infine il dualismo fra la vita militare e
la vita civile è anche uno di quelli, che appariscono costantemente nella
storia di Roma, e che rimontano fino agli inizii di essa . Il suo populus è
un'assem blea ed un esercito ad un tempo ; il suo magistrato ha l'imperium
domi, militiaeque; i suoi cittadini hanno un periodo di età , in cui
partecipano al servizio attivo, e un altro, in cui entrano a formare l'esercito
di riserva ; gli atti stessi più importanti della vita , quale sarebbe, ad
esempio , il testamento , possono farsi in guisa diversa , secondo che trattisi
di cittadini in tempo di pace , o di soldati in procinto di venire a battaglia
; la quale distinzione poi mantiensi co stante per modo, che anche con
Giustiniano il testamento pud distin guersi in comune ed in militare. Per tal
modo il cittadino di Roma è uomo di toga e di spada ad un tempo , e si acconcia
alle esigenze della pace e a quelle della guerra (rerum dominos, gentemque
togatam ). 180. Sopratutto qui importa di mettere in evidenza quel dua lismo,
che colla formazione della città venne ad introdursi fra la vita pubblica e la
privata ; in quanto che fu questo il grande intento , a cui si ispirò Roma
primitiva, e a cui accennano costantemente i 222 poeti latini, i quali non
trovano espressione più efficace per indicare la corruzione del costume, e il
perdersi delle buone tradizioni, che l'accennare alla confusione della cosa
pubblica colla privata ( 1). È questo il dualismo veramente fondamentale , che,
una volta in trodotto, finisce per riverberarsi, con un processo logico non mai
in terrotto, in una quantità di altri dualismi, che compariscono costan temente
nelle stesse circortanze sociali, e che potrebbero essere paragonati ad una
voce, che con gradazioni diverse viene ad es sere ripercossa e ripetuta
dall'eco. 181. Per verità è ovvio il considerare, come in seguito alla forma
zione della città, accanto alla gentilitas, che era il rapporto, che stringeva
i varii membri dell'organizzazione gentilizia, si svolga la civitas, la quale è
il rapporto , che unisce coloro, che appartengono alla stessa comunanza
militare e politica. Quindi è, che alla distin zione fra liberi e servi, fra
gentiles e gentilicii, viene ad aggiun gersi e ad acquistare un'importanza
sempre maggiore quella fra cives e peregrini. Cosi pure, accanto ai genera
hominum , che sono sparsi nei pagi e nei vici, e che comprendono senza
distinzione tutti coloro, che si suppongono discendere da un medesimo antenato,
si svolge il concetto del populus, che dapprima non comprende ogni ordine di
persone, ma solo il complesso degli uomini validi ed ar mati, che col braccio e
col consiglio possono partecipare alla difesa ed al governo della cosa pubblica
. Procedendo ancora innanzi, accanto al concetto della res fami liaris, che
comprende il complesso degli interessi privati di una de terminata persona, si
esplica il concetto della res publica , il quale, per essere più astratto,
compare più tardi, che non quello del popu lus; ma finisce anch'esso per
esprimere con potenza ed efficacia il complesso degli interessi comuni alla
intiera città , ed a tutto il popolo (res populi). Intanto così la res
familiaris, come la res pu blica debbono avere un'autorità che le governi, e
mentre questa per la famiglia sarà indicata col vocabolo di manus, nella sua
signi ficazione più larga, per la repubblica invece sarà indicata col vo cabolo
di publica potestas. Che anzi i due poteri sono cosi distinti ( 1) Per
dimostrare l'importanza , che nel concetto romano ha la distinzione fra il
pubblico e il privato , basti citare il Trinummus di Plauto , questa commedia,
così profondamente morale, in cui, ogni qualvolta occorre una censura contro i
corrotti costumi, si lamenta sempre questo mescersi del pubblico col privato .
223 fra di loro, che la subordinazione più estesa nel seno della famiglia non
toglie, che altri possa esercitare tutti i suoi diritti come cit tadino, e
partecipare come tale agli onori ed alle magistrature. La distinzione poi, che
è nella natura dei rapporti, viene natu ralmente a riflettersi eziandio nel
diritto , che è chiamato a gover narli. Di qui la distinzione che, iniziata fin
dalla formazione della città , viene col tempo facendosi sempre più netta e
precisa fra il diritto pubblico ed il diritto privato; il quale ultimo, secondo
il con cetto romano, non deve già essere soffocato ed assorbito dal diritto
pubblico , ma trovasi invece collocato sotto la tutela e la protezione di esso
. Non può quindi essere ammesso il concetto del Lange, che in parte è anche
quello del Mommsen, secondo cui il diritto pubblico verrebbe in certo modo a
modellarsi sul diritto privato : poichè il processo che si segui in Roma si
avverd invece in senso contrario ed opposto. Non fu il diritto pubblico, che si
modello sopra il pri vato; ma fu il diritto privato, che venne svolgendosi in
quella guisa e in quei confini, che erano consentiti dalla costituzione
politica della città . Quindi è che il diritto privato di Roma non si formo di
un tratto, ma venne svolgendosi gradatamente, a misura che le esigenze della
vita civile fecero sentire il bisogno del suo ricono scimento . Ciò ci è
dimostrato dal fatto , che fin dalle origini di Roma noi possiamo trovare poste
le basi di tutto il diritto pubblico di Roma, mentre la vera elaborazione del
diritto civile romano, co mune alle due classi del patriziato e della plebe,
incomincia solo più tardi. Prima si fondò la città , e poi si pensò alla
formazione del suo diritto, ed è anche questo uno dei motivi, per cui il
diritto di Roma potè riuscire tipico ed esemplare per tutti i popoli. Intanto,
in prosecuzione del medesimo processo, anche la legge , che è l'espressione
delle volontà riunite e concordi, viene a distin guersi in les privata ed in
lex publica (1), di cui quella esprime l'accordo di due o più contraenti,
mentre la lex publica invece è l'espressione della volontà collettiva del
popolo, che si impone alla volontà dei singoli individui. Anche i sacra vengono
a subire la medesima distinzione; la quale pure si verifica per cid, che si
rife (1) La distinzione fra la lex publica e la lex privata è accennata più
volte da Garo in formole, che da lai ci furono conservate. Comm . I, 3 ; II ,
104 ; III, 174. Una delle modificazioni state introdotte dal MOMMSEN
nell'ultima edizione, Friburgi, 1887, da lui curata del Bruns, Fontes iuris
romani antiqui, fu quella di intito larne il capo terzo : Leges publicae populi
romani post XII Tabulas latae. 224 - risce agli auspicia (1). Lo stesso infine
deve dirsi dei crimina, i quali, a misura che si vengono delineando, sono pure
richiamati alla distinzione fondamentale di publica e di privata , secondo che
il danno, che ne deriva , e quindi la prosecuzione di essi appar tenga ai singoli
individui, oppure colpisca ed interessi l'intiera co munanza ; distinzione, che
riflettesi eziandio nei iudicia , i quali fin da Servio Tullio cominciano a
dividersi in iudicia publica e pri vata . A queste si potrebbero aggiungere
ancora molte altre distin zioni, che son tutte il riverbero di un medesimo
concetto, che una volta accettato percorre l'intiera vita sociale e lascia
dapertutto le traccie del suo passaggio . È in questo senso , che le proprietà
si distinguono in due categorie, indicate coi vocaboli di ager pri vatus e di
ager publicus ; che i rapporti stessi, che possono correre fra cittadini e
stranieri, subiscono la stessa distinzione, cosicchè la societas, l'amicitia ,
l'hospitium , il foedus si distinguono anche essi in pubblici e in privati .
Non è quindi meraviglia, se parlisi eziandio di costume pubblico e privato, di
virtù pubbliche e private , e se la distinzione si inoltri nei particolari più
minuti della vita , co sicchè anche i servi stessi si distinguono in publici e
privati, e chiamasi publicus l'equus, che è somministrato dallo Stato agli
equites, che vengono così ad essere denominati equo publico . 182. Conviene
quindi ammettere, che la distinzione dovesse es sere profondamente sentita , se
essa lasciò le proprie traccie in qual siasi argomento . Non occorre poi di
notare, che l'esplicazione dia lettica dei due concetti, che qui si compendia
in pochi tratti, dovette naturalmente essere il frutto di una lunga evoluzione
; ma se questa potè accadere colla fondazione della città , mentre prima non
erasi avverata , la causa di un tal fatto deve trovarsi in ciò , che la città
non si propose di agglomerare genti e famiglie, ma intese fin dapprincipio a
sceverare la vita pubblica dalla privata . Che se si volesse spingere più oltre
lo sguardo sarebbe anche facile il dimostrare, che la formazione della città
cooperò eziandio allo svol gersi di sentimenti e di affetti, che prima non
riuscivano a sceverarsi (1) Quanto alla distinzione dei sacra publica ac
privata , è da vedersi Festo , vu Publica sacra ( Bruns, Fontes pag. 358),
stato già citato a pag. 43, nota nº 3 . Quanto alla distinzione poi fra gli
auspicia publica e gli auspicia privata , è da vedersi Mommsen, Le droit
pubblic romain . Trad . Girard . Paris, 1887, I, pag. 101, cogli autori ivi
citati in nota . 225 dagli affetti domestici e patriarcali. Fu infatti la città
, che, accanto agli affetti di famiglia ed al culto per gli antenati, suscitò
l'affetto per la propria terra , e il culto per coloro, che si sacrificavano
per essa , e quell'illimitato amore di patria, che informa tutta la storia e
tutta la letteratura di Roma, e che fece esclamare al cittadino ro mano: dulce
et decorum est pro patria mori. Fu essa parimenti, che accanto al culto per i
mores maiorum riusci a svolgere il concetto di una legge, espressione della
volontà comune, che doveva a tutti essere nota , e costituire in certo modo la
base e il fonda mento della comunanza civile . Fu essa ancora , che, accanto
alle tradizioni, che si serbavano gelosamente nelle famiglie e nelle genti e si
trasmettevano di generazione in generazione , diede origine a quella narrazione
dei fasti e degli avvenimenti notevoli per la città , da cui doveva poi uscire
la storia ; al modo stesso che, accanto al comando del padre ed alla persuasione
degli anziani, fece svolgere l'arte oratoria e l'eloquenza, le quali più non si
impongono per l'au reola religiosa, da cui sono circondate, ma commuovono e
trasci nano la moltitudine e la folla , a cui si indirizzano . Fu essa infine,
che, accanto alla narrazione delle gesta degli eroi e dei principi, cantate
nelle epopee primitive, rese possibile la storia militare e po litica della
città e del popolo, e pose anche in evidenza l'impor tanza politica di
quell'elemento, che chiamavasi plebe (1 ). 183. Dopo cið parmi di poter
conchiudere, che non può essere accolta l'opinione di coloro, che considerano
Roma primitiva come uno Stato patriarcale. « Lo Stato romano, noi diremo con un
re. cente autore, che è il Pelham , appartiene, quanto alla sua struttura, ad
uno stadio già molto più inoltrato dello sviluppo della convivenza sociale e
suppone innanzi a sè una lunga preparazione storica . Certo esso conserva
ancora le traccie di un più antico e più pri mitivo ordine di cose; ma queste
sono traccie di un periodo ormai trascorso , le quali tendono sempre più a
scomparire » (2). La supre (1) Per una più larga trattazione dei mutamenti, che
recò nella vita sociale il surrogarsi della città all'organizzazione
patriarcale, mi rimetto all'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla
vita sociale, Torino, 1880 , nº. 34, pag. 94 e segg., e alla dissertazione :
Genesi e sviluppo delle varie forme di convivenza civile e po litica . Torino,
1878 . (2 ) Pelham , vº Rome (ancient), nell'Encyclopedia Britannica , ninth
edition . Edinburgh, 1886 , vol. XX, pag. 731. G. CARLE, Le origini del diritto
di Roma. 15 - 226 - mazia dello Stato è ormai stabilita sopra ciascuno dei
gruppi, dalla cui confederazione esso è uscito, e ciascuno di questi gruppi più
non si mantiene, che come una corporazione di carattere esclusivamente privato
. In questa parte pertanto « lo Stato Romano, come ben nota il Gentile , lascia
a grande distanza la monarchia delle popolazioni Orientali, ed anche quella
delle primitive società greche, la quale è ancora stretta da intimo vincolo
colla divinità , da cui ritiensi pro cedere, e che trasmettesi per eredità nei
discendenti per sangue, e signoreggia con assoluta potestà il populus od il
demos, il quale è solo convocato ad udire le decisioni sovrane e non mai a
deliberare. Il principio invece della sovranità popolare ed il diritto a
partecipare all'amministrazione della cosa pubblica con un voto direttamente
esercitato , e il diritto anche di voto nell'elezione dei reggitori dello Stato
è fin dalle prime origini inerente alla cittadinanza romana » (1). Il Re, fin
dagli esordii della città, è la suprema magistratura dello Stato , e questo è
l'opera del volontario accordo dei cittadini e dei capi di famiglia, che
concorsero alla sua formazione, i quali , nella propria elezione, più non
badano esclusivamente alla nascita ed alla stirpe, ma cominciano a riguardare
al valore ed alla sapienza dei proprii reggitori. Sarà collocandosi a questo
punto di vista , che non segue questo o quell'elemento esclusivo, ma cerca di
riguardarli tutti ad un tempo nel loro progressivo sviluppo, che potrà riuscire
più facile di com prendere i primitivi elementi dello Stato romano, ed il
carattere dei poteri, che lo governano. (1) GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana , Milano, 1879, pag . 2 e 3. 227 CAPITOLO II. Gli
elementi costitutivi del primitivo Stato Romano. § 1. – Cause del rapido
svolgimento di Roma e della sua primitiva costituzione. 184. Le cose premesse
hanno abbastanza dimostrato , come nella formazione primitiva
dell'organizzazione sociale domini una legge di evoluzione, non dissimile da
quella , che governa le formazioni naturali. Le traccie di essa apparirono
evidenti, allorchè fra i gruppi gentilizii si veniva lentamente preparando e
quasi sperimentando in varie guise la convivenza civile e politica . Tuttavia
questo concetto deve essere completato con osservare, che nella storia delle
cose sociali ed umane, ogni qualvolta sono preparati gli elementi di una
formazione novella , e questa trovi un terreno acconcio al proprio sviluppo,
gli elementi, di cui si tratta , sembrano richiamarsi l'un l'altro, attirarsi
scambievolmente, riunirsi per guisa , che la nuova formazione sboccia tanto più
rigogliosa e potente, quanto è più matura la preparazione di essa. Per tal modo
ad una lenta incuba zione può anche succedere una pronta e rapida formazione:
il che talvolta accade ancora a ' nostri tempi, e accadde senz'alcun dubbio
nella storia primitiva di Roma, allorchè la nuova città , dopo essere stata
lungamente preparata , presentasi nella storia pressochè con sapevole della
propria destinazione. Tutte le incertezze sembrano essere scomparse, e quasi si
potrebbe dire con ragione, che la co stituzione primitiva di Roma, al pari di
Minerva, sembra uscire compiutamente armata dal cervello di Giove. Se infatti
si possono ancora scorgere delle incertezze, in quanto riguarda la formazione
di una religione, comune alle varie tribù, perchè questo non è lo scopo
essenziale, a cui Roma intende ; la costituzione politica di Roma invece sembra
in certo modo essere il frutto di una intuizione po tente, tanta è l'armonia
dell'edifizio , tanta l'efficacia e l'acconcezza dei vocaboli, con cui si
esprimono le singole istituzioni, tanto è il sentimento, che ciascun organo del
nuovo Stato ha di sè medesimo. e del contributo, che deve recare all'opera
comune. Noi ci troviamo 228 di fronte ad un popolo , che con uno sforzo
collettivo giunge a mo dellare ne' fatti un edificio, al quale a stento
potrebbe riuscire un pensatore, che raccolto nelle proprie meditazioni cercasse
di isolare da una quantità di materiali, posti a sua disposizione, tutto ciò ,
che si riferisce alla vita politica , giuridica e militare. Tutte le energie
naturali e sociali sembrano concentrarsi in un'opera sola , e ben può dirsi con
Ennio e con Cicerone, che fin dai propri esordii : Moribus antiquis res stat
romana virisque. Secondo la tradizione, bastó un solo regno per porre le basi
di una costituzione , che richiese poi parecchi secoli per svolgersi in tutte le
sue parti (1): nè la tradizione pud essere così facilmente respinta, come
vorrebbe la critica moderna, in quanto che noi difficilmente possiamo
comprendere l'entusiasmo potente, da cui poterono essere stimolati re, senato ,
sacerdozii e popolo, allorchè erano intesi tutti all'attuazione di un grande
concetto . 185. L'urbs, dopo la federazione delle varie tribù , viene ad essere
collocata in un sito , a cui hanno facile accesso le diverse comunanze e
trovasi così in tale posizione da potersi cambiare nel l'emporio del Lazio.
Essa per la prima, fra le comunanze italiche, da cui trovasi circondata , l'ha
rotta colle tradizioni, e si è formata mediante il connubio di genti, che
appartengono a stirpi e a nomi diversi. I padri, che si riunirono per
costituirla, hanno parentele ed aderenze nei territori contigui, e
probabilmente continuano a tenervi delle possessioni, e possono così esercitare
un'attrazione potente sulle popolazioni vicine, a qualunque stirpe esse
appartengono. Se a tutto ciò si aggiunge la fortuna della nascente città , la
fortezza della sua posizione e delle sue mura, il carattere tenace e
perseverante de' suoi cittadini, che tutto aspettano dall'avvenire di essa ,
potrà lasciarci ammirati, ma non increduli il suo rapido incremento . Anche
lasciando in disparte il provvedimento, che viene attribuito a Ro molo , di
aver aperto un asilo ai rifugiati delle altre città , era na turale, che essa
dovesse cambiarsi in un asilo per tutti coloro, che « Vi. (1) Cic., de Rep .,
V, 1. È lo stesso CICERONE, che insiste più volte sul rapido svolgimento di
Roma all'epoca romulea , e fa dire fra le altre cose a Scipione: detisque
igitur, unius viri consilio non solum ortum novum populum , neque ut in
cunabulis vagientem relictum , sed adultum iam pene et puberem ? » (De rep.,
II, 11). Lo stesso pure appare dal racconto di Livio e di Dionisio. 229 si
trovassero spostati nella propria terra o nella propria organiz zazione
gentilizia . Il grande scopo dei fondatori era quello di fon dere insieme
questi elementi diversi e di unificare così la città , tanto nelle mura, che la
circondano, quanto nei concetti giuridici politici e militari, che servono a
stringerne insieme le parti diverse. 186. La cerchia delle mura e la sua
compagine interna sembrano cosi procedere di pari passo . I suoi fondatori già
hanno una lunga esperienza di cose civili e non ignorano anche i riti
religiosi, da cui deve essere accompagnata la fondazione di una città .
Cominciasi pertanto dagli auspizi, per conoscere « quod bonum , felix , faustum
, fortunatumque siet populo Romano» , e per tal modo anche la re ligione viene
ad essere posta a base della nuova formazione. Quanto alla sua costituzione
interna, tutto sembra essere preparato ed ac concio . I concetti politici di
Roma primitiva, nella loro sintesi po tente , possono essere paragonati a quei
massi rozzamente modellati, che sovrapposti gli uniagli altri formano la
cerchia delle sue mura, e che per il proprio peso e la propria quadratura non
abbisognano di essere cementati gli uni con gli altri. Essi non escono da una
costituzione scritta : ma erompono dalla stessa realtà dei fatti, e sono
altrettante costruzioni logiche e coerenti in tutte le loro parti, le quali,
una volta accolte nella costituzione, potranno essere svolte con rigore dialettico
, fino a che non abbiano ricevuto tutto lo svi luppo , di cui possono essere
capaci. Le forme esteriori delle istituzioni politiche di Roma sono bensì
ricavate da istituzioni analoghe, esi stenti nell'organizzazione anteriore , ma
il contenuto di esse viene ad essere determinato dalle esigenze della nuova
città. Quanto all'in tento, che la città si propone, esso è universalmente
sentito , e quindi non è meraviglia , se la nuova città proceda verso il
proprio scopo con l'ordine, con cui si dispiegherebbe un esercito , e se dei
suoi fondatori possa dirsi col poeta : cui lecta potenter erit res, nec
facundia deseret hunc, nec lucidus ordo (1). Per tal modo il concetto della
città presentasi determinato in tutte le sue parti, e si esplica con un rigore
geometrico , che rende pos sibile di rifare i diversi stadii, che ha dovuto
percorrere. (1 ) ORAZIO, Ars poetica. 230 187. La città è un edifizio nuovo,
costruito con elementi tolti dall'organizzazione gentilizia preesistente , i
quali però, mirando ad un intento novello , ricevono uno svolgimento
compiutamente diverso . L'urbs è una selezione dalle comunanze di villaggio
circostanti, per cui tutti gli edifizii, che hanno pubblica destinazione, sono
con centrati in un medesimo sito; il populus non è tutta la popolazione delle
comunanze, ma il complesso dei viri, che col braccio e col consiglio possono
cooperare all'interesse comune; la civitas non è più un vincolo di sangue, ma è
determinata dalla partecipazione alla medesima vita pubblica sotto l'aspetto
politico e militare ad un tempo ; il munus non è il complesso delle
obbligazioni, che incom bono all'uomo come tale, ma il complesso dei diritti e
delle obbli gazioni, che derivano dall'ubbidire al medesimo diritto e dal par
tecipare alla stessa comunanza civile e politica (1); la res publica non è la
somma degli interessi de' singoli cittadini,ma il complesso degli interessi,
che riguarda l'universalità dei cittadini, considerata come un tutto organico e
coerente ; infine la lex publica è il com plesso dei patti ed accordi votati
nei comisii, in base ai quali si conviene di partecipare alla stessa vita
pubblica , e quindi per la formazione di essa debbono concorrere tutti gli
elementi costitutivi della città . 188. Intanto perd nella formazione della
città non può aversi altro punto di partenza, che quello delle istituzioni
preesistenti, per guisa che il nuovo edificio richiama pur sempre l'antico, ma
intanto la sua base è mutata ; poichè mentre quello si reggeva sull'eredità e
sulla discendenza, questo invece si fonda sulla capacità e sull'ele zione ;
mentre quello si fondava sul vincolo del sangue, questo invece pone la sua base
salda sopra un determinato territorio, nel quale si fortifica e si chiude;
mentre in quello ogni cosa veniva ad essere determinata dall'età e dalla
posizione naturale, che altri tiene nella famiglia e nella gente, in questo
invece le funzioni degli (1) « Munus (scrive Festo, quale è restituito dal
Mommsen nell'ultima ediz. del Bruns, Fontes, pag. 344 e 3-15 ) dicitur
administratio reipublicae, magistratus alicuius, aut curae, imperiive, quae
multitudinis universae consensu , atque legitimis in unum convenientis populi
comitiis, alicui mandatur per suffragia , ut capere eum eamque oporteat, et
statim , certove ex tempore, certum usque ad tempus administrare » , Qui però
il vocabolo munus è preso in una significazione più ristretta , che non quella
che lo stesso autore vi attribuisce, quando discorre del municipium . - 231
individui vengono ad essere determinate dalla cooperazione, che possono recare
alla città . Giovani debbono esserne i soldati; anziani debbono esserne i
consiglieri. — Solo potrebbe trarre in inganno quel l'aureola religiosa , che
sembra ancora circondare la formazione della città ; maanche questa religione
non deve più confondersi con quella preesistente ; essa non è nè il fondamento
, nè l'intento supremo, a cui la città intende, come sembra sostenere il Fustel
de Coulanges ( 1); ma è soltanto una consacrazione dello scopo , che viene a
proporsi la nuova comunanza, politica e militare ad un tempo, e quindi anche la
sua religione, i suoi sacerdozii, i suoi auspizii hanno un carattere pubblico,
e come tali si contrappongono alla religione, ai sacerdozii, e agli auspicii
delle singole genti. $ 2 . Il populus e le sue ripartizioni (tribus, curiae,
decuriae) . 189. Anche le divisioni, che compariscono nella città, a prima
giunta appariscono come un riverbero di quelle , che esistevano nel periodo
precedente e quanto alla loro conformazione esteriore, sono veramente tali ; ma
se si riguardano più da vicino, si presentano con un contenuto, che già
comincia ad essere diverso e che tende a diventarlo sempre più . Così è
certamente vero, che la città viene ad essere divisa in tribu ; ma è evidente ,
che questa divisione in tribů, trasportata nell'interno di una stessa comunanza
, non può più considerarsi come una distinzione del populus, ma tende di
necessità a cam biarsi in una ripartizione del suo territorio . Le tre tribù
primitive, ancorchè serbino per qualche tempo la denominazione antica , ten
dono necessariamente a trasformarsi in altrettante divisioni territo riali ;
poichè col mescolarsi degli elementi riuniti in una stessa co munanza, la
distinzione delle stirpi primitive finisce per non più corrispondere alla
realtà dei fatti. Come si potrà ancora parlare di una tribù di Ramnenses, di
Titienses e di Luceres, quando, per la comunanza di connubio e di diritto, le
varie genti si vengono me scolando insieme e nulla pud impedire, che le persone
di una stirpe possano anche trasportare la propria sede nel territorio
dell'altra ? Si (1 ) FUSTEL DE COUlanges, La cité antique, liv. III, chap. 5 ,
6 , 7. 232 comprende pertanto, che fin dapprincipio i re tentassero di togliere
di mezzo questa distinzione, che solo ebbe a mantenersi ancora per qualche
tempo in conseguenza di quello spirito conservatore, che dimostrasi tenace
sopratutto fra le genti di stirpe Sabina, alle quali appunto apparteneva
l'augure Atto Nevio . La sua opposizione tut tavia non mutasi che in una
dilazione, e la soppressione delle an tiche tribù , se non di diritto , verrà
ad essere operata di fatto da Servio Tullio, che alla tribù fondata sulla
discendenza sostituirà la tribù di carattere territoriale , e sarà cosi
conservato il nome antico per indicare una istituzione compiutamente nuova. In
questo modo infatti si sostituisce il vincolo territoriale , a quello della
discendenza, che prima era il solo ad essere riconosciuto ( 1). 190. La
distinzione invece, che è veramente fondamentale per il populus, è quella per
cui il medesimo viene ad essere ripartito in curiae. Un tempo si è dubitato
circa il carattere originario delle curiae , e sull'autorità del Niebhur si è
soventi sostenuto , che esse non fossero , che aggregazioni di gentes, e che si
ripartissero anzi in gentes (2 ). Ora però comincia ad essere universalmente
ammesso , che la curia può essere una istituzione, la cui origine è forse an
teriore alla comunanza romana, e che poteva già essere conosciuta alle genti
latine ed etrusche; ma che essa deve ad ognimodo essere considerata come la
base di tutte le divisioni politiche e militari della città, finchè questa si
mantenne esclusivamente patrizia . Essa , al pari del populus, di cui è una
suddivisione, costituisce una cor porazione religiosa, politica e militare ad
un tempo ; ha un proprio capo (curio); un proprio sacerdote (flamen curialis );
un proprio culto , che fa parte dei sacra publica ; un proprio santuario (
sacel um ); e tutte insieme riunite hanno proprie assemblee, che pren dono il
nome di comitia curiata . L'esattezza stessa del loro nu mero già dimostra come
questa divisione abbia un carattere del tutto artificiale , e miri a uno scopo
preordinato , che è quello di dare (1) Del resto anche VARRONE, De ling . lat.,
IX, 9, parla della divisione primitiva in tribù , come di una divisione
piuttosto dell'ager che del populus. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag. 31, il
quale anzi nota che la distinzione in tribus, secondo Livio I, 13, si
applicherebbe di preferenza agli equites . (2) Niebhur , Histoire Romaine. Trad
. Golbery. Paris, 1830 , II, pag. 19. Vedi in proposito ciò, che si è detto
parlando delle gentes nel lib . I, cap . III, al nº. 28 e seg. e nelle note
relative. 233 - ai quiriti, posti sotto la protezione della religione, un
ordinamento politico e militare ad un tempo, per modo che essi sotto un aspetto
possano costituire un'assemblea di quiriti, e sotto un altro un eser cito di
Romani. Quello viene ad essere il loro nome nei rapporti interni (domi), e
questo è quello, con cui sono designati nei rapporti esterni ( foris,
militiae). Nulla vieta, che imembri di una medesima curia siano anche stretti
da vincoli gentilizi fra di loro , e che essi, come attesta Aulo Gellio , siano
anche tratti ex generibus homi num (1) ; ma le curie sono già composte di
uomini scelti, di viri, diguerrieri armati di lancia (quiris), di persone
comprese in certi limiti di età , e quindi non possono più avere colle gentes
altro rapporto , salvo quello che da esse ricavasi il contingente, che entra a
costituirle . È quindi incomprensibile , che le curiae possano ripartirsi in
gentes, le quali comprendono indistintamente tutti coloro, che derivano dal
medesimo antenato, senza riguardo nè all'età , né al sesso . Solo può dirsi,
che i membri della curia possono essere considerati sotto un doppio aspetto : o
in rapporto colle famiglie , colle genti, colle tribù , da cui ebbero a
staccarsi, e sotto quest'aspetto essi continuano ad essere dei gentiles ; o
rimpetto al populus ed alla civitas, di cui entrano a far parte , e sotto
questo aspetto sono dei viri, dei quirites, degli uomini di arme e di consiglio
, che non debbono avere altro pensiero , che quello della res publica . 191.
Quanto alla suddivisione in decuriae, che è solo accennata da Dionisio , essa
non può certamente essere confusa colla riparti zione in gentes, come avrebbe
voluto il Niebhur ; ma può essere facilmente compresa, quando si ritenga, che
dalle curie usciva poi quel contingente, scelto e nominato dal re, che doveva
poi entrare a costituire le centurie dei cavalieri e le decurie dei senatori. I
(1) Aulo Gellio, Noctes Atticae, lib. XV, 27, ci conservò in succinto tutta una
teoria intorno ai comizii, che egli dice di aver ricavata dal libro di Laelius
Foelix , ad Quintum Mucium , e sarebbero parole testuali di quest'ultimo le
seguenti : « cum ex generibus hominum suffragium feratur, curiata comitia ; cum
ex censu et aetate, centuriata ; cum ex regionibus et locis , tributa » . Fu
anche fondandosi su questo passo, che si è sostenuto per lungo tempo, che le
curiae si dividessero in gentes ; ma parmi evidente, che, anche ammettendo che
genus in questo caso suoni gens, il medesimo non potrà mai condurre ad altro
risultato salvo a quello, che il contingente delle curie era ricavato dalle
genti e in base alla discendenza , mentre quello delle cen turie era ripartito
in base al censo , e quello dei comizii tributi in base alle località o alle
tribù , a cui erano ascritti i cittadini. 234 senatori ( patres) ed i cavalieri
(celeres , equites) nella città primi tiva appariscono come due corpi scelti
nel seno stesso delle curie , e corrispondono in certo modo alla divisione dei
iuniores e dei se niores. I primi sono l'elemento giovine, splendido nell'armi,
che costituisce il corteggio del re e l'ornamento della città (civitatis or
namentum ), sotto il comando di un tribunus celerum , o di un magister equitum
; mentre il senato , nella concezione estetica ed armonica della città
primitiva , rappresenta l'elemento più maturo negli anni, più saggio nel
consiglio , e costituisce veramente il con siglio, da cui il re è circondato
(regium consilium ). Non vi ha poi dubbio, che l'uno o l'altro elemento viene
ad essere ricavato dal seno delle curie, e quindi è assai probabile, che,
nell'ordinamento simmetrico della città primitiva, ogni curia potesse anche
sommini strare un numero eguale di cavalieri e di senatori, numero che dovette
appunto essere quello di dieci per ogni curia ; donde il con cetto , che anche
le curiae si dividessero in decuriae. Del resto non avrebbe nulla di
ripugnante, che questa suddivisione esistesse vera mente nel seno delle curie :
mentre sarebbe in ogni caso incom prensibile, che le curie si potessero
suddividere in gentes (1 ). 192. Conchiudendo si può dire: che la ripartizione
in tribù , qualunque potesse esserne la significazione primitiva, tende a cam
biarsi in una divisione territoriale, ossia in una ripartizione del l'ager; che
il populus, ricavato per selezione dalle genti e dalle tribù, dividesi in
curiae, che sono corporazioni religiose, politiche e militari ad un tempo, i
cui quadri sono regolari, come quelli diun esercito , cosicchè riunite possono
costituire sotto un certo aspetto un esercito e sotto un altro aspetto
un'assemblea politica, e sotto altro assumono eziandio un carattere sacerdotale
, che fu quello (1) Che le decuriae non debbano confondersi colle gentes, ma
debbano invece ri cercarsi piuttosto negli equites e senz'alcun dubbio anche
fra i patres del senato, è provato anzitutto da ciò , che il senato fin dai
primi tempi si divideva senz'alcun dubbio in decuriae, il che dovette pure
essere degli equites, il cui corpo , secondo OVIDIO , Fast., III, 130
dividevasi appunto in dieci squadroni o turme, così chia mate « quasi turimae,
quod ter deni equites, ex tribus tribubus Titiensium , Ramnium , Lucerum fiebant
» ( V. Festo , vº Turmam ). Del resto la divisione del senato in de curiae fu
ancora mantenuta nelle coloniae e nei municipia , dei quali si sa , che erano
organizzati sul modello stesso della metropoli. Cfr. in proposito Belot, His
toire des chevaliers romains, I, pag. 151, 152 ; e il Bloy, Les origines du
Sénat romain . Paris , 1883, pag . 102-105 . 235 - che serbarono più a lungo,
allorchè già avevano perduto le altre funzioni politiche e militari ; che da
ultimo il corpo scelto degli equites e dei patres dividesi in decuriae. Questo
è certo ad ogni modo, che nel populus non deve più essere cercata la riparti
zione in gentes, delle quali solo si può dire ciò , che Cicerone disse più
tardi della famiglia , che esse cioè erano il seminarium reipublicae, perchè da
esse ricavavasi il contingente, che entrava a costituire le curie . § 3. — Il
pubblico potere e gli aspetti essenziali del medesimo (regis imperium , patrum
auctoritas, populipotestas). 193. Intanto questo esame del populus e della sua
composizione può facilmente condurci a spiegare in qual modo abbia potuto sboc
ciare nel seno del medesimo il concetto del pubblico potere , ed in quali forme
esso siasi venuto manifestando. I vocaboli sono qui una guida incerta , poichè
il potere in genere viene ad essere indicato , ora col vocabolo di potestas, ed
ora con quello di imperium ; ma l'in certezza, che è nei vocaboli, può essere
tolta di mezzo, se si riesca a ricostruire il processo logico , che in questa
parte seguirono i Romani. Anche a questo riguardo esistevano degli elementi ,
che già erano preparati nell'organizzazione preesistente. Per unificare la
città , presentavasi acconcia la figura del padre; per consultarsi nei momenti
più difficili , eravi il consiglio degli anziani; e in fine per deliberare
intorno alle cose, che riguardavano il comune interesse, già si conosceva
l'assemblea della tribù . Erano così in pronto l'elemento monarchico,
l'aristocratico e il democratico ; nė ai fondatori della città patrizia poteva
ripugnare, che queste con figurazioni dell'organizzazione gentilizia fossero
trasportate nella nuova comunanza. L'imitazione dell'antico avrebbe conciliato
rive renze alle istituzioni novelle, e quindi tutte queste estrinsecazioni del
potere, preesistenti nell'organizzazione anteriore, ricompariscono nella città
; ma intanto il concetto ispiratore viene ad essere com piutamente diverso . Il
re infatti non è più tale per nascita , ma è creato dall'elezione ; il che deve
pur dirsi del senato , e fino anche dei comizii del popolo, i quali non sono
una moltitudine, ne una folla , in qualsiasi modo congregata, ma costituiscono
un esercito di uomini di arme, ed un'assemblea , debitamente organizzata , di
uomini di senno e di consiglio . Il re, il senato ed il popolo, adu 236 nato
nei comizii, vengono così ad essere i tre organi essenziali, in cui si
estrinseca il pubblico potere nella costituzione primitiva di Roma. 194. Quanto
al vocabolo adoperato per significare questo supremo potere, la cosa è dubbia,
poichè occorrono in significazione generica ora quello di potestas, ed ora
quello di imperium . Dei due vocaboli tuttavia quello , che a mio avviso appare
più largo e comprensivo, è certamente il vocabolo di potestas, il quale , per
la propria ge neralità , può facilmente adattarsi ad indicare qualsiasi
gradazione del pubblico potere. Esso quindi si applica talora per significare
il potere del magistrato (potestas regia , consularis, censoria ); quello del
popolo (populi potestas) e talvolta eziandio quello del senato , al modo stesso
che può anche adoperarsi per significare il potere domestico e privato .
Potestas insomma, nella sua significa zione più larga, indica il potere,
riguardato in tutte le sue mol teplici manifestazioni; il che però non toglie ,
che, contrapponen dosi talvolta lo stesso vocabolo a quello di imperium , possa
anche assumere una significazione più circoscritta (1). L'espressione quindi (
1) Questa incertezza di significazione fra potestas ed imperium è notata, fra
gli altri, dal KARLOWA, Röm . R. G., I, pag. 84, il quale trova eziandio, che
il voca bolo di potestas ha una significazione più generica. Così pure la pensa
il MOMMSEN , secondo il quale il vocabolo di potestas esprime l'idea più larga
, e quello di impe rium la più ristretta ; sebbene ciò non tolga, che nel linguaggio
corrente il vocabolo di imperium siasi poscia riservato alle magistrature
maggiori,mentre si adoperò quello di potestas per i magistrati, che non avevano
imperium . Ciò risulta dal passo di Festo ivi citato : « Cum imperio dicebatur
apud antiquos, cui nominatim a populo dabatur imperium ; cum potestate est,
dicebatur de eo , qui negotio alicui praeficiebatur » . Le droit public romain
, I, pag. 24. Lo stesso autore poi osserva , che quel vocabolo di imperium ,
che in un senso tecnico indicava in genere il potere del magistrato, in un
senso ugualmente tecnico e più frequente indicava il comando militare. Op.
cit., I, pag. 135. Parmi tuttavia, che queste apparenti incoerenze nella
significazione di questi vocaboli vengano a dileguarsi, quando si ritenga, che
il vocabolo di potestas indicava il potere pubblico in genere, mentre quello di
imperium usavasi di prefe renza per il potere del magistrato, e più
specialmente ancora per l'imperium militiae. Anche nell'indicazione del potere
privato del capo di famiglia accadde alcun che di analogo . Questo potere
infatti in origine era indicato col vocabolo generico dimanus o di potestas ;
ma ciò non tolse, che questi vocaboli abbiano poi designato i singoli aspetti
di questo potere, cioè la manus il potere del marito sulla moglie, e la po
testas quello del padre sui figli. Ciò significa , che i vocaboli presentansi
dapprima con una significazione più larga, che corrisponde al vigore sintetico
di quei concetti primitivi, di cui sono l'espressione ; ma quando poi questi
concetti si vengono diffe renziando nei varii loro aspetti, il vocabolo
primitivo suol sempre essere mantenuto per significare in modo più specifico
uno di tali aspetti. 237 - più generale del potere viene ad essere quella di
publica potestas; ma siccome poi esso può atteggiarsi sotto aspetti diversi ,
così ben presto nella indeterminazione primitiva , compariscono i vocaboli, che
esprimono gli atteggiamenti diversi, che il medesimo viene ad assumere. Tali
sono i vocaboli di imperium , che applicasi di prefe renza al potere del
magistrato ; quello di auctoritas, che sopratutto si accomoda al senato; e
quello infine di potestas, che, applicato al popolo , indica il potere di esso
, in quanto iubet atque constituit (1), Tutti questi concetti sono ancora vaghi
ed indeterminati: ma intanto sono concepiti in una sintesi potente , che
renderà possibile a cia scuno di ricevere uno svolgimento pressochè indefinito
. 195. Ciò può scorgersi anzitutto quanto al concetto di imperium , che indica
di preferenza il potere del magistrato. Il medesimo, nel concetto romano, non
esce dalla nascita , nè dalla investitura divina; ma esce dall'accordo delle
volontà, che concentrano ed unificano in esso il potere, che prima era disperso
fra i singoli capi di fa miglia , alla cui potestà trovasi talvolta applicato
il vocabolo stesso di imperium . Per esprimere un tal concetto non poteva
esservi im magine più efficace, che quella di raccogliere e di riunire quelle
aste, che sono l'emblema del potere spettante ai singoli quiriti (2 ). (1) Che
il potere del re e degli altri magistrati maggiori, che a lui sottentrarono più
tardi, sia di regola indicato col vocabolo di imperium , è cosa che appare da
tutti gli antichi scrittori. È poi sopratutto CICERONE, che accenna a queste
varie distin zioni, allorchè afferma che « potestas in populo, auctoritas in
senatu est » . De le gibus III, 12, § 28 ; distinzioni, che egli fa rimontare
fino agli inizii di Roma, in quanto che, parlando di Romolo, scrive : « vidit
singulari imperio et potestate regia tum melius gubernari et regi civitates,
esset optimi cuiusque ad illam vim do minationis adiuncta auctoritas » , nel
qual passo il potere regio viene efficacemente chiamato vim dominationis,
mentre quello del senato è indicato con quello di au ctoritas. De rep ., JI, 8
. (2) Magistratus, scrive a questo proposito il Mommsen, è l'individuo
investito di una magistratura politica regolare, in quanto essa emana
dall'elezione del popolo ( Le droit public romain, I, pag. 8 ) ; e aggiunge poi
a pag. 10 , che il magistrato , quanto alle forme esteriori, è appunto colui,
che ha diritto di portare i fasci dentro la città . Ora se il magistrato è
l'eletto del popolo, e se i fasci, che simboleggiano i poteri riuniti dei
quiriti, sono l'emblema del suo potere, non so veramente com prendere, come
siasi potuto sostenere, in parte dallo stesso Mommsen , che il re non riceva il
proprio potere dal popolo : tanto più , che gli scrittori antichi parlando del
popolo usano le espressioni di imperium dare, magistratum creare, iubere, sibi
ad scire e simili. 238 Per tal guisa , dal fascio delle armi usci il fascio dei
littori, e si frapposero in esso anche le scuri, che simboleggiano quel ius
vitae et necis, il quale apparteneva al capo di famiglia , e non poteva perciò
essere negato al capo della città . È tuttavia degno di nota, che questo
imperium , formatosi mediante la riunione dei poteri spettanti a ciascuno ,
appena costituito apparisce pauroso per coloro stessi, che ebbero a conferirlo,
in quanto che le sue stesse insegne esteriori ( fasces) indicano, come al
disopra del potere dei singoli siasi formato un potere collettivo, a cui tutti
debbono inchinarsi. È questa la causa, per cui, davanti ai fasci dei littori,
si apre la molti tudine e la folla per lasciare il passo a quel magistrato, il
quale , mentre è il frutto dell'elezione di tutti, viene ad essere imponente e
pauroso per ciascuno ; e che se il magistrato ordini al littore « col liga
manus » , il cittadino non osa sottrarsi al comando. 196. Intanto in questa
prima concezione del potere del magi strato , non si potrebbe certamente
aspettare, che siano determinati i confini, in cui il medesimo debba essere
contenuto. La necessità di un elemento unificatore è universalmente sentita ,
trattandosi di una città , che fin dalle proprie origini era il frutto della
con federazione di elementi eterogenei e diversi ; né si può aspettare, che un
popolo , il quale non pose dapprima alcun limite al potere giuridico del capo
di famiglia , possa cercare di mettere dei confini alpubblico potere del
magistrato. Il medesimo percid compare senza limitazione di sorta ; è potere
religioso, militare, politico e civile ad un tempo ; ed è concepito in una
sintesi cosi potente, che, secondo il Mommsen , per ricostruire il potere
primitivo del re, con viene in certo modo ricomporre quei poteri, che si
vennero poi di stribuendo fra tutte le magistrature più elevate di Roma, quali
sono il console , il pretore, il dittatore ed il censore ( 1). Fu solo
l'esperienza, che venne dopo, che fece conoscere come del potere possa abusare
anche un eletto dal popolo, e in allora si assiste ad una singolare
scomposizione del potere primitivo del re, per cui ogni sua particolare
funzione finisce per dare origine ad una ma gistratura speciale . Tuttavia ,
anche allora, cercherebbesi indarno una circoscrizione netta di qualsiasi
potere, cosicchè il magistrato ro mano, che può talvolta essere reso impotente
per un atto di minima ( 1) Mommsen, Op. cit., pag . 5 e 6 . 239 importanza,
viene ad avere un potere pressochè senza confini, al lorchè trovasi appoggiato
e sorretto dalla pubblica opinione. 197. Lo stesso è a dirsi della patrum
auctoritas. Anche qui occorre un vocabolo, che come quello di potestas ,
presentasi con significazione alquanto vaga ed indeterminata , e che trovasi
applicato eziandio, cosi in tema di diritto pubblico che di diritto privato .
Chi ben riguardi tuttavia non potrà a meno di notare, che il vocabolo
auctoritas, nella varietà delle significazioni, che sogliono essergli
attribuite, significa costantemente l'appoggio, l'approvazione, la ga ranzia ,
che si arreca o si assume per un determinato atto . Tale è la significazione
fondamentale di questo vocabolo, sia quando parlasi di iuris auctoritas, di
usus auctoritas, sia anche quando è questione di tutoris auctoritas, o del
venditore, il quale, dovendo garentire l'evizione al compratore, auctor fit
dirimpetto al medesimo. Or bene anche questa è la significazione del vocabolo
di patrum auctoritas. Da una parte havvi il re, che agisce ed esercita l'imperium
, dal. l'altra il popolo, il quale iubet atque constituit ; mentre il senato
trovasi nel mezzo, e cosi da una parte dà i suoi consilia almagi strato,
dall'altra auctor fit , cioè accorda la propria approvazione alle deliberazioni
del popolo (1). Esso componesi di persone, alle quali, per la loro età e per il
loro grado, si appartiene non tanto l'agere, quanto il consulere, e quindi,
senza avere propria iniziativa, completa in certo modo l'opera dell'uno e
dell'altro ; poichè per mezzo del senato le misure prese dal re vengono ad
avere l'autorità e l'appoggio del suo consiglio , e le delibera zioni del
popolo ricevono consistenza ed autorità , mediante la sua approvazione . Finchè
dura il periodo regio, il concetto si man tiene ancora vago ed indeterminato ;
ma durante il periodo repub blicano quest'autorità , essenzialmente consultiva
, riceverà una lar ghissima esplicazione, e finirà per penetrare in qualsiasi
argomento; e quindi può affermarsi a ragione, che la grandezza di Roma non fu
(1 ) L'ufficio consultivo, che il senato compie rispetto al re, è bellamente
espresso da CICERONE, allorchè dice di Romolo : « Itaque hoc consilio et quasi
senatu fultus » . De rep., II, 8. Quanto poi all'auctoritas, che il senato
esercita rimpetto al populus, essa non può certamente pareggiarsi coll'
auctoritas tutoris dirimpetto al pupillo , perchè non trattasi qui di integrare
una personalità incompleta; ma bensì di recare il sussidio e l'autorità, che
viene dall'età e dall'esperienza , ai provvedimenti, che ri guardano il
pubblico interesse. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., I, pag . 47 . 240 solo opera
della fortezza del suo popolo , nè dell'energia del suo ma gistrato, ma benanco
della sapienza del suo senato. Per i Romani ebbe importanza l'agere e il
iubere; ma l'uno e l'altro dovettero essere temperati dal consulere. 198.
Intanto, dacchè sono in quest'argomento, importa qui di accen nare alla
questione tanto controversa , fra gli autori, circa la signifi cazione da
attribuirsi al vocabolo di patrum auctoritas : col qual vocabolo alcuni
intendono l'approvazione del senato ; altri invece l'approvazione, che, durante
i primi secoli della repubblica, i pa trizii delle curie dovevano dare alle
deliberazioni prese negli altri comizi; mentre altri infine ritengono, che con
esso intendasi l'ap provazione dei senatori esclusivamente patrizii (1 ).
Sembra a me, che la questione possa essere risolta in modo assai più naturale e
più verosimile, quando si abbia presente che, in una lunga evoluzione storica ,
quale è quella della costituzione politica di Roma, una stessa espressione può
in varii periodi di tempo anche assumere significazioni compiutamente diverse .
Durante il periodo regio , il vocabolo di patrum auctoritas significò
senz'alcun dubbio l'approvazione del senato; perchè nella città esclusivamente
patrizia erano chiamati col nome di patres i senatori, mentre gli altri capi di
famiglia costituivano il populus e l'assemblea delle curie . Più tardi invece,
allorchè, accanto ai comizii curiati, si vennero for mando anche i comizii centuriati,
ed anche i comizii tributi, il vo cabolo di patres o patricii potè naturalmente
comprendere tutto l'ordine patrizio, il quale costituiva veramente l'ordine dei
patres e dei patricii di fronte al rimanente del popolo , ed aveva ancora una
propria assemblea, che era quella appunto delle curie. Di qui (1) Questa è una
delle questioni più controverse, che presenti la storia politica di Roma, e
credo veramente, che la causa del dissenso provenga dalla supposizione, che un
medesimo vocabolo in una lunga evoluzione storica debba sempre avere una
medesima significazione. Le opinioni diverse sostenute dagli autori possono
vedersi riassunte dal WILLEMS, Le droit public romain , 5me éd ., Paris 1883 ,
pag . 208 e dal Bouché-LECLERCQ , Manuel des institutions romaines, Paris 1886,
pag. 16 , nota 1. Di recente la questione ebbe ad essere trattata con grande
chiarezza ed eradizione dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica Roma
nelle sue diverse forme (Rivista di filologia , 1884, pag . 297 a 395. Così pure
ebbe nuovamente a trattarla il KARLOWA, op . cit ., pag. 42 a 48; il quale
finisce per associarsi all'opinione già soste nuta dal Rubino, che l'auctoritas
patrum debba ritenersi per l'approvazione dei se natori patrizii. 241 la
conseguenza , che d'allora in poi, per indicare l'approvazione del senato si
usd di preferenza il vocabolo di senatus auctoritas, in quanto , che il senato
aveva già cessato di essere composto esclusi vamente di veri patres, e
cominciava a raccogliersi fra gli equites e più tardi fra i magistrati uscenti
di uffizio (patres et conscripti); mentre il vocabolo di patrum auctoritas potè
servire acconciamente per indicare la ratifica, che i comizii curiati, composti
ancora dell'ele mento patrizio , dovevano dare alle leggi ed alle altre deliberazioni,
che fossero state votate nelle altre riunioni comiziali; il che è dimo strato
da ciò , che si usano promiscuamente le espressioni « patres o patricii
auctores fiunt » . Siccome però in questo periodo, il senato è ancora
essenzialmente l'organo del patriziato, così si comprende come posteriormente,
allorchè la necessità della patrum auctoritas era stata abolita , l'espressione
siasi talvolta adoperata per significare l'una o l'altra approvazione ( 1). (
1) Nella gravissima questione, che è tuttora aperta , gli unici argomenti, vera
mente saldi, di cui possiamo valerci, sono i seguenti: 1° Che l' auctoritas
patrum , durante il periodo regio esclusivamente patrizio, non potè significare
che l'approva zione del senato, come risulta dal racconto di Livio , relativo
all'elezione di Numa, ove i patres, qui auctores fiunt, non possono essere che
i senatori. Hist. I, 17 , ed anche da Cicerone, il quale, comesopra si è visto,
attribuisce l'auctoritas al senatus ; 2° Che colla Repubblica il senato continuò
senz'alcun dubbio ad approvare le deli berazioni curiate e centuriate, ed anche
tribute, in quanto che parlasi più volte di senatus auctoritas, come risulta da
Livio, XXXII, 6 ; IV , 46, ove i colleghi di Sestio di chiarano : nullum
plebiscitum nisi ex auctoritate senatus passuros se perferri ; 3º Che oltre a
questa approvazione del senato si parla sovente di patres o di patricii
auctores sopratutto da Livio , ogni qualvolta trattasi di proposta di un
interrex , o di qualche provvedimento voluto dalla plebe. Hist. III, 40 , 55 ,
59; IV , 7, 17, 42 , 43 ecc. Ora quest'ultime parole non possono più riferirsi
al senato, e quindi l'unica conclusione probabile viene ad essere, che, siccome
l'assemblea delle curie, composta di patricii, era in certo modo stata esclusa
dalla formazione delle leggi, la quale era passata invece ai comizii
centuriati, che erano la vera riunione del populus, così essa , accid ritenesse
sempre una parte nella formazione delle leggi, è stata chiamata a dare la
patrum o patriciorum auctoritas, che venne così ad essere distinta dalla
senatus au ctoritas. Cid fu una conseguenza della modificazione introdottasi
nella costituzione colla introduzione dei comizii centuriati, e del principio
ispiratore della costituzione primitiva , secondo cui, per la formazionedella
legge, richiedevasi il concorso di tutti gli organi politici dello stato . Ciò
che è accaduto dell'auctoritas patrum , si è pure verificato della lex curiata
de imperio, ed anche della proposta dell' interrex , che pure appartengono
all'assemblea esclusivamente patrizia , quale fu per qualche tempo ancora
quella delle curie; mentre il Senato, avendo anch'esso accolto in parte l'ele
mento plebeo, aveva seguito lo svolgersi della costituzione , e aveva così
cessato di G. CARLE , Le origini del diritto di Roma. 16 - 212 199. Viene
infine la potestas populi, e a questo riguardo io non dubito di affermare, che
essa nel concetto della costituzione pri mitiva di Roma, debbe essere
considerata come la sorgente di ogni altro potere . Alcuni autori trovano
ripugnante, che Roma sia sen z'altro pervenuta al concetto della sovranità
popolare, e quindi cercano di dare, come fondamento all'imperium del
magistrato, il concetto degli auspicia , che essi considerano come una specie
di investitura divina (1 ). Parmi invece, che la genesi dello Stato romano
essere esclusivamente patrizio. Insomma, coll'accoglimento della plebe nel
populus quiritium , il vero potere legislativo viene a portarsi nei comizii
centuriati; ma in tanto l'assemblea delle curie conserva l'auctoritas patrum ,
la lex curiata de imperio, e la proposta dell'interrex. Certo è una congettura
anche questa , ma mentre essa non contraddice ai passi degli antichi autori,
corrisponde allo spirito della costitu zione primitiva , in cui ogni organo
politico deve aver parte nella formazione delle leggi e nell'elezione del
magistrato, ed al sistema romano, che, pur introducendo un nuovo organo
politico, suole ancora mantenere per riverenza e per culto quelli, che
esistevano precedentemente. Il vero intanto si è, che queste varie funzioni
dell'as semblea delle curie non avevano più una vera ed effettiva influenza,
poichè la lex curiata de imperio divenne una semplice formalità, la proposta
dell'interrex era una reliquia del principio, che auspicia ad patres redeunt, e
la patrum auctoritas soleva solo essere negata, quando trattavasi di
opposizione d'interessi fra patriziato e plebe. Dovrò ritornare sull'argomento
nel Capitolo III, al § 1° e 2°, discorrendo dello svol gimento storico del
concetto di lex , e di quello dell'interregnum . Del resto delle opinioni poste
innanzi dagli autori quella, che parmi la meno probabile, è quella adottata dal
KARLOWA, op . cit., pag. 42 a 48, che intende per patrum auctoritas
l'approvazione dei soli senatori patrizii, perchè essa non si concilia
coll'espressione dei patricii auctores fiunt, patricü coeunt, interregem
produnt e simili, e perchè crea una divisione nel senato, che è incompatibile
col carattere di unità coerente, che ebbe sempre questo corpo. Mentre l'assemblea
delle curie diventava una soprav vivenza dell'antica' costituzione, il senato
invece si mantenne sempre vigoroso e vi tale, e subì modificazioni analoghe a
quelle del populus, senza mai portare le traccie di dissidii che fossero nel
suo seno , poichè la nobiltà plebea , che entrava in esso, aveva già le stesse
tendenze dell'antico patriziato. Che poi il vocabolo di patres, in questo
periodo, fosse venuto a significare in genere l'ordine patrizio, è dimostrato
in modo incontrastabile da quella disposizione della legge decemvirale: «
connubium patribus cum plebe ne esto » , dove il vocabolo patres non comprende
certo soltanto i senatori, ma tutti i patrizü ; come pure dal fatto, che gli
storici parlano soventi dei iuniores patrum , la cui intransigenza è condannata
dal senato. (1) Parmi, che questa proposizione sia abbastanza provata dalle
espressioni ado. perate dagli autori per significare il potere del popolo.
CICERONE, ad esempio, parla di questo potere, dicendo che il populus regem sibi
adscivit, creavit, iussit, constituit ; espressioni, che indicano abbastanza,
che la potestà suprema, a suo avviso, risiedeva presso il popolo. Lo stesso è
da lui confermato , allorchè nel discorso de lege agraria 2 , 7, 17 dice: «
omnes potestates, imperia , curationes ab universo populo romano 243 dovesse
logicamente condurre al risultato di riporre la sorgente del pubblico potere
nella sovranità popolare, circondandola però di quel l'aureola religiosa, che
occorre in tutte le primitive istituzioni di Roma. Lo Stato romano esce dalla
confederazione e dal contratto , e quindi al modo stesso , che la patria riceve
la sua denominazione dai patres; così il potere pubblico si forma mediante la
riunione del potere, che appartiene ai singoli quiriti, e che è rappresentato dalla
lancia , di cui essi sono armati. Quanto agli auspicia , che appar tengono al
magistrato, essi non mirano, che a dare una consacra zione religiosa al potere
stesso, e a metterlo in condizione di sapere giudicare, se questo o quel
provvedimento , da prendersi nel pubblico interesse, possa essere o non accetto
agli dei. Che anzi gli auspicia publica del magistrato debbono considerarsi
essi stessi come una trasmessione, che i padri fanno al magistrato di quegli
auspicia , che appartengono a ciascuno di essi. Cid è dimostrato dal fatto che,
du rante l'interregno , gli auspicia ritornano ai padri (ad patres re deunt
auspicia ); il che significa, che in origine dovevano appartenere ai padri
stessi, i quali, nell'interesse delle loro genti e famiglie , as sumevano
quegli auspicii, che il magistrato romano doveva invece consultare , quando si
trattasse di qualche deliberazione importante per il popolo stesso . Tuttavia
se ai patres tornano gli auspicia , è però sempre al populus, che spetta di
creare il magistrato , che debba succedere nell'imperium , come lo dimostra la
tradizione, per venuta fino a noi, della elezione diNuma. Si aggiunge, che è
solo dopo il conferimento dell'imperium , fatto mediante la lex curiata de
imperio, che il re dapprima e le magistrature, che gli sottentrarono più tardi,
possono entrare nell'adempimento del proprio uffizio. Ri tengo pertanto, che a
questo proposito non possa essere accolta l'opi nione del Mommsen, la quale
riesce pure inammessibile per il Kar proficisci convenit ». Lo stesso è
indicato da Festo, allorchè parlando del magi stratus cum imperio, dice, che
esso è quello al quale « a populo dabatur imperium » . Malgrado di ciò convien
dire, che l'opinione contraria, come si vedrà in seguito, ha la prevalenza
presso gli autori anche recenti, che si occuparono dell'argomento. Si accostano
però al concetto da me sostenuto il Mainz, Introd . au cours de droit romain .
Bruxelles, 1876 , nº. 6 , pag . 33, ed il GENTILE, Le elezioni e il broglio
nella repubblica romana, il quale fino dapprincipio afferma molto chiaramente e
giusta mente, a parer mio , che « i pastori della leggenda riconoscono Romolo
per capo supremo; ma, pur conferendogli la somma autorità , riguardano ancor
sempre se stessi quali depositarii, e quasi natural sorgente della sovranità »
. 244 - lowa, secondo la quale la lex curiata de imperio non conferirebbe
l'impero , ma soltanto vincolerebbe il popolo verso il re (1). Se cosi fosse
infatti, il magistrato dovrebbe poter esercitare il proprio ufficio , anche
prima di aver ricevuto questa specie di giuramento di fedeltà , che servirebbe
ad obbligare il popolo , ma nulla aggiungerebbe al suo potere. Il vero invece
si è , che anche in questa appare il carattere eminentemente contrattuale della
costituzione primitiva di Roma, per cui anche il conferimento del potere
supremo si opera colla forma propria della stipulazione, in quanto che havvi il
magistrato , che prima di entrare in ufficio rogat imperium , ed havvi il
popolo, che con una legge glie lo conferisce: e intanto l'uno e l'altro co
noscono i diritti e le obbligazioni, che una legge di questa natura può loro
conferire. Una prova poi di questo riconoscimento della sovranità popolare
l'abbiamo per parte del patriziato , in quel fatto di Valerio Pubblicola , che
in tempo di pace e dentro la città ordinava ai littori di abbassare i fasci, e
di togliere daimedesimi le scuri, come pure nel fatto , che gli imperatori,
quando già si erano fatti onnipotenti, sentirono il bisogno, per rispettare un
tradizionale concetto , di essere investiti dell'imperium dal popolo. 200.
Intanto però il concetto , che il potere supremo risiedesse nel popolo , non
poteva in nessun modo affievolire l'imperium : poichè al modo stesso che il
popolo doveva ubbidire alle leggi, che si erano (1 ) Che il magistrato non
possa entrare in ufficio , e tanto meno esercitare l'im perium , prima della
lex curiata de imperio, è provato da due passi di CICERONE, nei quali si dice :
« consuli, si legem curiatam non habet, rem militarem attingere non licet » (De
lege agraria, II, 12, 30 ) e più genericamente ancora : « sine lege cu riata
nihil agi per decemviros posse » ( Ibidem , II, 11, 28). Dal momento quindi,
che il concetto dell'imperium dei consoli è in tutto identico a quello del
regis im perium , non si comprende come il Mommsen , Staatsrecht, I, 588 s.
possa ridurre la lex curiata ad un semplice giuramento di fedeltà, che vincola
i soli sudditi, e meno an cora , che il Karlowa, op. cit., I, pag. 52 e 82
possa sostenere, che la lex curiata de imperio non sarebbe entrata in azione,
che colla costituzione Serviana, ossia colla in troduzione dei comizii
centuriati, i quali avrebbero conferita la potestas, mentre i comizii curiati
avrebbero poi conferito l'imperium . Ciò è contraddetto ripetutamente da
CICERONE, de Rep . II, 10, 17, 18 , 20, che parla appunto della lex curiata de
imperio a proposito dei primi re. Non solo deve negarsi , che questa lex entrò
in azione solo colla costituzione Serviana ; ma deve dirsi piuttosto, che essa
da quel momento perde della propria importanza e riducesi ad una semplice
sopravvi venza dell'antico ordine di cose, in cui erano i patres, che
investivano il re del. l'imperium , e a cui ritornavano gli auspicia . - 245 da
lui votate nei comizi, così esso doveva eziandio inchinarsi al potere, che
aveva conferito al magistrato per mezzo di una pro pria legge. Che anzi questo
potere riusciva tanto più efficace ed imponente, in quanto si fondava sopra una
volontà collettiva , che ve niva a sovrapporsi alla volontà dei singoli. Ed è
anche questo il mo tivo , per cui il potere del magistrato romano veniva in
certo modo ad essere senza confini, finchè aveva l'appoggio della pubblica
opinione . Fermo cosi il concetto della costituzione primitiva di Roma, quale
esce dalla logica delle istituzioni (logica , che nel fatto dovette anche
essere più rigorosa e coerente di quella, che a noi possa esser riu scito di
ricostruire ), riescirà più facile di ricomporre insieme i cenni, che gli
autori ci conservarono di questa primitiva costituzione e di comprendere il
vero ed intimo significato della medesima. § 4 . Il re ed il regis
imperium . 201. Dei concetti politici del periodo regio, quello che presentasi
modellato in modo più vigoroso e potente è certamente il potere del rex . Tutti
i poteri infatti, che nel periodo anteriore, presso le genti latine, erano
indicati coi vocaboli di magister populi, di magister pagi, di dictator , di
praetor , di iudex appariscono fusi e concentrati nella concezione sintetica
del regis imperium . Per tal modo il con cetto del rex da una parte inchiude la
sintesi di tutte le manifestazioni del potere , che eransi avverate nel periodo
gentilizio , e dall'altra è il punto di partenza,da cui prendono le mosse tutti
i poteri, che, durante il periodo repubblicano , saranno poi affidati alle
diverse magistrature maggiori. Il rex nel concetto romano è l'unificazione
potente del populus; accoglie in sè la somma dei poteri, che possono essere
necessarii nell'interesse della cosa pubblica ; nė vi ha costituzione scritta ,
che gli prescriva alcun limite nell'esercizio dei medesimi. Cid però non
toglie, che questi limiti esistano di fatto nel costume pubblico e privato; nel
bisogno incessante, che il re ha dell'appoggio della pubblica opinione; ed
anche negli imbarazzi, che gli possono creare i padri, ogni qualvolta egli
volesse spingere troppo oltre la propria azione. Capo del populus, egli è
custode eziandio della città spiega la vita pubblica (custos urbis), e deve
avere la propria casa nel cuore stesso della città , accanto al sito , ove deve
bru 246 ciare perenne il focolare della vita pubblica , che si conserva nel
tempio di Vesta . Che se, per provvedere al pubblico interesse , debba
abbandonare la città , dovrà lasciare nella medesima un proprio delegato , che
prenderà il nome di praefectus urbis. È quindi anche il re , che provvede al
lustro esteriore della città , che progetta e costruisce quelle opere
grandiose, che già rimon tano all'epoca regia , e che non furono le meno
durature fra quelle costruite nell'eterna città . È nella successione dei re
parimenti, che può scorgersi una continuità nel grandioso intento di ampliarne
le mura e le fortificazioni; lavori tutti, le cui reliquie dimostrano
abbastanza, come trattisi di un concepimento, che già presentatosi ai primi re
, ebbe poi ad essere continuato da quelli, che vi suc cedettero, non eccettuato
quello , che aspird alla tirannide . 202. Cid quanto alla custodia materiale
dell'urbs. Che se si con sidera dirimpetto al populus, il re, condottiero di un
popolo , che è ripartito in curie, le quali hanno un carattere religioso,
militare e politico ad un tempo, riunisce in sè tutti questi caratteri. Finché
dura il periodo regio, il magistrato non è solo il capo dell'esercito (impe
rator) od il magister populi, o il giudice cosi in tempo di pace che in tempo
di guerra, ma è anche il sommo sacerdote del popolo romano. Esso è augure
sommo, e tale appare Romolo stesso ; è pontefice massimo, come lo dimostra il
fatto, che questa ' magistratura sacer dotale del popolo romano compare soltanto
colla repubblica , allorchè sentivasi già il bisogno di limitare in qualche
modo il sovrano po tere, disgiungendone la parte che si riferiva alla
religione, la quale ebbe ad essere ripartita fra il pontifex maximus ed il rex
sa crorum ; e fino a un certo punto esso è ancora il pater patratus del popolo
romano, come lo dimostra il fatto, che nelle descrizioni dei più antichi
trattati sono i capi dei due popoli, che vengono alla stipu lazione del foedus
e al compimento solenne delle cerimonie del ius foederale o foeciale, mentre
gli eserciti si limitano a salutarsi re ciprocamente, e così approvano
tacimente l'opera dei proprii capi (1). Verò è , che già fin dal periodo regio
noi troviamo l'istituzione dei collegii sacerdotali, ma questa creazione è
opera del re stesso , nè essi hanno, anche nella città patrizia, alcuna
partecipazione diretta all'e (1) Ciò appare dal seguente passo di Livio, I, 1,
a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri : « inde foedus ictum inter
duces, inter exercitus salutationem factam » . - - 247 sercizio del pubblico
potere; ma sono soltanto, come si dimostrerà a suo tempo, depositarii e custodi
delle tradizioni giuridiche, politiche , internazionali delle genti e delle
tribù , da cui essi sono tolti, e aiu tano così il re nella opera di
unificazione legislativa , che dovette essere urgente cosa e difficile negli
inizii di Roma, per trattarsi di città , che risultava dalle confederazioni di
genti, che appartenevano a stirpi diverse (1). Vero è parimenti, che durante il
periodo regio già appariscono altre cariche, quali sono quelle del tribunus
celerum , dei quaestores parricidii, e deiduumviri perduellionis ; ma anche
questi non sono che ufficiali dipendenti dal re, e da lui nominati . Di qui la
conseguenza, che è solo il re o qualche suo delegato , che può essere preceduto
dai fasci dei littori e dalle scuri, simbolo del pubblico potere. È esso
parimenti, che solo può convocare il popolo e il senato , salvo che egli
deleghi questo potere al tribunus celerum o al praefectus urbis (2) . È quindi
vero , che colla creazione del regis imperium si rias sumono in una sintesi
potente tutte le manifestazioni del magi stratus nel periodo gentilizio, e si
inizia lo svolgimento di tutti i poteri, che possono convenire ad una comunanza
civile e politica. Nel rex insomma, per usare una espressione dello Spencer,
termina l'integrazione del potere preparatasi nel periodo gentilizio , e da
esso incomincia quella differenziazione del potere pubblico , che dovrà poi
operarsi nella città . 203. Per quello poi, che si riferisce ai poteri che sono
inchiusi nell'imperium regis , indarno si cercherebbero quelle decise ripar
tizioni, che compariranno più tardi. L'imperium regis è una con cezione logica
, più che l'opera di una costituzione scritta, e quindi egli può compiere tutto
ciò , che può essere indicato coi vocaboli di agere, di ius dicere, di rogare,
di imperare. Egli deve pren dere norma più dalla funzione, che è chiamato a
compiere nella città , che non da una precisa e particolareggiata determinazione
del ( 1) Quanto al compito dei collegi sacerdotali in Roma primitiva , mi
rimetto a quanto avrò a dirne in questo stesso libro, capitolo IV , § 2º. (2)
Secondo il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 115, sarebbe, valendosi di
questo potere, che Giunio Bruto , come tribunus celerum o Spurio Lucrezio Trici
pitino , quale praefectus urbis, avrebbero convocato il popolo, dopo la
cacciata dei Tarquinii: quantunque sia probabile, che in circostanze del tutto
eccezionali non siasi forse pensato all'adempimento di tutte le formalità. 248
proprio uffizio. Tuttavia già fin da quest'epoca nel potere regio si possono
distinguere atteggiamenti diversi , che cominciano a diffe renziarsi mediante i
vocaboli di auspicia, di imperium domi, e di imperium militiae . A lui quindi
si appartiene di assumere gli au spicii , allorchè trattasi di qualche
deliberazione, che si riferisca al pubblico interesse , cosicchè, già fin da
questo periodo, gli auspicia publica si vengono a distinguere dagli auspicia
privata . Nell' as sumere tali auspicii potrà valersi dell'opera degli auguri ,
ma a questi solo si appartiene la custodia dei riti e il compimento delle
cerimonie tradizionali; mentre è al re stesso, che si appartiene di giudicare
se essi siano favorevoli o non lo siano (1). Così pure ha l'imperium
domimilitiaeque, col quale incomincia una distinzione, le cui traccie si
perpetuano per tutta la storia politica e militare di Roma. Per verità , se i
Romani credettero di porre dei confini al l'imperium nei confini della città ,
e vollero che i consoli, entrando nella medesima , facessero togliere le scuri
dai fasci , e facessero abbassare anche questi , allorchè concionavano il
popolo, compresero però la necessità, che le scuri fossero rimesse nei fasci, e
che la provocatio ad populum fosse tolta di mezzo , allorchè si trattava di
mantenere la disciplina dell'esercito ; quasi si potrebbe dire, che a Roma il
re o il magistrato rogat in tempo di pace, e imperat in tempo di guerra . In
virtù dell'imperium militiae, egli fa la leva (delectus) ed è capitano supremo
in tempo di guerra (2 ): nè può ammettersi l'opi nione, secondo cui il re
sarebbe il duce della fanteria , mentre il tribunus celerum sarebbe quello
della cavalleria, in quanto che quest'ultimo non è che un ufficiale da lui stesso
nominato, e quindi, sebbene guidi il proprio drappello, che forma il corteggio
militare del re, deve però sempre dipendere dagli ordini del capo supremo. In
virtù poi dell'imperium domi, il re convoca i comizi : ra duna il senato ;
amministra giustizia , non nella propria casa, ma all'aperto , in cospetto
della cittadinanza ; propone le leggi; e (1) Cfr. Mommsen, Le droit public
romain , I pag. 119, ove discorre della proce dura seguìta nel prendere gli
auspicia , e del compito affidato agli auguri. (2 ) Sulla distinzione fra
l'imperium domi e l'imperium militiae è da vedersi la trattazione magistrale
del Mommsen, op. cit ., I, pag. 68 e 69 e sui poteri compresi nell'imperium
militiae, ivi, pag . 135 e 157. Non occorre però di notare, che tutti questi poteri
nell' epoca regia sono, per dir così, allo stato embrionale, e solo più tardi
ricevono tutto lo sviluppo, di cui possono essere capaci. 249 infine nomina i
cavalieri e i senatori. Al qual proposito mi fo lecita la congettura, già
accennata più sopra, che nella costituzione primitiva di Roma i senatori ed i
cavalieri , i quali finirono poi per mutarsi in due classi o ordini sociali,
indicati coi vocaboli di ordo senatorius e di ordo equestris, furono due corpi
scelti , in base a un numero determinato , dall'assemblea delle curie . I primi
scelti fra i giovani, splendidi nella propria armatura, formano la corte
militare del re; mentre i secondi, scelti fra gli anziani, ne costitui scono il
consiglio ; donde la naturale distinzione, in cui vennero ad essere posti l'uno
e l'altro ordine, e le lotte perfino di prevalenza, che poterono esservi fra i
medesimi, allorchè l'uno e l'altro già eransi profondamente trasformati. Un
indizio di cið l'abbiamo in questo , che negli inizii di Roma sembra esservi
una correlazione fra il numero degli equites e quello dei patres , col numero
delle curie ; correlazione , che non tardd a scomparire, in quanto che il
numero degli equites si accrebbe coll'aumentare delle legioni, mentre il numero
dei patres si arrestò a trecento, fino agli ultimi anni della Repubblica. Di
più il senato costituisce un organo politico dello Stato, il che non può dirsi
degli equites , i quali hanno solo il pri vilegio di essere i primi chiamati a
dare il proprio voto (sex suf fragia ) nei comizii centuriati, al modo stesso,
che anche più tardi hanno, al pari dei senatori, un posto distinto nel circo
per assi stere ai pubblici spettacoli ( 1). 204. Questo è certo ad ognimodo,
che nella costituzione primitiva di Roma il re appare come l'elemento più operoso
ed intraprendente, per modo che la tradizione finisce per attribuire tutto
all'opera personale del re. Egli impone tasse , distribuisce terre , costruisce
(1) Parmi di scorgere un accenno all'idea qui svolta nel PANTALEONI, Storia ci
vile e costituzionale di Roma, I, nel IV ed ultimo appendice, ove discorre
dell'isti tuzione dei cavalieri a Roma e dell'ordine equestre, pag. 672 e segg.
È poi Livio , I, 35, che parla dei « loca divisa patribus equitibusque » nel
circo; altra prova questa, che essi formavano fin dagli inizii due ordini
distinti dal resto del popolo delle curie. È poi degna di considerazione l'idea
dello stesso Pantaleoni, secondo cui gli equites costituiscono non solo un
militaris ordo, ma anche un ordo civilis, in quanto che ciò serve a spiegare,
come essi abbiano poi potuto trasformarsi nel l'ordo equestris. Del resto
questo carattere militare e civile ad un tempo è inerente a tutto il popolo
delle curie, e a tutte le istituzioni primitive di Roma, eccettuato il senato ;
sebbene siavi chi attribuisce anche al senato un'origine militare. LATTES,
Della composizione del senato (Mem . Istituto Lombardo, 1870 ). 250 - edifizii
. Può darsi, che la tradizione colla sua tendenza a semplifi care e a
sintetizzare i processi seguiti, e a concentrare in un solo l'opera dei molti,
abbia in questa parte esagerata l'opera personale del re ; ma ad ogni modo,
quando si consideri che il primo periodo di Roma fu essenzialmente un periodo
di unificazione dei varii ele menti, che concorrevano alla formazione della
città , si dovrà sempre riconoscere, che la parte più operosa nel compito
comune doveva appartenere a quell'elemento , che era chiamata ad unificarle .
Allorchè trattasi della formazione di una città ( e si potrebbe anche dire di
uno Stato e di una nazione), importa sopratutto l'agere; soltanto si potrà fare
una parte maggiore al consulere, allorchè si tratterà di provvedere
all'amministrazione interna, o a quella delle provincie; sarà infine soltanto ,
allorchè saranno ferme le basi della grandezza dello Stato , che potranno
svolgersi largamente il iubere e il constituere. Cid intanto prova ad evidenza
che il potere del re in Roma pri mitiva aveva già assunto un carattere
essenzialmente politico e mi litare, come quello , che conteneva in germe tutti
quei poteri essen zialmente politici, che furono poscia affidati a magistrature
diverse . Nelle forme esteriori può ancora assomigliarsi ad un padre : ma nella
sostanza è già un principe, ossia il primo del popolo ( prin ceps), è il duce
dell'esercito , e il magistrato della città . § 5. — Il Senato e la patrum
auctoritas. 205. On carattere analogo può riscontrarsi eziandio nel senato ,
quale appare nella costituzione primitiva di Roma. Può darsi benis simo, che il
nome stesso di senatus sia una sopravvivenza dell'or ganizzazione gentilizia ,
come lo è certamente quello di patres , che fu dato ai senatori, e che essi
conservarono anche più tardi, allorchè certamente avevano cessato di esser
tali. Può darsi eziandio , che il primo concetto del senatus potesse essere
suggerito da quel consi glio domestico, che temperava talvolta il potere del
primitivo capo di famiglia, od anche dal consiglio degli anziani, che
provvedeva all'interesse comune della gente . Questo ad ogni modo è fuori di
ogni dubbio, che il senato romano assume fin dai proprii inizii un ca rattere
eminentemente politico, e che presentasi come l'applicazione di un concetto ,
che i Romani avevano profondamente radicato, il quale consisteva in ciò , che
tanto il regis imperium , quanto il iussus po 251 - puli abbisognassero di un
ritegno in quell'autorità , che viene ad essere attribuita dall'esperienza e
dall’età (1). Di qui conseguita , che la patrum auctoritas, allorchè
comparenella costituzione primitiva di Roma, non è un'autorità , i cui limiti siano
stabiliti e determinati; ma è anch'essa una costruzione logica , che potrà col
tempo rice vere tutto quello svolgimento, di cui può essere capace il concetto
ispiratore della medesima. Di essa, come dell'imperium regis, non potrebbe
dirsi quale sia l'influenza , che verrà ad esercitare sulle sorti di Roma; solo
si conosce la funzione che , in base al proprio concetto informatore, è
chiamata ad esercitare nella costituzione politica della città . Saranno poi
gli eventi, che additeranno al senatus la via che dovrà seguire, i limiti in
cui dovrà contenersi, e i casi eziandio , in cui dovrà forzare il proprio
ufficio e spingerlo perfino oltre i confini, in cui la logica dell'istituzione
dovrebbe contenerlo . 206. Siccome perd la funzione del consulere, per essere
una fun zione intermedia , ha per sua natura una indeterminatezza molto
maggiore, che non quella dell'agere e del iubere ; così ne viene, che i poteri
del senato presentano negli inizii ed anche nello svolgi mento posteriore un
carattere vago ed indeterminato , che dipenderà dall'influenza effettiva e
reale , che i membri, che lo compongono, saranno in condizione di esercitare
sull'andamento della cosa pubblica . Possono esservi dei consigli che, per le
persone da cui vengono, si cambiano in ordini ed in comandi, per quanto siano
accompagnati dalla formola « si eis videbitur » ; al modo stesso , che possono
esservi dei responsi e degli avvisi, che, per l'autorità della persona, da cui
partono, possono anche valere come sentenza , contro cui non sia consentito di
appellare . Queste esplicazioni sono frequenti nella lo gica romana, e sono
esse, che possono spiegare in qual modo il se nato , pressochè lasciato in
disparte dallo spirito intraprendente dei re, che dovevano preferire l'appoggio
dell'elemento popolare e quello anche della plebe , abbia potuto , senza
romperla affatto col concetto ispiratore della propria istituzione, cambiarsi
colla Repubblica nel l'organo più potente della costituzione politica di Roma,
per guisa da attribuire ai proprii avvisi (consulta ) l'autorità di vere leggi
; (1) Parmi di trovar espresso questo concetto , a proposito di Romolo, in
CICERONE, de Rep. II , 8 . 252 mentre invece coll'Impero viene ad essere
ridotto a concedere la propria autorità ai decreti di un principe , al cui
arbitrio non era più in caso di poter resistere. 207. Del resto questo
carattere non è proprio solo del senato, ma di tutti gli organi della
costituzione politica di Roma, nella quale, ad esempio , occorre un magistrato,
come quello del censore, che in caricato dapprima di una funzione, che sembrava
non adatta alla di gnità di un console, quale si era quella della compilazione
del censo , cambiasi poi in censore del pubblico e del privato costume, in elet
tore supremo del senato, e per la dignità finisce in certo modo per essere
considerato come superiore allo stesso console. Nè altrimenti accade anche
delle magistrature plebee, e sopratutto dei tribuni della plebe, i quali negli
inizii non hanno che il ius auxilii, e non mirano che a difendere i debitori
dai maltrattamenti dei creditori, e i plebei dai maltrattamenti del console ;
ma poi da ausiliatori si mutano in organizzatori della plebe, in accusatori del
patriziato , e nell'organo certamente più efficace del pareggiamento giuridico
e politico della plebe ; finchè da ultimo il potere tribunizio , che continua
pur sempre ad essere circondato dal favor popolare , mutasi ancor esso nella
base più salda, sovra cui poggi ildispotismo imperiale. È quindi sopratutto in
Roma, che qualsiasi aspetto del potere sovrano tanto vale quanta è la tempra
della persona, che trovasi investito di esso , e quanto è l'appoggio , che esso
trova nella pubblica opinione, con quest'unica limitazione, che esso deve
trattenersi nei limiti del concetto, a cui si informa dai proprii inizii.
Questo concetto da una significazione materiale potrà passare ad una
significazione morale e politica, sic come accadde del censore, che da
compilatore del cengo si cambiò in censore del costume, dalla difesa potrà
anche passare all'accusa , in uno scopo di difesa , siccome fecero i tribuni
della plebe;ma intanto nel proprio sviluppo sarà costantemente percorso da una
logica interna, a cui i Romani seppero mantenersi fedeli, non solo nelle
istituzioni giuridiche, ma anche in quelle politiche. Questo carattere perd so
pratutto si appalesa nell'istituzione del senato . Potere consultivo nelle
proprie origini trovò opposizione nel partito popolare, allorchè cerco di
cambiare i proprii senatusconsulti in leggi ; ma anche in quei senatusconsulti,
che ebbero autorità di vere leggi, esso si propose costantemente di esercitare
sulla comunanza un ' autorità di carat tere consultivo e pressochè di
protezione e di tutela: come lo pro 253 vano il senatusconsulto intorno ai
Baccanali, ed i senatusconsulti Macedoniano e Velleiano. Intanto per tornare
all'argomento , questo è certo che tutti gli autori sono concordi nel
descrivere il senato come elettivo fin dagli inizii di Roma. Festo anzi ci
attesta , che la nomina attribuita al re era più libera di quella , che più
tardi appartenne al censore, in quanto che l'essere lasciati in disparte dal re
(praeteriti sena tores) non era riputato ignominia ; il che fu invece di quei
ma gistrati, uscenti d'uffizio, che, avendo le condizioni per entrare nel
senato , non vi fossero chiamati dal censore, o fossero rimossi dal medesimo,
se già ne facevano parte ( 1). 208. L'incertezza invece è grande, quanto alle
funzioni, che da esso furono effettivamente esercitate; il che provenne
probabilmente da ciò, che, trattandosi di un potere di carattere vago ed
indeterminato , gli autori, e fra gli altri Dionisio , non potendo attribuirgli
dei poteri determinati da una costituzione scritta , dovettero sforzarsi ad
asse gnargli quei poteri, che sembravano convenire alla funzione, che esso era
chiamato ad esercitare. Questo è certo ad ogni modo, che le sue funzioni, anche
durante il periodo regio , furono essenzialmente con sultive. Esse anzi
sembrano ancora tenere del patriarcale, come quando i senatori son chiamati a
fare ripartizioni di terre fra le popolazioni di classe inferiore , e quando ad
essi viene affidata , almeno secondo Dionisio , la punizione dei delitti meno
importanti, mentre il re sarebbesi riservata la giurisdizione sui più gravi
(2). Non può invece ammettersi, perchè ripugna al carattere dell'istituzione,
che il re, dopo aver chiesto l'avviso del senato , fosse obbligato ad
attenervisi: inquantochè, se questo fosse stato il carattere degli avvisi dati
al re , che da solo aveva per tutta la vita quei poteri, che poscia furono non
solo suddivisi fra magistrati diversi, ma anche attenuati e limitati quanto
alla propria durata , per maggior ragione i senatusconsulti avrebbero
conservato e spinto anche più oltre questo carattere, allor chè, durante il
periodo repubblicano, il senato venne ad essere pres sochè onnipotente. Sembra
invece, per quello che risulta dagli avveni menti,cheil senato, durante il
periodo regio , non abbia potuto esercitare tutta quella influenza , che spiego
più tardi; cosicchè, quando volle (1 ) Festo , V ° Praeteriti senatores ( Bruns
, Fontes, pag. 355). (2 ) Dion. 2 , 12 , 14 , il cui testo è riportato in greco
ed in latino dal Bruns, Fontes, pag. 4 e 5 . 254 - contrastare alla
intraprendente operosità del re ed alle innovazioni dal medesimo tentate, dovette
ricorrere all'intermezzo degli auguri e dei sacerdoti, come lo dimostra la
tradizione relativa all'augure sabino Atto Nevio, all'epoca di Tarquinio
Prisco. Il suo potere con sultivo trovavasi inefficace di fronte ad un re a
vita , che aveva per sè l'appoggio del popolo non solo,ma anche della plebe ,
la quale già cominciava ad esercitare un'influenza, se non di diritto , almeno
di fatto . Quindi fu solo colla cacciata dei re, che il senato , consesso
permanente fra magistrati, che mutavano ogni anno, e che usciti dalla
magistratura entravano a farne parte , divenuto così custode della politica
tradizionale diRoma, sopratutto nei rapporti esteriori, potè dare al concetto
ispiratore dell'istituzione tutta la portata logica , di cui poteva essere
capace, e forse spingerla anche oltre i confini, che dalla logica erano
consentiti. 209. Sopratutto sono gravi i dubbii e le incertezze intorno alla
composizione ed al numero dei senatori, durante il periodo esclusi vamente
patrizio ; al qual riguardo parmi impossibile di ricomporre e coordinare i
pochi e non concordanti accenni, che pervennero fino a noi, senza ricostrurre
il processo logico , che segui la politica dei re nel formare e nell'accrescere
il senato primitivo di Roma. In proposito tutti gli autori sembrano essere
concordi nell'atte stare, che Roma, nella sua primitiva formazione, non fece
che imi tare, quanto al senato, l'organizzazione delle altre città latine;
quindi il suo senato appare dapprima limitato al numero di cento , che sembra
appunto essere il numero adottato per le altre città latine , e per gli stessi
municipii, che ebbero poi ad essere organizzati sul modello ro mano ( 1).
Tuttavia la politica di Roma, che nel periodo regio non pensa ancora a
chiudersi in sè stessa ,mapiuttosto ad aggregarsi nuovi ele menti, condusse in
questa parte a modificare il modello latino. Al lorchè trattavasi di associare
nuove popolazioni alle sorti di Roma, il processo a seguirsi non poteva offrire
difficoltà , finchè trattavasi soltanto di famiglie o di individui , che
appartenessero alla plebe . Questa non era ancora organizzata o almeno lo era
in guisa tale , che poteva accogliere , senza difficoltà , qualsiasi nuovo
elemento . Di più (1) Liv. I, 8 ; Dion., II, 12 ; Cic ., De Rep ., II, 12. Che
il senato o meglio l'ordo decurionum delle colonie e dei municipii si
componesse solitamente di cento, appare da ciò , che essi talvolta erano
perfino chiamati centumviri. Cfr . Willems, Le droit public romain , pag. 535 .
255 l'Aventino, che sembra essere il colle, sovra cui accentrasi di prefo renza
la comunanza plebea, è ancora spopolato, e fu anche più tardi lasciato fuori
della cinta Serviana, in modo da poter offrire territorio e spazio, ove le
nuove famiglie si possano stabilire . Tutto al più oc correrà di far loro
concessioni di terre, che sotto la tutela del ius mancipii porgano loro un
mezzo sicuro di provvedere al proprio sostentamento . Cosi invece non accade,
allorchè trattasi di famiglie , che già abbiano ottenuta posizione elevata
nella comunanza, a cui esse appartengono, e tanto più se trattasi di quelle,
che,mediante l'orga nizzazione gentilizia e le numerose clientele , siano in
condizione tale da offrire un contingente poderoso alla crescente popolazione
romana. Allora anche Roma deve venire a patti, in quanto che genti nume rose e
potenti difficilmente si disporrebbero ad abbandonare la pro pria sede
gentilizia, quando non fossero accolte nell'ordine patrizio , mediante la
cooptatio , e quando non potessero ottenere, che i loro capi entrassero nel
senato, e i gentili, che entrano a costituirle , non fossero ammessi a far
parte delle curie . Quanto a quest'ul time, non occorre dimutare l'ordinamento
primitivo della costituzione romana, nè di aumentarne il numero, poichè, non
essendo determinato il numero dei componenti ciascuna curia , le curie
costituiscono dei quadri, che possono anche accogliere gli elementi, che si
vengono aggiungendo. Cosi non è invece del senato ; la consuetudine latina
vorrebbe che il medesimo fosse limitato al numero di cento , e tale esso fu
veramente nelle origini, secondo la tradizione, e lo fu anche più tardi nei
municipii e nelle colonie : ma, una volta completato questo numero, sarebbe
stato necessario arrestarsi, salvo di appigliarsi al partito di aggiungere un
determinato numero disenatori, ogniqual volta si avverasse in una sola volta
una considerevole aggregazione di genti patrizie . Tuttavia non è nel costume
dei romani di abbandonare senz'altro il numero prefisso , poichè tutto ciò, che
viene daimaggiori, è sacro per essi. Quindi, siccome Roma risulta in certo modo
dalla confederazione di un triplice elemento : così il senato potè essere
portato fino a trecento, il qual numero aveva anche il vantaggio di essere in
esatta correlazione con quello delle curie, e di non contrastare cosi colla
composizione simmetrica della città . 210. Come e quando siasi fatta
quest'aggiunta , non è bene atte stato . Alcuni, ritenendo che Roma avesse
successivamente incorpo rato nelle sue curie le tre tribù primitive, direbbero
, che i primi cento senatori furono tolti dalle tribù dei Ramnenses, gli altri,
che 256 vengono dopo, dai Titienses , e gli altri infine dai Luceres : la cui
aggregazione sarebbe accaduta sotto Tarquinio Prisco , al quale ap punto si
attribuisce di aver portato a trecento il numero dei sena tori (1). Questa
spiegazione sarebbe abbastanza verosimile , allorchè non fosse contraddetta
dalla tradizione , che fa rimontare fino al regno di Romolo la federazione
delle tre primitive tribù. Di più se veramente quest'aumento si fosse fatto ,
allorchè una nuova tribù veniva aggregata , non si comprenderebbe come potesse
parlarsi di Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi; la quale distin
zione appare essere stata introdotta nelle centurie dei cavalieri, il cui
aumento sembra, quanto alle epoche, in cui è seguito, corrispondere all'aumento
nel numero dei senatori. Di qui deriva la conseguenza , che la spiegazione più
verosimile del processo , che è stato seguito in questo argomento, sia quella
stessa , che ci viene additata dalla tradi zione. Le tre piccole tribù, che
costituirono Roma primitiva , non potevano essere tali da offrire il numero di
trecento senatori, e Livio ci dice appunto , che il numero del senato primitivo
fu di cento , per chè Romolo non ne trovò un numero maggiore che fosse degno di
sedere nel senato (2). Ma intanto, dopo la primitiva costituzione romulea, che
sarebbesi avverata in seguito alla federazione delle tribù dei Titienses, sono
due sopratutto gli avvenimenti, che, du rante il periodo della città esclusivamente
patrizia , contribuirono ad un forte aumento del patriziato romano. 211. Il
primo di questi avvenimenti consiste nella sconfitta di Alba, in seguito al
combattimento degli Orazii e dei Curiazii, il quale, come ho già notato
altrove, più che una vera e propria scon fitta , deve piuttosto essere
considerato comeuna specie diduello giu diziario , a cui si rimisero i due
popoli fratelli per sapere quale delle due città dovesse essere centro della
vita pubblica per le po polazioni, che ne dipendevano (3). In quella
circostanza infatti la (1) Tale è l'opinione sostenuta dal WILLEMS, Le Sénat de
la république romaine, Paris, 1878 , I, pag. 21 e segg.; dal Bloch, Les
origines du Sénat romain , Paris, 1883, pag. 43 e 55 ; i quali pure accennano
alle diverse opinioni professate in proposito. (2) Liv., I, 8. È però a
notarsi, che Livio farebbe rimontare la composizione del senato per opera di
Romolo, ad un'epoca anteriore all'aggregazione coi Sabini, mentre parla invece
della formazione delle trenta curie, come avvenuta posteriormente. In ciò è
però contraddetto da CICERONE, che accenna alla formazione del senato, dopo la
federazione coi Sabini. De Rep., II, 8 . (3 ) V. sopra , lib . I, Cap. VIII, nº
144. 257 tradizione narra , che la parte povera della popolazione latina entrò
a far parte della plebe, ed ottenne delle concessioni di terre. Quanto alle
genti patrizie, noi sappiamo, che uno dei patti era quello, che esse dovessero
venir accolte nel patriziato romano, e noi sappiamo in effetto , che così
accadde. Ora l'effetto naturale di questa coo ptatio era , che i capi di queste
genti dovessero essere ammessi nel senato , il che non avrebbe potuto essere
fatto , senza aumentare il numero dei senatori. Se quindi ci mancassero anche
le testimo nianze di un tale aumento in questa occasione, non sarebbe invero
simile il supporlo ; sonvi invece degli storici, i quali, senza accennare
espressamente alle proporzioni di tale aumento , attestano però che esso
dovette aver luogo . Così, ad esempio, Livio attribuisce a Tullo Ostilio di
aver duplicato il numero dei cittadini; di aver accolto nei patres i principali
cittadini d'Alba ; di aver costrutto in quell'occa sione la curia Ostilia ; e
di aver aggiunto dieci torme di cavalieri, acciò a ciascun ordine si recasse un
contributo dal nuovo popolo . Così pure Dionisio parla di un aumento fatto nel
patriziato e nel senato all'epoca di Tullo , in occasione della distruzione di
Alba, seb bene poi non accenni le proporzioni dell'aumento (1). Il numero tut
tavia si può argomentare da ciò, che entrambi affermano più tardi, che
Tarquinio Prisco elesse altri cento senatori, e ne portò così il numero a
trecento , il qual numero non avrebbe potuto essere raggiunto, se nel frattempo
e precisamente all'epoca di Tullo Ostilio non si fossero aggiunti gli altri
cento (2). Alcuni, e fra gli altri il Pantaleoni, vor rebbero , che il secondo
centinaio si fosse aggiunto coll'aggregarsi della tribù Tiziense ; ma ciò non
può essere ammesso , in quanto che l'ordinamento politico della città , per opera
di Romolo , era già se guito dopo l'aggregazione di questa tribù , come lo
dimostra la tra dizione, che le trenta curie avrebbero perfino ricevuto il loro
nome dalle donne sabine ; inoltre , cid ammettendo, rimarrebbe inesplicato
quell'aumento, che certo ebbe a verificarsi sotto Tullo Ostilio (3 ). 212.
Quanto all'ultimo aumento , la tradizione e concorde nell'attri ( 1) LIV., I,
30 ; Dion., III, 29. ( 2) Liv., I, 35 dice di Tarquinio Prisco « centum in
patres legit » ; e Dion., III, 62: « Et tunc primum populus tercentos senatores
habuit, qui ducentos tantum ad eam usque diem fuerant » . ( 3) PANTALEONI,
Storia civile e costituzionale di Roma. Appendice III, pag . 645 a 672. G.
CARLE, Le origini dil diritto di Roma. 17 258 buirlo a Tarquinio Prisco; ma vi
ha divergenza nel modo, in cui sa rebbesi operato . Cicerone dice, che egli
avrebbe duplicato il numero dei senatori, e portatolo cosi a trecento, il che
farebbe supporre, che anteriormente fossero soli cento cinquanta , il qual
numero non può essere ammesso, perchè non risponde ai numeri comunemente
seguiti dai Romani, e dai quali non solevano scostarsi. Resta quindi la testi
monianza concorde di Dionisio e di Livio, che l'aumento da lui fatto sia stato
di cento senatori. Questi nuovi senatori, alcuni vogliono che fos sero delle
genti Albane : ma è ovvio l'osservare, che non può essere probabile, che genti,
entrate nella comunanza fin dall'epoca di Tullo Ostilio , siano rimaste tutto
questo tempo senza rappresentanti nel se nato . Altri invece, come il Pantaleoni,
sostengono che i nuovi senatori aggiunti fossero tratti dalla tribù dei
Luceres, i quali, a suo avviso , deriverebbero il proprio nome da Lucer , che
in Etrusco corrisponde rebbe a Lucius (1) ; ma contro quest'opinione vi ha
sempre la consi derazione, che se questi entravano per la prima volta nella
comunanza romana, non poteva esservi motivo, perchè le nuove centurie di equi
tes , ricarate da essi, si chiamassero Luceres posteriores o secundi. Ciò
indica , che dovevano esservi i Luceres primi, i quali erano en trati prima
nella comunanza ; il qual fatto potrebbe forse essere spie gato colla
tradizione, serbataci da Varrone, secondo cui Romolo in guerra coi Sabini
avrebbe avuto soccorso dai Lucumoni Etruschi, uno dei quali (forse Celes
Vibenna, che dette nome al Celio, già compreso nell'antico Septimontium )
avrebbe anche preso parte alla confede razione, che segui allora fra i due
popoli, sebbene le sue genti siano state forse collocate in condizione
inferiore (2). Bensi è probabile, che le genti, da cui si trassero i nuovi
senatori, potessero essere altre genti, pure di origine Etrusca , come i
Luceres primi, le quali fossero venute a Roma al seguito di Tarquinio e della
sua gente: il che spiega molto meglio , che non la leggenda di Tanaquilla , comemaiTarquinio
, appena giunto a Roma, abbia potuto avere un seguito e un appoggio così forte
nella popolazione romana, da aspirare e da ottenere colle ( 1) PANTALEONI, op.
cit., pag . 660. (2 ) L'opinione di VARRONE a questo proposito è ricordata da
SERvio , in Aen ., V , ove scrive: « nam constat tres fuisse partes populi
Romani. Varro tamen dicit, Romulum dimicantem contra Titum Tatium , a
Lucumonibus, id est Tuscis, auxilia postulasse; unde quidam venit cum exercitu
; cui, recepto iam Tatio, pars urbis data est » . Del resto anche Livio , I,
13, fa rimontare a Romolo l'aggregazione dei Lu ceres primi, solo mettendo in
dubbio la loro origine. 259 forme tradizionali la dignità regia . Egli tuttavia
non potè passar sopra almetodo essenzialmente romano, che è quello di porre
come primi quelli , che veramente sono tali, e quindi dovette collocare i nuovi
senatori nel novero dei patres minorum gentium ; quest'appellazione tuttavia
non sembra tanto indicare la minor dignità delle medesime, quanto il loro
essere entrati più tardi a far parte della comunanza . È questo il motivo, per
cui dovevano essere chiamati gli ultimi a dare il proprio avviso ; al modo
stesso , che anche più tardi nei co mizii centuriati erano chiamati primi a
dare il loro suffragio i se niores, ossia i maiores natu , e soltanto dopo
venivano i iuniores, che erano i minores natu . Cid dimostra, che, trattandosi
di un processo costantemente seguito, non può ricavarsene indizio di minor
dignità di questi senatori, ma solo della costanza romana in appli care il
principio : « prior in tempore, potior in iure » . 213. Le genti insomma, che,
a nostro avviso , si vennero ag giungendo , escono da quelle stirpi, a cui
appartenevano le tribù, la cui confederazione primitiva aveva dato origine alla
città dei quiriti, e per tal modo si spiega come esse abbiano potuto esservi
attirate dalle aderenze e parentele , che già potevano avere in Roma, e come,
offrendosi ad entrare nella nuova città, abbiano po tuto esservi accolte. A
misura però, che esse erano conglobate, do vevano pure avere una rappresentanza
nel senato, e così il numero di questo venne ad essere portato a trecento ; il
quale , essendo in correlazione con quello delle curie , non ebbe ad essere più
superato fino all'epoca dei dittatori, che prepararono l'Impero. D'altronde le
occasioni di aumento vennero mancando dappoi: perché quando la città patrizia
ha riempiuto il vuoto dei suoi quadri, essa comincia a rinchiudersi in sè
stessa , e a vece di farsi grande, mediante le federazioni e le cooptazioni, si
propone invece di affermare la pro pria superiorità sugli altri popoli, e di
associare la comunanza ple bea, di cui trovasi circondata , all'avvenire della
sua città . Bene è vero , che si verifica ancora più tardi la cooptazione della
gente Claudia : ma essa avverasi, quando erano troppi i vuoti nel senato ,
perchè bisognasse aumentarne il numero , e poi trattavasi di una gente soltanto
, la quale, per quanto numerosa , non poteva occupare tanti seggi nel senato,
da richiedere un aumento nel numero. La spiegazione, che mi son fatto lecito di
proporre, quanto ai suc cessivi incrementi nel numero dei senatori, parmi, fra
le moltissime che si posero innanzi , che si concilii più facilmente colla
tradi 260 zione e col processo eminentemente romano di far procedere di pari
passo gli aumenti, chesi introducono nel senato, con quelli dell'or dine dei
cavalieri e di tutti gli ordini della popolazione; non poten dosi negare, che
nel concetto primitivo della città tutte le parti di essa debbono essere
simmetriche, proporzionate e coerenti fra di loro . La medesima intanto ci
prepara anche la via a risolvere la questione, intorno alla composizione del
senato nel periodo regio. 214. Gli storici, al modo stesso che parlano talvolta
dei comizii curiati, come se essi abbracciassero l'intiero popolo , il quale
all'e poca, in cui essi scrivevano, comprendeva anche la plebe, così sem brano
talvolta accennare a nomine, che i re avrebbero fatte di se natori, che non
sarebbero stati tolti dalle genti patrizie ; e cid fra gli altri attribuiscono
allo stesso Tarquinio Prisco. Un tale fatto sembra anzitutto essere smentito
dalla circostanza, che anche questi nuovi senatori sono chiamati patres minorum
gentium , denomina zione, che poteva solo accomodarsi all'ordine patrizio, il quale
consi derava come un suo privilegio la gentilità . A ciò si aggiunge, che in
quest'epoca la distanza era ancora troppo grande fra i due ordini, perchè
deimembridella plebe potessero essere ammessi nell'ordine più elevato della
cittadinanza romana, tanto più se i plebei, come dimo strerò a suo tempo, non
erano ancora ammessi a far parte delle curie . Ritengo quindi in proposito ,
che l'opinione più probabile e più conforme al processo solitamente seguito
nello svolgimento politico di Roma, ove i cambiamenti, più che da arbitrio di
uomini, sogliono derivare dal processo naturale delle cose, sia quella , che
l'ammessione della plebe al senato dovette essere una naturale conseguenza del
l'ammessione di essa a far parte del populus delle classi e delle centurie ;
poichè, modificandosi la composizione di uno degli organi essenziali della
costituzione, che erano i comizii, anche il senato dovette subire un'analoga
trasformazione (1 ). Più tardi poi, allorchè (1 ) Il WILLEMS, nella sua opera :
Le Sénat de la République romaine, I, 19, 28 e poi anche nel Droit public
romain , pag . 46, sostiene invece che i plebei non sareb bero stati ammessi
nel senato, che a misura che furono ammessi alle magistrature ed agli onori.
Tale opinione trovasi in contraddizione col fatto, che gli storici attri
buiscono a Giunio Bruto od a P. Valerio di aver colmato i vuoti lasciati nel
senato da Tarquinio il Superbo, mediante persone tolte dalla plebe più ricca ed
agiata (ex primoribus equestris gradus); la qual tradizione ha nulla di ripugnante,
perchè il cambiamento nella composizione del popolo richiedeva una
modificazione correlativa - - 261 - i senatori cessarono in realtà di essere
nominati esclusivamente fra i patres delle antiche gentes , ma furono scelti
fra i magistrati, uscenti di ufficio : ne consegui per una naturale evoluzione
di cose, che anche i plebei, che un tempo non avrebbero potuto esservi am messi
per nascita , poterono esservi ammessi per la dignità, che avevano coperto .
Probabilmente fu poi in questo secondo periodo, e in conse guenza di questa
trasformazione, per cui la dignità e gli onori con seguiti cominciano a tener
luogo della nascita, che i capi delle grandi famiglie plebee, che erano già
pervenute al ius imaginum , e ave vano così imitata l'organizzazione gentilizia,
poterono perfino entrare a far parte delle curie ; le quali, se avevano perduta
ogni loro im portanza politica, continuavano però sempre ad avere una impor
tanza grande sotto l'aspetto religioso e sacerdotale, sopratutto per coloro,
che già eguali in influenza e in ricchezza al patriziato pri mitivo, potevano
desiderare di apparire loro eguali , anche nella no biltà di origine. § 6. – I
comizii curiati e la populi potestas. 215. Anche i comizii curiati, che furono
l'unica assemblea del popolo romano, finchè durò la città esclusivamente
patrizia , appa riscono vigorosamente tratteggiati nella costituzione primitiva
di Roma. Per quanto i medesimi abbiano poscia perduto della propria importanza
e siansi ridotti ad un'assemblea di carattere gentilizio e sacerdotale , che
può quasi considerarsi come una sopravvivenza dell'antico ordine di cose ; ciò
però non toglie, che essi siano stati il modello, sovra cui più tardi si
vennero foggiando tutte le altre assemblee del popolo romano. Fu quindi solo
più tardi, allorchè si videro privati di ogni importanza politica e militare,
che essi si circo scrissero a funzioni meramente gentilizie e sacerdotali:
manel loro comparire essi hanno un carattere religioso , militare e politico ad
anche nel senato; ed anche perchè in tal modo il patriziato sottraeva alla
plebe i capi delle più potenti ed agiate famiglie. La questione della
composizione del senato all'epoca regia fu dottamente trattata dal Lattes nelle
Memorie dell'Istituto Lom bardo di scienze e lettere, vol. XI, Milano, 1870, il
quale inclina a credere che il numero primitivo fosse quello di 300 , come
quello, che corrispondeva già al numero delle 30 curie. È poi degno di nota ,
che egli attribuirebbe anche al senato primitivo un carattere militare. 262 un
tempo ( 1). Essi, nella costituzione politica della città , corrispondono
all'assemblea patriarcale della tribù, che accorre al cenno del proprio capo ,
per accordarsi con esso intorno alle cose , che possono interes sare la
comunanza . In questo però le curie già differiscono da quella , che non
comprendono tutta la popolazione delle varie tribù, ma solo la parte eletta
della medesima, ossia coloro, che col braccio o col consiglio possono giovare
alla cosa pubblica. Esse quindi hanno per iscopo di far partecipare, sopra un
piede di uguaglianza , alla vita pubblica le varie tribù , la cui
confederazione è concorsa a formare le città (2 ). 216. I membri delle curie,
come tali, chiamansi quirites, e sono noti i dubbii intorno all'origine di
questa denominazione. Sonvi coloro, che fanno discendere il vocabolo da quiris,
asta , che sa rebbe stata l'arma del quirite, il simbolo del potere al medesimo
spettante ; nè l'etimologia può dirsi inverosimile , quando si consideri, che
nei carmi saliari il popolo ramnense è chiamato populus pi lumnus, ossia il
popolo del pilo, e viene così ad essere qualificato anch'esso dall'arma, che lo
contraddistingue (3). Altri invece, fra i (1) Il carattere non solo politico,
ma anche essenzialmente militare dei comitia curiata , è stato posto in
evidenza sopratutto dal IHERING , L'esprit du droit romain , $ 20. Esso è poi
provato dal seguente passo di Livo, V , 32 : « comitia curiata , qui rem
militarem continent » , e da un altro di Cicerone, De lege agraria , II, 12,
30, ove è detto, che il console, finchè non abbia ottenuta la legge curiata ,
non può as sumere il comando militare (rem militarem attingere non licet). È
però notabile, che il carattere militare di quest'assemblea, che dapprima fu il
più accentuato, come lo indica il nome stesso di quirites, e l'asta di cui
erano armati, fu anche il primo ad essere perduto coll' introduzione dei
comizii centuriati, che assunsero di preferenza questo carattere militare :
poscia i comizii curiati vennero perdendo anche il carattere politico, allorchè
la lex curiata de imperio fu ridotta ad una semplice formalità e la patrum
auctoritas fu tolta di mezzo dalla lex Hortensia o dalla lex Moenia . Il carat
tere invece, che sopravvisse più a lungo nelle curie, fu il carattere religioso
e sacer dotale, in quanto che fu in esse, che si mantennero gli auspicia , come
lo dimostra la nomina dell'interrex , la quale viene ad essere loro affidata ,
in quanto i patres o pa tricii delle curie sono i soli depositarii dei
primitivi auspicia , e sono le curie, che presiedute dal pontefice, continuano
ad avere la custodia dei culti gentilizii e fa migliari. Ciò spiega, come anche
nell'età moderna, il vocabolo curia sia sopravissuto con una significazione
pressochè sacerdotale. (2) Cfr. il Bouché-LECLERCQ, Manueldes institutions
romaines, Paris, 1886 , pag. 6 e 7 , e il BourgeaUD , Le plébiscite en Grèce et
en Rome, Paris, 1887, pag . 39. ( 3) Cfr. PANTALEONI, Storia civile e
costituzionale di Roma. Appendice II, pag . 617. 263 quali, il Niebhur,
vogliono che fossero così chiamati da Curium o da Quirium , città sabina, e che
avessero ricevuto un tal nome, allorchè ai Ramnenses si unirono per
confederazione i Titienses (populus romanus et quiritium ) (1); la quale
opinione non pare si possa ac cogliere per il modo diverso , con cui sarebbero
indicati idue popoli insieme uniti, ed anche perchè il vocabolo di quirites,
più che l'origine, sembra indicare l'ufficio , il compito , a cui essi sono
chia mati di fronte alla città , poichè il nome loro nei rapporti esteriori continua
sempre ad essere quello di Romani. Altri infine, come il Lange, fanno provenire
il vocabolo da ciò , che essi facevano parte delle curiae, cosicchè quiriti
significherebbe per essi gli uomini delle curie (2). È perd facile il vedere,
che il vocabolo quirite, derivi da quiris o da curia , esprime pur sempre il
medesimo concetto , poichè è la lancia , che è il simbolo del potere di chi
appartiene alle curie, e sono i portatori di lancia , che sono i membri delle
curie . I quiriti quindi in ogni caso son chiamati tali , in quanto hanno
partecipazione effettiva al governo della cosa pubblica , mentre nei rapporti
esterni continuano ad essere Romani; cosicchè anche questa distinzione sembra
corrispondere, sotto un certo aspetto , a quella indicata coi vocaboli domi,
militiaeque. 217. I comisii poi sono la riunione solenne dei quiriti, allorchè
sono chiamati ad esercitare il loro sovrano potere. Finchè trattasi di semplici
notificazioni, che il re o i suoi delegati debbono fare al popolo, o di
discussioni intorno a qualche proposta di legge ba stano le semplici contiones.
In queste possono anche sentirsi gli oratori in pro e in contro ; intervenire i
patres , quali moderatori del populus ; e tenersi anche orazioni (conciones),
le quali, senza essere precisamente quelle da Dionisio e Livio attribuite ai
personaggi della loro storia , dovettero però essere ispirate alle circostanze
, in ( 1) NIEBAUR , Histoire romaine, I, 407. Questa opinione fu poi seguita
dal WALTER e da molti altri autori. Nella inedesima però vi ha questo di vero ,
che il vocabolo di Quirites fu assunto dopo la confederazione coi Sabini, il
che ci è attestato espres samente da Festo. Vº Quirites : « Quirites autem ,
dicti post foedus a Romulo et Tatio percussum , comunionem et societatem populi
factam indicant » . ( 2) LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 29. Inering
, L'esprit du droit ro main , 1, $ 20, pag . 20. Secondo il Lange, il vocabolo
quirites non è però da con fondersi con quello di curialis; poichè quelli sono
gli uoniini delle curie in genere, mentre questo è colui, che appartiene ad una
determinata curia . 264 cui venivano pronunziate. Allorchè invece sono
convocati i comizii, tutti questi preliminari già sono compiuti, e il popolo,
ordinato a guisa di un esercito, si avvia unito al luogo della riunione, donde
il vocabolo di comitium (1 ). Quasi si direbbe, che nelle pubbliche de
liberazioni il popolo romano primitivo osservi un processo analogo a quello da
lui seguito nelle sue transazioni private. Finché trattasi di mettersi di
accordo, è lecito discutere e può anche adoperarsi quel dolus bonus, che mira a
porre sotto l'aspetto più favorevole la transazione proposta ; ma allorchè il
periodo delle trattative è finito , più non occorre che una interrogazione ed
una risposta , so lenni, ed allora : « quod lingua nuncupassit, ita ius esto »
. È in questo senso soltanto , che deve essere inteso, ciò che attestano gli
storici, che nei comizii, il popolo non poteva nè discutere, nè di videre o
modificare le proposte fattegli, ma solo accettare o respin gere il candidato
propostogli o la legge, oppure condannare od as solvere. Già nelle adunanze
anteriori erano seguite le discussioni, e queste ripetute nei comizii avrebbero
impedito quella solennità e quel silenzio , che ritenevansi indispensabili
nelle deliberazioni, che ri guardavano l'interesse pubblico, e che avevano per
i Romani primitivi alcunché di religioso e di sacro ( 2 ). 218. I comizii
pertanto erano preceduti dagli auspizii, per cono scere se la volontà divina si
palesasse favorevole , o non alla delibera zione, che si stava per prendere ;
si radunavano in un luogo con sacrato, che chiamavasi templum ; e si tenevano
in certi giorni, che i riti ritenevano adatti alle pubbliche deliberazioni, i
quali perciò chiamavansi dies comitiales. (1) Quanto alla distinzione fra
comitium e contio , vedi il KARLOWA, Röm . R. G. I, pag. 49. È però a notarsi,
che anche la contio non è una riunione qualsiasi del popolo, ma suppone
anch'essa una convocazione del magistrato, il che appare dal seguente passo di
Paolo Diacono : « Contio significat conventum ; non tamen alium , quam eum ,
qui a magistratu vel a sacerdote publico per praeconem convocatur » . Ciò pur
conferma Liv., 39, 15 . (2 ) Combatto qui l'opinione universalmente seguìta
dagli autori, specialmente ger manici (v . fra i recenti Karlowa, Röm . R.G.,
pag . 52), che riduce i c omizii ad una funzione puramente passiva nella
formazione delle leggi, in quanto che la medesima, a mio avviso, altera il
carattere del populus primitivo ; il quale, composto di capi di famiglia e di
persone esperte negli auspicii e ricchedi tradizioni, poteva benissimo anche
prender parte viva alla discussione delle leggi, come dimostrerò più larga
mente nel capitolo III, § 2º, discorrendo della lex, e nel capitolo IV, § 1º,
parlando delle leges regiae. - 265 Il modo poi, in cui doveva essere proposta
la deliberazione, di mostra fino all'evidenza, come il magistrato fosse
consapevole del potere, che apparteneva al popolo, e come questo conoscesse
l'impor tanza del proprio uffizio . Da una parte eravi il re o magistrato, che,
dopo aver premessa la formola : quod bonum felis , etc., invitava il popolo
(rogabat) ad esprimere il proprio volere (iussus populi ) sulla proposta
fattagli colla formola : velitis, iubeatis, quirites ; e dall'altra vi erano i
membri delle curie , che rispondevano affermando (uti rogas), o negando
(antiquo). Quanto al processo, che seguivasi nella votazione, già appare nelle
assemblee curiate quel sistema, che ebbe poi ad essere mantenuto negli altri
comizii. I singoli quiriti votano viritim nella propria curia, e in questa
prevale il voto della maggioranza, ma intanto la decisione definitiva dipende
dal voto complessivo delle curie ; nel che abbiamo un indizio del vincolo
potente, che stringeva l'indi viduo alla corporazione, di cui faceva parte, in
quanto che non era il voto degli individui, che prevaleva , ma quello dei
gruppi, a cui appartenevano. Cid da una parte è un concetto trapiantato dalla
stessa organizzazione gentilizia , in cui non si può comprendere l'in dividuo,
che aggregandolo ad un gruppo ; ma dall'altra dovette anche condurre alla
disciplina del voto . I membri delle curie non atomi vaganti, ma parti vive di
un organismo, senza del quale sa rebbero ridotti all'impotenza ; disciplina
questa , che ebbe pure ad essere mantenuta più tardinei comizii centuriati, ed
anche nei tri buti, salvo che alla curia si sostituirono la centuria , e la
tribů . Intanto anche nella votazione appare il carattere religioso e per fino
superstizioso del romano primitivo, che da qualsiasi avvenimento suole trarre
un pronostico, in quanto che il voto della prima curia si ritiene come un
augurio (omen ) ; donde la denominazione di curia principium , che viene ad
essere imitata anche negli altri comizii, e che è conservata nell'intitolazione
stessa delle delibera zioni comiziali . sono 219. Sopratutto poi importa
determinare, quali fossero le funzioni affidate ai comizii curiati ; il che
riesce assai difficile, in quanto che anche il potere dell'assemblea popolare
presentasi dapprima piuttosto abbozzato, che non compiutamente formato .
Secondo Dio nisio , il quale talora si sforza a precisare i contornidelle
istituzioni primitive di Roma, sarebbe già l'assemblea delle curie, che, me
diante una lex de bello indicendo, avrebbe deciso della pace o della 266 guerra
; sarebbe essa , che conferirebbe la cittadinanza non ad indi vidui, ma ad
intiere popolazioni o gentes , mediante la cooptatio ; sarebbe essa parimenti,
che voterebbe le leggi, e nominerebbe il magistrato supremo (1). Che se invece
si tiene conto dei fatti, dei quali ci pervenne notizia , ben poche sarebbero
state le occasioni, in cui l'assemblea delle curie avrebbe esercitato queste
funzioni. Cid vuol dire, che anche il potere dei comizii curiati non dovette
dap prima essere determinato da una costituzione scritta ; ma deve ri guardarsi
come un potere in via di formazione, che poi si svolgerà, a seconda delle
occasioni e degli avvenimenti, mantenendosi perd sempre fedele al proprio
concetto informatore. Esso tuttavia, come si vedrà più sotto (2 ), già contiene
in germe tutti quei poteri, che l'assemblea del popolo acquisterà colle altre
forme di comizii. È esso infatti, che nomina il Re e si ha così il germe del
potere elettorale ; è esso che, secondo la tradizione, sanziona le leges re
giae, e si ha così l'inizio del suo potere legislativo ; è esso infine, che già
avrebbe avuto l'occasione di esercitare una specie di giu risdizione criminale,
come lo dimostra la provocatio ad populum , che si fa rimontare all'epoca dei
primi re, e si sarebbe dispiegata , secondo la tradizione, nel fatto
dell'Orazio , uccisore della propria sorella . 220. Sopratutto poi è notabile
nei comizii coriati uno speciale ca rattere, che, a parer mio, è la prova più
evidente del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla comunanza civile e
politica, e che non parmi siasi tenuto in conto sufficiente dagli autori.
Questo ca rattere consiste nella doppia competenza della assemblea delle curie
; la quale , sotto un certo aspetto , è ancora sempre una riunione di ca
rattere gentilizio, e coll'intervento dei pontefici provvede alla con
servazione delle genti e delle famiglie , e del loro culto , e sotto un altro
aspetto è una riunione di carattere eminentemente politico. Quasi si direbbe,
che il quirite, al pari di Giano, protettore della città , deve avere lo
sguardo rivolto in due opposte direzioni: da una parte egli è ancora un
rappresentante della gente e della tribù , ( 1) DION ., 2, 14 , scrive in
proposito : « populo vero haec tria concessit,magistratus creare, leges
sancire, et de bello decernere, quando rex rogationem ad eum tulisset » . (2)
Rimando la prova di ciò al capitolo seguente, ove si considera la costituzione
primitiva di Roma nelle sue principali funzioni. 267 da cui discende, e come
tale è ancora strettamente vincolato al l'organizzazione gentilizia , e deve
curare che il culto di essa non venga ad interrompersi, e che il suo patrimonio
non sia disperso ; dall'altra invece è membro del populus, e come tale deve
obbe dire ai cenni del magistrato, e deve aver presente sopratutto il pubblico
interesse, in quanto che « salus populi suprema lex esto » . Questa doppia
qualità del quirite si appalesa nell'indole diversa delle riunioni, di cui esso
è chiamato a far parte. Accanto ai veri comizii, convocati dal magistrato, per
mezzo dei littori, e in cui si votano le cose attinenti al pubblico interesse ,
sonvi i comitia ca lata , convocati dal pontifex maximus, per mezzo dei suoi
calatores, nei quali si compiono quegli atti, che possono toccare in qualche
modo l'organizzazione gentilizia . Nei primi si votano le leggi; si deliberano
le guerre e le paci; si nomina il magistrato ; si assolvono o condannano coloro
, che appellarono al popolo . Nei secondi invece, che rivestono di preferenza
un carattere religioso , i quiriti si ra dunano, in quanto hanno un culto, a
cui debbono provvedere. È quindi in essi, che compiesi l'inauguratio regis, ed
anche quella dei flamines ; come pure è in essi, che si compiono quegli atti,
che possono alterare in qualche modo l'organizzazione gentilizia , e com
promettere l'avvenire del culto. È perciò in questa specie di co mizii, che
deve essere approvata l'adrogatio di una persona sui iuris, come quella che ha
per effetto di fare entrare un capo di famiglia sotto la podestà di un altro;
il che significa sopprimere una famiglia e il suo culto , per continuare invece
un'altra famiglia e il culto della medesima. È in essi parimenti, che ha luogo
la detestatio sacrorum , che è la rinuncia al proprio culto gentilizio , per
causa di adrogatio o di transitio ad plebem ; come pure è ivi, che segue la
cooptatio di una gens nell'ordine patrizio : cooptativ, che si opera per
l'intiero gruppo, e non per i singoli individui, che entrano a costituirla . È
in essi infine, che deve seguire quel testamen tum , che vien detto appunto in
calatis comitiis ; il quale , secondo il concetto delle genti patrizie,
costituiva materia di diritto pubblico, come quello , che alterava le norme
relative alla successione genti lizia , e quelle riferentisi alla trasmessione
dei sacra . Cid è provato dal fatto , attestatoci da Cicerone, che il ius
pontificium , nell'intento d'impedire l'interruzione dei sacra, fini per porre
i medesimi a ca rico di coloro, che avevano gli utili dell'eredità ; donde
l'espressione popolare , che occorre soventi nei comici latini, di haereditas
sine - 268 sacris , per significare un vantaggio conseguito senza i pesi
inerenti al medesimo (1). 221. Intanto questo speciale punto di vista , sotto
cui debbono , a parer mio, essere considerati i comitia calata , ci spiega quel
carattere singolare e pressochè contraddittorio del diritto primitivo di Roma,
il quale, mentre da una parte dà al quirite il più illi mitato arbitrio di
disporre delle proprie cose per testamento ; dal l'altra vuole, che i
testamenti, le adrogationes e simili atti, che pur riguardano interessi
privati, siano compiuti in cospetto dell'intiero popolo , e li ritiene come
relativi ad argomenti di diritto pubblico . Gli autori vollero spiegare la cosa
con dire, che in Roma primitiva tutti questi atti costituivano altrettante
leges publicae, e che, come tali, dovevano essere fatti in cospetto e
coll'approvazione del po polo . Riterrei invece, che in questa istituzione dei
comitia calata si debba ravvisare, se mi si consenta l'espressione, il rudere
meglio conservato, che dall'organizzazione gentilizia sia stato trasportato
nella costituzione primitiva di Roma. Si è veduto a suo tempo, che il grande
intento dell'organizzazione gentilizia era quello di perpe tuare le famiglie e
il loro culto , e di impedire la dispersione dei patrimoni; donde la
conseguenza , che il testamentum e l'adrogatio dovevano farsi coll'approvazione
dell'assemblea della gente o della tribù (2 ). Or bene così continuò ancora ad
essere, finchè la città fu esclusivamente patrizia : quindi questi atti
continuarono ad essere fatti coll'approvazione delle curie, e di quei collegi
sacerdotali, che erano incaricati di serbare integri non solo i sacra publica ,
ma ancora i sacra privata . Quindi conviene ammettere, che le curie non
prestassero soltanto la loro testimonianza a questi atti, ma fossero chiamate a
darvi la loro approvazione, dopo aver sentito l'avviso dei pontefici; il che
viene ad essere provato dalla formola , conserva taci da Aulo Gellio,
relativamente all'adrogatio (3 ). Una volta poi, (1) La teoria dei comitia
calata ci fu conservata sopratutto da Aulo Gellio , Noc. Att.. XV, 28 e 3, il
quale dice di averla ricavata da un'opera di Laelius Felix. Quanto alla
ripartizione dei sacra , in proporzione della sostanza ricevuta dagli eredi, è
attestata da CICERONE, De legibus, II, 19, SS 47, 49. ( 2) Vedi libro I, cap.
IV , $ 4 , nº. 61 a 65. (3 ) Aulo Gellio , Noc. Att., V , 19. Ivi si dice che a
adrogatio per rogationem populi fit » , ed è riportata la formola , che è
quella della vera e propria legge, in quanto che comincia colle parole velitis
, iubeatis, quirites » e termina coll'espres. sione « Haec ita, uti dixi, ita
vos, quirites, rogo » . 269 che una istituzione di questa natura sia penetrata
nella primitiva costituzione romana, noi oramai conosciamo abbastanza il
tempera mento del popolo romano per poter affermare, che esso non l'abban
donerà così presto . Si comprende pertanto, che quando si introdussero i
comizii centuriati, anche questi, secondo la testimonianza di Gellio, abbiano
avuti i proprii comizii calati, salvo che nei medesimiil po polo, radunato due
volte all'anno, più non dovette approvare il te stamento , ma solo prestare la
propria testimonianza . Ciò è dimostrato dal fatto , che il testamento in
calatis comitiis potè poi essere surro gato da quello per aes et libram , in
cui i quiriti sono chiamati non per approvare, ma solo per testimoniare
(testimonium mihi perhi bitote). Intanto però , anche quando l'adrogatio e il
testamentum furono atti di carattere intieramente privato, rimane però sempre
la traccia dell'antico stato di cose nel concetto , ricordatoci da Papiniano,
secondo cui la testamenti factio pubblici iuris est (1). A questo riguardo poi,
è ancora degno di nota , che quando l'as semblea delle curie fini per perdere
ogni importanza politica e mi litare, e si ridusse ad essere una riunione di
trenta littori, presie duta dai pontefici, serbò però ancora sempre e forse
esagero perfino questa competenza , per ciò che si riferisce agli atti, che
riguardano l'organizzazione gentilizia , e sopratutto , quanto all'adrogatio.
Questa fu praticata ancora, davanti alle curie, dagli imperatori Augusto e
Claudio , i quali, non avendo dimenticata la loro antica origine dalle genti
patrizie, seguirono le forme tradizionali nella arrogazione di Tiberio e di
Nerone. Cosi le primitive istituzioni vengono anche esse perdendosi a poco a
poco in Roma,ma ne rimane ancora sempre un'eco lontana. Resterebbe qui ad
esaminarsi la questione fondamentale se la plebe sia stata ammessa a far parte
della assemblea delle curie ; ma ( 1) Papin., L. 4 , Dig. (28, 1). La
conclusione sarebbe questa , che il carattere di lex del testamento primitivo è
una reliquia dell'antica organizzazione gentilizia . Tale carattere poi in
parte avrebbe cominciato a dileguarsi, allorchè accanto ai comizië curiati
calati, si introdussero anche i comiziï centuriati calati, la cui esistenza
ci.è attestata da Aulo Gellio, XV, 27, 2, e che probabilmente dovettero essere
quelli, i quali, secondo Gaio , Comm ., II, 101, si radunavano due volte
l'anno,acciò in essi po tessero farsi i testamenti. Il fatto stesso della loro
riunione periodica dimostra , che molti testamenti si potevano presentare ad un
tempo, e che perciò in essi il popolo doveva limitarsi a prestare la propria
testimonianza . Fu questo il motivo , per cui il testamento in calatis comitiis
potè poi essere sostituito dal testamento per aes et libram , ove i quiriti si
riducono ad essere dei classici testes. Gaio, Comm ., II, 103. 270 credo
opportuno rimandarne l'esame ad un capitolo speciale, in cui cercherò di
determinare la posizione dei clienti e della plebe, cosi sotto l'aspetto del
diritto pubblico , che sotto quello del diritto pri vato ; premettendo però fin
d'ora , che seguo l'opinione, secondo cui la plebe non potè, durante il periodo
regio e nei primisecoli della Repubblica, essere ammessa all'assemblea delle
curie (1 ). $ 7 . Sguardo sintetico allo svolgimento storico dei comizi in
Roma. 222. Le cose premesse sarebbero sufficienti per formarsi un con cetto del
carattere speciale della primitiva assemblea curiata : ma intanto per scoprire
certe relazioni, che difficilmente potrebbero es sere afferrate , quando non
fossero sorprese alle origini, ed anche per rendere intelligibili gli
svolgimenti, che verranno dopo, e dimo strarne la continuità , ritengo
opportuno, a costo anche di precor rere gli avvenimenti, di dare uno sguardo
sintetico allo svolgimento che ebbero i comizii in Roma. Roma antica, simile in
cið alla moderna Inghilterra, ci presenta bene spesso l'esempio di congegni
della costituzione politica ed am ministrativa, la cui creazione rimonta ad
epoche compiutamente di verse , ma che intanto funzionano contemporaneamente.
Ciò è vero sopratutto per quello , che si riferisce ai comizii. Roma patrizia ,
e forse anche Roma, durante tutto il periodo regio , non conosce altra
assemblea del popolo , che quella delle curie. Essa è un'assemblea, di
carattere religioso e sacerdotale, politico e militare ad un tempo: è la
riunione del primo populus romanus quiritium , di quello cioè, che era
ristretto al populus, che usciva esclusivamente dalle genti patrizie. In base
alla costituzione Serviana, che ammette la plebe a far parte delle classi e
centurie, sulla base del censo, intro ducesi un' altra assemblea del populus
romanus quiritium , già inteso in senso più largo , che è la centuriata .
Anch'essa è mo dellata sulla prima, e secondo Gellio, imita perfino i comizii
calati, come pure è anche preceduta dagli auspicii;ma intanto, accogliendo già
un elemento , che non partecipava al culto gentilizio , che era quello della
plebe, perde ogni carattere religioso e sacerdotale, e ( 1) La questione qui
accennata sarà presa in esame in questo stesso libro , cap. V. 271 assume un
carattere essenzialmente militare, e poscia anche poli tico . Da questo momento
l'assemblea per curie più non può rap presentare l'intiero populus, perchè una
parte di questo, cioè la plebe, non entra a farne parte. L'assemblea curiata
quindi diventa , dirimpetto alla centuriata , un' assemblea di patres , perchè
com prende coloro , che discendono sempre dalle antiche genti patrizie. La vera
rappresentanza dell'intiero populus (comitiatus maximus) viene quindi ad essere
l'assemblea per centurie ; perchè essa soltanto comprende tutto il popolo,
organizzato sulla base del censo. Siccome però i patres o patricii, cioè i
discendenti delle antiche genti pa trizie , continuano ancora sempre a formare
un nucleo separato del populus, cosi essi sono ancora chiamati a dare alle
deliberazioni dei comizii centuriati la patrum auctoritas, la quale viene, come
sopra si è veduto , a distinguersi dalla senatus auctoritas. Così pure l'antico
populus, composto appunto dai patres, continua ancora sempre a con ferire
l'imperium colla lex curiata de imperio , sebbene l'una e l'altra funzione
tendano naturalmente a perdere della loro im portanza , e l'assemblea curiata
si limiti sempre più a funzioni di carattere puramente gentilizio e sacerdotale
(1). 223. Fin qui lo svolgimento della costituzione primitiva procede ancora
regolarmente : ma la cosa si fa più malagevole, quando, fra i congegni della
costituzione politica di Roma, compare un nuovo elemento , che è quello delle
assemblee proprie della plebe (concilia plebis). La plebs forma già parte del
populus e partecipa alla civitas; ma la sua civitas è ancora minuto iure, in
quanto che essa non ha ancora nè il ius connubii col patriziato, nè il ius
honorum . È quindi naturale in essa l'aspirazione al pareggiamento, e sorge una
opposizione di interessi fra il patriziato e la plebe. Quest'ultima, che,
uguale sotto un aspetto, aspira a diventarlo anche sotto gli altri, viene
naturalmente a costituire sotto un certo riguardo una fazione nello Stato ,
poichè i suoi interessi si contrappongono a quelli del patriziato, il quale
continua ad essere il vero reggitore dello Stato, essendo il solo ammesso alle
magistrature e agli onori. La plebe però ha già un proprio magistrato, sotto
cui si organizza , che è il tribuno della plebe, il quale, in base alla
costituzione, può (1) È da vedersi, quanto all'auctoritas patrum , questo
stesso capitolo, § 3º, n° 198 , pag. 240 e seg . colle note relative . 272
convocarla per prendere deliberazioni nel proprio interesse. Sorge cosi spontaneamente
l'istituto dei concilia plebis, i quali dapprima hanno più un'esistenza di
fatto , che non di diritto : ma che intanto , fatti forti dal numero e dalla
intraprendenza dei tribuni, tendono naturalmente a prendere dei provvedimenti,
che mirano a prepa rare l'uguaglianza giuridica e politica fra la plebe e il
patriziato . Essi perciò mettono in accusa patrizii avversi alla plebe e gli
stessi consoli, allorchè escono di ufficio . Proibirli è impossibile, perchè è
principio riconosciuto dalle XII Tavole , che ogni sodalizio, che abbia un capo
(magister ), possa dettarsi una propria legge, e perchè in ogni caso sarebbe
impossibile vietare le riunioni di un elemento, che ha per sè il numero e la
forza , e che, ricorrendo ad una secessio , potrebbe mettere a repentaglio
l'avvenire della città ( 1). L'unico partito pertanto , che rimanga al
patriziato ed al senato, che lo rap presenta , è quello di riconoscere queste
riunioni e di farle entrare , per quanto sia possibile , nei quadri legali
della costituzione politica di Roma, trasformando a poco a poco i concilia
plebis in comitia tributa : in comizii, cioè, che comprendano eziandio tutto il
popolo, ma non più in base al censo , come l'assemblea delle centurie, ma in
base alle tribù locali, in cui è raccolta tutta la cittadinanza ro mana. È
questa la trasformazione, che incomincia col tribuno Pu blilio Volerone, il
quale , nel 283 U. C., dopo lunghe lotte , ottiene che la plebe possa nominarsi
i suoi tribuni nei proprii comizii ; ma con ciò questi non possono ancora
prendere che provvedimenti riguar danti la sola plebe, e che possono soltanto
essere obbligatorii per essa . Quindi incomincia da parte di questa uno sforzo
inteso a pareggiare i comizi tributi agli altri comizii, e a fare si che i
plebisciti obbli ghino anche il patriziato , il che si opera per mezzo delle
leggi Va leria -Orazia, Publilia e Ortensia ; le quali, sebbene, per il poco
che a noi ne pervenne, mirino tutte allo scopo di rendere obbligatorii i
plebisciti per tutto il popolo, segnano però , come si vedrà più sotto, pag.
728, (1) La proibizione dei concilia plebis sarebbe stata contraria a quelle
disposizioni della legge decemvirale, secondo cui « Sodalibus potestas esto ,
pacionem , quam volent, sibi ferre, dum ne quid ex publica lege corrumpant. V.
Voigt, die Tafeln , I, che attribuisce tal legge alla Tavola VIII, n . 12.
Qualcosa di analogo ci è pure accennato da Livio , 39, 15 : « ubicumque
multitudo esset, ibi et legitimum rectorem multitudinis , censebant maiores
debere esse » ; ed è questo forse il motivo , per cui i concilia plebis
cominciano a diventare potenti, quando la plebs ha trovato un proprio rector o
magister nel tribunus plebis. - 273 discorrendo del concetto romano di lex , i
varii stadii, per cui passò la risoluzione del gravissimo problema (1) . 224.
Giungesi cosi ad un periodo della costituzione politica di Roma, in cui nei
quadri di essa trovansi tre specie di comizii. I primi e i più antichi sono i
comizii curiati,ma essi vengono ad essere sempre più ridotti a funzioni puramente
gentilizie e sacerdotali, e anzichè essere in effetto ancora le riunioni delle
curie , si riducono ad essere la riunione dei trenta littori, che le
rappresentano, e diven tano così una sopravvivenza dell'antico ordine di cose.
Accanto ad essi sonvi i comizii centuriati, che sono sempre la vera assemblea
del popolo romano, e continuano a conservare in qualche parte il pri mitivo
carattere militare: ma anch'essi si fanno più democratici, come lo dimostrano
le riforme, che sappiamo essere state introdotte , senza saperne precisare il
come ed il quando, e debbono dividere in parte le proprie funzioni colla nuova
assemblea tributa , più fa cile a convocarsi e più intraprendente nella propria
iniziativa. Certo si richiedeva il genio pratico dei Romani per far procedere
di pari passo assemblee, che rappresentavano un principio diverso , cioè la
nascita, il censo, ed il numero. Dapprima ciascuna di queste istituzioni potè
serbare intatto il proprio carattere primitivo ; ma poscia la fusione sempre
maggiore dei due ordini condusse al ri sultato, che poterono esservi plebei di
grandi famiglie, che furono accolti nelle curie, e che vi ottennero anche la
dignità sacerdotale di curio maximus ; al modo stesso , che i pochi discendenti
delle an tiche genti patrizie poterono anche intervenire ai comizi tributi, i
quali ricevettero cosi anche la consacrazione religiosa , e poterono essere
presieduti da magistrati, che un tempo erano esclusivamente patrizii. Quando le
cose pervennero a questo punto, il vero populus trovasi raccolto nei comizii
centuriati, e nei comizii tributi. Quelli sono organizzati in base al censo, e
questi in base alle tribù lo cali, a cui i cittadini trovansi ascritti ; quelli
serbano ancora un carattere specialmente militare e radunansi al campo Marzio,
fuori delle mura Serviane, e questi invece hanno un carattere civile e (1)
Rimetto la discussione gravissima relativa a queste tre leggi al capitolo se
guente § 2º, n ° 232 e seg . dove si discorre del concetto romano di lex .
Quanto alla proposta di Publilio Volerone e alla portata della medesima è da
vedersi il Bonghi, Storia di Roma, pag. 439 a 451, come pure a pag . 593, ove
parla dell'elezione dei tribuni nei comizii tributi. G. CARLE, Le origini del
diritto di Roma. 18 274 radunansi nel fôro, cosicchè il vero movimento della
costituzione politica di Roma ondeggia fra l'una e l'altra assemblea. Tuttavia
, a ricordare l'antico dualismo, sopravvivono ancora sempre i comizii curiati
ridotti ad essere la riunione di trenta littori, presieduti dal pontefice, e
circoscritti a funzioni di carattere essenzialmente reli gioso , e i concilia
plebis, che ricordano ancora quel tempo, in cui la plebe costituiva un dualismo
col patriziato , e nei quali continuano a nominarsi le magistrature
esclusivamente plebee (1). Intanto è ancora degno di nota , che la
trasformazione, che si opera nei comisii tri buti, accade anche nei tribuni
della plebe, i quali, sebbene debbano sempre essere trattidalla plebe ,
diventano però a poco a poco magi strati urbanidel popolo romano; comepure
accade nei plebisciti, i quali a poco a poco vengono ad essere pareggiati alle
leggi propriamente dette, il che sarà meglio dimostrato nel capitolo seguente .
Questo è il solito processo , seguito dai Romani, nello svolgimento delle
proprie istituzioni, ed è la logica che lo governa, che per mette di poterlo
ricostruire, malgrado le lacune, che possono esservi nel racconto storico , che
a noi pervenne. Questa logica è, per così esprimersi, intensiva ed estensiva ad
un tempo , e quindi si può es sere certi, che se un concetto entri nella
compagine romana non scomparirà , se prima non siasi ricavato da esso in
profondità ed estensione tutto ciò , che contenga di vigoroso e di vitale.
Studiata cosi la costituzione primitiva di Roma negli organi, che entrano a
costituirla , importa ora di considerarla nell'esercizio delle sue principali
funzioni. (1) È questo, a parer mio, il solo modo per risolvere la questione
così contro versa relativa alle analogie ed alle differenze, che possono
intercedere fra i comitia tributa ed i concilia plebis. È noto in proposito,
come il Niebhur non ammettesse che un'unica assemblea tributa (Histoire romaine
, III, 283), la quale, esclusivamente plebea dapprima (concilium plebis),
avrebbe più tardi compreso anche il patriziato, e sarebbesi così cambiata in
comitium tributum . Il Mommsen invece (Römische For schungen , Berlin , 1864,
I, 151 a 155) sostenne, dai decemviri in poi, l'esistenza di due assemblee
tribute : l’una patrizio-plebea (comitia tributa ); l'altra esclusivamente
plebea (concilium plebis). Ritengo che quest'ultima opinione possa essere
accolta , ma limitando le funzioni dei concilia plebis a cose di interesse
esclusivamente plebeo , quali erano la nomina dei tribuni e degli edili plebei,
mentre il vero potere legisla tivo , elettorale e giudiziario appartiene ai
comitia tributa , i quali soli possono con siderarsi come un vero organo della
costituzione romana. Cfr. BOURGEAUD, Le plébi scite dans l'antiquité, Paris ,
1887, pag. 57 a 76 ; Karlowa , Röm . R. G., pag. 118 ; MORLot, Précis des
instit. polit. de Rome. Paris, 1886 , pag. 80 e segg. 275 CAPITOLO III. La
primitiva costituzione di Roma nelle sue principali funzioni. $ 1. - Carattere
generale della medesima . e 225. La costituzione primitiva di Roma, finchè si
mantenne esclusivamente patrizia , si presenta con un carattere di unità e di
coerenza, che indarno si cercherebbe più tardi nelle istituzioni po litiche di
Roma. Vero è che la plebe, entrando a far parte della comunanza politica , recò
nella medesima il movimento e la vita , rese possibile per Roma un avvenire,
che non avrebbe mai conse guito la città esclusivamente patrizia , la quale da
sola tendeva più a chiudersi in se stessa, che ad estendersi; ma è vero
eziandio , che colla plebe penetrò il dualismo in ogni aspetto della
costituzione primitiva di Roma. Dirimpetto ai comizii disciplinati del popolo
rac colto nelle curie , si svolsero i concilii talvolta tumultuosi della plebe;
ai magistrati del popolo si contrapposero quelli della plebe; ed alle leggi
votate nella solennità e nel silenzio dalle curie si so vrapposero i
plebisciti. Fu in tal guisa, che la costituzione primitiva di Roma venne in
certo modo ad essere forzata a spingersi oltre il concetto ispiratore della
medesima, e fini per assumere un ca rattere del tutto peculiare, in quanto che
dovette stringere insieme due popoli, che politicamente erano associati, ma che
non erano intimamente uniti fra di loro , di cui uno pretendeva di avere per sè
la priorità ed il diritto , mentre l'altro aveva per sè il numero e la forza .
Nè conseguita che, per comprendere lo spirito della primitiva costituzione di
Roma, conviene in certo modo isolarla dagli elementi, che sopravvennero coll'
ammessione della plebe alla cittadinanza , e quando ciò si faccia non si può a
meno di rima nere ammirati di fronte all'unità ed alla coerenza, che presenta
la costituzione esclusivamente patrizia . Essa è un vero organismo, che
componesi di varie parti, delle quali ciascunaè chiamata ad adempiere la
propria funzione : ma che tutte intanto si suppongono e si completano a
vicenda. La potestas in largo senso si ritiene bensi appartenere al popolo , ma
questo non potrebbe esercitarla , se 276 non fosse posto in azione
dall'imperium del magistrato ; e intanto fra di loro si interpone l'auctoritas
del senato, il quale da una parte modera col suo consiglio il regis imperium ,
e dall'altra da la consistenza e l'appoggio della propria autorità ai iussa
populi. 226. Questa coerenza poi appare anche più evidente, allorchè i congegni
della costituzione siano considerati nel loro movimento ; poichè mentre ciascun
aspetto del pubblico potere non ha altra norma e altro confine, che il proprio
concetto ispiratore, niuno di essi però può compromettere l'interesse comune,
senza che vi concorrano tutti gli altri. Questo carattere della costituzione
politica di Roma ha fatto dire a Polibio , che essa appariva mo narchica,
aristocratica e democratica ad un tempo, secondo che altri la considerava
rimpetto a questo o a quell'aspetto del pubblico potere ( 1) ; ma se altri poi
la consideri in movimento ed in azione, essa si presenta con tutti questi
caratteri ad un tempo . L'imperium regis, la senatus auctoritas, la populi
potestas sono altrettante concezioni logiche , destinate col tempo a ricevere tutto
lo sviluppo , di cui possono essere capaci; ma intanto son disposte per modo,
che si contengono e si limitano a vicenda, non già perchè esista fra di essi
una ripartizione o circoscrizione di poteri, ma perchè nessuno di questi
elementi puo compromettere la pubblica salute senza la cooperazione di tutti
gli altri. Onnipotente ciascuno coll'appoggio degli altri, viene ad essere
impotente, quando trovi opposizione o contrasto in alcuno fra essi ; donde
l'importanza, che ebbe nella costituzione romana l'istituto dell'intercessio ,
la quale viene atteg giandosi in guise molteplici e diverse , in quanto che
tale intercessio , o può esercitarsi a nome della religione, o frapponendo la
par ma iorve potestas, o contrapponendo anche quelli, che esercitano la medesima
magistratura (2 ). Questo è, a parer mio, il carattere fon (1) Polibio,
Histor., lib . VI. (2) È mirabile il partito, che Roma seppe trarre dal
concetto dell'intercessio nello svolgimento storico della sua costituzione,
come appare dalla magistrale trattazione dell'argomento nel Mommsen, Le droit
public romain , pag. 230 a 329. Non potrei tuttavia accettare la sua
affermazione recisa, che l'intercessio non esistesse nel periodo regio. Certo
essa non ebbe occasione di svolgersi, perchè i tre elementi od organi della
costituzione erano potentemente unificati; ma intanto la cost ituzione
primitiva inchiudeva già allo stato latente il germe di tutta la teoria
dell'intercessio, in quanto che in essa niun provvedimento, che possa
compromettere il pubblico interesse, pud 277 damentale della costituzione
primitiva di Roma, per cui essa ora apparisce conservatrice fino allo scrupolo
, ed ora invece diventa operosa ed intraprendente fino all'audacia , secondo
che essa abbia o non l'appoggio dell'opinione generale . 227. Intanto quando
trattasi della res publica , ossia di cosa, che possa interessare l'intiera
comunanza, tutti questi elementi sono chia mati ad arrecare il proprio
contributo. È infatti almagistrato (rex , interrex , tribunus celerum ,
praefectus urbis) che si appartiene l'agere, quando trattasi di convocare il
popolo o il senato ; il ro gare, quando importa di ottenere l'approvazione di
qualche proposta ; l'imperare, allorchè nei pericoli di una guerra il suo
imperium si spinge fino alla maggiore estensione, di cui possa essere capace .
E invece al senato , che si appartiene il consulere, quando trattasi di dare il
proprio avviso al magistrato , o di richiamare l'attenzione di lui su qualche
imminente pericolo , « ne res publica detrimenti capiat » ; e l'auctor fieri,
se è questione invece di appoggiare le de liberazioni del popolo. È infine al
popolo, che spetta il iubere e lo statuere, quando trattasi di una lex , sotto
la qual forma si manifesta di regola la volontà collettiva del quando trattasi
della elezione dei magistrati. Intanto però, siccome queste gradazioni
dell'azione collettiva debbono tutte concorrere in sieme per costituire un atto
compiuto , cosi niun elemento pud da solo prendere un provvedimento, che possa
compromettere l'interesse comune (1 ). Ciò sopratutto appare nel compimento di
quegli atti, che, per propria natura , interessano l'intiera comunanza, quali
sarebbero: la formazione di una legge, l'elezione del magistrato , e
l'amministra zione della giustizia ; dai quali poi discendono le tre
manifestazioni essere preso senza il concorso di tutti. L'intercessio nel
periodo repubblicano non fu che uno svolgimento di questo concetto, e toccò il
suo massimo sviluppo per opera dei tribuni, stante il carattere negativo del
potere spettante aimedesimi. È poi notabile, come essa si applichi al decretum
, alla rogatio , ed al senatus consultum , il quale, se colpito
dall'intercessio , non può più essere posto in esecuzione: ma tuttavia deve
essere perscriptum , perchè è sempre una espressione dell'auctoritas senatus,
col quale vocabolo viene appunto ad essere indicato. Cfr. MOMMSEN, op . cit.,
(1) Ho già insistito su questo concetto, che può essere considerato comela
chiave di volta della primitiva costituzione di Roma, in una prolusione al corso
di Storia del diritto romanu col titolo : L'evoluzione storica del diritto
pubblico e privato di Roma, Torino , 1886 , pag. 13 . pag. 317. 278 del potere
sovrano nella città antica , che sono il potere legislativo, il potere
elettorale, ed il potere giudiziario. È quindi sopratutto a proposito di questi
atti , che vuolsi cercare in qual modo entri in movimento ed in azione la
primitiva costituzione di Roma, dando al tempo stesso un popolo, o ilo sguardo
allo svolgimento storico , che dovrà poi ricevere ciascuno di questi poteri. $
2 . Il concetto romano di lex nei suoi rapporti colla patrum auctoritas e col
plebiscitum . 228. Nel considerare il concetto primitivo della lex in Roma si
riman magistratum creare,e anzitutto colpiti dalla larghissima significazione,
colla quale si presenta questo vocabolo . Esso significa dapprima qualsiasi ac
cordo di più individui in una stessa volontà , e viene così, fin dagli esordii,
a distinguersi in lex privata , che significa una convenzione od una norma, che
altri si impone relativamente ad interessi privati (lex contractus, lex
mancipii, lex testamenti), ed in les publica , che significa la volontà
collettiva e comune, che si sovrappone alla volontà dei singoli individui.
Quando poi il concetto di lex privata viene ad essere assorbito da quello di
convenzione o di contratto , quello di lex publica continua ancora ad avere una
estesissima si gnificazione; poichè esso comprende in certo modo qualsiasi
delibera zione solenne del popolo . Parlasi infatti di una lex belli indicendi,
foederis ineundi, coloniae deducendae , agri adsignandi e simili ; e fino a un
certo punto la nomina stessa del magistrato , o almeno il conferimento
dell'imperium , spettante al medesimo, viene ad essere argomento di una legge.
Gli è solo più tardi, che il vocabolo di legge viene a significare un generale
iussum populi, che si rife risce alla generalità dei cittadini, e si distingue
così da qualsiasi de liberazione , relativa ad una persona o ad un fatto
particolare (1). Ciò ( 1) Insomma il concetto dominante è sempre quello, che la
lex è il risultato di un accordo. Quindi la lex publica, essendo il risultato
dell'accordo di tutti gli organi dello Stato , viene ad essere una communis
reipublicae sponsio, e deve da tutti essere rispettata ; donde la conseguenza ,
che il ius publicum privatorum pactis mutari non potest. La lex privata invece
è l'accordo di due o più individui in tema di loro interessi privati: non è
quindi la legge pubblica, che deve occuparsene, secondo il principio della
stessa legge decemvirale, privilegia ne inroganto: donde conseguita, che la
legge cambiasi a poco a poco in un generale iussum . È in questa guisa , che
279 vuol dire, che anche la nozione di lex subisce in Roma una lunga evoluzione
: ma intanto il concetto, che la pervade in ogni tempo, è quello di un accordo
di più volontà in un medesimo intento . Tale significazione sembra pure essere
indicata dall'etimologia del vocabolo di lex a legendo od a colligendo , la
quale perciò non indica tanto la forma scritta , assunta dalla legge, come
vorrebbe il Bréal, quanto piuttosto il collegarsi delle volontà in un medesimo
intento (1 ). 229. Un altro carattere della lex , secondo il primitivo concetto
romano, si è quello di un'aureola religiosa, che la circonda, come lo dimostrano
le cerimonie solenni, da cui son precedute le deliberazioni comiziali, e la
reverenza e il culto , di cui la legge viene ad essere l'oggetto in Roma
primitiva, dopo che essa fu solennemente votata dal popolo . Di qui alcuni
autori ebbero a ricavare la conseguenza , che la forza obbligatoria della
legge, anche per Roma, non deri vasse tanto dal suffragio del popolo, quanto
piuttosto da questo carat tere religioso, da cui essa appare circondata. Se con
ciò si vuol dire , che la legge solennemente votata dal popolo, dopo aver
assunto gli auspicii, doveva in certo modo considerarsi come una interpreta
zione della stessa volontà divina, questo concetto pud essere facil mente
ammesso, essendo il medesimo una conseguenza di ciò, che il ius, come si è
dimostrato a suo tempo, aveva nei suoi primordii un carattere religioso , e
impotente a sostenersi da solo cercava di mettersi sotto la protezione del fas.
Ma se con ciò si intende in la legge e il contratto, uniti nell'origine, più
tardi si vennero separando, e quasi si contrapposero fra di loro , lasciando
perd sempre una traccia nel concetto, che « il contratto costituisce legge per
i contraenti » . ( 1) L'etimologia di lex a legendo nel senso di « leggere ,
suole appoggiarsi al testo di Varrone, De ling. lat., VI, 66 : leges, quae
lectae et ad populum latae, quas ob servet; ma egli è evidente, che qui
Varrone, non sempre felice nelle sue etimologie , non ha punto l'intenzione di
proporne una. Se quindi è vero, come del resto insegna lo stesso BRÉAL, Dict.
étym . latin , vº lego , che il vocabolo di legere ebbe anche la antica
significazione di raccogliere, di scegliere, di riunire, parmi sia molto più
acconcio di dare questa etimologia al vocabolo di lex . Così si potrà anche
compren dere la lex privata , la quale certo non pud essere derivata da ciò ,
che i contratti fossero scritti; ma da cid , che le volontà si accordavano e si
riunivano. Cfr. BRÉAL et BAILLY, Dict. étym ., vº lex . Un passo , in cui il
vocabolo « legere » prende questa an tica e larga significazione, è il seguente
di Virgilio : Iura , magistratusque legunt, sanctumque senatum . (Aen ., I, v.
431). - 280 vece , che la sua efficacia obbligatoria provenga direttamente
dalla volontà divina, se questo può forse ancora ammettersi per il vóuos de' Greci,
più non può ritenersi vero per la lex romana ( 1). Questa non potrà essere
votata senza che prima si assumano gli auspicii ; ma intanto, fin dal periodo
esclusivamente patrizio, essa è già l'espres sione della volontà collettiva del
popolo, come lo dimostra il fatto , che assume la forma di una vera e propria
stipulazione fra il ma gistrato che propone (rogat), e il popolo che vota
(iubet atque con stituit) ; come pure il concorso nella formazione di essa di
tutti gli organi della costituzione politica di Roma, per cui essa, fin dagli
esordii della città , deve essere considerata come una « communis rei publicae
sponsio » . Essa sarà ancora riguardata come una volontà divina ; ma il popolo
già si attribuisce facoltà d'interpretare questa volontà, ogni qualvolta
trattisi, non di cosa relativa al culto, ma di provvedimenti, che riguardano
l'interesse generale della comu nanza. Anche la definizione dei Giureconsulti
classici : « lex est, quod populus, senatorio magistratu rogante , iubet atque
con stituit » , può già essere applicata alla legge, durante il periodo regio ;
salvo che in questa definizione più non compare l'elemento della patrum
auctoritas, che nella città patrizia era ancor ritenuto indispensabile, e che
era poi stato tolto di mezzo dalla legge Ortensia . Vero è , che più tardi il
patriziato cercò di dare sopratutto prevalenza all'elemento religioso, che
accompagnava la legge; ma ciò accade unicamente, allorchè l'assemblea patrizia
delle curie perdette ogni importanza politica ; poichè in allora la religione e
gli auspicii diven tano pressochè il solo titolo di superiorità del patriziato
sopra la plebe, e fu naturale che si cercasse di accrescerne la importanza .
230. Intanto questo carattere, eminentemente contrattuale della legge, che
corrisponde all'origine federale della città , ed anche la necessità , secondo
il concetto primitivo delle genti patrizie, che, a formare la legge, dovessero
concorrere tutti gli organi dello Stato, servono a spiegare naturalmente certe
singolarità del diritto primitivo ( 1) V. in senso contrario il FUSTEL DE
COULANGES, La cité antique, liv. III, chap . XI, pag. 221 e segg., e fra i
recentiilBourgeaud, Leplébiscite dans l'antiquité, Paris , 1887, pag . 91 e
segg . Quest'ultimo nega il carattere contrattuale alla legge, anche per la
considerazione, che essa non potrebbe obbligare quelli, che non vi hanno
consentito ; ma egli è evidente, che l'accordo in una pubblica votazione non
può aversi, che dando prevalenza al maggior numero. 281 di Roma, che ebbero a
verificarsi, allorchè la plebe entrò a far parte della comunanza politica .
Allora infatti venne ad essere necessità, che il potere legislativo si portasse
ai comizii centuriati, in quanto che questi soltanto erano l'assemblea plenaria
del populus romanus (comitiatus maximus). Siccome però, accanto ai comizii
centuriati, si manteneva pur sempre l'assemblea curiata dei patres o dei
patricii: così, per ubbidire al principio che tutti gli organi politici dello
Stato dovevano concorrere alla formazione della legge, fu necessario che vi
contribuisse eziandio l'assemblea dei patres ; donde la conseguenza , che la
legge centuriata dovette dapprima essere proposta dal magistrato , votata dal
popolo , e poscia ancora approvata non solo dal senato , ma anche
dall'assemblea delle curie. Di qui dovette provenire la distinzione della
patrum o patriciorum auctoritas dalla senatus auctoritas, ancorchè le due
approvazioni si riducessero in sostanza ad una medesima cosa , perchè in questo
periodo il senato può riguardarsi sopratutto come l'organo del patriziato ; il
che spiega appunto la confusione, che gli storici vengono facendo fra l'una e
l'altra auctoritas, in un'epoca , in cui erano già scomparse e l'una e l'altra
( 1). 231. Se non che il mantenersi fedeli a questo principio diventò assai più
difficile , allorchè alle altre fonti legislative venne ad ag giungersi
eziandio il plebiscitum , che costituiva in certo modo una lex inauspicata .
Questo dapprima non può obbligare tutto il popolo , perchè è l'opera soltanto
di una parte di esso ; e quindi, al pari dei concilia plebis, in cui viene ad
essere votato, ha più un'esistenza di fatto, che non di diritto. Intanto però
la plebe ha per sè il nu mero e la forza, e valendosi di essi cerca talora di
forzare la mano al senato . In questa condizione di cose viene ad essere
nell'interesse stesso del patriziato di fare rientrare nell'ordine legale tanto
i concilia plebis, trasformandoli in comitia tributa , allorchè trattisi di
provvedimenti, che possano interessare tutto il populus, quanto eziandio di
riconoscere l'autorità dei plebisciti, con che essi subi scano le condizioni
richieste per obbligare tutto il popolo . È in questa occasione, che nella
storia politica di Roma compa riscono successivamente tre leggi ad epoca
diversa, il cui contenuto , conservatoci dagli scrittori, sembra essere
identico (ut plebiscita ( 1) V. sopra capitolo II, § 3 , n ° 198, pag . 240 e
segg. e le note relative. 282 omnem populum tenerent) ; ma che intanto sembrano
indicare tre successivi stadii di una importantissima trasformazione. La
difficoltà di conciliarle, che formò oggetto di lunghe discussioni e che anche
oggi suole essere considerata come una delle più gravi questioni, che presenti
la storia politica di Roma (1), pud, a parer mio , essere supe rata , quando
abbiasi presente il concetto della primitiva costituzione di Roma, secondo cui
qualsiasi vera legge suppone il concorso di tutti gli organi politici dello
Stato . 232. Occorre anzitutto la legge Valeria Orazia , dell'anno 304 di Roma;
la quale è la prima a dichiarare, che i plebisciti obblighino tutto il popolo
(ut quod tributim plebs iussisset omnem populum te neret) (2 ); ma ancorchè la
legge nol dica , questo è certo che, secondo il concetto informatore della
costituzione politica di Roma, ciò poteva solo accadere , allorchè i
provvedimenti, che erano di iniziativa della plebe, avessero subite tutte le
prove, a cui erano sottoposte le stesse ( 1) Così si esprime il Soltau, die
Gültigkeit der Plebiscite, Berlin , 1888 , pag . 107. La bibliografia sulla
questione pud vedersi nel BOURGEAUD, Le plébiscite dans l'anti quité, Paris,
1887, pag. 121, il quale sosterrebbe, che il plebiscito sia stato in ogni tempo
una deliberazione presa dalla sola plebe, esclusi i patrizii. Non potrei divi
dere tale opinione, poichè vi fu un tempo , in cui la differenza fra plebiscito
e legge si ridusse unicamente alla persona diversa , che ne prendeva
l'iniziativa , secondo che essa fosse un tribuno, od un altro magistrato . Vero
è che il vocabolo di plebs signi fica il populus, esclusi i senatori ed i
patrizii;ma il motivo , per cui i patrizii non si tenevano legati dai
plebisciti non consisteva già in ciò, che essi non potessero inter venire ai
comizii tributi, essendo anch'essi iscritti alle tribù, ma in ciò, che essi
soste nevano « plebiscitis se non teneri, quia sine auctoritate eorum facta
essent » ,Gaio, Comm. I, 3. Tolta poi la necessità della patrum vel patriciorum
auctoritas, i plebisciti divennero obbligatorii per tutto il popolo, e anche i
patrizii poterono certo intervenire ai comizii tributi. Difatti dopo la legge
Ortensia le due espressioni di leo e di plebi scitum diventano fra di loro
equipollenti, e occorrono perfino le espressioni populum plebemve iussisse,
come nella lex tabulae Bantinae (Bruns, Fontes, pag. 51). (2) Secondo il
Mommsen, è da questa legge, che parte l'istituzione dei comizii curiati , e
quindi egli riterrebbe, che nei termini conservatici da Livio , III, 55, come
proprii della legge Valeria Orazia, si dovrebbe sostituire il vocabolo di
populus a quello ivi adoperato di plebs, e leggere quindi: quod tributim
populus iussisset, omnem populum teneret (Römische Forschungen , I, pag . 164-5
). Non parmi, che questa opinione possa essere accolta , sia perchè tutti i
giuristi fanno partire il pareggiamento del plebiscitum colla lex dalla legge
Ortensia, e non dalla legge Valeria Orazia, ed anche perchè poste riormente la
denominazione di lex o di plebiscitum non sembra più dipendere dalla
composizione dei comizii, ma piuttosto dal magistrato, da cui sono convocati,
il quale come dava il suo nome alla legge, così poteva anche attribuirvi il
carattere di lex o di plebiscitum : tanto più che la sua efficacia veniva ad
essere uguale . 283 - leggicenturiate. Questa legge pertanto significo
solamente, che anche i tribuni della plebe potevano prendere l'iniziativa di un
provvedi mento , che potesse obbligare tutto il popolo ; ma che il medesimo,
per avere un tale effetto, doveva poi essere approvato dal Senato, ed ottenere
anche la patrum auctoritas, come lo dimostrano gli sforzi, che in questo
periodo si fanno dai tribuni per ottenere l'ap provazione del senato a
plebisciti , come quelli di Canuleio, di Icilio e altri ancora . Quasi si
direbbe, che questo è il periodo delle seces sioni, a cui ricorre appunto la plebe,
quando non può ottenere dal senato l'approvazione di un provvedimento da essa
desiderato . Suc cede quindi una seconda legge, che è la legge Publilia del 415
di Roma, la quale, mentre in un capo statuisce, che la patrum auctoritas doveva
precedere le leggi centuriate , ripete in un altro l'ingiunzione già fatta che
« plebiscita omnes quirites tene rent (1). È però evidente, che la portata di
questa legge verrà ad essere diversa , perchè in virtù di essa i plebisciti, al
pari delle leggi centuriate, non dovevano più essere susseguiti, ma preceduti
dalla patrum auctoritas, che comprende probabilmente anche la senatus
auctoritas. Noi abbiamo quindi un secondo periodo, in cui tutte le proposte di
provvedimenti, per parte dei tribuni della plebe , sogliono esser precedute da
trattative ed accordi fra il senato e i tribuni della plebe, per guisa che il
senato si vale talvolta di questi per ottenere , che essi prendano la
iniziativa di una determinata proposta (2 ) 233. Da ultimo infine apparve, che
anche questa previa approva (1) È lo stesso Livio, che ci conservò i termini di
questa legge, VIII, 12. (2 ) Secondo il WILLEMS, Le Sénat, II, chap. I,
l'espressione di patrum auctoritas sarebbe equipollente a quella di senatus
auctoritas . Tale opinione è divisa dal Bour GEAUD, op. cit ., pag. 135, ed è
combattuta invece dal Soltau, die Gültigkeit der Ple. biscite, pag . 135, come
pure dal Pantaleoni nella 3a parte della sua dissertazione : Dell'auctoritas
patrum nell'antica Roma (< Rivista di Filologia » , Torino, 1884 , pag. 350
a 395). Di fronte ad una quantità di passi di scrittori antichi, citati da
quest'ultimo, in cui si usano le espressioni di patricii auctores, mentre altre
volte si parla invece della senatus auctoritas, fra cui è notabile il passo di
Livio , III, 63, parmiche l'opinione del WILLEMS non possa essere accolta .
Ritengo tuttavia, che gli storici, mossi forse dall'identico interesse, che
potevano spingere le curie dei patrizii e il senato a fare opposizione ad un
provvedimento di iniziativa della plebe, possano talvolta aver comprese le due
cose col vocabolo alquanto incerto di patrum aucto ritas. V. in proposito ciò ,
che si è detto nel capitolo precedente 83, n ° 198, pag . 240 e note relative.
284 zione dei padri, senza sempre riuscire nell'intento , finiva per essere
causa di dissidii e di secessioni. Fu quindi, in seguito ad una di queste
secessioni, che sulla proposta del dittatore Ortensio , uscito dalla no biltà
di origine plebea, sopravviene una legge Ortensia, nel 467 della città, che ripete
pur sempre la stessa formola ; ma intanto toglie di mezzo la necessità della
previa approvazione dei padri e produce, se condo Pomponio, l'effetto, che «
inter plebiscita et legem species con stituendi interessent, potestas autem
eadem esset ( 1) » . Fu neces saria una secessione e ci volle un dittatore per
vincere questa legge ; ma ve ne era ben donde, poichè, a mio avviso , non vi ha
forse nella storia della costituzione primitiva di Roma una rivoluzione più ra
dicale di questa . Con essa infatti l'antico concetto di lex , quale era stato
concepito da Roma patrizia, viene ad essere sovvertito ; in quanto che potrà
esservi una legge, alla cui formazione non coope rino tutti gli organi politici
dello Stato ; poichè d'allora in poi anche un solo elemento , la plebe, può
dettare leggi, che sono obbligatorie per tutto il popolo . Strappo più grave
non poteva essere arrecato alla costituzione patrizia : ma tentasi ancora di
rimarginarlo nel senso , che fu da questo tempo probabilmente , che la nobiltà
plebea co minciò a penetrare nelle curie , e che il patriziato antico si valse
* della sua iscrizione alle tribù per intervenire anche ai comizii tri buti, i
quali poterono anche esser presieduti da magistrati patrizii, e furono anche
essi preceduti dagli auspizii. Per tal modo i concilii un tempo della plebe
diventarono anch'essi comizii del popolo, e solo cambiò il criterio, che doveva
essere di base alla riunione, in quanto che i comisii centuriati si adunavano
in base al censo, e i comisii tributi in base alle tribù . Da questo momento il
senato trovossi (1) Che il pareggiamento fra la lex e il plebiscitum parta
veramente dalla legge Ortensia, la quale deve aver tolta dimezzo la patrum
auctoritas, risulta dai seguenti passi di scrittori e giureconsulti, che erano
meglio in caso di apprezzare il valore tecnico delle parole. Pomponio L. 2 , 8,
Dig. ( 1, 2 ), oltre l'espressione già riportata nel testo, scrive : « pro
legibus placuit et ea plebiscita observari » , e aggiunge al $ 12 : «
plebiscitum , quod sine auctoritate patrum est constitutum » , con che accen
nerebbe all'abolizione della patrum auctoritas per i plebisciti. Così pure Gaio
, Comm ., I, 3 : « lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita omnem
populum tene rent, itaque eo modo legibus exaequata sunt; Giustin ., Instit.,
I, 2 : « sed et plebi scita , lege Hortensia lata, non minus valere, quam
leges, coeperunt » . Lo stesso confermano Aulo Gellio , Noc. Att., X , 20 e XV,
27 ; come pure Plinio, Hist. nat., XVI, 15 , 10. — Cfr. ORTOLAN , Histoire de
la législation romaine, pag. 161, n . 178 et suiv. e il Madvig , L'État romain
, trad. Morel, Paris, 1882, I, pag. 260. 285 costretto ad invitare
frequentemente i tribuni a presentare dei pro getti di riforme o di misure
amministrative alla plebe (agebat cum tribunis, ut ferrent ad plebem ), e
quindi il tribunato viene a for mare l'elemento riformatore , ed attivo
nell'organizzazione dello Stato . Che anzi i comizii tributi possono anche
essere presieduti da magi strati patrizii, trattandosi di leges praetoriae , o
di elezioni dimagi strati minori. Accanto ai medesimi, si mantengono perd
ancora i concilia plebis : ma si limitano a provvedimenti, che riguardano la
sola plebe, e alla nomina di magistrati esclusivamente plebei. 234. Intanto
però eravi sempre l'organo politico più potente in questo periodo, che era il
senato, il quale veniva ad essere lasciato in disparte nella formazione della
legge, in quanto che non era più richiesta la sua approvazione. È in allora che
il senato, non avendo più in questo argomento una parte proporzionata alla
effettiva sua influenza, non potendo sempre bastargli di far dichiarare gli au
spicia vitiata e di rifiutare l'esecuzione dichiarando « ea lege non videri
populum teneri » viene ad essere condotto a forzare la propria funzione
consultiva. È quindi da quell'epoca, che cominciano a compa rire dei
senatusconsulti con autorità di leggi (1 ). Indarno i seguaci del partito
popolare protestano contro questa violazione della logica inerente
all'istituzione del senato , poichè questo ha influenza suffi ciente per far
valere la propria pretesa . Si capisce quindi come più tardi i giureconsulti
finiscano per esclamare « non ambigitur senatum ius facere posse » ; indicando
così colla stessa loro affermazione, che il dubbio era veramente esistito (2 ).
Siccome però le trasgressioni alla logica di una costituzione non si fanno
impunemente : cosi in questa stessa epoca, anche gli editti dei magistrati e
sopratutto quelli del pretore ,avendo l'appoggio dalla pubblica opinione, finiscono
ancor essi per costituire un ius non scriptum , che viene poi a conver tirsi in
un ius scriptum e in una copiosa fonte legislativa. A questo punto lo Stato
romano è ormai un organismo troppo (1) Cfr. Madvig, L'État romain , I, 260;
WILLEMS, Le Sénat, II, chap . III. Però è sopratutto il PUCATA, che hamesso in
evidenza l'importante rivoluzione introdotta della legge Ortensia (Cursus der
Institutionen, I, $ 75 ). Solo mi pare di dover ag giungere, che la rivoluzione
stessa sta nell'aver cambiato il primitivo concetto di lex , e di aver così
iniziato l'esercizio di una specie di potere legislativo per parte dei singoli
organi politici dello Stato . (2 ) ULP., L. 8, Dig . (1, 3 ). 286 grande ,
perché possa mantenersi ancora il rigoroso principio del l'antica costituzione
patrizia, che a formare le leggi debbono con correre tutti gli elementi
costitutivi dello Stato ; conviene di ne cessità lasciare, che ciascuno di
questi elementi possa dal suo canto prendere l'iniziativa . È per questo
motivo, che i comizii tributi di ventano la sorgente legislativa più copiosa ,
durante gli ultimi secoli della repubblica, e che i pretori, di magistrati
preposti all'ammini strazione della giustizia , si mutano in certo modo in
legislatori (ius honorarium ): al modo stesso che più tardi anche i
giureconsulti sa ranno autorizzati a dare dei responsi, che avranno autorità di
leggi (responsa prudentum ). Tuttavia siccome tụtti questi fattori con tinuano
pur sempre a procedere sulle traccie antiche ; così l'edificio non solo potrà mantenersi
saldo, ma per qualche tempo si innal zerà tanto più rapido e grandioso , quanti
più sono gli artefici, che cooperano alla costruzione. Sarà invece quando
mancherà il senso del pubblico bene, e quando scomparirà la distinzione antica
fra l'interesse pubblico e il privato , che, per salvare un edifizio, il quale
tende a scompaginarsi, sarà necessario di rimettere ogni cosa nelle mani di un
solo , la cui volontà, in base ad una apparente investi tura del popolo , legis
habet vigorem (1) . Questo sguardo allo svolgimento storico del concetto di
legge, pro lungato oltre i confini, che misarebbero prefissi, deve essermi per
donato ; perchè era soltanto sorprendendo il concetto alle origini, che poteva
comprendersene l'incerto ed irregolare sviluppo, come lo dimostrano le
divergenze di opinioni, che ancora oggi dominano l'ar gomento . (1) Ulp., L. 1,
Dig . ( 1, 4 ) « Quod principi placuit, legis habet vigorem ; utpote quum lege
regia , quae de imperio eius lata est, populus ei et in eum omne suum imperium ac
potestatem conferat ». Per tal modo la lex , che era un tempo il frutto
dell'accordo di tutti gli organi politici, diventa ormai l'opera di un solo ;
ma intanto si mantiene sempre il concetto, che la sorgente di ogni potere sia
il popolo ; altra conferma dell'opinione, fin qui sostenuta, relativamente alla
populi potestas. Questo svolgimento storico della legge in Roma sembra essere
compendiato da POMPONIO , allorchè, dopo aver discorso delle lotte fra la
plebe, il patriziato ed il senato, con chiude dicendo : « Ita in civitate
nostra aut iure, id est lege, constituitur, aut est proprium ius civile, quod
sine scripto in sola prudentum interpretatione consistit ; aut sunt legis
actiones, quae continent formam agendi; aut plebiscitum , quod sine auctoritate
patrum est constitutum ; aut est magistratuum edictum , unde ius hono rarium
nascitur; aut senatus consultum , quod solum senatu constituente inducitur sine
lege; aut est principalis constitutio, id est, ut quod ipse princeps
constituit, pro lege servetur » , L. 2 , 12, Dig . (1 , 2). 287 $ 3.-
L'elezione del rex , l'interregnum , e la lex curiata de imperio. 235. Per
quello che si riferisce al magistrato supremo del popolo romano, il concetto, a
cui si informa la primitiva costituzione pa trizia , consiste nel ritenere che,
come è immortale il popolo, cosi non debbano mai essere interrotti nè gli
auspicia , nè l'imperium , indispensabili entrambi per la prosperità della
repubblica. È questo concetto, che spiega, come, morto il re , auspicia ad
patres re deant; è questo parimenti, che condurrà più tardi a fissare il co
stume per cui i magistrati annui succeduti al re, debbono, prima di uscire di
ufficio e finchè ritengono ancora gli auspicia , proporre il proprio
successore; è questo infine , che può somministrare il mezzo per comprendere
quella singolare istituzione dell'interregnum , non che la procedura solenne
per l'elezione del re, che, introdotte fin dagli inizii di Roma, si perpetuano
ancora col medesimo nome e colle stesse formalità sotto la repubblica, allorchè
i re sono aboliti, e che in questi ultimitempi ebbero ad essere argomento di
tante e cosi erudite elucubrazioni. 236. Un recente autore , il Bouchè Leclercq
, ebbe a scorgere nel l'interregnum e nella procedura per l'elezione del re , «
un capo lavoro di casuistica , in cui appare lo spirito sottile e formalista
degli antichi romani » (1). Ciò darebbe a credere, che le due pro cedure siano
una creazione architettata dai pontefici, i quali in que st'argomento avrebbero
dato prova del loro acume teologico e giuridico . Parmi invece assai più
semplice e più verosimile il ri tenere, che i romani, in questo , come in altri
casi, non si compiac ciano nella creazione di formalità , come tali, ma
intendano piuttosto a conservare le tradizioni del passato. Le formalità
infatti , che accompagnano l'interregno e la elezione del re, non dimostrano
l'investitura divina del re, come alcuni vorrebbero : ma provano sol tanto ,
che i romani avevano altissimo il concetto della continuità ideale dello Stato,
alla guisa stessa , che prima avevano avuto quello della perennità della
famiglia e della gente. Esse provano parimenti, (1) Bouché-LECLERCQ, Manuel des
institutions romaines, Paris, 1886, pag . 15 . 288 che, secondo il concetto
primitivo della costituzione romana, al l'elezione del magistrato , per
trattarsi dell'atto forse più importante per la comunanza , dovevano prendere
parte tutti gli elementi costi tutivi dello Stato . Ciò stante , anche in
quest'elezione riscontrasi quel carattere contrattuale, che abbiamo trovato
nella legge, in quanto che il re, già nominato e consacrato, deve ancora
sottoporre all'assemblea della curia la lex curiata de imperio, e solo dopo la
medesima può compiere gli uffici a lui affidati, come capo civile e militare
della comunanza. Infine queste formalità possono anche considerarsi come un
indizio , che in un anteriore periodo di orga nizzazione sociale gli auspicia
risiedevano nei patres, ai quali perciò dovevano ritornare, allorchè il re
veniva a mancare . 237. Per conchiudere, questa istituzione dell' interregnum ,
ar gomento di tante discussioni, deve essere considerata anche essa come un
naturale processo , che dovette spontaneamente formarsi in una comunanza
primitiva , uscita allora dal seno dell'organizzazione gentilizia : processo ,
che è perd rivestito di quel carattere religioso e solenne, che i romani
attribuivano ad ogni loro atto, e sopratutto a quelli, che riguardavano il
pubblico interesse. In una comunanza infatti di carattere gentilizio ,
formatasi mediante una confederazione, riverente verso l'età e memore delle
tradizioni del passato , era na turale, che, mancando il capo comune, il suo
potere religioso , civile e militare dovesse passare al padre più anziano della
più antica decuria del senato , e da questa trasmettersi successivamente ai
principes delle altre decurie, che venivano dopo , in base all'an zianità ,
accið non venisse ad essere offeso il senso geloso , che i capi di famiglia
avevano della propria uguaglianza , e non potesse neppur nascere il timore, che
uno di essi « regni occupandi consilium iniret » . Era naturale parimenti, che
la proposta del successore dovesse partire da uno dei padri, ed anzi dal più
anziano fra essi, sebbene sia pur consentaneo all'indole di questa comunanza,
che la sua proposta potesse essere anche comunicata agli altri padri, e che
fosse anche sentito in famigliari concioni l'avviso del popolo, ancora composto
esclusivamente di membri delle genti patrizie . Maturata così la proposta , è
l'interrè , che deve farla ; le curie, che debbono approvarla ; la presa degli
auspicii, che deve inaugurarla ; e infine fra l'eletto e la comunanza deve
intervenire quella specie di con venzione e di accordo , che avverasi mediante
la lex curiata de imperio; la quale, sotto un aspetto, costituisce l'investitura
del ma 289 gistrato per parte del popolo , e dall'altro vincola quest'ultimo
alla obbedienza verso di quello. Infine questo processo naturale di cose viene
come al solito gittato e fuso in certe forme solenni, che si trasmettono ad
epoche, le quali mal sanno apprezzare i motivi, che le fecero adottare;
cosicchè viene ad apparire artificiosa ed architettata in modo casuistico e
sottile quella procedura, che dovette un tempo essere la naturale conseguenza
del modo di pensare e di agire di coloro , che concorrevano alla formazione di
essa . 238. Ad ogni modo il caso , di cui ci fu serbata memoria parti
colareggiata, e in cui appare in tut a la sua solennità questa pro cedura
solenne, è la elezione di Numa, il quale fra i re primitivi si presenta ancora
con un carattere pressochè patriarcale. Sparito Romolo e collocato fra gli dei
col nome di Quirino, gli auspicia e l'imperium erano passati ai capi delle
decurie del senato, che se ne trasmettevano di cinque in cinque giorni le
insegne (decem imperitabant, unus cum insignibus imperii et lictoribus erat). I
padri, che non parevano troppo soddisfatti del regis imperium , agitano il
partito se non fosse il caso di non più nominare il re : ma di lasciare, che il
potere si venga cosi avvicendando, senza che alcuno possa essere re per tutta
la vita . Il partito non prevale fra il popolo , il quale non ama di avere
cento capi, a vece di un solo , e quindi a re si sceglie Numa di stirpe sabina
. È l'interrè, che è chiamato a proporlo (rogat), ed è il popolo che è chiamato
a crearlo, mentre sono i padri, che approvano l'elezione (quirites, regem
create : deinde, si dignum crearitis, patres auctores fient). Segue poscia
l'inauguratio , che è descritta in modo particolare da Livio ; e viene ultima
la proposta della lex curiata de imperio , la quale, non ri cordata da Livio ,
è invece ricordata e ripetuta da Cicerone ad ogni elezione di re , quasi ad
indicare l'importanza, che la medesima doveva avere. Ci attesta poi Livio , che
questta procedura, che egli descrive come introdotta per quel caso determinato,
ma che Dionisio farebbe già rimontare allo stesso Romolo , non è stata
abbandonata più tardi: « hodieque in legibus magistratibusque rogandis
usurpatur idem ius, vi adempta » , cioè esclusa la violenza , a cui dovette dal
popolo ricorrersi in quel caso, accid i patres procedessero alla proposta del
nuovo re ( 1) (1) Livio , I, XVII; Cic . De Rep., II, 13, 17, 18 , 20 ; Dion .,
II, 57 ; PLUTARCO , Numa, 2. Di fronte a queste testimonianze concordi, non può
esservi dubbio, che du G. Carle , Le origini del diritto di Roma. 19 290 239.
Il concetto informatore dell'elezione del magistrato non po trebbe qui essere
più chiaro ; essa deve essere l'opera di tutti gli organi dello Stato , ed
assume un carattere pressochè contrattuale fra magistrato e popolo, al pari di
qualsiasi altra legge. Cacciati i re, il concetto si mantiene, poichè anche con
magistrati annui la con tinuità degli auspicia e dell'imperium non deve essere
interrotta ; quindi è l'antecessore , che è chiamato a proporre il successore,
e se egli per qualche motivo non possa farlo, si ricorre alla nomina di un
interré, anche quando i re già sono aboliti. Tuttavia, anche in questa parte ,
l'accoglimento della plebe nel populus delle classi e delle centurie produce
una modificazione nella primitiva costituzione ; modificazione, che in questi
tempi diede argomento a gravissime discussioni, e che, in coerenza alle cose
sovra esposte, pud a mio avviso essere spiegata nel modo seguente. Non può
esservi dubbio che, durante il periodo regio , l'interres era uno dei patres
del senato , ai quali redibant auspicia . Colla repubblica invece, al modo
stesso che nel populus delle classi e delle centurie fu compresa anche la
plebe, così anche il senato venne ad essere non più composto esclusivamente di
patrizii, ma anche di nobili plebei; del che alcuni scorgono un indizio nella
de nominazione data ai senatori di patres et conscripti. Comunque stia la cosa
, questo è certo , che il senato, divenuto patrizio -plebeo , non poteva più
rappresentare gli antichi patres o patricii, che erano stati i fondatori della
città , e ai quali redibant auspicia . Erano le curiae invece, le quali
continuarono ancora per lungo tempo ad essere esclusivamente patrizie, e di cui
potevano fare parte anche i senatori di origine patrizia, che di fronte al
rimanente del popolo rappresentavano l'antico ordine dei patres o dei patricii,
e alle quali perciò dovevano ritornare gli auspicia . Di qui la conseguenza,
che furono i patricii, o in altri termini le curiae, a cui venne a devolversi
la proposta dell'interrex , come lo dimostrano le espres sioni « patricii
coeunt ad interregem prodendum » , « patricii rante il periodo regio l'interrea
era tolto , secondo certe regole tradizionali, dal se nato, e che dallo stesso
senato partiva la patrum auctoritas. Anche quanto alla lex curiata de imperio,
ancorchè solo ricordata da CICERONE, di fronte alla sua atte stazione ripetuta,
manca ogni motivo di ragionevole dabbio. Non potrei quindi, come sopra già si è
accennato, nº 199, pag. 244 , in nota , consentire col Karlowa, Röm . R.G.,
pag. 52 e 82 e segg., il quale ritiene che la lex curiata de imperio sia
entrata in azione soltanto colla costituzione di Servio Tullio . 291 interregem
produnt» e simili, e ciò perchè l'interrex , facendo in certa guisa ancora
rivivere la figura del rex primitivo, ed essendo depositario e custode degli
auspicia , durante il periodo della va canza del magistrato, non poteva esser
nominato che da patrizii e fra i patrizii, come espressamente ci attesta
Cicerone allorchè af ferma: « cum interrex nullus sit, quod et ipsum patricium
et a patriciis prodi necesse est » (1). Come sia accaduto questo cambiamento ,
se cioè per legge o per il logico sviluppo delle isti tuzioni, il che è più
probabile, non si può affermare con certezza; ma certo dovette essere questo il
processo logico , che governo tale modificazione. In questo modo infatti si
vengono a rannodare insieme tre istituzioni, che furono argomento di lunghe
discussioni, e di cui tutti riconoscono la strettissima attinenza , che sono la
patru patriciorum auctoritas per le leggi, la lex curiata de imperio per la
elezione dei magistrati, e la proposta dell'interrex , accið l'im perium e gli
auspicia non siano interrotti, durante la vacanza del magistrato . Tutte queste
istituzioni non sono che conseguenze ed ap plicazioni dell'antico principio,
che « auspicia penes patres sunt» ; dal qual concetto conseguiva, che nè una
legge, nè un magistrato , nè un interrex potevano ritenersi bene auspicati per
lo Stato , senza l'intervento dell'ordine patrizio , il quale, di fronte al
nuovo popolo , corrispondeva ai patres del periodo regio. In questo senso viene
ad essere spiegato quanto ci afferma Cicerone che « curiata comitia , tantum
auspiciorum causa , remanserunt » , come pure si com prende, che col tempo i
medesimi si siano ridotti ad una imitazione od adombramento dell'antico per
mezzo dei trenta littori, che rap presentavano le trenta curie (ad speciem
atque ad usurpationem vetustatis per XXX lictores) (2 ). Intanto però , anche
coll' introduzione dei comizii centuriati, la nomina dei veri magistrati cum
imperio continua ancora sempre ad essere l'opera di tutti gli organi politici
dello Stato, in quanto che vi ha sempre il magistrato o interrè, che lo propone
(rogat) ; il popolo delle classi o centurie, che lo elegge (creat) ; il senato
, che continua a dare la propria auctoritas alla elezione (auctor fit) ; e da
ultimo l'assemblea delle curie, che lo investe degli auspicia e dell'imperium
mediante la lex curiata de imperio, per modo (1 ) CICERO, Pro domo sua, 14 . (
2) CICERO, De lege agraria , II, 11, 27 e 28 . 292 che il magistrato non può
entrare in ufficio, e compiere sopratutto atti di carattere militare, prima di
aver ottenuta la legge stessa (1). 240. Se non che anchequi lo svolgimento
armonico e coerente della primitiva costituzione romana comincia a dar luogo ad
un dualismo, allorehè compariscono i magistrati plebei, e sopratutto il
tribunato della plebe, il quale, pur essendo la magistratura urbana più operosa
del periodo repubblicano , non riesce però mai ad inquadrarsi per fettamente
nella costituzione politica di Roma. Dapprima infatti i tribuni della plebe non
sono ancora veri magistrati, ma piuttosto ausiliatori della plebe, e non si pud
neppure affermare con certezza dove fossero nominati, in quanto che gli storici
parlano di una no mina fatta dalla plebe per curie, di cui non si comprende il
signifi (1) Ho cercato qui di riunire e di risolvere, mediante i concetti
informatori della primitiva costituzione di Roma, e dei cambiamenti, che in
essa si vennero operando, alcune questioni, che furono oggetto di gravi e
lunghe discussioni. La patrum au ctoritas, la lex curiata de imperio, la
proposta dell'interrex furono spiegate in varia guisa. Havvi l'opinione del
Niebhur , seguìta anche dal Becker , Röm . Alterth ., vol. II, pag. 314-332,
che pareggia fra di loro la patrum auctoritas e la lex curiata de imperio, e
quindiattribuisce l'una e l'altra alle curie fin dal periodo regio ; vi ha
quella del WILLEMS, Le droit public romain , pag. 208 a 212, che invece
attribuisce al vocabolo di patrum auctoritas la significazione costante di
senatus auctoritas, affi dando al senato anche la proposta dell' interrex ;
sonvi il Rubino , e fra i recenti il Karlowa, Röm . R.G., I, p . 44 e seg., i
quali sotto le espressioni di patrum aucto ritas e di patricii interregem
produnt scorgono i senatori patrizii, e quindi affidano ad essi così la patrum
auctoritas, come la proposta dell'interrex . Vi banno infine quelli, i quali
sostengono, che la primitiva costituzione dovette certo subire qualche modi
ficazione, allorchè la formazione delle leggi e la elezione dei magistrati dal
popolodelle curie passò al popolo delle classi e delle centurie, e che il
senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le funzioni, che si
rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare alle curie, che
erano il solo corpo esclusivamedelle curie passò al popolo delle classi e delle
centurie, e che il senato diventò pa trizio-plebeo ; poichè in allora tutte le
funzioni, che si rannodavano agli auspicia , dovettero di necessità passare
alle curie, che erano il solo corpo esclusivamente pa trizio. Tale è l'opinione
sostenuta con molta dottrina dal PANTALEONI, L'auctoritas patrum nell'antica
Romu (Rivista di Filologia , Torino, 1884, pag . 297 a 395). Se guendo un
processo diverso, sono riuscito ad una conclusione analoga a quella soste nuta
dal Pantaleoni, e intanto ho cercato di richiamare ad un unico concetto i varii
aspetti, sotto cui presentasi la questione. Ritengo poi, che tanto il
pareggiamento della patrum auctoritas e della lex curiata de imperio (BECKER),
quanto quello della patrum auctoritas e della senatus auctoritas (WILLEMS),
quanto infine il con cetto di un senato patrizio, diviso dal plebeo, che
darebbe l'auctoritas e proporrebbe l'interrex (KARLOWA), per quanto sostenute
con ingegno e con erudizione, siano in contrasto coi passi degli antichiautori,
e collo svolgimento storico della costituzione romana . 293 cato (1 ). Più
tardi nel 283 U. C. da Publilio Volerone si ottiene, che la plebe possa
nominare i suoi tribuni nei proprii concilii, i quali cosi vengono ad essere
legalmente riconosciuti. Come quindi con tinua ad esservi sempre un magistrato
esclusivamente patrio, il qualedeve essere nominato dai patrizii delle curie,
che è l'interrex ; così vengono ad esservi deimagistrati, esclusivamente
plebei, quali sono appunto i tribuni e gli edili della plebe, che debbono esser
sempre nominati nei concilia plebis. Per quello poi, che si rife risce ai
magistrati veri del popolo romano, e comuni ai due ordini, si viene ad operare
una specie di divisione del potere elettorale fra i comizii centuriati, che
continuano sempre a nominare i magi strati maggiori, ei comizii tributi, che
finiscono per attirare a sè la nomina dei magistrati minori ; di quei
magistrati cioè, che un tempo erano nominati direttamente dal magistrato
maggiore. Per talmodo anche qui sonvi i poteri, in cui i due ordini si
confondono e si ripartono gli uffizii, ma rimangono ancor sempre le traccie del
l'opposizione , che un tempo esisteva fra patriziato e plebe (2 ). Infine è
ancora degno di nota in quest'argomento il processo, che i romani seguirono
nella creazione dei pro-magistrati nelle pro vincie, secondo cui i magistrati
di Roma, allorchè avevano terminato il proprio ufficio nella città, diventavano
pro-magistrati nelle pro vincie . Per noi la cosa può sembrare singolare : ma
pei romani era un processo regolare e costante , in quanto che essi, al modo stesso
che avevano prese le istituzioni gentilizie e le avevano tra piantate nella
città , così presero i magistrati di Roma, e li tras portarono nelle provincie
, prorogandone l'imperio e chiamandoli pro-magistrati, poichè i veri magistrati
dovevano essere quelli di (1) È Dionisio, IX , 41, il quale dice, che i tribuni
furono dapprima eletti nelle curie, ma in verità non si riesce a comprendere
come i difensori della plebe potes sero essere eletti coll'intervento del
patriziato ; salvo che con ciò si voglia dire, che la plebe, per la nomina dei
suoi primi tribuni, siasi raccolta nel luogo stesso, ove si riunivano le
curiae. La proposta di Volerone ebbe poi grandissima importanza in quanto che è
con essa, che incomincia il riconoscimento legale dei concilia plebis. Cfr.
Bonghi, Storia di Roma, pag . 593 e segg . Non parmi tuttavia, che si possa far
rimontare a quest'epoca l'esistenza dei comitia tributa , poichè i tribuni
della plebe, anche più tardi, furono sempre nominati nei concilia plebis. (2)
Questa è una prova , che in questo periodo della costituzione politica di Roma
i veri comizii del popolo romano erano i comiziï centuriati e i comizii tributi
; mentre i comizii curiati erano solo più conservati auspiciorum causa, ed i
concilia plebis per provvedimenti di interesse esclusivo alla plebe. 294 Roma
(1 ). Veniamo ora all'esercizio del potere giudiziario nel periodo regio . § 4.
– L'amministrazione della giustizia , la distinzione fra ius e iudicium , e la
provocatio ad populum nel periodo regio . 241. Per quello che si attiene
all'amministrazione della giustizia durante il periodo regio, la questione
fondamentale , intorno a cui vi ha grande divergenza fra gli autori, è quella
che sta in vedere se l'esercizio della giurisdizione, cosi civile come penale,
apparte nesse esclusivamente al re, oppure vi avessero anche partecipazione il
senato ed il popolo . Questo è però fuori di ogni dubbio, che in questo periodo
si cercherebbe indarno una delimitazione precisa fra la giurisdizione civile e
la criminale , sebbeue già sianvi dei reati, che sono pubblicamente proseguiti,
come si vedrà più tardi, discor. rendo del parricidium e della perduellio , e
delle autorità incari cate della prosecuzione e punizione di essi (quaestores
parricidii e duumviri perduellionis ) ( 2). Senza pretendere di volere
risolvere le gravissime questioni, che si agitano in proposito , mi limito
unicamente ad osservare , che anche in questa parte la costituzione primitiva
di Roma contiene il germe di tutte quelle istituzioni, che son chiamate a
determinare lo svolgimento ulteriore del potere giudiziario in Roma. Queste
isti tuzioni primordiali, che gli antichi fanno già rimontare al periodo regio
, sono: la potestà di giudicare, che appartiene al re ; la distin zione fra il
ius e il iudicium , per cui, accanto al magistrato qui ius dicit, già
compariscono i iudices , gli arbitri, i recuperatores in materia civile, ed i
duumviri, ed i quaestores in materia crimi nale ; e da ultimo l'istituto della
provocatio, che col tempo sarà quello , che finirà per trasportare la
giurisdizione penale dal magi strato ai comizii. Questi istituti sono in certo
modo altrettanti abbozzi, che svolgendosi a poco a poco finiranno per
determinare l'evoluzione del potere giudiziario, durante il periodo
repubblicano. 242. Che la potestà del ius dicere sia compresa nella concezione
(1) Non occorre di notare, che qui si parla dei pro-magistrati, che dopo essere
stati consoli o pretori in Roma, diventavano proconsoli o propretori nelle
provincie . Cfr. in proposito MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 11 e
segg. (2 ) Cfr. Muirhead, Histor . introd ., Sect. 15 , pag. 59 . 295 -
sintetica del regis imperium , sebbene non esista ancora la sepa razione recisa
fra la iurisdictio e l'imperium , è cosa a parer mio chenon può essere posta in
dubbio . Non può quindi essere accolta l'opinione del Maynz, che quasi vorrebbe
fin dal periodo regio attribuire la giurisdizione criminale al popolo (1 ).
Tuttavia in pro posito occorre di rettificare un concetto , che sembra essere
general mente adottato , secondo cui si vorrebbe in certo modo riconoscere nel
re il potere di giudicare di qualsiasi controversia e di qualsiasi misfatto .
Questo concetto ripugna col processo seguito nella forma zione della città , e
dell'imperium regis. Almodo stesso , che la ci vitas non assorbi tutta la vita
delle genti e delle famiglie , ma è dovuta ad una specie di selezione, che si
viene operando di quelle funzioni civili, politiche e militari, che prima erano
esercitate dalle singole comunanze patriarcali ; così anche il potere regio
venne for mandosi, mediante lente e graduate sottrazioni, che si vennero ope
rando da quei poteri, che prima appartenevano ai capi di famiglia e delle
genti. Di qui la conseguenza , che negli esordii dovette per lungo tempo mantenersi
vigorosa, accanto al potere del re, la giu risdizione propria dei capi di
famiglia e delle genti, e che per lungo tempo ancora i capi di famiglia
curarono essi la prosecuzione delle proprie offese e continuarono ad essere i
vindici della disciplina, che doveva essere mantenuta nelle famiglie ; come lo
dimostra il fatto stesso dell'Orazio, quale ci viene narrato da Livio . Tut
tavia in questa progressiva formazione del potere del magistrato fu la stessa
realtà dei fatti e l'intento della comunanza civile e po litica , che
somministrò il concetto direttivo, che ebbe a determi narla . Questo concetto
consiste in cid , che il re primitivo non si impone ai membri delle genti e
delle famiglie come tali, ma bensi ai medesimi , in quanto sono quiriti , cioè in
quanto partecipano alla stessa convivenza civile e politica . Quindi il re
dapprima non è il custode dell'ordine delle famiglie, nè il vindice delle
offese tutte, che possono patire i membri di esse ; ma è il custos urbis , ed è
incaricato sopratutto di provvedere al mantenimento di quelle leges publicae,
che sono in certo modo la base della confederazione ci vile e politica , a cui
addivennero le varie comunanze . Nel resto continuano ad essere competenti i
singoli padri e capi di famiglia , (1) V. Maynz, Introd. au cours de droit
romain , n. 20, pag. 60, ove sostiene, che anche in tema di giurisdizione
criminale la sovranità appartenesse alla nazione. 296 ed anche i capi di tutti
gli altri sodalizii di carattere religioso o civile (magistri): i quali, secondo
il concetto primitivo, hanno giuris dizione sui membri tutti del sodalizio ,
come lo dimostra , fra le altre, la giurisdizione del pontefice sui sacerdozii,
che da esso dipendono (1 ). Sarà quindi solo più tardi, ed a misura che nella
cerchia delle mura cittadine saranno anche comprese le abitazioni private , che
la giu risdizione del magistrato perderà questo suo carattere, e si potrà esten
dere anche a fatti, che, quantunque compiuti fra le pareti domestiche e da
persone dipendenti dall'autorità del capo di famiglia , potranno tuttavia
produrre una pubblica perturbazione. 243. Di questo carattere speciale della
giurisdizione, spettante al magistrato primitivo di Roma, abbiamo una prova
eloquente in quella distinzione fondamentale per l'antica amministrazione della
giustizia , così civile come penale, fra il ius ed il iudicium . Sono note le
discussioni, che seguirono in proposito , e non mancarono anche coloro , che
attribuirono la divisione stessa alla separazione, che l'ingegno sottile dei
romani avrebbe tentato di fare, fin d'allora , fra il diritto ed il fatto :
cosicchè il magistrato avrebbe decisa la que stione di diritto , mentre il
giudice avrebbe poi applicato il diritto al fatto . Una simile distinzione non
si cercò mai dai Romani, perché essi professarono sempre, che ex facto oritur
ius ;ma furono invece i fatti stessi e le condizioni reali, fra cui vennesi
formando la città , che condussero naturalmente a questa distinzione (2 ).
Pongasi infatti un centro di vita pubblica, che stia formandosi fra varie
comunanze patriarcali. L'effetto , che dovrà risultare da questo stato di cose,
sarà quello di produrre , fra le giurisdizioni, che con tinuano ad appartenere
ai capi delle famiglie e delle genti, una giurisdizione di carattere pubblico,
che appartenga al capo ed al (1) Cfr. Maynz , op. cit., n. 20, pag . 60, e
MOMMSEN, Le droit public romain , I, pag. 187 : « Magistri (scrive Festo, po
magisterare), non solum doctores artium , sed etiam pagoram , societatum ,
vicorum , collegiorum , equitum dicuntur, unde et magi stratus (Bruns, Fontes,
pag. 341). È da vedersi a questo proposito quanto ebbi ad esporre nel lib. I,
Capo V , n ° 88 , pag. 109 e nota relativa . ( 2 ) Fra gli autori, che in
questa distinzione videro in certo modo una separazione fra il diritto ed il
fatto havvi il Bonjean, Traité des actions chez les Romains, Paris, 1845 , vol.
I, § 29. Cfr. Carle, De exceptionibus in iure romano, 1873, pag. 11. Di tale
distinzione tratta il BuonAMICI, Storia della procedura civile romana, Pisa, 1866,
I, $ 5 . 297 custode della città . Di qui la conseguenza, che la questione pre
liminare, che questo magistrato sarà chiamato a risolvere, ogni qual volta gli
sia sottoposta un'accusa od una controversia , consisterà nel decidere , se il
fatto , del quale si tratta, sia uno di quelli, che debbono essere lasciati
alla giurisdizione domestica, od invece attribuiti alla giurisdizione di
carattere pubblico , che a lui appartiene; come pure dovrà cercare, se al fatto
, del quale si tratta, siavi qualche lex pu blica , che debba essere applicata
. Se quindi, ad esempio, l'Ora zio avrà uccisa la sorella , e sarà trascinato
innanzi al re in ius, la questione, che questi è chiamato a decidere, sta in
vedere, se il fatto in questione debba essere lasciato alla giurisdizione del
padre, che afferma che la sua figlia è stata iure caesam , o se trattisi invece
di tal fatto, alla cui repressione provveda una lex publica . Ed è questa
appunto la questione, che risolve Tullo Ostilio , il quale, secondo Livio : «
concilio populi advocato : duumviros, inquit, qui Horatio perduellionem
iudicent, secundum legem fació » ( 1). Che se in vece di un misfatto si fosse
trattato di una controversia di carattere civile, la questione a risolversi
sarà pur sempre quella di vedere , se trattisi di un caso contemplato da una
legge pubblica , e se perciò si dovrà accordare diritto di agire secondo la
legge . Solo allora il magistrato gli dirà di agire secundum legem publicam :
oppure più tardi, allorchè vi sarà una speciale magistratura per l'amministrazione
della giustizia , questa pubblicherà nel proprio editto quali siano i casi
particolari , in cui actionem dabit. Non è perciò da ammettersi il concetto per
tanto tempo ricevuto , che, secondo il diritto civile romano, vi fossero dei
diritti, che erano senz'azione ; ma soltanto si deve dire , che il diritto in
Roma si venne lentamente e gradatamente formando, e che toccava al ma gistrato
di esaminare e di risolvere la questione , se in quel caso determinato dovesse
, o non , essere accordata l'azione. Spettava quindi al magistrato ( in iure)
di decidere in ogni caso particolare, se il caso stesso fosse stato tale da
richiedere, in base alle leggi, l'intervento e l'appoggio del pubblico potere :
ma, una volta decisa affermativamente una tale questione, il magistrato aveva
compiuto (1 ) Liv., I, 26. Dalle espressioni, che Livio attribuisce a Tullo
Ostilio , si ricava , che la questione, che egli si propose di risolvere,
consisteva nel decidere, se vi era una legge, e quale fosse la legge, che colpiva
il delitto del quale si trattava. Cfr. PANTALEONI, Storia civile e
costituzionale di Roma, I, pag. 317. 298 il proprio ufficio , e quindi poteva
rimettere il giudizio o ai quae stores parricidii , o ai duumviri
perduellionis, se trattavasi di ac cusa penale , od anche ad un iudex e perfino
ai recuperatores , se trattavasi di una controversia civile, intorno a cui le
parti non si fossero poste d'accordo innanzi al magistrato . Questo è certo ,
che già nel periodo regio vi furono queste varie maniere di giudici ; ed è anzi
probabile , che già esistessero i iudices selecti, il cui albo do veva
probabilmente ricavarsi dal novero dei padri o senatori ; come lo dimostra la
testimonianza di Dionisio , ed anche il fatto, che fu così anche dopo , e che
in una comunanza, che aveva ancora del patriarcale, era ovvio , che i padri
fossero i naturali giudici delle controversie. È certo parimenti, che quando
trattavasi di delitti ca pitali, il re doveva essere circondato da un consilium
; come ap pare dal fatto , che, secondo Livio, a Tarquinio il Superbo fu mossa
l'accusa che « cognitiones capitalium rerum sine consiliis per se ipsum
exercebat » . Era poi naturale, che anche questo consilium fosse tratto
dall'albo dei patres o senatori, e per tal modo abbiamo anche qui un ricordo
del re patriarcale, che, circondato dagli an ziani, amministra la rozza
patriarcale giustizia (1). Per quello poi, che si riferisce all'intervento
dell'elemento popo lare nell'amministrazione della giustizia civile , sembra
che il mede simo debb a attribuirsi soltanto all'epoca serviana , alla
quale puo con molta verisimiglianza farsi rimontare l'istituzione del Tribunale
dei centumuiri, come si vedrà a suo tempo . 244. Intanto è sempre dal modo, in
cui la città si venne formando, e dall'essere essa l'organo e il centroella
vita pubblica, che ven gono ad essere determinati i caratteri della procedura,
che dovette essere seguita negli esordiidella città , così nei giudizii civili
come nei giudizii penali. È infatti nel foro, ossia nella piazza , che deve
essere amministrata giustizia , come lo dimostra il fatto, che una delle ac
cuse, mossa contro Tarquinio il Superbo, fu quella appunto di essere venuto
meno al tradizionale costume, amministrando giustizia nell'in terno della
propria casa (2 ). Così pure si comprende come questa (1) Il testo è citato da
Livio, I, 49. Abbiamo poi Dionisio, II , 14, che dice parlando del re: « de
gravioribus delictis ipse cognosceret ; leviora senatoribus committeret ; donde
si può inferire, che anche il consilium regis dovesse, trattandosi di delitti
ca pitali, ricavarsi dal senato. Cfr. Karlowa, Röm . R. G., pag. 54 . (2 )
Liv., I, 49. 299 procedura dovesse essere orale, ed ispirarsi al concetto di
una assoluta parità di condizione fra i contendenti, come quella che doveva imi
tare, cosi nei giudizii civili come nei penali, quella specie di lotta e di
certame, che un tempo dovette seguire fra i contendenti. Se si trat terà di un
misfatto , sarà il cittadino che accuserà il cittadino e cer cherà egli stesso
le prove, sovra cui si appoggia la propria accusa , e se si tratterà invece
diazione civile, sarà seguita la procedura solenne dell'actio sacramento, od
anche quella della iudicis postulatio. Di queste si è veduto come la prima già
si era formata nella stessa tribù patriarcale : mentre un tempo essa era il
modo di pro cedere del capo di famiglia contro il capo di famiglia nel seno
della tribù , venne poi ad essere trapiantata nella città, unitamente alle
formalità , che ricordano l'antica procedura patriarcale, e cominciò cosi ad
usarsi dal quirite contro ' il quirite (1 ). La seconda poi, ossia la iudicis
postulatio, fu l'effetto necessario di quella separazione del ius dal iudicium
, che, come si è dimostrato più sopra, era una con seguenza del formarsi di una
giurisdizione pubblica , accanto alle giurisdizioni di carattere domestico e
patriarcale, in quanto che, toc cando al magistrato di risolvere la questione
se in quel caso dovesse o non ammettersi un cittadino ad agire secundum legem
publicam , conveniva di necessità ricorrere a lui, accid delegasse un iudex o
un arbiter per la risoluzione della controversia ; donde l'antica de
nominazione della iudicis arbitrive postulatio (2 ). Questa conget tura ha la
sua base in ciò , che all'epoca decemvirale già si trovano stabilite queste due
maniere di procedura , senza che si possa deter minare, quando le medesime
siano state introdotte. Cotali procedure tuttavia, passando dai rapporti fra
capi di famiglia , pressochè indi pendenti e sovrani, ai rapporti fra i
cittadini di una medesima città , hanno già cessato di essere semplici
actiones, e sono diventate legis actiones , in quanto che sono altrettanti modi
riconosciuti dalla legge pubblica per far valere in giudizio le proprie
ragioni. 245. Soltanto più ci resta a discorrere di una istituzione, che era (
1) Quanto all'origine gentilizia e alla naturale formazione dell'actio
sacramento vedasi sopra lib . I, n . 104 . (2 ) La iudicis arbitrive postulatio
è ricordata da Gaio, come una delle più antiche legis actiones, Comm . IV , §
12 , sebbene poi il manoscritto di Verona sia stato il. leggibile nella parte,
che vi si riferisce. V. quanto alla medesima il Murhead, Hist. introd., Sect.
35, pag. 197 , e il BuonamiCI, Storia della procedura civile romana. I, Cap.
VII, pag. 43 a 57. 300 poi chiamata a ricevere una larga applicazione, durante
il periodo repubblicano, e che è indicata colla denominazione di provocatio ad
populum . Si dubita dagli scrittori, se questa istituzione già potesse esistere
fin dal periodo regio, ed alcuni lo negano, perchè ritengono, che in questo
periodo le funzioni del popolo si riducessero esclusivamente a quelle, che il
re credeva di dovergli affidare. Per parte nostra , di fronte alla
testimonianza di Cicerone, che, augure egli stesso, ebbe a dire , che della
provocatio ad populum parlavano i libri pontificii e gli augurali, il dubbio
non dovrebbe più presentarsi (1 ). Quanto alle considerazioni desunte dagli
stretti confini della populi potestas, durante il periodo regio , ed anche
dalla narrazione di Livio, che nel caso dell'Orazio parla di una provocatio ad
populum , accordata da Tullo « clemente legis interprete » , parmi che esse non
possano condurre ad escludere un diritto di provocatio ad populum , che in
effetto sarebbe stato invocato e fu fatto valere dallo stesso Orazio. Pud
darsi, che in quel caso particolare potessero esservi dei motivi per dubitare,
se dovesse o non essere ammessa. Ma se l'Orazio vi ricorre, egli lo fa in base
ad una consuetudine, le cui origini dovevano rimon tare ad un'epoca anteriore .
Si aggiunge , come appare dalle cose premesse , che la costituzione primitiva
di Roma dovette essere più liberale negli inizii, quando vi era un populus,
tutto composto di padri uguali fra di loro e consapevoli del proprio diritto ,
che non posteriormente , allorchè il populus cominciò ad essere composto di due
classi disuguali fra di loro, cioè del patriziato, che era il populus primitivo
, e della plebe ; di una classe dirigente e di una classe , che trovavasi in
posizione inferiore. In base ad una tale costituzione primitiva , secondo cui
la populi potestas era la sorgente di tutti i pubblici poteri ed anche del
regis imperium , veniva ad essere naturale e logico , che se il ius dicere
apparteneva al re , il con dannato dovesse poter ricorrere in appello al potere
supremo che era il popolo, mediante la provocatio . Per verità di questo
diritto alla provocatio fa cenno la stessa lex horrendi criminis, i cui termini
ci furono conservati da Livio « duumviri perduellionem iudicent : si a duumviris
provocarit, provocatione certato » . Era poi naturale, che questa provocatio,
al pari dell'azione e del giudizio , venisse a canıbiarsi in quella specie di
certame o di combattimento (1) Cic ., De Rep., II, 35 : « Provocationem etiam a
regibus fuisse, declarant pon tificii libri, significant nostri etiam augurales
» , 301 legale , che viene appunto ad essere descritto da Livio , a proposito
del giudizio dell'Orazio , in quanto che ogni procedura patriarcale prende
naturalmente questo carattere. I duumviri, che avevano pronunziata la condanna,
dovevano essi sostenere l'accusa davanti all'assemblea del populus. Eravi cosi
una specie di certamen fra essi e l'accusato, che simboleggiava quel
combattimento vivo e reale, che un tempo aveva dovuto effettivamente seguire.
Che anzi, già fin d'al lora, il populus, trattandosi di reato di carattere
politico , quale era la perduellio , poteva anche passare sopra alla questione
puramente giuridica , per giudicare invece ex animi sententia , e assolvere,
come avrebbe fatto nel caso speciale dell'Orazio, «admirationemagis virtutis,
quam iure causae » (1). Vero è, che posteriormente nel primo anno della
repubblica tro viamo una legge Valeria Orazia de provocatione, che riconobbe
solennemente al popolo questo suo diritto , il quale fu anzi conside rato come
il palladio della libertà del cittadino romano (unicum praesidium libertatis) ;
ma allora le circostanze erano cambiate , perchè il populus non comprendeva
solo più i patres e i patricii, ma anche la plebs , e quindi volevasi una
legge, che accomunasse e consacrasse una istituzione, forse solo
consuetudinaria , a tutto il nuovo populus quiritium , comprendendo in esso
anche la plebe (2). 246. Intanto è evidente la influenza, che questa
istituzione della provocatio ad populum , solennemente consacrata , doveva
esercitare sul futuro svolgimento della giurisdizione criminale , in quanto che
essa doveva condurre al risultato di trattenere il magistrato dal pronunziare
una condanna, da cui poteva esservi appello al popolo, e trasportare cosi in
definitiva la giurisdizione criminale dal magistrato al popolo . Tuttavia anche
qui lo svolgimento regolare e graduato ebbe ad essere per qualche tempo
interrotto , allorchè i tribuni della plebe presero a portare accuse contro i
patrizii avversi alla plebe, e contro i consoli uscenti di ufficio davanti ai
concilia plebis. Fu ( 1) Liv ., I, 26 . (2) Non potrei quindi ammettere
l'opinione del KarlowA, Röm . R. G., pag. 53 e segg., il quale, argomentando da
ciò, che le leggi Valeriae Horatiae avrebbero introdotta la provocatio ad
populum , vorrebbe inferirne, che questa sotto i re non esistesse che per la
perduellio. CICERONE parla di provocatio in genere, e quindi non vi ha motivo
di restringerla, ma vuolsi ammetterla in genere per i reati a quella epoca
puniti di pena capitale, cioè tanto per la perduellio, quanto per il
parricidium . 302 allora , che la legislazione decemvirale ebbe a stabilire il
principio che soltanto i comizii centuriati potessero pronunziare una condanna
capitale (1 ). Ciò però non impedisce, che i tribuni della plebe conti nuino
ancora ad eserc itare il proprio diritto di accusa , sopratutto per i
delitti di carattere politico, e per quelli che sono puniti di sole pene
pecuniarie. Di qui deriva la conseguenza, che anche quanto alla giurisdizione
criminale viene a ripartirsi il compito fra i comizii centuriati, che giudicano
dei delitti capitali , e dd i comizii tributi, che giudicano dei delitti, che
debbono essere puniti con pene pecuniarie, finchè l'incremento della città ed
anche dei delitti perseguiti per legge non renderà necessario di ricorrere alla
istituzione delle quaestiones perpetuae, ossia di tribunali speciali per
giudicare delle diverse categorie di delitti (2 ). Parmi con ciò di aver
abbastanza dimostrato non solo l'unità e la coerenza della primitiva
costituzione patrizia ; ma di aver provato eziandio , come essa debba essere
considerata come il modello e l'esem plare , sovra cui si foggiò tuttoil
posteriore svolgimento delle istituzioni politiche diRoma. Essa fu tale
dameritarsi il grande elogio diCicerone, allorchè scriveva , che la
costituzione politica di Roma formatasi « non unius ingenio, sed multorum , nec
una hominis vita , sed aliquot saeculis et aetatibus » , era tuttavia riuscita
superiore in eccellenza alle costituzioni greche, che erano l'opera meditata
dei filosofi e dei sapienti. L'opera collettiva di un popolo, proseguita con
logica tenace e coerente, e accomodata ai tempi, riusciva per talmodo superiore
all'opera individuale dei più grandi ingegni del l'umanità : nam , dice lo
stesso Cicerone, facendo intervenire Sci pione, neque ullum ingenium tantum
exstitisse dicebat, ut quem res nulla fugeret quisquam aliquando fuisset ;
neque cuncta in genia , conlata in unum , tantum posse uno tempore providere ,
ut omnia complecterentur, sine rerum usu ac vetustate ( 3). Veniamo ora alle
leges regiae. ( 1) Cic ., De leg . 3 , 4 : « De capite civis nisi per maximum
comitiatum ne fe runto » , disposizione questa , attribuita alla
legislazionedecemvirale, la quale mirava con ciò ad impedire, che le cause
capitali contro i patrizii e contro i consoli fossero dai tribuni della plebe
recate innanzi ai concilia plebis. ( 2 ) Cfr. Esmein , Le délit d'adultère à
Rome e la loi Iulia , de adulteriis, nei Mélanges d'histoire du droit, Paris ,
1886, pag . 71 et suiv. (3 ) Cic., De Rep ., II , 1. -- 303 - CAPITOLO IV . La
legislazione regia durante il periodo esclusivamente patrizio . $ 1. - Del
contributo delle varie stirpi italiche alla primitiva legislazione di Roma. 247.
Dal momento che a costituire la città patrizia concorsero comunanze, le quali
erano di origine diversa , era naturale , che, anche esistendo una certa
analogia fra le loro istituzioni, non potesse perd esservi una identità
perfetta fra le medesime. È quindi evidente , che col partecipare di diverse
stirpi alla medesima città dovette ope rarsi fra di loro una assimilazione
lenta e graduata delle loro isti tuzioni giuridiche. Che anzi, a questo
proposito , un recente autore, a cui deve assai la ricostruzione del diritto
primitivo di Roma, il Muirhead, andrebbe fino a dire, che le varie stirpi, come
recarono un diverso contributo alla costituzione politica di Roma, cosi deb
bono pure aver portato un contributo diverso alla formazione del diritto
privato di Roma; contributo, che egli cercherebbe di riassu mere nei seguenti
termini: « La patria potestas spinta fino al ius vitae et necis sulla
figliuolanza ; la manus ed il potere del marito sulla moglie ; il concetto per
cui « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio
, IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che non
paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò
insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua esse credebant,
quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di
porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche
di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal concetto , che la
forza generi « maxime sua esse credebant, quae ex hostibus caepissent »
(Gaio , IV, 16 ); il diritto del credi tore di porre la mano sul debitore che
non paga, di imprigionarlo, e se occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto
ciò insomma, che deriva dal concetto , che la forza generi « maxime sua
esse credebant, quae ex hostibus caepissent » (Gaio , IV, 16 ); il diritto del
credi tore di porre la mano sul debitore che non paga, di imprigionarlo, e se
occorre anche di ridurlo a schiavitù ; tutto ciò insomma, che deriva dal
concetto , che la forza generi il diritto , sarebbe dovuto all'influenza
latina : « Le cerimonie religiose invece, che accom pagnano il matrimonio , il
riconoscimento della moglie, quale padrona della casa e partecipe delle cure
religiose e domestiche; il consiglio di famiglia dei congiunti, cosi paterni
che materni, che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica
giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire
l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle preghiere e
dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni, che circonda
il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la pratica del
l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e di non
privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei congiunti, cosi paterni che materni,
che circonda il padre nell'esercizio della sua domestica giurisdizione; la
pratica del l'adozione, nell'intento di prevenire l'estinzione della famiglia e
di non privare cosi i defunti delle preghiere e dei sacrifizii neamiglia dei
congiunti, cosi paterni che materni, che circonda il padre nell'esercizio della
sua domestica giurisdizione; la pratica del l'adozione, nell'intento di
prevenire l'estinzione della famiglia e di non privare cosi i defunti delle
preghiere e dei sacrifizii necessarii per il riposo delle loro anime, sarebbero
evidentemente uscite da un diverso ordine di idee, e sarebbero perciò a
ritenersi di provenienza sabina. - « Quanto all'influenza etrusca non si
sarebbe sentita che ad una data più recente ;ma dovrebbe probabilmente essere
attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che deve aversi all'os
servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più impor tanti transazioni
della vita pubblica e privata » (1). Non può certam ma dovrebbe
probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto riguardo, che
deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole solenni, nelle più
impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1). Non può certamma
dovrebbe probabilmente essere attri 304 buito alla medesima quello stretto
riguardo, che deve aversi all'os servanza delle cerimonie e delle parole
solenni, nelle più impor tanti transazioni della vita pubblica e privata » (1).
Non può certamente negarsi , che la ricostruzione dell'in signe giureconsulto
appare come una verosimile congettura , quale del resto è annunciata dallo
stesso autore. Alla sua mente acutanon poteva sfuggire la stretta attinenza, che
dovette esservi fra il diritto pubblico e il privato nello svolgimento delle
primitive istitu zioni : e ciò lo condusse a questa ripartizione di parti, che
pure si appoggia al carattere e alle opere, che la tradizione attribuisce ai
re, che provengono dalle varie stirpi. Tuttavia , con tutta la reverenza
all'opinione di un insigne , crederei che questa ricostruzione del diritto
primitivo di Roma non possa essere accettata , neppure come ipotesi e
congettura , perchè è in contraddizione col modo, in cui Roma e il suo diritto
si vennero formando, e colle tradizioni, che a noi pervennero . 248. Non credo
anzitutto , che la costituzione, anche politica di Roma, possa considerarsi in
certo modo come una composizione di elementi diversi recati da questa o da quella
stirpe . In proposito ho cercato di dimostrare che l'ossatura della città
primitiva fu essen zialmente latina, e che, al pari delle altre città latine,
Roma usci da un foedus, ossia dall'accordo di varie tribù per partecipare ad
una stessa comunanza civile e politica. Quindi è che gli elementi, che
sopravvennero, entrarono tutti nei quadri della città latina , la quale fu anzi
concepita sopra un'unità cosi organica e coerente , che non può essere
riguardata, come il frutto del contemperamento di ele menti diversi (2 ). Re,
senato e popolo esistono fin dagli esordii di Roma, e a misura che nuovi
elementi si aggiungono, il re potrà sce ( 1) MUIRHEAD, Historical introduction
to the private law of Rome, Edinburgh. 1886 , pag. 4 . (2 ) In questa parte
divido perfettamente l'idea del MOMMSEN, che condanna l'opi nione di coloro «
che han voluto trasformare il popolo, che ha dimostrato nella sua lingua, nella
sua politica e nella sua religione uno sviluppo così semplice e naturale, in
uno amalgamarsi confuso di orde etrusche, sabine, elleniche e perfino
pelasgiche » . A suo avviso sono i Ramnenses, di origine latina, che non solo
fondarono e diedero il proprio nome alle città , ma che posero eziandio quelle
linee primitive, in cui entra rono poi tutte le istituzioni, che furono
assimilate più tardi » Histoire Romaine, I, liv. I, Chap. 4 , pag. 54. Questa
opinione, fra gli autori recenti, è pur sostenuta dal Pelham , Encyclopedia
Britannica , XX , vº Rome (ancient), ove rinviene in Roma tutti i caratteri di
una città latina. 305 gliersi da un'altra stirpe, il numero dei senatori e dei
cavalieri potrà essere aumentato, e potranno anche accrescersi i coll egi
sacerdotali, ma l'ossatura primitiva sarà sempre conservata. Vero è che un re
sabino, cioè Numa, secondo la tradizione, fu organizzatore del culto e del
collegio dei pontefici, ma auspicii e cerimonie religiose ed au gurali sono già
attribuite allo stesso Romolo ; nè tutto ciò , che si riferisce
all'organizzazione domestica, può ritenersi di origine sabina, dal momento che
già una legge, attribuita a Romolo, riguarda il matrimonio per confarreationem
(1). Lo stesso è a dirsi del tribunale domestico e della tendenza delle
famiglie a perpetuarsi, che il Mui rhead vorrebbe pur ritenere di origine
sabina, mentre ne troviamo le traccie in tutti i popoli di origine Aria, e in
tutti quelli parimenti, che hanno attraversato lo stadio dell'organizzazione
patriarcale (2) . Cid pure deve dirsi del cerimoniale esteriore e dell'uso di
parole so lenni nei contratti e negli atti, che il Muirhead attribuirebbe alla
in fluenza etrusca, poichè, se stiamo alla tradizione , questo cerimoniale
esteriore rimonta alla fondazione stessa della città , e quindi sarebbe
anteriore all'epoca , in cui, secondo il Muirhead , si sarebbe comin ciata a
sentire l'influenza etrusca. Si aggiunge, che le solennità di parole, di atti e
di gesti non sono anch'esse un privilegio di questa o di quella stirpe ; ma
sono comuni a tutti i popoli, che attraver sarono l'organizzazione gentilizia,
e trovano anzi, come si è dimo strato , una causa naturale in ciò , che in
questa condizione di cose , gli atti ed i contratti, seguendo in certo modo,
non fra individui, ma fra capi di gruppo, acquistano una solennità , che ora
direbbesi internazionale, la quale si conserva poi eziandio negli inizii della
co munanza civile e politica . Infine non pud neppure affermarsi, che quella
serie di istituzioni, che mette capo al concetto , che il diritto scaturisce
dalla forza , debba considerarsi come di provenienza latina, in quanto che
questo concetto deriva piuttosto dall'attitudine emi nentemente guerriera, che
prende il populus romanus quiritium ( 1) Dion. II, 25 (BRUNS , Fontes , pag. 6
). (2) Che questo sia un carattere comune a tutti i popoli , che trovansi
nell'orga nizzazione patriarcale, o che escono dalla medesima, è stato
dimostrato dal SUMNER MAINe , nelle varie opere sue , e di recente dal Leist ,
Graeco-italische Rechtsge schichte. Jena, 1885. Io stesso credo di averne data
la prova nell'opera : La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale
, lib. I e II , seguendo le migrazioni delle genti Arie, e dimostrando come
esse abbiano trapiantato nell'Occidente quelle istituzioni, che avevano
preparato nell'Oriente. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 20 306 nelle
sue origini, attitudine che è comune a tutte le stirpi, che lo costituiscono ;
come lo dimostra il fatto, che vi hanno genti di origine sabina (come, ad es.,
la Claudia ), ed altre di origine etrusca (come la Tarquinia), le quali
appariscono non meno amiche della forza , e fino anche della prepotenza,
di quelle di origine veramente latina, alle quali appartengono di regola le
genti, che come la Valeria, appariscono nelle tradizioni più favorevoli alla
plebe, e più disposte ad equi e a miti consigli. 249. Del resto non è un esame
delle singole affermazioni del Muirhead , che io qui intendo di fare ; ma
piuttosto dalle cose pre messe intendo inferire , che, trattandosi di genti,
che probabilmente erano tutte di origine Aria, e si trovavano pressochè nel medesimo
stadio di organizzazione sociale , le istituzioni fondamentali del di ritto
privato , salvo le divergenze nei particolari minuti, dovevano essere
essenzialmente comuni alle varie stirpi. Tutte avevano isti tuzioni, in cui
prevaleva il carattere religioso ; tutte compievano i loro atti con solennità e
cerimonie esteriori, che richiamavano un precedente periodo di organizzazione
sociale ; e tutte possedevano l'organizzazione patriarcale della famiglia , e
gli istituti della gente, della clientela e della tribù. Cið tutto si può
affermare con certezza , dal momento, che questi caratteri sono comuni al
diritto primitivo, quale ebbe a modellarsi nell'Oriente, durante il periodo,
chepotrebbe chiamarsi della comunanza del villaggio . La stirpe tuttavia , che
diede il primo modello, in cui furono poi fuse le istituzioni analoghe, che
erano già possedute dalle varie genti , fu anche, quanto al diritto privato ,
la stirpe latina, la quale appare come fondatrice della città ; il che punto
non tolse , che, stante il comporsi dei varii elementi, si allargasse poi il
concetto della divinità , patrona comune della città , e si ammettessero man
mano anche istituzioniproprie di altre stirpi, ma sempre foggiandole, come Roma
fece anche più tardi, sul l'impronta latina. Che anzi credo perfino di dover
affermare , che quella potenza di assimilazione, che contraddistingue Roma,
appena compare, deve sopratutto ritenersi propria alla stirpe latina, da cui
Roma ebbe la sua prima origine. Per verità , anche prima della fondazione di
Roma, le popolazioni latine erano quelle , che avevano già mag giormente svolto
il concetto di federazione, e che perciò si di mostravano anche meno esclusive
, e perfino anche più favorevoli alle plebi, e più disposte a ricevere altri
elementi nel proprio seno, - 307 e ad apprendere in conseguenza anche dalle
istituzioni degli altri popoli . Ciò è tanto vero , che nella storia primitiva
di Roma l'ele mento etrusco fu dapprima tenuto in più basso stato , e più
tardi, quando diventò potente ed aspird alla tirannide, ne fu cacciato ed
espulso ; l'elemento sabino fu quello , che , essendo ancora più tena cemente
vincolato nell'organizzazione gentilizia , si dimostrò il più esclusivo e il
meno favorevole alle plebi; mentre invece l'elemento latino fu quello che, dopo
essere stato il primo a modellare la città , entrò anche dopo in copia maggiore
a riempire tanto i quadri della città patrizia, quanto le file di quella plebe
operosa e battagliera , che ebbe tanta parte nella grandezza di Roma. Una prova
di ciò pud ravvisarsi nel fatto, che Roma, elevandosi gigante fra le altre co
munanze italiche , combattè ad oltranza cogli Etruschi, coi Sabellici e coi
Sanniti, e non si arrestd finchè ebbe quasi cancellata ogni traccia di loro
civiltà ; mentre quanto ad Alba , la considerò come sua madre patria , e
anzichè estinguerla e soffocarla , dopo averla vinta , pre feri di accoglierne
il patriziato e la plebe, e di essere erede della medesima , continuando quel
processo nell'organizzazione sociale , che da essa erasi iniziato . Fra Roma da
una parte e l'Etruria e la Sabina dall'altra , vi fu pressochè una guerra di
sterminio , sopratutto fra le due prime , mentre fra Roma e il Lazio vi fu
soltanto una lotta di precedenza ; perchè due città foggiate sullo stesso
modello , come Roma ed Alba , non potevano coesistere l'una in prossimità
dell'altra ( 1). (1 ) La questione dell'origine di Roma e dell'organizzazione,
da cui essa prese le mosse, forma tuttora argomento di discussioni fra gli
eruditi. Fra gli altri il PAN TALEONI, Storia civ . e costituz. di Roma, I, nei
primiquattro capitoli, e nella 1a appen dice aggiunta in fondo del volume,
avrebbe sostenuta l'origine sabellica di Roma e di quella organizzazione
patriarcale, di cui essa ritiene ancora le traccie, cosicchè per esso anche i
Ramnenses sarebbero Sabellici, mentre la plebe sarebbe da lui ritenuta di ori
gine latina, poichè, a suo avviso, le popolazioni latine già erano maggiormente
use alla vita della città. Credo di aver abbastanza dimostrato, che Roma
primitiva si formò sul modello latino, e che nelle stesse città latine già
eravi la distinzione fra patriziato e plebe, e quindi non sembrami che la
dottrina certo grande dell'autore possa far preva lere un'opinione,che
contraddice a tutte le testimonianze degli storici e alle tradizioni stesse del
popolo romano circa le proprie origini. Di recente poi il Casati in una nota
letta alla Académie des inscriptions et de belles lettres di Parigi,
nell'ottobre del 1886, sostenne che la gens fosse di origine Etrusca . Anche questi
nuovi studii mi confermano nella conclusione : che l'organizzazione gentilizia
sia stata un tempo comune a queste varie stirpi, e che, all'epoca della
formazione di Roma , la stirpe - 308 250. Del resto la causa di questa
divergenza col Muirhead ed il motivo, per cui ritenni di dover qui combattere
la sua teoria , devono essere cercati in un'altra divergenza ben più grave, che
sta nel modo diverso di comprendere e di spiegare la primitiva formazione di
Roma. Per il Muirhead (ancorchè, a mio avviso , egli sia fra gli autori re
centi uno di quelli, che ha posto meglio in vista il contributo diverso recato
alla formazione del diritto Romano , dal patriziato e dalla plebe), la città di
Roma continua ancor sempre ad essere il frutto dell'unione di genti appartenenti
alle stirpi latina, sabina ed etrusca , ed è ancora questo il concetto , che
egli pone a fondamento della sua ricostruzione del diritto primitivo di Roma.
Era naturale quindi che, fondendosi ed incorporandosi le varie stirpi, ciascuna
dovesse recare il proprio contributo , anche alla formazione di un comune
diritto , e che egli cercasse di discernere in questa composizione la parte ,
che a ciascuna stirpe dovesse essere attribuita. Ben è vero , che alcune volte
egli si trova imbarazzato del fatto , che il diritto quiritario primitivo si
presenta del tutto insufficiente a governare tutti i rapporti di una comunanza
anche primitiva , e lascia senza norma una quantità di relazioni, che dovevano
già certamente esi stere: ma intanto il punto suo di partenza gli impedisce pur
sempre di spiegare come ciò abbia potutoaccadere (1). Che se invece si ammetta
, come ho cercato di dimostrare , che Roma è una città formata sul modello
della città latina, e che essa, uscita dalla federazione e dall'accordo , costituisce
dapprima un centro di vita pubblica, frammezzo a varie comunanze di villaggio,
in allora Sabellica non avesse ancora superata tale organizzazione, ma le
avesse dato il mag. giore svolgimento, di cui era capace, come lo dimostrano le
genti Claudia e Fabia : che la stirpe Latina fosse invece già p ervenuta
al concetto della città federale ; e che da ultimo l'Etrusca fosse già
pervenuta alla città , che potrebbe chiamarsi corpora tiva . Roma partì dal
tipo latino e quindisi costitui fin dapprincipio in un centro di federazione :
poi sotto l'influenza etrusca diventò anche una città unificata ; ma serbò
tuttavia anche in seguito il carattere latino, per guisa che cambiossi in certo
modo in un centro di vita pnbblica del mondo allora conosciuto. (1) Tale difficoltà
occorre al MUIRHEAD , per esempio, allorchè a pag . 50 parla del. l'opinione di
coloro , che sostengono che Roma non conoscesse dapprima che la pro prietà
degli immobili, ed anche a pag. 54, ove, parlando dei delitti e delle pene,
trova non parlarsi di delitti, che non potevanomancare anche in una città
primitiva. Questi fatti invece sono facilmente spiegati, se si ammette la
formazione progressiva e gra duata, così della città , come del suo diritto
civile e criminale, non che della giuri sdizione spettante ai suoi magistrati.
309 sarà facile il comprendere come, nella formazione del suo diritto pub blico
e privato, Roma, dopo aver preso lemosse da quelle istituzioni di origine
latina, che potevano già confarsi colla comunanza civile e politica , sia poi
venuta lentamente assimilando tutte le istituzioni, che già si erano formate
nel periodo gentilizio, anche presso le altre stirpi, quando le medesime
potessero conciliarsi coll'impronta primi. tiva , che essa aveva data al suo
diritto . Questo è stato certo il me todo, che Roma seguì anche più tardi nella
trasformazione del suo diritto privato ; nè, conoscendo ormai per prova la sua
costanza nei processi seguiti, possiamo averemotivo di dubitare, che essa abbia
dovuto esordire nella stessa guisa . § 2 . Della esistenza di vere e proprie
leggi (leges rogatae) durante il periodo regio. 251. Intanto questo modo di
considerare la formazione di Roma e del suo diritto mi conduce ad apprezzare la
legislazione primitiva di Roma in guisa diversa da quella, che suole essere
generalmente adot tata dalla critica, e ad accostarsi invece a quella , che, ci
verrebbe ad essere indicata dalla tradizione. Mentre la critica infatti , dopo
aver resi leggendari i re, nega pressochè ogni fede alla legislazione, che suol
essere indicata col nome di regia , e la riduce esclusiva mente ad essere opera
dei collegi sacerdotali, o a semplice raccolta di consuetudini e di tradizioni
anteriori, la tradizione invece ci dipinge il periodo regio, anteriore anche a
Servio Tullio, come un periodo di grande attività legislatrice. Or bene, a mio
avviso, si deve andare a rilento nel respingere in questa parte il racconto
della tradizione. Se la città latina in genere, e Roma sopra tutte le altre, fu
dapprima un organo di vita pubblica fra comunanze , in cui continuavasi la vita
domestica e patriarcale, viene ad essere evidente, che come la città fu il
frutto di una specie di selezione, cosi dovette pur essere del diritto, che
governo i primi rapporti fra i membri della mede sima. Le esigenze della vita
civile e politica sono diverse da quelle di una vita di carattere patriarcale :
quindi se questa poteva som ministrare i concetti religiosi, morali ed anche
giuridici, già prima elaborati, questi però non potevano essere trasportati
tali e quali, ma dovevano subire un lavoro di scelta e di coordinamento , ed è
questo appunto , che dovette compiersi durante il periodo regio . Ne ripugna il
credere, che ciò siasi potuto fare, dal momento, che si è 310 abbastanza
dimostrato , come le genti, che fondavano la città , erano lungi dall'essere
del tutto primitive, ma avevano una suppellettile copiosa di concetti e di
tradizioni, che già si erano prima formati. Esse non erano più nello stadio
della primitiva formazione del di ritto : ma erano già in quello della
elaborazione e dell'adattamento di un diritto già formato alle esigenze della
vita cittadina. Ammet tasi, che in parte siano leggendarie le figure dei primi
re; ma questo è certo che, leggendarii o no, essi dovettero sottostare alla
neces sità di quella convivenza, di cui erano i capi, e quindi dare opera
vigorosa a quella selezione ed unificazione legislativa , che era il più
urgente bisogno per una città , che risultava di elementi diversi. Conviene
aver presente, che la città in genere e sopratutto Roma, (che fra le genti
italiche fu forse la prima ad iniziare il processo di accogliere persone di
discendenza diversa a partecipare alla stessa vita pubblica ), si presentava
come una istituzione novella, destinata ad un grande avvenire. Era mediante la
città , che l'uomo o meglio il capo di famiglia cominciava ad essere qualche
cosa, anche fuori della propria famiglia o gente , e quindi non è punto a
maravigliare, se un senso pubblico energico e potente abbia potuto penetrare re
, senato , sacerdoti e popolo. Quelsenso di devozione e di abnegazione, di cui
diedero prova più tardi le grandi famiglie plebee , allorchè giunsero
finalmente ad essere ammesse come eguali nella città , do vette dapprima essere
provato dagli uomini, usciti dalle genti patrizie, allorchè sentirono di
costituire un populus , malgrado la loro ori gine diversa : e quindi non è
punto probabile , che essi abbiano dovuto mantenersi del tutto estranei alla
elaborazione di quel diritto , che doveva governarli, e che tutto lasciassero ai
collegi sacerdotali ed al re loro capo. Se essi eleggevano il re e per tale
elezione si ra dunavano nei comizii, non si comprende veramente come essi
abbiano potuto essere affatto esclusi dall'opera legislativa , che era una con
seguenza inevitabile della formazione della città (1). (1) L'opinione, qui
combattuta, posta innanzi dal DIRKSEN , Die Quellen des röm misches Rechts,
Leipzig, 1823, pag. 234 e segg ., in un'epoca , in cui tutta la storia
primitiva di Roma erasi convertita in una specie di leggenda, trova ancora
oggidi molti seguaci. Basti annoverare, tra i recenti, il PANTALEONI, op . cit
., pag. 309 ; il KARLOWA, Röm . R. G., pag. 52,ed anche il Murrhead, Hist.
Introd., pag . 20. L'ar gomento da questi due ultimi invocato consiste
sopratutto nella nota espressione di Livio : « vocata ad concilium multitudine,
quae coalescere in populi unius corpus, nulla re , praeterquam legibus, poterat
, iura dedit » . Essi argomentano dal iura 311 252. A ciò si aggiunge che in
una piccola comunanza , formata da persone, che poco prima ancora vivevano
patriarcalmente, do vette essere frequente e quotidiano il contatto fra
elementi, che ora a noi appariscono grandiosi per l'età remota e per il grande
avve nire, che ebbero di poi. È quindi assai probabile, che i rapporti fra re,
padri , pontefici , auguri e popolo fossero continui , e che perciò potesse
anche formarsi una specie di pubblica opinione in torno a ciò , che potesse
esservi di comune interesse per una città, che era uscita dalla volontà comune,
e che era la creazione di tutti. Senza voler sostenere che le concioni, da
Livio e Dionisio attribuite ai personaggi della loro storia , siano state
veramente quelle, non è però inverosimile, che concioni siansi veramente fatte
, e che in tutti i casi, in cui trattavasi di qualche pubblico interesse,
potesse vera mente accadere, che i padri intervenissero fra il popolo ed anche
fra la plebe, e interponessero nei rapporti quotidiani un'autorità di
persuasione, non dissimile da quella, che entrò a far parte sostan ziale della
costituzione primitiva di Roma, sotto il nome appunto di patrum auctoritas. Se
il rispetto, che quegli uomini avevano per l'età , e la loro disciplina
domestica spiegano la solennità , con cui essi votavano nei comizii , e il loro
limitarsi a rispondere, appro vando o negando ; non possono però escludere, che
quelle discussioni, che erano inopportune al momento della votazione, potessero
anche essere indispensabili e frequenti in seno ad un popolo , che senti con
tanta energia la vita pubblica , e l'influenza della medesima. Il popolo
romano, fin dalle proprie origini, non fu un popolo nè di asceti, nè di
anacoreti, che seguissero una regola conventuale : ma fu un popolo, i cui
membri appresero ben presto a dire la verità nella vita pub blica , quantunque
i suoi membri continuassero ad essere ligii ed ossequenti all'autorità del
padre nella vita domestica. dedit, adoperato invece di iura tulit; ma è facile
il notare, che le espressioni di iura dare et accipere sono talvolta sinonime
di quelle di iura ferre , come lo dimostra fra gli altri Aulo GELLIO , XV, 28,
4, che deffinisce i plebiscita « quae , tribunis plebis ferentibus, accepta
sunt» . Si aggiunge che Livio in quello stesso passo insiste sulla necessità di
vere leggi per incorporare elementi eterogenei e diversi, e usa quel vo cabolo
di legge, che pei Romani significò sempre un provvedimento proposto dal
magistrato e accettato dal popolo. Ad ogni modo questa proposizione si
riferisce an cora all'epoca anteriore alla confederazione coi Sabini, e quindi,
trattandosi ancora del capo patriarcale di una tribu militare , si comprende
che egli potesse iura dare ; mentre si dovettero richiedere vere leges rogatae,
allorchè le varie tribù entrarono a partecipare alla medesima città. 312 253.
La loro caratteristica prevalente non è nè la religiosità, né l'indole
guerriera , ma piuttosto quell'equilibrio e contemperamento di facoltà umane,
in cui consiste il senso giuridico e politico . La qualità , che prepondera in
essi fra le facoltà affettive, è la volontà pertinace , costante , e fra le
facoltà intellettuali è una logica, che analizza con un acume senza pari i
varii elementi dell'atto umano, e che quando ha afferrato un concetto non lo
abbandona, finchè non abbia dato tutto cid, che da esso può ricavarsi ; due
qualità queste, l'una pratica e l'altra teorica , che si corrispondono
perfettamente fra di loro, e che spiegano come la storia giuridica e politica
di Roma si riduca all'applicazione costante delmedesimo processo, che inizia
tosi con essa, non fu più abbandonato fino alla completa formazione del diritto
pubblico e privato di Roma. Di qui la conseguenza , che tanto nella politica ,
quanto nel diritto ,Romanon procedette maiper semplice agglomerazione ed
incorporazione, ma per selezione, cosicchè apprese da tutte le genti, ma
accettò solo queimateriali, che potevano entrare nei quadri del proprio
edificio . Roma nella storia dell'umanità rap presenta , per cosi esprimersi ,
un crogiuolo, in cui sono gettate tutte le istituzioni anteriori del periodo gentilizio
, e quelle che fu rono poi da essa rinvenute presso gli altri popoli
conquistati, nel l'intento di isolare dagli altri elementi della vita sociale
l'elemento giuridico e politico , e questa selezione e questo isolamento essa
cominciò ad operare fin dai proprii esordii. 254. Credo quindi che per
comprendere Roma primitiva convenga guardarsi dall'esagerare quella, che suole
essere chiamata, la reli giosità del popolo romano. Non è già che possa negarsi
ai Romani un sentimento profondamente religioso ; ma essi non si trovano punto
sotto il dominio di quel terrore superstizioso della divinità , che soffoca
l'operosità umana; ma scorgono in essa una potenza, la quale invocata e resa
benevola con determinati riti , doveva condurre il popolo romano ad insperata
grandezza . Si aggiunge, che questa carattere religioso , finchè Roma fu
esclusivamente patrizia , era co mune a tutti i membri del populus, i quali
tuttiavevano un culto da perpetuare e tradizioni da conservare. Non era quindi
possibile fra essi la formazione di una classe esclusivamente sacerdotale, che
con ducesse al risultato , a cui si giunse in Oriente , di fare preponderare
per modo l'elemento religioso da soffocare affatto l'elemento politico e il
giuridico (1 ). (1) Quanto alla differenza, sotto il punto di vista religioso,
fra le razze Arie del 313 A questo proposito pertanto è opportuno di tener
distinti eziandio due periodi in Roma primitiva: quello cioè di Roma
esclusivamente patrizia , in cui ci troviamo di fronte ad un popolo, i cui membri,
uscendo dalle genti patrizie, conoscono tutti i riti, gli auspizii e le
cerimonie religiose, e se ne servono nell'interesse comune; e quello invece, in
cui fu ammessa anche la plebe alla cittadinanza . In questo secondo periodo
infatti il populus viene a comprendere due classi : l'una, poco numerosa, ricca
di tradizioni, dotta nelle cose reli giose, esperta nelle civili e politiche ;
e l'altra, che ha per sè il nu mero e la forza , ma che è nuova alla vita
civile, priva di tradizioni, e si trova nella necessità di ricevere modellato e
formato il proprio diritto dall'ordine patrizio. È solo in questo secondo
periodo, che la conoscenza degli auspicia e delius viene a cambiarsi in un ti
tolo e in un mezzo di superiorità per il patriziato , il quale se ne vale per
tenere in rispetto e in riverenza le masse . È solo allora che il diritto, le
cui origini erano già celate nell'oscurità dei tempi, e le cui formalità erano
già divenute inesplicabili per la generalità dei cittadini, viene ad essere
chiuso negli archivii dei pontefici, che sono in certo modo incaricati della
custodia e della elaborazione di esso ; mentre quest'arcano e questa segretezza
non poterono certo esi stere negli esordii della città , allorchè la conoscenza
del diritto e degli auspizii era ancora comune a tutti i capi di famiglia (1).
Cid mi induce a credere, che la parte da attribuirsi al populus, nella
formazione del diritto primitivo di Roma, sia maggiore di quella , che suole
generalmente essergli assegnata ; ma per riuscire in qualche modo a
determinarla , importa ricercare anzitutto la funzione, a cui furono chiamati i
collegii sacerdotali in Roma primitiva, quanto alla formazione del diritto .
l'India e quelle trasportatesi nell'Occidente, mirimetto ai concetti svolti
nell'opera : « La vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale » ,
pag. 92 , n ° 33, e agli autori, che ivi sono citati. (1) Vedasi a questo
proposito il MACHIAVELLI, Discorsi sulle deche di Tito Livio, Libro I, Cap. XI,
XII, XIII e XIV, e il MONTESQUIEU, Dissertation sur la politique des Romains
dans la religion . 314 $ 3. – I collegii sacerdotali in Roma e la loro
influenza sulla formazione del diritto primitivo . 255. La caratteristica di
Roma è una mirabile coerenza nel pro cesso, che essa ebbe a seguire nei diversi
aspetti della propria for mazione. Si può quindi essere certi che come la città
fu il frutto di una selezione della cosa pubblica dalla privata , cosi anche la
re ligione pubblica di Roma non potè essere il frutto dell'agglomera zione dei
culti e delle credenze proprie delle varie genti ; ma fu an ch'essa il
risultato di una selezione, per cui, mentre le singole genti e tribù
continuarono nel proprio culto gentilizio, vennesi formando nella città un
culto pubblico , il quale alla sua volta assunse poi una doppia forma, quella
cioè di culto pubblico ed ufficiale (sacra pu blica ), e di culto popolare
(sacra popularia ). Ciò è dimostrato dal fatto , che fra la quantità degli Dei
riconosciuti dai Romani, quelli al cui culto intendono i flamini maggiori sono
Marte, Quirino e Giove, di cui il primo, secondo la tradizione, è il padre del
fondatore, l'altro il fondatore stesso della città , e l'ultimo infine sembra
talvolta con fondersi coll'antica divinità italica di Giano, rivestita alla
Greca (1). 256. Intanto una pubblica religione richiedeva pure un pubblico
sacerdozio . Questo concentrasi dapprima nello stesso re , il quale è augure
sommo e pontefice massimo ; ma poscia il re stesso , pur conservando gli
auspicia del magistrato supremo, costituisce intorno a sè dei collegii
sacerdotali , i quali hanno un carattere del tutto peculiare, in quanto che
essi non hanno un compito esclusivamente religioso ,ma anche una vera
importanza civile e politica . Cotali sono sopratutto gli auguri, i feziali e i
pontefici, i quali,mentre hanno un carattere sacerdotale, che dà un'aureola
religiosa al loro ufficio , compiono ad un tempo una funzione importantissima
per le genti patrizie, che è quella di essere i custodi e gli interpreti delle
tra ( 1) La triade di Giove, Marte e Quirino si fa dalla tradizione rimontare a
Numa, il quale avrebbe già istituiti i tre flamini maggiori, dando però la
prevalenza al fila mine di Giove (Liv., I, 20). Fu più tardi però, che la
religione si rivestà alla Greca e ciò sopratutto sotto l'influenza etrusca ,
ossia sotto gli ultimi tre re, in quanto che fu allora che venne costituendosi
la triade Capitolina di Giove, Minerva e Giunone. Cfr. Bouché-LECLERCQ, Manuel
des instit. romaines, pag. 456 a 562. 315 dizioni,non solo religiose, ma anche
giuridiche e politiche, e sopra tutto di quella parte di esse, che era indicata
col vocabolo di fas, ed era considerata come l'espressione della volontà
divina. Quelle tradizioni , che in Grecia furono lasciate ai poeti , i quali in
antico avevano ancor essi un carattere sacerdotale , in Roma invece sono
affidate a collegi sacerdotali , i cui membri sono scelti nel novero stesso dei
padri, memori dei riti e degli auspicii religiosi, i quali, malgrado il loro
carattere sacerdotale, continuano pur sempre a prendere parte alla vita civile
e politica , e sono i custodi fedeli del patrimonio tradizionale delle genti
patrizie. Cid spiega come le varie tribù primitive , a quella guisa che erano
concorse in parti eguali sotto l'aspetto politico e militare , così sembrano
pure avere na propria rappresentanza nei varii collegii sacerdotali, come lo
dimostrano il numero di tre, poscia di sei, e quindi di nove auguri e
pontefici, ed anche il numero di venti, che sembra essere stato quello dei
feziali. Intanto se un posto facevasi vacante , il vuoto veniva a riempirsi con
quella stessa cooptatio , mediante cui una nuova gente doveva essere accolta
nell'ordine patrizio . Cosi es sendo composti i collegii sacerdotali , essi
erano in condizione di contemperare e coordinare le tradizioni proprie delle
varie tribù, che erano concorse alla formazione della città ; e potevano col re
, che era il loro capo , contribuire potentemente all'unificazione e al
coordinamento legislativo . Quindi è che il culto, di cui essi sono i
sacerdoti, non è un culto speciale di questa o di quella tribù , ma un culto
ufficiale del popolo romano, come lo dimostrano le appel lazioni di augures
publici populi romani quiritium , di fetiales populi romani, non che la
qualificazione data ai pontifices di sacerdotes publici populi romani. Per
quello poi, che si riferisce alle tradizioni, della cui custodia essi sono
incaricati, senza voler pretendere, che in cið potesse esservi uno scopo
preordinato, questo è però certo, che si effettud fra essi una ripartizione, la
quale corri sponde ai varii aspetti, sotto cui il diritto può essere
considerato (1) . (1) Non ho creduto qui di dovermi occapare specialmente dei
quindecim viri sa cris faciundis, poichè questo collegio, iniziato da Tarquinio
Prisco colla nomina di due sacerdoti per la custodia dei libri sibillini, si
cambid col tempo nel custode dei culti, che erano di provenienza straniera .
Esso quindi non esercitò alcuna diretta influenza sul diritto specialmente
privato ; sebbene sia una prova evidente del con tinuo studio dei Romani per
assimilarsi le istituzioni anche religiose degli altri po poli. È a vedersi,
quanto al medesimo, il Bouché- LECLERCQ, op. cit .,pag . 555 a 560, e il
Villems, Le droit public romain, pag. 323-24 . 316 257. Vengono primi gli auguri,
i quali, secondo la tradizione, sem brano costituire il più antico di questi
collegii, in quanto che Roma stessa sarebbe stata fondata coll'osservanza delle
cerimonie prescritte dall'arte augurale. Essi sono i custodi dei riti, che
debbono prece dere e accompagnare tutte le deliberazioni, che possono riferirsi
al pubblico interesse, e costituiscono cosi nella religione pubblica della
città una imitazione degli stessi augurii privati : come lo dimostra l'at
testazione di Cicerone, che l'abitudine di consultare la volontà divina era
universale, e che i capi delle famiglie e delle genti non tenevano meno dello
Stato ai loro auspizii privati (1). È indubitabile, che essi ebbero dei libri
augurales , in cui serbavano le proprie tradizioni e la propria giurisprudenza
, e senza voler penetrare nei concetti, a cui poteva ispirarsi l'arte loro ,
egli è certo, che essa fu una crea zione originale, propria sopratutto alle
stirpi latina e sabellica , che dimostra lo spirito religioso e giuridico ad un
tempo del primitivo popolo romano. È al collegio degli auguri, che devesi la
teoria sot. tile e complicata degli auspicii, che dovevano essere osservati, la
distinzione fra quelli, che potevano essere favorevoli o sfavorevoli, e la
precedenza che certi segni dovevano avere sopra altri. È ad essi parimenti, che
devesi l'orientamento del templum , ossia la delimi tazione di un sito senza
ostacoli e in cui potesse spaziare la vista , per modo che gli auspizii
potessero essere osservati; delimitazione, che do vette probabilmente anche
esercitare influenza sulla scelta e sull'o rientamento dei luoghi, in cui le
città dovevano essere edificate (2 ). 258. È però notabile, che se gli auguri
sono incaricati dell'osser vanza dei riti e della custodia delle tradizioni e
decisioni augurali, è pur sempre il magistrato, che è investito dei publica
auspicia , il quale deve giudicare se i medesimi siano o non favorevoli, e può
così eser citare una influenza decisiva sulle deliberazioni relative al
pubblico interesse ( 3).Era poinaturale , che gliauguri, i quali, nella città
esclu (1 ) Ciò è attestato da Cicer ., De div., I, 16 , 28. — Cfr. MOMMSEN , Le
droit public romain , I, pag. 100 e 101. (2 ) Il vocabolo di arte augurale
prendesi talvolta in senso così largo, da com . prendere non solo l'avium
inspectio (donde l'auspicium ),ma eziandio l'ispezione delle viscere degli
animali, donde l'aruspicium . Questo però è da avere presente, che l'ar spicium
era di origine latina, mentre l'aruspicium era di origine etrusca. È da ve
dersi in proposito il PANTALEONI, Storia civ . e cost., appendice III ,
relativa ai Luceres. (3 ) Cfr. MOMMSEN, Op. cit., I, pag . 119 . 317 sivamente
patrizia, erano i custodi di riti e di tradizioni, che erano noti a tutto il
populus, posteriormente , allorchè nel populus entro anche la plebe, finissero
per acquistare una grande autorità nelle lotte fra patriziato e plebe, e per
recare al primo un potentissimo sussidio mediante riti, la cui significazione
era ormai divenuta inesplicabile, anche per persone che uscivano dalle stesse
genti patrizie . La loro po tenza ed autorità ci è sopratutto attestata da
Cicerone, il quale scrive: « maximum autem et praestantissimum in re publica
ius est au gurum cum auctoritate coniunctum » , e lo prova dicendo, che essi
potevano disciogliere i comizii, rimandarli ad altro giorno, dichiararli
viziati, anche dopo che eransi tenuti, mentre intanto niuna delibera zione di
pubblico carattere poteva essere presa senza il loro inter vento (1). Però
questa loro apparente onnipotenza, di fronte allo Stato, scompare, quando si
consideri, che il giudizio relativo agli auspizii favorevoli o non appartiene
al magistrato, e che gli auguri emettono il loro avviso sulla osservanza del
rito , con cui siansi tenuti i co mizi, solamente quando siano interrogati dal
senato o richiesti dal magistrato stesso . 259. Quanto al collegio dei feziali,
esso è il custode e il deposi tario del ius foeciale ; ma non è certo il
creatore del medesimo, come lo dimostra il fatto , che questo erasi già formato
durante il periodo gentilizio , ed era comune ad altri popoli, pure di origine
la tina e sabellica (2 ). L'istituzione del collegio è dagli antichi attribuita
ora a Tullo Ostilio , ed ora ad Anco Marzio, ma tutti fanno rimon tare il ius
foeciale ad epoca anteriore, poiché Tullo Ostilio vi sa rebbe ricorso, anche
prima che il collegio fosse da lui istituito. Narra. infatti la tradizione, che
il fatto di rimettere le sorti della guerra fra Roma ed Alba ad un singolare
combattimento fu solennemente sti pulato coi riti proprii del ius foeciale. « I
due cittadini eletti a cid, cosi riferisce il Bonghi la tradizione, facendo le
veci dei padri dei due popoli, lo sancirono a nome di ciascuno di essi. L'uno e
l'altro giurarono, invocando Giove, che l'uno e l'altro popolo l'a vrebbe osservato
. Quello dei due popoli, che primo vi fosse ve (1) Cic., De legibus, II, 12. (2
) Il processo di naturale formazione , durante il periodo gentilizio, di quel
ius belli ac pacis , che costituì poi il ius foeciale dei Romani, fu esposto
nel Lib. I, Cap. VII, pag. 139 a 166 . 318 nuto meno, Giove lo ferisse, come
l'uno e l'altro ferivano il porco , che sacrificavano ; anzi con tanta più
forza , quanto era la forza di lui » ( 1) . Ciò significa che il collegio dei
feziali non è stato mai il giudice della giustizia intrinseca della guerra o
della opportunità della pace ; l'una e l'altra son trattate dal senato e sono
deliberate dal popolo ; mentre i feziali sono incaricati dell'osservanza dei
riti o custodiscono le tradizioni relative al ius pacis ac belli. Anche essi
sono messi in azione dagli organi del potere civile e politico , e potranno
talora essere chiamati a decidere delle questioni, ma queste non si riferiscono
alla giustizia intrinseca , nè almerito delle cause di guerra , ma sono di
preferenzaquestioni di rito e di procedura (2). I feziali sono in numero di
venti ; riempiono i posti vacanti, mediante la cooptatio ; non hanno un capo
permanente, ma scelgono caso per un pater patratus nel proprio seno ; il che è
un altro indizio come veramente il pater patratus fosse un cittadino eletto a
fare le veci del popolo, e che ricordasse così l'antico patriarca della gente e
della tribù. Il ius foeciale pertanto è in ogni sua parte una sopravvivenza del
periodo gentilizio ; indica lo stadio più pro gredito , a cui erano pervenuti i
rapporti anteriori fra le genti e le tribù ; dimostra come già allora vi
fossero degli esperimenti di amichevole componimento , prima di addivenire alla
guerra ; ed è una prova di più, che i fondatori della città non erano popolazioni
primitive nello stretto senso della parola , ma avevano anche in questa parte
un tesoro di antiche tradizioni, le quali, serbate dallo spi rito conservatore
dei Romani, furono mantenute fino a che non di ventarono pienamente disadatte e
incompatibili colla convivenza civile e politica (3 ). 260. È poi probabile , e
l'ho dimostrato a suo tempo, che la distinzione fra foedus e sponsio fu una
conseguenza del passaggio dall'organizzazione gentilizia alla costituzione
politica della città , il (1) Bonghi, Storia di Roma, I, pag. 79 . (2) Tale è
pure l'opinione sostenuta dal FusiNATO , Dei Feziali e del diritto fe. ziale,
Cap. III. (3 ) Il numero dei venti feziali, che non corrisponde a quello degli
auguri e dei pontefici, può forse essere un indizio, che il diritto feziale ,
comune ancora ai Latini e ai Sabini, che erano più vicini ancora
all'organizzazione gentilizia, non apparteneva invece agli Etruschi, che, più
avanzati nella vita cittadina , già si erano maggior mente discostati da
pratiche di carattere eminentemente patriarcale. - - 319 – che rendeva tale
distinzione incomprensibile per popoli, che non erano ancora pervenuti a questo
punto di svolgimento (1). Così pure è un effetto di tale passaggio la
distinzione netta, che viene operandosi fra l'amicitia , l'hospitium ,i quali
si dividono in pubblici e in privati; ancorchè sia facile di scorgere, che nel
primo periodo le amicizie sono ancora curate specialmente dallo stesso re; il
qual sistema fu seguito sopratutto dalla politica dei Tarquinii , che intrattenevano
relazioni coi capi delle comunanze vicine, e macchinavano proba bilmente un
cambiamento nella forma di governo, che doveva es sere generale (2 ). Era poi
una conseguenza logica della politica seguita da Roma nella propria formazione,
che essa in questo primo periodo non si chiudesse ancora in se medesima, ma
venisse in certo modo at traendo a sè le popolazioni vicine. Roma continua in
questa parte la politica dell'asilo, dalla tradizione attribuita a Romolo , e
in ciò presenta un carattere del tutto opposto alla formazione delle città
greche, e a quella della stessa Atene. Giovano a questo intento l'isti tuto
dell'hospitium publicum , la concessione della civitas sine suf fragio,
l'istituzione del municipium , singolare istituzione, per cui altri, pur
restando nella propria terra , e partecipando alle cose amministrative di essa,
pud tuttavia prendere parte viva alla gran dezza della patria communis, e
recarsi a darvi il prorio voto, allorchè trattisi di quelle deliberazioni, che
possono interessare direttamente anche gli abitanti dei municipia. È poi
notabile il profitto, che Roma seppe ricavare dall'istituzione , graduando e
differenziando le con cessionida essa fatte ai municipii, e svolgendone il
concetto in guisa da cominciare colla concessione di una civitas sine suffragio
per giungere sino alla concessione di una cittadinanza compiuta, il che pure a
dirsi dell'istituto della colonia (3 ). Intanto però anche qui è ( 1) V.,
quanto al foedus e alla sponsio, il Lib . I, Cap. VII, nº 118 . ( 2) Cid è
attestato da Livio, I, 49, allorchè scrive di Tarquinio il Superbo : « La
tinorum maxime sibi gentem conciliabat , ui peregrinis quoque opibus tutior
inter cives esset ; neque hospitia modo cum primoribus eorum , sed adfinitates
quoque iungebat » . (3) Inteso in questa guisa, il sistema municipale per Roma
non è che l'applica zione del sistema stesso , che essa aveva seguito nella
propria formazione, quello cioè di interessare alle sorti della patria comune
tutti i popoli, che da essa dipendevano, facendo sempre più larghe concessioni
a quelli, che le erano più vicini, e di cui quindi poteva avere maggiore
bisogno. V. sopra , Lib . I, Cap. VII, nº 127. 320 appare, che la politica
estera di Roma non appartiene punto ad un collegio di sacerdoti,ma che nel
periodo regio appartenne al re, e nel repubblicano al senato, il quale ,
essendo un consesso permanente ed accogliendo nel proprio se noi magistrati
uscenti di ufficio , poteva mantenere quella continuità tradizionale non
interrotta, di cui porge un mirabile esempio la storia politica di Roma. Infine
si comprende eziandio , come il collegio dei feziali, custode di tradizioni,
che si riferivano ai rapporti colle altre genti, non abbia avuta l'influenza
effettiva , che appartenne agli auguri e ai pontefici, perchè il nucleo delle
tradizionida esso serbate non poteva trovare applicazione nelle lotte fra
patriziato e plebe. Tuttavia allorchè i due ordini erano ancora distinti, vi
furono patti fra essi, stipulati coi riti del diritto feziale, e accompagnati, a
richiesta della plebe, dalla capitis sacratio di colui, che li avesse violati
(leges sacratae) (1) . 261.Non vi ha poi dubbio, che il collegio sacerdotale
più importante nell'organizzazionedella città patrizia è, senza alcun contrasto
, quello dei pontefici. È questo collegio che riverbera nel proprio seno le
istituzioni primitive di Roma. Esso infatti, a differenza degli altri collegi,
ha una costituzione monarchica, ed ancorchè composto di più membri, è
presieduto nel periodo regio dal re , e poscia dal pontifex maximus, il quale
raffigura il capo religioso del popolo romano, in quanto costituisce una
famiglia religiosa . Cid appare da questo , che il pontefice massimo, durante
la repubblica , e quindi anche il re ,nel periodo anteriore, ha una vera patria
potestà sui sa cerdoti e sulle vestali, che da esso dipendono, le quali ultime
sono da lui captae in quella stessa guisa, in cui lo sarebbe una figlia dal
proprio padre o marito ( 2). Il collegio dei pontefici poi, al pari del popolo
dei quiriti, di cui esso ha la direzione religiosa , ha un potere, che spiegasi
in doppia direzione. Da una parte esso costituisce il vero sacerdozio del po
polo romano, e quindi prima il re e poscia il pontifex maximus, da cui dipende
lo stesso rex sacrorum , compiono i sacrifizii proprii della religione pubblica
ed ufficiale del popolo romano. Da un altro ( 1) Cfr. LANGE, Histoire
intérieure de Rome, I, pag. 134, e la sua dissertazione : De sacrosanctae
potestatis tribuniciae natura. Lipsiae, 1883. (2) Cfr. Bouché-LECLERCQ , Les
Pontifes de l'ancienne Rome. Paris, 1871 ; Ma nuel des Instit. romaines, pag .
510 a 533 . 321 - canto invece il collegio dei ponteficideve eziandio curare,
che i culti delle genti e delle famiglie non siano interrotti (sacra privata ):
e sotto quest'aspetto raduna le curie in quanto costituiscono una religiosa
famiglia nei comitia calata , per mezzo dei proprii cala tores . Quindi è pure
col suo intervento , che compiesi la cerimonia solenne della confarreatio, la
quale dà origine alle iustae nuptiae delle genti patrizie, e consiste in una
cerimonia religiosa, che si compie avanti ai pontefici coll'intervento di dieci
testimonii , che rappresentano le dieci curie delle tribù, a cui appartiene
quegli, che addiviene alle medesime. È esso parimenti, che presiede a quei co
mitia calata delle curie, in cui i membri del popolo primitivo addiven gono
all'adrogatio e al testamentum , i quali , durante il periodo della città
patrizia , dovettero ottenere un ' approvazione analoga a quella , a cui erano
sottoposte le leggi, come lo dimostra la formola conservataci da Aulo Gellio ,
relativa all'adrogatio , la quale senza dubbio doveva essere analoga a quella
del testamentum . Per verità ho già cercato di dimostrare a suo tempo come per
le genti patrizie tanto l'uno che l'altro atto dovevano subire la pubblica
approvazione, in quanto che i medesimi potevano alterare quell'organizzazione
gentilizia, che aveva costituita la forza e la superiorità del patriziato , e
che in Roma primitiva volevasi conservare ad ogni costo . Intanto ne veniva,
che i Pontefici sotto quest'aspetto potevano anche eser citare un'influenza
sulla successione per quella parte, che si rife risce alla trasmissione
dell'obbligazione relativa ai sacra . 262. Tuttavia l'importanza maggiore del
collegio dei pontefici provenne sopratutto da che questo collegio ebbe
l'altissimo ufficio di serbare le tradizioni relative al mos, al fas ed al ius,
e proba bilmente dovette anche compiere quella prima elaborazione, me diante
cui il diritto , che, erasi formato fra le genti e i loro capi, potè poi essere
applicato fra i quiriti, ossia fra i membri che par tecipavano alla medesima
comunanza civile e politica (1). Essi dovet ( 1) Questa funzione,
essenzialmente conservatrice degli antichi riti e tradizioni, che sarebbe stata
affidata ai pontefici, parmi provata dal seguente passo di Livio , I, 20 : «
Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit: ne
quid divini iuris, negligendo patrios ritus, peregrinosque adsciscendo,
turbaretur » . Per quello poi, che si riferisce all'adrogatio ed al testamentum
, è da vedersi ciò, che si disse per l'epoca gentilizia nel Lib. I, Cap. IV, n
° 65, e per il periodo dei primi re in questo stesso libro, Cap. II, nº. 220.
G. Caeli, Le origini del diritto di Roma . 21 322 tero essere in questo periodo
i trasformatori dei iura gentium nel pri mitivo ius quiritium , e furono in
condizione di poterlo fare, come quelli, che erano probabilmente ricavati dalle
varie tribù , ed erano cosi in condizione di coordinare e di richiamare ad
unità le istitu zioni, che in qualche particolare potevano essere diverse .
Durante il periodo regio non può quindi essere dubbio, che il collegio dei
pontefici, presieduto appunto dal re , dovette essere un cooperatore potente di
quell'unificazione legislativa , di cui sentivasi urgente bi. sogno, e dovette
anche essere il custode e depositario della primitiva legislazione, come lo
dimostra la tradizione con attribuire a un pon tefice Papirio la prima
collezione della medesima (ius Papirianum ). Ad ogni modo era naturale,
trattandosi della legislazione di un popolo , i cui componenti prima quasi non
conoscevano altra autorità , che quella del fas, che anche questo primitivo
diritto dovesse essere ri vestito di quell'aureola religiosa, che è propria di
tutte le istituzioni, durante il periodo gentilizio . Intanto però in questo
periodo i pontefici, uscendo ancor essi dal novero delle genti, non avrebbero
potuto attri buire al diritto quel carattere di segretezza e di arcano, che
potè as sumere più tardi, in quanto che le tradizioni, di cui essi erano i
custodi, vivevano ancora fra i capi di famiglia, da cui era costituito il
populus primitivo, distribuito per curiae, corporazioni religiose e politiche
ad un tempo. 263. Era invece naturale, che col passare dal periodo regio ad una
repubblica, il cui populus non era più composto di uomini, ri cavati
esclusivamente dalle genti di origine patrizia , le funzioni del collegio dei
pontefici dovessero subire una trasformazione profonda. Essi sono sempre i
sacerdoti del popolo Romano : ma intanto non escono che da una parte di questo
populus, e sono anzi i depositari e i custodi delle tradizioni proprie di
questa parte eletta del populus, la quale continua da sola ad avere gli
auspicia e ad essere la reggi trice della città . Si aggiunge, che il potere
religioso del pontifex ma ximus, che prima apparteneva al re , viene poscia
attribuito ad una specie di magistratura sacerdotale, la quale finisce per dar
sempre più al diritto un'aureola religiosa ; sebbene sia vero che questa se
parazione del potere civile dal religioso cooperò a preparare la distin zione
del ius sacrum dal ius civile . Intanto però , cosi l'uno come l'altro sono
conservati dapprima negli archivii dei pontefici (in pene tralibus pontificum ),
sopratutto in quel periodo, che corre fra la cac ciata dei re e la legislazione
decemvirale , durante il quale sono i - 323 - pontefici, che compiono
quell'elaborazione giuridica , che sarebbe stata impossibile permagistrati
annui, i quali ad un tempo erano chiamati a cure compiutamente diverse . Sipud
quindi affermare con certezza, che i primi elaboratori di un ius, comune al
patriziato ed alla plebe, fu rono i pontefici ; cosa del resto, che è
concordemente attestata da Pomponio , da Valerio Massimo, da Cicerone e da
altri, e che era una naturale conseguenza dello stato delle cose e dei
rapporti, che in tercedevano fra i due ordini, allora in lotta fra di loro (1).
Di qui la conseguenza , che la divulgazione del diritto venne in certa guisa a
procedere di pari passo col pareggiamento politico delle due classi ; ma
intanto la prima scuola dei giureconsulti fu certamente il ius pontificium ; nè
è a credersi, che tutta l'opera loro potesse solo ri ferirsi al diritto sacro ;
poichè i pontefici di Roma, come si è ve duto , essendo una magistratura
sacerdotale , erano i veri rappresen tanti delle genti patrizie, la cui
religiosità non escludeva il senso giuridico e politico, e neppure lo spirito
militare. Intanto ne de rivava eziandio, che, per essere resi partecipi di
questa scienza del diritto , conveniva anche ottenere l'ammessione nel collegio
dei pontefici, i cui libri e commentarii contenevano un tesoro di con cetti,
molti dei quali passarono certamente nei primi giureconsulti, che furono essi
stessi pontefici massimi(2 ). Vero è, che i frammenti, che a noi pervennero del
diritto pontificale , sembrano riferirsi esclu sivamente a prescrizioni di
diritto sacro ; ma ciò proviene da che la parte relativa al ius civile passò
nei giureconsulti, ed entrò nel l'organismo vivo della giurisprudenza , mentre
quella , che aveva un carattere sacro, fini per ridursi a concetti, che poscia
più non furono compresi, e venne cosi ad essere argomento di curiosità per gli
ar cheologi e per i grammatici. Un'altra causa di questo fatto deve pur ( 1)
Questa influenza dei Pontefici sul diritto, sopratutto nei primi periodi della
Repubblica , è attestata da VALERIO Massimo, II, 5 ; Livio, IX , 46; Cic ., pro
Mu rena, 11 ; De legibus, II , 8 , 9 ; De oratore, III, 33. I passi relativi
sono raccolti dal Rivier , Introd . histor., pag. 121 e segg. (2 ) Basta perciò
il considerare, che i primi giureconsulti, di cui sia a noi perve nuto il nome,
come Papirio (donde il ius Papirianum ), Appio Claudio (il cui segretario Gneo
Flavio avrebbe propalato il ius Flavianum ) e Tiberio Coruncanio, che appare
come il primo giureconsulto di origine plebea , furono pontefici massimi, o
quanto meno aggregati al collegio dei pontefici. Quelli poi, che più non erano
tali, presero pur sempre le mosse dal ius pontificium , come appare ad evidenza
dalle reliquie degli antichi giureconsulti raccolte dall ' HUSCHKE, Jurisp .
anteiustin . quae supersunt. Lipsiae, 1879. 324 - riporsi in questo , che a
misura che la scienza del diritto venne a concentrarsi nelle mani dei
giureconsulti e del pretore, il diritto pon tificale venne naturalmente
restringendosi al ius sacrum , e fu in questa guisa che alla separazione , che
già erasi operata nella città patrizia fra il pubblico ed il privato , venne
poscia aggiungendosi la distinzione fra il diritto sacro e il diritto civile
strettamente inteso. Intanto perd vuolsi avere per fermo, che questo ritirarsi
del diritto negli archivi dei pontefici, durante il primo periodo della
repubblica , venne ad essere l'effetto dell'ammessione nel populus di un nuovo
ele mento, che non possedeva queste tradizioni giuridiche, e che sotto questo
aspetto doveva dipendere da un'altra classe : il qual concetto ci conduce a
combattere l'opinione, pressochè universalmente accolta , circa quella legislazione
, che suol essere compresa col vocabolo di « leges regiae » . § 4 . Delle leges
regiae e della fede da attribuirsi alle medesime. 264. È abbastanza noto come
qualsiasi demolizione ne provochi un'altra ; tanto più se trattisi di un
edifizio armonico e coerente. Ciò videsi sopratutto della storia primitiva di
Roma. Dopo aver resi leg gendarii i re, per guisa che si riuscì a fare la
storia, senza pur nominarli ; anche la legislazione, che era aimedesimi
attribuita dalla tradizione, dovette essere considerata come una invenzione di
tempi posteriori. Parve che un popolo , il quale era solo chiamato ad ap
provare o a respingere le proposte fattegli, non potesse avere una parte
effettiva nella formazione di leggi, di cui alcune avevano un carattere essenzialmente
religioso, e che la collezione di leggi regie, accennate dagli scrittori, e
attribuite ad un pontefice Papirio, dell'e poca regia, dovesse ritenersi come
opera di tempi posteriori (1). (1) Questa opinione, che prevalse col DIRKSEN :
Die Quellen des römisches Rechts , Leipzig, 1823, trovò uno strenuo
oppositorenel Voigt: Über die leges regiae. Leipzig, 1876, la cui opera è
divisa in due parti, nella prima delle quali egli investiga la sostanza e il
contenuto delle leges regiae , mentre nella seconda si occupa dell'au tenticità
e delle fonti delle medesime. Secondo il FERRINI, Storia delle fonti del
diritto romano. Milano, 1885, pag. 3, nota 2 , l'opinione del Voigt, se in
qualche parte deve temperare le esagerazioni della scuola del NIEBHUR , dall'altra
per ade rire troppo alla tradizione, non potrà forse piacere a molti. Cid si
capisce, trattan . dosi di persone educate a tutt'altra scuola ; ma intanto
abbiamo un altro contri buto allo studio veramente positivo della storia
primitiva di Roma. 325 Sembrami che in questa parte la critica siasi spinta
troppo oltre, in quanto che il processo seguito da Romanella propria formazione
ac cadde invece in guisa tale, che se una legislazione regia non fosse ram
mentata dagli scrittori, dovrebbe essere pur supposta, perchè era una necessità
dei tempi. Il populus primitivo di Roma era composto di persone appartenenti a
genti patrizie , memori delle antiche tradi. zioni, e quindi non è punto
ripugnante, che il medesimo, alla guisa stessa che eleggeva il re e conferiva
l' imperium con una lex cu riata de imperio, cosi fosse pur chiamato a dare
approvazione alle leggi, che rappresentavano i patti e gli accordi, in base a
cui le varie tribù entravano a formar parte della stessa comunanza civile e
politica. Ciò non potè accadere , come narra Pomponio, finchè Romolo fu solo
capo della tribù Ramnense, stabilita nella Roma pa latina ; ma dovette divenire
indispensabile, allorchè la città , la no mina del suo re , la sua religione,
il suo diritto cominciarono ad essere il frutto della confederazione e
degl'accordi seguiti fra diverse comunanze. La stessa varietà degli elementi,
che concorrevano a costituirle, rendeva opportuno, quanto ai provvedimenti, che
riguar. davano il comune interesse , di adottare la forma della legge, la
quale, elaborata e coordinata dal collegio dei pontefici, proposta dal re,
appoggiata dai padri del senato , approvata dalle curie , poteva veramente
ritenersi come l'espressione della volontà comune. In questa parte ha tutte le
ragioni Livio , allorchè ci dice , che il popolo romano era cosi composto , che
« nulla re , nisi legibus, in unius populi corpus coalescere potuisset » . Era
solo a questa condizione, che capi di tribù e di genti, fino allora
indipendenti e sovrani, potevano sottoporsi all'impero di uno stesso magistrato
e di un medesimo diritto. Lo stesso carattere religioso della le gislazione
regia non può costituire un argomento in contrario ; perchè il primitivo
populus diRoma era composto di persone esperte anche nei riti e nelle cerimonie
religiose , che ciascun capo di fa miglia compieva nel seno della propria
famiglia . Del resto a voler anche ammettere, che quella parte della
legislazione regia , la quale ha un carattere esclusivamente sacro, potesse ,
fin da quella prima epoca, essere lasciata intieramente alla elaborazione del
collegio dei pontefici ; egli è però certo, che l'altra parte invece, la quale
ha un carattere civile, giuridico e politico ad un tempo, dovette essere il
frutto del concorso dei varii organi della costituzione primitiva di Roma, e
deve perciò aver presa la forma di vere e proprie leges rogatae. Certo possono
darsi dei casi, in cui questa procedura regolare 326 non sarà stata
effettivamente adempiuta in tutte le sue parti, al modo stesso , che , secondo
gli storici, non fu sempre osservata in ogni sua parte la procedura relativa
alla nomina dei re : ma in man canza di prove in contrario, di fronte
all'attestazione concorde degli autori, che non avevano alcun motivo di
alterare le cose , e cono scendo il carattere del popolo, osservatore costante
della legalità e facile a commuoversi, quando questa non fosse osservata, non
si può essere in diritto di negare l'esistenza di vere e proprie leggi, anche
in questo periodo, in quella parte, che si riferisce a cose di pubblico e di
privato interesse (1). 265. Pur ammettendo che in questa primitiva condizione
di cose , la maggior parte dei rapporti giuridici abbia continuato ad essere
lasciata all'impero della consuetudine e del costume, dovevano perd anche
esservi quelle parti, in cui le divergenze, esistenti fra le varie comunanze,
presupponevano una unificazione ed un coordina mento , che doveva di necessità
operarsi, mediante quelle leges, che a ragione si chiamavano publicae, perchè
erano la base della comune convivenza civile e politica . Che anzi dovettero
esser queste leges, che costituirono il nueleo primitivo di quel ius quiritium
, che cominciava a sceverarsi dal fas e dai bonimores. Siccome perd questo ius
venne formandosi « rebus ipsis dictan tibus et necessitate exigente » ; cosi
esso non potè formarsi di un tratto , nè essere fin dapprincipio un organismo
coerente, che provvedesse a tutti i rapporti; ma dovette lasciare la maggior
parte di questi rap porti alla consuetudine, limitando l'opera sua a concretare
quei prov vedimenti, la cui necessità facevasi urgente e palese, a misura che
la convivenza civile venivasi svolgendo. Niun dubbio parimenti, che anche i
concetti e sopratutto le forme di questa primitiva legislazione dovessero
essere tolti dal periodo anteriore : ma il fatto stesso , per cui essi erano
trapiantati in terreno diverso , dovette far sì, che essi
mutassero carattere . 266. Se intanto potesse essere lecito anche
solo tentare di rico struire il processo , con cui dovette formarsi il primo
nucleo delle istituzioni e dei concetti quiritarii, in base alla formazione
progres siva della città , crederei di poter rich iamarlo alle seguenti
leggi fondamentali : ( 1) Liv., I, 8 . - 327 l• Un primo effetto di questa
grande trasformazione, per cui i capi e membri delle varie genti venivano ad
essere cittadini della medesima città , dovette esser quello di far trasportare
nella città e nei rapporti fra i quiriti quelle istituzioni e quei concetti
giuridici, che si erano formati nei rapporti fra le varie genti e specialmente
fra i capi delle medesime. Tutti i concetti pertanto, che apparte nevano ai
iura gentium , diventarono proprii del ius quiritium ; cosicchè il commercium ,
il connubium , l'actio, da rapporti fra le varie genti e i loro capi,
diventarono rapporti fra i quiriti ; donde la spiegazione di quelle solennità
di carattere gentilizio, che ancora si mantengono nel diritto primitivo diRoma.
Processo più naturale di questo non sarebbesi potuto seguire , poichè colla
formazione della città i capi di famiglia e delle genti, che prima erano indi
pendenti, vennero a cambiarsi in quiriti, e quindi il loro diritto di
internazionale ed esterno, quale era prima, doveva cambiarsi in di ritto
quiritario ed interno. 2º Una seconda conseguenza poi dovette essere eziandio
che questi concetti, così trapiantati dai rapporti fra le genti, nei rapporti
fra i quiriti o membri della stessa civitas, i quali prima avevano solo avuto
uno svolgimento estensivo, poterono ricevere uno svolgimento inten sido , e
cambiarsi in altrettante propaggini, da cui scaturirono le varie forme del ius
quiritium . Dal connubium potè uscire il ius connubii con tutte le conseguenze
delle iustae nuptiae, che consistono nella manus, nella potestas, nel mancipium
, nella successione e nella tutela legittima: le quali naturalmente non
poterono in questo periodo ispi rarsi, che ai concetti dell'organizzazione
gentilizia. Il commercium parimenti si esplico nel ius commercii, con tutte le
sue varie gra dazioni del comprare e del vendere (mancipium ), dell'obbligarsi
(nexum ) e del poter ricevere o disporre per testamento (testamenti factio).
Così pure l'actio sacramento , che era una procedura fra i capi di famiglia
indipendenti, nel seno delle tribù , potè conver tirsi in una procedura fra
quiriti , e siccome eravi un magistrato , a cui si apparteneva di pronunziare
circa il ius, che si manteneva distinto dall'iudicium , così fu naturale, che
accanto all'actio sacra mento si svolgesse eziandio la iudicis postulatio (1).
3º Infine una terza conseguenza di questa trasformazione dovette (1) È da
vedersi in proposito quanto si disse nel capitolo precedente nº. 244, pag. 298
e segg. 328 consistere in ciò , che le istituzioni, cosi trapiantate nella
città, es sendo staccate dall'ambiente , in cui si erano formate, si trovarono
libere dai vincoli , in cui prima erano trattenute , e poterono cosi ricevere
tutto lo svolgimento , a cui le portava il proprio concetto informatore.
Ciascuna di esse si ridusse in certo modo ad essere una concezione astratta ; e
potè così essere sottoposta a quegli speciali processi e a quelle analisi, che
sono proprii della logica giuridica (iuris ratio ). Per tal guisa venne ad
essere un'astrazione il quirite, perchè esso non è più tutto l'uomo, ma è
l'uomo considerato sotto l'aspetto speciale dei diritti e delle obbligazioni,
che gli incombono come cit tadino ; fu un ' astrazione il potere giuridico
(manus) attribuito al medesimo, in quanto che esso è concepito senza le
limitazioni esi stenti nel costume. Di qui la conseguenza, che egli come capo
di famiglia ( pater familias) giuridicamente la riassume in sè stesso, e ha il
ius vitae et necis sulla moglie , sui figli, sugli schiavi; come proprietario
può disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose ; come creditore può
appropriarsi e perfino dividere il corpo del debitore . Per tal guisa tutto il
diritto primitivo di Roma è già il frutto di un'astrazione, cioè di una specie
di isolamento dell'elemento giuridico dagli altri elementi della vita sociale,
per cui ogni istituzione può ricevere quello svolgimento logico e dialettico,
che costituisce la ca ratteristica del diritto romano, e ne costituisce la
superiorità sopra tutte le altre legislazioni. Il diritto romano infatti, fin
dai proprii esordii, è uscito bensi dalla realtà dei fatti, ma fece ben presto
astrazione da essi e diede uno svolgimento logico alle proprie istitu zioni, le
quali perciò diventarono istituzioni tipiche , e poterono essere portate
dapertutto , perchè la logica è di tutti i popoli e di tutti i tempi. Fu
mediante questo processo ; che i Romani poterono essere per il diritto ciò ,
che i Greci furono per l'arte, e questo segreto essi già lo possedevano fin
dalla prima formazione della propria città , e continuarono sempre ad
applicarlo, senza curarsi di darne nelle opere loro una spiegazione, che
sarebbe stata inutile, perchè trattasi di un genio originario e nativo, che può
essere intuito , ma non insegnato . Tutte queste conseguenze del nuovo stato di
cose poterono rica - varsi senza bisogno di apposita legislazione , per opera
di una logica istintiva e naturale , sentita universalmente da un popolo, che
mi rava diritto al proprio scopo , e che, poste le premesse, sapeva deri varne
le conseguenze . 329 267. Intanto però eranvi altri argomenti, intorno a cui
potevano esistervi divergenze nelle istituzioni particolari delle varie tribù,
ed in questi argomenti appunto, secondo la tradizione, verrebbero ad ap parire
le traccie di una legislazione regia, la quale potrà forse non esserci
pervenuta nelle sue fattezze genuine : ma che intanto non merita punto di
essere senz'altro respinta, come una creazione di tempi posteriori ( 1). Essa
porta in sè un'impronta efficace di verità , in quanto che si presenta con un
carattere del tutto consentaneo ad un populus, che esce dall'organizzazione
gentilizia , e le cui isti tuzioni sono ancora tutte circondate di un ' aureola
religiosa ; del che sarà assai facile persuadersi, ricostruendo e componendo
insieme i rottami, che ci pervennero di questa legislazione, per la parte, che
si riferisce al diritto privato e al diritto penale primitivo di Roma. § 5 . –
La famiglia e la proprietà secondo la leges regiae. 268. Quanto al diritto
privato l'istituzione, che presentasi più ri gorosamente delineata nelle
reliquie delle leges regiae, è l'orga nizzazione della famiglia . È evidente,
che essa riducesi in sostanza ad un rudere della stessa organizzazione
gentilizia , che viene ad essere portato nel seno della città . Ma intanto
separata dall'orga nizzazione gentilizia , in cui erasi formata , e dalla quale
era tempe rata in qualche parte, presentasi con linee così rigide e precise ,
da riuscire a noi pressochè incomprensibile, se non riportisi nell'ambiente, in
cui dovette formarsi . Dei varii modi, in cui questa famiglia potrà essere
fondata, le leggi regie non ne ricordano che un solo , e questo è la cerimonia
re ligiosa della confarreatio, la quale già conosciuta probabilmente alle genti
delle varie tribù può benissimo essere stata adottatta come la forma solenne e
riconosciuta per il matrimonio quiritario. Dio nisio infatti dice , che Romolo
avrebbe condotto all'onestà le donne con un'unica legge, con cui avrebbe
stabilito : « uxorem , quae nuptiis (1) La vera causa di questa critica , che
tutto nega, relativamente alla storia pri mitiva di Roma, sta nel presupposto,
che il popolo fondatore della città fosse un popolo del tutto primitivo. Ho
cercato di dimostrare il contrario, e quindi non trovo nulla di improbabile,
che un popolo, che si presenta con una quantità di tradizioni e di concetti già
elaborati, fosse in condizione tale da prendere una parte effettiva , anche
nella formazione delle leggi. 330 sacratis (confarreatione ) in manum mariti
convenisset, commu nionem cum eo habere omnium bonorum ac sacrorum » . Noi ab
biamo qui il matrimonio primitivo , esclusivamente patrizio , accom pagnato da
una cerimonia religiosa ; esso compiesi coll'intervento dei pontefici e colla
testimonianza di dieci testimonii, che rappresentano le dieci curie, in cui è
ripartita ciascuna tribù primitiva ; produce la comunione delle cose divine ed
umane; e intanto riduce in certo modo la moglie in posizione di figlia,
rimpetto al marito ; il che però non toglie, che essa gli sia compagna nel
culto domestico . È al marito , che appartiene la giurisdizione sulla moglie
pei delitti, che essa compie ; anzi due fra essi, l'adulterio ed il bere vino
(per causa che proba bilmente può riferirsi a qualche rito religioso ) possono
essere puniti di morte : ma egli deve perciò essere circondato dal tribunale
dome stico , il quale è ancora una istituzione eminentemente gentilizia (1). Il
vincolo matrimoniale , stretto coll'intervento della religione, è per per sua
natura indissolubile , in quanto che non potrebbe compren dersi, che una
moglie, che è figlia al marito, possa far divorzio da esso . Di qui una legge,
che Dionisio chiama dura , la quale nega alla moglie difar divorzio dal marito
;ma intanto questi può ripudiarla ,ma solo per cause determinate, quali
sarebbero il venefizio commesso a danno della prole , la sottrazione delle
chiavi e l'adulterio . Che se il marito abbandoni la moglie per altre cause,
dei suoi beni si faranno due parti, di cui una andrà alla moglie, l'altra sarà
sacra a Cerere : che se egli la venda, dovrà essere immolato agli dei infernali
(2 ). Qui pertanto il potere del marito sulla moglie ha ancora tutti i
caratteri del periodo gentilizio ; ma le cerimonie religiose, che forse
potevano essere diverse presso le varie tribù, già vengono ad essere unificate
e son tutte ridotte alla confarreatio ; son fissati i casi per il ripudio ; e
sono anche posti certi confini ai poteri del marito sulla (1) Le disposizioni
attribuite alle leges regiae, che sono qui riprodotte, ci furono conservate da
Dionisio , II, 25; il loro testo può vedersi nel Bruns, Fontes, pag . 6 . (2)
Questa legge, attribuita a Romolo relativamente al ripudium , è ricordata da
PLUTARCO, Romulus, 22. Gli autori, che studiarono di recente l'argomento, già
co minciano ad ammettere la probabilità, che nell'antico matrimonio per
confarreatio nem non potesse essere consentito il divortium , nel senso vero
della parola ; il quale dovette avere origine dal divertere della moglie dalla
casa del marito nel matri monio sine manu , e poi si concretò in una
istituzione giuridica , che si estese allo stesso matrimonio cum manu. Cfr.
Esmein, La manus, la paternité et le divorce, nei Mélanges d'histoire du droit,
pag . 3 a 37. 331 moglie. A queste leggi se ne aggiunge una di Numa, che assume
un carattere più sacro , la quale è cosi concepita : « paelex aram Iunonis ne
tangito ; si tanget, Iunoni, crinibus demissis, agnum foeminam caedito » : la
qual legge (se si accetta la significazione attribuita al vocabolo di paelex da
Festo , secondo cui suonerebbe la donna « quae uxorem habenti nubebat » ),
significherebbe, che il matrimonio doveva essere monogamo, e che altra donna
non poteva entrare nella casa , ed accostarsi all'altare di Giunone,
protettrice appunto delle giuste nozze ; in caso contrario doveva sacrificarsi
una piacularis hostia (agnum foeminam caedito) (1). 269. Lo stesso è a dirsi
della patria potestas, la quale, secondo una legge attribuita a Romolo, duráva
tutta la vita e importava il potere di vita e di morte sul figlio , e la
facoltà di venderlo fino a tre volte per trarne profitto ; alla qual legge se
ne aggiunge un'altra di Numa, secondo cui il padre , che abbia consentito alle
nozze confar reate del figlio, le quali importano la comunione delle cose
divine ed umane, più non è in facoltà di venderlo . Devono poi i padri educare
tutta la prole maschile e le figlie primogenite, e non possono mettere a morte
niun feto minore di tre anni, se non sia mostruoso o mutilato , nel qual caso
deve prima essere mostrato ai vicini, e questi deb bono approvare il suo
operato ; disposizione questa , che richiama ancora le consuetudini proprie
della vita patriarcale del vicus e del pagus, ove i vicini mutansi talvolta in
giudici ed in consi glieri (2). Alle leggi relative a quest'ordine di idee può
eziandio ri chiamarsi quella , attribuita a Numa, secondo cui se una donna
fosse morta in istato di gravidanza, non doveva essere seppellita, se prima non
se fosse estratto il feto : alla quale disposizione il Voigt rannode rebbe, con
molta verisomiglianza , quel passo di lex regia , conserva toci da Paolo
Diacono, secondo cui: Si quisquam aliuta (aliter ) faxit, lovi sacer esto (3).
(1) Festo, v ° Paelices ( Bruns, Fontes, pag. 350). Tutti i passi relativi
possono vedersi raccolti dal Voigt, über die leges regiae. Leipzig , 1876 , §
2º, pag . 8. (2 ) Tutte queste leggi regie, relative alla patria potestà , sono
ricordate da Dio NISIO, II, 26, 27: II, 15 ; II , 27. Quella attribuita a Numa
è pur ricordata da Plu TARCO, Numa, 17. Il testo delle medesime trovasi nel
Bruns, Fontes, pag. 7 e 9. (3) A questa legge accenna il giureconsulto MARCELLO
, L. 2, Dig. (11, 8) : mentre l'altra parte sarebbe ricavata da Festo, pº
aliuta . Il Voigt ritiene doversi combinare i due frammenti in una sola legge,
Über die leges regiae, 8 13, pag. 75 . 332 Iatanto però tutto quest'ordinamento
religioso e politico della fa miglia primitiva è ancora sempre sotto la
protezione del fas , in quanto che i figli, i quali maltrattino i genitori, e
la nuora , che venga a cattivi trattamenti verso la suocera , mettendo cosi in
non cale il rispetto dovuto all'età , incorrono nella capitis sacratio ; la
quale è pure la pena, in cui incorre il patrono , che faccia frode al proprio
cliente, e ogni altro, che venga meno alle disposizioni re lative
all'ordinamento della famiglia (1) . 270. Per quello poi, che si riferisce alla
proprietà , nulla ci fu con servato circa il carattere intimo della medesima ;
ma dalle disposi zioni, che Dionisio attribuisce a Romolo relativamente alla
clientela , e dall'incarico, che secondo Festo sarebbesi da Romolo affidato ai
patres o senatori, di fare assegni di terre agli uomini di bassa condizione
(tenuioribus), è lecito di inferire, che la proprietà con tinua in parte ad
avere un carattere gentilizio , e che in questo periodo ancora si mantengono
quelle proprietà o possessioni collet tive, sulle quali si possono fare degli
assegni ai clienti (2). Tuttavia nell'interno della città vediamo già comparire
netta e decisa l' isti tuzione della proprietà privata . In virtù di una legge
attribuita a Numa, quel dio Termine, che un tempo separava i confini fra i ter
ritori delle varie genti e delle varie tribù , viene a ripartire e a consacrare
la proprietà fra i quiriti, i quali hanno già una proprietà individuale e
privata, rappresentata dal proprio heredium . Per tal modo la terminazione, che
prima esisteva fra i territorii gentilizii, come lo dimostra l'accenno, che si
fa nel ius foeciale alle divinità patrone dei confin ., viene a cambiarsi
anch'essa in una istituzione quiritaria , e si introduce così la terminazione
fra le proprietà private . Tutti quindi son tenuti a porre dei termini al
proprio campo, e questi sono consacrati a Giove Termine ; colui, pertanto che
li ri. muova o li trasporti da un sito all'altro , sarà soggetto alla capitis
sacratio (3 ) . ( 1) Così,ad esempio, secondo il Mommsen in Bruns, Fontes, pag.
7 , nota 6 , una legge, attribuita a Tullo Ostilio, sarebbe così concepita <
si parentem puer verberit, ast olle (ille) plorasset, puer divis parentum ,
sacer estod ; si nurus, sacra divis pa rentum estod . » Per i divi parentum si
intendono poi i diï manes, Cfr. Voigt, Op. cit., § 7 , pag. 41. (2) Dion., II ,
9 ; Cic., De rep., II, 9; Festo, vº Patres (Bruns, pag. 372). (3) Dion., II, 74
; Festo, pº Termino. Cfr. Voiat, Op. cit., $ 9, pag . 48. 333 Certo queste son
tutte disposizioni di legge, che consacrano isti tuzioni, che vivevano nella
consuetudine e nelle tradizioni; ma punto non ripugna , che, trattandosi di
genti, le cui istituzioni nei partico lari potevano essere diverse , le
medesime abbiano anche potuto fare argomento di disposizioni legislative ,
elaborate dai pontefici , pro poste dal re, appoggiate dal senato , ed
approvate dalle curie . Quanto alla sanzione religiosa, che accompagna ciascuna
legge, essa si spiega facilmente , se si tiene conto del carattere religioso
del popolo delle curiae , il quale esce allora allora dall'organizzazione
gentilizia, in cui tutte le istituzioni erano rivestite di un ' aureola
religiosa e sacra . Solo ci resta a vedere quali siano le traccie , che ci
pervennero della legislazione penale primitiva di Roma patrizia , alla quale
occorre una trattazione speciale per il peculiare svolgimento, che ebbe a ri
cevere, e per le molte discussioni, a cui diede occasione. § 6. – Le origini
della legislazione criminale in Roma e specialmente del parricidium e della
perduellio. 271. Per quanto la legislazione criminale primitiva di Roma sia
quella parte del suo diritto , dicui giunsero a noi più scarse reliquie,
tuttavia anche queste poche sono tali, che ricomposte possono ad ditarci, come
anche in essa siasi effettuato un lento e graduato pas saggio
dall'organizzazione gentilizia alla convivenza civile e politica . Anche
il delitto nel periodo regio ritiene ancora quel carattere, che aveva assunto
presso le genti patrizie; esso è un'offesa contro gli uomini e contro
l'aggregazione gentilizia, a cui essi appartengono, ma è poi sopratutto
un'offesa contro la divinità . Chi l'abbia com messo di proposito (dolo
sciens), di regola è punito colla capitis sacratio ed anche colla consecratio
bonorum ; mentre se altri l'abbia compiuto per imprudenza (imprudens) egli e la
famiglia di lui sono tenuti ad offerire una piacularis hostia alla famiglia
dell'of feso (1). Ciò vuol dire , che il concetto gentilizio del delitto e
della ( 1) La più notabile distinzione fra il reato doloso e colposo, che
occorra nella legislazione regia , è quella che si desume dalle due leggi
attribuite a Numa, rela tive all'omicidio volontario (parricidium ), e quella
relativa all'omicidio involontario, che è ricordata da Servio nei seguenti
termini: « In Numae legibus cautum est, 334 pena viene ad essere trapiantato di
peso nel seno della città . Sono tuttavia ancora in piccol numero i misfatti, a
cui accennano le leges regiae ; in quanto che non parlasi nè del furto ,nè
dell'ingiuria, nè di quegli altri misfatti, che sono più tardi minutamente
preveduti dalle XII Tavole. Ciò non significa certamente , che questi misfatti
fossero ignoti, nè che i medesimi fossero impuniti : ma soltanto, che le leges
publicae (quelle almeno che giunsero fino a noi) non avevano ancora richiamato
alla pubblica giurisdizione la repressione di essi ; ma avevano continuato a
lasciarli alla prosecuzione dell'offeso , che doveva perciò seguire le pratiche
tradizionali, formatesi nelle tribù , le quali già avevano ricevuta una
consacrazione religiosa ( 1). 272. Tuttavia fra i fatti criminosi, accennati
nelle leges regiae , già può introdursi una distinzione ; sonovi dei delitti,
che possono essere ritenuti contro l'ordine delle famiglie , comprendendo anche
fra questi quello contro la proprietà , consistente nella rimozione dei
termini; altri , che sono contro la religione , quale sarebbe l'incesto della
Vestale e l'abbandono dei sacra '; e altri infine, che già possono ricevere il
nomedi crimina publica , in quanto che, fin dagli inizii della città , sonovi
autorità incaricate dalla pubblica pro secuzione di essi. Quanto ai primi
mantiensi ancora nella propria integrità l'auto rità e la giurisdizione del
capo di famiglia, il quale in certi casi è tenuto a circondarsi del tribunale
domestico ; come pure sono san cite contro di essi pene di carattere sacro e
religioso , comela capitis sacratio e la consecratio bonorum . Quanto ai reati
contro la religione, appare invece la giurisdizione dei pontefici ;
giurisdizione, che alcuni autori, fondandosi sul carattere sa crale del delitto
e della pena in questo periodo , avrebbero creduto, che dovesse essere prima
estesa in più larghi confini. Il carattere, che ab biamo trovato nella
istituzione del collegio dei pontefici, per cui esso appare come depositario e
custode delle tradizioni gentilizie, ci impe disce di seguire una tale
opinione, in quanto che il carattere sacrale del delitto e della pena in questo
periodo non è creazione dei pon ut si quis imprudens occidisset hominem , pro
capite occisi, agnatis eius in contione offerret arietem » . Bruns, Fontes,
pag. 10. Cfr., per ciò che si riferisce all'omicidio involontario, il Voigt,
Op. cit., § 11, pag. 64 a 72. (1) Cfr. MUIRIEAD , Histor. Introd., pag . 54 a
55 . 335 - tefici, ma è un carattere proprio di tutte le istituzioni
gentilizie, che si mantiene ancora nel la città esclusivamente patrizia.
Del resto la sola giurisdizione criminale, che gli antichi scrittori
attribuiscono ai pontefici, è quella relativa alle Vestali, la quale per giunta
sembra essere una conseguenza della patria potestà , di cui essi sono rive
stiti riguardo alle medesime. Sono quindi i pontefici, che secondo una legge,
che la tradizione attribuisce a Tullo Ostilio, giudicano dell'in costo delle
Vestali, il quale è considerato come un delitto , che da una parte contamina i
sacra publica, e dall'altra provoca la ven detta di Vesta sopra il popolo.
Quindi da una parte sacrificavansi alla dea la Vestale , nei tempi più antichi
col gettarla nel fiume e più tardi seppellendola viva, e l'amante,
flagellandolo fino alla morte , e dall'altra si facevano sacrifizii di
purificazione per la città . Da questo caso in fuori non trovasi traccia di
giurisdizione criminale più ampia, che sia mai spettata ai pontefici ; nè vi ha
motivo di credere, che po tesse essere più estesa, dal momento che presso i
romani pareva già enorme questo potere accordato a una magistratura sacerdotale
( 1). 273. A noi però importa sopratutto di cercare come siasi venuto svolgendo
il concetto del pubblico delitto ; perchè è con esso , che incomincia
l'esercizio del magistero punitivo, per parte dell'autorità sociale . Già ho
accennato altrove, che la giurisdizione del magistrato in Roma quanto ai
misfatti non presentasi svolta fin dai propri inizii ; ma viene invece
estendendosi, a misura che la potestà pubblica si viene rafforzando di fronte
alla giurisdizione domestica del capo di famiglia . Qualche cosa di analogo
accade eziandio nello svolgersi della nozione del pubblico delitto. I due primi
misfatti, perseguiti dalla pubblica autorità , compariscono coi nomi di
parricidium e di perduellio ; e per perseguirli fin dal periodo regio sarebbero
istituiti due speciali magistrati, coi nomi di questores parricidii e di duum
viri perduellionis ; fra i quali intercede perd questa differenza, che mentre i
primiappariscono quali magistrati permanenti, i secondi invece sembrano essere
nominati, caso per caso (2 ). (1) Cfr. MOMMSEN, Le droit public romain , I,
pag. 187 . (2 ) Ciò è dimostrato dal racconto di Livio, I, 26 , relativo al
fatto dell'Orazio, in cui i duumviri perduellionis son nominati per quel caso
dal re , mentre dei quae stores parricidii abbiamo una definizione di Festo, pº
Quaestores, che parla di essi, come di autorità permanenti, create « ut de
delictis capitalibus quaererent » . 336 Son pochi i passi, che si riferiscono
all'uno e all'altro misfatto , donde la conseguenza, che non solo gli autori
moderni, ma anche gli storici antichi attribuiscono significazione diversa ai
due vocaboli. È noto infatti, che mentre Dionisio e Festo ritengono colpevole
di parricidium l'Orazio, uccisore della propria sorella , Tito Livio parla
invece di perduellio (1). In questa condizione di cose occorre ripren dere in
esami e passi di antichi autori, che sono a noi pervenuti ; esa minare le
opinioni principali emesse dagli autori in una questione, che ha una
copiosissima letteratura ; e poi cercare di ricomporre i testi che si
riferiscono all'argomento per ricavarne il processo logico e storico , che
dovette essere seguito nella configurazione di questi primitivi misfatti. 274.
Quanto al parricidium , i pochi passi a noi pervenuti indicano in sostanza una
certa quale meraviglia, per parte degli au tori, che Romolo, mentre aveva
lasciato senza pena e neppur rite nuto possibile il parricidium , nello stretto
senso della parola, avesse poi chiamato ogni omicidio col vocabolo di
parricidium , il che sa rebbesi pur fatto da Numa, al quale si attribuisce una
legge, secondo cui: « si quis hominem liberum ,dolo sciens,morti duit ,
parricidas esto » . Quanto poi alla perduellio si sa con certezza, che questo
vocabolo deriva certamente da perduellis, che in antico significava il nemico,
con cui erasi in guerra, e che il medesimo comprendeva, tanto il tradimento
verso la patria, mediante pratiche tenute col ne mico esterno di essa ,
tradimento, che suole essere indicato special mente col vocabolo di proditio ;
quanto eziandio le perturbazioni ed i sovvertimenti contro la cosa pubblica ,
tentati all'interno, per i quali era specialmente adoperato il vocabolo di
perduellio. Circa quest'ultima però abbiamo una descrizione abbastanza completa
di un primitivo processo per causa di perduellio in Tito Livio , il quale in
questa parte, come ben nota il Bonghi, « sembra dare al proprio racconto un
colorito particolare e diverso dal rimanente, in quanto che cerca di mostrarsi
espositore preciso delle forme antiche e solenni, con cui sarebbe seguito
questo primitivo giu dizio » ( 2 ). Furono questa scarsità di passi e questa
incertezza negli antichi au tori, che provocarono molte indagini per spiegare
il fatto, per cui negli (1) Dion ., III, 22; Festo, vº Sororium tigillum ;
Livio , I, 26. ( 2) Liv., 1, 26 ; Bongai, Storia di Roma, I, pag. 102 e pag.
129 e segg . 337 inizii col vocabolo ili parricidium sarebbesi indicato ogni
omicidio , ed anche le cause, per cui gli antichi autori in un medesimo fatto
poterono ora ravvisare il carattere di parricidium , ed ora quello di
perduellio (1). Fra le molte congetture fattesi in proposito sono degne di nota
sopratutto le seguenti : quella messa prima innanzi del Gebauer, ed ora anche
seguita dal Voigt, e pressochè dalla universalità degli au tori tedeschi,
secondo la quale a vece di leggere parricidium si dovrebbe leggere paricidium ,
cosicchè il vocabolo verrebbe a signi ficare l'uccisione di un pari o di un
eguale (2 ) ; quella messa in nanzi dal Rubino e dal Rein, secondo cui il
vocabolo parricidium significherebbe fin dagli inizii l'uccisione di un
congiunto, ossia un parentis excidium (3 ); quella sostenuta con molta dottrina
dal Brüner e poi seguita damolti altri, in base a cui parricidium avrebbe
dapprima da molti altri significato soltanto l'uccisione di un pater delle
genti patrizie, e sarebbe poi stato esteso a designare l'uccisione di qualsiasi
uomo libero (4 ) ; e da ultimo quella sostenuta , fra gli altri ,dalWalter e
dal Maynz, secondo cui idue termini di parricidium (1) La questione non è
recente, ma fu già trattata dagli antichi criminalisti, e fra gli altri dal
Sigoxio, De iudiciis, Cap. XXX, dal Mattei, dall'UBERO e da altri, che possono
vedersi citati dal CARRARA, Programma di diritto criminale , Parte speciale,
vol. I, pag. 137 , $ 1138 . (2 ) Il primo, che sostenne « paricidam esse, qui
parem occidit fu il GEBAUER, Dissertationes academicae , vol. I, pag. 64, § XI,
il quale si fondava sul detto di Ulpiano, che giunse veramente molto più tardi,
« omnes homines esse aequales. » L'opinione era nuova , e fu accolta come
osserva il CARRARA, op. e loc. cit., pressochè universalmente in Germania . Di
recente poi il Voigt aggiunse a questa opinione anche il peso della sua
autorità : Über die leges regiae, pag. 11 a 64, e sopratutto a pag .57, nota
130. L'opinione stessa fu seguita fra noi anche dall'ARABIA , Princ. di diritto
penale , III , pag. 258. Quanto al CARRARA, egli sostiene, che in questo caso
l'espressione « paricidas esto » significasse « capital esto » , cioè
condannabile a morte ; ma tale opinione non trovò seguito (Op. cit., § 1139).
(3) Tale fu l'opinione messa innanzi dal Rubino: Untersuchungen über römische
Verfassung und Geschichte. Casellae, 1839, pag. 433-466 ; e dal Rein, Das Crimi
nalrecht der Römer. Lipsiae, 1844, pag. 401 e segg. (4 ) L'autore, che a mio
avviso sostenne con grande erudizione, e con un senso vero di romanità,
quest'opinione è il BRÜNER in una dissertazione col titolo « De parricidii
crimine et quaestoribux parricidii » , letta il 2 marzo 1857 e riportata negli
Acta societatis scientiarum Fennicae, Helsingforsiae, 1858, pag. 519 a 569.
Quest'o pinione è anche seguìta dal GORRIUS, in una dissertazione di laurea : «
De parricidii notione apud antiquissimos romanos », Bonnae, 1869, notevole per
la rassegna, che fa delle opinioni professate daglialtri autori. G. CARLE, Le
origini del diritto di Roma . 22 338 e di perduellio sarebbero fra loro
pareggiati, e significherebbero qualsiasi delitto , che per sua natura sia tale
da chiamare la pub blica vendetta , e da eccitare una ripulsione universale (
1). 275. Or bene con tutta la riverenza , che deve certo aversi per un autore
cosi benemerito degli studii sul diritto primitivo , quale è il Voigt, non
ritengo, che possa adottarsi l'opinione da lui seguita , secondo cui
parricidium significherebbe il paris excidium . Anzi. tutto è malagevole di
trovare negli esordii di Roma l'idea di questa parità e di questa uguaglianza
giuridica , in quanto che, se si tol gano i capi di famiglia, non vi sono altre
persone, che abbiano un'assoluta parità di diritto. Vi ha di più , ed è che,
mettendo il concetto della parità a fondamento della figura criminosa del pa
ricidium , ne verrebbe come conseguenza, che allora soltanto vi sa rebbe
paricidium , quando un pari uccidesse un altro pari, cioè quando cosi
l'uccisore che l'ucciso fossero in condizioni uguali fra di loro ; il che certo
non può richiedersi. Infine male si comprende, come questa figura primitiva di
reato si venga foggiando sopra un con cetto puramente astratto, come è quello
della uguaglianza , mentre vediamo, che tutte le altre distinzioni di reati, ed
anche le confi gurazioni giuridiche di altra natura, che compariscono
nell'antico diritto , vengono piuttosto ad essere determinate da circostanze
este riori di fatto , come accade dal furtum manifestum , nec manife stum ,
conceptum , ed oblatum , ed anche della distinzione della res mancipii e nec
mancipii, come pure delle mancipationes, vindi cationes, e simili. Cið anche
per il motivo, che nel linguaggio pri mitivo si passa di preferenza da una
significazione fisica ad una mo rale , o da una concreta ad un astratta , di quello
che non accada il contrario . Quanto al fatto , che il vocabolo parricidium e
parricidas in certi antichi codici trovisi scritto paricidium e paricidas, non
può avere importanza, quando si consideri, che nelle leggi arcaiche trovansi
soventi le lettere semplici, a vece delle doppie, come lo di mostra l'antico
Senatusconsulto de bacchanalibus » in cui occor rono le parole esent, velent,
bacanal per essent, vellent, baccanal ; quest'argomento del resto è anche
distrutto da ciò , che son vi pure (1) Questa opinione enunziata prima dal
WALTER , Storia del diritto romano . Trad . BOLLATI, 8 766 , vol. II, pag. 450,
fu di recente anche sostenuta dal Maynz , Introd ., $ 18, 1, pag. 55. Essa però
fu vigorosamente confutata dal Koestlin : Die perduellio unter der römischen
Königen . Tubing, 1841, pag. 10-14 . 339 dei codici, in cui occorrono le parole
patricidium e patricidas, le quali attestano cosi anche la materiale
derivazione dei due vocaboli da patris excidium . Vero è, che anche, fra gli
antichi autori, se ne trovano di quelli, che sembrano accennare a questa
origine del vocabolo ; ma non è punto improbabile, che, allorquando la figura
del parricidium aveva già presa altra significazione nella lex Pom peia de
parricidiis , siasi anche allora cercato di spiegare nello stesso modo, cioè
col ricorrere all'analogia delle parole, il vocabolo primitivo, con cui erasi
indicato l'homicidium (1). 276. Non può del pari ammettersi, che il vocabolo
parricidium abbia significato dapprima un parentis excidium , ossia l'uccisione
di un congiunto in certi limiti di parentela , e che poscia siasi esteso a
significare l'uccisione di qualsiasi concittadino , anche per quella specie di
parentela , che viene ad esservi fra i cittadini di una me desima città. Per
verità , quando così fosse, il vocabolo di parrici dium avrebbe avuto fin
dapprincipio una significazione, che non cor risponde alla parola , in quanto
che , come nota il Voigt stesso, nella precisione primitiva del linguaggio, per
indicare l'uccisione di un congiunto, si sarebbe adoperata piuttosto
l'espressione di parentici dium , che non quella di parricidium , in cui
compare evidente l'idea dell'uccisione di un padre ( 2 ). Lo stesso è a dirsi
dell'opinione, secondo cui parricidium avrebbe, nelle origini della città, significato
l'uccisione di un pater delle genti patrizie, e solo più tardi sarebbesi estesa
all'uccisione di ogni uomo libero. Questa opinione, sostenuta con logica ed
erudizione dal Brüner, sarebbe di tutte la più probabile, e quella che meglio
spiega i passi a noi pervenuti, quando non contrastasse colla testi monianza di
Plutarco : singulare est, quod Romulus, cum nullam in parricidas statuerit
poenam , omne homicidium appellavit parricidium . Qui infatti si direbbe, che
Romolo fin dagli inizii (1) Lo scrittore latino, che sembra far derivare
l'antico parricidium dalla parità fra uccisore ed ucciso, sarebbe ISIDORO, De
orig ., X , 225, il quale scrisse : « parri cidium et homicidium , quocumque
modo intelligi possunt, cum sint homines homi. nibus pares » ; ma qui è
evidente, che l'autore non cerca di dare la vera origine del vocabolo, ma solo
di dare una spiegazione, che poteva apparire probabile all'epoca sua . Del
resto quest'opinione fu già combattuta dall'OSENBRUEGGEN, Das altrömische
parricidium . Kiel, 1841, pag. 59. (2) Cfr. Voigt. Op. cit ., § 10, pag. 57,
nota 130, in fine. 340 - della città avrebbe chiamato parricidium ogni omicidio
, e che quindi non vi sarebbe stato periodo di tempo, in cui, dopo la for
mazione della città , la parola fosse stata ristretta a significare l'uccisione
di un padre delle genti patrizie (1). 277. Resta ancora l'opinione sostenuta
fra gli altri dal Walter e dal Maynz, secondo cui parricidium e perduellio
sarebbero due espres sioni, usate promiscuamente, ad indicare i più gravi
misfatti, che si potessero commettere nella comunanza. Vero è , che soventi nel
lin guaggio primitivo presentansi di questi vocaboli sintetici, e comprensivi,
che più tardi vengono in certo modo suddividendosi in guisa da espri mere solo
più uno degli atteggiamenti, sotto cui presentasi il concetto primitivo ; ma
qui la cosa non ha potuto accadere, poichè i due concetti si svolgono in certo
modo paralleli l'uno all'altro , ei due crimini sono perseguiti da ufficiali
diversi. Se si guarda poi all'ori gine dei due vocaboli, anche questa viene ad
essere completamente diversa ; poichè, per formare la figura del parricidium ,
si riguarda alla persona dell'offeso , mentre, per formare invece quella della
per duellio , si parte invece da quella dell'offensore, ossia dal vocabolo di
perduellis, che nelle origini significava nemico . Nel parricidium si ha
un'offesa contro un privato, che è sottratta alla privata per secuzione, ed
attribuita alla pubblica autorità ; mentre nella per duellio compare già
personificata la stessa comunanza collettiva , la quale, trovando nel proprio
seno chi cerca di comprometterne la sicu . rezza, scorge in esso una
somiglianza coi nemici esterni della città , e perciò lo qualifica col nome
stesso, che darebbe al nemico , con cui trovisi in aperta ostilità . 278.
Ritengo invece, che anche queste due figure di crimini, che compariscono in
Roma primitiva , possano essere spiegate in modo assai più verosimile, quando
si tenga conto , che la città risulto dalla confederazione delle tribù , e che
percid, colla sua formazione, i con cetti, che già esistevano nelle tribù ,
vennero a trapiantarsi nella città , colla differenza, che quei concetti, che
prima erano intergen tilizii , per cosi esprimersi , diventarono invece
concetti interqui ritarii, e ricevettero cosi una significazione diversa , per
il diverso punto di vista, sotto cui vennero ad essere considerati. Cid è
provato ( 1) PLUTARCO, Romulus, 22. - - - 341 - da questo che, appena Roma è
fondata, già presentansi formati così il concetto del parricidium , che quello
della perduellio ; poichè il primo è già attribuito a Romolo, e l'altro a Tullo
Ostilio, ma durante il regno di questo già esiste formata la lex horrendi
criminis, rela tiva alla perduellio. Ciò significa , che queste due figure di
reati eransi già delineate nella stessa organizzazione gentilizia , e che il
parricidium significava l'uccisione di un padre, ossia del capo di una famiglia
o di una gente : la quale uccisione costituiva l'unico misfatto , che non
dipendesse dalla giurisdizione domestica , e che dovette per il primo essere
punito, perchè era origine diguerre private nelseno stesso della tribù e di
guerra fra le genti ; e che la perduellio significava la nemicizia e l'ostilità
fra gente e gente (1). Fu quindi naturale dal momento, che i capi di famiglia
entrarono per confederazione nella medesima città, che il vocabolo parricidium
si trovasse natural mente portato a significare l'uccisione di chiunque
partecipasso alla comunanza , tanto più che i partecipi di essa dapprima erano
veri padri, e che la perduellio , mentre prima significava le ostilità fra le
genti, venisse ad indicare l'ostilità, che sorgeva nel seno stesso della città,
poichè i capi delle varie genti e famiglie ne erano di ventati i cittadini.
Allorchè poi fra i cittadininon furonvi solo più i capi di famiglia , ma anche
altri uomini liberi fu naturale e lo gico, che l'uccisione volontaria di
qualsiasi uomo libero rientrasse nella figura primitiva del parricidas. Viene
cosi ad essere natural mente spiegato ciò , che ci attesta Plutarco: che Romolo
, senza indurre pene contro i parricidiin senso stretto, abbia tuttavia chia
mato ogni omicidio parricidium : in quanto che quello, che era parri cidio nei
rapporti fra le varie famiglie e genti, venne ad essere uccisione di un
quirite, allorchè questi padri furono cittadini della medesima città ; al modo
stesso , che il perduellis fra le varie genti venne ad essere il nemico
dell'intiera comunanza, nel seno della città . Solo potrebbe notarsi, che non
si deve ammettere una siffatta trasposizione di vocabolo da una significazione
ad un'altra : ma è facile il rispondere, che la trasposizione dapprima fu
pressochè in sensibile, perchè i primi quiriti erano veramente padri, e che
simili trasposizioni sono frequentissime presso i Romani, i quali, ogni qual
volta hanno formata una figura giuridica, non temono di traspor tarla da un
caso ad un altro ; come lo dimostra il ius Latii, che (1) V. Festo, vº Hostis
(Bruns, Fontes, pag. 340). 342 trovato pei latini fu poi dai Romani applicato a
popoli ed a genti, che non avevano più nulla a fare con essi. Era poi naturale,
che quell'estendersi, che aveva luogo nella significazione del parricidium , a
misura che la figura del cittadino e quella dell'uomo libero si ve nivano
sostituendo a quella del padre, dovesse pure avverarsi quanto ai quaestores
parricidii, il cui compito si viene così allargando, finchè più tardi il
vocabolo apparisce disadatto , ed in allora sembra siansi sostituiti ai
medesimi i tres viri capitales (1). 279. Intanto però nulla potè impedire, che,
accanto alparricidium pubblicamente perseguito e che mutasi a poco a poco in
homicidium , potesse ancora sussistere la configurazione tradizionale del
massimo dei misfatti, che consiste nell'uccisione di un genitore, operata per
mano di un figlio o di una figlia . La sua stessa enormità ed infre quenza
spiega come negli esordii Romolo, al pari di Solone, non l'abbia contemplato :
ma intanto , se per avventura accadeva, veniva ad essere punito con pene
tradizionali, che cogli accessorii stessi, da cui erano accompagnate, cercavano
di simboleggiare l'enormezza del delitto . Fu soltanto allorchè questo triste
misfatto diventò ab bastanza frequente per la corruzione dei costumi, che la
punizione di esso, prima conservata nella tradizione e nel costume,
penetro anche nella legge, che dovette anche punire il parricidium in senso
stretto , dandogli tuttavia una significazione più larga, comprenden dovi cioè
qualsiasi uccisione di un parente o di un congiunto in certi confini di parentela
, e a tal uopo far rivivere l'antica pena tradizionale . Fu allora , che il
vocabolo di parricidium abban donò il semplice omicidio per venire ad indicare
l'uccisione di un parente e di un congiunto , il che appunto si fece colla
legge Pom (1) Questa trasformazione non è ammessa dal BRÜNER, Dissert. cit., 8
7. Parmi tuttavia , che essa fosse una naturale conseguenza dell'estendersi
della competenza dei quaestores parricidië , e del processo seguito dai Romani
nello svolgimento delle proprie istituzioni. Essa poi sembrami anche una
conseguenza della diffinizione da taci da Festo: « quaestores parricidii,
appellantur, qui solebant creari causa rerum capitalium quaerendarum » . Non
sarebbe poi qui il caso di entrare nella questione, se i quaestores parricidii
del periodo regio, ed i questores aerarii della Repubblica possano avere la
medesima origine : ma ritengo, che questa identità di origine non abbia nulla
di improbabile, allorchè si tenga conto della primitiva indistinzione delle
funzioni, che erano talora affidate allo stesso magistrato. Cfr . al riguardo
il Villems, Le droit public romain , pag. 303, nota 3. - 343 peia de
parricidiis. Tuttavia , per il vocabolo di parricidium , alla significazione
più ristretta , che esso viene ad assumere, sopravvive ancora un'altra
significazione, non compiutamente giuridica , ma piut tosto oratoria , per cui
parricidas viene ad essere chiamato il tradi tore della patria ,
l'oltraggiatore dei templi, quegli insomma, che col proprio delitto abbia
violato uno di quei doveri, che hanno un ca rattere sacro per l'umanità ( 1).
280. Solo più resta a spiegare il fatto , per cui un medesimo de litto, quello
cioè dell'Orazio, uccisore della propria sorella , abbia po tuto essere
qualificato come perduellio da Livio, e invece sia riguar dato qual parricidium
da Festo e da Dionisio. A questo propo sito è certo , che il fatto dell'Orazio,
quale ci è narrato dalla tradi zione, presentava un carattere molto dubbioso .
Da una parte eravi per certo l'uccisione di una persona libera , e quindi
occorrevano gli estremi della legge attribuita a Numa ; ma dall'altra
l'uccisione era stata commessa , allorchè il popolo seguiva in massa l'Orazio
vinci tore, e l'uccisione, sempre secondo la tradizione, sarebbe stata da lui
inflitta , come pena contro coloro , che piangevano la morte di un nemico della
patria . L'Orazio in certo modo, fra gli applausi della vittoria, aveva
usurpato un ufficio, che al re, ed al popolo sarebbe spettato, e in quel
momento aveva operato, come un perduellis , come una persona , che si era posta
al disopra delle patrie leggi. È questo il motivo, per cui il popolo, che
plaude il vincitore, trascina tuttavia il ribelle davanti al re, ed è questi,
che, in base a quella distin zione fondamentale della primitiva procedura nel
ius e nel iudicium , viene ad essere chiamato a giudicare di qual misfatto si
tratti. In darno il padre dell'Orazio cerca di richiamare a sè la giurisdizione
per trattarsi di un misfatto , che erasi compiuto da un suo figlio contro una
sua figlia ; qui il re ravvisa prevalere il carattere pubblico del misfatto, e
quindi ritiene trattarsi di perduellio e conchiude : « duum viros, qui Horatio
perduellionem iudicent, secundum legem facio » . Dura era la legge relativa al
perduelle , in quanto che, se condo i termini di essa, il condannato doveva
avere avvolto il capo , essere sospeso arbori infelici, e poi essere ucciso a
colpi di verghe, (1) Cfr. BRÜNER , Dissert. cit., $ 526. È poi CICERONE, che
parla di parricidium patriae, civium , e scrive : « sacrum , sacrove
commendatum , qui clepserit rapsitve parricida esto » . Cfr. CARRARA,Op. cit .,
§ 1139. 344 « intra pomoerium vel extra pomoerium » . Il tenore della legge era
quindi tale, che i duumviri dovettero condannarlo, e uno di essi già ordinava
al littore « colliga manus» quando l'Orazio propone appello al popolo , il
quale l'assolve in memoria del fatto compiuto , e sotto l'e sortazione del
padre stesso, che viene esclamando fra la folla , che la propria figlia era
stata iure caesam . Tuttavia l'Orazio , anche assolto , fu costretto a passare
sotto il giogo , donde l'erezione del tigillum sororium , e la sua gente,
secondo Dionisio, dovette anche offrire una piacularis hostia in base alla
legge di Numa, che prevedeva il caso di un omicidio commesso per imprudenza .
Anche in ciò abbiamo un indizio del dubbio , che si era presentato intorno al
carattere del misfatto, poichè il passare sotto il giogo era certo la pena, a
cui era sottoposto il nemico vinto , e il sacrifizio dell'ariete era imposto
alla gente per causa dell'omicidio involontario ( 1). 281. Tuttavia , a mio
avviso , la ragione che rende più verosimile la spiegazione premessa intorno
alle origini del diritto criminale in Roma, sta sopratutto in ciò, che in
questa parte sarebbesi seguito quel medesimo processo , che abbiamo potuto
constatare in tutto il rimanente. I concetti già elaborati nella tribù sono
trapiantati dalla città, al modo stesso che più tardi dalla città saranno
portati ed estesi a tutto il mondo conquistato , e per tal modo di concetti
intergentilizii, diventano concetti quiritarii, al modo stesso che più tardi i
concetti quiritarii, ricevendo un nuovo contenuto , di venteranno poi di nuovo
universali e comuni a tutte le genti. (1) A questo proposito tolgo dal Bongai,
Storia di Roma. I, pag. 132, nota 1, una citazione dello SCHOEMANN, che sembra
confermare l'opinione qui sostenuta : « Horatium , quum supplicium de sorore
indemnata sumpsisset , eaque caede et ius regis ac populi imminuisset, visum
esse adversus ipsam rempublicam adeo deliquisse, ut perduellionis, non modo
parricidii, teneretur » . Osserverò poi per mio conto la singolarità del fatto,
per cui il perduelle, considerato come nemico interno, viene ad essere
assoggettato alla pena stessa del nemico esterno, cioè fatto passare sotto il
giogo, quasi in segno di sottomissione forzata alle leggidella patria ; altra
prova , che non solo si tolse dall'ostilità esterna la figura della perduellio
, ma in parte anche la pena, con cui essa era punita . Insomma perduellis
significava il nemico nei rap porti fra le varie genti; ma quando i membri
delle genti diventarono cittadini della stessa comunanza , diventò il nemico
interno della medesima, e il nemico esterno si chiamò hostis . 345 Intanto
anche in questa parte il parricidium e la perduellio sono due nozioni, il cui
contenuto non è ancora ben determinato , ma al pari di tutti i primitivi
concetti quiritarii appariscono come due co struzioni logiche, che si verranno
svolgendo col tempo. Di qui con seguita , che il parricidium finirà per
allargarsi per modo da com prendere tutte le offese contro il libero cittadino,
che giungono a produrre la morte di lui: mentre la perduellio finirà per
compren dere tutti i reati contro lo Stato , e quando questo si concentrerà
nella persona dell'imperatore si cambierà nel crimen lesae maie statis. È
quindi fino da quest'epoca , che comincia ad apparire la di stinzione fra il
reato comune e il reato politico ; ed è fin d'allora , che si sente
l'opportunità di lasciare una parte al popolo nel giu dizio dei reati politici
propriamente detti. L'uno e l'altro nel loro comparire sono come la sintesi dei
reati pubblici, dopo i quali verranno poi anche ad essere repressi i delitti
privati: la qual distin zione, iniziata da Servio Tullio , diventerà poi fondamentale
nella legislazione decemvirale . Intanto le cose premesse bastano per
dimostrare in qual modo siasi effettuata la formazione di una giurisdizione e
di un diritto criminale in Roma primitiva. La giurisdizione criminale fu il
risul tato di una sottrazione lenta e graduata , che l'autorità pubblica venne
facendo alla giurisdizione domestica e patriarcale; e i primi pubblici delitti
furono due figure di misfatti, che già preesistevano nell'organizzazione
gentilizia , le quali, sebbene continuino ad essere indicate cogli stessi
vocaboli, assumono però una significazione di versa . Di più anche nella
primitiva concezione del delitto in Roma occorre quella potenza sintetica, che
già abbiamo riscontrata nei concetti fondamentali della costituzione politica, e
che apparirà anche più evidente nei concetti primitivi del diritto quiritario.
Ciò indica che tanto il diritto pubblico e privato che il diritto penale,
allorchè appariscono in Roma, sono già il frutto di una potente selezione ed
elaborazione, fatta sui materiali somministrati dall'anteriore orga uizzazione
gentilizia . I concetti del diritto primitivo di Roma sono altrettante sintesi
potenti, in cui i fondatori della città cercano di scegliere e di con densare
ciò , che hanno appreso nel periodo precedente. Ora più non ci resta che ad
esaminare le condizioni della plebe cosi in tema di diritto pubblico , che di
diritto privato . - 346 CAPITOLO V. La condizione dei clienti e della plebe in
Roma prima della costituzione Serviana. 282. Le cose premesse dimostrano ad
evidenza, che tutta la primitiva costituzione politica di Roma, e quella
legislazione, che dalla tradizione è attribuita ai primi cinque re, debbono
ritenersi di origine esclusivamente patrizia , in quanto che si riducono in so
stanza a concetti già elaborati nel periodo gentilizio, i quali, trapian tati
nella città, vengono a ricevere un nuovo atteggiamento , ed a prendere una
nuova significazione nella medesima. Solo più rimane a determinarsi quale
potesse essere in questo periodo la condizione giuridica delle classi
inferiori, al qual pro posito importa di tenere assolutamente distinti i
clienti dalla plebe propriamente detta. 283. Per quello, che si riferisce ai
clienti , la loro posizione giu ridica , in questo primitivo stadio della città
, non viene ancora ad essere modificata , in quanto che essi continuano sempre
ad apparte nere più alla gente , che alla città : perciò essi, per quanto si
può ricavare da quella enumerazione dei diritti e degli obblighi fra patrono e
cliente, che ci fu trasmessa da Dionisio , continuano ad avere gli stessi
diritti e le medesime obbligazioni, che loro appar tenevano, durante il periodo
gentilizio (1). Essi quindi non hanno ancora una vera proprietà , ma continuano
a ricevere dalle genti degli assegni a titolo di precario sugli agri gentilizii
; ne pos sono parimenti far valere direttamente le proprie ragioni davanti al
magistrato della città , ma perciò debbono valersi della protezione e degli
uffici del patrono. Per maggior ragione non può ammettersi, che in questo primo
stadio essi possano intervenire nell'assemblea delle curie, comesostiene un
gran numero di autori (2 ). Le curie sono ( 1) Dion., II, 10. Cfr. quanto si
espose intorno alla clientela, nel Lib . I, Cap. III , § 3º, pag . 46 a 52. (2)
Tale è l'opinione del Willems, Le droit public romain , pag. 46 e seg . e del
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 48 e seg ., nota 2. Il prof.
COGLIOLO nella sua nota nº d, pag. 50, non approva intieramente l'opinione del
Padelletti. 347 il sito di riunione pei quirites, per i gentiles, per i viri,
il cui potere è simboleggiato dalla lancia, e non possono in nessun modo essere
state aperte a quelli, che nell'organizzazione gentilizia trovinsi in
condizione subordinata , anche per il semplice motivo , che, quando così fosse
stato , il numero dei clienti, i quali avrebbero pur essi avuta parità di voto
, avrebbe di gran lunga soverchiato quello dei patroni. Pud darsi che in
occasione di guerra anche i gentilicii seguano il loro patrono, ma i medesimi
dipendono ancora più dal cenno di esso , di quello che dipendano direttamente
dallo Stato . Sarebbe in fatti strano ed incomprensibile, che quelli, che non
possono ancora stare in giudizio, potessero concorrere direttamente alla
elezione del re ed alla votazione delle leggi, e giudicare di coloro, che
abbiano interposto appello al popolo. Sarà soltanto la costituzione Serviana,
che, ponendo il censo a base della partecipazione ai ca richi civili e
militari, obbligherà i padri delle genti a fare conces sioni di terre in proprietà
ai propri clienti, per avere cosi un ap poggio nelle votazioni dei comizii
centuriati, ed è da quest'epoca che cominciano a sentirsi le lagnanze dei
plebei, perchè i padri appoggiati dai loro clienti riescono a dominare le
votazioni nei co mizii centuriati (1). In questo senso la costituzione Serviana
fu quella , che diede il gran colpo alla clientela, e con essa alla
organizzazione gentilizia, perchè da quel momento anche i padri furono tenuti a
fare concessioni di terre in proprietà ai proprii clienti, i quali acqui
starono così una indipendenza economica dai patroni, che fu anche il principio
della loro indipendenza politica ; donde la conseguenza chemolti fra essi sono
poi venuti ad allargare anche le file della plebe e ad appoggiare le pretensioni
di essa . 284. Intanto peró la questione, la cui risoluzione è assolutamente
indispensabile per comprendere la storia politica e giuridica di Roma primitiva
, è quella relativa alla condizione giuridica della plebe sotto i primi re,
così sotto l'aspetto del diritto pubblico , che sotto quello del diritto
privato . Il grande avvenire della plebe romana rese per gli storici di Roma
assai difficile il comprendere, come quell'elemento, che ai tempi ( 1) Che le
lagnanze dei plebei contro i clienti, per la preponderanza, che essi re cavano
al patriziato, si riferiscano ai comizii centuriati , appare dal seguente passo
di Livo, II, 64: « irata plebs inesse consularibus comitiis noluit ; per
patres, clien tesque patrum consules creati sunt Titus Quintius et P. Servilius
» . 348 - loro era ormai divenuto il dominatore della piazza e del foro, po
tesse, nelle origini, essere affatto escluso dal suffragio. Ond'è che
essi, trovando ai loro tempi la plebe ammessa in parte agli stessi comizii
curiati, e compresa nel populus, e una parte di essa anche pervenuta alla
nobiltà potevano difficilmente riuscire colla mente loro a ricostruire quella
primitiva distinzione fra populus e plebes, che ormai era scomparsa . Essi
quindi parlarono nel loro racconto deglian tichi comizii curiati, come se essi
avessero compreso tutto il populus, quale allora era costituito , cioè
inchiudendovi anche la plebs. Tuttavia , malgrado quest'attestazione concorde,
dubitarono i critici moderni, e quelli sopratutto, che al pari del Vico e del
Niebhur, ave vano penetrato più profondamente l'indole e il carattere primitivo
della città patrizia . La loro opinione trovò favorevole accoglimento ; ma in
questi ultimi tempi, essendosi dal Mommsen trovato , che vi fu un tempo, in cui
dei plebei furono elevati alla dignità di curiones maximi, sorse nuovamente il
dubbio , che la plebe abbia potuto essere am messa anche alle curie . Che anzi,
siccome mancava notizia di una legge, che avesse proclamata quest'ammessione,
vi furono anche degli autori, i quali, come il Paddelletti, giunsero a
sostenere, che questa ammessione dovesse risalire fino agli inizii della città
. Conviene però aggiungere, che gli autori, i quali direcente investigarono
sulle fonti le origini della città , come il Voigt, il Karlowa, il Bernöft, il
Pantaleoni, il Muirhead, il Gentile, ritornarono di nuovo al concetto di una
città esclusivamente patrizia , ed alla esclusione della plebe primitiva dal
far parte dell'assemblea delle curie ( 1). 285. Non è qui il caso di entrare in
discussioni erudite sull'argo ( 1) L'opinione sostenuta dal PADELLETTI è anche
seguita dal WILLEMS, Op. cit., pag. 47 e segg .; dal LANDUCCI, Storia del
diritto romano, pag. 357 , nota nº 2 ; dal Peluam, Encyclop. Britann ., vol.
XX, pº Rome (ancient), i quali però non entrano nella discussione degli
argomenti in pro e in contro. Quanto al PADELLETTI debbo far notare , che se la
sua autorità è grande quanto al periodo storico, non può dirsi altrettanto
quanto al periodo delle origini, e ciò perchè l'autore, fin dagli inizii
dell'opera , col suo solito fare reciso ed alieno dalle dubbiezze, afferma e
che lo studio delle origini può essere interessantissimo ed utile al mitologo
ed allo storico, ma è molto sterile per il giurisprudente » (pag. 4 ). Ciò
spiega come l'autore, essendosi accinto all'opera sua con un tale concetto
dello studio delle origini , sia caduto in gravi equivoci, ogniqualvolta toccò
quell'argomento , come può scorgersi quanto alle origini della famiglia , della
proprietà, dei delitti e delle pene, ed al sistema delle azioni. Nell'o pera
sua il diritto romano compare bello e formato, senza che si sappia , donde pro
ceda . Ciò comprese il suo annotatore Cogliolo , che intese a supplirvi colle
proprie note. 349 mento ; mibasterà il dire, che se si tenga conto del processo
, che do minò la formazione della comunanza romana, è del tutto improbabile ,
che la plebs abbia potuto essere ammessa , fin dagli inizii , alla civitas e
quindi anche alle curiae, le quali erano una ripartizione della me desima. I
cambiamenti sono troppo lenti nelle organizzazioni primitive , perchè un
elemento, che trovavasi in una condizione del tutto infe riore, potesse di un
tratto, e fin dal tempo, in cui era ancora debole e privo di qualsiasi
organizzazione, essere ammesso a far parte di una nuova consociazione, sovra un
piede di uguaglianza , in guisa da entrare a far parte della civitas e della
curiae, le quali, oltre al l'essere corporazioni politiche , erano anche
corporazioni strette dal vincolo di una religione , chenon era ancora accomunata
alla plebe . È affatto improbabile, che quel gentile o patrizio, che è
sopratutto altero di poter indicare i suoi antenati, senza che alcuno fra essi
fosse mai stato servo nè cliente , potesse diun tratto accettare un voto del
tutto eguale con un plebeo , che poteva forse essere stato prima suo cliente o
suo servo, e che ad ognimodo era di un'origine diversa dalla sua, e non poteva
indicare i propri antenati. Ciò ripugna al modo di pen sare delle genti
primitive, che non conoscendo altro vincolo , che quello del sangue, dånno
sopratutto importanza alle discendenza ed alla nascita. Sarebbe strano, che
quei patrizii, i quali, allorchè più tardi accoglievano nuove genti, le
collocavano fra le gentes mi nores, potessero concepire un pareggiamento completo
del loro ordine colla moltitudine o folla , da cui si trovavano circondati.
Questa pa rità , secondo il modo di pensare dell'epoca, nè poteva essere am
messa dal patriziato , nè poteva essere chiesta dalla plebe, la quale trovavasi
ancora in condizione troppo umile per potervi aspirare; nè è a credersi, che il
patriziato primitivo , fondatore della città , volesse per generosità accordare
spontaneamente cid , che era ancora in condizione di negare, e che non
concesse, che quando vi fu compiutamente forzato. Ciò è tanto più improbabile ,
in quanto che la curia , come abbiamo dimostrato a suo tempo, era chiamata
eziandio a deliberare sopra una quantità di affari, che si riferivano
direttamente all'organizzazione domestica e gentilizia loro esclusivamente propria
; poichè il quirite in questo periodo da una parte guarda ancora alla gente ,
da cui esce, e dall'altra alla città , di cui entra a far parte. 286.
Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in parte, siano 350 anche stati
ammessi alle curie , esso può essere facilmente spie gato . La lunga convivenza
nelle stesse mura, e nello stesso esercito ravvicinò i due elementi ; anche i
plebei vennero imitando l'or ganizzazione del patriziato ; e non mancarono
anche le famiglie, che, pur essendo di origine plebea, poterono, per importanza
politica , eco nomica e per servigii resi alla repubblica, stare a fronte anche
delle poche famiglie, originariamente patrizie . Quindi al modo stesso , che
più tardi anche i patrizii poterono entrare a far parte dei comisii tributi ;
cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai ammessa agli onori, agli
auspicii ed ai sacerdozii, abbia potcui esce, e dall'altra alla città , di cui
entra a far parte. 286. Quanto al fatto, che più tardi i plebei, almeno in
parte, siano 350 anche stati ammessi alle curie , esso può essere facilmente
spie gato . La lunga convivenza nelle stesse mura, e nello stesso esercito
ravvicinò i due elementi ; anche i plebei vennero imitando l'or ganizzazione
del patriziato ; e non mancarono anche le famiglie, che, pur essendo di origine
plebea, poterono, per importanza politica , eco nomica e per servigii resi alla
repubblica, stare a fronte anche delle poche famiglie, originariamente patrizie
. Quindi al modo stesso , che più tardi anche i patrizii poterono entrare a far
parte dei comisii tributi ; cosi non è meraviglia, se anche la plebe, ormai
ammessa agli onori, agli auspicii ed ai sacerdozii, abbia potuto essere am
messa anche alle curie, la cui importanza non era più che religiosa. Un tal
fatto venne certo ad essere possibile più tardi ; ma l'ammet terlo fin dagli
inizii , è uno sconvolgere ed invertire ilmodo di pensare dell'epoca e
l'ordine degli avvenimenti. Sarebbe infatti un fare co minciare l'unione del
patriziato e della plebe dal partecipare ad una stessa corporazione religiosa ;
mentre i fatti dimostrano, che questa fu l'ultima parte delle loro tradizioni,
che si decisero ad accomunare alla plebe. Se quindi la plebe riuscì a penetrare
nella civitas ciò non dovette essere mediante le curiae, che avevano ancora un
ca rattere religioso , ed erano formate ex hominum generibus; ma bensi per
mezzo delle classi e delle centurie , che avevano piuttosto un carattere
militare, e si fondavano sulla proprietà e sul censo . Le cause , che
cooperarono più tardi a ravvicinare i due ordini, furono sopratutto i comuni
pericoli, che obbligarono la città patrizia ad arruolare nell'esercito i
plebei, al modo stesso che dovette arruolare più tardi anche i liberti ; come
pure vi cooperarono la proprietà, che fu pure acquistata dalla plebe ed i
conseguenti commerci, che ne deri varono fra essa e il patriziato ; ed è forse
questo il motivo, per cui la costituzione Serviana assunse dapprima un
carattere militare ed eco nomico ad un tempo. Quanto al fatto allegato dai
sostenitori del l'opinione contraria , che il vocabolo populus romanus
quiritium abbia più tardi compresa eziandio la plebe, esso può essere
facilmente spiegato , in quanto non è questo il solo caso, in cui i Romani, man
tenendo la parola, ne mutassero il significato . Del resto il vocabolo populus
per Roma era una concezione e forma logica, al pari di tutte le altre
concezioni giuridiche e politiche ; esso comprendeva l'uni versalità dei
cittadini, e quindi, come era naturale, che non com prendesse la plebe , finchè
questa non faceva parte della città , cosi doveva comprenderla , allorchè essa
, in base al censo, entrò a far parte delle classi e delle centurie Serviane.
351 287. Ferma così la risoluzione delmaggior problema della storia primitiva
di Roma, solo resta a ricercare brevemente, quale potesse in questo periodo
essere la posizione della plebe in tema di diritto privato ; il qual compito ci
è reso facile da ciò, che si venne fin qui ragionando. È noto, come il ius
quiritium , allorchè giunse al suo completo sviluppo , mentre in tema di
diritto pubblico comprendeva il ius suf fragii e il ius honorum , che entrambi,
a nostro avviso , furono dapprima negati alla plebe, in tema invece di diritto
privato si rias sumeva nel ius connubii e nel ius commercii . Quanto al primo
di questi diritti, abbiamo troppi argomenti nella storia per affermare con
certezza , che solo più tardi i plebei furono ammessi al ius connubii col
patriziato ; il che però non significa , che essi non potessero contrarre fra
loro delle unionimatrimoniali, ma soltanto che queste unioni non potevano, di
fronte al patriziato , produrre gli effetti della iustae nuptiae. L'opinione
quindi, che suol essere comunemente accolta , è quella secondo cui la plebe
sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo ius commercii ( 1). Così avrei
ritenuto ancioni non potevano, di fronte al patriziato , produrre gli effetti
della iustae nuptiae. L'opinione quindi, che suol essere comunemente accolta ,
è quella secondo cui la plebe sarebbe in questo periodo stata ammessa al solo
ius commercii ( 1). Così avrei ritenuto anch'io nell'inizio di questo studio, e
può darsi che nel corso del libro cid apparisca in qualche parte ; ma ora il
processo logico , che domind la formazione del diritto romano, in mancanza di
ogni informazione diretta , mi conduce ad affermare, che non dovette essere il
ius commercii, che la città patrizia riconobbe alla plebe circostante, ma bensì
il ius neximancipiique, il quale, come si è veduto più sopra , è quello stesso
diritto , che Roma, dopo es sersi incorporata la primitiva plebe, ebbe ad
accordare alle altre popolazioni circostanti, che vengono sotto il nome di
forcti ac sa crates. Anche il concetto di commercium , nella larga
significazione che ebbe pei Romani, in guisa da comprendere il diritto di
comprare e di vendere, di obbligarsi e di fare testamento ex iure quiritium ,
suppone una certa parità di condizione fra le persone, fra cui in tercede.
Siccome quindi le genti patrizie erano per modo organizzate da provedere
compiutamente ai loro bisogni : così non poteva dap prima essere il caso , che
riconoscessero ad una classe inferiore un ius commercii, sopra un piede di
eguaglianza, ma loro dovettero riconoscere soltanto il diritto del mancipium ,
ossia quello di avere una proprietà , che poteva essere alienata, e il ius
nexi, ossia il di (1) Tale è, ad esempio, l'opinione del LANGE , Histoir.
intér. de Rome, I, pag . 61. 352 ritto di potersi obbligare, mediante il nexum
. Le conseguenze pra: tiche nella sostanza potevano essere le stesse ; ma
intanto la supe riorità delle genti e il vassallaggio della plebe venivano ad
essere riconosciute . Ed è questo il motivo, che allorquando la plebe fu
ammessa nella città , il nexum ed il mancipium , come accadde anche in tutto il
resto , cessarono di significare dei rapporti fra le genti patrizie e la plebe,
che le circondava , per diventare rapporti interni, e costituirono cosi i primi
concetti quiritarii, comuni alle due classi. Più tardi però, anche questi
vocaboli, che ricordavano una disugua glianza di condizione fra le due classi,
apparvero disadatti, e nella successiva elaborazione del diritto quiritario
furono sostituiti da altri (1) . Non può dirsi pertanto , che in questo periodo
siasi già cominciata l'elaborazione di un vero ius civile , ispirato ad un
concetto di ugua glianza fra patriziato e plebe, ma continua sempre ad esistere
un diritto proprio delle genti patrizie , che parteciparono alla formazione
della città, e che costituisce il primitivo ius quiritium ; ed un di ritto che
governa i rapporti fra la città patrizia e la plebe, che la circonda , il quale
si risente ancora delle condizioni disuguali, in cui essi si trovano. È questo
il motivo, per cui la plebe nelle proprie tradizioni fece sempre rimontare la
sua esistenza giuridica alla costi tuzione Serviana; colla quale lo sviluppo
del diritto pubblico e privato di Roma prende un indirizzo del tutto peculiare
, che influi potente mente su tutto lo svolgimento , che ebbe ad avverarsi più
tardi, e merita perciò di essere particolarmente e profondamente studiato . (
1) Non mi trattengo più a lungo su questo punto, perchè ho già dovuto accen
narvi nel Lib . I, Cap. X , nº 160 , pag. 193 e seg., e perchè la prova delle
cose qui enunziate apparirà anche più evidente , quando si tratterà della
costituzione Ser viana e della sua influenza sul diritto privato di Roma. LIBRO
III. Il diritto pubblico e privato di Roma dalla riforma Serviana alle XII
Tavole. CAPITOLO I. La costituzione di Servio Tullio . § 1. – Cenno degli
avvenimenti che la prepararono. 288. Colla venuta dei Tarquinii a Roma, si
inizia nella medesima una trasformazione profonda, la quale potè in parte
essere travisata dalle tradizioni e dalle leggende, ed anche dissimulata
dall'amor patrio degli storici latini, ma i cui principali tratti si possono di
scernere nelle serie degli avvenimenti e dei fatti, di cui ci fu con servata
memoria . Fino a quell'epoca, delle varie stirpi, che erano concorse a co
stituire la città , avevano sempre avuta una incontrastabile prevalenza le latine
e le sabine, fra le quali erasi venuto alternando il ma gistrato supremo ;
mentre i Luceres non avevano somministrato alcun re , nè forse avevano avuto
nella formazione dei primitivi sacerdozii. Or bene, regnando Anco Marzio, di
origine latina, la gente Tarquinia , di origine etrusca, ricca di capitali e
numerosa per clientele, viene a porre la propria sede in Roma, per conseguirvi
quello stato, che le era conteso nel luogo nativo (Tarquinia ). Il capo di essa
è uomo abile ed intraprendente, e dopo aver consi gliato in vita Anco Marzio ,
ne guadagna per modo la fiducia , da diventare dopo la sua morte tutore dei
figli di lui, o ottiene in breve colle sue ricchezze e collo splendore della
propria vita tale un seguito, da essere assunto al trono , mediante il
suffragio del G. Carle, Le origini del diritto di Roma. 23 354 popolo e
coll'autorità dei padri : « eum , scrive Livio , ingenti con sensu populus
romanus regnare iussit » (1). Nè sembra essere il caso di supporre col
dottissimo OldofredoMüller, che questa immigrazione di genti etrusche
corrisponda alla supre mazia , che la città di Tarquinia avrebbe conquistata su
Roma, su premazia, che gli storici latini avrebbero cercato di dissimulare (2
): poichè le nuove genti appariscono in concordia con tutti gli ordini della
città , e il capo di esse , chiamato con tutte le formalità al trono, raccoglie
in effetto tutte le sue cure sulla patria novella, e l'arricchisce di pubblici
edifizii, che allo splendore delle costruzioni greche ed etrusche sembrano associare
quel carattere di grandiosità e di forza , che è proprio delle costruzioni
latine. Sembra quindi più verosimile, che alcune fra le città etrusche in
quell'epoca fossero pervenute a quel periodo di crisi, che occorre eziandio
nelle città greche , durante il quale, sorgendo lotta di superiorità e di predo
minio fra i capi delle grandi famiglie , vengono ad esservene di quelle, che
sono forzate a cercare altrove miglior sorte e fortuna. Per un tale intento
offerivasi opportuna la città di Roma, la quale in quel periodo di tempo era
ancora disposta ad accogliere nuove genti nei proprii quadri, e mentre da una
parte , per la fortezza già sperimentata dei proprii abitanti, poteva aspirare
ad un grande avvenire, dall'altra aveva ancora molto ad apprendere, sia quanto
allo splendore dei pubblici edifizii , sia quanto all'ordinamento mi litare e
civile. Di più essa già conteneva nel proprio seno delle genti di origine
etrusca , cosicchè la nuova immigrazione poteva avervi parentele ed aderenze,
che spiegano l'appoggio e il seguito , che vi trovarono in breve la gente
Tarquinia e il proprio capo (3). 289. Questo è certo ad ogni modo, che in Roma
si manifestano ben tosto i segni di una trasformazione potente. - Infatti,
secondo la tradizione, la sua popolazione viene ad essere come raddoppiata , ed
il nuovo elemento sembra dare alla città un indirizzo mercantile , come lo
dimostra il fatto, che dopo la dominazione dei Tarquinii ( 1) Liv., 1, 34 ;
Dion., IV , 2 . (2 ) Müller O., Die Etrusker. Cfr . PANTALEONI, Storia civile e
costituz .di Roma, pag . 134, ove si impugna appunto l'opinione del Müller. (3)
L'opinione qui accettata è conforme a quella, che ho cercato didimostrare più
sopra , relativamente agli aumenti nel numero dei senatori. Lib . II, cap. II,
§ 5 , nn. 212 e 213, pag. 258 e segg . 355 Roma è già in condizione di
conchiudere, anche come rappresen tante del Lazio , un trattato di navigazione
con Cartagine (1). Mentre poi fino a quell'epoca Roma aveva ancor sempre conser
vato il suo carattere primitivo di federazione fra diverse comunanze, con
Tarquinio invece sembra iniziarsi il periodo, che potrebbe chia marsi di
incorporazione. Narra infatti Livio, che Tarquinio avrebbe distribuito spazi
intorno al foro , accið i privati vi potessero costruire le proprie abitazioni,
e che in lui era già sorto il pensiero di cin gere la città di mura, adottando
così il tipo delle città etrusche, le quali, essendo dedite ai commerci,
solevano chiudersi e fortificarsi nelle proprie mura ( 2 ). A compir l'opera
sarebbesi richiesto, che i quadri della città pri mitiva fossero modificati, e
che alle divisioni di carattere gentilizio se ne sostituissero altre di
carattere territoriale e locale . Cid secondo la tradizione avrebbe pur tentato
Tarquinio, quando non si fosse op posto il patriziato per mezzo dell'augure
sabino Atto Nevio , osser vando che la primitiva città erasi fondata mediante
gli auspicii, e che perciò i quadri di essa consacrati dalla religione dovevano
essere mantenuti (3). Non vi fu quindi altro mezzo che di fare entrare il nuovo
elemento nei quadri antichi, il che Tarquinio avrebbe cercato di conseguire :
lº aggiungendo alle centurie dei cavalieri, altre centurie, che serbarono il
nome antico, ma presero la deno minazione di Ramnenses, Titienses , e Luceres
secundi; 2º ac crescendo il senato di cento nuovi senatori, che si chiamarono
patres minorum gentium ; 3º raddoppiando il numero dei pontefici e degli
auguri, e destinando anche alla custodia ed alla interpretazione dei libri
sibillini i duoviri sacris faciundis , i quali, portati poscia a dieci e più
tardi a quindici, finirono per cambiarsi in un collegio sacerdotale , che
sovraintendeva și culti di provenienza straniera (4 ). (1) La memoria di questo
trattato di navigazione, conchiuso nel primo anno della Repubblica , ci fu
serbata da POLIBIO, III, 22, 24 , il quale l'avrebbe tradotto da un latino
arcaico, che ai suoi tempi era già diventato difficile a comprendersi. (2) Liv
., I, 35, 36, 38. Egli anzi attribuisce a Tarquinio di aver già intrapresa la
cinta , che prese poi il nome di Serviana. (3 ) Liv ., I, 36 ; Dion., III, 70,
72. (4 ) Dron ., III, 67; IV , 62. L'istituzione dei duoviri sacris faciundis
ora è attri buita a Tarquinio Prisco ed ora a Tarquinio il Superbo. Quanto allo
svolgimento storico di questo collegio sacerdotale è da vedersi il
Bouché-LECLERCQ, Histoire de la divination , Paris, 1882, IV , pagg. 286-317,
come pure il Manuel des institu tions romaines, Paris, 1886 , pag. 545 e segg .
356 Intanto anche la religione subì l'influenza del nuovo elemento , ma in
proposito fu giustamente osservato , che la religione, importata da questa
immigrazione etrusca, non ha quel carattere misterioso ed arcano, che vuole
essere attribuito ai riti etruschi, ma si risente invece dell'influenza greca,
come lo prova la triade capitolina di Giove, Minerva e Giunone (1) ; il che
sembrerebbe confermare, che i Tarquinii, pur venendo da una città etrusca ,
potessero remotamente provenire da una città greca, che secondo la tradizione
sarebbe stata Corinto ( 2 ). Della plebe quasi non si occupa la tradizione; ma
si può affer mare con certezza che come le immigrazioni latine avevano ac
cresciuta la plebe rurale, dedita alla coltura delle terre, così quella etrusca
dovette trascinare con sè un grande numero di artieri, di commercianti, di
uomini esperti nell'arte della costruzione, che con corse ad accrescere la
plebe urbana (3). Intanto si accrebbero i mo tivi di ravvicinamento fra
patriziato e plebe, poichè la plebe del con tado era divenuta un elemento
indispensabile per rafforzare l'esercito , e la cooperazione della plebe urbana
era anch'essa necessaria per compiere quelle opere pubbliche grandiose, che
sono la caratteri stica di questo periodo della storia di Roma, e che erano
natural mente richieste dall'ingrandirsi della città e dal nuovo indirizzo
preso dalla medesima. 290. Le cose quindi erano venute a tale, che
coll'ampliarsi della città , anche i quadri del populus dovevano essere
allargati in guisa da potervi comprendere quella parte della plebe, che ormai
per venuta a qualche agiatezza, ed affezionata al suolo da esso col tivato ,
poteva avere interesse all'incremento e alla difesa della città . Fu questa
l'opera, che la tradizione ha attribuito a Servio Tullio ; altro re , che
appare come trasfigurato dalla leggenda, la quale probabilmente ha finito anche
qui per attribuire all'opera di un solo ciò che ha dovuto essere l'effetto del
concorso di varii elementi, e delle nuove energie e forze operose, che vennero
a ( 1) Questa osservazione è del PANTALEONI, op. cit., p . 149 . (2) È noto
che, secondo Livio I, 34, Tarquinio Prisco, pur provenendo diretta mente da
Tarquinia , sarebbe tuttavia figlio di un Demarato Corinzio . (3 ) Quanto
all'incremento della plebe sotto il regno del primo Tarquinio, è da ve dersi
Herzog, Geschichte und System der römischen Staatsverfassung . Leipzig, 1884,
I, pag. 32 e segg . 357 scaturire dal nuovo stato di cose e dal nuovo
indirizzo, che veniva prendendo la città di Roma. È dubbia la origine di Servio
Tullio : mentre la tradizione latina , unitamente al carattere della sua
riforma, che appare più una evoluzione che una rivoluzione, lo la scierebbero
credere di origine latina , una tradizione invece, che vigeva presso gli
Etruschi, e che ci fu conservata dall'imperatore Claudio nel preambolo ad un
senatusconsulto, lo direbbe di origine etrusca , e gli attribuirebbe il nome di
Mastarna (1). Tutta l'antichità ad ognimodo è concorde nel riconoscere l'impor
tanza della sua costituzione, poichè è certo che, debbasi ciò attribuire alla
sapienza del principe autore di essa , o alla tenacità del popolo che ebbe a
svolgerla , essa corrisponde a un graduato sviluppo e segna comeun nuovo stadio
nella formazione della città . Essa chiude il pe riodo esclusivamente patrizio
, in cui domina ancora la discendenza e la nascita, ed inizia quello patrizio
-plebeo , in cui i due ordini, dopo essere entrati a far parte del medesimo
popolo, sulla base del censo , finiscono per avviarsi fra le lotte ed i
dissidii al pareggia mento giuridico e politico . Può darsi, che anche altre
città abbiano avuta una costituzione analoga , come, ad esempio, Atene per
opera di Solone (2 ); ma non ve ne ha certamente un'altra , che per la tenacità
e la perseveranza degli ordini, che si trovarono di fronte, abbia saputo
ricavarne un più sicuro e graduato sviluppo . Ben è vero, che anche per Roma vi
fu un periodo, in cui l'evo luzione è stata interrotta da un tentativo di
tirannide ; ma nel resi stervi tutti gli ordini furono concordi, e il rimedio
fu estremo, quello cioè di cacciare dalla città l'elemento, che ne aveva poste
a repen (1) L'oratio, che precede il senatusconsulto Claudiano dell'anno 48
dell'êra vol gare de iure honorum Gallis dando può vedersi nel Bkuns, Fontes,
ed . V , p. 177. Ivi l'erudito imperatore, volendo accogliere nel senato anche
dei Galli, fa la storia degli elementi, che Roma avrebbe assorbito nei suoi
varii stadii, e trova così occa sione di accennare alle due tradizioni relative
a Servio Tullio, di cui una lo farebbe nascere da una prigioniera di nome Ocresia,
mentre l'altra lo direbbe di origine etrusca . Le diverse opinioni degli
eruditi sulla fede, che merita il racconto di Claudio, e la conferma indiretta,
che esso avrebbe ricevuto da alcune recenti scoperte archeologiche, sono
riportate dal Bonghs, Storia di Roma, I, pag . 201, nota 14. (2) Quanto alle
analogie fra la costituzione di Solone e quella Serviana e fra le condizioni
storiche, che poterono determinare l'una e l'altra, è sempre a consultarsi il
GROTE , Histoire de la Grèce. Trad. De Sadous, Paris, 1865, tome IV , chap.
4me, pag. 137 a 216 , come pure l'appendice allo stesso capitolo, in cui
discorre della con dizione dei nexi e degli addicti in Roma antica . - 358 al
taglio le libere istituzioni, malgrado le difficoltà gravissime, in cui venne allora
a trovarsi la città . L'interruzione però non impedì che, superata la crisi, lo
svolgimento storico fosse ripreso punto stesso , a cui erasi arrestato,
cosicchè lo spirito della costituzione serviana pervade non solo l'elaborazione
del diritto pubblico , ma ancora quella del privato . Fu il non averne tenuto
conto sufficiente che, a mio avviso , ha impedito di dare una spiegazione
plausibile dei più singolari caratteri del diritto primitivo di Roma. § 2. – Il
concetto ispiratore della riforma Serviana eimezzi che servirono ad attuarla .
291. Fu abbastanza dimostrato , che la formazione della città pri mitiva non è
un'opera di semplice agglomerazione, che piglia i ma teriali quali si
presentano e li amalgama confusamente insieme; ma un'opera di selezione, che
solo li accetta in quanto entrano nel suo ordinamento simmetrico e coerente ;
donde la conseguenza, che se un mutamento si introduce in una parte essenziale
di essa, questo deve pur riflettersi e riverberarsi nelle altre parti. Ciò
apparve nella città patrizia , e appare ugualmente nella costituzione serviana.
Il problema era quello di unire due popolazioni, che si trovavano, come si è
veduto , in condizioni sociali compiutamente diverse, e di farle entrare a far
parte della stessa comunanza civile , politica e militare. Il fonderle insieme
era per il momento impossibile, perchè la distanza fra di loro . era ancora
troppo grande, e certi istituti, come la religione e i connubii, erano ancora
troppo gelosamente custoditi per poter essere accomunati. Le sole istituzioni,
comuni ai due ordini, erano la proprietà e la famiglia , e il solo inte resse ,
che li aveva condotti ad avvicinarsi, era quello di prov vedere insieme alla
difesa di sè e delle proprie terre. Queste sol tanto potevano essere le basi della
loro partecipazione alla medesima città : quindi è che la costituzione
serviana, sebbene allarghi le file del populus, comprendendovi un elemento ,
che era escluso dalla città patrizia , finisce però per dare una base più
ristretta alla par tecipazione dei due ordini alla stessa comunanza civile e
politica . Mentre il popolo delle curie aveva comune l'elemento religioso ,
l'organizzazione gentilizia , e il culto per le antiche tradizioni; il popolo
invece, che esce dalla costituzione di Servio , viene ad essere composto di
capi di famiglia e di proprietari di terre, che entrano 359 a far parte del
medesimo esercito , e più tardi anche della medesima assemblea , in base alla
sola considerazione del censo , e nell'intento esclusivo di provvedere alla
difesa di quegli interessi, che loro potevano essere comuni. La nuova comunanza
pud in certo modo essere paragonata ad una società , in cui ciascuno viene ad
aver diritti ed obbligazioni proporzionate al proprio censo , il quale viene
così ad essere considerato come una garanzia dell'interesse , che altri può
avere all'avvenire e alla grandezza della città (1). Il nuovo popolo pertanto
non ha nulla a fare colle curie dei patrizii , ai quali continuano ad essere
riservati gli auspizii, i sacerdozii, le magistrature e gli onori; ma viene ad
assumere negli inizii una organizzazione di carattere essenzialmente militare,
in cui la parte cipazione ai diritti e alle obbligazioni della cittadinanza
sotto l'aspetto militare, politico e tributario viene ad essere determinata
esclusiva mente dal censo . In apparenza quindi l'organizzazione per curie
delle genti patrizie è lasciata integra ed intatta ; ma intanto a lato della
medesima sorge un nucleo novello , che per essere più numeroso e più forte
finirà per richiamare in sè ogni energia civile, politica e militare, lasciando
col tempo alle curie la sola custodia delle tradi zioni e dei culti gentilizii.
292. È questo il motivo , per cui la costituzione serviana potè essere
apprezzata in guisa compiutamente diversa , anche dagli an tichi scrittori, i
quali la descrivono, ora come favorevole al patri ziato o almeno alle classi
più elevate, ed ora invece come favorevole alla plebe ( 2). Essa era tale, che
da una parte doveva essere accetta al patriziato, il quale , mentre riteneva
ciò , che era esclusivamente suo proprio , trovava poi più forte il proprio
esercito, più ricco il proprio erario, più ampia la città , di cui continuava
ad avere le magistrature e gli onori; dall'altra doveva anche essere gradita
alla plebe, perchè essa , ancorchè sulla base esclusiva del censo , veniva (1)
Che questo fosse il concetto informatore della costituzione serviana appare da
Aulo Gellio , XVI, cap . 10, n ° 11, il quale dice espressamente che « res
pecuniaque « familiaris obsidis vicem pignorisque esse apud rempublicam
videbatur, amorisque « in patriam fides quaedam in ea , firmamentumque erat » .
Il paragone poi della comunanza quiritaria , in base alla costituzione
serviana, ad una società di azionisti già occorre nel NIEBHUR, Histoire romaine,
II, p . 193. (2 ) Il diverso apprezzamento ,che gli antichi fecero della
riforma serviana, apparisce da Cic., De rep ., II, 22 ; Liv., 1, 42, 43; Dion
., IV, 20. Cfr. in proposito il Bonghi, op. cit., I, pag. 548 e segg. 360 ad
acquistare una posizione giuridica, che prima non aveva, ed è abbastanza noto ,
che quando trattasi di un'aggregazione sociale , il passo più difficile è
quello di potervi penetrare, poichè dopo la forza stessa delle cose condurrà ad
avervi una posizione adeguata al pro prio valore. Questo è certo , per quanto
appare dalla tradizione, che i due ordini sembrano essere concordi
nell'accettare la costituzione di Servio Tullio, per guisa che ad opera
compiuta gli riconoscono re golarmente quel potere, che prima aveva esercitato
più di fatto , che non di diritto ; tantoque consensu , quanto haud quisquam
alius ante, rex est declaratus (1). Intanto la nuova costituzione appare
informata anche essa ad un unico concetto, che è quello di dare a ciascuno
nella città una parte proporzionata all'interesse, che egli può avere per
l'incremento della medesima : interesse, che si ritiene dover essere misurato
dal censo . Quest' unico concetto poi viene incarnandosi nel fatto con mezzi e
con istituzioni diverse, fra i quali sono sopratutto importanti e degni di nota
l'ampliamento delle mura, la ripartizione del territorio in tribù o regioni
locali, l'istituzione del censo e l'organizzazione del nuovo popolo in classi
ed in centurie ; istituti questi, che abbozzati negli inizii da mano maestra ,
dovranno poi ricevere dalla logica tenace del popolo romano tutto lo sviluppo,
di cui possono essere capaci. 293. Coll’ampliamento delle mura la città, che
prima riducevasi ad un complesso di edifizii , aventi pubblica destinazione e
riuniti in un piccolo spazio , a cui mettevano capo le varie comunanze, viene a
comprendere nella propria cerchia buona parte di tali comunanze , le loro
rispettive fortezze, ed una quantità grande di abitazioni pri vate . Cresce
così il nucleo della popolazione urbana di fronte a quella del contado ; il
contatto fra il patriziato e la plebe diviene più intimo e frequente , e la
vita della città concorre così a dissol vere quell'ordinamento per genti e per
clientele, che forse sarebbesi mantenuto stazionario o almeno più duraturo in seno
alle comunanze di villaggio . La città intanto , chiusa e fortificata nelle
proprie mura , difesa da un esercito, il cui contingente viene ad essere più
volte moltiplicato, abitata da un popolo pressochè militarmente organizzato ,
assume anch'essa un carattere più decisamente militare e apparisce ( 1) Liv .,
I, 46 . 361 paurosa ed imponente alle popolazioni vicine (1). Così pure è da
questo momento , che la vita fra le stesse mura conduce a mescolare e a
confondere il sangue delle varie stirpi, fino a che per mezzo di re ciproci
adattamenti finiranno tutte per concorrere a formare un or ganismo unico e
coerente (2). Quasi poi si direbbe, che i fondatori della nuova città abbiano
una certa consapevolezza dell'avvenire di essa ; poichè il nuovo circuito comprende
non solo il Palatino, il Capitolino, il Quirinale, il Celio , il Gianicolo , ma
anche l'Esquilino e il Viminale , alcuni fra i quali sono ancora spopolati (3
); cosicchè il pomoerium della città non dovette più essere ampliato, durante
il periodo repubblicano, malgrado gli incrementi, che si verificarono nella
popolazione. A questo riguardo vuolsi però osservare , che sebbene la città dal
tipo latino sembri far passaggio al tipo etrusco, tuttavia essa au menta bensi
il suo nucleo centrale , ma serba ancor sempre i ca ratteri primitivi della
città latina. Infatti non tutta la sua popola zione viene ad essere accolta
nelle sue mura, ma buona parte di essa continua ad essere dispersa per le
campagne e fuori delle mura ; cosicchè la città continua sempre ad essere un
centro di vita pub blica per popolazioni, che possono avere altrove la propria
resi denza. Cosi pure in tutta questa trasformazione punto non parlasi di nuove
ripartizioni di terre, se si eccettuano i soliti assegni, che per consuetudine
invalsa i re sogliono fare alla plebe ; il che si gnifica che le famiglie, le
genti e le tribù dovettero continuare a ritenere le proprie terre ( 4 ). 294.
Intanto è evidente, che in una città cosi concepita diveniva necessario , che
all'antica distinzione fondata sull'origine e sulla discen (1 ) L'intento
eminentemente militare della cinta serviana è dimostrato anche dal fatto, che
gli intelligenti delle cose militari ritengono che dall'orientamento di essa si
possa perfino argomentare alla situazione delle porte in essa esistenti. V.
BARAT TIERI, Sulle fortificazioni di Roma antica, « Nuova Antologia » , 1887,
fascic. 10. (2 ) Questo concetto trovasi efficacemente espresso da Floro nel
passo citato al lib . I, cap. I, nº 10 , pag. 10, nota 1. (3) MIDDLETON, Ancient
Rome, pag. 59 e segg . « L'ampliamento delle mura, scrive NIEBIUR, fu il
pensiero di un genio, che confidava nella eternità e negli alti destini della
città , e che aperse la via ai suoi futuri progressi o . Op. cit., II, 123. (4
) Questi assegni fatti da Servio Tullio alla plebe sono attestati da Livio, I,
46, più chiaramente ancora da Dionisio , IV , 9, allorchè scrive: « agrum
publicum di « visit civibus romanis , qui ob rei domesticae difficultates
aliis, mercedis causa , ser viebant » . e 362 denza si aggiungesse una nuova
ripartizione di carattere locale e ter ritoriale, la quale potesse anche essere
di base per constatare la po polazione, che vi avesse la propria residenza , e
per fissare il tributo , a cui dovesse essere soggetta (tributum ex censu ).
Cid si ottenne col ri partire il territorio in tribù o regioni locali, le quali
si suddivisero poi in rustiche ed urbane. Le urbane sono quattro e prendono
senz'altro il nome dalle località, e chiamansi così Suburana, Esquilina ,
Collina e Palatina : mentre le rustiche continuano per la maggior parte a
prendere il nome dalle genti patrizie , quali sarebbero l'Emilia , la Cornelia
, la Fabia, la Galeria , l'Orazia , la Menenia , Papiria, Pollia , Sergia,
Romilia , Voturia , Voltinia , ed altre ; solo eccettuata la tribù Crustumina,
che sarebbe stata la prima ad essere denominata dalla località . Cid indica che
nel contado continud la prevalenza delle genti, che vi tenevano le loro
possessioni. Il numero origi nario delle tribù rustiche non è ben noto , ed
anzi, secondo alcuni storici, fra i quali Livio , le tribù rustiche
comparirebbero solo più tardi. Questo è certo pero , che la ripartizione, anche
del ter ritorio rustico, era una conseguenza del concetto informatore della
costituzione serviana, e che il numero delle tribù, dopo le guerre a cui diede
occasione la cacciata dei Tarquinii, e forse per la diminuzione del territorio
, che ne fu la conseguenza, appare ri dotto a quello di venti. La
cooptazione della gente Claudia porto le tribù a vent'una, e da quel punto la
storia ricorda tutte le date, in cui la conquista di un nuovo territorio
conduce alla for mazione di nuove tribù , fino al numero di trentacinque, che
poi si mantenne immutabile (1). Non è già con ciò , che Roma non abbia fatte
nuove concessioni di cittadinanza, ma i nuovi cittadini si fecero rientrare
nelle antiche tribù, le quali, dopo aver avuto una base locale , si mutarono
cosi in altrettanti quadri, a cui poterono essere ( 1) Mentre Livio, I, 43
attribuisce a Servio Tullio soltanto la ripartizione della città nelle quattro
tribù urbane, Dionisio , IV, 15 , invocando la testimonianza di Fabio , gli
attribuisce eziandio la divisione dell'agro in 26 tribù, cosicchè il numero
complessivo delle tribù sarebbe stato di 30. Di qui la difficoltà di spiegare
comemai queste tribù negli inizii della Repubblica fossero ridotte al numero di
20 soltanto . Anche oggidi la spiegazione più probabile sembra essere quella
data dal Niebhur, secondo cui l'ager romanus avrebbe sofferto la diminuzione di
varii pagi o tribus, in seguito alla guerra cogli Etruschi guidati da Porsena .
Op. cit., II, 154. Quanto all'epoca , in cui si vennero aggiungendo le altre
tribù fino al numero, che poi si mantenne, di 35, sono a vedersi il Willems, Le
droit public romain , pag. 34 e segg. e il Morlot, Institutions politiques de
Rome, Paris, 1886 , p . 71 e segg . 363 ascritti tutti i cittadini romani,
senza tener conto della effettiva residenza dei medesimi ( 1). 295. Sopratutto
poi il concetto informatore di tutta la costitu zione serviana fu l'istituzione
del censo ; poichè è in proporzione del censo , che vengono ad essere
determinati i diritti e gli obblighi dei cittadini. Vuolsi però aver presente ,
che nel censo di Servio Tullio non intervengono tutti gli individui, ma solo i
capi di fa miglia , quelli cioè , che per non essere soggetti a potestà altrui
possono giuridicamente essere considerati come padri di famiglia , ancorchè in
realtà non siano tali. La dichiarazione poi del capo di famiglia deve essere
duplice , cioè comprendere tanto le persone quanto le cose , che da lui
dipendono ; donde provenne la conse guenza, che in questo periodo le persone e
le cose, dipendenti dalla stessa potestà , si presentarono come un tutto
indistinto , che suol essere indicato coi vocaboli di familia o di mancipium .
Il padre di famiglia pertanto, o meglio colui, il quale, per non essere sog
getto a potestà altrui, ha diritto di contare per uno nel censo , deve
dichiarare anzitutto , ex animi sententia , il suo stato civile, cioè il suo
nome, il prenome, il nome del padre o del patrono , la tribù a cui trovasi
ascritto , l'età , il nome della moglie , il nome e l'età dei figli. Esso deve
dichiarare eziandio il patrimonio , che a lui ap partiene in proprio ; non
quello cioè, che appartenga alla sua gente , ma quello che è collocato in suo
capo , che gli appartiene ex iure quiritium , che fa parte del suo mancipium ,
il quale in significa zione più ristretta comprende appunto il complesso dei
beni, che deb (1) È solo in questo modo, che a parer mio si può risolvere
la questione tanto agitata fra gli autori se le tribù di Servio fossero
divisioni di territorio , oppure di visioni di persone. Non parmi poi che possa
ammettersi l'opinione del NIEBHUR, secondo cui le tribù dapprima non avrebbero
compreso che i plebei, e solo dopo il decemvirato avrebbero compreso anche i
patrizii (Op. cit., IV , 16 ); poichè il loro stesso nome derivato da quello di
genti patrizie ed anche lo scopo della ripartizione del territorio in tribù o
sezioni dimostrano ad evidenza il contrario. Che anzi, in base alla narrazione
di Dionisio , IV , 15 , il re Servio non solo avrebbe diviso il ter ritorio in
tribù , ma nei siti montani avrebbe costrutto dei pagi, che dovevano ser vire
come luogo di rifugio, e avrebbe obbligato tutti quanti gli abitatori (omnes
romanos) a consegnarsi nel censo « addito et urbis tribu et agri pago, ubi
singuli habitarent » ; il che fa credere, che le tribù rustiche serviane
fossero un rimaneggia mento dei pagi, che già prima esistevano nel territorio
circostante a Roma. Cfr . il Morlot, op. cit., pag . 57 e seg ., ove espone le
varie opinioni degli autori intorno al carattere locale o personale delle
tribù. 364 bono essere valutati nel censo . Sarà poi in base a questo censo ,
che sarà designata la classe del popolo, a cui deve appartenere, tanto per sè
che per i figli, che abbiano raggiunta l'età di diciasette anni, e verranno
cosi ad essere determinati i suoi diritti e le sue obbliga zioni sotto
l'aspetto politico , militare e tributario ad un tempo (1 ). 296. Basta questa
semplice indicazione per comprendere l'im mensa importanza, che dovette,
sopratutto negli esordii, esercitare una istituzione di questa natura sopra il
popolo forse più tenace che presenti la storia in quella che il Jhering chiamerebbe
la lotta per il diritto . Per la città serviana la formazione del censo ha
quella stessa importanza, che ha per una società di carattere mercantile la
determinazione del contributo , che altri deve arrecare alla for mazione del
capitale sociale, il quale contributo dovrà poi servire di base per la
ripartizione dei profitti e delle perdite. Essa costrinse a considerare ogni
individuo come un caput, il quale tanto vale quanto è il numero dei figli e
l'ammontare delle sostanze, in base a cui egli contribuisce alla comunanza . In
essa l'uomo non è solo contato, ma in certo modo è anche pesato , e viene ad
essere isolato da ogni altro suo rapporto, per essere considerato
esclusivamente sotto il punto di vista delle persone e delle sostanze, che in
lui vengono ad unificarsi. Vi ha di più, ed è che la proprietà, che conta nel
censo serviano , non è la proprietà gentilizia , che apparteneva al solo pa
triziato , ma è la proprietà famigliare e privata , che era la sola , che fosse
comune al patriziato ed alla plebe. Di qui la conseguenza , che tutte le altre
forme di proprietà vengono di un tratto ad essere lasciate in disparte,
cosicchè se le genti patrizie vorranno 284 ' e seg (1) Quanto alle operazioni
relative al censo cfr. WILLEMS, op. cit., pag. Per me è sopratutto notabile la
circostanza , che il capo di famiglia doveva denun ziare persone e cose ,
che da lui dipendevano, poichè essa serve a spiegare come i due vocaboli di
familia e di mancipium potessero talvolta scambiarsi fra di loro, e as sumessero
una significazione così larga da comprendere le persone le cose ad un tempo .
Cid non accadeva già , perchè si confondessero persone e cose, ma perchè le une
e le altre apparivano nel censo come dipendenti dalla stessa persona . Tale
doppia consegna è attestata espressamente da Dion.,. IV , 15 , verso il fine.
Parmi che in questo modo si possano conciliare le due opinioni contrarie del
MARQUARDT, Das privat leben der Römer, pag . 2 e quella del Voigt, Die XII
Tafeln, II, pagg. 6 e 83-84, quanto alla significazione primitiva dei vocaboli
manus, di mancipium e di familia. Cfr. in proposito il Longo, La mancipatio,
Firenze, 1887, pag. 5, nota 8 , ed il BONFANTE, Res mancipi e nec mancipi, Roma
1888, pag. 100 , nota 1. 365 avere nelle classi l'appoggio dei proprii clienti,
dovranno dividere fra essi i proprii agri gentilizii, e fare a ciascuno
un'assegno di terra in proprietà quiritaria , che valga a farli ammettere in
una delle classi. Da questo momento viene solo più ad essere questione di
mancipium o di nec mancipium , perchè è solo il primo, che conta nel censo di
Servio Tullio , e se il medesimo non giunga ad una certa misura , altri non
potrà essere censito , che per il proprio capo (capite census ), o verrà ad
essere confinato nei proletarii, senza poter far parte delle classi e delle
centurie, in cui si raccoglie l'eletta del popolo romano, ossia coloro
(adsidui, locupletes) i quali avendo una terra di loro proprietà esclusiva, si
possono ritenere aver interesse alla difesa della patria comune. Si comprende
quindi l'affezione tenace, con cui il plebeo, ammesso a questa condizione nella
città , si attacca al proprio tugurio e al campicello, che lo circonda, perchè
è questo , che gli assicura una posizione giuridica , militare, economica per
sè e per i proprii figli , quando siano perve nuti ai diciasette anni; il che
spiega eziandio come il plebeo ami meglio di vincolare se stesso e la propria
figliuolanza col nexum , che di privarsi della sua piccola terra. 297. Noi
stentiamo naturalmente a ricostruire col pensiero tutte le conseguenze, che una
istituzione di questa natura può avere pro dotto sovra un popolo, come il
romano, in un momento storico , in cui la grande opera, a cui si intendeva, era
la formazione della ' città . Quando si pensi tuttavia , che trattavasi di un
popolo, il quale una volta ammesso un principio sapeva trarne tutte le
conseguenze di cui poteva essere capace, che possedeva una mirabile potenza,
che chiamerei di astrazione giuridica, la quale consiste nell'isolare l'ele
mento giuridico da tutti gli altri con cui trovasi intrecciato , e che questo
popolo fu costretto per secoli a misurare la propria posizione politica,
militare e tributaria attraverso il crogiuolo del censo , si pud in qualche
modo giungere a comprendere il punto di vista rigido ed esclusivo , a cui esso
fu costretto di collocarsi e le con seguenze , che possono esserne derivate
nella elaborazione del suo diritto . Ciò spiega intanto l'importanza immensa ,
che si diede per tutto il periodo dalla repubblica alla istituzione del censo ;
le cerimonie religiose, da cui esso era preceduto ed accompagnato ; le cure,
che pose nel medesimo lo stesso Servio , il quale, secondo la tradizione , ebbe
a farlo per ben quattro volte; le pene gravissime, cioè la vendita al di là del
Tevere, da lui stabilite contro coloro, 366 che non si fossero fatti iscrivere
nel censo (incensi) ; l'opportunità , che si senti più tardi di creare talvolta
un dittatore per la sola for mazione del censo , e di affidare poscia la
formazione del censo ad una speciale magistratura (censura), a cui potevano
esservene delle altre superiori in imperio , manessuna che fosse superiore in
dignità . Ciò spiega infine la singolare evoluzione, che venne ad avere in Roma
il concetto del censo, il quale negli inizii comincia dall'essere una
valutazione, che potrebbe chiamarsi puramente economica dei singoli capi di
famiglia , e poi finisce per cambiarsi in una specie di valutazione politica e
morale di tutti i cittadini. Cid infatti è comprovato dalla trasformazione, che
accade nel censore, che isti tuito dapprima per la materiale formazione del
censo , reputata in degna delle cure dei consoli, finisce per acquistare tale
un potere, da eleggere senatori, fare la ricognizione dei cavalieri, imprimere
note di ignominia su chi venga meno al pubblico o al privato co stume, prendere
le persone da una classe per confinarle in un altra, e trasportare a suo
beneplacito tutta una classe di popola zione dalle tribù rustiche alle urbane o
viceversa , e ad essere cosi l'arbitro sovrano della cooperazione effettiva ,
che i varii individui e le varie classi recano al benessere delle città . 298.
Infine è anche il censo , che serve di base alla classificazione del populus
nelle classi e nelle centurie. Non è già , come alcuni credettero , che coloro,
i quali non avevano un certo censo, non fossero contati ed iscritti a questa o
a quella tribù ; ina essi vi erano iscritti solo nel capo (capite censi),
oppure nella classe dei proletarii, la quale secondo Aulo Gellio , « honestior
aliquanto et re et nomine quam capite censorum fuit » . Gli uni e gli altri non
facevano di regola parte dell'esercito , perché né la repubblica avrebbe avuto
garanzia dell'interesse , che essi avevano a combattere per essa , nè essi
avrebbero avuti i mezzi per far fronte alle spese per il proprio equipaggio .
Quelli invece, che giungevano ad un certo censo appartenevano agli adsidui, per
l'assiduità appunto a compiere il loro ufficio civile e politico (munus), sia
pagando le imposte (ab asse dando), sia ubbidendo alla leva , sia per la sede
fissa , ove po tevano essere cercati e dove avevano i loro possessi
(locupletes) ( 1). (1) Il criterio , che servì a distinguere i varii ordini di
persone indicati coi voca boli di capite censi, proletarii, adsilui e
locupletes, si può ricavare sopratutto da Aulo GELLIO, XVI, 10. È pure lo
stesso Gellio, il quale ci attesta che la proprietà 367 I vocaboli di classi e
di centurie , ed anche il luogo, ove si riu nirono i comizii centuriati (Campo
Marzio ), il modo di convocazione di essi (per cornicinem ), e il vessillo
rosso inalberato sul Gianicolo o in arce durante le riunioni di questi comizii,
rendono verosimile il concetto stato svolto sopratutto dal Mommsen , che questa
riparti zione siasi presentata dapprima con un carattere principalmente
militare. Cið poteva anche essere opportuno per ovviare a quella opposizione
del patriziato e degli auguri, che aveva incontrato l'an tecessore di Servio ;
e sembra anche corrispondere all'intento , che si propone la comunanza serviana
, che è quella di provvedere so pratutto alla comune difesa . Egli è però
certo, che se la costituzione per classi e per centurie è negli inizii
organizzata per guisa da presentare l'aspetto di un esercito, essa è però in
condizioni tali da cambiarsi facilmente nell'assemblea di un popolo; perchè i
suoi quadri possono essere allargati in guisa da non comprendere solo un
esercito , ma tutta la popolazione di una città ( 1). 299. Ad ogni modo nel
loro primo presentarsi le classi e le centurie di Servio costituiscono un vero
esercito , di cui venne ad allargarsi la base , in quanto che nella sua
composizione più non si ha riguardo all'origine ed alla discendenza , ma
unicamente al censo . Nelle sue file possono essere compresi tutti i liberi
abitanti del ter ritorio di Roma, distribuito per quartieri o regioni, senza
riguar tenuta in conto nel censo era quella famigliare e privata, poichè egli
parla di res, pecuniaque familiaris, e dice che i proletarii si arrolavano
nell'esercito solo in caso di necessità , e che i capite censi vi furono solo
arrolati da Mario nella guerra contro i Cimbri o in quella contro 'Giugurta.
Tutte queste distinzioni poi fondate sul censo spiegano le espressioni di
Livio, I, 42, che dice il censo « rem saluberrimam tanto futuro imperio , e
chiama Servio a conditorem omnis in civitatem discriminis ordinumque, quibus
inter gradus dignitatis fortunaeque aliquid interlacet » . (1) Pur ammettendo
col Mommsen, Hist. rom ., I, cap. VI, e col Peluam , v° Rome, « Encych .
Britann.., XX , pag. 731 che lo ha seguito, che l'ordinamento per classi e
centurie, tanto più se posto a raffronto con quello delle curie, avesse un
carattere eminentemente militare, non parmituttavia, che anche nei suoi inizii
si possa escludere affatto la sua attitudine alle funzioni civili. Ciò ripugna
al carattere delle istitu zioni primitive, le quali di regola hanno del civile
e del militare ad un tempo, ed alla circostanza, che mal si saprebbe
comprendere comemaiuna base, come quella del censo, non dovesse servire ad
altro, che ad indicare il modo con cui le varie classi aves sero ad
equipaggiarsi. Del resto questo carattere esclusivamente militare mal potrebbe
conciliarsi con ciò che scrive Livio, I, 42: «tum classes centuriasque, et hunc
ordinem ex censu descripsit, vel paci decorum , vel bello » . 368 dare se essi
entrino o non nelle antiche divisioni, e senza più tenere conto delle formalità
e delle cerimonie religiose proprie delle riunioni esclusivamente patrizie. La
sua unità è la centuria , che nominalmente dovrebbe comprendere cento uomini;
le centurie poi vengono ad essere aggruppate in classi, che sono in numero di
cinque, e che alcuni vorrebbero collocate nell'ordine stesso della falange. Le
centurie, che vengono prime, sono composte dei più ricchi cittadini, che
possono procacciarsi un completo equipaggio indispen sabile per coloro, che
primi debbono sostenere l'urto del nemico . Esse in numero di 80 costituiscono
la prima classe . Dopo vengono le centurie della seconda e terza classe , in
numero di 20 per ogni classe , le quali sono già meno completamente armate, ma
costituiscono con quelle della prima classe la fanteria pesante. Ultime vengono
le centurie della quarta e della quinta classe, di cui quella composta di 30 e
questa di 20 centurie , reclutate fra i cittadini meno ab bienti, e che
serviranno come fanteria leggiera. L'intiero corpo degli uomini liberi è poi
diviso in due parti eguali, cioè in un numero eguale di centurie di seniores
(da 47 ai 60 anni), che costituivano l'esercito di riserva, ed un uguale numero
di centurie di iuniores (dai 17 ai 46 anni) per il servizio attivo . Ciascuno
di questi corpi viene cosi ad essere composto di 85 centurie (8500 uomini)
ossia di due legioni di circa 4200 per ciascuna, che costituiva appunto la
forza normale della legione consolare durante la repubblica. In sieme colle
legioni, ma non inchiuse con esse, vi erano 2 centurie di fabbri e di
legnaiuoli ( fabri, tignuarii) e 2 di suonatori di tromba e di corno (tibicines
et cornicines ), circa le quali non vi è accordo quanto alle classi a cui erano
assegnate . Per quello poi che si riferisce al censo richiesto per ciascuna
classe , il medesimo ci pervenne calcolato in assi, ma è probabile che nelle
origini dovesse essere valutato in iugeri (1) . (1) È abbastanza noto, che il
censo per la prima classe era di 100 mila assi, per la seconda di 75 mila, per
la terza di 50 mila, e per la quinta classe di 11,000 secondo Livio e di 12,500
secondo Dionisio ; ma il difficile sta in determinare, se negli inizii la
fortuna dei cittadini non fosse piuttosto valutata in iugera , e in de
terminare qual fosse il valore dell'asse. Il MOMMSEN afferma come fuori di ogni
dubbio , che l'iscrizione alle varie classi era dapprima determinata dal
possesso delle terre , argomentando anche dalle denominazioni di adsidui e
locupletes. Hist. rom ., chap. VI. Di recente poi il Karlowa ha pur seguìta la
stessa opinione e ha rite nuto che il iugerum debba ritenersi rispondere a
cinque mila assi, cosicchè il patri monio della prima classe corrisponderebbe a
20 iugeri, quello della seconda a 15 , 369 Intanto però in questa
organizzazione militare del populus con tinuano a tenere un posto distinto le
centurie degli equites . Di queste 6 ritengono ancora i vecchi nomi di
Ramnenses, Titienses e Luceres primi et secundi, e sono ancora composte
esclusivamente di patrizii. Esse quindi stanno a parte, son determinate dalla
na scita , e costituiscono i sex suffragia ; poichè è da esse che si trae a
sorte la centuria principium , quella cioè, che sarà chiamata a votare per la
prima nei comizii centuriati. Ad esse poi furono ag giunte da Servio altre 12
centurie, le quali sono reclutate dai più ricchi ordini di cittadini, sia
patrizii che plebei (1 ). Da questi brevi cenni appare che , pur ammettendo il
carattere essenzialmente militare di questa organizzazione, basterà però sop
primere nella centuria il limite di 100, per togliere alla medesima tutta la
sua rigidezza militare, e per fare entrare nei suoi quadri tutta la popolazione
della città ; trapasso , che non offrirà gravi diffi coltà quando si consideri
la facilità, che è propria delle organizzazioni primitive di passare dalle
funzioni militari alle civili, e il nessun scrupolo , che si fecero i Romani di
mantenere costantemente il vo cabolo antico, facendo anche entrare in esso un
contenuto diverso da quello , che sarebbe indicato dal medesimo. Queste sono le
istituzioni fondamentali di Servio ; ora importa di vedere lo svolgimento
storico , che esse ebbero a ricevere e la con seguente influenza che
esercitarono sul diritto pubblico e privato di Roma. quello della terza a 10,
della quarta a 5 iugeri , e quello della quinta a 2 iugeri incirca , ritenendo
con Livio, che il censo della medesima ammontasse a soli 11,000 assi. Röm .
R.G., I, pag . 69-70 . Sono a vedersi, quanto al valore dell'asse, il WILLEMS,
op . cit., pag . 58 e segg., dove son riassunte le diverse opinioni al riguardo
, e il Voigt, Die XII Tafeln , I, pag. 16 a 23. (1) Quanto agli equites e ai
loro rapporti coi primitivi celeres, richiamo volentieri i due recenti lavori
del BERTOLINI, I celeres e i7 tribunus celerum , Roma, 1888, e del TAMAssia, I
Celeres, Bologna , 1888. - Par ammettendo col primo che gli equites non siano
che uno svolgimento dei primitiviceleres (p. 31) e col secondo che i celeres
possano anche essere un ricordo di qualche istituzione, che occorre presso
tutti i popoli di origine Aria (p. 19), continuo però a ritenere, che
nell'ordinamento simmetrico della primitiva città patrizia vi fosse una
rispondenza fra i celeres, che costituivano la corte militare del Re primitivo
e il senato, che ne costituiva il consiglio, donde quella correlazione, che per
qualche tempo si mantenne fra gli aumenti nel senato e quello degli equites , e
la distinzione così del senato come degli equites in decuriae. V. sopra, nº
191, pag . 233 e 234 . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 24 - 370 -
CAPITOLO II. Influenza della costituzione Serviana sul diritto pubblico di
Roma. 300. L'influenza della costituzione Serviana sullo svolgimento, che
ebbero le istituzioni politiche di Roma, durante l'epoca repubbli cana, non può
essere posta in dubbio , e non mancano i lavori ché la posero in evidenza (1).
Ne ebbero consapevolezza anche i Romani, come lo provano le tradizioni, che
attribuirono a Servio Tullio di aver voluto abdicare per istituire due consoli
annui, e che fanno ricorrere i due primi consoli della repubblica ai
commentarii di Servio Tullio, per ricavarne le norme secondo cui dovevano adu
narsi i comizii per centurie (2). Le due tradizioni possono anche essere non vere
: ma dimostrano ad ogni modo in coloro, che le trovarono e le custodirono, la
persuasione, che la costituzione repubblicana metteva capo alle istituzioni
serviane , e che, appena superato il peri colo della tirannide, si dovette
riprenderne lo svolgimento al punto stesso , a cui era stato interrotto . Ad
ogni modo se si tenga dietro alla evoluzione storica , quale si rivela negli
avvenimenti , si può affermare con certezza , che le istituzioni politiche di
Roma per tutto il periodo repubblicano implicano uno svolgimento continuo e non
mai interrotto dei concetti informatori della costituzione patrizia , combinati
perd e modificati dalle istituzioni fondamentali della co stituzione serviana .
301. Fra queste modificazioni è fondamentale e determina tutte le altre
trasformazioni, che derivarono dalla costituzione serviana, quella , in virtù
della quale venne a mutarsi nella sua stessa base il concetto del populus
romanus quiritium . Questa espressione (1) NIEBHUR , Histoire romaine, II, pag
. 91 a 255; Huscke, Die Verfassung der Königs Servius Tullius, Heidelberg,
1838; Maury, Des événements qui portèrent Servius Tullius au trône. « Mém . de
l'Acad. des Inscript. et belles lettres » , année 1866, vol. 25, pag . 107 a
223: Herzog , Geschichte und System der römischen Staats verfassung, Leipzig ,
1884 , I, § 5 , pag. 37 a 48 ; KarlowA, Röm . Rechtsgeschichte, I, SS 11, 12 ,
13, pag. 64 a 85. (2 ) Liv., Hist., I, 48; I, 60. È però a notarsi, che queste
tradizioni non sono con fermate da Dionisio. Cfr. Bonghi, Storia di Roma, I,
pag . 242. - 371 infatti, che un tempo aveva indicato esclusivamente il popolo
delle curie , venne secondo il metodo romano ad essere trasportata al popolo
delle classi e delle centurie, come lo dimostrano la denomi nazione di quirites
, che d'allora in poi è applicata appunto a tutti i membri del popolo delle
centurie, non che ai testimonii ricavati dal medesimo per gli atti di carattere
quiritario (classici testes ), ed è anche adoperata nelle formole di
convocazione dei comizii centuriati, stateci conservate da Varrone (1). Quanto
ai membri delle curie pri mitive essi, in quanto entrano nelle classi e nelle
centurie, sono anche compresinel vocabolo generico di quirites, ma in quanto
hanno delle proprie assemblee, in quanto ritengono per sè le magistrature, gli
onori, gli auspizii, i sacerdozii, in quanto insomma formano ancora un nucleo
separato del populus romanus quiritium , prendono il nome di patres o di
patricii, come già si è veduto discorrendo della patrum au ctoritas, della lex curiata
de imperio e dell'interrex (2 ). Mentre quindi prima i termini non erano che
due, quelli cioè di populus e di plebes ; dopo Servio i termini vengono ad
essere tre, cioè quello di patres o patricii, che indicano i primitivi
fondatori della città , i ritentori degli auspicia e dell'imperium ; quello di
plebes, che designa l'elemento , stato di recente ammesso nella medesima ; e
quello infine di populus, che comprende l'uno e l'altro elemento, sopratutto in
quanto entra a far parte delle classi e delle cen turie (3 ). In questo senso
vuolsi ammettere col Mommsen , che uno dei significati di populus sia stato
quello di leva plebeo-patrizia ; ma certo non può dirsi, che questa sia stata
la significazione primi tiva del vocabolo ; poichè nulla vi è di ripugnante al
processo ro mano , che la stessa parola abbia indicato prima la riunione degli
(1) Le formole di convocazione delle classi, conservateci da VARRONE, De ling .
lat., VI, 86 a 95 , sono riportate dal Bruns, Fontes, pag. 383 e segg. I
classici testes sono poi ricordati da Festo, pº classici, come testimoni
adoperati nei testa menti; ma è probabile che questo nome si estendesse a tutti
i testimonii dell'atto per aes et libram , di cui il testamento non era che
un'applicazione, come si vedrà a suo tempo al cap. IV , § 4 di questo libro.
(2) V. sopra, lib . II, nº 198 , pag. 240 e seg. e le note relative . (3) È
questo appunto il concetto di populus, quale appare più tardi anche nei
grammatici e nei giureconsulti. Aulo Gellio infatti, Noct. Att., X , 20, attribuisce
al giureconsulto Ateio Capitone di aver distinto il popolo dalla plebe, «
quoniam « in populo omnis pars civitatis , omnesque eius ordines contineantur:
plebes vera, ea < dicitur, in qua gentes civium patriciae non insunt » , il
qual concetto poi ricompare in GaJo, Comm ., I, 3 e ancora nelle stesse
Institut. di GIUSTINIANO, I, 2 . 372 uomini validi ed armati della tribù
gentilizia, poi il populus confe derato della città patrizia , e da ultimo il
popolo patrizio - plebeo della città serviana ( 1) . Questo populus intanto
perde in gran parte quel carattere reli gioso e patriarcale del popolo delle
curie, e assume invece il ca rattere, che è proprio di coloro, che entrano a
costituirlo ; viene cioè ad essere un popolo di capi di famiglia e di proprietarii
di terre , che da una parte sono uomini di arme e dall'altra sono de diti alla
coltura delle terre, e i quali si considerano come isolati da tutti quei
rapporti gentilizii, in cui possono trovarsi vincolati. I quiriti dell'epoca
serviana vengono ad essere considerati come indivi dualità indipendenti e
sovrane; hanno l'asta come simbolo del pro prio diritto ; ritengono come
proprie le cose sopratutto che riescono a togliere al nemico, ed il loro potere
appare senza confine cosi rispetto alle persone, che alle cose , che da essi
dipendono ; donde le caratteristiche peculiari del ius quiritium , che viene
formandosi in questo periodo, come cercherò di dimostrare a suo tempo (2). 302.
Modificato così il concetto del populus, cioè l'elemento es senziale della
costituzione primitiva, da cui escono tutti gli altri, era naturale , che anche
questi dovessero lentamente e gradatamente trasformarsi in correlazione col
medesimo. E così accade appunto del senato , il quale accompagnando lo
svolgimento lento e graduato della costituzione romana, comincia ad accogliere
fin dagli inizii della repubblica i principali dell'ordine equestre , i quali
per tal modo vengono ad essere conscripti coi patres , donde la formola patres
et conscripti , finchè più tardi esso viene a ricevere tutto l'elemento , che
siasi reso benemerito della repubblica, sostenendone degnamente le magistrature
e gli uffizii, o che abbia così quell'età e quell'esperienza, che valgono ad
assicurare la repubblica della au torità del suo consiglio (3 ). Cosi invece
non accadde del magistrato , poichè questo continud (1 ) MOMMSEN, Rötnische
Forschungen , I, pag . 168. (2 ) V. il cap. seg. in cui si discorre
dell'influenza della costituzione serviana sul diritto privato. (3 ) Le
trasformazioni introdotte nella composizione del Senato in base alla les Ovinia
che deferì ai censori la senatus lectio sono brevemente riassunte dal Lan
DUCCI, nel suo scritto sui Senatori Pedarië, Padova 1888, pagg. 7-8 , colle
note re lative. - 373 ancora per qualche tempo ad essere ricavato
esclusivamente dalla classe dei patrizii; donde la conseguenza, che è
sopratutto contro l'imperio dei consoli, che spiegansi le prime sedizioni della
plebe, le quali più non si arrestano fino a che la plebe non abbia ottenuta ,
anche nelle magistrature e nei sacerdozii, quella parte, che già aveva
conseguita negli altri aspetti della costituzione politica. Cið era na turale,
perchè non vi sarebbe stata coerenza in un organismo, in cui il popolo e il
senato già potevano essere tolti dai due ordini, che concorrevano a formarlo ;
mentre il magistrato poteva essere scelto in un ordine soltanto e quindi veniva
ad apparire piuttosto come un custode dei privilegii del patriziato, che come
un rappresentante imparziale del popolo . Di qui la conseguenza , che anche le
lotte, che vennero ad esservi fra patriziato e plebe, possono in gran parte
ritenersi determinate dalla costituzione serviana, come meglio sarà dimostrato
a suo tempo (1 ). 303. Mentre si avverano queste modificazioni negli organi
essen ziali della costituzione politica , e quindi si trasformano a poco a poco
le loro principali funzioni, che, come si è veduto , consistono nella
formazione delle leggi, nella elezione del magistrato e nella amministrazione
della giustizia , tutte le istituzioni serviane, che negli inizii erano
soltanto abbozzate, vengono prendendo tutto quello svol gimento , di cui
potevano essere capaci. Cid appare quanto al censo, il quale , come già si è
accennato, incomincia dal presentarsi come una valutazione economica dei cit
tadini, e poi cambiasi a poco a poco in una valutazione politica e morale dei
medesimi. Il punto di partenza viene ad essere quello di dare a ciascun
cittadino una parte di diritti e di obblighi, che sia proporzionata al suo
censo , mentre lo svolgimento posteriore conduce a dare ai singoli individui e
ai varii elementi del popolo una parte, che vorrebbe essere proporzionata alla
cooperazione, che essi recano al pubblico bene. Abbiamo quindi i magistrati
uscenti di ufficio, che somministrano il contingente per la formazione del
senato e poscia dell'ordo senatorius ; abbiamo gli equites , che perdono il
carat tere essenzialmente militare, che avevano nelle proprie origini, e
finiscono per formare un ordine distinto di cittadini, che chiamasi ordo equestris
, e costituiscono una specie di aristocrazia del censo , ( 1) V. il cap . IV
del presente libro, in cui si tratta appunto delle lotte fra il patriziato e la
plebe. 374 da cui esce poi la nuova nobiltà , la quale, dopo aver lottato
coll'an tica , finisce per confondersi con essa (1). Di qui la conseguenza, che
col tempo quel populus, che erasi formato, mediante la riunione del patriziato
e della plebe, finirà un'altra volta per subire un nuovo dualismo, che è quello
del partito popolare e del partito degli otti mati. Queste però sono
conseguenze remote dell'ordinamento ser viaño, fondato sul censo, mentre è
assai più facile tener dietro alle trasformazioni, che subirono le centurie e
le tribù introdotte col medesimo. 304. Le centurie infatti, allorchè perdettero
il loro carattere es senzialmente militare, finirono per cambiarsi in
altrettanti quadri, in cui potè essere compreso tutto il popolo romano, che
avesse rag . giunto certi limiti nel censo , il quale, fissato dapprima in
iugeri di terra, sembra essersi più tardi calcolato in una somma di denaro. Si
formarono così quei comisii centuriati, che ebbero tanta impor tanza sopratutto
nei primi secoli della repubblica, e che furono per certo una delle assemblee
meglio organizzate , che offra la storia politica dei popoli civili. È tuttavia
notabile, che anche in questa parte si conserva sempre mai l'antico modello,
per guisa che i con cetti informatori dell'assemblea delle centurie sembrano
essere tolti e trasportati da quella più antica delle curie . Anch'essi
quindideb bono essere preceduti da cerimonie religiose, ed il magistrato , che
li convoca in giorni prestabiliti (dies comitiales), essendo investito degli
auspicia , debbe prima investigare se gli dei si dimostrino fa vorevoli alle
deliberazioni, che debbono essere prese dai comizii. Anche la precedenza nella
votazione deve seguire l'antico costume, e quindi precedono le sei centurie di
cavalieri, le uniche cioè che rappresentino ancora il patriziato primitivo,
fondatore della città ; quindi è fra esse, che chiamansi i sex suffragia , che
viene tratta a sorte quella che dovrà essere la centuria principium , il cui
voto continua ad essere considerato come un augurio (omen). Dopo aver così
attribuita la debita parte alla nascita e ai primi fondatori della città ,
viene il riguardo all'età , in quanto che i seniores (dai 47 ai 60 anni) hanno
in ogni classe un numero di centurie eguale a quello dei iuniores (dai 17 ai 46
), malgrado il numero certo maggiore di questi ultimi, e le loro centurie negli
inizii erano probabilmente le (1) Queste trasformazioni sono accuratamente
seguìte dal Madvig, L'État romain , trad. Morel, Paris 1882 , tome 1er, pag .
135 e segg. 375 prime chiamate a dare il proprio voto . Viene poscia la
considera zione del censo , in quanto che le centurie, che votano per le prime
sono, dopo le diciotto centurie degli equites, quelle della prima classe e
queste sono in numero tale, che se siano concordi, possono da sole avere la
maggioranza , senza che più occorra di passare alla chia mata delle altre
classi (1). Intanto perd nel seno di ogni centuria ogni individuo ha il proprio
voto, e tutti contano egualmente ; ma, come già accadeva nelle assemblee
curiate , l'esito definitivo dipende dalla maggioranza delle centurie . Qui
parimenti si presentano le distinzioni fra comitia e contiones ; come pure
dovette introdursi eziandio la distinzione fra comizii propriamente detti e i
comizii calati, in cui si compievano pei quiriti i testamenti e le arroga
sioni, ma questi non sembrano essere durati lungamente , perchè erano una
semplice imitazione dell'antico , senza che avessero lo scopo dei comizii
calati delle curie, che era quello di mantenere salda ed integra anche nella
città la primitiva organizzazione delle genti patrizie (2). Così pure sopra i nuovi
comizii, i padri, antichi fondatori della città , continuano ad esercitare una
specie di prote zione e di tutela, sotto il nome di patrum auctoritas, dalla
quale i comizii centuriati riescono ad emanciparsi soltanto molto più tardi (3
). 305. Nella realtà però questa imitazione dell'antico non impe disce che
tutte le principali funzioni vengano a concentrarsi nei co mizii centuriati.
Sono essi infatti che votano le leggi fondamentali dello stato , come le leggi
Valerie-Orazie , la legislazione decemvirale, le leggi Licinie Sestie, e da
ultimo la legge Ortensia ; sono essi parimenti, che nominano i magistrati
maggiori, come i consoli, i pretori, i censori, quei magistrati insomma, il cui
potere può essere considerato come una suddivisione di quell'imperium , che
trovavasi un tempo con centrato nel re. Da ultimo fu davanti alle centurie, che
dovette essere interposta quella provocatio ad populum , che un tempo pro
ponevasi dinanzi al popolo delle curie ; il che spiega comeun ma (1) Sono
queste gradazioni e distinzioni che fecero dire a CICERONE , De leg., III, 19 ,
44 : < descriptus enim populus censu , ordinibus, aetatibus plus adhibet ad
suf « fragium consilii, quam populus fuse in tribus convocatus » ; concetto che
ripete con altre parole nel De rep., II, 22 . (2) L'esistenza di comizii
calati, proprii delle centurie , è attestata espressamente da Aulo Gellio, XV,
27, 1. ( 3) V. quanto alla patrum auctoritas ciò che si è detto al nº 198, pag.
240 e segg. 376 gistrato annuo, come il console, abbia finito per rinunziare a
poco a poco a pronunziare condanne, da cui poteva esservi appellazione al
popolo , il quale venne cosi ad essere direttamente investito della
giurisdizione criminale ( 1) . Intanto si comprende eziandio come la lotta fra
i due ordini, finchè non furono ancora del tutto pareggiati, abbia dovuto
concentrarsi so pratutto nei comizii centuriati, e come quindi il patriziato
per assi curarsi una prevalenza nel seno delle centurie, abbia dovuto dividere
i proprii agri gentilizii fra i clienti, acciò i medesimi potessero essere
collocati nelle classi e possibilmente nella prima di esse, la quale aveva una
prevalenza sopra tutte le altre. Per talmodo la disorganizzazione delle genti,
che erasi già iniziata colla costituzione di Servio , con tinud necessariamente
collo svolgersi delle istituzioni da lui intro dotte ; poichè quei clienti ,
che sotto l'impressione immediata del benefizio ricevuto stavano ancora agli
ordini dell'antico patrono, se ne emanciparono ben presto , allorchè il censo
loro assicurò una indipendenza , mediante cui poterono talvolta aggregarsi alla
stessa plebe. Conviene tuttavia riconoscere, che la plebe negli inizii del
l'organizzazione per centurie male poteva riuscire nella lotta contro un
patriziato reso forte e numeroso mediante l'appoggio dei proprii clienti. Di
qui la conseguenza, che la plebe resa impotente alla lotta nei comizii per
centurie, dovette appigliarsi a riunioni che non avessero più la loro base nel
censo , ma bensì nel luogo di residenza e nel numero. A tal uopo la plebe,
guidata ed organizzata dai proprii tribuni, seppe trarre profitto di un'altra
istituzione ser viana , che è quella della tribù locale, ricavando da essa uno
svolgi mento , che probabilmente non doveva essere nella intenzione di quegli,
che l'aveva istituita . 306. La tribù nella costituzione serviana non era che
una ripar tizione locale , fatta in uno scopo essenzialmente amministrativo,
cioè per fare il censo , per fare la leva militare e per ripartire i tributi.
Essa però aveva il vantaggio su tutte le altre ripartizioni, che mentre le
curie non comprendevano dapprima che i patrizii, e le centurie e le classi non
accoglievano che i locupletes od adsidui, le tribù invece comprendevano anche i
proletari, i capite censi, gli aerarii ; quindi in essa esisteva un
germeessenzialmente democratico, (1) Cfr. ciò che si è detto più sopra intorno
alla provocatio ad populum nel pe riodo regio, n ° 245 e 246 , pag. 299 e segg.
377 che non poteva mancare di svolgersi col tempo. Era infatti naturale, che i
tribuni della plebe, per radunare la medesima, non potessero indirizzarle il
proprio appello, che per tribù (tributim ), e che quindi si facessero già in
questa guisa quelle prime riunioni, che appellavansi concilia plebis. Intanto
le tribù, che avevano dapprima un carattere essenzialmente locale e
comprendevano realmente le persone, che dimoravano in quel determinato
quartiere, si cambiarono in effetto in altrettanti quadri, in cui poterono
essere compresi tutti i cittadini romani, senza tener conto del sito effettivo
, in cuiavessero la propria residenza. Si avverò anche in questo , ciò che è
accaduto in molte altre istituzioni di Roma, che cominciano dall'avere una base
reale nei fatti, ma col tempo si cambiano in concezioni teoriche ed astratte, e
in forme tipiche, in cui può farsi entrare un contenuto, che nella realtà loro
non potrebbe appartenere . Per tal guisa la ripartizione delle tribù diventò la
più comprensiva di tutte; cesso quasi di essere locale per diventare personale
; la indicazione della tribù entrò a far parte della denominazione stessa del
cittadino romano, e fu in tal modo, che essa potè riuscire di base alla più
democratica delle riunioni, che siasi conosciuta in Roma, che fu quella appunto
dei comizii tributi. Questi non hanno più il carattere militare dei co mizii
centuriati, ma hanno un'impronta essenzialmente cittadinesca ; si tengono
perciò nel foro e nei primitempi si riuniscono nei giorni di mercato, in cui la
plebe del contado ha occasione di convenire nella città (1 ). 307. Tuttavia anche
i comizii per tribù, allorchè entrarono nei quadri regolari della costituzione
politica , finirono per modellarsi sulle assemblee precedenti. Essi infatti ,
quando sono giunti al pieno loro sviluppo, sono anche preceduti dagli auspizii,
quando siano convocati da un magistrato , a cui questi appartengano, e sono
convocati solennemente dal medesimo, per mezzo degli araldi, in giorni, che non
saranno più chiamati comitiales, ma che debbono però essere nel novero dei dies
fasti. È analoga parimenti la pro cedura per la votazione, salvo che il voto si
dà per tribù, la prima delle quali viene ad essere tratta a sorte, e prende
anche il (1) È degno di nota a questo proposito il {passo diMACROBIO,
Saturnales , I, 16, $ 34, in cui, riferendosi ad uno scritto del giureconsulto
P. Rutilio Rufo , parla dei giorni dimercato, in cui « rustici, intermisso
rure, ad mercatum legesque accipiendas Romam venirent » . Husche, Jurisp .
antijustin ., pag. 11. 378 nome di tribus principium . Nel seno poi di ogni
tribù il voto è dato viritim , e l'esito definitivo viene ad essere determinato
dalla maggioranza delle tribù . Questi comizii hanno però il vantaggio della
più facile convocazione , in quanto che possono essere convocati da magistrati
patrizii e da magistrati plebei, come i tribuni, al modo stesso che i
provvedimenti, che essi prendono, possono essere o vere leggi o semplici
plebisciti , secondo l'autorità che li propone (1) ; il che spiega come i
comizii tributi si siano gradatamente cambiati nell'organo legislativo più
operoso nell'ultimo periodo della repub blica . Mentre essi infatti richiamano
a sè la sola elezione dei magi strati minori, e la giurisdizione per i reati
punibili con sole pene (1) Per lo svolgimento pressochè parallelo dei comizii
centuriati e dei comizii tri buti mi rimetto a ciò che ho scritto più sopra al
n ° 224 , pag. 273 e segg. e per il pareggiamento che venne facendosi fra le
leggi ed i plebisciti ai numeri 231, 232 e 233, pag. 281 e seg . Solo mi limito
ad aggiungere che negli ultimi tempi dagli stessi comizii tributi potevano
emanare vere leggi, allorchè erano convocati da veri magistrati, come consoli e
pretori, oppure plebisciti , allorchè erano convocati da tri buni della plebe.
Trovo una prova di ciò paragonando le intestazioni di due leggi riportate dal
Bruns. L'una è la lex agraria del 643 dalla fondazione di Roma, la cui
intestazione è così concepita : « tribuni plebei plebem ioure rogarunt,
plebesque ioure scivit » , sebbene in tale occasione abbiano preso parte alla
votazione anche i patrizii come lo dimostra il fatto, che ivi si aggiunge : «
Tribus principium fuit , pro tribu Q. Fabius, Q. filius, primus scivit » , il
quale Fabio dovette probabilmente essere un patrizio della gens Fabia (Bruns,
Fontes, pag., 72). L'altra legge invece è la les Quinctia, de aqueductibus,
dell'anno 745 di Roma, che è così intestata : « T. Quinctius Crispinus populum
iure rogavit, populusque iure scivit, in foro pro rostris Aedis divi Iulii
pridie K. Iulias. Tribus Sergia principium fuit ; pro tribut Sex ... L. F.
Virro primus scivit » . Bruns, Fontes, pag. 112. — Diqui infatti appare ad
evidenza, che quando la convocazione parte dal tribuno della plebe parlasi di
plebes e di plebiscitum , ancorchè la riunione comprenda anche i patrizii :
mentre quando trat tasi di convocazione fatta dal console esso chiama ai
comizii tributi il populus e il provvedimento emanato viene così ad essere un
populiscitum , ossia una lex nel senso primitivo dato a questo vocabolo. La
cosa è pur confermata da quella parte, che ci pervenne della intestazione alla
lex Antonia, de Tarmessibus, dell'anno 683 di Roma, in cui la riunione dei
comizii tributi, essendo provocata dai tribuni della plebe, ancorchè in base ad
un parere dato dal senato (de senatus sententia) parlasi perciò di convocazione
della plebes e quindi di plebiscitum (Bruns, Fontes, p. 91). In questo periodo
quindi tanto le leges quanto i plebiscita emanano da comizii tributi e la loro
differenza deriva dall'essere l'iniziativa presa da un vero magistrato
(console, pretore) che convoca il popolo, o da un tribuno della plebe, che
convoca invece la plebe, sebbene anche in queste ultime riunioni intervengano
anche i patrizii. Viene così ad essere vero ciò che dice Pomponio , che « inter
plebiscita et leges species constituendi interesset, potestas autem eadem esset
» . L. 2, 8 , Dig . 1, 21. - - - 379 pecuniarie, finiscono invece per assorbire
tutto il potere legislativo . È a notarsi tuttavia , che mentre la legislazione
dei comizii centu riati aveva avuto un carattere specialmente politico e
costituzionale, perchè è con essa che si vennero pareggiando gli ordini, quella
in vece , che usci dai comizii tributi, ha un carattere eminentemente sociale,
e in parte già si riferisce ad argomenti di diritto privato (1). 308. Si può quindi
conchiudere, che la costituzione serviana per vade le istituzioni politiche di
Roma per tutto il periodo repubblicano. I concetti della medesima cominciano
dall'avere una base nella realtà , ma finiscono per cambiarsi in altrettante
costruzioni logiche, a cui si dà tutto lo sviluppo, di cui possono essere
capaci. In questa guisa il censo di economico divien morale , le centurie di
militari si con vertono in politiche, le tribù di ripartizioni locali mutansi
in quadri, in cui tutta la cittadinanza può essere compresa , per quanto la me
desima dimori eziandio fuori della città . Per tal modo la costitu zione di
Servio Tullio , al pari delle mura che ne portano il nome, poté bastare a tutti
gli incrementi e a tutte le trasformazioni, che Roma ebbe a subire per parecchi
secoli, e per tutto quel tempo, in cui essa tenne ancora in pregio le antiche
virtù ed istituzioni. Vero è , che le forme esteriori sembrano sempre essere
foggiate su quelle, che erano prima adoperate ; ma conviene dire che « spiritus
intus alit » , e che questo nuovo alito spira per modo entro le forme an tiche,
da far loro capire un contenuto ben diverso dal primitivo, e da spezzarle
anche, quando siano diventate disadatte, nel qual caso però se ne foggiano
delle nuove, ma sempre sul modello delle an tiche. Questo è il magistero, che
Roma seguì costantemente nello svol gimento delle proprie istituzioni
politiche. Un analogo processo ap pare anche più evidente nella elaborazione
più lenta e graduata , che ebbe a ricevere il diritto privato di Roma , sovra
il quale la costituzione serviana ha certamente esercitata una influenza di
gran lunga maggiore di quella che soglia essergli attribuita, come spero di
poter dimostrare nel seguente capitolo. ( 1) Quanto alla legislazione comiziale
e ai caratteridella medesima, cfr. FERRINI, Storia delle fonti del diritto
romano, Milano, 1885, pag. 9-16 . 380 CAPITOLO III. La costituzione serviana e
la sua influenza sull'elaborazione del ius Quiritium . 309. Se fu agevole il
mettere in rilievo gli effetti della costitu zione serviana sul diritto
pubblico di Roma, non può dirsi altrettanto della influenza tacita , ma non
meno importante , che essa esercito sulla elaborazione del diritto privato . A
questo proposito poco o nulla ci dicono gli storici, come quelli che
naturalmente si arrestarono alle mutazioni più appariscenti, che si erano
avverate nelle istituzioni politiche. Solo Dionisio si limita a dire di Servio
, che egli pubblico ben cinquanta leggi sui delitti e sui contratti ; che egli
distinse i giudizii pubblici dai privati ; e che prese anche dei provvedimenti
a favore dei debitori, senza però ricordare il contenuto preciso dei medesimi
(1). La probabilità ed anche la necessità di una legislazione all'epoca
serviana non può certo essere negata, non potendo essersi avverata una
trasformazione cosi profonda nell'organizzazione civile e politica, senza che
si riflettesse eziandio nel diritto privato . Tut tavia è certo , che le
mutazioni nel diritto privato non dovettero tanto operarsi per mezzo di leggi,
quanto piuttosto mediante quella tacita elaborazione di un diritto comune alle
due classi, che era la naturale conseguenza dei nuovi rapporti , in cui esse
venivano a trovarsi. È quindi negli scritti dei giureconsulti, che si devono
cer care le reliquie delle istituzioni scomparse, e in essi sono sopratutto a
cercarsi quelle distinzioni, quei concetti, quegli atti simbolici, che
sopravvissero ancora in epoche, in cui più non se ne comprendeva il significato
, e che possono in qualche modo rannodarsi al concetto informatore della
costituzione serviana. Sono le hastae, le vindictae, i procedimenti simbolici,
gli atti per aes et libram , i concetti primi tivi del caput, della manus, del
mancipium , la distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, tutti quei
concetti insomma, (1) Dron., IV, 10, 13, 25. Quanto ai debitori Dionisio, IV ,
9 , 11, attribuisce a Servio di aver perfino pagato del proprio i creditori, e
di aver voluto che i beni e non la persona del debitore fossero vincolati al
creditore; ma ciò forse non è che un effetto di quella tendenza , che fa
riportare a Servio tutti i provvedimenti, che potevano apparire favorevoli alla
classe servile ed alla plebe. 381 di cui ignorasi la vera origine e che sono
sopravvivenze di un'e poca anteriore, che possono servire come materiali per la
ricostru zione del primitivo diritto . Gli è soltanto col ricomporre insieme
tutti questi rottami, che spargono talvolta dei vivi sprazzi di luce , quando
siansi collocati nel sito , ove debbono trovarsi, e coll'avere presente il
carattere del popolo , le sue istituzioni politiche , il suo metodo di serbare
i vocaboli , cambiandone anche il contenuto , ed il criterio informatore della
riforma serviana, che si pud riuscire a ricostituire il diritto privato, che
dovette iniziarsi in questo periodo, se non nei particolari minuti, almeno
nelle sue linee generali e nella logica fondamentale, da cui dovette essere
percorso . 310. Fu questo paziente lavoro di ricomposizione, che mi mette in
condizione di porre innanzi a questo proposito una congettura , la quale a
prima giunta potrà apparire ardita, ma che risulterà sempre meglio comprovata,
a misura che , procedendo innanzi, tutte le reli quie, che ci pervennero,
dell'antico diritto , finiranno per prendere senza sforzo quel posto, che loro
compete, e ci porgeranno cosi una spiegazione naturale, logica e verosimile dei
caratteri primitivi del medesimo. La congettura sta nell'affermare, che almodo
stesso che con Servio Tullio si posero le basi della Roma storica, e si formd
quel populus romanus quiritium , che riempi poi la storia del racconto delle
proprie gesta, così fu eziandio da quel punto, che dovette iniziarsi la vera e
propria elaborazione di quel ius quiritium , che fu ilnucleo primitivo di tutto
il diritto privato di Roma, e che quest'ultimo, malgrado il posteriore suo
svolgimento , non perdette più mai quella speciale impronta, che ebbe ad
assumere sotto l'influenza della costi tuzione serviana . Non si vuole già dire
con ciò, che prima non vi fossero i quirites ed un ius quiritium ; ma quelli
non comprendevano che i membri delle curie, e questo indicava il complesso
delle istituzioni di carattere gen tilizio , che erano proprie del popolo delle
curie , e che perciò avevano ancora un carattere pressochè feudale e patriarcale
(1). Con Servio (1) Cid parmi abbastanza dimostrato dall'analisi, che ho fatta
della legislazione attribuita ai Re nel periodo della città esclusivamente
patrizia, dalla quale risulta che la famiglia , la proprietà , il delitto e le
pede continuavano ancora in parte a conservare quei caratteri, che avevano nel
periodo gentilizio. V. sopra lib. II, cap. IV, 88 5 e 6, pag . 329 e segg. 382
Tullio invece incomincia l'elaborazione di un diritto comune ai due ordini, e
siccome i medesimi, riuniti nelle classi e nelle centurie , prendono il nome di
quirites , così incomincia la formazione di un vero e proprio ius quiritium ,
in cui i vocaboli e le forme proprie del diritto formatosi nei rapporti fra le
genti patrizie e la popo lazione di condizione inferiore , da cui esse erano
circondate , ven gono a ricevere una nuova significazione, e ad essere
applicati ai rapporti , che erano l'effetto della nuova condizione di cose . Si
conservano pertanto ancora i vocaboli di manus per indicare nel loro complesso
i poteri, che appartengono al quirite, quale capo di famiglia e come
proprietario di terre ; quello di nexum per indicare l'obbligazione di
carattere quiritario ; quello di mancipium per in dicare il complesso delle
cose e delle persone, che dipendono dal quirite: ma intanto questi vocaboli ,
che dapprima designavano il diritto proprio della classe superiore di fronte
alle popolazioni vas salle, da cui era circondata , vengono a significare i
concetti pri mordiali del vero ius quiritium , comune alle due classi, e si
mutano in altrettante concezioni logiche ed astratte, in cui può farsi entrare
un nuovo contenuto. A quel modo insomma che colla formazione della città
patrizia quei concetti di connubium , di commercium e di actio , che prima si
erano spiegati nei rapporti fra le varie genti, vennero invece a governare dei
rapporti fra quiriti, e cambiandosi così in concetti quiritarii furono il punto
di partenza di altret tante istituzioni proprie dei quiriti (ex iure quiritium
) (1) ; così quel ius nexi mancipiique, che prima governava i rapporti fra i
padri della gente patrizia e la plebe circostante, per l'accoglimento di
quest'ultima nel populus romanus quiritium , venne a cam biarsi eziandio in una
istituzione di carattere quiritario . Fu in questa guisa, che accanto a quella
parte del diritto quiritario, che si ispira ad un'assoluta uguaglianza fra i
capi di famiglia, fra i quali intercede, se ne presenta un'altra , che tradisce
l'inferiorità di con dizione di una delle classi, che entró a costituire il
populus, alla qual parte appartengono appunto i concetti del nexum , del manci
pium , della manus iniectio (2). 311. Si aggiunge che il contenuto di questi
concetti viene anche (1) Questo è ciò che ho cercato di dimostrare più sopra al
nº 266, p. 326 e segg . (2 ) Cfr. a questo proposito ciò , che si è detto
intorno alla condizione giuridica della plebe, anteriormente alla sua
ammessione nella città, al n ° 287, pag. 351 e seg. 383 a risentirsi delle
circostanze sociali , in cui essi vennero a consolidarsi. Siccome quindi il
concetto ispiratore di tutta la riforma ser viana consisteva nel censo, quale
misura e stregua dei diritti, che appartengono ai quiriti, cosi il censo venne
in certo modo ad essere un crogiuolo , che servi ad isolare l'elemento
giuridico e politico di questi varii istituti dagli elementi di carattere
diverso con cui trovasi confuso . Il diritto perdette cosi alquanto del suo
carat tere religioso e venne invece ad esseremodellato in modo rozzo o
sintetico sul concetto del mio e del tuo ; esso inoltre assunse un'im pronta di
rigidezza pressochè militare , quale poteva convenire ad un popolo , che
presentavasi nell'atteggiamento di un esercito, i cui membri riguardavano
l'asta come simbolo del proprio diritto , e « ma xime sua esse credebant, quae
ab hostibus caepissent » . Il censo viene in certo modo a misurare il
contributo , che ciascuno reca in questa specie di società , e quindi, mentre
esso è la stregua per giudicare dell'interesse, che ciascuno ha nella medesima,
serve anche per determinare la parte, per cui ciascuno deve contribuire alla co
mune difesa. Il popolo romano venne così a compiere collettivamente quel
lavoro, che dovrebbe fare anche oggi il giureconsulto per con siderare le
persone sotto il punto di vista esclusivamente giuridico , facendo astrazione
da tutti gli altri aspetti, sotto cui esse potreb bero essere considerate . Per
tal modo il quirite , come tale, non è più nè patrizio nè plebeo , ma viene ad
essere isolato da tutti i suoi rapporti gentilizii ; si considera come un caput
; conta come uno nel censo , e compare nel medesimo, in quanto unifica in sè le
per sone e le cose, che da esso dipendono . Di qui l'immedesimarsi dei diritti
di famiglia e di proprietà , che è il carattere più saliente del primitivo ius
quiritium , e la significazione comprensiva e sintetica dei vocaboli in esso
adoperati, che lo indicano ad un tempo come capo di famiglia e quale
proprietario di terre, ed hanno in certo modo l'apparenza di altrettante
rubriche , che esprimono disgiuntamente i varii atteggiamenti sotto cui il
quirite può essere considerato (1). ( 1) Ritengo che questo sia il solo modo
per spiegare in modo plausibile quel ca rattere peculiare al diritto primitivo
di Roma, per cui persone e cose, proprietà e famiglia sembrano confondersi ed
immedesimarsi insieme. Non è sostenibile infatti, che i Romani a quest'epoca
confondessero il diritto del marito sulla moglie e del padre sui figli con
quello del proprietario sopra una cosa ; ma siccome persone e cose figuravano
nel censo, come dipendenti dal medesimo caput, così esse al punto di vista
giuridico comparvero dapprima come se entrassero a far parte del medesimo
mancipium o della stessa familia . 384 - 312. Sarebbe naturalmente difficile
trovare un autore, che accenni a questa tacita elaborazione , ma la medesima
risulta da diverse circostanze , le quali insieme riunite provano che tale ha
dovuto essere il processo logico, che domino la formazione del ius quiri tium
all'epoca serviana. Così, ad esempio, noi sappiamo dal Momm sen , che una delle
significazioni più certe dell'espressione « populus romanus quiritium » è stata
quella di indicare la « leva patrizio plebea » , leva che ha cominciato appunto
ad effettuarsi in quest'e poca (1). Noi sappiamo parimenti, che da quest'epoca
cominciarono ad essere lasciate in disparte le espressioni di iura gentium , di
iura gentilitatis, di ius gentilicium , che dovevano essere ancora frequenti
durante l'epoca patrizia, e che presero invece il sopravvento le espressioni di
ius quiritium , e di potestà spettante al cittadino ro mano ex iure quiritium .
Cosi pure non vi ha dubbio , che le altre forme di proprietà non vengono più
tenute in calcolo, ma si tien conto invece del solo mancipium , che vedremo a
suo tempo essere stata il primo nucleo della proprietà ex iure quiritium ,
quello cioè che doveva essere valutata nel censo per commisurarvi la posizione
del cittadino (2). Intanto la espressione di quirites entra nell'uso co mune :
come serve per le formole di convocazione delle classi e delle centurie, così
serve per indicare i testimonii, che si adoperano negli atti di carattere
quiritario (classici testes). È da questo punto pa rimenti, che l'asta viene ad
essere l'emblema del diritto quiritario , che il populus assunse un carattere
essenzialmente militare, nè può ritenersi inverosimile la congettura, che a
quest'epoca rimonti il centumvirale iudicium , tribunale essenzialmente
quiritario, la cui competenza era appunto indicata dall'asta , che si infiggeva
davanti al medesimo ( 3). Infine fu certamente una conseguenza di questo (1)
MOMMSEN, Röm . Forschungen , I, pag. 168. (2) Quanto allo svolgimento del
concetto di mancipium , e alla conseguente distin zione delle res mancipii e
nec mancipii mi rimetto al seguente lib. IV , cap. II, S $ 1°, 4º, 5º. (3)
L'origine del centumvirale iudicium è una delle questioni più controverse nella
storia del diritto primitivo di Roma, nè io pretendo qui di risolverla . Per
ora mi limito a notare, che per me ha molta significazione quel passo di Gajo :
« festuca « autem utebantur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii ,
quod maxime sua « esse credebant, quae ab hostibus caepissent ; unde in
centumviralibus iudiciüs hasta « praeponitur » . Parmi infatti di scorgervi un
nesso, se non storico , almeno logico, fra l'epoca in cui il quirite appare
come un uomo di guerra, armato di asta,disposto a chiamar suo ciò , che
conquisterà sul nemico, e l'istituzione del centumvirale iudi 385 speciale
punto di vista , sotto cui i quiriti vennero ad essere con siderati, che fra i
diversi negozii giuridici, che potevano essere in uso , venne facendosi la
scelta di quelli, che si riferissero direttamente al diritto quiritario . Di
qui le espressioni di legis actiones, di actus legitimi, di iudicia imperio
continentia , di negozii , che si com pievano secundum legem publicam ,
espressioni tutte , che noi tro viamo anche più tardi, ma la cui origine
dovette rimontare a quel momento storico , in cui il diritto quiritario
cominciò a consolidarsi, come diritto comune al patriziato ed alla plebe. Che anzi
fu anche in quest'occasione, che dovette modellarsi quell'atto quiritario per
eccellenza, che è l'atto per aes et libram , il quale serve in certo modo per
attribuire autenticità a tutti gli atti, che possono modifi care in qualche
modo la posizione giuridica del cittadino nella comunanza quiritaria . 313. Per
verità basta porre l'istituzione del censo, come base di partecipazione alla
vita giuridica, e politica e militare di una comu nanza, per comprendere come
per l'attuazione di un tale concetto fosse indispensabile : lº di determinare
quali fossero le persone, che dovevano contare nel censo (caput); 2° di isolare
la parte del pa trimonio , che è tenuta in calcolo nel censo (mancipium ) da
tutte le altre (nec mancipium ) ; 3º di determinare le forme pubbliche cium .
Ora se vi ha epoca in cui il quirite assuma decisamente questo carattere di
uomo di guerra , questa è certamente l'epoca serviana ; e quindi è a
quest'epoca che deve rimontare il concetto informatore dell'hasta , della
festuca, dell'actio sacra mento, in cui questa si adopera, e del centumvirale
iudicium , che deve essere appunto preceduto dall'actio sacramento, e avanti
cui trovasi infissa l'asta simbolo del giusto dominio. La grave questione fu di
recente presa in esame dal MUIRHEAD, Histor . Introd ., pag. 74, il quale
sembra rannodarsi all'opinione del Niebhur, II, pag. 168, seguita poi dal
KELLER e da molti altri, che riporta all'epoca serviana l'istituzione dei
centumviri. Questa opinione invece è ora vigorosamente combattuta dal WLASSAK ,
Römische Processgessetze, Leipzig, 1888, pag . 131 a 139, il quale verrebbe
alla conclusione, che l'istituzione dei centumviri non abbia preceduto di molto
la lex Ae butia, la quale secondo lui deve essere assegnata al principio del
sesto secolo di Roma. Se con ciò egli intende di sostenere, che non abbiamo una
prova diretta , che l'esistenza dei centumviri rimonti ad epoca anteriore, egli
è certamente nel vero ; ma ciò non basta per escludere, che l'istituzione
potesse già esistere prima, senza che a noi ne sia pervenuta notizia . È poi
incontrastabile, che essa porta in sè un carattere di antichità remota , e che
i simboli, da cui è circondata e la procedura da cui è proceduta, ci riportano
a quella concezione essenzialmente militare del popolo romano, che rimonta
appunto all'epoca serviana . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 25 386 -
e solenni, mediante cui questa proprietà potesse essere trasmessa, e che
servissero ad attestare qualsiasi modificazione potesse soprav venire nella
condizione giuridica del caput (atto per aes et libram ); 4º di richiedere, che
questi atti, i quali influissero sulla posizione del quirite, fossero compiuti
coll'intervento di un pubblico ufficiale (libri pens) e colla testimonianza di
persone, che appartengano alla stessa comunanza (classici testes); 5 ° E infine
di introdurre eziandio una procedura , che debba essere di preferenza seguita
nelle controversie di diritto quiritario (actio sacramento ), ed anche un
tribunale per manente, composto esso pure di persone tolte dalle classi e dalle
centurie, per risolvere le questioni relative al diritto stesso (cen tumvirale
iudicium ) . Non può certamente sostenersi, che tutte queste istituzioni, che
poi si incontrano effettivamente nell'antico diritto romano, possano tutte rimontare
alla stessa costituzione serviana ; ma si può almeno affermare con certezza,
che esse erano una conseguenza logica del concetto informatore della medesima.
Spiegasi in questo modo come mainel diritto di Roma trovinsi sen z'altro
costituita e formata una quantità di istituzioni, in cui si ac centua il
carattere quiritario , e come queste acquistino un carattere prevalente e
preponderante, mentre le istituzioni di carattere genti lizio sembrano per il
momento essere lasciate in disparte. Spiegasi parimenti come il mancipium siasi
distinto dal nec mancipium ; come l'espressione pressochè militare di mancipium
sia sottentrata a quella gentilizia di heredium ; come diversi siano i modi per
la trasmissione delle res mancipii, e di quelle che non sono tali ; come i
diritti del quirite compariscano in certo modo come illimitati e senza confine,
poichè egli, essendo isolato dall'ambiente, in cui prima si trovava, viene ad
essere riguardato come un'individualità sovrana ed indipendente. Intanto si
comprende eziandio come pochi siano i concetti e le istituzioni del diritto
quiritario , e come esso non governi dapprima tutti i rapporti giuridici, anche
fra i cittadini ro mani; poichè intorno ad esso perdurano sempre le istituzioni
gentilizie del patriziato ed anche le consuetudini della plebe. Questo ius
quiri tium insomma rappresenta quella parte di quel ricco materiale giu ridico
, che era posseduto dalle genti patrizie, fluttuante sotto forma
consuetudinaria, che primo riusci a precipitarsi ed a cristallizzarsi, e a
diventare comune al patriziato ed alla plebe, in quanto facevano parte del
populus romanus quiritium . Siccome poi esso venne a consolidarsi fra due
classi , che prima erano in condizioni compiuta 387 > mente diverse, così in
questo periodo della sua formazione dovette maggiormente irrigidirsi e prendere
le mosse da certi concetti, come quelli del nexum , del mancipium , della manus
iniectio , che eransi prima formati nei rapporti della classe superiore con
quella inferiore. 314. Le cause intanto, che a parer mio possono aver
determinata questa singolare formazione del ius quiritium , che doveva poi eser
citare tanta influenza sull'avvenire della giurisprudenza romana, debbono
essere cercate nel carattere peculiare della costituzione serviana, e nello svolgimento
che seppe dare alla medesima il genio eminentemente giuridico del popolo
romano. Prima fra esse è la costituzione serviana , in virtù della quale
all'organizzazione essenzialmente patrizia di Roma primitiva sottentra
un'organizzazione novella , in cui entrano cosi i patrizii come i plebei nella
doppia qualità di capi di famiglia e di proprietarii di terre . Siccome infatti
la famiglia e la proprietà privata erano l'uniche istituzioni, che erano comuni
alle due classi, così esse solo potevano essere di base alla partecipazione
nella stessa comunanza . Quindi un primo effetto logico ed inevitabile di
questa speciale condi zione, in cui si trovò collocato il popolo dei quiriti,
venne ad es sere questo , che al punto di vista giuridico si fece astrazione da
quelle istituzioni intermedie , che si frapponevano fra la famiglia ed il
popolo , quali erano le genti e le tribù primitive. Sia pure che queste
istituzioni continuino ad esistere nel patriziato ; ma in tanto l'elemento
gentilizio viene ad essere escluso dal ius quiritium nello stretto senso della
parola , in quanto che di fronte al censo più non vi sono che capi di famiglia,
riguardati come liberi disposi tori delle proprie cose . Quasi si direbbe, che
la vita giuridica si ri tira dalle istituzioni intermedie, e viene invece a
riunirsi più potente e concentrata nelle due istituzioni estreme, le quali
vengono cosi ad irrigidirsi, come il diritto da esse rappresentato, per guisa
che la famiglia e il suo patrimonio si cambia nel mancipium del proprio capo,
ed il populus assume un carattere essenzialmente militare . Quella distinzione
pertanto fra res publica e res familiaris, che già aveva cominciato a
delinearsi fin dapprincipio , ora viene ad accentuarsi in modo più vigoroso e
potente; poichè tutti i gruppi intermedii vengono in certa guisa ad essere
soppressi al punto di vista della costituzione serviana. Parimenti siccome
l'intento di questo associarsi di elementi, fra cui intercedevano così gravi
differenze , era quello della comune difesa , e forse anche quello dell'offesa
e della conquista dei terri 388 torii vicini, così il nuovo popolo non poteva a
meno di assumere un carattere essenzialmente militare, che doveva riflettersi
eziandio nel suo diritto privato. Infine tutto ciò che riferivasi al connu bium
, al culto gentilizio , agli auspizii, continuava anche dopo la costituzione
serviana ad essere esclusivamente proprio del patriziato : quindi i soli atti,
che potessero essere comuni ai due ordini, dove vano essere atti di carattere
mercantile , quale era appunto l'atto per aes et libram , il quale viene così a
ricevere molteplici e sva riate applicazioni, e ad essere la forma
fondamentale, intorno a cui si aggirano tutti i negozii di carattere quiritario
. A queste considerazioni deve aggiungersi quella del genio emi nentemente
giuridico del popolo romano, il quale nella elaborazione del proprio diritto
seppe spingere fino alle sue ultime conseguenze lo speciale punto di vista , a
cui si era collocata la costituzione serviana. Questo è certo , che per
l'elaborazione giuridica presen tavasi mirabilmente atto questo considerare i
capi di famiglia come altrettanti capita , ed il complesso dei loro diritti
come un manci pium , ossia come una questione di mio e di tuo. Era soltanto in
questa guisa , che ai rapporti fra i diversi membri della comunanza poteva
essere applicata quella iuris ratio , elaborazione propria del genio romano,
mediante cui l'elemento giuridico viene ad isolarsi da tutti gli elementi
affini. Fu questo il processo , mediante cui il diritto potè essere sottoposto
a quella logica astratta , per cui le per sone perdono in certa guisa ogni
personalità concreta e diventano dei capita ; le fattispecie si riducono ad una
selezione di tutto cid che possa esservi di strettamente giuridico nei fatti
umani; e le isti tuzioni giuridiche appariscono come altrettante costruzioni
geome triche, i cui elementi possono essere scomposti, e ricevere cosi un
proprio svolgimento. Il momento appunto, in cui questa logica si presenta più
rigida , più esclusiva , fu certamente l'epoca serviana , perchè in essa i
membri della comunanza non potevano considerarsi, che sotto l'aspetto del mio e
del tuo, e quindi dovevasi in ogni argomento procedere numero, pondere
acmensura e attribuire ad ogni diritto le forme accentuate e prominenti del
diritto di proprietà. 315. Si potrà forse osservare, che questa specie di
astrazione giu ridica mal si può comprendere in un popolo primitivo , quale sa
rebbe il Romano. È però facile il rispondere, che una parte di esso non poteva
chiamarsi del tutto primitiva, dal momento che aveva attraversato tutto un
lungo periodo di organizzazione sociale, ed aveva 389 fatto tesoro delle
tradizioni del medesimo. Ma vi ha di più , ed è che senza un'astrazione di
questo genere era impossibile la formazione di una comunanza, come quella dei
quiriti. Questi sono certamente uomini reali, ma in quanto entrano nella
comunanza sono riguardati soltanto come capi di famiglia e come proprietarii di
terre. Il quirite pertanto è esso stesso un'astrazione, come sono astrazioni e
costruzioni logiche tutti i diritti, che al medesimo appartengono. Ciò fa sì,
che ad esso può applicarsi quella logica geometrica e precisa , che nel suo
genere non è meno meravigliosa di quella, che i Greci applica rono ai concetti del
vero, del bello e del buono. I Romani procedono bensì in base alla realtà , ma
hanno anch'essi una potenza specula tiva e di astrazione, per cui isolano
l'elemento giuridico dagli elementi affini, e per tal modo riescono a costruire
un edifizio logico e dia lettico in tutte le sue parti , le cui linee son
dissimulate nelle parti colari fattispecie, ma che certo esiste nella mente dei
giureconsulti. È l'ignorare questa dialettica latente , che ci rende così
difficile il ricom porre le dottrine dei giureconsulti classici, e a questo
proposito sono altamente persuaso , che questa dialettica non può essere
sorpresa che alle origini del diritto quiritario . Posteriormente infatti il
numero infinito dei particolari colla sua stessa varietà e ricchezza rende im
possibile di comprendere l'ossatura primitiva dell'edifizio , mentre la sintesi
primitiva del diritto quiritario , le cause che ne determina rono la
formazione, e la logica, che ebbe a governarla , possono facil mente
somministrarci la chiave per comprenderne il successivo svi luppo . Lo studio
di questa struttura primitiva del diritto quiritario, sarà argomento del
seguente libro, e conclusione del presente lavoro . Per ora intanto , onde non
essere costretto ad interrompere la esposizione della struttura organica del
jus quiritium col racconto degli avvenimenti storici, che contribuirono alla
formazione di esso , credo opportuno di porre termine al presente libro con un
capitolo, in cui cercherò di riassumere quella lotta per il diritto fra il pa
triziato e la plebe, che segui nel periodo, che intercede fra la co stituzione
serviana e la legislazione decemvirale . 390 CAPITOLO IV . Il patriziato e la
plebe nel periodo dalla costituzione serviana alle XII Tavole . 316. Le
divergenze fra gli autori nell'apprezzare gli effetti della costituzione
serviana, non impediscono , che tutti siano concordi nel riconoscere, che essa
costitui il primo passo al pareggiamento dei due ordini. Con essa infatti la
plebe venne ad avere un terreno giuridico e legale , sovra cui potè misurarsi
col patriziato , ed una assemblea , in cui potè impegnare la lotta . Da quel
momento perciò potè manifestarsi quella legge, che secondo Aristotele determina
tutte le rivoluzioni politiche e sociali, secondo cui gli eguali sotto un
aspetto , tendono anche a diventarlo sotto tutti gli altri aspetti. Come
potevano gli eguali nell'esercito , nei comizii centuriati, nei tributi,
continuare ad essere disuguali nei connubii, nelle magistra ture, nei
sacerdozii, e nel diritto (1 ) ? Finchè durd il regno di Servio Tullo , la
lotta non ebbe occasione di spiegarsi, perchè, secondo la tradizione, lo stesso
Servio si appiglid a tutti i mezzi per favorire quel pareggiamento, che era
nello spi rito della costituzione da lui introdotta . Egli quindi rinnovo a più
riprese il censo ; introdusse nuove leggi relative ai contratti ed ai debiti;
concesse la cittadinanza ai servi manomessi, comprenden doli anche nel censo ;
distinse i giudizii pubblici e privati ; institui giudici privati per la
decisione delle controversie di minore impor tanza , e probabilmente eziandio
la Corte dei centumviri per stioni di diritto quiritario nello stretto senso
della parola , e cerco eziandio di migliorare la condizione dei creditori ( 2).
Fu in tal le que (1) ARISTOTELES, Politica , ed . Bekker. Lib . V , pagg. 1301
e 1302. Questo con cetto trovasi mirabilmente espresso da CICERONE , De rep .,
I, 49, allorchè scrive: « quo iure societas civium teneri potest, cum par non
sit conditio civium ? Iura « paria esse debent eorum inter se, qui sunt cives
in eadem republica » . Di qui egli sembra dedurre, che se fosse continuata la
dominazione esclusiva dei padri, la città non avrebbe mai potuto avere uno
stabile assetto ; « itaque cum patres rerum poti rentur, nunquam constitisse
civitatis statum putant » . (2 ) Questi sono i provvedimenti attribuiti a
Servio Tullio sopratutto da Dionisio, il cui racconto in questa parte ebbe ad
essere accettato dal Niebhur, dal Lange e da altri nella loro ricostruzione
della storia primitiva di Roma. È tuttavia da notarsi che Dionisio non parla
punto dei centumviri, ma solo dei iudices privati. V. Dion ., IV, 22, 4 , 10 ,
13. 391 modo che mentre egli si cattivo l'affetto e la riconoscenza delle
plebi, che continuarono sempre a venerarne la memoria e a con siderarlo come
l'iniziatore di tutte le riforme ad esse favorevoli, si procurò invece una
sorda opposizione nel patriziato, come lo dimostra il fatto , che egli avrebbe
dovuto confinarlo ad abitare nel vicus patricius ( 1). Dopo Servio così il
patriziato che la plebe si trovarono di fronte ad un pericolo comune , che fu
il tentativo di tirannide di Tar quinio il Superbo, il quale avrebbe tolto di
mezzo le leggi ser viane, e mentre da una parte cercò di occupare la plebe con
la vori edilizii, si studið dall'altra di comprimere il patriziato , non
curandosi di convocare il senato , nè di riempirne i seggi, che re stavano
vacanti ( 2). – Ne consegui una sosta nello svolgimento dei concetti ispiratori
della costituzione serviana : sosta forse più appa rente, che reale, poichè se
il governo di un tiranno comprime la libertà di tutti, può sotto un certo
aspetto esser favorevole allo svolgersi dell'uguaglianza fra le varie classi,
rendendo tutti eguali di fronte al dispotismo di un solo . Il tentativo ad ogni
modo non potè riuscire, e quando i due or dini dimenticarono le loro gare di
fronte al nemico comune, venne ad essere naturale , che l'evoluzione si
ripigliasse , ritornando a quelle istituzioni serviane, che per il momento
erano ancora le sole, che potessero essere di base ad un accordo del patriziato
e della plebe. 317. Narra infatti Livio, che i primi consoli furono nominati in
base ai commentarii di Servio Tullo , e Dionisio aggiunge, che essi avrebbero
richiamate in vigore le leggi di Servio sui contratti, abrogate da Tarquinio ed
accette alla plebe, riattivata l'istituzione del censo, e ristaurati i comizii
per l'elezione dei magistrati e per le deliberazioni popolari (3). Tutti gli
autori poi, che ricordano il passaggio dal governo regio al repubblicano, sono
concordi in rico noscere, che il cambiamento essenziale si ridusse a sostituire
al re, magistrato unico ed a vita , il consolato, magistrato duplice ed (1) «
Patricius vicus, scrive Festo , dictus eo, quod ibi patricii habitaverunt, iu a
bente Servio Tullio, ut, si quid molirentur adversus ipsum , ex locis
superioribus opprimerentur » . Bruns, Fontes, ed. V , pag. 351. (2) Dion., IV,
25 ; Liv ., I, 49. Cfr . Bonghi, Storia di Roma, I, pag . 209, ove riassume le
tradizioni diverse a noi pervenute intorno a Tarquinio il Superbo. (3 ) Liv.,
I, 60 ; Dion., V , 2. 392 annuo (1). Il potere pertanto dei consoli fu una
continuazione del potere regio , colla sola differenza che il potere religioso
si venne già in parte separando dal civile , in quanto che i poteri, che appar
tenevano al re qual sommo sacerdote del popolo romano, furono per imitazione
dell'antico affidati a un rex sacrorum , o rex sa crificulus, ma in realtà si
vennero concentrando nel pontifex maximus, chiamato a presiedere il collegio
dei fpontefici (2 ). Da cid in fuori il potere sovrano non è dapprima ripartito
fra i due consoli, ma persiste intero in ciascuno di essi, salvo la reciproca
intercessione, che l'uno può opporre agli atti compiuti dall'altro . Che anzi,
ad impedire che la continuità dell'imperium possa essere interrotta col passare
da un console ad un altro , tocca al magi strato che esce di proporre ai
comizii il proprio successore , e nel caso in cui egli non lo faccia, si
continua sempre a provvedere coll'istituzione dell'interregnum , conservando il
concetto ed il vo cabolo , che erano già in vigore durante il periodo regio (3
). È poi solo in seguito alle lotte fra patriziato e plebe, e in causa anche
dell'accrescersi della dominazione romana, che quell'unico potere (imperium )
che accentravasi dapprima nel re e poscia nei consoli, si viene lentamente e
gradatamente suddividendo fra le mol. teplici magistrature del periodo
repubblicano ; per guisa che le ma gistrature maggiori (consoli, pretori,
censori) si dividono in certo modo le funzioni, che un tempo erano comprese
nell'imperium regis, (1) Questo concetto, che nel passaggio alla repubblica non
siasi sostanzialmente mutato il carattere del potere spettante al magistrato,
occorre in Dion ., IV, 72-75; in CiceR., De rep ., II, 30 e in Livio, II, 1,
17. V. il raffronto che ne fa il Bongai, op. cit., pagg. 562-69. (2 ) Che la
dignità del pontifex maximus dati soltanto dalla repubblica , mentre prima era
il re stesso, che era il sommo sacerdote del popolo romano, è cosa da tutti
ammessa. V. fra gli altri, Bouché-LECLERQ, Les Pontifes de l'ancienne Rome, p .
8 e 9 ; e il Willems, Le droit public romain , pag. 51 e pag. 318. A parer mio
la causa storica del fatto sta in questo, che colla costituzione serviana il
populus ro manus quiritium , comprendendo anche la plebe, perdette in parte
quel carattere re ligioso , che aveva finchè era ristretto alle genti patrizie,
e quindi il magistrato del popolo romano assume un carattere essenzialmente
civile e militare, mentre i pon tefici, pur rappresentando il popolo come
famiglia religiosa , continuarono ad essere i custodi delle tradizioni
religiose e giuridiche di quel patriziato, da cui erano tolti. (3 ) V. quanto
all' interrex e alla nomina di esso per parte dei patres o patricii ciò che si
è detto ai numeri 237-39, pag. 288 e segg., ove ho cercato di dimostrare che la
nomina dell'interrex , la patrum auctoritas e la lex curiata debbono riguar
darsi come sopravvivenze della costituzione esclusivamente patrizia . 393
mentre le magistrature minori (questori, edili) sono uno svolgimento di quegli
ufficiali subalterni, che dapprima erano nominati dal re e dal console, e che
finiscono col tempo per essere anche essi nomi nati direttamente dal popolo (
1). È in questo modo che si spiega come mai siasi potuto avverare una
trasformazione cosi grande nella forma di governo, senza che si alterassero le
basi fondamentali della costi tuzione primitiva di Roma. 318. Intanto finchè
durarono i pericoli esterni delle guerre susci tate dagli esuli Tarquinii, si
mantenne fra i due ordini un' appa rente concordia (2), come lo dimostra il
fatto, che i consoli sogliono essere tolti da famiglie ritenute di tendenze
favorevoli alla plebe, e che sono i consoli stessi, che propongono di togliere
le scuri dai fasci, allorchè rientrano nelle città , e consacrano con leggi spe
ciali il ius provocationis ad populum (3). Ma appena colla morte di Tarquinio
si attutiscono i pericoli esterni, si accentuano invece i dissidii interni, ed
è allora che si inizia una lotta , che direbbesi un modello nel suo genere,
tanta è la tenacità del patriziato nel conservare i suoi privilegii e la
perseveranza della plebe nell'ap profittarsi di tutte le opportunità per
ottenere concessioni novelle . Egli è durante questa lotta, che già si pud
scorgere come nella massa plebea venga distinguendosi la plebe ricca ed agiata
, la quale essendo pari in ricchezze aspira alla comunanza dei connubii e degli
(1) La specializzazione dell'imperium del magistrato è uno dei processi più
degni di nota, che presenti lo svolgimento delle istituzioni repubblicane,
poichè l'imperium regis, al pari del potere giuridico del capo di famiglia ,
parte da un'unità e sintesi potente , a cui succede durante la repubblica una
differenzazione, la quale ,mentre è determinata dall'incremento della città e
dalle lotte fra patriziato e plebe, obbe. disce però sempre alla logica
fondamentale del concetto primitivo di imperium . Cfr. MOMMSEN, Le droit public
romain, I, pag. 5 ; Herzog , Op. cit., I, § 32, pag. 580 e segg ., e ciò che si
disse in proposito al nn . 201-204 , pag. 245 e segg. (2) La diversità di
trattamento, usata dal patriziato alla plebe, nell'epoca che seguì
immediatamente la cacciata dei re e in quella posteriore alla morte di
Tarquinio il Superbo è accennata da Liv ., II , 21, 6 e da Sallustio , Hist.
fragm ., I, 9. Nota però giustamente il Bonghi, che i dissidii esistevano già
prima, e che quindi venne soltanto meno l'indulgenza , che prima era adoperata.
Op. cit., pag. 302. (3) La provocatio ad populum , che Livio chiama « unicum
libertatis praesidium ebbe ad essere consacrata negli inizii della repubblica
colla lex Valeria , proposta dal console Valerio Pubblicola. La provocatio
doveva già preesistere nel periodo regio, ma fu necessaria una espressa
consacrazione di essa per il nuovo elemento, che era entrato a far parte del
populus. Cfr. ciò che si disse al n ° 245 , pag . 300 e 301 . >> 394
onori, e la plebe povera e minuta , che sopratutto teme il carcere privato dei
creditori patrizii , e aspira a quella ripartizione dell'ager pubblicus,
mediante cui può entrare a fare parte della vera ed ef fettiva cittadinanza ,
accolta nelle classi e nelle centurie (1). Di qui i caratteri peculiari di
questa lotta , che ha del pubblico e del pri vato ad un tempo , cosicchè una sommossa
provocata dalla legge inumana sulla condizione dei debitori, può condurre alla
istituzione del tribunato della plebe, al modo stesso che una mozione per
restringere l'arbitrio del magistrato , finisce per riuscire ad una proposta di
generale codificazione. Cosi pure è un carattere di questo conflitto , che le
proposte dei tribuni sogliono comprendere più provvedimenti ad un tempo , anche
di natura diversa , e cid perchè essi mirano a tenere unite la plebe ricca ed
agiata e quella povera e minuta (2 ). Di più anche in questa lotta si mantiene
quel carattere pressochè contrattuale , che ha governato la formazione della
città ; poichè i due ceti vengono fra di loro a transazioni e ad accordi,
stipulano dei foedera , e cercano persino di dare aime desimi quella
consacrazione religiosa , che è propria dei trattati fra i popolidiversi (leges
sacratae) (3). Così pure la plebe, quando trova incomportabile la propria
coesistenza nella città , minaccia di abban donare la comunanza e di fermare
altrove la propria sede, o quanto meno si ricusa alla leva, che è il primo
obbligo e diritto del citta dino. Dappertutto infine si palesa il carattere
essenzialmente pra tico del popolo romano, in quanto che il conflitto non
appare do minato da questo o da quel concetto teorico, ma sembra essere
determinato dalle opportunità ed occasioni, che si presentano nella realtà dei
fatti. La questione infatti che si agita viene nella so stanza ad essere una
sola , cioè quella del pareggiamento giuridico e politico dei due ordini ; ma essa
prende occasione ora dai mal trattamenti inflitti ai debitori, ora
dall'arbitrio del magistrato , ora (1) Questa distinzione della plebe in due
parti è acutamente notata da leinio GENTILE, Le elezioni e il broglio nella
Rep. Rom ., pag . 24 . (2) Di qui l'espressione di lex satura o per saturam ,
la quale secondo Festo si gnificherebbe a lex multis aliis legibus confecta » .
Siccome però essa cambiavasi in un mezzo per ottenere favore a provvedimenti,
che altrimenti non sarebbero stati approvati, accoppiandoli con altri che erano
popolari, così si cercd diporvi riparo colla lex Cecilia Didia del 655 di Roma.
Cic., De domo, 20, 53. Festo , vº Satura . Cfr. WILLEMS, op. cit., pag . 184.
(3 ) V. quanto alle leges sacratae la dissertazione del LANGE, De sacrosancta
tri buniciæ potestatis natura eiusque origine. Leipzig , 1883 . 395 dalla
ripartizione dell'agro pubblico, ora dall'incertezza del diritto , ed ora
infine dal divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, e dall'
esclusione di quest'ultima dalle magistrature e dai sacer dozii (1). Per tal
modo quella plebe , che memore dapprima della condizione pressochè servile da
cui era uscita , si contenta di chie . dere l'istituzione di un magistrato, il
quale non abbia altra potestá che quella di venirle di aiuto, finisce col
tempo, guidata ed orga nizzata da questo istesso magistrato, per ottenere non
solo il pareg giamento giuridico e politico , ma per far entrare nei quadri
della costituzione politica di Roma i suoi magistrati (tribuni della plebe), i suoi
plebisciti, ed i suoi comizii tributi (2 ). 319. Qui però non può essere il
caso di tener dietro alle vicis. situdini diverse dei varii aspetti della
questione politica e sociale, che si agito fra il patriziato e la plebe , ma
piuttosto di cercare quali fossero le condizioni rispettive dei due ordini per
ciò che si riferisce al diritto privato . È questo certamente il maggior
problema che presenti questo pe riodo di transizione, poichè se la storia ha
serbato qualche traccia delle lotte politiche fra il patriziato e la plebe, noi
sappiamo quasi nulla di quello che accadde fra di loro nell'attrito dei
quotidiani in teressi. Si aggiunge che le testimonianze, che ci pervennero in
proposito , sono del tutto contradditorie . Mentre infatti Dionisio attesta che
si rimisero in vigore le leggi intorno ai contratti attri buite a Servio
Tullio, Pomponio invece dice senz'altro, che tutte le leggi promulgate dai re
furono abolite con una legge tribunizia , e che tutto fu lasciato alla
consuetudine come era prima ( 3). Non vi è quindi altro modo di uscire dalla
difficoltà , che di argomentare lo stato del diritto privato dalle condizioni
rispettive, in cui si tro vavano le due classi . (1) Un riassunto chiaro ed
ordinato degli aspetti essenziali, sotto cui ebbe a svol gersi la lotta , fra
patriziato e plebe, nelle parti attinenti al diritto, occorre nel Mui RHEAD,
Histor. Introd ., part. II, sect. 17, pag . 83-88. Per un racconto più partico
lareggiato cfr. il Lange, Histoire intérieure de Rome, livre II, pag. 111 a 217.
(2 ) Già ebbi occasione di riassumere questo singolare svolgimento della
costitu zione politica di Roma a proposito dei comizië tributi ai numeri
233-34, p . 271 e segg .; dei plebisciti ai numeri 231-32-33, pag. 281 e seg .;
e dei tribuni della plebe n ° 249, pag . 292 e seg. (3 ) Dion., V, 2 ; Pomp.,
Leg. 2, § 3 ( Dig. I, 2). Secondo quest'ultimo l'incertezza del diritto sarebbe
durata circa vent'anni; ma è facile il notare, che se essa perdurò fino alle
XII Tavole, l'intervallo dovette essere di circa sessant'anni. 396 Ora è certo
anzitutto , che in questo periodo quell'attrito delle classi, che appare nel
campo politico , dovette avverarsi eziandio nel dominio strettamente giuridico.
Anche qui dovettero trovarsi di fronte le tradizioni patrizie e le consuetudini
plebee, coll' avver tenza perd che la magistratura esclusivamente patrizia fini
per dare una prevalenza alle prime sulle seconde; cosicchè è probabile, che
sopratutto la plebe ricca ed agiata, malgrado il divieto dei connubii, cercasse
già in qualche modo di imitare l'organizzazione della fa miglia patrizia . Di
più siccome eravi fra il patriziato e la plebe co munanza di commercio, ma non
ancora quella di connubio, cosi si dovette continuare quell'elaborazione di un
jus quiritium , comune alle due classi, che già erasi iniziata colla
costituzione serviana, ed il medesimo dovette continuare a modellarsi sotto
quelle forme di carattere mercantile , che allora si erano introdotte,
ricorrendo sopratutto all'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza,
ossia dell'atto per aes et libram . Che anzi, quando si voglia ammettere con
alcuni autori, che il tribunale de' centumviri, composto dap prima di quiriti
tolti dalle varie classi e poscia dalle varie tribù , rimonti all'epoca di
Servio Tullio, converrebbe, inferirne che questo Tribunale, in quell'epoca
probabilmente presieduto da un ponte fice, dovette cooperare efficacemente alla
formazione del jus qui ritium , come quello che anche più tardi appare chiamato
a ri solvere questioni di diritto strettamente quiritario (1). Nella sua opera
tuttavia la corte dei centumviri dovette più tardi anche es sere aiutata dai
decemviri stlitibus iudicandis, i quali pur sareb bero stati istituiti a poca
distanza dalla legislazione decemvirale, e dichiarati inviolabili, al pari dei
tribuni e degli edili della plebe, sarebbero stati chiamati a decidere le
questioni di stato (2 ). Infine è ( 1) Quanto all'istituzione dei centumviri e
alle varie opinioni intorno all'epoca, a cui rimonta vedi il capitolo
precedente , nº 312, pag . 384, nota 3 . (2) È del tutto incerta anche
l'origine dei decemviri stlitibus iudicandis, in quanto che l'unico accenno ai
medesimi sarebbe quello, che occorre in Livio , III, 55, il quale parla di
iudices decemviri, stati dichiarati inviolabili al pari dei tribuni e degli
edili della plebe colla legge Valeria Horatia del 305 di Roma. Di recente poi
il WLASSAK , Römische Processgesetze, Leipzig, 1888 , pag. 139 a 151, sostiene
che i decemviri stlitibus iudicandis non debbono confondersi coi iudices
decemviri di Livio ma sono di istituzione posteriore. Noi però sappiamo di
essi, che giudicavano delle questioni di libertà e distato . Cic ., pro Caec.,
33. V. per l'opinione comunemente ricevuta Keller , Il processo civile romano (
Traduz. Filomusi, Napoli 1872, pag. 17), il quale anzi li farebbe rimontare
sino a Servio Tullio , come giudici per le cause 397 pur probabile , che gli
edili della plebe, come ufficiali dipendenti dai tribuni, fossero fin d'allora
chiamati a risolvere quelle quistioni fra i plebei, che sorgevano sui mercati e
sulle fiere , e che comin ciassero cosi a dare forma e carattere giuridico alle
costumanze della plebe. In ogni caso è incontrastabile, che in questo periodo
il console, pressochè assorbito dalle cure militari, dovette, per quello che si
riferisce alla elaborazione del diritto e all'amministrazione della giustizia ,
lasciare una larga parte alla influenza del collegio dei pontefici. Questo
collegio infatti, che abbiamo visto, fin dal l'epoca di Numa, essere chiamato alla
custodia delle tradizioni re ligiose e giuridiche, aveva serbato il proprio
ufficio anche dopo la cacciata dei re, e aveva anzi acquistata una indipendenza
maggiore, in quanto che era presieduto non più dal re, ma da un pontifex
maximus, in cui si unificavano i poteri al medesimo spettanti. Si comprende
pertanto la testimonianza pressochè unanime degli scrittori, che ci descrivono
il diritto primitivo di Roma, sopratutto negli inizii della Repubblica , come
riposto negli archivii de' ponte fici, e parlano di questi ultimi come dei
primimaestri in giurispru denza, e del ius pontificium , come di una scuola a
cui venne poi formandosi il ius civile ( 1). Intanto è naturale, che i
pontefici, come depositarii delle antiche tradizioni, avessero sopratutto per iscopo
di applicare le forme antiche ai rapporti giuridici, che venivano sor gendo
collo svolgersi della convivenza civile, e che in questo senso venissero
continuando quella elaborazione di un ius quiritium , che erasi iniziata dal
tempo, in cui la plebe era entrata a far parte della cittadinanza romana. 320.
Insomma la conclusione ultima viene ad essere questa , che in questo periodo
dovette avverarsi un continuo attrito fra le isti tuzioni patrizie e le
costumanze plebee, e che perciò dovette essere grandissima l'incertezza intorno
a quel diritto , che doveva essere applicato nei rapporti fra il patriziato e
la plebe. Ne conseguiva che private, il che non sembra da ammettersi, perchè il
giudice di queste cause dovette essere piuttosto il iudex unus tratto dai
iudices selecti. (1) Per l'influenza dei pontefici sul diritto civile vedi
sopra i numeri 262 e 263, pag. 321 e seg . colle note relative. Si occupò molto
largamente di questo argomento il KARLOWA, Röm . R. G., 1, $ 43, pag. 219
e seg. Trovasi poi un esattissimo elenco dei libri, annali e commentarii dei
pontefici nel TEUFFELS, Geschichte der röm . Literatur , Leipzig , 1882, SS
70-76, pag. 114 a 119 . 398 il console , chiamato ad amministrare la giustizia,
finiva per non avere alcun confine al proprio arbitrio , il che doveva essere
grave alla plebe, anche per trattarsi di magistrato, il quale per essere tratto
esclusivamente dall'ordine patrizio , poteva ritenersi favorevole a
quest'ultimo. Si comprende cid stante come Terentillo Arsa, nel 292, cominciasse
dal chiedere che fosse eletta una commissione, che determinasse per iscritto
quale fosse la giurisdizione dei consoli, acciò fosse posto un confine all'
arbitraria ed oppressiva ammini strazione di ciò , che essi chiamavano col nome
di diritto e di legge ( 1). Fu solo nell'anno dopo , che d'accordo coi
colleghi, per togliere alla sua proposta il carattere di odiosità contro il
potere dei consoli, egli chiese che la legge , così pubblica come privata,
dovesse essere codificata , e che cosi ogni incertezza venisse per quanto si
poteva ad essere rimossa . L'importanza della questione viene ad essere provata
dalla lotta di dieci anni, che ebbe ad essere sostenuta in torno alla medesima;
poichè solo nel 303 di Roma si ebbe completa la legislazione decemvirale . Qui
non può essere il caso di entrare nell'esame minuto della medesima, nè di
parlare dei tentativi di rico struzione, che se ne vennero facendo anche in
questi ultimi tempi ( 2) : mi basterà invece dir qualche cosa intorno al
carattere generale di questo codice, da cui doveva prendere le mosse tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile di Roma. A mio avviso la legge
decemvirale e la legge Canuleia , che la segui a poca distanza (309 di Roma) ed
aboli il divieto de' con nubii fra il patriziato e la plebe, debbono essere
considerate, quanto al diritto privato di Roma, come l'avvenimento che chiude
il periodo delle origini ed apre quello dello svolgimento storico della giuris
prudenza romana. Colle leggi delle XII tavole si chiude in certo modo il periodo
del ius non scriptum , di quel diritto cioè, che viveva più nelle consuetudini
che nelle leggi, ed incomincia il pe riodo del ius scriptum , poichè da quel
momento anche l'interpre tazione cominciò ad avere la sua base nella
codificazione (3 ). Con (1) Liv., III, 9. Cfr. MuirŅEAD, op. cit., pag. 87 e
88. (2 ) V. Ferrini, Storia delle fonti del diritto romano, pag. 5 a 9. È poi
noto, che i grandi tentativi di ricostruzione delle XII Tavole si riducono a
quelli di Jacopo Gottofredo , del Dirksen e a quello recentissimo del Voigt,
già più volte citato. (3) Non voglio dire con ciò, che prima non esistessero
delle leggi scritte : ho anzi dimostrato che dovettero esservene fin dal
periodo regio. Tuttavia è solo colle XII Tavole, che si introdusse tutto un sistema
di legislazione scritta, il quale potè servire 399 esso parimenti termina il
periodo del ius non aequum , ossia di un diritto disuguale fra patriziato e
plebe, e comincia il periodo del ius aequum , ossia la formazione di un diritto
eguale per l'uno e per l'altro ceto , il che gli autori esprimono con dire, che
le leggi delle XII Tavole erano intese ad aequandum ius e ad aequandam
libertatem (1). Con esso infine termina il periodo della indistinzione del fas
e del ius, al modo stesso che già si possono scorgere i principii del diverso
indirizzo , in cui si pongono il diritto pubblico e il diritto privato ; dei
quali il primo continua a svolgersi nelle lotte della piazza e del foro, mentre
il secondo comincia ad apparire come il frutto della tacita elaborazione prima
dei pontefici e poscia dei giureconsulti. 321. Non vi ha poi dubbio che anche
la legislazione decemvirale deve essere considerata come un compromesso fra i
due ordini e in certo modo come una specie di patto fondamentale della loro coe
sistenza nella medesima città (2 ) . Di qui la conseguenza, che le XII Tavole
nè comprendono un sistema compiuto di legislazione pubblica e privata , nè
rinnovano tutte le disposizioni che già erano contenute nelle leggi regie: ma
sembrano il più spesso limitarsi ad introdurre sotto forma imperativa quei
provvedimenti, che potevano essere stati oggetto di discussione e di lotta , il
che è sopratutto evidente quanto alle disposizioni, che si riferiscono al
diritto pub come punto di partenza alla iuris interpretatio ed alla disputatio
fori, di cui parla Pomponio , L. 2, § 5 , dig . 1-2. Quanto ai caratteri
particolari di questa interpre tatio dei veteres iures conditores, vedi JHERING
, Esprit du droit romain , III, pag. 142 e segg . (1) LIVIO (III, 24 ) fa dire
ai decemviri « se quantum decem hominum ingeniis provideri potuerit, omnibus,
summis infimisque iura aequasse » . Di quianche l'espres sione, che occorre in
Livio ed in Tacito, che le leggi delle XII Tavole fossero il fons omnis aequi
iuris , ed anche il finis aequi iuris, perchè esse, a differenza di altre
leggi, non furono il frutto di una sorpresa , ma di una vera transazione ed
accordo fra i due ordini. Vedi i passi relativi nel RIVIER , Introd . Histor.,
Bruxelles, 1881, pag. 163 a 167, come pure nel Voigt, Die XII Tafeln , I, pag.
7 e note relative. (2) Questa specie di compromesso appare dalle parole che
Livio , III, 31 attribuisce ai tribuni della plebe : « finem tamen certaminum
facerent. Si plebeiae leges displi « cerent, at illi communiter legum latores
et ex plebe et ex patriciis, qui utrisque « utilia forent, quaeque aequandae
libertatis essent, sinerent creari » . Di qui rica vasi anche un argomento per
inferire, che la legislazione decemvirale suppone già una specie di fusione del
diritto delle genti patrizie con quello della plebe, il che sarà meglio
dimostrato più oltre. 400 blico , e per quelle che riguardano l'usura e il
trattamento che il creditore può usare contro il debitore ( 1). Cid spiega
anche in parte la sobrietà e la concisione della legislazione decemvirale , la
quale , senz'entrare nella descrizione degli istituti ed in disposizioniminute,
si limita a porre dei concetti sintetici e comprensivi, pressochè enunziati in
forma assiomatica , lasciando poi alla interpretazione di ricavare da essi
tutte le conseguenze , di cui potevano essere ca paci (2). Di qui derivano
eziandio la venerazione e la riverenza , in cui fu tenuto sempre questo codice
primitivo del popolo romano ; la differenza che i Romani ravvisarono sempre fra
queste leggi fonda mentali, e quelle che si vennero gradatamente aggiungendo
alle medesime; ed il fatto incontrastabile, che la legislazione decemvirale,
malgrado la pochezza dei proprii dettati , ha finito per essere il punto di
partenza di un sistema intiero di legislazione. Tuttavia il carattere più
saliente e più importante per la storia del diritto primitivo di Roma, che a
mio giudizio vuolsi ravvisare nella legislazione decemvirale , consiste in
questo , che siccome le XII Tavole furono il primo codice comune ai due ordini,
cosi fra tutti i documenti dell'antico diritto , esse portano le traccie più
evi denti dell'origine diversa delle istituzioni, che entrarono a costituire il
sistema del primitivo diritto romano . In esse infatti noi troviamo da una
parte trasportate di peso certe istituzionidelle genti patrizie , il che si
avverò sopratutto quanto all'organizzazione della famiglia e alla successione e
tutela legittima degli eredi suoi, degli agnati e dei gentili, istituzioni che
i giureconsulti ci dicono appunto essere state introdotte dalla legislazione
decemvirale (3 ). In esse parimente ( 1) Così, ad esempio, la legge secondo cui
a de capite civis nisi maximo comi tiatu ne ferunto » mira certamente ad
impedire, che le accuse capitali potessero re carsi innanzi ai concilia plebis,
come i tribuni della plebe avevano più volte tentato di fare, come lo dimostra
, fra gli altri, il processo contro C. Marcio Coriolano. Uno scopo analogo
dovette pure avere la legge: privilegia ne inroganto. Cic ., de leg ., 19, 44 .
(2) Nota a ragione il Bruns, che nelle XII Tavole già si appalesa il genio giu
ridico di Roma, sia perchè esse già comprendono ogni parte del diritto, e sia
anche per il carattere obbiettivo e pratico delle singole disposizioni. Vedi
HOLTZENDORF's, Rechts Encyclopedie, I, 117. A parer mio esse dimostrano
eziandio, che l'elabora zione giuridica era già pervenuta molto innanzi, in
quanto che già si dànno come formati i concetti del nexum , del mancipium , del
testamentum , senza che occorra di indicarne il contenuto . (3) Se prestiamo
fede ai giureconsulti sarebbero state introdotte direttamente dalla
legislazione decemvirale le successioni e le tutele legittime e le legis
actiones, le quali sarebbero state composte dai pontefici sui termini stessi
delle XII Tavole. 401 è evidente lo sforzo dei decemviri di porgere alla plebe
un mezzo per uscire dalla posizione di fatto in cui si trovava , e procurarsi
invece una posizione di diritto ; come lo dimostra fra le altre cose la parte
assai larga fatta all'usus auctoritas, che compare qual mezzo per contrarre le
giuste nozze, per acquistare le cose mobili ed immobili, e qual modo di
acquisto della stessa eredità (1). Infine nella legislazione decemvirale si
rinviene eziandio una parte dovuta all'elaborazione di quel rigido ius
quiritium , che ebbe a formarsi sotto l'influenza del censo e delle altre
istituzioni serviane, i cui concetti fondamentali sono quelli del nexum , del
mancipium , del testamentum , dell'atto per aes et libram , nei quali tutti il
quirite appare con un potere senza confini, cosicchè la sua parola viene in
certo modo a convertirsi in legge : « uti lingua nuncupassit ita ius esto » ( 2
) . 322. Questi varii elementi di origine diversa , che insieme ad alcune
disposizioni particolari imitate dalle legislazioni greche (3) (1) Lo stesso è
pure a dirsi del riconoscimento della fiducia, la quale non avendo forma
giuridica dovette probabilmente nascere nelle consuetudini della plebe. Vedi in
proposito ciò che si disse quanto al contributo della plebe nella formazione
del di ritto romano ai numeri 148 a 157, pag. 182 e segg ., e sopratutto a pag.
184. Si ritornerà poi sull'argomento nel libro seg ., cap . IV , § 3, trattando
della mancipatio cum fiducia . ( 2) V. cap. precedente, relativo all'influenza
della costituzione serviana sulla for mazione del ius quiritium . ( 3) V.
Lattes, L'ambasciata dei Romani per le XII Tavole . Milano, 1884. Non può qui
essere il caso di trattare a fondo la questione della ambasciata in viata in
Grecia e ne quella dell'influenza greca sulle XII Tavole, questione che pud
aver bisogno di un nuovo stadio dopo la scoperta delle leggi di Gortyna: ma
credo che il seguente libro proverà fino all'evidenza , che le basi
fondamentali del primitivo ius quiritium sono desunte dalle istituzioni già
esistenti fra le genti italiche, e che furono eminentemente ed esclusivamente
romani così il modo in cui furono foggiati gli istituti giuridici, come il
processo logico e storico ad un tempo, con cui furono svolti. L'analogia
pertanto di certi istituti può anche essere prove nuta o dalla comune origine
ariana , o dalle condizioni analoghe, in cui si trova rono le genti italiche e
le elleniche nel passaggio dall'organizzazione per genti alla vita cittadina ;
mentre l'imitazione diretta si limita a disposizioni di poca impor tanza, la
cui origine ellenica è sempre di buon animo accennata dagli autori la tini, che
non disconobbero mai la sapienza dei Greci, pur affermando la propria
superiorità in tema di diritto. Cfr . Voigt, XII Tafeln , I, pag. 10 a 16, dove
pare si trovano raccolti i passi degli antichi autori, che si riferiscono
all'argomento . Quanto all'influenza greca sulla giurisprudenza romana in
genere mi rimetto a ciò che ho scritto nella Vita del diritto , pag. 179 a 194
. 1. CARLE , Le origini del diritto di Roma , 26 402 formarono il substratum
della legislazione decemvirale, finiscono dopo di essa per svolgersi
contemporaneamente e quindi con essa può dirsi aver termine il ius quiritium
propriamente detto, e cominciare. invece l'elaborazione di un ius proprium
civium romanorum , in cui continuarono però a perdurare le primitive
istituzioni del ius quiritium . Ciò ci è dimostrato dall'attestazione di
Pomponio , se condo cui tutto quel diritto , che venne a formarsi sulla
legislazione decemvirale , mediante la iuris interpretatio , la disputatio
fori, e la formazione delle legis actiones, venne appunto ad essere indi cato
col vocabolo di ius civile (1). Anche qui pertanto si fa ma nifesto quel
singolare magistero, che si rivela poi in tutta la forma zione della
giurisprudenza romana, per cui, accanto al diritto già formato e consolidato ,
havvene una parte , che continua sempre ad essere in via di formazione. Per
talmodo accanto al ius quiritium , iniziatosi sopratutto colla costituzione
serviana, venne formandosi il ius civile, i cui esordii partono dalla
legislazione decemvirale ; poi accanto a questo si esplicò il ius honorarium ,
elaboratosi sopratutto sull'editto del Pretore; infine molto più tardi ancora,
secondo qualche autore, accanto al ius ordinarium viene formandosi il cosi
detto ius extraordinarium (2 ) . Parmi quindi giusto il ritenere, che colla
legislazione decemvirale si chiude il periodo delle origini propriamente dette,
in cui le varie istituzioni trovansi ancora allo stato embrionale , e comincia
il vero svolgimento storico del diritto romano, in cui le varie parti del di
ritto pubblico e privato , già procedendo separate le une dalle altre, debbono
anche essere studiate separatamente nel proprio sviluppo . È a questo punto
pertanto , che può essere opportuno un tentativo di ricostruzione di quel
primitivo ius quiritium , che a mio giudizio costituisce l'ossatura primitiva
di tutta la giurisprudenza romana, e può darci il segreto di quella dialettica
potente, che strinse insieme le varie parti della medesima. Spero che la
bellezza e l'im portanza grandissima del tema, e la luce, che può derivarne per
la spiegazione del diritto primitivo di Roma, il quale, quanto alle proprie
origini, non ha cessato ancora di essere un grandemistero, valgano a farmi
perdonare l'audacia del tentativo . ( 1) KUNTZE, Ius extraordinarium der
römischen Kaiserzeit. Leipzig , 1886 . (2 ) POMP., Leg . 2 , SS 5 e 6 , Dig. (
1-2). LIBRO IV . Ricostruzione del primitivo ius quiritium (*). CAPITOLO I. La
struttura organica del ius quiritium ed il concetto del quirite. 323. E
opinione pressochè universalmente adottata , che il primitivo diritto di Roma
porti in sè le traccie della violenza e della forza, e debba essere considerato
in ogni sua parte come il frutto di una evo luzione lenta e graduata ,
determinata esclusivamente dalle condizioni economiche e sociali, in cui
trovossi il primitivo popolo romano. Lo studio invece della genesi e della
formazione del ius quiritium , nel momento in cui per opera della costituzione
serviana comincio ad essere comune alle due classi , mi conduce a conclusioni
alquanto diverse. Questo ius quiritium , se nei vocaboli può ancora portare le
traccie di un periodo anteriore di violenza, nella sostanza invece è già il
risultato di una selezione e di un'astrazione potente, intesa da una parte a
trascegliere dal periodo gentilizio quelle istituzioni, (*) Ancorchè l'intento
di questo libro IV sia di isolare in certo modo quella parte del diritto
privato di Roma, che prima riuscì a consolidarsi sotto il nome di ius quiritium
, e a costituire così il nucleo centrale di quella elaborazione giuri dica, che
doveva poi durare per 14 secoli, mi riservo tuttavia anche qui la libertà di
seguire talvolta lo svolgimento logico e storico dei varii istituti giuridici,
anche oltre gli stretti confini del ius quiritium . Il motivo è questo, che
anche nella clas sica giurisprudenza occorrono certe singolarità, le quali, a
parer mio, non potranno mai essere spiegate, quando non siano sorprese alle
origini. Siccome infatti la carat teristica del tutto peculiare del diritto
romano consiste nell'essere il frutto di una elaborazione, che malgrado la sua
lunga durata non abbandono mai intieramente quei metodi e processi, con cui era
stata iniziata ; così in esso accade ben soventi, che negli ultimi sviluppi
occorrano certe apparenti singolarità ed anomalie, le quali non sono che una
conseguenza logica di fatti , che si avverarono nel principio della formazione,
e dell'indirizzo con cui questa ebbe ad essere iniziata . 404 - che potevano
accomodarsi alla vita della città, e dall'altra a sce verare l'elemento
giuridico da tutti gli altri punti di vista , sotto cui i fatti sociali ed
umani possono essere considerati. Il suo linguaggio rozzo ma efficace ; i suoi
concetti sintetici e comprensivi; le solennità tipiche , in cui esso si
manifesta ; la disinvoltura con cui si maneg giano tali solennità e si
trasportano da uno ad un altro negozio giuridico ; la coerenza organica delle
sue varie parti sono già la ma nifestazione di una potente logica giuridica ,
di cui appare investito il popolo romano fin dai proprii esordii, mediante cui
esso riesce a sceverare dalle proprie tradizioni del passato e dalle condizioni
so ciali, in cui si trova, tutto ciò che in esse havvi di strettamente e di
esclusivamente giuridico, modellandolo in altrettante costruzioni tipiche, che
concentrano in sè l'essenza giuridica dei fatti sociali ed umani. Lo stesso
nostro linguaggio sembra essere inadeguato ad esprimere una selezione di questo
genere, cosicchè ad ogni istante viene ad essere necessario di ricorrere a
vocaboli tolti dalle scienze fisiche , chimiche e naturali, perché è soltanto
nelle naturali forma zioni che possono essere sorprese delle sintesi e delle
analisi, ana loghe a quelle, che occorrono nel primitivo diritto di Roma. In
esso dispiegasi una logica giuridica cosi rigida, cosi geometrica, precisa e
coerente, che anche un giureconsulto , preparato da una lunga edu cazione
giuridica , stenterebbe a giungervi, e la quale può soltanto essere spiegata
con dire che ci troviamo di fronte a un popolo, giu rista per eccellenza, il
quale , guidato dalle proprie attitudini natu rali, esordisce con un capolavoro
di arte giuridica , che può essere considerato come un pegno della perfezione,
a cui esso giungerà più tardi nel suo lavoro legislativo. 324. Il diritto
quiritario infatti toglie dalla realtà il linguaggio ed i concetti primitivi ,
di cui esso si vale ; ma intanto li isola e li scevera per modo da ogni
elemento affine, che i primitivi concetti giuridici del popolo romano, al pari
dei suoi concetti politici, si pre sentano come altrettante concezioni logiche,
e costruzionigeometriche, che possono poi essere sottoposte a quella logica
astratta , che fu del tutto propria dei giureconsulti romani. Che anzi la
logica giuridica dei giureconsulti romani non si ma nifestò forse mai in modo
più vigoroso e potente, che nel modellare il concetto stesso del quirite e i
varii atteggiamenti , sotto cui il medesimo può essere considerato. Io non dubito
infatti di affermare, che il concetto stesso del quirite , in quanto si
considera come il 405 caput, da cui erompono le varie manifestazioni giuridiche
, deve per sè essere considerato come una concezione giuridica nel senso vero
della parola . Il quirite infatti non è l'uomo quale in effetto esiste, ma è
l'uomo isolato da tutti gli altri suoi rapporti, per essere consi derato sotto
l'aspetto esclusivo di capo di famiglia e di proprietario di terre. È come tale
soltanto , che egli conta nel censo serviano , ed è come tale eziandio, che
esso si presenta nel primitivo ius quiritium . Esso inoltre è anche
un'astrazione sotto un altro aspetto , in quanto che la logica giuridica lo
isola da tutti i vincoli religiosi e morali, a cui nel fatto possa essere sottoposto
, e lo concepisce come fornito di un potere illimitato e senza confini. Essa lo
considera come un pater familias, ancorchè in effetto non abbia figliuolanza ,
e in quanto è tale , gli attribuisce i poteri più illimitati. Egli infatti
quale capofa miglia ha il ius vitae et necis sulla moglie, sui figli, sui
servi; come proprietario pud usare ed abusare delle proprie cose ; come credi
tore può anche appropriarsi il proprio debitore, venderlo al di là del Tevere e
dividerne il corpo , se concorra con altri creditori ; come testatore pud
disporre in qualsiasi guisa delle proprie cose per il tempo per cui avrà
cessato di vivere. Col tempo questa potestà giuridica illimitata potrà apparire
eccessiva, in quanto che si verrà a riconoscere che il quirite potrà anche
abusare di essa , come il magistrato del proprio imperium , ed in allora si
cercherà di porre dei limiti al suo potere come padre, come proprietario, come
credi tore, come testatore , come padrone ; ma nel suo erompere primitivo
l'uomo, a cui appartiene l'optimum ius quiritium , è una indivi dualità
completa, che sotto l'aspetto giuridico non subisce limitazione di sorta . 325.
Il quirite poi, in base al censo serviano, riunisce due carat teri: quello cioè
di capo di famiglia e di proprietario di terre, e i medesimi si compenetrano
per modo, che i due concetti si vengono immedesimando l'uno nell'altro ,
cosicchè, quale padre di famiglia , esso apparisce come un proprietario , e per
essere proprietario deve essere un capo famiglia ; donde consegue, che anche i
due vocaboli di familia e di mancipium possono sostituirsi l'uno all'altro (1).
( 1) V. in proposito il Voigt, Die XII Tafeln , II, pag. 10 e 11, note 5 e 6 ,
ove son citati varii passi da cui risulta , che la familia in personas et in
res deducitur. Leg. 195, Dig. (50, 15 ). Cid pure accade del mancipium , il
quale talvolta è preso in significazione così larga da comprendere non solo le
cose, ma anche le persone 406 Nel censo infatti non comparisce che il caput, in
quanto unifica in sè medesimo persone e cose, e in quanto egli è libero ,
cittadino, in dipendente nel seno della famiglia . Esso conta per uno, ma
intanto rappresenta molte persone ad un tempo : cosicchè anche la proprietà ,
che trovasi posta in suo capo, mentre nel costume appartiene alla famiglia ,
sotto il punto di vista giuridico viene invece ad essere considerata come una
proprietà esclusivamente propria del capo di famiglia. Quasi si direbbe che
l'imperium del quirite nella propria casa viene ad essere foggiato sulmodello
stesso del regis imperium per quello che si riferisce alla città . Esso ha
impero sulle cose e sulle persone, al modo stesso che il magistrato ha
l'imperium domimi litiaeque, e l'una ed anche l'altra podestà , sotto il punto
di vista giuridico e politico , non hanno confine, sebbene nella realtà siano
contenute in stretti vincoli dal costume pubblico o privato . Di qui la
conseguenza, che mentre questo è il momento storico , in cui ap parisce più
senza confini il potere del padrone sugli schiavi , quello del marito sulla
moglie , quello del padre sui figli, noi intanto ab biamo tutti gli argomenti
per credere, che fu appunto questo il tempo, in cui fu migliore la condizione
degli schiavi, volontariamente accettata la subordinazione dei figli e della
moglie, e quello in cuiil potere del padre, cosi esorbitante nella sua
configurazione giuridica, nella realtà non ebbe a dar luogo a gravi abusi. Fu
sopratutto in questo primo periodo, che i figli dei servi erano allevati con
quelli del padrone; che le mogli, mentre giuridicamente potevano essere
ripudiate , nel fatto non conoscevano il divorzio ; che i figli prova vano la
severità del padre, non tanto nelle pareti domestiche, quanto piuttosto,
allorchè egli investito del pubblico potere giungeva a soffo care gli affetti
del sangue per far rispettare l'imperium , di cuitro vavasi insignito (1).
dipendentidal capo di famiglia, come lo dimostra l'espressione conservataci da
Gellio , secondo cui la mater familias è in manu mancipioque mariti. XVIII, 6,
9. Ciò però non toglie , che il vocabolo familia significasse di preferenza il
complesso delle per sone, e quello di mancipium il complesso delle cose, che
erano soggette al potere del capo di famiglia. Cid apparirà meglio in questo
stesso capitolo, $ 4, in cui si discorrerà appunto del mancipium , e delle sue
varie significazioni. ( 1) La causa di questo contrasto tra l'ordinamento
giuridico della famiglia e le condizioni reali della medesima sarà meglio posta
in evidenza al cap . 1, § 1°, ove si discorre del ius connubii. Quanto alla
figura del padre di famiglia patriarcale durante il periodo gentilizio, vedi
sopra il nº 94 , pag. 119 . 407 326. Se non che è ovvio il chiedersi, in qual
modo siasi potuto modellare in modo così vigoroso ed efficace la figura del
quirite . Io non dubito di rispondere che questa concezione dell'uomo sotto
l'aspetto esclusivamente giuridico , se per una parte fu determinata dalle
condizioni economiche e sociali, dall'altra fu anche l'effetto di una potente
astrazione giuridica , compiuta da un popolo con un pro cesso mentale non
diverso da quello , che seguirebbe un giureconsulto moderno. Gli elementi
preesistevano nella organizzazione gentilizia e consistevano nella figura del
capo di famiglia, e nel concetto della proprietà , che a lui apparteneva. Mediante
un lavoro di astrazione, che è famigliare al giureconsulto, i due concetti di
capofamiglia e di proprietario furono staccati dall'ambiente, in cui si erano
for mati, furono isolati da tutti gli altri rapporti di carattere gentilizio,
riguardati attraverso il crogiuolo del censo , in cui persone e cose
dipendevano da un solo caput, e ne eruppe cosi questa figura tipica del quirite
, che è soldato ed agricoltore , capo di famiglia e proprietario , individuo e
capo gruppo , il quale sotto un aspetto è una realtà e sotto un altro è già una
astrazione o concezione giuridica. Lo stesso è a dirsi delle due istituzioni
fondamentali della famiglia e delle proprietà, quali vengono a presentarsi nel
ius quiritium la cui formazione fu determinata dalla costituzione serviana, An
ch'esse sono tratte dalla realtà , e sono due ruderi dell'organizzazione
gentilizia , nel senso vero e proprio della parola , salvo che, traspor tate
nel seno delle città e cosi isolate dall'ambiente, che le circon dava, fanno su
chi le considera un effetto analogo a quello di quei ruderi delle mura
serviane, che circondate da un' aiuola si incon trano nella Via Nazionale di
Roma moderna. Di qui la conseguenza, che anche la proprietà e la famiglia
debbono essere considerate come due costruzioni giuridiche, in quanto che esse
non sono la pro prietà e la famiglia , quali effettivamente esistevano, ma sono
il frutto di un'elaborazione giuridica, per cui l'una e l'altra sono iso late
da quegli elementi, sopratutto religiosi e morali, che nella realtà ne
moderavano la rigidezza. Siccome infatti il quirite, come tale, non è più nè il
gentile, nè il cliente, né il patrizio, nè il plebeo , ma è un capo famiglia ,
considerato come padrone assoluto delle cose e delle persone, che da lui
dipendono ; cosi l'aureola del buon co stume , del consiglio domestico , del
consiglio degli anziani, delle tradizioni del villaggio , della religione, di
cui il padre antico era il sacerdote , viene a scomparire pressochè
intieramente nel diritto 408 quiritario. In questo più non scorgesi,
giuridicamente parlando, che un caput, che è proprietario e padre ad un tempo,
e il cui potere (manus) sulle persone e sulle cose, che ne dipendono (mancipium
o familia ), apparisce senza confini, rendendo cosi possibile l'applicazione di
una logica, il cui processo sarebbe stato ad ogni istante interrotto , se si
fosse dovuto tener conto degli altri vincoli e rapporti, in cui il quirite
effettivamente si trovava. 327. Lo stesso deve pur dirsi di quel carattere,
cosi saliente nel di ritto primitivo di Roma, per cui i poteri sulle persone e
sulle cose vengono ad immedesimarsi l'uno nell'altro, e possono quindi essere
in dicati coimedesimivocaboli, rivendicati nella stessa guisa , e trasmessi col
medesimo atto . Anche ciò non deve ritenersi come indizio , che per i Romani la
potestà del padre si confondesse colla proprietà : ma è unicamente il frutto di
una elaborazione giuridica, in quanto che questi due poteri, dovendo passare
per il crogiuolo del censo , venivano in sostanza a ridursi tutti al concetto
del mio e del tuo . Ed a questo riguardo credo di non esagerare dicendo, che fu
una grande ventura per il diritto romano , che il medesimo fosse cosi costretto
a modellare ogni diritto sopra quello di proprietà , in quanto che non eravi
certamente altro concetto , che potesse meglio acco modarsi a tutte le
applicazioni della logica giuridica. Se questa infatti avesse dovuto applicarsi
alle persone, si sarebbe ad ogni istante inceppata in considerazioni di umanità
, mentre spiegandosi in certa guisa di fronte alle cose potė spingersi a tutte
le deduzioni, di cui poteva essere capace , e per tal modo il diritto potè appa
rire in certi casi inumano e crudele , ma la costruzione giuridica venne ad
essere più logica e più coerente . Cosi deve pure attribuirsi ad una
elaborazione giuridica, resa ne cessaria dalle condizioni, sotto cui patriziato
e plebe entravano a far parte della comunanza, quel concetto , per cui quella
proprietà, che nel costume ritenevasi appartenere alla famiglia ,
giuridicamente in vece venne ad essere considerata come spettante ad un
individuo , che poteva disporne in qualsiasi guisa. Questo infatti era il solo
modo di combinare il concetto della proprietà famigliare , che era proprio del
patriziato, con quello della proprietà privata ed individuale, che era la sola,
che fosse conosciuta dalla plebe. Fondendosi insieme, le due formedi proprietà
diedero origine a quella singolare istituzione della proprietà quiritaria , che
nel costume si ritiene della famiglia , e in diritto si considera come
esclusivamente propria del padre, per 409 cui tutto ciò , che acquistano gli
altri membri della famiglia , a lui solo appartiene ( 1). 328. Fermo cosi nelle
sue linee generali il concetto fondamentale del quirite , quale ebbe ad uscire
dal crogiuolo del censo istituito da Servio Tullio, viene ad essere facile il
comprendere come i varii atteggiamenti, sotto cui esso può essere considerato ,
abbiano potuto essere scomposti ed analizzati, e abbiano così data origine ad
al trettante concezioni giuridiche foggiate sullo stesso modello . Il quirite
infatti costituisce in certo modo la configurazione giu ridica dell'umana
persona, quale allora poteva essere concepita , e come tale può essere
considerato : – o in quanto sta , ossia nella posizione giuridica (status), che
egli tiene nella comunanza quiri tiana: - o in quanto egli si muove ed agisce,
ossia in quanto egli entra in rapporti con altri quiriti. In quanto sta , ossia
in quanto egli tiene uno status, questo può essere scomposto nei suoi varii elementi,
e quindi il quirite viene ad avere un caput, che comprende tutta la sua
capacità giuridica come quirite ; una manus, che inchiude il complesso dei
poteri, che gli appartengono ex iure quiritium ; un mancipium , il quale
implica parimenti nella sua significazione primitiva così le persone, che le
cose, che da lui dipendono per diritto quiritario . È poi degno di nota , che
tutti questi vocaboli, in cui viene ad essere racchiusa l'individualità
giuridica del quirite, hanno una significazione mate riale e giuridica ,
concreta ed astratta ad un tempo . Cosi, ad esempio , il vocabolo caput, mentre
da una parte indica la parte più nobile ed importante del corpo, dall'altra
designa la capacità giuridica poten ziale del quirite che è come la sorgente di
tutti i diritti spettanti al medesimo; quello dimanus,mentre esprime l'organo
mediante cui si esplica la forza e l'energia fisica dell'uomo, è ad un tempo il
sim bolo efficacissimo dell'attività giuridica che si viene estrinsecando in
certi determinati poteri ; e quello infine di mancipium da ma nucaptum , mentre
da una parte significa una cosa, che per essere materialmente afferrata dalla
manus, non può sfuggire alla mede sima, dall'altra indica eziandio lo stato di
sottomissione giuridica , in cui vengono a trovarsi le persone e le cose che da
essa dipendono. (1) Questo carattere speciale della proprietà quiritaria e il
modo in cui essa potè formarsi saranno meglio spiegati nel cap. seg ., $ 6 ,
ove si discorre dell'origine del dominium ex iure quiritium . 410 Questi varii
elementi poi, intrecciandosi fra di loro, costituiscono un tutto organico e
coerente ; poichè, tanto nel significato mate riale quanto nel giuridico , la
manus viene in certo modo ad esser e il termine di mezzo fra il caput che la
dirige e il mancipium che dipende dalla medesima. In quanto invece si muove ed
agisce, il quirite viene a contatto coi proprii simili, e quindi le sue
estrinsecazioni giuridiche possono essere richiamate: al connubium , da
cuideriva , si può dire, tutto il diritto , che si riferisce alle persone; al
commercium , in cui si com pendiano tutte le manifestazioni giuridiche, che si
riferiscono alle cose ; all'actio, da cui scaturisce tutto quel complesso di
proce dure, con cui egli pud far valere qualsiasi suo diritto : vocaboli anche
questi, che hanno pure una significazione materiale e giuridica ad un tempo.
Tutti questi elementi poi, mentre concorrono a costituire l'organismo del
tutto, sono percorsi da un proprio concetto informa tore, che si viene
logicamente svolgendo, e che dà cosi origine a quella dialettica latente della
giurisprudenza romana, colla quale sol tanto si possono spiegare certe
peculiarità del diritto romano. Intanto è da notarsi, che tutto questo bagaglio
del diritto quiri tario è tolto in sostanza dal periodo gentilizio , perchè già
in esso eransi formati i concetti del caput per indicare il capo del gruppo
famigliare o gentilizio , della manus per indicare il complesso dei suoi
poteri, e del mancipium per indicare le cose e le persone che gli erano soggette
; come pure in esso , già si erano preparati i concetti di connubium , di
commercium e di actio . Vi ha però questa differenza, che mentre questi un
tempo indicavano dei rap porti, che intercedevano fra i membri delle varie
genti, ora indi cano invece la posizione speciale, che il quirite prende nella
co munanza quiritaria , ed i varii aspetti sotto cui dispiegasi l'attività
giuridica del quirite nei suoi rapporti cogli altri quiriti (1). Quindi è, che
mentre questi concetti un tempo avevano una significazione , che era
determinata dall'ambiente, in cui si erano formati; ora invece, essendo
staccati dall'ambiente stesso , si cambiano in altrettante forme e concezioni
logiche, e come tali diventano capaci di uno svolgi mento logico e storico
compiutamente diverso, la cui ricostruzione formerà oggetto dei capitoli
seguenti. (1) Il naturale processo , in base a cui venne formandosi un diritto
fra le varie genti, fu spiegato più sopra ai nn. 94 e seg ., pag. 117, e quello
per cui i concetti intergentilizii così formati si cambiarono in concetti
quiritarii trovasi descritto al n ° 266 , pag. 326 e seg. - 411 CAPITOLO II. Il
quirite nel suo status. § 1. – Il censo serviano e la genesi dei concetti di
caput, manus , mancipium . 329. Anche oggidi il più arduo problema, che
presentino le ori gini del ius quiritium , consiste nello spiegare come mai il
mede simo si trovasse di un tratto isolato da quell'ambiente religioso e
gentilizio , in cui erasi formato , e come esso abbia potuto prendere le mosse
da concetti così sintetici e comprensivi, quali sono quelli di caput, manus ,
mancipium . Come mai potè accadere, che quel ius, che presso le genti patrizie
era ancora soverchiato dal fas ed ed avviluppato nel mos ( 1), sia pervenuto
pressochè di un tratto ad affermare la propria esistenza e a ricevere uno
svolgimento lo gico e storico del tutto distinto da quello della religione e
della mo rale ? In qual modo parimenti potè accadere, che un diritto, il quale,
secondo l'attestazione dei giureconsulti, ebbe a formarsi « necessi tate
exigente et rebus ipsis dictantibus » , siasi iniziato con sintesi potenti, che
inchiudono in germe tutti i suoi ulteriori svolgimenti ? Son note in proposito
le divergenze degli autori e le congetture innumerabili, che furono poste
innanzi, ed è certo assai difficile di giungere ad una risoluzione, che possa
rispondere a tutte le ob biezioni. Persuaso tuttavia, che per comprendere le
istituzioni di un popolo , sia sopratutto indispensabile di spogliarsi delle
idee del tempo , per trasportarsi nell'ambiente e nel pensiero del popolo , fra
cui quelle istituzioni giunsero a formarsi, io ritengo che il solo modo per
giungere a comprendere questa singolare formazione del ius quiritium e la
significazione dei concetti da cui esso parte, sia quello di ricostrurre in
base alle condizioni economiche e sociali , in cui si trovavano il patriziato e
la plebe, quella comunanza quiritaria , (1) Il carattere eminentemente
religioso del diritto primitivo delle genti patrizie fu dimostrato più sopra,
lib . I, cap. V , pag. 90 a 104, discorrendo dei rapporti fra il mos, il fas e
il ius. Il medesimo poi si mantenne ancora durante il periodo della città
esclusivamente patrizia, come lo dimostra l'analisi delle leges regiae fatta ai
nn. 268 a 270 , pag. 329 e segg. 412 la cui formazione ebbe ad essere
determinata dalla costituzione e dal censo di Servio Tullio . 330. Credo di
avere dimostrato a suo tempo come il patriziato e la plebe, anteriormente
all'epoca serviana, non avessero comuni nè la religione, né i costumi, nè
l'organizzazione gentilizia , nè i connubii, che sono il fondamento
dell'organizzazione domestica. I soli diritti, che la città patrizia avesse
accordati alle plebi circo stanti, non devono neppure essere indicati col nome
di ius com mercii , ma bensi con quello di ius nesi mancipiique ; il quale
consisteva nel diritto dei plebei di potersi obbligare vincolando la propria
persona, e di poter disporre di quelle possessioni, che essi tenevano nel
territorio romano (1). È quindi evidente che, se era possibile una comunanza
fra i due ordini, questa nelle origini non poteva avere nè un carattere
religioso e neppure un carattere mo rale, ma poteva solo avere un carattere
esclusivamente economico , giuridico e militare. Ne consegui pertanto, che per
formare questa comunanza venne ad essere necessario di sceverare affatto il
ius, nel senso stretto e rigido della parola , dal fas e dal mos, con cui prima
trovavasi implicato nelle istituzioni delle genti patrizie . Questa selezione
erasi già in parte iniziata col formarsi della città esclusivamente patrizia,
poichè già fin d'allora erasi venuta distin guendo la vita pubblica dalla
privata ed erasi già in parte affie volita l'organizzazione gentilizia (2) ; ma
la medesima dovette spin gersi ben più oltre coll'accoglimento nel populus di
un elemento , a cui non erasi riconosciuto che il ius neximancipiique. Di qui
la rigidezza singolare, che ebbe ad assumere il ius quiritium , allorchè
cominciò ad essere comune al patriziato ed alla plebe ; poichè da quel momento
esso venne ad essere sottratto a quell'au reola religiosa e patriarcale , che
dominava il periodo gentilizio , e fu sottoposto all'impero di una logica del
tutto sua propria . Se non che , anche in tema di diritto, nel senso stretto
della pa rola , non tutte le istituzioni potevano servire di base alla comu (1
) V., quanto alla condizione della plebe, il lib . I, cap. IX , pag. 180 a 196,
e quanto al ius nexi mancipiique, spettante alla medesima, il nº 160 , pag. 198
e 199 , come pure il nº 287, pag. 351 e 352. (2) Che anche il diritto della
città patrizia supponesse una specie di selezione fra le istituzioni delle
varie genti, operatasi per opera dei collegi sacerdotali e sotto forma di
legislazione regia , fu dimostrato nel libro II, cap. IV , SS 1º , 2º e 3º,
pag. 303 a 333. - 413 nanza quiritaria, ma soltanto quelle che in effetto erano
comuni ai due ordini, o che erano tali da rendere possibile un ravvicina mento
fra di loro . Quindi anche in fatto di diritto convenne fare astrazione da
tutti quei rapporti, che per il momento non potevano essere comuni, per fissare
lo sguardo su quei rapporti e su quegli interessi, in base a cui essi potevano
partecipare alla stessa comu nanza. Siccome quindi l'interesse, che avevano il
patriziato e la plebe ad entrare in una stessa comunanza, era sopratutto
l'interesse della comune difesa , così la comunanza quiritaria assunse in que
st'epoca un carattere più esclusivamente militare , che prima non avesse .
Siccome parimenti gli unici rapporti, per cui poteva avve. rarsi un ravvicinamento
fra di loro, erano quelli relativi alla fa miglia unificata sotto il proprio
capo, e alla proprietà spettante alla famiglia stessa, così il ius quiritium
comune ai due ordini cominciò a consolidarsi nella parte relativa alle due
istituzioni fondamentali della proprietà e della famiglia . 331. Di cid è
facile persuadersi quando si considerino le condi zioni rispettive dei due
ordini, che dovevano partecipare alla stessa comunanza . Da una parte eran vi i
membri delle gentes patriciae , i quali ancorchè fossero i fondatori della
città , continuavano però sempre ad essere organizzati per gruppi,
sovrapponentisi gli uni agli altri (famiglie , genti, e tribù gentilizie), come
lo dimostra il fatto, che il popolo primitivo era diviso per curiae , le quali
erano appunto for mate ex hominum generibus. Il patriziato pertanto non aveva
in certo modo il concetto della individualità nello stretto senso della parola,
ma solo il concetto dei diversi gruppi e dei capi che rap presentavano
imedesimi. Di questi gruppi poi ilmeno esteso e il più strettamente unificato
era quello della famiglia , fondata sulla agna zione, e riunita sotto la
potestà del padre . - Dall'altra parte in vece eravi la plebe, la quale,
essendo una moltitudine di individui rimasti liberi dalla clientela , o
immigrati da altre città , o traspor tati da popolazioni conquistate,
componevasi invece di individui anche isolati o tutto al più di famiglie , le
quali non erano più strette insieme dal vincolo di agnazione, ma piuttosto da
quello più naturale dell'affinità e della cognazione (1 ). (1) V.,quanto
all'organizzazione gentilizia del patriziato, il lib . I, cap. IV , e quanto
alle condizioni della plebe, il lib . I, cap. IX. 414 Queste differenze poi,
che esistevano fra di loro quanto alla loro organizzazione, si riflettevano
eziandio nelle loro condizioni econo miche. Da una parte infatti continuava a
prevalere presso le gentes patriciae la proprietà collettiva dell'ager
gentilicius o dell'ager compascuus, il che però non impediva che esse già
conoscessero una specie di proprietà famigliare e privata , la quale era
designata col vocabolo di heredium . Questo consisteva nell'assegno, che le
varie gentes facevano sull'ager gentilicius ad ogni gentile, che passando a
matrimonio veniva a fondare una nuova famiglia , ed era a somi glianza di esso,
che secondo la tradizione anche Romolo aveva fatto a ciascuno dei suoi seguaci
un assegno, il quale pur riteneva il nome di heredium . Il medesimo quindi
costituiva in certo modo il patrimonio famigliare, e come tale non poteva
essere alienato senza il consenso degli altri capi di famiglia , ma doveva
invece trasmettersi dai genitori ai figli, e mantenersi per quanto si poteva
indiviso (ercto non cito ); ma intanto , essendo già intestato al capo di famiglia
, cominciava ad avvicinarsi alla proprietà individuale e privata . Dall'altra
invece la plebe, non avendo l'organizzazione gentilizia , non poteva neppure
avere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius e dell'ager compascuus. Di
qui conseguiva, che i plebei nel fatto si trovavano stabiliti sopra certi spazi
di suolo, che essi avevano occupato sul territorio romano, o di cui avevano
ottenuto il godimento da qualche gens patricia , o che loro erano stati as
segnati dal re sullo stesso ager publicus. È quindi evidente, che questi
stanziamenti della plebe, essendo una applicazione del ius mancipii alla
medesima accordato , più non potevano essere chia mati col vocabolo di heredia,
poichè questo conteneva ancora l'idea di un patrimonio avito da trasmettersi
agli eredi, ma potevano in vece più acconciamente indicarsi col vocabolo
dimancipia, poichè essi erano state effettivamente manucapti, e perchè fino a
quel punto costituivano piuttosto semplici possessi, che non vere proprietà al
punto di vista gentilizio (1). 332. In questa diversità di condizioni egli è
evidente, che il (1) Quanto al concetto dell'heredium , come forma della
proprietà famigliare nel periodo gentilizio , vedi il nº 56 , pag. 70 ; ma devo
aggiungere, che dettando quelle pagine non aveva ancora ravvisata la differenza
esistente fra l'heredium ed il man cipium , nè aveva cercato di spiegare come
perchè all'heredium del periodo genti lizio fosse sottentrato nel ius quiritium
il concetto di mancipium . - 415 censo , dovendo comprendere i due ordini, non
poteva tener conto che degli elementi, che erano loro comuni. Se il censo
quindi avesse dovuto farsi di soli patrizii, si sarebbe dovuto indicare la
famiglia, la gente e la tribù gentilizia a cui ap partenevano, e avrebbesi così
avuto un censo fondato sulla discen denza, come quello sovra cui dovevano
probabilmente essersi for mate le curiae. Se esso invece avesse dovuto
comprendere i soli plebei, si sarebbe dovuto procedere per capita ; poichè fra
essi ve ne erano anche di quelli, che solo avevano il loro caput, e che non
avrebbero potuto indicare la loro vera discendenza. Siccome invece il censo,
come base della nuova comunanza quiritaria, do veva comprendere gli uni e gli
altri ; cosi la soluzione fu la più naturale di tutte , quella cioè di dare al
censo non più una base genealogica (ex hominum generibus), che avrebbe potuto
compren dere solo i patrizii ed alcune famiglie plebee, ma bensì una base
territoriale e locale (ex regionibus et locis) (1), che poteva com prendere gli
uni e gli altri, e di censire gli abitanti, non per genti e neppure per
famiglie, ma per capita , attribuendo perd al voca bolo di caput la doppia
significazione di individuo e di capo di quel gruppo famigliare , che era
appunto il solo, che fosse comune al patriziato ed alla plebe. Così pure se si
fosse trattato di censire le proprietà patrizie , si sarebbe dovuto prendere
come base la proprietà collettiva della gens (ager gentilicius), nella quale
sarebbero anche rientrati gli heredia delle singole famiglie ; ma volendosi anche
censire i possessi e gli stanziamenti della plebe , convenne di necessità
prendere a base del censimento quella sola forma di proprietà e di possesso,
che apparteneva ai patrizii sotto il nome di heredium , e ai plebei sotto
quello di mancipium . Tuttavia questa proprietà individuale e famigliare ad un
tempo, che era comune ad entrambi gli ordini, non potè più essere indicata
acconciamente col vocabolo di here dium , il quale era pur sempre una
istituzione di origine gentilizia, ma potè esserlo più acconciamente con quello
di mancipium , il quale , oltre al rispondere perfettamente ai concetti di
caput e di inanus, aveva anche il vantaggio di significare al tempo stesso la
proprietà e il possesso , e di esprimere con potente efficacia quel carattere di
proprietà esclusiva ed individuale , che veniva ad assu ( 1) Gellio , XV, 28, 4
. 416 mere quel patrimonio , che nel censo era intestato ad una deter minata
persona. La conseguenza intanto fu questa , che nella comunanza quiritaria ,
formatasi in base alla costituzione ed al censo serviano, mentre il patrizio fu
isolato in certo modo dall'ambiente gentilizio , in cui esso prima si trovava,
il plebeo ottenne invece il riconoscimento ufficiale del possesso, sovra cui
esso era stabilito. L'uno e l'altro comparvero nel censo come quiriti, ossia
come capi di famiglia e come proprietarii di terra ; ebbero un complesso di
diritti comuni, che prese appunto il nome di ius quiritium . Così pure la
comunanza quiritaria , avendo una base economica , venne a considerare ogni
cosa sotto l'aspetto del mio e del tuo, e assunse eziandio una impronta emi
nentemente militare, che spiega quel carattere di forza e di vio lenza che è
inerente al ius quiritium e si rivela nei vocaboli e nei simboli da esso
adoperati. 333. Pongasi ora, che trattisi di comprendere in certe rubriche ,
che si adattino per la formazione del censo , l'individualità giuridica di
questo quirite, e anche oggidi sarebbe forse difficile di sovrap porre a queste
varie rubriche vocaboli più sintetici e compren sivi e al tempo stesso più
esatti e precisi di quelli di caput, manus, mancipium . Nella categoria del
caput verrà il nome del cittadino, libero e sui iuris, come individuo e come
capo di famiglia , e vi saranno le indicazioni del suo nome, della sua età ,
della tribù locale a cui appartiene , la cui indicazione finirà anzi per formar
parte delle denominazioni ufficiali del cittadino romano (1). Nella seconda
rubrica invece saranno indicati i poteri, che a lui ap partengono sulle
persone, che entrano a costituire il gruppo , di cui egli è capo , sulle
persone cioè , che siano in manu , in potestate, in mancipio, e siccome questa
enumerazione dovrà naturalmente par tire dalla moglie, che trovasi sotto la
manus, così può spiegarsi come tutti questi poteri vengano sotto la
intitolazione generica di manus. Nella terza categoria infine comparirà il
mancipium , ossia il complesso delle persone e delle cose , che costituivano il
vero patri monio del quirite , in quanto egli era un capo di famiglia indipen
dente e sovrano. (1) Che il nome della tribù, a cui il cittadino apparteneva,
entrasse nelle deno minazioni ufficiali del medesimo, appare da una quantità
grandissima di iscrizioni. V. in proposito il MICHEL, Du droit de cité romaine,
Paris, 1885. 417 Questo mancipium pertanto non potrà più comprendere nè l'ager
gentilicius, come quello che non appartiene al capo di famiglia, ma alla gente
; né le mandrie e gli armenti, che pascolano in questo ager gentilicius; né
eziandio le possessiones , che si possano avere nell'ager publicus; nè la
pecunia circolante , il cui ammontare pud essere variabile e non si presta ad
una constatazione esatta e pre cisa, quale è quella richiesta per un censo ; ma
dovrà invece com prendere soltanto quella proprietà , che costituisse in certo
modo il patrimonio normale, costante, e pressochè tipico di un capo di fa
miglia agricola , nelle condizioni economiche e sociali in cui trova vasi
allora il popolo romano. Egli è probabile infatti, per chi tenga conto della
tendenza delle genti italiche a modellare i loro istituti sul medesimo tipo ,
che quel mancipium , che doveva figurare nel censo , quale patrimonio asso luto
ed esclusivo del quirite, tendesse nella generalità dei casi ad essere
configurato nella istessa guisa . Per verità se trattavasi dell'heredium ossia
dell'assegno fatto ad un capo di famiglia di gente patrizia , il medesimo
probabilmente doveva consistere in uno spazio dell'ager gentilicius, che
potesse bastare all'abitazione e al sostentamento di lui e della sua famiglia ;
ed è certo a somiglianza di questi primitivi assegni, che, salve le proporzioni
, dovettero es sere configurati gli assegni, che le genti facevano ai clienti,
e quelli parimenti che i re facevano alla plebe. Di qui consegui na turalmente
che, facendo astrazione dalla quantità maggiore o mi nore di iugera , o
dall'ampiezza maggiore o minore della domus in città o del tugurium nel
contado, dovette formarsi una configura zione tipica del podere del quirite.
Che anzi non è punto impro babile , che nella formazione del censo , dovendosi
ridurre a categorie generali le cose essenziali, che entravano a costituire
questo man cipium , anche queste fossero raccolte sotto certe denominazioni ti
piche, quali sarebbero quelle di praedia , di praediorum instru menta (servi, quadrupedes
quae dorso collove domantur), di praediorum servitutes (iter, via, actus,
aquaeductus); le quali po terono assai naturalmente essere indicate col
vocabolo complessivo di res mancipii, come quelle che effettivamente entravano
a costi tuire il mancipium (1). (1) Mi limito qui ad accennare in genere come
possa esser nato e siasi svolto l'importantissimo concetto del mancipium ,
perchè le molteplici questioni al riguardo saranno prese più opportunamente in
esame in questo stesso capitolo , § 4º, ove si G. Carle, Le origini del diritto
di Roma . 27 - 418 334. Intanto una conseguenza necessaria di questa specie di
se lezione del patrimonio , che apparteneva ad ogni singolo capo di fa miglia ,
veniva ad essere questa , che le res mancipii , come quelle che servivano a
determinare la posizione di esso nella comunanza quiritaria , costituissero
come una specie di proprietà privilegiata , che doveva ritenersi appartenere in
modo assoluto ed esclusivo al quirite, a cui trovavasi intestata. Si vengono
così a comprendere le espressioni più antiche di mancipium facere , mancipio
dare, mancipio accipere, le quali dapprima dovettero significare la costi
tuzione di una cosa nel mancipium , e poi anche l'acquistare e il trasmettere
una cosa , che fa parte del mancipium ; finchè la fre quenza di questi atti non
condusse a creare un vocabolo apposito, che è quello di mancipare , da cui
derivò appunto quello della mancipatio, la quale venne cosi ad essere il modo
proprio ed esclu sivo per l'alienazione delle res mancipii (1 ). Non conseguiva
tuttavia da cid , che non esistessero altri beni, di cui il cittadino avesse
l'effettivo godimento : ma questi non con tavano nel determinare la sua
posizione di quirite , non entravano a costituire il suo contributo alla
comunanza quiritaria , e come tali non erano dapprima oggetto di proprietà
assoluta ed esclusiva, nelvero senso della parola : essi formavano piuttosto
oggetto di uso e di godimento, ed erano compresi genericamente in una categoria
ne gativa, che più tardi fu denominata delle res nec mancipii, le quali perciò
potevano essere alienate collasemplice traditio . Può dirsi pertanto , che il
mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente constatata del
cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o godimento, ma non
proprietà nel senso vero della parola e al p semplice traditio . Può dirsi
pertanto , che il mancipium fu in certo modo la prima pro prietà ufficialmente
constatata del cittadino romano , fuori della quale poteva esservi uso o
godimento, ma non proprietà nel senso vero della parola e al punto di vista
quiritario . È poi questa se parazione, che a causa del censo si venne operando
fra l'intesta zione ufficiale della proprietà di una cosa, e l'effettivo
godimento di essa, che ci spiega come negli antichi autori si contrappongano
tratterà ex professo del mancipium e della distinzione delle res mancipii e nec
mancipii. L'idea che la distinzione delle res mancipië e nec mancipii dovesse
avere qualche attinenza col censo Serviano ebbe già ad essere enunciata dal
PUTTENDORF, dal LANGE, dalWANGERON, dal Kuntze, ed è anche seguìta presso di
noi dal SERAFINI, Istituz., Firenze, 1881, § 21. Vedi lo Squitti, Resmancipi e
nec mancipi, Napoli, 1885, pag. 51, gli autori ivi citati, e gli argomenti che
egli adduce contro questa opinione, quale ebbe ad essere fino ad ora formulata
. ( 1) Cfr. BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma 1888, pag. 90 . 9 419
talvolta i concetti dimancipium e quelli di usus fructus (1), e come più tardi
abbia potuto accadere, che una persona avesse sopra una cosa il nudum ius
quiritium , mentre un'altra invece ne aveva l'ef fettivo godimento (in bonis ).
È poi facile a comprendere come questa posizione privilegiata, in cui venne ad
essere collocato il mancipium , abbia anche cooperato efficacemente a
dissolvere la proprietà collettiva dell'ager gentilicius , e con essa a
dissolvere eziandio l'organizzazione gentilizia , la quale venne in certo modo
ad essere senza base , allorchè manco del suo fondamento economico. Ogni gens
patricia infatti, se volle avere una quantità di suffragii anche nelle
centurie, ove fini per concentrarsi la somma del pubblico potere, dovette
affrettarsi a fare degli assegni di terra ai proprii membri non solo , ma anche
ai proprii clienti e per tal modo gli agri gentilicii vennero spartendosi, ed
all '« ercto non cito » , che indicava l'indivisione del patrimonio famigliare
nel periodo gentilizio , sottentrò il principio già riconosciuto dalle XII
Tavole , secondo cui altri non può essere costretto a rimanere in comunione suo
malgrado: « si erctum ciet , arbitros tres dato » (2 ). 335. Così spiegato il
censo serviano, viene a conseguirne che se vogliasi conoscere la vera posizione
del quirite , non come uomo, ma come membro della comunanza quiritaria , sarà nelle
tabulae censoriae, che a lui si riferiscono, che dovrà essere cercato il suo
vero status. Quindi se trattisi di un cittadino, libero e sui iuris, ma senza
potestà famigliare e senza patrimonio, egli sarà bensi un caput, ma, non avendo
che quello , sarà un capite census, e sarà (1) Questo contrapposto occorre più
volte nelle epistole di CICERONE, e fra le altre volte in una lettera ad Curium
, VII, 30, 2 ove scrive : « Cuius (Attici) quando « proprium te esse scribis
mancipio et nexo, meum autem usu et fructu , contentus « isto sum . Id enim est
cuiusque proprium , quo quisque fruitur atque utitur » ; il che significava in
sostanza, che egli preferiva al dominio ufficiale su Curio (man. cipium et
nexum ), che spettava ad Attico, il godimento effettivo (usus et fructus )
della sua conversazione. Altre volte però questo contrapposto ha una
significazione diversa , come nel bel verso di LUCR., III, 969 : « vita
mancipio nulli datur, omnibus usu » , ove mancipium si contrappone ad usus, in
quanto significa una cosa , che ci appartiene a discrezione, in guisa da
poterne usare ed abusare, ed indica così il potere illimitato ed esclusivo, che
competeva sulmancipium . Cfr. BONFANTE , op. cit., pag. 92, nota 2, e pag . 96,
nº 2 , e gli altri passi ivi citati. (2 ) Secondo la ricostruzione del Voigt,
op. cit., I, pag. 712, tale sarebbe stato il tenore della legge 16 , della
tavola V. 420 solo molto tardi, che la repubblica si contenterà di accettarlo
nella formazione del proprio esercito . Che se egli, pur non avendo il
patrimonio richiesto per entrare nelle classi e centurie , abbia tut tavia
qualche sostanza ( 1500 assi) ed una prole , che può crescere a benefizio della
repubblica e che può interessarlo per essa, egli figu rerà nel censo colla
prole stessa e colla manus, che gli appartiene sulla medesima, e sarà cosi
nella classe dei proletarii, la quale è già in condizione meno umile, poichè in
condizioni difficili potrà far parte, se non del vero esercito , almeno di una
specie di milizia raccogli ticcia (militia tumultuaria ), che sarà armata a
spese della repub blica (1). Infine se anche per ciò, che si riferisce al
mancipium , egli giunga a quella misura, che è necessaria per essere ammesso
nelle classi e nelle centurie, egli verrà ad essere adsiduus o locuples, e secondo
il valore maggiore o minore del suo mancipium potrà essere collocato in una
delle cinque classi, che formano il vero po pulus romanus quiritium . Queste
diverse categorie verranno poi ad essere così distinte fra di loro, che ancora
nelle XII Tavole per un adsiduus convenuto in giudizio per un debito , dovrà
rispon dere un altro adsiduus, mentre per il proletario potrà rispondere
chicchessia: « adsiduo vindex adsiduus esto ; proletario, iam civi, quis volet
vindex esto » ; ed è solo più tardi che, secondo l'atte stazione di Gellio , «
proletarii et adsidui evanuerunt, omnisque illa XII Tabularum antiquitas
consopita est » ( 2). Tutto ciò intanto spiega come dalle stesse tavole
censuarie si po tesse desumere lo status generalis del quirite sia come individuo
, che come capo di famiglia e proprietario . Siccome tuttavia, accanto alle
qualificazioni generali del capo gruppo , trovavansi pure nel censo le
qualificazioni speciali di pater familias, mater familias, di liberi, di servi,
di sui iuris , di alieni iuris, così anche queste varie gradazioni dello stato
giuridico, senza essere create dal censo , furono tuttavia nel medesimo
delineate , e per tal modo esso cooperd eziandio a svolgere e a precisare,
accanto al concetto generale del quirite come tale, anche il concetto degli
stati speciali, che una persona rappresentava nel gruppo a cui apparteneva. (
1) Questa condizione dei capite censi e dei proletarii, riguardo al servizio
mili tare, ci è attestata espressamente da GELLIO, XVI, 10 , $$ 10 a 15. Egli
poi, citando un passo di Sallustio, direbbe che i capite censi non furono
arruolati, che da C. Mario nella guerra contro i Cimbri, o in quella contro
Giugurta . ( 2 ) Gellio , XI, 6 , 10, 8 . - 421 336. Che se alle cose premesse
si aggiunga, che il censo all'epoca serviana fu il documento ufficiale dello
stato del cittadino, il quale serviva a determinare la sua posizione come
contribuente, come cit tadino e come soldato ad un tempo, per guisa che la sola
iscrizione nel censo poteva valere per la manomissione di un servo, sarà fa
cile il comprendere come esso abbia potuto in parte conferire a determinare il
linguaggio sintetico ed astratto, da cui prese le mosse il ius quiritium , ed
il processo con cui esso vennesi elaborando. Esso infatti fu uno dei mezzi più
potenti, mediante cui l'individualità giuridica del cittadino fu isolata da
tutti gli elementi estranei al diritto, ed il quirite fu sottratto all'ambiente
gentilizio in cui prima si trovava , ed obbligato a fermare il suo sguardo
sovra quei rapporti che comparivano nel censo . Esso parimenti fu una delle
cause per cui il ius. quiritium , che venne elaborandosi su questa trama pri
mitiva, perdette di un tratto quell'aureola religiosa , che circondava le
istituzioni delle genti patrizie, e potè essere svolto con una rigi dezza e con
una logica astratta , che sarebbero certo incomprensi bili, quando non si
conoscesse la causa , da cui poterono essere de terminate. Con ciò non intendo
già affermare , che i concetti, da cui prese le mosse il ius quiritium , siano
stati creati dal censo , poichè ho dimostrato invece che essi già preesistevano
; ma solo di provare , che il censo servi a dare loro una configurazione esatta
e precisa ; a separarli nettamente gli uni dagli altri ; a fare in guisa che
ciascuno avesse un'esistenza propria e distinta, an corchè fra tutti
concorressero a costituire una sola individualità giuridica . Fu in questo modo
, che al punto di vista quiritario ogni gruppo apparve in certo modo unificato
sotto il proprio capo ; che tanto il diritto sulle persone che quello sulle
cose nel l'elaborazione giuridica si ridusse ad una questione di mio e di tuo;
che ciascun gruppo, essendo per dir cosi racchiuso in una cate goria
determinata , ebbe un'esistenza cosi distinta da tutti gli altri gruppi, che i
membri dell'uno non potevano promettere nè stipu lare per quelli dell'altro ;
che infine anche le varie membra del quirite si vennero come dislogando le une
dalle altre , e poterono ricevere ciascuno un proprio sviluppo, dando così
occasione a quel l'automatismo di concetti e di istituti, che è uno dei
caratteri più salienti del diritto romano. Intanto questo sguardo generale ai
caratteri peculiari della co munanza quiritaria , quale si formò nell'epoca
serviana , e al censo che servi di base alla medesima, ci preparerà la via per
ricostruire 422 la storia primitiva dei concetti fondamentali di questa, che
può a ragione chiamarsi la parte statica del ius quiritium , in quanto fu in
parte determinata da una delle prime applicazioni della sta tistica per la
constatazione del numero, della forza e della ricchezza di un popolo (1). § 2.
– Il concetto del caput e la teoria della capitis diminutio. 337. Chi volesse
cercare le prime origini del concetto di caput, dovrebbe forse riportarsi col
pensiero a quell'epoca, in cui i fonda tori della città contavano dai capi i
proprii greggi ed armenti ; nè sarebbe a farne le meraviglie dalmomento, che
essi non dubitavano di chiamare ovilia quei recinti, in cui raccoglievansi le
centurie e le classi per dare il proprio voto nei comizii. Parmi tuttavia più
verosimile, che il vocabolo di caput dovesse, nel periodo gentilizio anteriore
alla formazione della città , avere quella significazione, che tuttora conserva
presso le popolazioni, che si trovano nelle stesse condizioni sociali, per cui
esso indica un capo di gruppo, quella per sona cioè, che avendo preminenza su
tutti quelli, che da essa di pendono e che la circondano, pud essere
considerata come il rap presentante, in cui si unifica il gruppo stesso .
Questo vocabolo poi, trapiantato nel censo serviano, viene ad indicare colui,
che conta per uno nel censo , e conserva cosi un'analogia colla significazione
anteriore, in quanto che il medesimo, pur essendo un individuo, unifica però in
sè stesso le persone e le cose che ne dipendono . Se per tanto altri non abbia
che il proprio caput e manchidi una sostanza valutabile nel censo stesso ,
verrà ad essere un capite census ; se invece abbia solo una sostanza, che
giunga ai 1500 assi e conti so . pratutto per la prole, che potrà produrre per
la repubblica, sarà un proletarius ; se infine abbia una sede fissa , e
sostanze sufficienti per (1) A scanso di ogni malinteso, devo qui dichiarare
che il concetto, che qui ap pare come direttivo nella ricostruzione della parte
statica del ius quiritium , non fu un presupposto, dal quale io sia partito, ma
fu il risultato ultimo, a cui mi con dussero pazienti e minute elucubrazioni
intorno ai singolari caratteri con cui esso si presenta. Questo paragrafo
pertanto fu l'ultimo ad essere scritto, ma ho creduto di premetterlo; perchè
esso, a mio avviso, agevola al lettore la comprensione di ciò che verrà dopo.
Ciò valga anche a farmi perdonare, se per avventura occorra qualche ine
vitabile ripetizione. 423 collocarlo nelle classi e per assicurare la città
della assiduità di lui a compiere le proprie obbligazioni di cittadino e di
soldato ad un tempo, verrà ad essere chiamato adsiduus o locuples ( 1). In ogni
caso, per avere integro il proprio caput e per poter contare per uno nel censo
, conviene essere libero, cittadino, e sui iuris nel seno della famiglia ; come
lo dimostra il fatto , che se altri abbia un figlio , che per aver raggiunta
l'età di 17 anni debba già entrare nelle classi e nelle centurie, non sarà esso
che conterà per uno, ma sarà invece il padre, che verrà ad essere un duicensus,
in quanto che egli viene ad essere censito con un'altra persona , cioè col
proprio figlio : « duicensus dicebatur cum altero id est cum filio, census » (2
). 338. È quindi facile il comprendere comefosse facile il passaggio dalla
significazione materiale del caput alla significazione giuridica di esso,
chiamando col vocabolo di caput il complesso delle condi zioni richieste per
figurare nel censo , ossia lo stato generale della persona. In tal modo il vocabolo
di caput cessa di indicare questo o quell'individuo in particolare, per
trasformarsi in una concezione logica ed astratta (persona ), la quale ,
ancorchè ricavata dalla realtà , può servire ad indicare il complesso delle
condizioni richieste, accid altri possa avere la capacità giuridica quiritaria
. Una volta poi, che il caput venne cosi ad essere cambiato in una concezione
astratta , il medesimo potè essere assoggettato ad una specie di analisi o di
scomposizione dei varii elementi, che entravano a costituirlo . Tali elementi
erano la libertas, la civitas e la qualità di sui iuris nel seno della famiglia
(3). Di qui la teoria della capitis diminutio , che non si ricavò
esclusivamente dai fatti, ma si svolse sulla concezione logica del caput; come
lo dimostra il fatto, che anche l'emancipato, anche l'arrogato , sebbene in
sostanza vengano talvolta a migliorare (1) Quanto all'etimologia di questi
vocaboli vedi il $ prec., nº 335. (2 ) V. Festo , vº duicensus ; Bruns, Fontes,
pag. 337. (3) V. quanto al concetto di caput, Herzog , Gesch . und Syst., I,
pag. 997; il KRÜGER, Geschichte der capitis diminutio, Breslau, 1887, $ 5 “,
pag. 49 a 67, ove prende in esame il concetto di caput nei diversi autori
moderni, sopratutto germa nici. Egli poi sembra ritenere, che il concetto di
caput siasi venuto formando gra datamente. Ritengo invece, che il diritto
romano anche in questo prorompa da una sintesi potente, a cui solo più tardi
sottentrò quell'analisi, che diede poi origine alla teoria della capitis
diminutio. Il caput quindi dapprima appartenne solo all'uomo libero, cittadino,
e sui iuris; e fu solo più tardi, che anche il figlio di famiglia si considerò
avere un caput. 424 la propria posizione, finiscono tuttavia per subire una
capitis dimi nutio (1 ). Che anzi questa logica giuridica dovrà anche
applicarsi al cittadino , che sia fatto prigioniero di guerra, e piuttosto che
venir meno alla medesima si cercherà di supplirvi colla finzione di postliminio
(2 ) Intanto sono tre gli elementi del caput, e questi vengono l'uno dopo
l'altro in base alla loro importanza. Quindi la perdita della libertas
costituisce la maxima capitis diminutio , la perdita della civitas la media, e
la mutazione di stato nel seno della famiglia la minima. Ciascuno poi di questi
elementi dà origine ad una di stinzione che vi corrisponde ; donde le
distinzioni fra liberi e servi, fra cives e peregrini, fra persone sui iuris e
le persone alieni ( 1) Gaio , Comm., I, 160-64. Secondo il Krüger , op. cit.,
pag . 5 a 21, ed altri autori germanici da lui citati, la teoria della capitis
diminutio avrebbe avuto uno svolgimento storico, nel senso che la prima a
delinearsi sarebbe stata la mi nima capitis diminutio, sul cui modello si
sarebbe poi foggiata la magna capitis diminutio , che fu poi divisa in maxima e
media capitis diminutio. Ritengo anch'io, che questa istituzione dovette avere
uno svolgimento storico,ma nel senso che come fu sintetico il concetto
primitivo di caput, così la primitiva capitis diminutio dovette comprendere
qualsiasi avvenimento, per cui altri cessasse di tare come un caput. Quindi la
perdita della libertà, quella della cittadinanza e l'adrogatio per cui altri
cessava di essere sui iuris, dovettero costituire la capitis diminutio, che
venne poi distinguendosi nelle sue varie specie. Sarà poi sempre un problema il
determinare come mai l'emancipatio potesse costituire una capitis diminutio, e
si comprende come il Savigny , Traité de droit romain , trad . Guenoux, II,
pag. 66, quasi voglia esclu derla dalla vera capitis diminutio ; ma questa
singolarità potrà essere capita quando si ritenga, che nel censo primitivo ogni
famiglia sotto il suo capo costituiva un gruppo, e quindi anche
l'emancipazione, facendo uscire quell' individuo dal gruppo, costituiva, come
dice Gajo, una « prioris status permutatio » , la quale era anche compresa
nella significazione larga di capitis diminutio . Del resto l'emancipatio sotto
un certo aspetto produceva anche un deterioramento nello status dell'
emancipato, poichè nel diritto primitivo questi perdeva ogni diritto di
successione di fronte al gruppo, da cui esso era uscito. Intanto ciò serve
eziandio a spiegare quella singolarità del diritto romano, in virtù di cui la
capitis diminutio fa perdere soltanto i diritti fondati sull'agnazione, e non
quelli provenienti dalla cognazione, poichè quella teoria fu una creazione del
ius quiritium e del ius civile, e come tale non poteva produrre effetti, che al
punto di vista del diritto civile , per la ragione appunto detta da Gajo , Comm
., I, 158 : « civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia
vero non potest » ; distinzione questa , che nell'epoche primitive non poteva
esservi, ma cominciò a formarsi quando comparve il dualismo fra il ius civile
ed il ius gentium , a cui sottentrò più tardi il ius naturale. (2) È nota in
proposito la finzione della legge Cornelia de iure postliminii. Cfr. Voigt, XII
Tafeln , I, pag . 299 e 300. 425 - iuris , le quali vengono ad essere
fondamentali e servono di punto di partenza anche ai giureconsulti classici, come
lo dimostrano le Isti tuzioni di Gaio . Che anzi, una volta adottato questo
metodo , si po terono anche attuare delle posizioni giuridiche intermedie, come
quella che è rappresentata dal ius latii , e queste si poterono applicare tanto
ai popoli, ai quali non si voleva accordare il completo ius quiritium , quanto
eziandio ai servi affrancati, i quali, invece di es sere posti senz'altro nella
condizione degli altri cives , erano invece collocati nella condizione di
latini iuniani ( 1) . Certo tutta questa teoria non potè svilupparsi di un
tratto ; ma intanto è con Servio , che si pose il vocabolo ed il concetto infor
matore della medesima, e si iniziò così quel processo logico , che de terminò
poi l'elaborazione progressiva. Questa poi si spinse fino tale da distinguere
fra lo stato generale della persona e le condizioni speciali, in cui essa può
trovarsi; donde ne provennero le determina zioni giuridiche speciali del pater
familias , del filius familias , della mater familias, che distinguesi
dall'uxor. Che anzi ciascuno di questi stati speciali venne eziandio a
convertirsi in una conce zione astratta, per modo che una persona poteva essere
padre senza aver figli , essere tenuto come figlio , ancorchè effettivamente
fosse padre, essere riguardata come figlia, ancorchè in effetto fosse moglie,
poichè tutto dipendeva dal punto di vista giuridico , sotto cui la per sona
veniva ad essere considerata (2 ). ( 1) Per tal modo mentre prima non eravi che
una specie di libertas se ne ven nero creando varie gradazioni, cioè quella dei
libertini, che erano cives romani, quella dei latini, e quella infine dei
dediticii; altra prova questa , che il concetto pri mitivo è sempre sintetico ,
mentre le suddistinzioni compariscono più tardi. V. GAJO , Comm ., I, 10 . ( 2
) Ciò è detto espressamente da ULPIANO, Leg., 195 , § 2 , dig . (50 , 16) ove
dice del pater familias: « recteque hoc nomine appellatur , quamvis filium non
habeat; non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus » ; il che vuol
dire, che nel qualificarlo come tale, il giureconsulto si poneva al punto di
vista giuridico. Era poi nello stesso modo, che la moglie in manu si riteneva
figlia del marito, e simili. Ciò mi indurrebbe alquanto a modificare la teoria
accettata intorno alla fictiones nell'antico diritto. Tali fictiones dal SUMNER
-MAINE, Ancien droit, pag . 25 e dal Juering , Ésprit de droit romain , IV, p.
295, sono in certo modo ritenute come alterazioni della realtà dei fatti, a cui
si ricorre per modificare il diritto già esi stente. Se ciò è vero delle
finzioni, che poifurono introdotte dal diritto pretorio, non può dirsi delle
fictiones del primitivo ius quiritium . Queste, come lo dice la stessa
etimologia da fingere nel senso di foggiare, modellare, fanno parte dell' ars
iura condendi, e sono un mezzo per completare una costruzione giuridica. 426
339. Quando poi venne ad essere cosi svolta la concezione giu ridica del caput,
era naturale che la medesima potesse essere con siderata indipendentemente da
colui, al quale essa si riferiva , e che fosse così riguardata come una specie
di persona e quasi ma schera giuridica , che poteva essere anche sovrapposta
non solo ad uomini realmente esistenti, ma eziandio a quegli enti giuridici, i
quali « etiam sine ullo corpore iuris intellectum habent » : donde la co
struzione delle persone giuridiche ( 1). Che anzi si va anche più oltre e per
quell'immedesimarsi che è proprio di quest'epoca fra i diritti delle persone e
quelli sulle cose, anche la proprietà quiritaria può essere considerata , o in
quanto è perfetta e senza limitazione (er optimo iure quiritium ), o in quanto
può subire delle diminuzioni, le quali verranno ad essere designate col
vocabolo di servitutes, perchè anch'esse, al pari della servitù riguardo alle
persone, scemano e di minuiscono quella perfetta posizione giuridica , in cui
trovasi la proprietà del fondo, allorchè non abbia subito limitazione di sorta
(2 ). Si comprende infine come spinta fino a questo punto l'elabora zione del
concetto del caput, la medesima sia una costruzione giu ridica , che può anche
stare da sè e svolgersi per conto proprio , secondo che esige la logica
informatrice dei varii elementi, che en trano a costituirla. Che anzi questo
caput e lo stato giuridico , che ne dipende , potrà anche essere trasportato da
una ad un'altra per sona. Quindi è facile a spiegarsi come il caput dapprima
non ap partenesse che al capo di famiglia , e poi fosse attribuito ad ogni
cittadino, e per ultimo all'uomo libero ; nel qual trapasso la logica giuridica
non fa che rinunziare successivamente ad uno dei tre ele menti, che
costituivano il primitivo stato generale della persona. Essa comincia quindi a
rinunziare alla qualità di sui iuris , e viene (1) Tale essendo il processo
seguito dalla giurisprudenza romana nella formazione del concetto di persona ,
la famosa questione intorno all'esistenza della persona giu ridica in diritto
romano può essere risolta nel senso che essa deve ritenersi come una fictio
iuris , attribuendo però a questo vocabolo la significazione sopra accennata di
una costruzione giuridica modellata su quella della persona fisica , ma
limitata solo a quella categoria dei diritti della persona fisica , che poteva
avere una base nella realtà ; donde la conseguenza, che queste persone hanno il
diritto ai beni, ma non possono avere i diritti di famiglia. Cfr. Savigny,
Traité de droit romain , II, pag. 234 e segg. (2) Questo svolgimento pressochè
parallelo del concetto della persona e della pro prietà libera da qualsiasi
vincolo sarà posto in maggior luce in questo stesso capi tolo , § 5 ,
discorrendo del dominium ec iure quiritium . 427 ad essere capace di diritto
ogni cittadino, ancorchè non sia capo di famiglia ; poi rinunzia indirettamente
a quella di civis, in quanto che la civitas finisce per essere estesa a tutti i
sudditi dell'impero, e viene ad essere persona ogni uomo libero ; ma la logica
romana non potè ancora fare a meno della libertas per accordare il caput, e
quindi solo l'uomo libero fu dalla medesima considerato come capace di diritti
e di obbligazioni. Nè è il caso di fargliene colpa, perchè la logica romana si
basava sui fatti, e la schiavitù , finchè durò il Romano Impero , fu una
istituzione comune a tutte le genti ( 1). Cid perd non tolse, che il concetto
del caput o della persona, quale era stato elaborato dai Romani, potesse più
tardi essere trasportato anche all'uomo come tale, perchè esso era una
costruzione logica , la quale, foggiata dapprima sulla realtà dei fatti, erasi
poi staccata da essi, e poteva così ricevere delle nuove applicazioni. S 3 . Il
concetto di manus e le sue principali distinzioni. 340. Può darsi benissimo,
che l'antichissimo vocabolo dimanus significasse un tempo la forza effettiva
dell'uomo, in quanto sottopone a sè stesso uomini e cose , ossia la forza del
vincitore, che si impone al vinto , o il potere dell'uomo, che doma e
addomestica gli animali. È tuttavia più probabile, che questo vocabolo nel
periodo gentilizio significasse già il potere effettivo, di cui ciascun capo
poteva disporre , nei conflitti e nelle lotte coi capi delle altre famiglie e
genti, della qual primitiva significazione potrebbero ancora trovarsi le
traccie nel nostro vocabolo di masnada. La manus invece nelius qui ritium viene
già a cambiarsi anch'essa in una concezione giuridica ed astratta , che
comprende il complesso dei poteri, che appartengono ad una persona nella sua
qualità di quirite. Come il vocabolo di caput indica per cosi esprimersi la
capacità potenziale del quirite : cosi l'estrinsecazione effettiva di questa
potenza sulle persone e cose ( 1) Il Bruns, Geschichte und Quellen des röm .
Rechts ( in HOLTZEND., Encyclop ., I, pag . 105 ), ebbe a dire con ragione, che
il più alto concepimento del diritto ro mano consiste nell'avere riconosciuto
in ogni uomo libero la capacità astratta didiritto. Cid è vero ; ma vuolsi
aggiungere, che il diritto romano vi pervenne a gradi, e ri conobbe questa
piena capacità prima al capo famiglia , poi al civis, e da ultimo all'uomo
libero. Cfr. BRUGI, Le cause intrinseche della universalità del diritto ro
mano, Prolus., Palermo, 1886, pag. 8. 428 che ne dipendono viene ad essere
designata col vocabolo di manus (1) . È questo il motivo, per cui la manus
viene a comparire in tutte le manifestazioni, che si riferiscono al diritto
quiritario. Se essa afferra qualche cosa nell'intento di acquistarvi sopra la
proprietà ex iure quiritium viene ad aversi la manu capio ; se essa riven dica
qualche cosa che spetta al quirite da altri che lo possegga, abbiamo la
vindicatio e la manuum consertio : se essa lascia uscire qualche cosa dal proprio
potere quiritario , abbiamo la manumissio e la emancipatio ; se essa infine
afferra il debitore condannato per trascinarlo nel carcere privato abbiamo la
manus iniectio . Questa manus simbolica non è però sempre inerme, ma talvolta
compare munita della lancia od asta quiritaria , che trovasi simboleggiata
nella vindicta , la quale serve come modo tipico per la manomis sione dei
servi; nella festuca, il cui uso si mantiene nell’actio sa cramento; nell'hasta
, sotto cui si mette all'incanto il bottino fatto in guerra, e che si infigge
dinanzi al centumvirale iudicium . Questo potere giuridico , sintetico e
comprensivo, subisce poi anche l'influenza del censo serviano, e quindi viene
negli inizii ad essere modellato sul concetto del mio e del tuo, per modo che
così il potere sulla moglie, che quello sui figli , che quello sui servi e
sulle persone quae sunt in causa mancipii appariscono foggiati sul modello
della proprietà , sebbene non sia lecito dubitare, che essi nel costume pre (1
) La generalità degli scrittori è oggi concorde nell'ammettere, che dei varii
vo caboli per significare il potere giuridico spettante al quirite il più
antico sia quello di manus. Tale è l'opinione del Sumner Maine, del Voigt, del
PADELLETTI, ed essa trova anche un fondamento nell'analogia fra la manus dei
Romani e il mundium dei Germani. La questione sta piuttosto in vedere se il
vocabolo dimanus comprenda solo i poteri sulle persone, compresi anche i servi,
oppure anche il potere sulle cose . Egli è certo a questo riguardo , che i
giureconsulti classici dànno al vocabolo di manus il significato di potere
sulle persone e considerano questo vocabolo come un sinonimo di potestas.
Tuttavia io riterrei probabile, che il vocabolo dimanus in una signifi cazione
del tutto primitiva potesse anche comprendere il potere sulle cose, e ciò per
il semplice motivo, che altrimenti nel diritto antico non vi sarebbe stato
vocabolo per significare la proprietà e il dominio. È vero che alcuni dicono,
che questo voca bolo primitivo sarebbe quello dimancipium : ma miriservo di
dimostrare a suo tempo, che questo vocabolo significò piuttosto le cose
soggette al potere , che non il potere una spettante sulle medesime. In ogni
caso, se al vocabolo di mancipium si vuol dare etimologia è necessità di darvi
quella di manu-captum , e in tal caso la manus comparirebbe ugualmente per
significare l'assoggettamento di una cosa al potere della persona . Cfr. Voigt
, XII Tafeln , II, $ 79; BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, pag. 100 , nota
1 ; Longo, La mancipatio, Firenze , 1887, pag. 3 , nota 4. 429 sentavano delle
differenze e dei temperamenti. Così pure , sotto il punto di vista giuridico,
nulla hanno di proprio nè la moglie , nè i figli, né i servi , e tutto ciò che
essi acquistano va al marito, al padre, al padrone, perchè è lui il vero
quirite e quegli che conta nel censo . Sarà poi una conseguenza di questa
logica giuridica, che se il dipendente rechi un danno, il capo di famiglia
potrà addive nire alla noxae datio ; che se alcuno si ribellerà al suo potere ,
gli spetterà un ius coercendi, che potrà giungere fino al ius vitae ac necis ;
e se alcuna delle persone , che da esso dipendono, verrà ad essergli sottratta
, egli potrà proporre percid quella stessa actio furti od actio exhibendi, che
potrebbe da lui essere proposta per una cosa, di cui sia stato derubato . 341.
Dalmomento poi che la manus costituisce così una concezione giuridica, si
comprende che anche ad essa siasi applicata quella scom posizione, che ebbe già
a dispiegarsi quanto al caput. Si spiegano così le iniziali conservateci da
Valerio Probo, secondo cui il potere giuridico del quirite verrebbe a
suddividersi nella manus, che resta a significare il potere del marito sulla
moglie , nella potestas, che significa il potere del padre sui figli, e nel
mancipium , che qui sembra indicare il potere sulle persone quae sunt in
mancipii causa . Quest'ultimo vocabolo tuttavia , più che un aspetto del potere
quiri tario, sembra indicare piuttosto il complesso delle persone e delle cose,
che dipendono dal potere spettante al quirite ; come lo dimostra la circostanza
, che il medesimo dai giureconsulti non è mai adoperato con significazione
attiva, ma sempre con significazione passiva (1). (1) Basta per ciò osservare,
chementre nei giureconsulti si incontrano le espressioni habere manum ,
potestatem , dominium , non occorre però mai l'espressione habere mancipium ,
ma sempre quella habere in mancipio: poichè quest'espressione di man cipium ,
derivando da manu-captum , significa bensì la cosa soggetta, ma non può si
gnificare il potere sulla medesima. Io ritengo, che questa inesatta
significazione data al vocabolo mancipium sia stata una causa dei gravi dubbii
ed incertezze nell' ar gomento. Così, ad esempio, non potrei accettare
l'opinione, che mancipium sia stato il primo vocabolo con cui si indicò il
dominium ex iure quiritium ; ciò sarebbe come dire che i vocaboli di praedium ,
fundus significassero il diritto di proprietà, mentre invece indicano la cosa ,
che ne forma l'oggetto . L'unico passo, che suol essere citato per far
significare a mancipium un potere, è quello di GELLIO, XVIII, 6 , 9, ove si
parla della mater familias in manu , mancipioque mariti, ma anche questo
dimostra , che anche la moglie era talora considerata come in mancipio, e
conferma così la significazione passiva del vocabolo. Se dovette quindi esservi
un vocabolo primitivo, che potè indicare il potere del proprietario , esso fu
quello di manus, che ha in 430 Una volta poi, che i poteri, un tempo inchiusi
nel vocabolo generico di manus, sono cosi separati l'uno dall'altro, essi
possono essere ca paci di una propria elaborazione e venirsi cosi
differenziando fra di loro secondo il diverso concetto a cui si ispirano, per
modo che cia scuno di essi finirà per ricevere un diverso svolgimento logico e
storico ad un tempo, e per essere sottoposto a quelle limitazioni, che verranno
ad apparire necessarie nella realtà dei fatti. Negli esordii invece della
formazione del ius quiritium non presentasi ancora il dubbio , che il quirite
possa in qualche modo abusare della propria manus, e quindi tutti i poteri, che
a lui appartengono, giuridicamente considerati, vengono ad apparire senza alcun
limite e confine. Che anzi le persone a lai soggette , sotto il punto di vista
giuridico acquistano ed operano non per sè,ma per le per sone, di cui trovansi
in manu, in potestate , in mancipio. Di qui la conseguenza, che mentre le
persone sottoposte al potere del capo di famiglia possono rappresentarlo,
questa rappresentazione invece non può essere cosi facilmente ammessa ,
allorchè trattasi di altre persone, come lo dimostra il principio prevalente
nell'antico di ritto, secondo cui una persona non può promettere nè stipulare
per un'altra (1). § 4. – Il concetto del mancipium e la distinzione delle res
mancipii e necmancipii. 342. Che se la manus viene poi ad essere considerata ,
in quanto abbia assoggettate al suo potere le persone e le cose che da essa
dipen dono, formasi il concetto del mancipium . Mentre i concetti di caput e di
manus indicano un'energia che si esplica, il vocabolo invece di mancipium
indica piuttosto lo stato di soggezione, in cui si trovano sè l'idea della
forza e dell'energia , ma non mai quello di mancipium , che allora e sempre
significò soltanto la soggezione. Del resto gli stessi giureconsulti ci
attestano , che in antico non eravi un vocabolo speciale per significare il
dominio, ma dicevasi soltanto meum , tuum . (1) Di qui credo di poter indurre,
che anche quel principio del diritto primitivo , secondo cui altri non può
essere rappresentato, che dalle persone che da lui dipen dono e niuno può
promettere e stipulare per altri, sia una conseguenza del modo, in cui si
iniziò la formazione del ius quiritium ; in quanto che nell'esercito e nei
comizii ciascuno doveva rispondere per sè e non poteva farsi rappresentare da
altri. r 431 le persone e le cose che dipendono da essa , e presentasi con una
signi ficazione eminentemente passiva . Non vi ha quindi nulla di ripu gnante,
che esso nelle origini significasse il manu -captum ; e designasse specialmente
il vinto che, fatto prigioniero di guerra , veniva ad es sere soggetto alla
potestà del vincitore . Questo è certo ad ogni modo, che nel ius quiritium il
vocabolo dimancipium , al pari di quello di caput e di manus, ha già assunta
una significazione eminentemente giuridica, per cui comprende quel complesso di
persone e di cose, che dipendono esclusivamente dal capo di famiglia, e che a
lui apparten gono ex iure quiritium , e che nel censo compariscono in certo
modo comeposte in suo capo (1). È quindi sopratutto coll'entrare a far parte
delmancipium , che i diritti spettanti al capo di famiglia ed al pro prietario
ex iure quiritium assumono quel carattere così esclusivo ed individuale, che è
del tutto proprio del diritto primitivo di Roma. Con esso infatti il quirite
viene ad essere staccato dall'ambiente gen tilizio , di cui fa parte , a
compare nel censo con un complesso di persone e di cose, che dipendono da lui
in modo assoluto . È quindi in virtù di quest'astrazione, che viene a formarsi
il concetto di una potestà senza confini e di una proprietà assoluta ed
esclusiva spet tante al capo di famiglia (2 ). Anche nel mancipium , come negli
altri (1) Quasi tutti gli autori son concordi in ritenere, che il mancipium
abbia avuta una significazione così larga da comprendere così le persone,
quanto le cose, in quanto son soggette al potere del capo di famiglia . Solo
combatte quest'opinione il MARQUARDT, Das Privatleben der Römer, pag . 2.
Ritengo che debba essere seguita la prima opinione, la quale per me ha un
appoggio incontrastabile in ciò , che le formole serbateci da Aulo Gellio e
VALERIO Probo accennano a persone, che sono in manu, potestate, mancipio ; la
qual formola troviamo poi adoperata nelle leggi più antiche che a noi
pervennero, come nella lex Cincia de donationibus, del 550 di Roma (Bruns,
Fontes, pag . 45) e nella lex Acilia repetundarum , del 631 di Roma (pag . 57).
Ciò vuol dire, che anche le persone sotto un certo aspetto si considera vano
come comprese nel mancipium del capo famiglia , il che poi spiega come ad esse
potesse anche applicarsi la mancipatio , l'emancipatio e simili. Ciò però non
toglie, che le significazioni tecniche del vocabolo mancipium fossero quelle
specialmente di significare il servo, come lo prova l'editto curule de mancipiis
vendundis (Bruns, pag. 214 ), o quel complesso di beni, che doveva essere
consegnato nel censo. Quanto alle altre significazioni dimancipium , è da
vedersi il BONFANTE, op. cit., pag. 79 a 105 , col quale tuttavia non concordo
in questo , che egli attribuisce al mancipium anche la significazione di una
potestà sulla cosa (pag. 100 ), e sembra ritenere, che il mancipium non
comprenda mai le persone (pag. 101, in nota). (2) Come il mancipium ,
fondendosi in certo modo coll'heredium , sia venuto a de signare le cose
comprese nel dominio assoluto ed esclusivo del cittadino romano è stato
dimostrato più sopra al nº 331, pag . 414 . 432 concetti fin qui presi in
esame, trovansi dapprima confuse le persone e le cose, che dipendono dalla
stessa persona ; ma poi anche qui viene operandosi una specie di
differenziazione, per cui il vocabolo mancipium finisce per indicare il
complesso dei beni, e quello di familia il complesso delle persone , che
dipendono dal medesimo capo . Siccome però nel mancipium non si comprende tutto
il pa trimonio del quirite, ma solo quella parte di esso , che è portata nel
censo e che serve come stregua per determinare la classe , di cui entra a far
parte ; così ne deriva che il censo serviano deve eziandio essere considerato
come il momento storico , in cui cominciò ad accen tuarsi quella distinzione
fra il mancipium e il nec mancipium , che diede poi origine a quella
importantissima distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, che deve
formare oggetto di par ticolare esame per le molte discussioni, a cui diede
argomento . 343. La distinzione fra le res mancipii e le res nec mancipii, è a
mio giudizio , un rottame del diritto primitivo, che indecifrabile da solo ,
può cambiarsi in un documento prezioso , quando si riesca a ricomporlo
nell'ambiente in cui ebbe a formarsi (1). L'antichità del concetto , a cui si
ispira la distinzione, è dimostrata dal fatto , che i giureconsulti ebbero ad
accettare la medesima come già esi stente nel fatto, senza pur cercare di darsi
la vera ragione di essa (2 ). La circostanza poi, che questa distinzione ebbe a
perdurare per se coli, dimostra che essa non può considerarsi come una semplice
biz zarria giuridica, ma deve invece rannodarsi a qualche concetto fon
damentale dell'antico diritto , che i giureconsulti classici credettero di
dovere accettare e rispettare. Ció del resto può in certi confini anche
argomentarsi dal modo singolare , in cui è concepita questa distinzione; in
quanto che essa è evidentemente fatta nell'intento (1) L'importanza della
questione per lo studio del diritto primitivo di Roma fu in questi ultimi tempi
assai sentita in Italia , come lo dimostrano i lavori già ci tati dello Squitti
e del BONFANTE sulle res mancipi e nec mancipi e quello del Longo sulla
mancipatio. Ritengo tutta via , che questa sia una di quelle questioni, che
prima debbono essere studiate nei particolari , ma difficilmente possono poi es
sere comprese e spiegate, se non siano coordinate colle altre istituzioni del
diritto primitivo , con cui concorrevano a costituire un tutto organico e
coerente. (2 ) Non può certamente ritenersi definitiva la ragione data da Gavo
, Comm ., II, 22, che le res mancipii siano così dette perchè suscettive di
mancipatio ; poichè si potrebbe sempre chiedere la ragione, per cui le sole res
mancipii furono ritenute suscettive della mancipatio . 433 di mettere in una
posizione speciale e privilegiata le res mancipii, che costituiscono la parte
positiva della distinzione, mentre l'altra parte della distinzione ha un
carattere puramente negativo , cioè comprende tutte quelle cose , che non
appartengono alla prima ca tegoria . Da questo carattere infatti è lecito
indurre, che nello svol gimento storico dovette precedere la formazione delle
res mancipii, ossia di un complesso di cose , che erano comprese nel mancipium
, e che solo più tardi quelle, che non erano comprese nelmedesimo, vennero ad
essere chiamate res nec mancipii, quasi per contrap porle alla categoria già
formata dalle res mancipii. Queste considerazioni aggiunte a quella pur
importante, che dopo l'ultima lettura del manoscritto di Gaio da lui fatta , lo
Studemund avrebbe adottata la lezione di res mancipii e res nec mancipii a vece
di quella di res mancipi e nec mancipi, che prima era ge neralmente adottata,
mi inducono a ritenere che il caposaldo, a cui deve rannodarsi questa antica
distinzione, sia l'antichissimo concetto del mancipium , le cui origini
rimontano quanto meno alla costitu zione ed al censo di Servio Tullo (1). 344.
Per poter poi spiegare come nell'antico diritto possa essersi cominciato a
distinguere il mancipium dal nec mancipium , non sarà inopportuno il notare,
che fin dai tempi più antichi noi troviamo degli accenni ad una specie di
distinzione, che erasi fatta nel pa trimonio spettante al capo di famiglia. Noi
troviamo infatti una specie di dualismo nei vocaboli di heredium e di peculium
, e in quelli eziandio di familia pecuniaque, i quali appariscono in certo modo
contrapposti fra di loro . Per verità mentre i vocaboli di he ( 1) Del resto la
questione della i doppia o semplice nel vocabolo mancipi o man cipii non ba
grande importanza dal momento, che nel latino primitivo solevasi usare l'i
semplice a vece della doppia ii. Che anzi sonvi autori, i quali continuano a
seguire l'antica scritturazione, appunto perchè veggono in essa un indizio ed
una prova dell'antichità della distinzione, sebbene ammettano la parentela
delle res man cipiä сol primitivo mancipium . Così il BONFANTE, op. cit., pag.
21. Per parte mia , siccome mi propongo di fare la storia del concetto ,
anzichè della parola, così trovo più conveniente di adottare quella
scritturazione, la quale, esprimendo materialmente l'attinenza fra il mancipium
e le res mancipii, impedisce di dare a questa distin zione una significazione
diversa da quella , che veramente ha. La grafia mancipi sarà forse la più
genuina e la più antica; ma essa condusse alla distinzione fra cose man
cipabili e non mancipabili, e a cercare l'origine della distinzione in cose,
che non avevano a fare con essa , il che appunto deve essere evitato. G. CARLw,
Le origini del diritto di Roma. 28 434 redium e di familia indicano di
preferenza quella parte del patri monio, che nel proprio concetto informatore è
destinata a passare negli eredi, i concetti invece di peculium e di pecunia
sembrano designare di preferenza quella parte di patrimonio, che per sua na
tura è destinata allo scambio , alla circolazione ed al soddisfacimento dei
quotidiani bisogni. Di quisi può inferire, che una distinzione come questa, che
compare indicata con vocaboli diversi, e che si mantiene con una certa costanza
, dovette trovare la propria ragione d'essere nelle condizioni economiche e
sociali, in cui allora trovavasi il popolo romano, e che perciò la spiegazione
di essa debba ricercarsi nell'e poca , in cui vennesi formando il primitivo ius
quiritium (1). Parmipoi a questo proposito , che anche oggi, fermando lo
sguardo sopra una comunanza di carattere rurale, si possa trovare qualche
vestigio di condizioni sociali ed economiche analoghe a quelle, che determinarono
questa distinzione nell'antico diritto di Roma. Anche oggi nelle comunanze
agricole la famiglia rurale appare in certo modo unificata nella persona del
suo capo, e sotto l'aspetto econo mico costituisce come un gruppo di persone e
di cose , in cui si comprende il capofamiglia, la moglie , i figli, il
bestiame, la terra coltivata , e la cui importanza può essere maggiore o
minore, secondo la quantità di terra da esso posseduta, e il numero di braccia
, di cui può disporre per la coltura della medesima. È poi facile l'osser vare
come in questo patrimonio , che si intitola al padre , ma che nel costume si
considera come proprietà comune del gruppo , for misi naturalmente una
distinzione congenere a quelle , le cui traccie pur compariscono fra gli antichi
romani. Nel patrimonio infatti di una famiglia agricola havvi anzitutto una
parte fissa , sostanziale , che comprende tutti quei beni, senza di cui
l'azienda agricola non potrebbe percorrere il suo corso regolare . Essa
costituisce, per cosi esprimersi, il capitale fisso della famiglia agricola ;
quella parte cioè della sua sostanza, che sebbene di diritto appartenga al
padre, nel costume si ritiene invece come proprietà comune; quella che è dal
padre custodita con speciale affetto, e di cui si spoglia a malincuore,
ritenendosi come obbligato a trasmetterla intatta alla propria figliuo lanza .
Se egli quindi alieni una parte della medesima, la comunanza rurale non può a
meno di esserne informata e il suo credito vacilla . Quindi piuttosto di
alienare questa parte fissa e trasmessibile dal ( 1) Già si accenno a questa
correlazione, senza tuttavia cercare di spiegarla, al nº 56 , pag. 70 . 435
proprio patrimonio, il capo di famiglia suole anche oggidi, come già un tempo
la plebe romana, appigliarsi al partito di contrarre dei debiti, o di ricorrere
a quella vendita con patto di riscatto , che nei nostri villaggi si cambiò
nella forma più perfida ed ingannatrice sotto cui si nasconde quell'usura , che
chiamasi palliata . Accanto poi a questa parte fissa del patrimonio havvi
eziandio la parte, che costituisce in certo modo il capitale circolante della
fa miglia rurale. In essa si comprendono i raccolti dell'annata , le somme di
danaro che si tengono alla mano, il bestiame minuto , che ogni anno si compra e
si vende, e gli altri beni e valori, coi quali il capo famiglia può fare
maggiormente a fidanza, perchè la copia o la scarsità di essi potrà rendere più
o meno agiata la famiglia , senza però mettere a repentaglio l'esistenza della
medesima. È naturale che una distinzione di questa natura abbia dapprima
alcunché di vago e di indeterminato , in quanto che possono esservi delle cose,
di cui può dubitarsi se debbano essere collocate in questa od in quella parte
del patrimonio . Se tuttavia in determinate con dizioni economiche avvenga un
avvenimento di carattere ammini strativo , che costringa in certo modo a
distinguere le due parti del patrimonio, quale , sarebbe ad esempio , la
formazione di un censo o di un catasto per fissarvi sopra una imposta , la
conseguenza im mediata di questo fatto sarà , che quella distinzione, che stava
for mandosi , perderà il suo carattere vago ed indeterminato e finirà per
assumere un significato preciso , il quale , mentre corrisponde allo stato
reale delle cose in quel determinato momento, potrà in vece riuscire
inesplicabile più tardi, allorchè siansi trasformate le condizioni economiche
del popolo , di cui si tratta . 345. Or bene un avvenimento di questa natura
ebbe appunto ad avverarsi nella primitiva vita economica e giuridica di Roma.
Esso fu il censo di Servio Tullio , il quale , essendo stato posto a base di
una nuova composizione del populus romanus quiritium , non potè a meno di
lasciare anche delle traccie nello svolgimento posteriore del diritto romano.
Si sa infatti, che questo censo comprese non solo le persone, ma anche le
sostanze, e che esso sopravvenne dopo che Servio e i re suoi antecessori
avevano fatto alla plebe degli assegni di terre, che per essere tutti della
stessa natura dovevano aver rice vuta una analoga configurazione. Questi
assegni erano stati senza alcun dubbio fatti a somiglianza di quegli heredia ,
che la gens an tica faceva ai suoi membri, allorché i medesimi fondavano una fa
436 miglia , colla differenza che mentre gli heredia del patriziato erano ricavati
dall'ager gentilicius, quelli invece , che si facevano alla plebe, erano fatti
direttamente dallo Stato sul suo ager publicus , mediante le così dette
adsignationes viritanae. Senza cercare qui se tali assegni fossero di due, di
cinque od anche di sette iugeri, questo è certo che essi costituivano una
specie di piccolo podere, che com ponevasi di una abitazione rurale (tugurium
), di un orto e di un campo attiguo, naturalmente fornito di quelle servitù
rurali di pas saggio e di acquedotto , che erano del tutto indispensabili per
la sua coltivazione. Esso quindi veniva in certo modo a costituire la pro
prietà tipica del quirite, la quale, dipendendo direttamente dalla sua manus,
poteva opportunamente ricevere il nome dimancipium . Che anzi è anche probabile
, che questo podere prendesse il nome dal suo primitivo proprietario, come lo
dimostra il fatto , che i poderi romani ancora più tardi conservano il nome
derivato da quello del primitivo proprietario , che si considera in certo modo
come il fon datore del podere, e lo trasmettono successivamente ai proprietarii
che vengono dopo (1). Era quindi questo mancipium , che doveva essere
consegnato e valutato nel censo , e che costituiva la base, sovra cui si
determinavano i diritti e le obbligazioni del quirite ; le altre cose invece
non gli erano tenute in conto , o perchè non appartenevano al quirite come tale
, ma piuttosto alla gente , di cui esso faceva parte, o perchè costituivano una
specie di capitale cir colante , di cui non potevasi fissare l'ammontare in
questo od in quel determinato momento. Di qui conseguiva, che questo mancipium
(1) Questa induzione mi fu suggerita da due notevoli articoli del FUSTEL DE
COULANGES, pubblicati sulla « Revue des deux mondes » del 1886 col titolo Le
domaine rural chez les Romains, tomo 3º dell'annata , pag. 318 a 348 e pag. 835
a 869. II FUSTEL DE COULANGES non si occupa veramente delle origini del podere
ru rale in Roma, stante le incertezze che ancor durano sull'argomento, ma parla
piut tosto dei poderi rurali sul finire della Repubblica e durante l'Impero,
allorchè i medesimi per le loro proporzioni certo non avevano più che fare col
primitivo man cipium . Egli nota tuttavia, che i poderi anche in quest'epoca
avevano una denomi nazione ricavata dal nome non del proprietario attuale ma
del proprietario primitivo del podere, e chiamavansi così fundus Manlianus,
Terentianus, Gallianus, Sempro nianus e simili, il che finiva per dare una
personalità al fondo, determinata da colui, che prima l'aveva occupato e posto
in coltivazione. Ora non è certo impro babile, che questa singolarità nel
podere romano sia stata determinata dal fatto, che nella tabula censoria del
quirite , al disotto del nome del caput, era anche descritto il podere a lui
spettante, il quale veniva così ad assumere un nome, che i Romani trasmisero
poi con quella costanza, che abbiamo riscontrato in molti altri esempi. 437
veniva in certo modo a costituire il vero e proprio patrimonio del quirite ,
cometale: quello cioè che era posto direttamente in suo capo, che in certo modo
ne prendeva il nome, e di cui egli poteva disporre senza limitazione di sorta ,
purchè lo facesse nei modi solenni, che erano riconosciuti dalla comunanza
quiritaria. Anche gli altri beni potevano essere buoni e desiderabili per il quirite;
ma quelli, che entravano nel mancipium , avevano per esso una importanza del
tutto peculiare, la quale spiega come i plebei preferissero alla loro
alienazione l'imprigionamento nelle carceri del creditore, con tutti i mali
trattamenti, che potevano conseguirne. 346. Questa spiegazione del modo, in cui
si formò ilmancipium , trova poi la sua conferma nella enumerazione, che i
giureconsulti Gaio ed Ulpiano ebbero a conservarci delle res mancipii (1) .
Questa enumerazione infatti serba evidentemente il carattere di una antichità
remota , e richiama il pensiero agli assegni rurali aventi una configurazione
tipica e determinata, che dovevano essere fatti sull'ager gentilicius ai
gentili e ai clienti che entravano a co stituire la gens, e dai re ai plebei sull’ager
publicus. Per verità le res mancipii, sebbene siano annoverate come cose
singole, co stituiscono però ad evidenza un tutto , che corrisponde alle condi
zioni economiche del tempo , ed ai bisogni di una famiglia agricola , la quale
debba, per dir cosi, bastare a se stessa. Ciò è dimostrato anche dalla
circostanza, che il podere, che forma il nucleo centrale del mancipium , non è
già un campo nudo di qualsiasi attrezzo , ma è un praedium instructum
considerato cioè cogli istrumenti e colle servitù , che sono necessarie per la
sua coltivazione (2). Una casa in città , un tugurio in campagna, circondato da
un piccolo podere, coi servi, cogli animali, e colle servitù indispensabili per
la coltura del medesimo, dovettero in quell'epoca costituire come la proprietà
tipica del quirite ; quella proprietà cioè , che lo rendeva adsiduus, perchè ne
accertava la residenza , e locuples, perchè assicurava il sostentamento suo e
della famiglia. Essa era la prima porzione di (1) Gajo , I, 120 ; II, 14-17 ;
Ulp., Fragm ., XIX , 1. (2 ) Anche questo concetto del fundus instructus
sopravvive a lungo presso i Ro mani, come appare dal Fustel De Coulanges, op .
cit ., pag. 340 , che lo trova in pieno vigore durante l'impero. Che anzi i
giureconsulti al solito formano una con cezione giuridica dello stesso e
instrumentum fundi » , ossia di quel complesso di ar nesi, di bestiame e di
servi , che può essere necessario per la coltura del fondo. 438 terra, che
sottraevasi in certo modo dalla proprietà collettiva della gente (ager gentilicius),
o da quella dello stato (ager publicus), per costituire la vera proprietà
esclusiva ed individuale. Or bene è appunto un gruppo analogo di cose, che può
raccogliersi . dall'enumerazione conservataci da Gaio e da Ulpiano delle res
man cipii. L'uno e l'altro infatti son concordi nell'attestare, che queste
comprendevano ; lº i praedia , così rustici comeurbani, purchè situati
nell'ager romanus od anche nel suolo italico , il quale mediante la concessione
del ius italicum , poteva anche essere oggetto del do minium ex iure quiritium
; 2° le servitù rustiche , che sono il naturale compimento di un podere rurale,
quali le servitutes viae, itineris, actus, aquaeductus; 3° i servi, in
quell'epoca strumento indispensabile per la coltura ; 4º e infine i quadrupedes,
quae dorso collove domantur , veluti boves , equi, muli et asini. Invece le
altre cose tutte , che esorbitano da questa cerchia , comprendendovi la stessa
pecunia , le pecore, i buoi ed i cavalli non domati, sono indicate senz'altro
colla espressione di res nec mancipii. 347. Di fronte a questa enumerazione dei
giureconsulti si osservo , che riesce difficile a comprendersi come
nelmancipium , quale pro prietà tipica del cittadino, non si comprendessero nè
le pecore, nè le mandre dei cavalli e dei buoi non domati, né i greggi ed ar
menti, cose tutte, che certamente costituirono la parte più notevole della
ricchezza dei primitivi romani. È perd anche ovvio il rispondere, che il
criterio della riforma serviana non fondavasi sulla ricchezza, quale che essa
fosse, ma piuttosto sulla proprietà stabile , esente da qualsiasi vincolo . Era
solo questa forma di proprietà , che poteva ren dere i quiriti adsidui e
locupletes , e servire così di garanzia alla co munanza dell'interesse, che
essi avevano alla comune difesa . Non fu quindi la pecunia , che ebbe ad essere
tenuta in conto , perchè questa , anche consistendo in greggi ed in armenti ,
poteva sempre essere trasportata altrove. Si aggiunga che le mandre, i greggi,
e gli ar menti dovevano dapprima non appartenere ai singoli capi di famiglia ,
macostituire invece la ricchezza delle genti collettivamente conside rate;
poichè per il loro pascolo non poteva certo bastare, nè sarebbe stato atto il
piccolo podere quiritario , ma occorrevano dei grandi e vasti spazi, che solo
potevano trovarsi negli agri gentilicii, o nell'ager compascuus della tribus
primitiva, o nell'ager publicus, proprietà dello Stato. Quanto ai capi di
piccolo bestiame, che po tevano anche appartenere al proprietario di un piccolo
podere, 439 tenuto ex iure quiritium , essi costituivano quel capitale
circolante, che formava argomento degli scambii e delle negoziazioni quoti
diane, e che perciò non offriva una base salda per essere valutato nel censo .
348. Parmi cið stante di poter conchiudere, che il primitivo man cipium
consistette in quel complesso di cose, che costituiva in certo modo la
proprietà tipica del quirite , come capo di una famiglia agricola , all'epoca
in cui ebbe ad essere introdotta l'istituzione del censo. La selezione di questo
mancipium dal resto delle cose, il cui godimento apparteneva ai primitivi
romani, erasi preparata len tamente nelle condizioni economiche e sociali ed
ebbe poi ad essere determinata in modo esatto e preciso dal censo serviano , il
quale per tal modo potè perfino influire nel determinare le varie categorie
delle res mancipii (1). È infatti questo mancipium , che nel censo appare
intestato ad ogni singolo quirite , e che costituisce il primo nucleo di quella
proprietà ex iure quiritium , che ebbe poi a svol gersi coi caratteri di
assoluta , di esclusiva e di irrevocabile . Sia (1) Infatti non è punto
improbabile, che la distinzione stessa delle res mancipii abbia potuto essere
determinata dalle rubriche diverse, in cuidividevasi il mancipium , come già ebbi
ad accennare al n ° 332 (in fine). Intanto colla soluzione indicata nel testo
credo di aver fatto procedere di pari passo i due aspetti, sotto cui fu
discussa l'origine delle res mancipië e nec mancipii. Nota giustamente il Bon
FANTE, op. cit., pag. 35 , che le teorie diverse, da lui esposte, si possono
dividere in razionali e storiche, secondo che cercano di spiegare razionalmente
quella distinzione, oppure di rannodarla ad un fatto storico . I due punti di
vista, a parer mio, deb bono esser fatti procedere di pari passo ; poichè la
distinzione non sarebbesi intro dotta presso un popolo pratico e logico come il
romano, se non avesse avuto una ragione di essere nelle condizioni economiche e
sociali del tempo , ed essa non sareb besi poi perpetuata con tanta tenacità,
se non vi fosse stato un avvenimento storico importantissimo, come il censo, il
quale, per essersi in certo modo immedesimato colla vita e col modo di pensare
del popolo, mantenne allo stato fossile la distinzione, di cui si trattava ,
anche allorchè non aveva più ragione d'essere. Che anzi in questo
modo vengono perfino ad offrire alcunchè di vero anche le opinioni, che
vogliono rannodare il concetto di mancipium alla bellica occupatio ; poichè
questo carattere militare, inerente anche almancipium , è una conseguenza di
quell'impronta militare, che sopratutto in quell'epoca assume il populus
romanus quiritium ; impronta, che rimane inerente a tutti i concetti e alle
istituzioni che ebbero origine in quell'occa sione. Tuttavia , siccome trattasi
qui di ricostrurre e non di far l'esame critico delle varie opinioni, mi
rimetto per l'analisi di queste opinioni, delle quali alcune hanno perfino del
singolare, allo Squirti, pag. 38 a 68 , al BONFANTE, pag. 35 e 75 e agli altri
autori, che di recente esaminarono la vecchia controversia . 440 pure, che più
tardi, per l'accrescersi della fortuna dei cittadini ro mani, siansi aggiunte
molte cose , che avrebbero pur dovuto essere tenute in conto per valutare il
patrimonio del quirite ; ma in questa parte , come nel resto , i giureconsulti,
allorchè trovarono foggiata questa configurazione giuridica , si guardarono
dall'alterarne in qual siasi modo le primitive fattezze. Di qui ne venne, che
il concetto del mancipium , come molti altri concetti del primitivo diritto,
dopo avere un tempo corrisposto alla realtà dei fatti e aver così com preso
quelle cose, che effettivamente costituirono la prima proprietà esclusiva del
quirite, fini in certo modo per fossilizzarsi e cambiarsi in una categoria
giuridica, in cui si compresero tutte quelle cose, che un tempo dovevan essere
consegnate nel censo. Il mancipium si mantenne cosi come un rudere
dell'antichità primitiva di Roma, che malgrado l'incremento delle cose romane
rimase ad attestare le condizioni economiche dei quiriti, nel tempo in cui
Servio Tullio pose il censo come base di partecipazione alla comunanza
quiritaria. Ciò tuttavia non impedi, che il potere rurale presso i Romani,
salvo le più grandi proporzioni, abbia ancora sempre conservati i tratti del
primitivo mancipium , in quanto che esso continud pur sempre a costituire un
tutto organico, ad avere un proprio nome, che è quello del primitivo
proprietario, e ad essere considerato come fornito delle servitù e del bestiame
necessario per la coltivazione di esso (instru mentum fundi). Le cose romane di
piccole si fanno grandi, ma continuano sempre ad essere foggiate sul primitivo
modello (1). 349. Nè può essere difficile lo spiegarsi come il concetto del man
cipium siasi cosi conservato allo stato fossile, malgrado l'ingrandirsi delle
cose romane, quando si tenga conto dello spirito conservatore della
giurisprudenza romana, e della circostanza, che i giureconsulti (1) La miglior
prova di ciò può aversi dagli articoli citati del FUSTEL DE COULANGES, sur le
domaine rural chez les Romains. Da questi infatti si scorge che i Romani
portarono il loro concetto del podere anche nelle provincie conquistate, e che
le varie parti di esso ingrandendosi vennero ad avere talora una esistenza
propria e distinta: cosicchè si ebbe il podere coltivato per mezzo di schiavi,
quello fatto valere per mezzo di affittavoli, quello lasciato alla coltura dei
servi e dei liberti, e quello più tardi coltivato da coloni; ma intanto le
fattezze primitive non scomparvero più . Per tal modo anche il podere romano,
come tutte le altre istituzioni di quel popolo, è un organismo, che si svolge e
si differenzia nelle sue varie parti, ma conserva sempre quei caratteri, che
già si potevano ravvisare nell'embrione, da cui è partito ; em brione, che, secondo
il mio avviso, consisterebbe appunto nel primitivo mancipium . 441 in questa
parte trovarono già chiusa e formata la cerchia delle res mancipii, nè ebbero
motivo di estenderla o modificarla in un'epoca, in cui già cominciavano a
ritenersi gravi e inopportune le forma lità dell'antico diritto . Di qui la
conseguenza, che i giureconsulti in tutti i responsi, che si riferiscono alle
res mancipii, mantennero inviolata l'antica misura, e solo ammisero qualche
allargamento , che corrispondeva al concetto informatore del primitivo
mancipium , e che era necessario per rendere applicabile il concetto stesso
(1). Così noi troviamo, ad esempio , che i giureconsulti interrogati, se i
camelli ed elefanti potessero essere compresi nelle res man cipii, risposero
negativamente, sia perchè questi animali non erano conosciuti, quando si fissd
il concetto del mancipium , o meglio ancora, perchè essi non si sarebbero
potuti riguardare come una pertinenza di quel podere tipico , che costituiva il
mancipium (2 ). Indarno parimenti si fece notare, che le servitù urbane avevano
la medesima natura delle rustiche ; esse malgrado di ciò furono sempre ritenute
come res nec mancipii, non tanto perchè non fossero co nosciute a quell'epoca,
quanto piuttosto perchè non formavano parte integrante del podere stesso (3).
Quando poi si chiese, se i cavalli e i buoi non domati potessero essere
ritenuti come res mancipii, l'opinione prevalente fu che non fossero tali,
probabilmente perchè essi, finchè non erano domati, non potevano essere strumento
indi ( 1) Parmi perciò da seguirsi,ma con una certa discrezione, l'opinione che
l'enumera zione delle res mancipii debba ritenersi tassativa, come quella che
in parte fu determi nata da un avvenimento che doveva dargli un carattere
esatto e preciso. Ciò però non toglie, che nel concetto comune anche altre cose
potessero essere considerate come res mancipii, quali erano, ad esempio, le
pietre preziose di Lollia Paolina, di cui ci parla Plinio il Vecchio (Hist.
nat. 9, 35, 124 ). Ciò tanto più perchè posteriormente il concetto di mancipium
, che erasi sovrapposto a quello di heredium , tornò a riacco starsi
almedesimo, e nell'uso non giuridico significò talora i bona paterna avitaque ,
e specialmente quelli, che nel costume solevano trasmettersi digenerazione in
genera zione, quali erano appunto le pietre preziose , che costituivano in
certo modo un avitum mancipium . In ciò seguo l'opinione, che il Bonghi ebbe a
manifestare nella recensione del lavoro dello SQuitti nella Cultura , anno 1886
, 1-15 agosto. Cfr. BONFANTE, op . cit., p . 93 . (2) GAJO , Comm ., II, 16 ;
ULP., Fragm ., XIX , 1. ( 3 ) GAJO , II, 17 ; ULPIANO, loc . cit. Che anzi fra
le servitù rustiche sono res mancipii quelle soltanto, che hanno una maggior
importanza per un podere ru stico, e che formano parte integrante del medesimo,
cioè l'iter, actus, via , aquae ductus, e non le altre, come quelle del ius
pascendi, calcis coquendae e simili , le quali, essendo particolarità di certi
speciali poderi, non potevano dapprima essere tenute in conto . -.442
spensabile per la coltura del fondo, che costituiva il primitivo man cipium
(1). Cid intanto può eziandio servire a spiegare come Varrone parli di formole
relative alla vendita di animali da tiro , e da soma ed anche di servi,
accennando alla semplice traditio e non alla mancipatio ; poichè questa doveva
solo ritenersi necessaria , allorchè gli animali e i servi, di cui si trattava,
dovessero considerarsi come instrumenta fundi (2). Siccome invece le res
mancipii, ancorchè singolarmente enumerate , costituiscono però un tutto (cioè
il man cipium ), così i giureconsulti rispondono, che alle medesime conside
rate come un tutto può essere applicato quello stesso mezzo di alienazione, che
è proprio delle singole res mancipii; donde la pos sibilità della mancipatio
familiae e del testamentum per aes et libram , di cui si parlerà a suo tempo (3
). (1 ) La controversia in proposito fra i Proculeiani, che escludevano dalle
res man cipii questi animali finchè non fossero giunti a tale età da essere
domati, e i Sabi niani, che invece li ammettevano fra le res mancipii, appena
fossero nati, è accen nata da GAJO, II, 15, comemolto dubbiosa anche per lui,
che era Sabiniano. In ogni caso la stessa esistenza di una simile controversia
, ed anche il fatto, che erano res man cipii solo i quadrupedes, quae dorso
collove domantur, dimostra abbastanza che la determinazione delle res mancipii
aveva stretta attinenza colla coltivazione del fondo. (2) Le formole
conservateci da VARRONE intorno all'emptio venditio dei cavalli e dei buoi
anche domati (V. Bruns, Fontes, p . 388) condussero il Voigt a ritenere che i
cavalli ed i buoi fossero introdotti solo dopo Varrone nel novero delle res man
cipië (Ius nat., Leipzig, 1875, IV , pag. 561). Veramente non si saprebbe
ilmotivo di questa nuova introduzione in una distinzione, che oramai appariva
antiquata ; ma ad ogni modo la cosa a mio avviso è facile a spiegarsi, quando
si ritenga che la qualità di res mancipiä era dapprima attribuita dall'essere
questa cosa un « instru mentumt fundi» . Quindi non sempre era necessaria la
mancipatio per questi animali, come non sempre era necessaria per i servi, come
lo attesta lo stesso Varrone. Non credo poi che possa essere il caso di
supporre degli errori nella esposizione di Var rone, come vorrebbe il Bonfante,
op . cit., pag . 111 , non potendosi supporre un er rore di questo genere sopra
formole, che vivevano nelle consuetudini ed erano ela. borate dagli stessi
giureconsulti. (3) È tuttavia degno di nota, che mentre il mancipium o la familia
, intesi nel senso di patrimonio, sono per sè suscettivi di mancipatio,
l'hereditas invece è consi derata come una res nec mancipië, e come tale è
suscettiva di in iure cessio, ma non di mancipatio (Gajo, Comm., II , 14, 17,
34). La ragione, a parer mio, è questa, che la familia o il mancipium , finchè
dipendono dal pater familias, costituiscono un'entità concreta : mentre
l'eredità , riguardo a colui che vi ha diritto , costituisce già una cosa
incorporale, una res, quae etiam sine ullo corpore iuris intellectum habet, e
quindi cade fra le res nec mancipii. Intanto però non parmiaccettabile
l'opinione, quale è espressa dallo SQUITTI, op. cit., pag. 12, che la
distinzione delle res man cipië e nec mancipii sia solo applicabile alle res
singulares, poichè non è certamente una res singularis nè il mancipium , nè la
familia . 443 350. Tuttavia conviene ritenere, che la necessità delle cose con
dusse in qualche parte ad allargare i confini del primitivo manci pium . Così,
ad esempio, non può esservi dubbio, che nel primitivo mancipium dovevano solo
essere compresi i praedia , che fossero si tuati nel primitivo ager romanus,
mentre più tardi furono compresi eziandio quelli situati nel restante suolo
italico , quando anche questo venne ad essere suscettivo di proprietà
quiritaria. Così pure è pro babile, che nelle res mancipii fossero dapprima
compresi solo i servi addetti al lavoro del fondo, mentre più tardi siccome i
servi della città potevano essere trasportati alla campagna, così i servi in
genere furono compresi fra le res mancipii (1). Non potrei invece ammettere col
Puctha , che fra le res mancipii fossero anche com prese le persone libere ,
che fossero in potestate , in manu , o in causa mancipii(2); poichè, come sopra
si è notato , qui il vocabolo mancipium è già preso in una significazione più
ristretta e si ri ferisce al patrimonio, anzichè alle persone dipendenti dal
capo di famiglia , le quali persone si dicono « alieni iuris , quae in manu,
potestate,mancipio sunt » , ma non sono mai chiamate res mancipii. Vero è, che
anche alle persone si applica la mancipatio , ma cid provenne, come si vedrà
più tardi, da cid che la mancipatio è una applicazione dell'atto quiritario per
eccellenza , che è l'atto per aes et libram , e quindi compare ogniqualvolta trattisi
di acquistare o trasmettere la manus, intesa nel senso di potestà giuridica
quiritaria. 351. Intanto questa storia primitiva del mancipium ci pone eziandio
in caso di risolvere la questione tanto agitata fra gli autori relativa alla
precedenza fra la mancipatio e la distinzione fra la res mancipii e nec
mancipii. hi seguisse alla lettera i giureconsulti dovrebbe dare la prece denza
alla mancipatio, in quanto che, secondo i medesimi, le res mancipii si
chiamerebbero tali appunto , perchè si trasferiscono me diante la mancipatio ;
ma rimarrebbe ancor sempre a cercarsi la ragione, per cui la mancipatio venne
ad essere il mezzo proprio per l'alienazione di questa speciale categoria di
cose . La cosa invece viene ad essere facilmente spiegata quando si ri ( 1) Ho
già notato più sopra come le formole di VARRONE dimostrino che un servo ,
allorchè non era un instrumentum fundi, poteva anche essere alienato colla sem
plice traditio . (2 ) Puchta, Inst., § 238. Cfr. SQUITTI, op . cit., pag. 15 .
444 tenga, che primo a formarsi dovette essere il concetto delmancipium , il
concetto cioè di una proprietà tipica del quirite , che compren deva uno spazio
di terra e quelle pertinenze di esso , che riputa vansi il patrimonio
indispensabile del capo di una famiglia agricola . La formazione di questo
mancipium , che già aveva una base nelle condizioni economiche e sociali dei
primitivi romani, venne in certo modo a precipitarsi e a consolidarsi sotto
l'influenza della costitu zione serviana. Da quel momento l'importanza non solo
economica, ma anche politica del mancipium , pose le cose , che erano comprese
nel medesimo, in una posizione privilegiata di fronte a tutte le altre cose ,
che potevano spettare al cittadino romano, e trasformò così il mancipium in una
proprietà essenzialmente quiritaria , perchè apparteneva al quirite come tale.
Era quindi naturale, che all’alie nazione del mancipium e delle cose comprese
nel medesimo si estendesse l'atto quiritario per eccellenza , che era l'atto
per aes et libram , mentre per l'alienazione delle altre cose potè bastaré
anche la semplice traditio accompagnata dal pagamento del prezzo. Per quello
poi, che si riferisce alla distinzione fra le res mancipii e quelle nec
mancipii, parmi evidente che essa fu l'ultima ad es . sere introdotta, e non ho
difficoltà di ritenere, che essa possa anche essere stata formolata più tardi
dai giureconsulti , quando i mede simi già sentivano il bisogno di ridurre ad
ordine sistematico le distinzioni molteplici, che eransi introdotte nel diritto
. Il censo in fatti per sè poteva condurre alla determinazione delle res
mancipii, ed anche alla divisione delle medesime in varie categorie ; ma esso
non poteva determinare che indirettamente la formazione delle res nec mancipii.
È quindi probabile, che i giureconsulti trovando più tardi questo nucleo di
cose (mancipium ), per la cui alienazione era richiesta la mancipatio, abbiano
formato di queste cose una cate goria speciale (res mancipii), la cui
caratteristica consisteva ap punto nel modo di alienazione (mancipatio), mentre
tutte le altre furono lasciate nella categoria negativa dalle res nec mancipii
(1). ( 1) Non parmi tuttavia accoglibile l'opinione del Voigt, secondo cui la
distinzione sarebbe nata fra il 585 e il 650 di Roma. Essa invece dovette già
essere formata all'epoca delle XII Tavole, in cui accanto alla mancipatio ,
riservata alle res man cipii, era già comparsa l'in iure cessio, che era
applicabile eziandio alle res nec man cipii: il che sarebbe anche provato da
ciò, che le stesse XII Tavole già ponevano le res mancipii nella condizione
speciale di non potere essere usucapite, allorchè fos sero state vendute da una
donna senza approvazione del tutore. È evidente infatti 445 Essi insomma fecero
qui una distinzione analoga a quella , che si introdurrà più tardi, fra le
cose, che appartengono ad una persona ex iure quiritium , e quelle invece che
le appartengono solo in bonis ; poichè le prime costituiscono una cerchia
chiusa e circo scritta, quanto alle cose, che possono essere l'oggetto , quanto
ai modi di acquisto , e alle persone cui appartengono, mentre quelle in bonis
comprendono tutte le altre . $ 6 . La storia primitiva della proprietà ex iure
quiritium . 352. L'analogia , che ho sopra notata fra la distinzione delman
cipium e del nec mancipium e quella presentatasi più tardi fra il dominium ex
iure quiritium e quello in bonis, mi fa tornare un'altra volta sul grave
problema dell'origine e dello svolgimento storico della proprietà ex iure
quiritium . Fino ad ora si è sola mente dimostrato , come già nel periodo
gentilizio vi fosse una forma di proprietà , che intestavasi al capo di
famiglia, e che pren deva il nome di heredium . Questa tuttavia non costituiva
ancora una proprietà assolutamente individuale ed esclusiva, perchè il capo di
famiglia trovavasi in proposito ancora sotto la dipendenza della gens, a cui
apparteneva. Accanto a questi heredia dei patricii si erano poi venuti formando
gli stanziamenti e i possessi dei plebei, che probabilmente chiamavansi
mancipia . Quando poi patriziato e plebe entrarono a far parte dello stesso
populus romanus qui ritium , in base alla considerazione del censo, la sola
proprietà , che era loro comune era quella che spettava al capo di famiglia, e
perciò fu questa , che comparve nel censo intestata ad ogni quirite sui iuris,
sotto il vocabolo di mancipium e coi caratteri di una proprietà assolutamente
individuale. Il vocabolo mancipium tuttavia non significd per sè il dominium ex
iure quiritium , ma piuttosto quel complesso organico di cose, che per il primo
formo oggetto del medesimo ; come lo dimostra la circostanza , che in questo
periodo, secondo l'attestazione dei giureconsulti, si ricorse per indicare il
che questa condizione speciale delle res mancipii, accennata da Gajo, I, 192, e
da Ul PIANO, Fragm ., XI, 27, doveva fin d'allora condurre alla distinzione di
cui si tratta . Per un più lungo esame dell'opinione del Voigt, vedi Squitti,
op . cit., pag . 73 e seg ., e BONFANTE , op . cit., pag. 115 e seg . 146
dominio quiritario all'espressione meam esse : « aio hanc rem iure quiritium »
. Ferma cosi la spiegazione del modo in cui sarebbesi formato il primo nucleo
del dominium ex iure quiritium , resta ora a ve dere come il suo concetto siasi
venuto allargando, e quali siano i varii stadii, che attraverso questa
proprietà ex iure quiritium , la quale doveva poi divenire il modello di ogni
proprietà esclusiva mente privata ed individuale. 353. A questo riguardo i
ricercatori dell'antico diritto si arrestano sorpresi di fronte a questo fatto
singolare, che il solo mancipium nei primi tempi sembra aver formato oggetto
della proprietà ex iure qui ritium . L'Ortolan, ad esempio , trova assurdo che
il quirite non avesse la proprietà delle cose incorporali, se si eccettuano
certe servitù rustiche, nè la proprietà delle cose mobili, se si eccettuano i
servi e le bestie da tiro e da soma. Così pure il Muirhead stenta a spiegare in
qualmodo quei quiriti, che avevano divisi i loro fondi, fossero poi
indifferenti alla distinzione del mio e del tuo per molte altre cose; il che lo
induce a combattere la proposizione di Gaio, secondo cui il popolo Romano non
conosceva un tempo, che la sola proprietà ex iure quiritium : « aut enim ex
iure quiritium unusquisque do minus erat , aut non intellegebatur dominus »
(1). È certo che la cosa riesce assai strana, quando si voglia ritenere che, al
difuori della proprietà ex iure quiritium , non vi fosse pei romani primitivi
altra forma di proprietà o di possesso ; ma la cosa pud invece essere spiegata
quando si abbia presente il modo, in cui si vennero formando il ius quiritium e
le istituzioni, che entrarono a costituirlo . Già ho cercato di dimostrare
comeil ius quiritium non comprendesse tutto il diritto primitivo di Roma, ma
solo quella parte di esso , che prima venne a precipitarsi e a consolidarsi e
che di vento cosi comune ai due ordini, che con Servio Tullio entrarono a far
parte della stessa comunanza quiritaria. Il patriziato e la plebe continuarono
ancor sempre a seguire le proprie tradizioni ed usanze, e non ebbero comune che
quella parte di diritto , che essendo stata accettata come base della comunanza
quiritaria prese il nome spe ciale di ius quiritium . Questo pertanto non
governd dapprima tutti i rapporti giuridici, ma solo quelli che intervenivano
fra loro nelle ( 1) Ortolan, Histoire de la législation romaine, Paris, 1880,
p. 606. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 40. . 447 loro qualità di quiriti, e
fu solo col tempo e a misura che facevasi più intima la convivenza dei quiriti,
che esso venne arricchendosi di nuove forme, assimilando nuovi istituti,
modellando nuovi negozii richiesti dalle esigenze della vita civile in una
grande e popolosa città , e si cambiò così nel ius proprium civium romanorum
(1). 354. Or bene ciò che accadde nella formazione del ius quiritium si avverò
eziandio nell'elaborazione delle varie istituzioni, che en travano a
costituirlo, e quindi anche delle proprietà ex iure qui. ritium . Questa non
comprende dapprima tutta la fortuna, famigliare o gentilizia dei cittadini, ma
comprende solo quella parte di essa , che loro appartiene nella loro qualità di
quiriti. Siccome quindi nella comunanza serviana non conta dapprima che il
mancipium , che è la sola proprietà intestata nel censo al quirite e in base a
cui si determinano i suoi diritti e le sue obbligazioni di quirite, cosi la
primitiva proprietà ex iure quiritium non potè comprendere dapprima che il
mancipium , e fu solo a questa, che si applicò l'atto quiritario per
eccellenza, cioè l'atto per aes et libram , e quella pro cedura quiritaria
dell'actio sacramento , in cui i contendenti affer mavano: « hanc rem suam esse
ex iure quiritium » . Questa infatti era l'unica proprietà , che poteva essere
tenuta in conto al punto di vista quiritario e che doveva perciò avere la
tutela del diritto qui ritario . Quindi era giusto il dire, che altri « aut
erat dominus ex iure quiritium , aut non intellegebatur dominus » : il che non
vuol già dire , che non si potesse avere il possesso od il godimento di altri
beni, ma soltanto che le altre forme di proprietà non potevano es sere tenute
in calcolo al punto di vista quiritario . Quindi al modo stesso, che il ius
quiritium fu il frutto della selezione di certi con cetti e forme solenni, che
furono adottate dalla comunanza dei qui riti, cosi la proprietà ex iure
quiritium fu anche essa determinata da una specie di selezione. Il suo primo
nucleo consistette nel man cipium , il quale costitui in certo modo la
proprietà tipica del qui rite , ma più tardi i suoi limiti apparvero troppo
circoscritti, e perciò alla cerchia troppo ristretta del mancipium si venne
sostituendo un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Questo
infatti (1) Questo carattere particolare del ius quiritium , per cui esso non è
tutto il di ritto primitivo di Roma, ma solo quella parte di esso, che vennesi
consolidando al lorchè patriziato e plebe entrarono a formar parte della stessa
comunanza quiritaria . fu dimostrato sopratutto nel lib. III, cap. 3º. 448
viene già ad essere più esteso : lº quanto alle persone a cui compete, che non
sono più i soli capi di famiglia , ma tutti i cittadini ro mani ed anche i
latini cui sia accordato il ius quiritium ; 2° quanto ai modi, con cui si
acquista , che non si riducono più alla sola man cipatio, ma comprendono anche
la in iure cessio e la usucapio (1 ); e quanto alle cose, che possono essere
l'oggetto, che non sono più le sole res mancipii, ma tutte le cose in commercio
, eccetto il solum provinciale. Tuttavia egli è evidente, che anche in questo
secondo stadio la proprietà ex iure quiritium costituisce ancora sempre una
proprietà privilegiata , quanto alle persone , alle cose , ai modi di acquisto
; cosicchè ogni qualvolta manchi una di queste condizioni la cosa ap partiene
solo in bonis, ed è solo col tempo e per effetto della pro tezione pretoria ,
che viene a poco a poco delineandosi una proprietà in bonis, accanto alla
proprietà per eccellenza, che era quella ex iure quiritium . Qui pertanto
appare evidente quella legge di for mazione del diritto romano, per cui accanto
alla parte di esso già formata ne compare un'altra, che trovasi in via di
formazione e che cercasi a poco a poco di fare entrare nelle forme di quella ,
che prima riuscì a consolidarsi. Mentre questo dualismo nel primitivo ius
quiritium è rappresentato dal mancipium e dal nec mancipium , il medesimo
invece nel ius proprium civium romanorum viene ad essere rappresentato dalla
proprietà ex iure quiritium e da quella in bonis ; ma intanto la seconda
distinzione, pur abbracciando una cerchia più vasta, continua ancora sempre ad
essere foggiata sulla prima. 355. Queste considerazioni mi conducono a
ritenere, che anche il dominium ex iure quiritium , dopo esser stato modellato
sulla realtà dei fatti, abbia finito per convertirsi in una costruzione
giuridica non dissimile da quella , che abbiamo ravvisata nei concetti di
caput, di manus e di mancipium . Esso è una forma di proprietà , che cor
risponde al concetto del quirite, e quindi al modo stesso , che questi nella
sua configurazione giuridica era una individualità integra e perfetta , concepita
sotto l'aspetto esclusivamente giuridico , ed (1) Non è qui il caso di parlare
nè dell'adiudicatio, nè della lex , e dell'adsignatio viritana , che potevano
anche attribuire il dominium ex iure quiritium ; poichè lo stesso Gajo , Comm
., II, 65 , parla soltanto della mancipatio, della in iure cessio e
dell'usucapio , come costituenti un ius proprium civium romanorum . 449 isolata
da tutti gli altri suoi rapporti , cosi anche la sua proprietà ebbe ad essere
concepita come assoluta ed esclusiva, e fu modellata in certo modo ad imagine
della persona, a cui doveva appartenere. Una prova di ciò l'abbiamo in questo ,
che allo svolgimento del dominium ex iure quiritium si applicò una logica del
tutto ana loga a quella, che erasi applicata allo svolgimento del concetto di
caput; cosicchè, per determinare i varii atteggiamenti del dominio , furono
adoperati dei criteri analoghi a quelli, che servirono a de terminare lo stato
del quirite. Così , ad esempio , al modo istesso , che si ha l'optimum ius
quiritium allorchè la capacità del quirite non soffre alcuna limitazione; cosi
havvi il dominium optimum maximum , quando il dominium non è soggetto ad alcuna
limita zione. Al modo stesso parimenti, che vi ha una diminutio capitis, cosi
havvi eziandio una diminutio dominii , la quale è perfino in dicata collo
stesso vocabolo di servitus, con cui pure si indica la maxima capitis
diminutio. Che anzi a quella guisa, che l'intiero caput non appartiene a tutti
gli uomini, cosi non tutte le cose sono suscettive del dominium .ex iure
quiritium ; il qual concetto spin gesi a tal punto, che può ravvisarsi una
specie di correlazione fra la concessione della civitas agli abitanti, e la
concessione al suolo da essi abitato di quel ius privilegiato , che lo rende
suscettivo di dominio quiritario . Cosi mentre il solum italicum ottenne questa
speciale condizione, sotto il nome di ius italicum , il solum provin ciale
invece non potè mai essere oggetto di vera proprietà , se non quando scomparve
con Giustiniano la distinzione fra la proprietà ex iure quiritium e la
proprietà in bonis (1) . Vi ha di più ancora, ed è che le trasformazioni
storiche, che ac cadono nel concetto di caput, camminano di pari passo con
quelle del dominium ex iure quiritium . Così, ad esempio , finchè il vero caput
non appartenne che al capo di famiglia , anche questi fu il solo capace di
proprietà ex iure quiritium . Quando poi la capacità di diritto dal capo di
famiglia passò ad ogni cittadino romano ) (1) In questa guisa si spiega, come i
Romani procedessero nell'accordare ad un determinato territorio l'attitudine ad
essere oggetto di proprietà quiritaria nel modo stesso, in cui procedevano
nell'estendere la cittadinanza romana ai popoli conquistati. Di qui l'analogia
fra la formazione del ius latiï e quella del ius italicum : di cui quello si
riferisce alle persone, questo invece si riferisce al suolo (Cfr. Baudouin,
Étude sur le ius italicum , nella « Nouvelle revue historique de droit français
et étranger » , annate 1881 e 1882). G. CARLI, Le origini del diritto di Roma.
29 450 bastò essere tale, per essere capace di proprietà ex iure quiritium .
Quando infine la capacità giuridica appartenne ad ogni uomo li bero , perchè
tutti gli abitanti dell'impero ottennero la cittadinanza, bastò essere uomo
libero per essere capace di quella proprietà , che un tempo era stata
privilegio dei soli quiriti. La qual trasforma zione avverasi anche, quanto
alle cose che ne formano l'oggetto , le quali cominciarono dall'essere quelle
soltanto, che figuravanonel censo intestate al capo di famiglia (res mancipii),
e finirono per compren dere tutte quelle, che potevano essere in commercio . Il
che deve pur dirsideimodi diacquisto , i quali dapprima furono probabilmente
circo scritti alla sola mancipatio, mentre dopo compresero l'in iure cessio e
l'usucapio, e finirono col tempo per comprendere anche quei modi di acquisto ,
che dapprima erano proprii soltanto del diritto delle genti ; donde la
distinzione della classica giurisprudenza fra i modi di acquisto del dominio ,
civili e naturali, originarii e derivativi (1 ). 356. Era poi naturale, che
alla proprietà cosi intesa i giurecon sulti abbiano finito per applicare quella
stessa analisi, che già ab biamo riscontrato nel caput. Essi contrapposero il
quirite alla cosa che gli apparteneva : gli fecero afferrare materialmente la
cosa ed affermare la sua proprietà sulla medesima dicendo, che la cosa era sua
ex iure quiritium : immedesimarono in certo modo la persona colla cosa alla
medesima spettante, e le attribuirono così un di ritto illimitato di usarne,
goderne, e di disporne , anche abusando di essa . In questo diritto del
proprietario , che non ha confine, deve quindi ravvisarsi una costruzione
giuridica, non dissimile da tante altre, che occorrono nel diritto romano :
poichè in effetto l'abuso della proprietà era poi frenato dal costume, e
sopratutto dal iudicium de moribus, il quale , dopo essere stato una
istituzione gentilizia , fu di nuovo ristabilito dalle XII Tavole, e fu
affidato al pretore (2 ). Che anzi ciascuno dei diritti inchiusi nella
proprietà (1) Non può ammettersi, come vorrebbero taluni, che nelle origini del
diritto ro mano non esistessero modi naturali di acquisto, il che sarebbe
contraddetto dall'an tichità della traditio, quanto alle res nec mancipii: ma
soltanto che i modi naturali, pur esistendo da epoca forse più antica , furono
solo più tardi incorporati nella com pagine del diritto romano, il quale
assimilava solamente ciò, che in qualche modo poteva entrare nelle forme
prestabilite. (2 ) L'origine gentilizia del iudicium de moribus fu dimostrata
al n° 59, p . 74. Del resto tale origine gentilizia è comprovata dalla
intitolazione stessa di questo iw dicium demoribus, la quale sembra richiamare
qualche antica norma consuetudi 451 fini per ricevere una propria denominazione,
e staccato dal ceppo , sovra cui aveva radice, fini per dare origine alle varie
configura zioni dei diritti reali , comprendendovi anche il ius possessionis,
ciascuno dei quali potė ricevere un vero e proprio sviluppo, pur sempre
ritenendo l'impronta reale, che eragli provenuta dalla pro prietà , di cui
costituiva un frazionamento. Fu anzi in questa occa sione, che sembra essere
venuto in uso il vocabolo di proprietas, il quale in origine appare adoperato,
quando si tratta di contrapporre la proprietà ai diritti reali, che erano
inchiusi nella medesima (1). 357. Questa ricostruzione intanto del dominium ex
iure quiri. tium mi porge occasione di fare un brevissimo cenno dei rapporti,
che nel diritto romano intercedono fra la proprietà ed il possesso. A questo
proposito il diritto romano presenta questa singolarità , chementre il
giureconsulto Paolo, fondandosi sull'autorità di Nerva filius, annunzia come
fuori di ogni dubbio, che il dominio dovette cominciare dalla materiale
appropriazione delle cose (dominium rerum ex naturali possessione coepisse)
(2); noi troviamo invece , che nello svolgimento storico presentasi dapprima
integro e com piuto il concetto del dominium ex iure quiritium , ed è solo
molto più tardi, che il possesso viene ad essere considerato come una isti
tuzione giuridica , protetta cogli interdetti possessori. Di fronte a questo
stato di cose sarebbe fuor di luogo il sostenere, che i Romani non
distinguessero dapprima fra la materiale detenzione di una cosa, e la
padronanza giuridica sovra di essa ; ciò sarebbe smentito dal fatto , che essi
fin dai primi tempi ebbero il concetto dell'usus e dell'usus auctoritas , ed
anche dalla circostanza, che ai plebei, stanziati sul territorio romano, non si
riconobbe dapprima una vera naria, ed anche dalla circostanza , che le XII
Tavole, affidando al pretore questo po tere, che un tempo apparteneva alla
gens, richiamarono di nuovo in vita il primitivo concetto dell'heredium , che
era venuto meno nello stretto ius quiritium , e ristabili rono contro il prodigo
interdetto la cura degli agnati e dei geniili, la quale è certo una reliquia
dell'organizzazione gentilizia . Il testo infatti, secondo la ricostruzione del
Voigt, Tav. VI, 10 , sarebbe il seguente : « Qui sibi heredium nequitia sua
disperdit, liberosque suos ad egestatem perducit, ea re commercioque praetor
interdicito. In adgnatum gentiliumque curatione esto » . ( 1) Che il vocabolo
di proprietas abbia cominciato ad adoperarsi, allorchè si trat tava di
contrapporre la proprietà in sè ai diritti frazionarii inchiusi nella medesima,
può argomentarsi , fra gli altri passi, da quello di GAJO, II, 30, ove la
proprietas si contrappone appunto all'ususfructus. (2 ) L. 1, § 1 , Dig . (41,
2 ). 452 proprietà , ma una specie di possesso a titolo di precario , che non
aveva ancora carattere giuridico (1). La causa invece del fatto deve riporsi in
ciò , che anche in questa parte il ius quiritium , essendo già stato il frutto
di una vera elaborazione giuridica, prese senz'altro le mosse dal concetto più
vasto e comprensivo, a cui si potesse giungere in tema di proprietà . Il
concetto infatti del do minium ex iure quiritium ebbe dapprima ad essere
modellato sul mancipium , il quale , implicando la sottomissione illimitata di
una cosa ad una persona, inchiudeva in una sintesi potente tutti i po teri, che
ad una persona possono appartenere sopra una cosa. Il diritto infatti , che al
quirite spetta sul proprio mancipium , nella sua sintesi vigorosa, implica la
detenzione materiale e la proprietà della cosa : è un fatto ed è un diritto ; è
una proprietà originaria , ma intanto comprende eziandio la proprietà derivata
; esso anzi de signa perfino una proprietà , che ha dell'individuale e del
famigliare ad un tempo. Fu soltanto più tardi, che anche in questo concetto venne
penetrando l'analisi , la quale cominciò dal distinguere la materiale
detenzione di una cosa (naturalis possessio), la quale è un puro e semplice
fatto (res facti), dalla padronanza giuridica sovra di essa (dominium ex iure
quiritium ), la quale costituisce invece un vero e proprio diritto (res iuris).
Col tempo però, siccome fra questi due termini estremiverranno ad esservi delle
possessiones, che per speciali considerazioni potranno anche apparire
meritevoli diprotezione giuridica, cosi si verrà a poco a poco modellando dal
pretore il concetto di una civilis possessio. Questa tuttavia non apparirà più
unicamente come una res facti , ma in parte eziandio come una res iuris ; non
supporrà unicamente la materiale deten zione della cosa (corpus), ma anche l'intenzione
di tenere la cosa per sè (animus rem sibi habendi). Questo possesso verrà cosi
a pren dere un posto di mezzo fra la semplice detenzione materiale di una cosa,
e la proprietà della medesima (2 ) ; quindi, per la protezione di esso , il
pretore , non trovandosi di fronte ad un diritto compiutamente formato, non
potrà ius dicere nel vero senso della parola , ma sol tanto interdicere , cioè
proibire che venga turbato lo stato di fatto , del quale si tratta (vim fieri
veto ), donde la denominazione degli inter . (1) Vedi, quanto alle primitive
possessioni della plebe nel territorio romano, il nº 154 , pag. 190 e segg .
(2) V. in proposito Savigny, Dela possession , Trad. Staedtler, sulla 74 ed .
tedesca, Bruxelles 1879, § 5º, pag. 20 a 25 . 453 dicta , con cui si protegge
il possesso . Siccome poi questo possesso , du rando un determinato spazio di
tempo, già poteva, in base all'usuca pione,trasformarsi in un vero diritto;
cosi il possesso , oltre al costituire per se stesso una istituzione giuridica ,
protetta mediante gli inter detti, costituisce pure un mezzo , mediante cui il
fatto della deten zione e del godimento di una cosa (usus) può trasformarsi nel
di ritto di proprietà (auctoritas) (1). È tuttavia a notarsi, che siccome tanto
il dominium ex iure quiritium , quanto la semplice possessio debbono ritenersi
come una scomposizione del diritto, che al quirite spettava sul primitivo
mancipium , il quale aveva del materiale e del giuridico ad un tempo ; così
tanto il dominium , che la pos sessio, presso i romani, non poterono mai
intieramente spogliarsi di un certo carattere di materialità . Cid è dimostrato
dalla circostanza, che da una parte il dominium fini per essere circoscritto
alle cose corporali e dovette sempre essere trasferito col mezzo della tra
dizione, e dall'altra il possesso non potè parimenti estendersi, che alle cose
corporali e ad alcuni dei diritti reali competenti sulle me desime (quasi
possessio ) (2). In questo modo possono facilmente spiegarsi le incertezze dei
giureconsulti , i quali ora considerano il possesso come una res facti, ed ora
come una res iuris, ora scorgono in esso l'estrinsecazione del diritto di
proprietà , ed ora dicono invece , che il possesso ha nulla di comune con essa;
poichè il medesimo, essendo una istitu zione intermedia fra il fatto ed il
diritto , fra la detenzione e la proprietà, poteva presentarsi or sotto l'uno
or sotto l'altro aspetto, secondo lo speciale punto di vista , sotto cui era
considerato (3 ). Si comprende parimenti, che sebbene ogni dominio abbia dovuto
(1) A parer mio è importante nello svolgimento storico del diritto romano di
tener distinti i due istituti del possesso ad usucapionem , e del possesso ad
inter dicta . Il primo prese le mosse del concetto dell'usus e perciò potò
essere applicato così alle res mancipië che alle nec mancipii, così alle cose
corporali, che alle incor porali; mentre il secondo fu il frutto dell'analisi
del mancipium , e ritenne quindi sempre qualche cosa della materialità inerente
a quest'ultimo. L'uno mette capo alla legislazione decemvirale, mentre l'altro
ricevette la propria configurazione giu ridica dal diritto pretorio . (2 ) Cfr.
Savigny, op. cit., § 12 , pag . 170-177. (3 ) V. i passi in proposito citati
dal Savigny, op . cit ., § 5 , pag. 21 e segg ., nelle note. Sono poi noti i
passi di Ulp., 12 , § 1, Dig . (41, 2) nihil commune habet proprietas cum
possessione» , ed altri analoghi, L. 1, $ 2 , Dig . (43, 17). Cfr. JHERING ,
Fondement des interdits possessoires, Trad . Maulenaere, Paris 1882, pag . 42.
- 151 prendere le mosse dalla materiale appropriazione di una cosa , il
concetto del possesso sia tuttavia di formazione posteriore, e non abbia
ricevuto una propria configurazione giuridica, che per opera del pretore,
allorchè il medesimo cominciò ad accordare la prote zione giuridica a quelle
possessiones nell'ager publicus, che per la propria durata già cominciavano ad
assumere il carattere di un vero A proprio diritto ( 1) . Per quello poi, che
si riferisce alla questione tanto agitata del fon damento razionale della
protezione giuridica accordata al possesso, essa , come al solito , non ebbe ad
essere trattata di proposito dai giu reconsulti ; ma si può indurre dallo
svolgimento storico di esso , che tale fondamento deve riporsi sul principio,
sovra cui poggia tutto il diritto romano, secondo cui « ex facto oritur ius » ,
in quanto che ogni fatto , che riunisca in sè certe condizioni di durata e di
buona fede, contiene in sé i germi di un diritto e come tale può già meri tare
la protezione giuridica e servire ad un tempo di base all'usu capione (2 ). (1)
Tale sarebbe l'opinione del Niebaur , Histoire romaine, III, 191 e segg.; e del
Savigny, op. cit., § 12 a , pag . 177-185. Essa parmi in ogni caso più
verosimile di quella sostenuta dal Pochta , Istit., § 225, secondo cui l'idea
del possesso sarebbe provenuta dalla concessione del possesso interinale, che
si accordava ad uno dei contendenti nella procedura di vindicazione coll' actio
sacramento ; poichè questo possesso interinale non ha punto che fare col possesso,
in quanto ha una protezione giuridica tutta sua propria, che consiste negli
interdetti. Comunque stia la cosa , sembra che l'interdetto più antico sia
quello uti possidetis , destinato appunto ad impedire il turbamento di uno
stato di fatto. Intanto viene ad essere evidente, che in base all'opinione qui
sostenuta, se si voglia collocare il possesso nella solita di stinzione dei
diritti in personali e reali, esso dovrà certo esser collocato tra i diritti
reali. Cfr. il SavIGNY, op . cit., $ 6 , p. 42, il quale sostiene un'opinione
in parte diversa . (2 ) Senza voler qui prendere in esame le molte teorie , che
furono escogitate in proposito, solo mi limiterò ad osservare, che la questione
ebbe ad essere profonda mente discussa in due opere, che vennero ad un
risultato compiutamente diverso ; di cui una è quella del JHERING , Ueber den
Grund des Besitzschutzes, Jena 1869, di cui abbiamo la trad. franc. del
Maulenaere, sopra citata , e l'altra è quella del Bruns, Die Besitzklagen des
röm . und heutigen Rechts, Weimar 1874, il cui con cetto fu adottato e
largamente esposto dal PADELLETTI , Archivio giuridico, XV, pag . 3 e segg .
Secondo il primo, la protezione accordata al possesso fondasi su ciò , che il
possesso è una estrinsecazione della stessa proprietà , e quindi senza tale pro
tezioneanche la proprietà non sarebbe sufficientemente difesa. Secondo l'altro
invece, il posseso è tutelato unicamente per se stesso, in base al concetto,
enunciato nella L. 2, Dig . (43 , 17): qualiscumque possessor, hoc ipso quod
possessor est , plus iuris habet, quam qui non possidet » . Parmi che,
assegnando a questa protezione il fondamento razionale indicato nel testo, cioè
il principio : « ex facto oritur ius » , si 455 358. Di fronte a questo
svolgimento storico e logico ad un tempo, parminon possa essere difficile la
risposta a coloro, i quali chiedono comemai una istituzione, come quella della
proprietà ex iure quiri. tium , dopo essere stata esclusivamente propria dei
romani, abbia finito per diventare istituzione universale, e per essere
adottata anche da quei popoli, i quali non subirono l'influenza diretta della
dominazione romana. La causa vera del fatto sta in questo , che la proprietà
quiritaria, dopo essere uscita dai fatti, e aver prese le mosse da quel nucleo
di cose, che anche nell'organizzazione gentilizia era assegnato ai singoli capi
di famiglia , fini per essere isolata dall'ambiente , in cui si era formata , e
si cambiò così in una costruzione logica e coerente . Fu in questa guisa, che
la medesima, essendo ridotta, per dir cosi, ad un capolavoro di costruzione
giuridica, potè cessare di essere l'istitu zione di un popolo, per diventare
quella del mondo. Vero è, che tutti i popoli ebbero i loro istituti giuridici,
e quindi anche questa o quella forma di proprietà , ma non tutti riescirono ad
isolare tali istituti e sopratutto la proprietà dall'ambiente storico , in cui
si erano for mati ; solo i romani ebbero la potenza di sceverarli da ogni
elemento affine, di sottoporli ad un'elaborazione non interrotta , che duro pa
recchi secoli, e riuscirono cosi a ridurre allo stato di purezza quella , che
potrebbe chiamarsi l'obbiettività giuridica dei singoli istituti . Le loro
analisi, le loro fattispecie , le loro costruzioni giuridiche non potranno
sempre essere applicabili, ma saranno sempre elaborazioni tipiche nel loro
genere, come lo sono in un genere diverso i capo lavori dell'arte greca ; ed è
questo il motivo dell'eternità e dell'uni versalità del diritto romano. Questa
elaborazione poi fu dai romani compiuta sopratutto quanto al concetto della
privata proprietà . In questo senso si pud dire col Sumner Maine (1) che essi
furono i crea tori della proprietà privata ed individuale ;ma è sopratutto
notabile abbia il vantaggio di far contribuire alla giustificazione della
protezione giuridica accordata al possesso e l'una e l'altra teorica , e quello
di dare contemporaneamente una base, così al possesso ad interdicta , come al
possesso ad usucapionem . Secondo il Puglia , Studii di storia del diritto
romano, Messina 1886 , pag. 72: « l'interdetto pos sessorio sarebbe comparso
come un mezzo particolare per risolvere una controversia , per la quale non
potevasi dal pretore esercitare la iurisdictio » ; ma è ovvio il notare che in
questa guisa si potrà forse spiegare l'introduzione degli interdetti, ma non
maiil fondamento della protezione giuridica accordata al possesso. Cfr .
PADELLETTI Cogliolo, Storia del dir. rom ., pag . 529 e segg., ove trovasi
citata in nota la bi bliografia più recente sull'argomento . ( 1) SUMNER-MAINE,
L'ancien droit, trad . Courcelles Seneuil, Paris, 1874, p . 244 . 456 il modo e
il perchè essi ed non altri riuscirono in tale creazione. Essi infatti vi
pervennero svolgendo prima il concetto della pro prietà individuale, assoluta
ed esclusiva, riguardo a quel nucleo di cose, che era compreso nel primitivo
mancipium , con cui ogni sin golo quirite compariva nel censo, e poi
trasportarono successiva mente il concetto logico, che essi si erano formati di
questa pro prietà ex iure quiritium , a tutte le cose corporali, che potevano
essere oggetto di commercio . Per tal modo la proprietà quiritaria si staccò da
una organizzazione gentilizia e patriarcale , non dissi mile da quella , da cui
usci la proprietà privata dei Germani e degli Inglesi nell'evo moderno ; ma a
differenza di questa , quella fu ben presto isolata dall'ambiente , in cui
erasi formata, e si cambid cosi in una proprietà tipica , strettamente
individuale, che potè con certi temperamenti essere adottata da tutti i popoli.
Appendice. Senza voler qui fare comparazioni, che miporterebbero fuori del
tema, non so tuttavia trattenermi dall'accennare ad alcune singolari analogie
fra lo svolgi mento della proprietà privata in Roma e presso i popoli
Germanici. Ebbi già occasione di accennare, a pag . 62, nota 2, la discussione
seguita nell'Accademia Francese, a pro posito della proprietà presso gli
antichi Germani. Ora aggiungo, che quella stessa discussione porse argomento ad
una nota del prof. Del Giudice, stata letta all'Isti tuto Lombardo, nelle
adunanze del 4 e 18 marzo 1886 , in cui egli fa un accura tissimo raffronto fra
la descrizione di Cesare e quella di Tacito circa le condizioni dei primitivi
Germani, e cerca di ridurre nei loro veri confini le mutazioni, che si erano
avverate, quanto alla proprietà del suolo, nei 150 anni, che separano i due
autori. Tale trasformazione riducevasi in sostanza a ciò, che i possessi erano
diventati più stabili, e che dalla proprietà collettiva del villaggio già erasi
venuta distin guendo la proprietà della famiglia. Pervenuti così a questo punto
della evoluzione della proprietà presso i Germani, analogo a quello, a cui
erano pervenute le genti italiche, allorchè fondarono la città di Roma, noi
troviamo nel dottissimo lavoro dello SCHUPFER sull'Allodio nei secoli
Barbarici, Torino, 1886 , la descrizione degli ulteriori stadii , per cui passò
l'evoluzione stessa . Noi cominciamo anzitutto dal trovarci di fronte a certi
vocaboli e concetti, che ci richiamano le condizioni primi tive delle genti
italiche. Cotali sono i communalia , i vicinalia , i vicanalia (SCHUPFER, pag .
26 ) i quali, senz'aver più la configurazione tipica dell'ager compascuus delle
tribù italiche, richiamano però il medesimo. Così anche tra i Germani trovasi
una forma di proprietà, che, senza essere del tutto individuale, già si accosta
alla medesima, ed è notevole, che essa, così fra le genti italiche, come fra i
Germani, è indicata con un vocabolo, che richiama l'eredità , il passaggio cioè
di un patrimonio dai genitori nei figli. Questo vocabolo presso i Romani, era
quello di heredium , e presso i Germani è quello di alodium ; il quale eziandio
, secondo il Waitz e lo Schupfer, cominciò dapprima dall'indicare l'eredità , e
passò poscia ad indicare il patrimonio avito. SCHUPFER , Op. cit., pag . 11 e
12. Or bene, presso l'uno e l'altro popolo, è questo heredium o alodium , che
finisce per costituire il primo nucleo della proprietà esclusivamente privata .
— È notabile anzi, che, nel periodo della tras 457 formazione, nè i Romani, nè
i Germani hanno un vocabolo specifico per indicare la proprietà : poichè mentre
i primi esprimono la proprietà coi concetti di meum e di tuum , di heredium ,
di praedium , di mancipium , i Germani invece la indicano coi vocaboli di Land,
Erbe, Eigen , Allod , Sundern (pag. 14 ). Così pure anche presso i Germani
occorrono quei consortia, che presso le genti italiche erano indicati coi
vocaboli di « ercto non cito » . Questi consortia parimenti esistono sopratutto
fra fra telli, e talora anche fra zii e nipoti, che continuano spontaneamente
nella comunione (SCHUPFER , pag. 52), e richiamano così la familia omnium
agnatorum . — Infine la vera proprietà privata formasi presso i due popoli
nella stessa guisa. Al modo stesso, che la prima proprietà privata in Roma fu
un assegno sull'ager gentilicius o sull'ager publicus, così anche la proprietà
privata , presso i popoli germanici, seguendo sempre la guida sicura del prof.
Schupfer, fu anche essa una sors, un lotto , un assegno ( pag . 63); accanto al
quale però si svolge eziandio il concetto dell'adquisitum la bore suo (pag .
60), il quale, salvo il linguaggio, non presenta poi grande differenza dal
manucaptum dei latini. È poi anche degno di nota, che questo nucleo cen trale
della proprietà privata presso i Germani, al pari che presso gli antichi Ro
mani, è costituito da un podere o da una abitazione rustica, a cui trovasi
annessa una certa quantità di terra , che in massima avrebbe dovuto essere
invariabile (pag. 63 ). Il medesimo poi è indicato coi nomi dimansus, di hoba ,
di sedimen , i quali proba bilmente portano eziandio con sè quella idea di
residenza , che era indicata anche dai vocaboli di mancipium e di dominium .
Che anzi, come già notava lo Schupfer , p . 78, anche l'uomo libero longobardo,
che si chiama arimanno, indica la sua libera pro prietà col vocabolo di
arimanna, al modo stesso che il quirite addimandava la sua proprietà esclusiva
« dominium ex iure quiritium » . Infine questa proprietà si acquista , si
trasmette e si rivendica con modi, che ricordano l'usucapio, la manci. patio e
l'actio sacramento dei Romani (SCHUPFER, Op. cit., pag. 122, 138 e 160 ).
Intanto però, accanto alle analogie, che dimostrano la costanza delle leggi che
go vernano l'evoluzione della proprietà , sonvi anche le differenze , che sono
determinate dal diverso temperamento dei popoli. Mentre infatti il popolo
romano, giunto una volta al concetto della proprietà individuale, ne fa una
costruzione tipica, che estende a poco a poco a tutte le cose, che sono in
commercio, e che svolge in tutte le sue conseguenze logiche, i popoli germanici
invece non giungono a questa concezione tipica ; quindi mentre la proprietà
romana è una sola, la proprietà germanica, come ben nota lo ScuuPFER, non potrà
mai richiamarsi a un solo tipo (pag. 75). Di più mentre i Romani, una volta
raggiunta la proprietà quiritaria, la disgiunsero affatto dall'ambiente
gentilizio , e si concentrarono esclusivamente nello svolgimento di essa,
pressochè lasciando in disparte la proprietà collettiva prima esistente, i
popoli ger manici invece, compresi anche gli Anglo-Sassoni, non giunsero mai a
districare com piutamente la proprietà privata dall' involucro feudale da cui
era uscita , o se lo fecero vi giunsero solo per imitazione della proprietà,
quale era stata modellata dai Romani, nè spinsero mai la logica della
istituzione a conseguenze così estreme, come i Romani (pag. 82). Ciò è vero
sopratutto della proprietà inglese, la quale, uscita dall'organizzazione
feudale, continua sempre a serbarne le traccie in quella serie di gradazioni e
di distinzioni, che ancor oggi la contraddistinguono. Vedi, quanto alla
proprietà inglese, il Williams, Principii del diritto di proprietà reale, trad
. Ca negallo, Firenze, 1873 e il POLLOCH, The Land Laws, Edinburgh, 1884 . -
458 CAPITOLO III. Il ius quiritium ed i concetti di commercium , connubium ,
actio . 359. Fin qui ho cercato di ricomporre il quirite negli elementi
essenziali del suo status, e di seguire le trasformazioni, che si vennero
introducendo man mano in ciascuno di questi elementi. Ricostruendo cosi il
primitivo diritto , fummo condotti ad una con figurazione giuridica del
quirite, la quale , ancorchè rigida e com passata, si presenta però organica e
coerente in tutte le sue parti. Resta ora la parte più difficile di questa ricostruzione,
quella cioè di cercare, come mai una figura cosi automatica potesse entrare in
rapporti con altre individualità foggiate sullo stesso modello , e dare cosi
origine a quella infinita varietà di negozii, in cui il quirite pud essere
chiamato a svolgere la propria attività giuridica . Non è quindi meraviglia, se
qui sopratutto apparisca sorprendente il magi stero dei veteres iuris
conditores, in quanto che non trattavasi solo più di notomizzare e di scomporre
lo status del quirite , ma di mettere il medesimo in movimento ed in azione,
valendosi di pochissimi mezzi per dar forma giuridica alla varietà grandissima
dei negozii, che si venivano moltiplicando col formarsi e collo svol gersi
della convivenza cittadina. Anche qui la supposizione più ovvia intorno al
magistero seguito dai modellatori del primitivo diritto , sarebbe che essi, da
uomini pratici quali erano, fossero venuti introducendo le istituzioni, a mi
sura che se ne presentava il bisogno, e che perciò il diritto privato di Roma,
almeno in questa parte, debba essere considerato come il frutto di una
evoluzione lenta e graduata , determinata sopratutto dalle condizioni
economiche e sociali del popolo romano (1). Lo studio invece delle vestigia ,
che a noi pervennero dell'antico ius quiritium , mi hanno profondamente
convinto , che il medesimo, anche in questa parte , che potrebbe chiamarsi la
dinamica del diritto quiritario, sia stato il frutto di una specie di
elaborazione e selezione potente , (1) Tale sarebbe l'idea, forse alquanto
preconcetta, a cui sembra ispirarsi l'opera del Puglia col titolo : Studii di
storia di diritto romano, secondo i risultati della filosofia scientifica ,
Messina, 1886 . 459 che venne operandosi su materiali giuridici preesistenti ,
la quale ebbe ad essere guidata da una logica e da una tecnica giuridica , non
dissimile da quella, che abbiamo riscontrata nella parte statica del diritto
quiritario . Vi ha tuttavia questa differenza, che mentre le basi fondamentali
dello status del quirite furono fissate , pressochè contemporaneamente,
dall'avvenimento importantissimo del censo ser viano ; lo svolgimento invece
della parte del diritto quiritario , che si riferisce al negozio giuridico , fu
l'effetto di una elaborazione più lenta e graduata , la quale si operd man mano,
che veniva accomu nandosi il diritto fra il patriziato e la plebe , e che le
loro rispettive istituzioni si fondevano insieme nell'attrito della vita
cittadina. 360. Che questo sia stato il processo , con cui si formò eziandio la
parte dinamica del ius quiritium , risulta da una quantità gran dissima di
indizii, fra cui basterà qui di ricordare i più importanti. È indubitabile
anzitutto che, anche nella parte relativa al negozio giuridico , il ius
quiritium non prende le mosse da questo o da quel fatto particolare, ma parte
invece senz'altro da concetti sin tetici e comprensivi, quali sarebbero quelli
del commercium , del connubium e dell'actio , i quali tutti hanno una
larghissima signi ficazione, e sembrano già preesistere nel periodo gentilizio
, anteriore alla fondazione della città . Cosi pure è certo, che il primitivo
ius quiritium non viene già creando le forme giuridiche, a misura che si
vengono svolgendo i nuovi rapporti giuridici , ma compare invece con certe
forme tipiche, efficacemente modellate, nelle quali cerca poi di fare entrare,
anche forzatamente, quei nuovi rapporti giuri dici, a cui dà argomento la
convivenza civile e politica . È in questa guisa, che un solo atto , quale sarà
, ad esempio, l'atto per aes et libram , finirà per servire alle applicazioni
più disparate. Che anzi è facile eziandio di scorgere, che il ius quiritium ,
nelle diverse serie di rapporti giuridici da esso governati, presentasi
dapprima con istituzioni tipiche, che costituiscono in certo modo il nucleo
centrale , intorno a cui si vengono poi consolidando le istituzioni, che hanno
qualche affinità con quelle già formate. Così, ad esenipio, non vi ha dubbio ,
che il ius quiritium riconosce una forma tipica di matrimonio , che è il
matrimonio cum manu ; un atto quiritario per eccellenza, che è l'atto per aes
et libram ; come pure una legis actio essenzialmente quiritaria, che è l'actio
sacramento . Convien perciò conchiudere, che anche in questa parte del diritto
quiritario non si accettano i materiali giuridici, quali che essi siano ; - 460
- ma si viene operando una specie di scelta fra i medesimi, e soltanto si
adottano quelli, che possano convenire al concetto fondamentale , che è quello
del quirite . È quindi evidente, che per giungere ad una ricostruzione di
questa parte del ius quiritium conviene in certo modo assecondare le leggi
della sua naturale formazione, cominciando dal cercare : lº quali siano i
concetti fondamentali, da cui prende le mosse la formazione di questa parte del
ius quiritium ; 2 ° la pro venienza di questi concetti e l'elaborazione, che
essi subiscono en trando nel diritto quiritario ; 3º l'ordine progressivo , con
cui questi varii concetti vennero penetrando e consolidandosi nella elabora
zione del ius quiritium . 361. Quanto ai concetti fondamentali, da cui prende
le mosse la dinamica del diritto quiritario, essi sono senz'alcun dubbio quelli
del connubium , del commercium , dell'actio . Cid pud inferirsi anzitutto dalla
circostanza, che tutti questi concetti già si erano elaborati nel periodo gentilizio,
nei rapporti fra i capi delle famiglie e delle genti, e quindi era naturale ,
che questi, entrando a far parte della comunanza quiritaria , li applicassero
eziandio nei loro rapporti come quiriti, tanto più che il quirite , pur essendo
un individuo , continuava ancora ad essere un capo gruppo. A ciò si aggiunge,
che questi concetti si adattavano mirabilmente alla concezione tipica del
quirite , quale era stata determinata sopratutto dal censo e dalla costituzione
serviana. Il quirite infatti presentavasi nella doppia qualità di capo di
famiglia e di proprietario di terra , i quali due caratteri, nella sintesi
primitiva, sembravano in certo modo immede simarsi fra di loro, come lo
dimostrano le concezioni del caput, della manus e del mancipium . Era quindi
naturale , che siccome le istitu zioni fondamentali del diritto quiritario si
riducevano alla famiglia ed alla proprietà , così le varie manifestazioni
dell'attività giuridica del quirite si richiamassero: o al concetto del
connubium , da cui di scende appunto l'organizzazione della famiglia; o a
quella del com mercium , in cui comprendonsi tutti i negozii, a cui porge
occasione la circolazione e lo scambio della proprietà . — Le une e le altre ma
nifestazioni poi trovavano la propria difesa nell'actio , che serviva a
tutelare il quirite sotto l'uno e sotto l'altro aspetto , non essendovi ancora
la distinzione fra i diritti reali e personali. Questi concetti pertanto ,
trasportati nel ius quiritium , si cambiarono, per così dire , in altrettanti
capisaldi, da cui si vennero staccando i varii aspetti, sotto cui pud
esplicarsi l'attività giuridica del quirite ; co 461 sicchè anche più tardi,
per mettere ordine nello svolgimento copioso della giurisprudenza romana, Gaio
dovette di necessità ricorrere ad una distinzione, che richiama quella
antichissima del connubium , del commercium e dell'actio (1). Tutto il diritto
infatti, che si ri ferisce alle persone, considerate sotto il punto di vista
esclusiva mente privato , sembra metter capo al concetto del connubium ; quello
invece, che si riferisce alle cose, non è che uno svolgimento del commercium ;
e quello infine, che riguarda le azioni, non è che una derivazione da quella
legis actio , che costituì la procedura pri mitiva propria dei quiriti. Del
resto sono gli stessi giureconsulti romani che, dopo aver distinto i diritti
pubblici dai privati, finirono per richiamare questi ultimi ai due diritti
fondamentali del con nubium e del commercium , somministrandoci così, almeno
questa volta , una chiave di quella dialettica fondamentale, che stringe ed
unifica il molteplice svolgimento della giurisprudenza romana (2). 362. Per
quello poi, che si riferisce alla provenienza di questi concetti direttivi di
questa parte del ius quiritium , non può esservi dubbio , che essa deve essere
cercata nel periodo gentilizio , il che credo di avere largamente dimostrato a
suo tempo ( 3). Vuolsi perd aggiungere, che questi concetti, i quali prima
avevano governato dei rapporti fra i capi di famiglia e delle genti, allorchè
furono tras portati nei rapporti fra quiriti, si trasformarono in altrettante
basi del diritto spettante ai quiriti , cosicchè dal connubium derivd il ius
connubii ex iure quiritium ; dal commercium il ius commercii pure ex iure
quiritium ; e infine dall’actio il sistema delle legis actiones , che è
parimenti proprio della comunanza quiritaria . Questi concetti pertanto
cessarono di avere uno svolgimento pura mente estensivo , come era accaduto nei
rapporti fra le famiglie e le genti, ma ricevettero eziandio uno svolgimento
intensivo; cosicchè (1) Intendo qui parlare della nota distinzione di Gaio,
Comm ., I, 8 : « Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad
res, vel ad actiones » . Quanto alle obbiezioni che si fecero, sopratutto dal
Savigny, al valore di questa distinzione, vedi quanto si è detto al n ° 97,
pag. 124, nota 1. (2) È sopratutto Ulpiano, checerca di abbracciare nei due
larghissimi concetti di connubium e di commercium tutto l'esplicarsi
dell'attività giuridica del qui rite. V. Ulp., Fragm ., V , 3, quanto al
connubium , e XIX , 5 quanto al commercium . Quanto all'uno e all'altro
concetto cfr . il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 244 e. 274 , coi passi ivi
citati, ed il MUIRHEAD, Histor. Introd., pag. 108 e 109. (3 ) V. sopra lib . I,
cap . VI, SS 2 e 3, pag . 123 a 138. 402 ciascuno di essi venne ad essere una
propaggine di quel diritto pri vilegiato, cui i Romani diedero dapprima il
nomedi ius quiritium , e che più tardi chiamarono ius proprium civium romanorum
. Cosi, ad esempio , il connubium nel periodo gentilicio , era il di ritto di
imparentarsi fra di loro, che esisteva fra i membri delle genti, che
appartenevano al medesimo nomen . Trasportato invece nella comunanza
quiritaria, esso venne a trasformarsi nel ius con nubii ex iure quiritium .
Secondo Ulpiano infatti « connubium est uxoris iure ducendae facultas » , ossia
il diritto di addive nire alle giuste nozze riconosciute dal ius quiritium , e
di godere cosi di tutti i diritti , che in base al medesimo derivavano da
queste giuste nozze , cioè : della manus sulla moglie , fino a che il
matrimonio cum manu costitui il matrimonio tipico del cittadino romano ; della
patria potestas sui figli, che anche più tardi i giureconsulti consideravano
come istituzione peculiare al popolo romano. Che anzi, siccome anche l'istituto
dell'arrogazione e dell'adozione, come pure quello della successione e della
tutela le gittima nel diritto romano avevano stretta attinenza coll'organiz
zazione domestica e col principio dell'agnazione, che stava a fonda mento della
medesima, cosi anche queste istituzioni apparvero nel primitivo ius quiritium ,
come una dipendenza del connubium , considerato come un ius proprium civium
romanorum . 363. Lo stesso è pure a dirsi del commercium . Il medesimo, nei
rapporti fra le genti, era il diritto di addivenire ai reciproci scambii «
emendi vendendique invicem potestas » ; ma allorchè invece venne ad essere
trapiantato fra i quiriti, i quali come tali avevano una proprietà speciale e
privilegiata, che era la proprietà ex iure quiritium , esso venne a cambiarsi
nel ius commercii ex iure qui ritium , ossia nel diritto di addivenire a tutti
quei negozii giuridici, di carattere mercantile, che erano stati adottati come
proprii dalla comunanza dei quiriti. Questi negozii poi nel primitivo ius qui
ritium e ancora nella legislazione decemvirale, si presentano sotto tre forme
fondamentali, che sono: lº il facere nexum , che è il diritto di potersi
obbligare nella forma e cogli effetti riconosciuti dal diritto quiritario ; 2°
il facere mancipium , che è il diritto di acquistare e trasmettere la prima
proprietà quiritaria , consistente appunto nel mancipium , colle forme
riconosciute dal diritto quiritario ; 3º e in fine il facere testamentum , che
è il diritto di acquistare o di tras mettere un'eredità , mediante il
testamento riconosciuto dal diritto 463 quiritario , donde il vocabolo di
testamenti factio (1). Che anzi l'unità primordiale di questi varii negozii, in
cui si estrinseca il ius commercii ex iure quiritium , viene ad essere messa in
evi denza anche da ciò, che tutti questi negozii finiscono per compiersi con
una sola forma tipica , che è quella dell'atto per aes et libram , e tutti
appariscono foggiati sullo stesso modello . Basta perciò considerare, che il
nexum indica un vincolo, che ha del fisico e del giuridico ad un tempo, il
mancipium sembra inchiudere ad un tempo il possesso e la proprietà, e infine il
testamentum , sotto un aspetto ha tutte le apparenze di un negozio tra vivi, e
sotto un altro è già un atto per causa di morte, e non produce i suoi effetti,
che per il tempo in cui il testatore avrà cessato di vivere. Così pure l'unità
di origine di questi varii negozii e il loro diramarsi dal concetto , che il
proprietario ex iure quiritium deve poter liberamente disporre delle proprie
cose , viene anche ad essere dimostrata dalla circostanza , che di fronte a
tutti questi atti la legislazione decemvirale proclama il principio : « uti
lingua nuncupassit » , o quello analogo : « uti legassit, ita ius esto » . 364.
Da ultimo accade eziandio una trasformazione analoga nel concetto dell'actio.
Questa nel periodo gentilizio era la procedura solenne, consacrata dal costume,
a cui doveva attenersi il capo di famiglia , il cui diritto fosse disconosciuto
e violato , e la medesima poteva anche dar luogo ad una effettiva violenza fra
i contendenti, quando essi non avessero potuto venire ad un amichevole compo
nimento ( 2 ). Allorchè invece l'actio compare nel ius quiritium , essa imita
bensì ancora la procedura anteriore allo stabilimento della ci vile giustizia ,
ma intanto già si compie in iure , cioè davanti al magistrato riconosciuto come
capo e custode della città . Di più questa actio non può più seguire
arbitrariamente questa o quella pratica, introdottasi nel costume, ma deve
invece essere accomodata alla legge, ed ai termini di essa . Essa cessa perciò
di essere ,un'actio qualsiasi, ma diventa una legis actio , e viene così a cam
(1) Fra gli autori, che dànno questa larga significazione così al connubium ,
che al commercium , accennerò il LANGE, Histoire intérieure de Rome, pag . 13 ,
in nota , il quale pur riconosce, che questi concetti dovettero prima aver
origine nei rapporti fra le varie genti. (2 ) Quanto alle origini dell'actio
nel periodo gentilizio e ai caratteri della mede sima, vedi sopra lib . I, cap
. VI, § 3 , pag. 130 a 138. 464 biarsi nel diritto di far valere le proprie
ragioni davanti al ma gistrato , nella forma che è riconosciuta dal diritto
quiritario . Quindi è, che anche la procedura quiritaria sembra prendere le
mosse da un'azione tipica , che è l'actio sacramento, la quale può anche essa
essere considerata come il nucleo centrale, da cui si verrà poi derivando non
solo tutto il sistema delle legis actiones, ma in parte eziandio il sistema
delle formulae. È poi quest'origine gentilizia dei concetti fondamentali del
diritto quiritario, che spiega eziandio , senza bisogno di ricorrere a quello
spirito formalista del popolo romano, che fu ormai abbastanza sfrut tato , le
cerimonie solenni, che accompagnano gli atti di carattere quiritario : poichè
anche queste solennità dovevano un tempo accom pagnare gli atti, che
intervenivano fra i capi delle famiglie e delle genti, in quanto
rappresentavano il proprio gruppo, e avevano cosi una importanza, che spiega le
formalità , da cui erano circondati (1). 365. Resta ora a determinarsi l'ordine
progressivo, con cui si vennero consolidando questi varii aspetti del primitivo
ius quiritium . Anche qui ci mancano le testimonianze dirette , perchè i
veteres iuris conditores, secondo la testimonianza di Cicerone, non amavano
divulgare il segreto dell'arte loro (2) ; ma abbiamo tuttavia una quantità di
fatti, che possono servirci di guida. Così noi sappiamo anzitutto, che la prima
parte del diritto , che ebbe ad essere comune al patriziato ed alla plebe, fu
certamente quella relativa al commercium , e quindi viene ad esser naturale ,
che l'elaborazione di un ius quiritium , comune ai due ordini, inco minciasse
da quegli atti, che si riferiscono al commercium . Questa circostanza verrebbe
poi ad essere eziandio confermata dal fatto , che la parte di antichissima
legislazione civile, che sarebbe da Dionisio attribuita a Servio Tullio, si
riferirebbe appunto ai con tratti, la cui azione dispiegasi appunto nella parte
relativa al com (1) Tralascio qui ogni maggior spiegazione intorno alle origini
del formalismo romano, perchè ebbi già ad occuparmene al n ° 94 , pag . 117 e
segg. e sopratutto nella nota 1a a pag . 118, ove si presero in esame le
opinioni, in proposito emesse, dal Sumner-Maine e dal Jhering . ( 2) Cic., De
Orat., I, 42, lagnandosi delle difficoltà , che ai suoi tempi ancora
accompagnavano lo studio del diritto, dice espressamente, che una delle cause
di queste difficoltà deve essere riposta nella circostanza che « veteres illi,
qui buic scientiae praefuerunt, obtinendae atque augendae potentiae suae caussa
, pervulgari artem suam noluerunt » . 465 mercium . Cosi pure abbiamo un'altra
conferma di questo fatto nella circostanza , che, all'epoca della legislazione
decemvirale, già si presentano come compiutamente formati i tre negozii
giuridici attinenti al ius commercii, cioè il nexum , il mancipium ed il testa
mentum ; cosicchè in questa parte viene ad essere evidente , che le leggi delle
XII Tavole non fecero che confermare uno stato di cose già preesistente, e si
limitarono a dire, che in questa specie di negozii, la volontà del quirite
doveva essere sovrana, per modo che la sua parola costituisse legge (1). Infine
un argomento indiretto di questa precedenza l'abbiamo anche in questo , che la
forma dell'atto commerciale per eccellenza, che è l'atto per aes et libram ,
ebbe più tardi ad essere applicata eziandio in atti relativi al ius con nubii,
come nella coemptio, nell'adoptio e simili : il che significa , che l'atto per aes
et libram già doveva essersi formato prima, che si addivenisse alla concessione
dei connubii fra patriziato e plebe, la quale segui solo più tardi. Mi pare ciò
stante di poter conchiudere, che la parte del ius quiritium , relativa al
commercium , fu la prima ad elaborarsi ed a consolidarsi, e che deve
attribuirsi a questo motivo, se lo svolgi mento posteriore del diritto romano
appare costantemente modellato sul concetto del mio e del tuo. È questo il
concetto espresso da Ulpiano , allorchè scrive : omne ius consistit aut in
acquirendo , aut in conservando, aut in minuendo ; aut enim hoc agitur, quem
admodum quis rem vel ius suum conservet, aut quomodo alienet, aut quomodo
amittat (2); ma la causa storica, che determinò questo carattere peculiare del
diritto romano, deve essere riposta nel fatto , che la parte del ius quiritium
, relativa al commercium , fu la prima a consolidarsi, e costitui in certo modo
il nucleo centrale della for mazione, cosicchè tutte le parti, che si
aggiunsero più tardi, ne ri sentirono l'influenza e ne conservarono l'impronta
. Quando si tratto infatti di rendere comune anche la parte relativa al
connubium , si trovarono già formati i concetti relativi alla proprietà , e
quindi anche il diritto del marito , del padre , del padrone furono model (1)
Cid non può lasciar dubbio quanto al nexum ed al mancipium , che già si
presentano nelle XII Tavole come istituzioni compiutamente svolte, ed è
confermato eziandio, quanto al testamentum , da ULPIANO, il quale dice
espressamente, che le suc cessioni testamentarie e i tutori nominati per
testamento furono confermati dalle XII Tavole. Fragm ., XI, 14 . ( 2) Ulp., L.
41, Dig . (1-4 ). G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 30 - 466 lati su
quello di proprietà . Cosi pure quando si tratto di model lare le azioni, tutto
si ridusse ad una questione di mio o di tuo , si trattasse di rivendicare una
cosa qualsiasi, oppure la moglie od un figlio . Quindi è che la rigidezza, che
a questo riguardo presenta il primitivo ius quiritium , non proviene già da una
confusione, che si facesse fra i diritti di famiglia ed i diritti di proprietà
, ma bensi da ciò , che essendosi nel ius quiritium modellato prima il diritto
di proprietà , anche le elaborazioni posteriori ne conservarono l'im pronta .
Ciò è anche provato dal fatto , che nelle fonti l'espressione di ius quiritium
è sopratutto adoperata relativamente alla proprietà ed al commercio ; cosa del
resto , che è facile a comprendersi, quando si consideri, che la comunanza
quiritaria all'epoca serviana si formo appunto in base alla proprietà ed al
censo . 366. Noi possiamo invece affermare con certezza , che fu solo assai più
tardi, che il ius connubii entrò a formar parte di quella singolare costruzione
giuridica, che porta il nome prima di ius qui ritium e poscia quello di ius
proprium civium romanorum ; poichè fu soltanto colla legge Canuleia , che si
riusci ad abolire il divieto del connubio dei patrizii colla plebe . Malgrado
di ciò, si può essere certi, che, anche prima di quest'epoca , la parte più ricca
ed agiata della plebe già aveva cercato di accostarsi alla organizzazione della
famiglia patrizia . Ciò è abbastanza dimostrato dal fatto, che i de cemviri
considerarono la famiglia fondata sull'agnazione, come la famiglia propria dei
quiriti , e cercarono anzi di fornire alla plebe un mezzo semplicissimo per
addivenire al matrimonio cum manu, mezzo che consiste nella coabitazione di un
anno, non interrotta per tre notti di seguito . Allorchè poi colla legge
Canuleia furono leciti i connubii fra il patriziato e la plebe, era naturale,
che l'atto quiritario per eccellenza venisse ad essere applicato anche in que
st'argomento. Probabilmente dovette essere allora , che fra le forme del
matrimonio cum manu, di cui una era la confarreatio, propria del patriziato , e
l'altra l'usus, propria della plebe , venne svolgendosi. la forma del
matrimonio, che può ritenersi come quiritaria per ec cellenza, cioè quella per
coemptionem . Intanto questo trapianto del l'organizzazione domestica, propria
del patriziato, nel ius quiritium , comune ai due ordini, fece si che la
famiglia quiritaria si fondasse esclusivamente sulla patria potestà e
sull’agnazione, e che perciò anche la successione e la tutela legittima fossero
deferite , in base alla legislazione decemvirale, agli eredi suoi, agli agnati
e in loro 407 mancanza ai gentili. Fu sopratutto in questa parte, che l'organiz
zazione gentilizia del patriziato riusci a penetrare nel diritto quiri tario ;
donde la conseguenza, che il ius connubii e la conseguente organizzazione della
famiglia finiscono per essere la parte dell'an tico diritto, in cui rivelasi
più tenace e persistente lo spirito conser vatore dell'antico patriziato romano
(1 ). 367. La parte infine del diritto primitivo , che ultima sarebbe entrata
nella compagine del ius quiritium , deve ritenersi essere quella , che si
riferisce alle legis actiones. Non è già, che anche in questa parte non vi
fossero dei materiali preesistenti : ma, secondo l'attestazione concorde degli
stessi giureconsulti, fu soltanto poste riormente alla legislazione decemvirale
è in base alle parole stesse della medesima, che sarebbe stato modellato il
sistema delle legis actiones. Che anzi si può affermare con certezza , che
questa parte del primitivo diritto di Roma fu certamente dovuta alla
elaborazione dei pontefici, i quali, come custodi delle tradizioni patrizie ,
spie garono sopratutto in questa parte la loro tecnica giuridica , e cer
tamente seguirono quel processo di costruzione logica, che erasi già adottato
nelle altre parti del diritto quiritario. Furono quindi essi, che introdussero,
quale azione tipica del diritto quiritario , l'actio sacramento , la quale può
essere considerata come il germe di tutto lo svolgimento posteriore della
procedura quiritaria : come pure furono essi, che si fecero gli iniziatori di
quell'arte meravigliosa di accomodare l'azione alla varietà infinita delle
fattispecie , che si potevano presentare, la quale giunse poi a tanta
eccellenza per opera del pretore nel sistema per formulas. Non ignoro che l'opinione
qui professata , secondo cui le legis actiones sarebbero state le ultime a
penetrare nella compagine del ius quiritium o meglio del ius proprium civium
romanorum , sebbene appoggiata all'attestazione degli antichi giureconsulti,
sembra ( 1) Le affermazioni, che qui sono semplicemente enunciate, verranno poi
ad essere meglio comprovate nel capo V , ove trattasi diproposito del ius
connubii. È notabile, quanto al connubium , che l'espressione ad perata nelle
fonti non è più quella di ius quiritium , la quale sopratutto si adopera in
tema di proprietà, ma è già quella di ius proprium civium romanorum . La causa
di questo cambiamento sta in ciò che il connubium venne ad essere comune dopo
le XII Tavole, cioè quando al concetto più circoscritto del ius quiritium già
cominciava a sovrapporsi il concetto più largo di un ius civile, ossia di un
ius proprium civium romanorum . 168 contraddire alla opinione oggidi molto
seguita , secondo cui le actiones avrebbero avuta la precedenza su tutte le
altre parti del diritto quiritario ( 1). Credo quindi opportuno di avvertire,
che io pure ammetto , che in quella evoluzione lenta dei concetti giuridici,
che ebbe ad avverarsi nel periodo gentilizio , il concetto che prima venne a
svolgersi, fu certamente quello di actio (2 ): ma così invece più non accadde
nell'elaborazione del ius quiritium . Questo infatti è già una costruzione
organica e coerente, che prese le mosse dal concetto del quirite, come
individualità giuridica integra e perfetta , e che in base al medesimo cominciò
dapprima dal modellare la pro prietà , a lui spettante; poscia gli attribui il
connubio ; da ultimo provvide anche alle azioni, che potevano tutelarlo nei
suoi diritti di proprietà e famiglia : donde la conseguenza , che il ius
quiritium , essendo già un'opera riflessa , accolse talvolta più tardi
istituzioni, che nella realtà dovettero svolgersi per le prime (3 ). Intanto
questo sguardo complessivo alla progressiva formazione del ius quiritium ha '
per noi una grandissima importanza , in quanto che mantenendo nella
ricostruzione l'ordine stesso , che ebbe ad essere seguito nella naturale
formazione del ius quiritium , si potrà giungere a spiegare certi caratteri
peculiari del diritto pri mitivo di Roma, che altrimenti riuscirebbero
incomprensibili. La materia intanto verrà ad essere naturalmente ripartita in
tre capi toli , di cui il primo si occuperà del ius commercii, l'altro del ius
connubii, e l'ultimo delle legis actiones. (1) Fra gli altri sembra attribuire
questa precedenza all'actio sulle altre parti del diritto civile romano il
Cogliolo, Saggi sopra l'evoluzione del diritto privato, Torino , 1885, pag. 105
e segg . (2 ) Ho cercato altrove di spiegare questo carattere delle società
primitive, che al punto di vista attuale pud apparire alquanto singolare nella
Vita del diritto nei suoi rapporti colla vita sociale, Torino, 1880 , pag . 40
. (3 ) Per una più larga discussione intorno al modo, in cui si formarono le
legis actiones, mi rimetto al cap . VI ed ultimo, § 1º, ove trattasi appunto di
quest'ar gomento. - 469 CAPITOLO IV . Il ius commercii nel diritto quiritario .
$ 1. Il commercium e l'atto per aes et libram . 368. Se havvi parte del ius
quiritium , che sia modellata in per fetta correlazione con quella
individualità giuridica , integra e com piuta, che era il quirite, è quella
certamente, che si riferisce al ius commercii. In questa parte la volontà del
quirite apparisce indi pendente e sovrana; la sua parola costituisce una vera
legge;" e non trovasi imposto altro limite e confine al suo potere, salvo
quello , che deriva dalla osservanza delle forme solenni, che sono ricono
sciute ed adottate dal diritto quiritario . Il quirite infatti , quale pro
prietario, può disporre delle sue cose fino ad abusarne, e può alienarle nel
modo solenne proprio dei quiriti ( facere mancipium ) ; quale debitore può
obbligare se stesso fino a vincolare la libertà della propria persona ( facere
nexum ) per il caso in cui non soddisfi il suo debito, e come creditore può
appropriarsi perfino la persona ed il corpo del debitore; come testatore infine
può disporre in qual siasi modo del suo patrimonio , dimenticando anche di
avere de' figli . Si può quindi affermare, che i tre atti fondamentali, in cui
si esplica il ius commercii ex iure quiritium , sono tutti governati dal con
cetto, che la volontà del quirite non deve aver limite o confine: concetto ,
che, quanto al nexum ed al mancipium , viene enun ciato con dire « uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » , e quanto al testamento, colle parole : « uti
pater familias super familia tute lave suae rei, legassit, ita ius esto ( 1) »
. E questa la parte , in cui « uti (1) Mentre nella ricostruzione del Dirksen ,
seguita dal Bruns, Fontes, pag. 22 e 2.3, la disposizione : « Cum nexum faciet
mancipiumque, uti lingua nuncupassit , ita ius esto » sarebbe la legge 1º della
Tavola VI; secondo la ricostruzione del Voigt invece, essa viene ad essere la
1° della Tavola V. Così pure la disposizione legassit super pecunia tutelave
suae rei, ita ius esto » , che nella ricostruzione del Dirksen è la terza della
Tavola V, in quella del Voigt viene ad essere la prima della Tavola IV. Ciò
dimostra quanto sia grande, anche oggi, l'incertezza intorno all'ordine dei
frammenti delle XII Tavole . - 470 domina sovrana la nuncupatio, e quindi si
comprende come tanto nelle obbligazioni, quanto nei trasferimenti del dominio,
quanto nei testamenti abbia avuto cosi larga parte lo studio delle espressioni
adoperate. Queste espressioni infatti nel concetto primitivo costitui vano
delle vere leggi, come lo dimostrano ancora le espressioni ado perate di lex
mancipii, di lex testamenti, di lex fiduciae e simili, colle quali si
comprendevano le varie clausole, che potevano essere apposte ad un
trasferimento del dominio , o ad un testamento (1 ). L'unità poi, che domina
tutta questa parte del primitivo ius qui ritium , viene anche ad essere provata
dal fatto , che un medesimo atto tipico , che può chiamarsi l'atto quiritario
per eccellenza, fini per servire quale mezzo per compiere tutti questi negozii
giuridici. 369. L'opinione, ora generalmente seguita , intorno all'atto tipico
del diritto quiritario , sembra ritenere, che tale atto debba essere riposto
nella mancipatio, argomentando dalla larga applicazione, che questa ebbe a
ricevere, ogni qualvolta trattavasi di trasferire la manus, intesa nel senso di
potestà giuridica sopra una cosa o sopra una persona (2 ). Parmi invece , che
le poche vestigia , che a noi pervennero dall'antico diritto , conducano a
ritenere, che la forma (1 ) Il vocabolo di lex , come significò la clausola di
un contratto o di un testa mento, così indicò eziandio le condizioni
pubblicamente prescritte per i luoghidesti nati ad uso pubblico o comune. Vedi
Bruns, Fontes, Pars II, Negotia , Caput I, pag. 240. Quanto agli altri
significati del vocabolo di lex , nel primitivo diritto ro mano, vedi sopra nº
228 , pag. 278. ( 2) Tra gli autori recenti, che cercarono di ricostruire il
primitivo diritto romano, poggiandosi sul concetto di manus, in quanto
comprende i poteri sulle cose e sulle persone, e sulla mancipatio, quale mezzo
generale per il trasferimento delle manus, deve essere ricordato il Voigt, XII
Tafeln , II, pag. 83 a 345. Anche il lavoro del dott. Longo, La mancipatio,
Firenze , 1887, è un tentativo in questo senso . Questi verrebbe alla
conclusione, che la mancipatio, quale a noi pervenne, sarebbe una reliquia di
un atto più antico e più solenne, il quale in origine avrebbe dovuto compiersi
in calatis comitiis , e che sarebbesi applicato ad ogni acquisto e trasferi
mento della inanus. Di quest'atto primitivo egli troverebbe le traccie nel
testamen tum e nell'adrogatio in calatis comitiis. Quest'opinione, a parer mio,
non può am mettersi; perchè la mancipatio comparve relativamente tardi, e si
riduce in sostanza ad una semplice applicazione dell'atto per aes at libram .
Quanto agli atti di diritto privato , in cui abbiamo ancora l'intervento del
populus, essi non indicano già, che tutti gli atti relativi alla manus
richiedessero un tempo l'assistenza del popolo; ma debbono considerarsi come
una sopravvivenza dell'organizzazione gentilizia nel pe riodo della città; come
ho cercato appunto didimostrare ai nn. 220 e 221, pag . 256 e segg .,
discorrendo dei calata comitia , e degli atti che compievansi in essi. 471
tipica del negozio quiritario , debba essere riposto nell'atto per aes et
libram ; cosicché la nexi datio , la nexi liberatio, la man cipatio, la
testamenti factio debbono essere riguardate come altret tante applicazioni di
quest'atto primordiale. Cid può essere dedotto anzitutto dal concetto
fondamentale del primitivo ius quiritium , in cui tutto si riduceva ad una
questione di mio e di tuo; donde la conseguenza, che ogni atto relativo al
commercium si riduceva in sostanza a fare in modo , che una cosa di nostra
diventasse altrui (quod de meo tuum fit) mediante un corrispettivo, che può
consistere o nel prezzo , o nell'obbligazione solenne assunta dal de bitore, o
nel corrispettivo di quella finta mancipatio familiae, in cui facevasi
consistere lo stesso testamento : trapasso , che trova vasi mirabilmente
espresso, mediante l'atto per aes et libram . Ed è questo concetto appunto, che
risulta dai passi, che a noi perven nero degli antichi giureconsulti. Questi
passi infatti indicano anzi tutto, che il nexum era un'applicazione dell'atto
per aes et libram , e dapprima quasi confondevasi con esso, poichè era definito
: « omne quod geritur per aes et libram » . Lo stesso è a dirsi del facere
mancipium , in quanto che una parte essenziale della mancipatio, quale è
descritta da Gaio , consiste senz'alcun dubbio eziandio nel l'atto per aes et
libram ; il che è pur dimostrato dalla denomina zione stessa del testamento per
aes et libram , il quale si introdusse più tardi, e non fu che una nuova
applicazione dell'atto per aes et libram . Si aggiunga, che questi passi degli
antichi giureconsulti indicano una incertezza intorno alla significazione
primitiva del nexum e del mancipium . Vi sono infatti dei giureconsulti, che
nel nexum comprendono anche il mancipium , mentre altri già distinguono fra
l'uno e l'altro , osservando che dal nexum deriva un obbligazione, mentre col
mancipium si opera la traslazione della proprietà . Questa incertezza appare
eziandio quanto al testamento per aes et libram , il quale sotto un aspetto
appare come una vera vendita o mancipatio familiae, come lo dimostra
l'intervento del familiae venditor e del familiae emptor ; mentre sotto un
altro aspetto non è più una vendita nel vero senso della parola , ma è già un
vero atto per causa di morte, poichè il familiae emtor riceve solo in deposito
e in custodia il patrimonio del te statore, accið egli possa liberamente
disporne « secundum legem publicam » per il tempo in cui avrà cessato di vivere
(1). ( 1) Non sarà inutile riportare qui alcuni dei passi di antichi giureconsulti,
che 472 Di qui pertanto si può ricavare, che nella sintesi primitiva del
diritto quiritario tutto ciò, che riferivasi al commercium , compievasi per aes
et libram , col quale atto esprimevasi lo scambio ed il tra passo , e che solo
col tempo in questa sintesi primitiva si vennero differenziando il nexum , il
mancipium , il testamentum ; i quali col tempo procedettero ciascuno per la
propria via , ed informati ad un proprio concetto finirono per dare origine a
tre istituzioni fonda mentali. Col tempo infatti dal nexum scaturi la teoria
delle obbli gazioni, dal mancipium derivò quella dell'alienazione e
trasmissione del dominio e dei diritti reali inchiusi nel medesimo, e dal testa
mentum si derivò tutta la teoria della libera disposizione delle proprie cose
per causa di morte , la quale non potè mai confondersi ed imparentarsi colla
successione legittima, poichè questa nel ius quiritium ebbe un'origine
compiutamente diversa, come sarà di mostrato a suo tempo (1 ). È poi notabile,
che il primitivo ius quiri tium , nella sua sintesi potente, ebbe a ravvisare
uno scambio , ed una trasmissione con corrispettivo , tanto nel contratto , in
quanto è fonte di obbligazioni, quanto nel trasferimento delle proprietà,
quanto eziandio nel testamento , mediante cui l'erede viene in certo modo a
dimostrano come il nexum , il mancipium e il testamentum facere non fossero,
che altrettante applicazioni dell'atto per aes et libram . « Nexum Manilius
scribit omne, quod per aes et libram geritur, in quo sint mancipia » . Varro, De
ling. lat., 7, 5 , § 105 (AUSCHKE, Iurispr. antiiustin ., pag. 6 ); « Nexum ,
est ut ait Aelius Gallus, quodcumque per aes et libram geritur , idque necti
dicitur ; quo in genere sunt haec: testamenti factio, nexi datio, nexi
liberatio » (Hoschke, Op. cit., pag. 96 ). Accanto a questa significazione
larghissima, in cui il vocabolo di nexum comprende ancora « omne quod geritur
per aes et libram » , sonvi poi altri passi, che già attribuiscono al nexum una
significazione più circoscritta. Così, ad esempio : « Nexum , Mucius scribit,
quae per aes et libram fiunt, ut obligentur, praeter quae mancipio dentur » ,
la quale opinione sarebbe prevalsa secondo VARRONE, De ling. lat., VII , 105 ,
il quale aggiunge : « hoc verius esse ipsum verbum ostendit,de quo quaerit, nam
id est quod obligatur per libram , neque suum fit, inde nexum dictum » (Bruns,
Fontes , pag. 386). Quest'ultima definizione sarebbe pur confermata da Festo,
vº Nexum : « Nexum aes apud antiquos dicebatur pecunia, quae per nexum
obligatur » (Bruns, Fontes, pag. 346). Sonvi poi eziandio dei passi, in cui la
mancipatio sarebbe indi cata perfino colla espressione di traditio alteri nexu
, quale sarebbe il seguente di Cic., Top., 5 , 28 : « Abalienatio est eius rei,
quae mancipii est, aut traditio alteri nexu , aut in iure cessio » . Per altri
passi vedi il Voigt, XII Tafeln , I, pag. 197, nota 7 , e II, 482 e segg . (1)
La successione legittima non prende le mosse dal commercium , ma dal con nubium
, come sarà dimostrato nel seguente cap. V , $ 5 . - 473 continuare la
personalità giuridica del proprio autore, e viene perciò ad essere obbligato
alla continuazione dei sacra . Di qui la conseguenza , che, per ricostruire in
questa parte il ius quiritium , vuolsi ricomporre anzitutto il primitivo atto
per aes et libram , cercare l'epoca in cui esso penetrò nel ius quiritium , e
se guire da ultimo le progressive applicazioni, che se ne vennero facendo. 370.
Più volte ebbe ad essere notato , che nel diritto romano oc corrono le traccie
di un processo , che ha del matematico , e che taluni vollero attribuire alla
influenza di Pitagora , la cui filosofia, teorica e pratica ad un tempo,
poggiava appunto sul numero, come espres sione dell'ordine e dell'armonia (1).
Senza entrare in una simile di scussione, questo è certo , che non si può a
meno di ravvisare questo carattere di matematica precisione ed esattezza in
quel negozio, es senzialmente proprio dei quiriti, che compare sotto la forma
del l'atto per aes et libram ; poichè in esso noi vediamo comparire la persona
di un pubblico pesatore , che tiene la bilancia quasi per de terminare ciò che
altri då, e ciò che deve essere ricevuto in con traccambio. Può darsi
benissimo, che quest'atto per aes et libram abbia avuto origine dalla necessità
, in cui i contraenti erano di pesare l'aes rude, allorchè non erasi ancora
introdotto l'aes signa tum : ma intanto si stenta a credere, che i veteres
iuris conditores, allorchè introdussero come tipico quest'atto nel ius
quiritium , e ne prolungarono la vita ben oltre l'epoca , in cui era veramente
neces saria la bilancia , non abbiano ravvisato nel medesimo come una
espressione ed un simbolo della esattezza e della precisione, che
deveaccompagnare il negozio giuridico , e della uguaglianza, che deve
mantenersi fra la cosa ed il prezzo, fra quello che si dà e ciò che si riceve
in contraccambio . Questo è certo , che difficilmente sareb besi potuto
rinvenire un atto, che potesse meglio simboleggiare quella giustizia , che
Aristotele chiamò poi commutativa, e che era quella appunto , che doveva
sovraintendere a quegli scambii, che i Romani inchiudevano col vocabolo di
commercium (2 ). Ad ogni modo l'esistenza presso i Romani di un atto quiritario
« quod geritur per aes et libram » da applicarsi in tutti gli scambii, in tutti
i trapassi, in tutte le contrattazioni, che potessero interve ( 1) V. ZELLER ,
La philosophie des Grecs, trad . Boutroux, I, Paris, 1877, p. 486 e sopratutto
la nota 8 , pag . 401. (2 ) Cfr. Carle, La vita del diritto, pag. 132. - 474
nire fra i quiriti, tanto negli atti tra vivi, quanto eziandio negli atti per
causa di morte, non pud essere posta in dubbio (1). Vero è , che il medesimo
non ci pervenne nelle sue fattezze genuine, ma soltanto nelle applicazioni
diverse, che se ne fecero; ma il fatto stesso che l'atto per aes et libram
compare nelle obbligazioni, nei trasferimenti e nei testamenti dimostra, che
esso in certo modo fra i quiriti compieva quella funzione, che presso di noi ha
compiuto , sopratutto in altri tempi, quello che chiamasi l'atto pubblico ed autentico,
il quale , al pari dell'antico atto per aes et libram , con tinua in certi
confini ancora oggi ad avere la forza e l'efficacia del titolo esecutivo ,
salvo che esso sia impugnato di falso (2). Dal momento , che erasi venuto
formando per la comunanza dei quiriti una forma particolare di diritto , che
prese il nome di ius quiritium , era naturale che si modellasse eziandio un
atto tipico, che potesse ser vire nei negozii essenzialmente quiritarii. Esso
doveva essere pub blico, come tutti gli atti, che si compievano fra i quiriti ;
doveva es sere fatto colla testimonianza dei quiriti stessi, in quanto che
poteva mutare in qualche modo la posizione rispettiva degli uni verso degli
altri nella comunanza quiritaria , donde l'intervento nel medesimo dei classici
testes , corrispondano o non i medesimi alle cinque classi serviane ; doveva
esser fatto coll'intervento di un pubblico ufficiale , che era il libripens, il
quale poteva anche essere inca ricato di denunziare agli uffizii del censo le
mutazioni, che ne derivavano alla condizione dei quiriti; alle quali solennità
negli antichi tempi aggiungevasi eziandio la presenza di un antestator ,
incaricato in certo modo di richiamare l'attenzione delle parti e dei testimoni
sulla importanza dell'atto (3). Il medesimo poi, per quanto si può inferire
dalle applicazioni ( 1) Tra gli autori, che sembrano accostarsi all'idea, che
l'atto per aes et libram costituisca nell'antico diritto la forma solenne per
tutti i negozi relativi al com mercium , parmi di poter annoverare l'HÖLDER ,
Istituzioni di diritto romano, $ 28 , trad. Caporali. Torino, 1887, pag . 82.
(2 ) Cod . civ. it ., art. 1317. (3) Questi varii caratteri del primitivo atto
per aes et libram si possono facil mente ricostruire, ricomponendo insieme la
descrizione, che sopratutto Gajo ed Ul PIANO ci serbarono, dei varii negozii,
che compievansi per aes et libram , quali la nexi datio, la nexi liberatio, la
mancipatio, ed il testamentum per aes et libram , dei quali avremo poi a
discorrere partitamente. Quanto all' antestator o antestatus vedi il Longo, La
mancipatio, pag. 74 e segg . 475 diverse, che ne furono fatte, ebbe ad essere
costituito di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , il quale ,
mentre dava al negozio il carattere di pubblicità e di autenticità , poteva
eziandio essere un ricordo effettivo di un'epoca, in cui l'aes rude serviva di
istrumento per gli scambii e doveva perciò essere pesato colla bilancia ; 2º
della nuncupatio, che era un complesso di parole solenni, accomodate alla natura
dell'atto , le quali esprimevano con preci sione ed esattezza il negozio
giuridico , che veniva operandosi fra i contraenti. Mentre la prima parte era
un ricordo del passato e conservavasi « dicis gratia , propter veteris iuris
imitationem » ; la seconda parte invece serviva a dargli duttilità e
pieghevolezza, e a rendere possibili le applicazioni diverse, che si fecero
dell'atto per aes et libram , non solo ai negozii giuridici propriamente detti,
ma anche agli atti relativi all'ordinamento della famiglia (1). 371. Quanto al
tempo, in cui l'atto per aes et libram può essere stato introdotto nel ius
quiritium , esso non può e non potrà forse mai essere determinato con certezza
, anche per il motivo che il medesimo può essere stato il frutto di una formazione
lenta e gra duata. Egli è probabile tuttavia, che l'epoca, in cui esso cominciò
a formarsi, dovette essere quella stessa , in cui prese ad elaborarsi un ius
quiritium , comune al patriziato ed alla plebe, e quindi le sue origini possono
con probabilità essere riportate all'epoca della costi tuzione serviana. Fu
allora, che mediante l'istituzione del censo co minciò a delinearsi una
proprietà ex iure quiritium , la quale con sisteva nel mancipium ; quindi è
probabile, che anche allora siasi sentito il bisogno di una forma tipica per
compiere i negozii quiri tarii. Questo è certo, che alcuni tratti dell'atto per
aes et libram richiamano l' epoca serviana. Cosi, ad esempio , noi sappiamo,
che probabilmente in quell'epoca dovette avverarsi una trasformazione nel
sistema monetario , poichè presso i primitivi romani il più an tico strumento
di scambio non consistette nel rame, ma nei capi di ( 1) L'esistenza di questo
duplice elemento nel primitivo atto per aes et libram è già accennato dalla
disposizione delle XII Tavole: « qui nexum faciet , mancipium que, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto », e appare poi dall'analisi di tutti i ne gozii, che
si compiono per aes et libram , descrittici sopratutto da Gajo , Comm ., II,
104-5 e da Ulp., Fragm ., XX, 9 . - 476 bestiame, e sopratutto nelle pecore e
nei buoi, come lo dimostra la designazione delle multe, che anche più tardi si
continuò a fare in questa guisa . Che se per avventura si volesse ritenere,
come fino a un certo punto è probabile, che l'atto per aes et libram fosse
stato anche adottato per simboleggiare lo scambio, il trapasso , anche questo
linguaggio simbolico corrisponderebbe all'epoca serviana, che è quella che
ricorre ai simboli dell'hasta , della vindicta , e simili. Cosi pure noi
sappiamo, chei testimonii dell'atto per aes et libram chiamavansi quirites, ed
è anzi probabile, che fossero ricavati dalle classi ser viane, come lo dimostra
la denominazione di classici testes : la quale , sebbene sia solo menzionata
per i testimonii nel testamento , può ra gionevolmente essere estesa alle altre
applicazioni dell'atto per aes et libram ( 1). Infine anche l'intervento di un
pubblico ufficiale in quest'atto sembra essere stato determinato dalla
necessità , in cui si era di conoscere i cambiamenti, che si avveravano nella
posizione ri spettiva dei quiriti. Comunque sia , è però sempre probabile, che
anche nella formazione di quest'atto siasi seguito il processo, che suole es
sere adoperato dai Romani, quello cioè di servirsi di qualche forma già
preesistente, attribuendovi il carattere quiritario , e cambiandola cosi in una
forma tipica, che potrà poi essere capace di applicazioni diverse. Nulla
ripugna pertanto , che l'atto per aes et libram sia stato veramente una realtà
nell'epoca, in cui l'aes rude, non potendo essere numerato, doveva invece
essere pesato ; ma questo è certo , che quando quest'atto compare nel ius
quiritium , esso viene già ( 1) Festo, vº « Classici testes dicebantur, qui
signandis testamentis adhibebantur » . La questione se questi classici testes
dovessero ritenersi come rappresentanti delle cinque classi, in quanto che essi
non potevano essere meno di cinque, fu trattata di recente dal Longo, La
mancipatio , pag. 83 e segg ., il quale sosterrebbe che i clas sici testes non
hanno che fare colla rappresentanza delle classi. Se con cið egli in tende di
dire , che i testimoni non avevano nessun incarico di rappresentare le cinque
classi serviane, ciò può facilmente essere consentito, poichè, secondo la
testimonianza di GaJo, Comm ., II, 25, questi testi solevano essere amici dei
contraenti e potevano perciò essere presi anche dalla stessa classe : ma
intanto non vi ha motivo per ne gare, che essi fossero chiamati classici,
appunto perchè dapprima dovevano essere presi dalle classi, ossia dagli adsidui
e locupletes. Era infatti nello spirito della costituzione serviana, che
nell'atto per aes et libram , con cui si attuavano le muta zioni di proprietà
quiritaria, dovessero intervenire dei testimonii tolti dalle classi al modo
stesso , che ancora in base alle XII Tavole era stabilito : « adsiduo adsiduus
vindex esto » . Tale sembra pur essere l'opinione del MUIRHEAD, Histor.
introd., pag.59 , il quale trova anzi non improbabile, che i non minus quam
quinque testes rappresentassero le cinque classi. 477 ad essere cambiato in un
atto tipico , che poteva essere suscettivo di molteplici applicazioni. Si
comprende quindi, che Gaio ci parli sempre della mancipatio, come di una
imaginaria venditio , senza neppur far cenno di un'epoca , in cui essa poteva
costituire una vendita effettiva e reale (1 ). 372. Per quello poi che si
riferisce all'ordine progressivo, con cui l'atto per aes et libram sarebbe
stato applicato ai principali negozii giuridici deldiritto quiritario , è
opinione generalmente ammessa , che esso siasi prima applicato alla mancipatio,
poscia al nexum , e più tardi al testamentum per aes et libram (2). Mentre non
pud esservi alcun dubbio circa l'applicazione più tarda dell'atto per aes et li
bram al testamento, poichè in proposito Gaio ed Ulpiano attestano , che questa
forma di testamento ebbe ad essere introdotta posterior mente a quella in
calatis comitiis (3), ritengo invece, che sianvi dei forti indizii per credere
, che l'applicazione dell'atto per aes et libram al nexum debba essere considerata
come la più antica . Un argomento di ciò l'abbiamo anzitutto nel fatto , che
nell'antico ius quiritium il diritto sembra spiegarsi prima contro la persona
del debitore, che non contro i beni del medesimo, ed è solo assai tardi e sotto
l'influenza del diritto pretorio, che si giunge a rite nere vincolati i beni,
anzichè il corpo e la persona del debitore. Di più il facere mancipium suppone
già un'epoca , in cui anche la plebe era pervenuta alla proprietà , mentre il
facere nexum ci ri porta ad un'epoca più antica, in cui la plebe, nei suoi
rapporti col patriziato, non potendo offrire alcuna garanzia reale, non poteva
ob bligarsi altrimenti, che vincolando la propria persona. A ciò si ag giunge,
che l'atto per aes et libram pud essere stata una realtà relativamente al nexum
, poichè in un'epoca , in cui l'aes rude serviva come strumento di scambio ,
era una necessità il pesare la somma, che era data ad imprestito ; mentre
invece l'applicazione (1) Egli è evidente che i giureconsulti considerarono
sempre l'atto per aes et libram come una forma riconosciuta dalla legge
(secundum legem publicam ) per compiere i negozii di carattere quiritario ; di
qui le loro espressioni di imaginaria venditio, e di imaginaria mancipatio, e
la disinvoltura con cuinon hanno difficoltà di applicarle a negozii, che più
non hanno carattere mercantile, come sarebbe, ad esempio, il matrimonio per
coemptionem . (2) Tale sembra, ad esempio, essere l'opinione del Voigt, XII
Tafeln , II, § 84, pag . 125 ; del MUIRHEAD, Op. cit ., pag. (3 ) GAJO , Comm
., II, 102 ; ULP., Fragm ., XX, 2 . 58 e segg . 478 dell'atto per aes et libram
, non solo per eseguire il pagamento del prezzo , ma anche per operare il
trasferimento della proprietà di una cosa , è già ad evidenza un espediente
giuridico, e merita il nome da tole da Gaio di « imaginaria venditio » . Si
comprende pertanto, come gli antichi giureconsulti comprendano talvolta il
facere mancipium nel concetto più antico del nexum chiamando con questo nome «
omne quod geritur per aes et libram » , mentre non consta che essi facciano mai
rientrare il nexum nel concetto del facere mancipium (1). Infine si può anche
aggiungere, che nei passi antichi parlasi di un ius nexi mancipiique, e che le
stesse XII Tavole fanno precedere il nexum nel famoso testo : « cum nexum
faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto » : argomento questo,
chemalgrado la sua tenuità apparente non deve trascurarsi del tutto , quando si
consideri l'esattezza e la precisione, anche cronologica, che i ro mani, sopratutto
nei tempi più antichi, recavano nel proprio lin guaggio legislativo, facendo di
solito precedere il concetto , che prima erasi formato a quello , la cui
formazione era posteriore. Che se po steriormente la mancipatio fini per
prendere un posto più impor tante, ciò proviene da una causa storica , dal
fatto cioè, che la parte del diritto primitivo relativa al nexum fu la prima ad
essere abolita , il che accadde per mezzo della lex Paetelia , nel 428 dalla
fondazione di Roma; donde la conseguenza , che il nexum cadde pressochè in
dimenticanza , mentre la mancipatio apparve come l'atto quiritario per
eccellenza presso i classici giureconsulti. Noi possiamo invece affermare, che
presso i giureconsulti più antichi dovette essere as solutamente il contrario ;
perchè noi sappiamo che Manilio nel con cetto del nexum comprendeva ancora il
mancipium , e che Elio Gallo vi comprendera perfino la testamenti factio;
cosicchè tutto ciò , che compievasi per aes et libram , necti dicebatur, e
quindi nel nexum veniva ad essere compreso « omne quod geritur per aes et
libram » . La distinzione invece fra il nexum ed il mancipium compare in Quinto
Muzio Scevola, il quale dice bensi che il nexum è ancor sempre « quod per aes
et libram fit » , ma non più nel l'intento di dare la cosa a mancipio, ma bensì
in quello di obbli garla soltanto ; la quale opinione, secondo Varrone ebbe ad
essere seguita , e fu allora che si chiamò nexum , « quod obligatur per libram
, neque suum fit» . Si pud quindi conchiudere, che il vocabolo di nexum ebbe
dapprimauna significazione più larga, per cui tutto (1) V. in proposito i passi
di antichi giureconsulti ed autori citati a p. 411, nota 1. -- 479 ciò che
compievasi « per aes et libram , necti dicebatur » , mentre più tardi fini per
significare l'obbligazione assunta per aes et libram ; trasformazioni di
significato, che occorrono frequenti nel diritto ro mano, come lo dimostrano i
vocaboli di imperium , di manus e di mancipium , i quali tutti, mentre hanno
una significazione più larga , finiscono per assumere un significato specifico
più circoscritto . A queste considerazioni, fondate sui testi, se ne aggiunge
un'altra , per me più importante di tutte, ed è che nella formazione del
diritto quiritario , che poggia tutto sul concetto fondamentale del quirite, il
diritto, quale vinculum societatis humanae, dovette presentarsi dap prima come
un nexum , ossia , come un vincolo , che intercede fra due quiriti . Ciò è
dimostrato dal fatto , che la procedura primitiva è azione di una persona
contro di un'altra, e che la esecuzione pri mitiva va direttamente contro la
persona del debitore, e si mani festa quale manus iniectio contro il medesimo
(1 ). Quest'indagine intanto è per noi importante anche nel senso, che ci
induce a discorrere prima del nexum , poscia della mancipatio , e da ultimo del
testamentum per aes et libram . $ 2 . Il nexum e la storia primitiva della
obbligazione quiritaria . 373. L'origine diquell'obbligazione quiritaria di
strettissimo diritto , che contraevasi mediante il nexum , deve essere cercata
in quel (1) Non parmi pertanto , che possa essere accettata la teoria
ingegnosa, ma non fondata sui fatti, del SumnER-MAINE , L'ancien droit, p. 305
e seg., secondo la quale il nexum avrebbe prima significato il trasferimento
della proprietà , e sarebbe poscia venuto a significare l'obbligazione del
venditore, che non avesse pagato il prezzo . Cid è assolutamente contrario al
concetto romano, secondo cui la consegna della cosa e il pagamento del prezzo
seguivano contemporaneamente nella mancipatio. Si può anzi dire che il processo
seguito dal diritto romano fu compiutamente inverso. Il primo rapporto, che
potè esservi fra il patriziato e la plebe, fu quello del nexum , ossia quella
rigida obbligazione, per cui il mancato pagamento dava luogo alla manus
iniectio contro la persona ; mentre solo più tardi l'atto per aes et libram
potè servire per il trasferimento della proprietà. Queste considerazioni mi
impedi scono eziandio di aderire allo svolgimento storico, che sarebbe proposto
dal CoglioLO nelle note al PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 250 , dove,
premesso che il con cetto del diritto reale dovette precedere quello del
diritto personale, farebbe anche precedere la formazione della mancipatio a
quella del nexum . Cfr. Puglia, Studii di storia del dir. priv., pag. 73 e segg
. 480 l'epoca, in cui la plebe, priva ancora di una vera posizione di diritto
di fronte al patriziato, non poteva trovar credito presso ilmedesimo che
vincolando la propria persona. In virtù del nexum il debitore plebeo , che non
pagava a scadenza, poteva essere sottoposto alla manus iniectio , ed essere
tradotto nel carcere privato del creditore patrizio ( 1). Coll'ammessione dei
plebei alla comunanza quiritaria , il nexum , questa obbligazione rozza è
primitiva , che era surta nei rapporti fra la classe superiore e la classe
inferiore, venne ancor essa a con vertirsi nella forma tipica della
obbligazione quiritaria , ma dovette perciò sottomettersi a tutte le solennità
dell'atto quiritario . Essa quindi dovette essere contratta colle formalità
dell'atto per aes et libram , colla assistenza cioè di non meno di cinque
testes cives romani, e coll'intervento del libripens e dell'antestator (2). La
formola precisa del nexum non ci è pervenuta, ma ci giunse invece, conservataci
da Gaio , quella della nexi liberatio , la quale, essendone naturalmente il
contrapposto , pud servirci per determinare, se non la formola precisa, almeno
gli elementi essenziali, che dove vano concorrere nella nezi datio , per usare
una espressione, che occorre nel giureconsulto Elio Gallo (3 ). Da questa
formola si può in durre che a costituire il nexum dovettero concorrere due
parti, cioè : (1) Senza pretendere qui di citare la ricchissima letteratura sul
nexum , ricorderò soltanto l'Huschke , Ueber das nexum , Leipzig , 1846 ;
GIRAUD, Des nexi, ou de la condition des débiteurs chez les Romains, Paris
1847; Voigt, XII Tafeln, I, $$ 63-65; MUIRHEAD, Histor. Introd ., 152 a 163. Le
opinioni degli autori tuttavia sugli effetti del nexum primitivo sono ancora
molto discordi. Secondo la dottrina più seguita , il nexum dava origine ad
un'obbligazione di strettissimo diritto, la quale, non soddisfatta ,
autorizzava senz'altro alla manus iniectio. Di recente invece il Voigt
sosterrebbe, che l'obbligazione assunta col nexum non avrebbe alcun effetto
speciale; la quale opinione sembra pur seguita dal Cogliolo, nelle note al
PADELLETTI, Storia del diritto romano, pag. 329. Per mio conto seguo la prima
opinione in base sopratutto a quell'origine del nexum , che ho cercato di
spiegare più sopra ai nu meri 166-67, pag. 206 a 208, e sulla considerazione,
che non si comprenderebbero le grandi lotte sostenute dalla plebe per ottenere
l'abolizione di questo ingens vin culum fidei; quando il medesimo avesse
prodotto i medesimi effetti dell'obbligazione assunta col mezzo della
stipulatio. (2 ) Questa necessità dell'atto per aes et libram , per contrarre
il nexum , probabil mente fu quel provvedimento favorevole ai debitori, che da
Dionisio è attribuito a Servio Tullio. Cfr. MUIRHEAD, op . cit., pag. 67 . (3 )
La formola della nexi liberatio conservataci da Gajo, Comm ., III, 174 , sa
rebbe la seguente : « Quod ego tibi tot milibus condemnatus sum , me eo nomine
a te « solvo liberoque hoc aere aeneaque libra. Hanc tibi libram primam
postremamque 481 1° l'atto per aes et libram , non minus quam quinque testes,
cives romani, il libripens e forse eziandio l'antestator ; 2° e la nuncu patio,
che non si sa bene se dovesse essere pronunziata da un solo, ovvero da entrambi
i contraenti. Essa però probabilmente dovette comporsi di due parti, l'una
pronunziata dal nexum accipiens e l'altra dal nexum dans, e consistette in una
specie di damnatio . Il primo conchiudeva damnas esto dare, e l'altro
rispondeva damnas sum , il che implicava una specie di condanna , che il
debitore pronunziava contro se stesso , al pagamento della somma (1 ). Di qui
la conseguenza, che se il medesimo non pagava si poteva proce dere contro di
lui, come se il medesimo fosse damnatus al paga mento , e perciò poteva essere
soggetto alla manus iniectio , senza che fosse richiesta una speciale condanna
del magistrato . I dubbii più gravi, che si riferiscono al nexum , sono quelli
re lativi alla natura dell'obbligazione contratta col nexum , ed agli effetti,
che derivavano da essa in base al diritto primitivo, le cui vestigia
appariscono ancora nella legislazione decemvirale . 374. Per quello che
riguarda la natura della obbligazione con tratta col nexum , alcuni antichi
scrittori, non giuristi, descrivendo la trista condizione dei debitori,
tradotti nel carcere privato del loro & expendo secundum legem publicam » .
Essa è per noi molto preziosa : 1° perchè ci dice anzitutto, che il nexum per
aes et libram importava una damnatio per parte del debitore, il che fa credere
che rendesse contro di lui applicabile senz'altro la manus iniectio, che Gaio
ci dice appunto essere ammessa contro i damnati, e contro i iudicati; 2° perchè
essa è un argomento per ritenere, che le obbligazioni contratte per aes
etlibram dovevano essere risolte con un atto della medesima natura ; 3. perchè
infine ci attesta , che l'atto per aes et libram era una forma di liberatio
secundum legem publicam , e come tale non si applicava soltanto nei casi di
obbligazioni con tratte col nexum , ma anche quando trattavasi del pagamento di
una somma ex causa iudicati, o del pagamento di un legato per damnationem . Ciò
conferma sempre più la congettura posta innanzi, che l'atto per aes et libram
era in certo modo la forma quiritaria del negozio giuridico, donde le sue molteplici
applicazioni, allorchè si tratta di negozii ex iure quiritium . (1) La
nuncupatio del nexum secondo il Voigt, XII Tafeln, pag. 483, si com porrebbe
bensì di due parti; ma egli, ricostruendone la formola, respingerebbe l'e
spressione damnas esto e damnas sum , in conformità appunto della sua teoria ,
se condo cui il nexum non avrebbe dato origine ad un'obbligazione di carattere
spe ciale. Parmi che quest'ultima parte della sua ricostruzione non possa
accettarsi ; poichè, così essendo, la formola della nesi datio non
corrisponderebbe a quella della nexi liberatio, conservataci da Gaio, la quale
è certo ciò , che noi abbiamo di più testuale in proposito. G. Carle, Le
origini del diritto di Roma. 31 482 creditore, ebbero a dire, che essi, dopo
essere stati spogliati dei beni, avevano poi dovuto rinunziare alla propria
libertà (1). Ciò fece ri tenere talvolta , che il nexum attribuisse il diritto
di procedere non solo contro la persona, ma anche contro i beni del debitore.
Questo concetto sembra ripugnare a quel carattere del primitivo ius qui ritium
, secondo cui il medesimo, allorchè giungeva a separare due istituti, quali
sarebbero quelli del nexum e del mancipium , lasciava poi che ciascuno
procedesse per la propria via , informato ad una propria logica, senza che
l'uno più non si confondesse coll'altro . Ora pur riconoscendo che il vocabolo
di nexum , nella sua significazione primitiva , designasse in genere il vincolo
giuridico , che intercedeva fra un quirite ed un altro, e che potesse anche
estendersi ai beni del debitore, questo è certo che non dovette più essere
cosi, allorchè si operò la distinzione fra il nexum ed il mancipium , e i due
con cetti cominciarono ad avere ciascuno un proprio svolgimento. Ora noi
sappiamo, che questa distinzione del nexum dal mancipium già erasi operata
anteriormente all'epoca decemvirale , e che da quel momento il quirite come
tale ebbe due mezzi per provvedere alle proprie necessità ; quello cioè di
alienare il proprio mancipium , o quello di vincolarsi col nexum . Con quello
egli poteva trasferire i beni e con questo vincolare la sua persona; ma gli
effetti dell'uno non potevano più confondersi coll'altro . Fu in seguito a
questa di stinzione, che anche più tardi la giurisprudenza romana ebbe a ri
tenere, che le obbligazioni ed i contratti, che derivarono dal nexum , non
possono mai riuscire al trasferimento della proprietà , il quale con tinuò
sempre ad operarsi per mezzo della usucapione e della tradi zione, che erano
sottentrate all'anticamancipatio . Parmi pertanto in questa parte di dovere
seguire l'opinione, adottata, fra gli altri, anche dall'Hölder , secondo cui il
nexum costituisce in certo modo il con trapposto della mancipatio nel senso,
che quello è la sottomissione della persona del debitore alla potestà del
creditore per il caso di non seguito pagamento, mentre la mancipatio
costituisce invece (1) Così, ad esempio Livio , II, 23, attribuisce queste
parole a quel nexus, che avrebbe provocata la prima rivolta della plebe per
causa della legge sui debiti: e se « aes alienum fecisse; id cumulatum usuris
primo se agro paterno avitoque exuisse, a deinde fortunis aliis ; postremo,
velut tabes, pervenisse ad corpus » . È tuttavia evidente, che quinon si dice
punto, che il creditore, in base al nexum , potesse pro cedere sai beni del
debitore, ma solo che quest'ultimo aveva dovuto prima spogliarsi del suo
patrimonio avito, e poi anche vincolare la sua persona al proprio creditore.
483 il trasferimento di una cosa in potestà altrui. Questa è pure l'opi nione,
che fu seguita recentemente dall'Esmein e dal Cuq, i quali ritengono , che la
primitiva obbligazione quiritaria , la cui forma tipica fu il nexum ,
costituisse dapprima un legame del tutto personale e fosse perfino
intrasmessibile da una persona ad un'altra (1). Ho insistito sopra questo
carattere esclusivamente personale del nexum primitivo ; perchè il medesimo, se
nori a giustificare, può condurci in qualche modo a spiegare le conseguenze
estreme, a cui nel diritto primitivo di Roma potè giungere il diritto del
creditore contro il proprio debitore. Parmi tuttavia, che sarà più opportuno
discorrere di tali conseguenze , allorchè si tratterà della manus iniectio,
ossia della procedura di esecuzione contro il debitore; poichè l'inumanità di
questa primitiva procedura non spiegasi soltanto contro i nexi, ma anche contro
i iudicati ed i damnati (2 ). 375. È certo ad ogni modo, che il nexum , fra le
istituzioni qui ritarie, era quella, che ripugnava maggiormente a
quell'uguaglianza, che avrebbe dovuto esistere fra i membri di una stessa
comunanza. Esso portava ancora le traccie della soggezione, pressochè servile ,
a cui un tempo era ridotta la plebe ; poichè anche nel periodo sto rico sono
sempre i plebei, che appariscono sottoposti al rigore del nexum , mentre il patrizio
, anche oberato di debiti, poteva trovar sussidio presso la propria gente. Ne
derivò che, durante le lotte fra i due ordini, il nexum si cambið talora in
un'arma del patri ziato per assicurare la sua superiorità sopra la plebe , e fu
in tal modo che una istituzione di diritto privato si cambiò in un fomite di
dissensioni civili. La questione della condizione dei debitori sembra già
rimontare all'epoca di Sergio Tullio, il quale, se non pagd del proprio i
creditori , come vorrebbe la tradizione, certo impose la solennità dell'atto
per aes et libram per potersi obligare col nexum . Sotto la Repubblica poi, è a
causa della legge sui debiti, che i plebei si rifiutano prima alla leva , poi
abbandonano la città e si ritirano (1) HÖLDER, Istituz., trad . Caporali, pag.
225 e segg . Cfr . eziandio l' Esmein , L'intrasmissibilité première des
créances et des dettes, nella « Nouvelle Revue histo rique » , 1887, pag. 48,
nel quale scritto egli cerca di corroborare la stessa tesi già enunciata dal
CuQ, Recherches historiques sur le testament per aes et libram pubblicato nella
stessa « Nouvelle Revue », 1886, pag. 536. (2) La questione qui accennata del
trattamento contro i debitori sarà trattata nel capitolo VI, § 3º, parlando
della procedura esecutiva, mediante la manus iniectio. 484 sul monte Sacro, da
cui non ritornano , che dopo aver ottenuto la istituzione del tribunato della
plebe. Anche la stessa legislazione decemvirale porta le traccie di questa
contesa ; come lo dimostrano le disposizioni minute, a cui essa discende nella
parte, che si rife risce al trattamento del debitore, ridotto in potestà del
creditore. Malgrado di ciò , le dissensioni continuano fino alla legge Petelia
del 428 di Roma, la quale non abolisce il nexum , e neppure dà diritto al
creditore di procedere contro i beni del debitore, anzichè contro la sua
persona, come vorrebbe Livio, ma toglie al creditore il diritto di poter
procedere immediatamente alla manus iniectio contro il debitore, senza che
neppure occorresse l'intervento del magistrato ( ). Continuò quindi ancora a
sussistere l'atto per aes et libram , qual mezzo di sottomettersi al nexum ,
come lo dimostra la sopravvivenza delle nesi liberatio , che è ancora ricordata
da Gaio ; ma intanto il nexum , sprovvisto di quegli effetti immediati contro
la persona, che costituivano l'odiosità e la forza di questo ingens vinculum
fidei, non ebbe più ragione di sussistere, e venne ad essere sosti tuito da
altri modi di obbligarsi, che forse preesistevano nel costume, ma non erano
ancora stati accolti nella cerchia circoscritta del primitivo ius quiritium .
376. Accade qui , in tema di obbligazioni, una trasformazione analoga a quella
, che abbiamo veduto essersi avverata in tema di proprietà, quanto al concetto
del mancipium . Al modo stesso che (1) Le espressioni di Livio , VIII, 28, sono
le seguenti: « iussique consules ferre ad « populum , ne quis, nisi qui noxam
meruisset, donec poenam lueret, in compedibus < aut in nervo teneretur ;
poecuniae creditae bona debitoris, non corpus obnoxium « esset. Ita nexi
soluti, cautumque in posterum , ne necterentur ». Di qui alcuni autori
avrebbero argomentato, che da quel momento fosse stata abolita la procedura
contro la persona dei debitori, e introdotta invece quella contro i beni. Cid
sarebbe smentito espressamente dalla storia giuridica di Roma, dove la vera
procedura fu sempre contro la persona , mentre quella contro i beni fu solo
introdotta dal pretore Rutilio nel 647 di Roma, e la stessa cessio bonorum ,
introdotta dalla legge Giulia , fu ancora considerata come un beneficio fatto
al debitore. Le parole quindi di Livio debbono essere intese nel senso, che
d'allora in poi il nexum non bastò più per sè ad autorizzare il creditore a
tradurre il debitore nel suo carcere privato, e che in tal modo l'obbligazione,
contratta con questo mezzo, non ebbe più lo speciale effetto di autorizzare
senz'altro la manus iniectio ; ma produsse solo gli effetti, che sareb bero
derivati da un 'obbligazione assunta mediante la semplice stipulatio. Questa fu
probabilmente la causa, per cui il nexum andò gradatamente in disuso, e
sottentra rono al medesimo la mutui datio e la stipulatio , come sarà
dimostrato più sotto. 485 al mancipium , quale unica forma della primitiva
proprietà quiri taria, sottentrò il concetto più largo del dominium ex iure qui
ritium ; così al nexum , forma primitiva dell'obbligazione quiritaria ,
sottentrò il concetto più esteso dell'obligatio propria civium roma norum , al
vincolo materiale, che stringeva il debitore al creditore sottentrò il vincolo giuridico
(vinculum iuris); ma intanto i voca boli di obligatio, di solutio, di liberatio
e simili rimasero ancor sempre a ricordare la rozzezza dell'antico concetto,
che scorgeva nell' obbligazione un vincolo pressochè materiale , e nel
pagamento ravvisava lo scioglimento di questo vincolo (solutio ). Così pure al
modo stesso , che col sostituirsi al mancipium un concetto più largo del
dominium ex iure quiritium , si vennero accogliendo nuovi modi di acquistare e
trasmettere questo dominio ; cosi, allorchè al concetto del nexum sottentrò
quello dell'obligatio , si vennero accogliendo nel ius proprium civium
romanorum nuovi modi di obbligarsi. Il nexum , mentre costituiva ed esprimeva
efficacemente un vincolo materiale e giuridico ad un tempo, aveva eziandio questo
carattere speciale, che esso teneva in certo modo del reale e del verbale, in
quanto che componevasidi dueparti, cioè: dell'atto per aes et libram , mediante
cui avveravasi il trapasso dal mio al tuo e si operava la consegna immediata
della cosa ( tuum de meo fit ): e della nuncupatio , mediante cui fra creditore
e debitore si conveniva la condanna ed il pagamento. Queste due parti, collo
scomporsi del nexum vennero in certo modo ad acquistare libertà di movimento ,
e si operò la distinzione fra l'obligatio quae re contrahitur, e quella che con
trahitur verbis , a cui venne più tardi ad aggiungersi eziandio l'obligatio
quae contrahitur litteris, ossia l'expensilatio. Per tal modo alla sintesi
potente del nexum , che era il modo primitivo di obbligarsi ex iure quiritium ,
sottentrarono varii modi di obbli garsi, che costituirono un ius proprium
civium romanorum , quali sono la mutui datio , la sponsio o stipulatio , e la
acceptilatio : ciascuno dei quali viene ad essere il germe di quei varii
contratti formali, che si vengono poi svolgendo nel diritto civile romano,
sotto il nome di contratti reali, verbali e letterali. 377. È evidente
anzitutto l'analogia col nexum della mutui datio . Questa infatti continua a
produrre un'obligatio stricti iuris ; si ap plica dapprima alla credita pecunia
, e poi si estende a tutte le cose quae numero , pondere ac mensura constant: e
la sua effi 486 cacia obbligatoria consiste nella numeratio pecuniae , oppure
con segna della cosa (datio rei ). Non può poi esservi dubbio, che il mutuo fu
il modello, sopra cui si foggiarono poi gli altri contratti reali del comodato
, del deposito , del pegno (1) . Tuttavia il modo di obbligarsi, che prende un
più largo sviluppo collo scomparire del nexum , è sopratutto la sponsio o stipulatio
. Questa , sotto un certo aspetto, corrisponde a quella nuncupatio , che già
preesisteva nel nexum , salvo che essa, liberata di quella forma rigida della
damnatio , che era propria del nexum , venne a trasfor marsi in una semplice
sponsio o stipulatio, in cui l'obbligazione viene ad essere assunta per mezzo
di una interrogazione e di una risposta , congrue e solenni, le quali, per la
propria elasticità e pieghevolezza, possono essere veste acconcia per esprimere
la varietà infinita delle obbligazioni, a cui può sottoporsi il cittadino
romano. Qualunque possa essere stata l'origine della stipulatio, è sopratutto
nello svol gimento di essa , che si palesa il genio giuridico dei giureconsulti
romani, i quali non credettero indegno del loro ufficio l'attendere a
concretare le formole, con cui doveva essere concepita la stipula zione nei
varii negozii giuridici (2 ). Anche la stipulatio divenne (1) Per ciò che si
riferisce alla mutui datio, è nota la censura, che di regola suol farsi alla
etimologia di mutuum data dai giureconsulti, secondo cui questo vocabolo
deriverebbe da « quod de meo tuum fit » . Per conto mio, non come etimologo, ma
come giurista , ritengo invece assai probabile questa etimologia , tenuto conto
di ciò, che nelle formole primitive occorrono ad ogni istante le parole di meum
e di tuum , e che l'essenza del mutuum consiste veramente nel far sì, che un
oggetto ex meo tuum fit. Queste etimologie, che direi ragionate, diventano
tanto più probabili, quando si ri tenga, che il diritto romano fin dai primi
tempi fu il frutto di una vera elaborazione , la quale può benissimo avere
adattata la parola al concetto, che intendeva di signi ficare. Lo stesso direi
delle etimologie di testamentum da mentis testatio , di manci pium da
manucaptum , e di altre analoghe; sebbene ve ne siano di molte, le quali, per
essere composte post factum , sono evidentemente foggiate per far dire alla
parola cid , che è nella mente del giureconsulto nell'epoca, in cui egli
analizza il significato della parola. Intanto il fatto stesso, che i
giureconsulti cercano sempre di dare alla parola un senso, che corrisponda alla
cosa significata, dimostra, che essi dovevano procedere in tal guisa, allorchè
il comparire di qualche nuovo negozio li costringeva a foggiare qualche nuovo vocabolo
. In cid abbiamo anche una delle ragioni, per cui il linguaggio giuridico di
Roma potè diventare pressochè universale, come le sue leggi. (2 ) Sono molte le
opinioni intorno all'origine della sponsio o stipulatio nel di ritto romano.
Alcuni la ritengono come la parte verbale del nexum , allorchè andò in disuso
l'atto per aes et libram nel contrarre le obbligazioni; altri, argomentando dal
vocabolo sponsio , la ritengono come una specie di promessa giurata, che
facevasi davanti all'antichissima ara di Ercole ; altri infine la ritengono di
origine greca , donde sarebbe passata in Sicilia e poi nel Lazio. Tale sarebbe,
ad es., l'opinione 487 così un modo tipico di obbligarsi ; ma il suo carattere
non è più artificioso , come quello dell'atto per aes et libram , nè così
rigido come quello della damnatio , propria del nexum , ma sembra essere
desunto dalla natura stessa delle cose . La parola infatti è riguardata come il
vero mezzo di obbligarsi, e ogni negozio, dopo essere stato lungamente discusso
, viene colla stipulatio ad essere conchiuso , in guisa da escludere qualsiasi
dubbiezza sulla volontà dei contraenti. Tocca pertanto a colui, che stipula un
beneficio a suo favore, di interrogare il promettente : « centum dare spondes ?
» , e tocca a colui che promette di rispondergli congruamente: « spondeo » per
modo che non possa esservi dubbio circa l'incontrarsi delle due volontà (1 ).
Viene poscia nel costume una dextrarum iunctio , poichè, fra le genti
primitive, la destra è l'emblema della fede, in base a cui si conclude il
negozio . Forse in antico potè eziandio aggiungersi la solennità del giuramento
, come lo indicherebbe la significazione in parte religiosa, del vocabolo di
sponsio ; ma questa , quando è accolta nel diritto civile romano, sembra già aver
perduto questo carattere primitivo. Anche qui pertanto vi ha una forma tipica
di obbligazione, ma essa non è più quella del nexum , propria del ius quiritium
, e modellata probabilmente dal ius pontificium , nell'intento di serbare le
tradizioni del passato ; bensì è già quella del ius proprium civium romanorum ,
come lo dimostra il fatto , che anche quando i romani consentirono la
stipulatio ai peregrini, riservarono sempre per sè la espressione primitiva : «
spondes? spon deo » , la quale sembra ancora richiamare quel carattere
religioso , che doveva accompagnare simili stipulazioni nel periodo gentilizio
. Questo è certo ad ogni modo, che la stipulatio ha vantaggi in del Leist,
Graeco-ital. Rechtsgeschichte, pag . 455-470, a cui si associa il MUIRHEAD, op.
cit., pag. 228. Per me trovo assai probabile, che anche in Grecia potesse esi
stere un modo di obbligarsi così naturale e semplice, come è quello
rappresentato dalla stipulatio, al quale trovasi pure qualche cosa di
correlativo, anche fra i popoli germanici (SCHUPPER, L'allodio , pag. 47) ; ma
non posso in verità persuadermi, che i Romani dovessero apprenderlo dalla
Grecia , dal momento , che senz'alcun dubbio già lo conoscevano nei rapporti
fra le varie genti. Essa quindi deve essere ritenuta come una di quelle
istituzioni, che vivevano nelle costumanze, e che solo più tardi riuscirono ad
entrare nella cerchia rigida del ius quiritium , il che probabilmente dovette
accadere , quando cominciò ad andare in disuso il nexum . ( 1) Questo carattere
speciale della stipulatio, per cui essa costituisce il modo più semplice ed
acconcio per conchiudere le trattative di un negozio , in quanto che l'in
terrogante viene ad essere colui che stipula , e il rispondente colui che
promette, fu già acutamente notato dal SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 311.
488 contrastati sul nexum . Essa è duttile, pieghevole , come la parola umana,
e può cosi accomodarsi a qualsiasi uso ; è un materiale, che si adatta ad ogni
specie di costruzione; è il modo più spiccio e più logico per conchiudere
qualsiasi trattativa ; può servire per un'obbligazione principale ed anche per
un'obbligazione accessoria ; sebbene unilaterale per propria natura , si può,
raddoppiandola, farla servire per dare origine ad una convenzione bilaterale .
Stante la propria esattezza e precisione, la stipulatio è sopratutto atta ad
esprimere i negozii stricti iuris . Ma essa, coll'aggiunta di una clau sola
semplicissima, che è quella ex fide bona, pud anche adattarsi ai negozii di
buona fede. Si comprende pertanto come, in base alla medesima, i giureconsulti
romani siano riusciti a svolgere in gran parte la teoria dei contratti, in cui
la giurisprudenza romana spiego una duttilità e pieghevolezza, tanto più
mirabili, in quanto che non scompagnansi giammai dall'esattezza e dalla
precisione. 378. Sembra invece essere alquanto più tardi, che vennero ad essere
accolti nella compagine del diritto civile di Roma, quegli altri modi di
obbligarsi, che diedero poi origine ai contratti letterali. Anche a questo
riguardo non può esservi dubbio , che il diritto civile di Roma non creò di
pianta le proprie istituzioni; ma si contento, per dir cosi, di accogliere
sotto la sua tutela e di modellare, in base alla propria logica giuridica, le
istituzioni, che già esistevano nel l'uso e nel costume. Così dovette accadere
senz'alcun dubbio dell'expensilatio, la quale, ancorchè entrata tardi nel
diritto civile di Roma, ci richiama in certo modo la figura del primitivo capo
di famiglia , il quale dir: gendo una vasta azienda e avendo sotto la sua
dipendenza un nu mero grande di persone, deve tenere il conto quotidiano del
dare e dell'avere . Ciò che egli scrive nel proprio libro doveva certo far fede
dirimpetto ai suoi dipendenti. Questo sistema pero , che era il più ovvio nelle
consuetudini patriarcali, presentava invece dei pe ricoli nel diritto , come
quello , che fondavasi esclusivamente sulla buona fede. Fu questo il motivo,
per cui esso penetrò più tardi nel diritto civile di Roma, il quale cerco poi
di ovviare al pericolo inerente al medesimo, aggiungendo al nomen
transcripticium una ricognizione scritta del debito , che doveva restare a mani
del cre ditore (cautio , chirographum ); al qual proposito viene ad essere
probabile, che l'istituzione originariamente italica della expensilatio siasi
imparentata con un'istituzione, che il vocabolo farebbe credere - 439 di
origine probabilmente g : eca , donde la cautio chirographaria , che pervenne
fino a noi (1 ). 379. Queste tre categorie di contratti, che sogliono talvolta
es sere indicati col vocabolo di formali, dovettero certamente essere i primi
ad entrare nella compagine del diritto civile romano. Esso invece, che stentava
a comprendere il consenso senza un fatto esteriore, che servisse a rivelarlo,
sembra che solo più tardi e pro babilmente già sotto l'influenza del ius
honorarium , sia pervenuto ad adottare e ad attribuire efficacia giuridica
all'emptio venditio, e agli altri contratti, che a somiglianza di essa si
perfezionano col solo consenso. Ormai non può esservi dubbio, che anche
l'emptio venditio già esisteva nel primitivo diritto , poichè la legislazione
decemvirale disponeva, che la medesima, per essere perfetta , doveva essere
accompagnata dalla tradizione della cosa e dal pagamento del prezzo. Cosi
stando le cose, è però evidente, che l'emptio venditio come mezzo per
trasferire il dominio, non poteva valere da sola, ma doveva essere accompagnata
dalla mancipatio o dalla traditio . Di qui ne venne, che essa , come contratto
stante per sè , comparve solo più tardi nel diritto civile di Roma, il quale
non ebbe a collocarla nella categoria dei negozii, che valgono a trasferire il
dominio, ma bensì in quella dei negozii, che obbligano a dare, facere,
praestare; il che deve pur dirsi di tutti gli altri contratti consensuali, cioè
della locatio conductio, del mandatum e della societas, che furono fog giati
sul modello della compra e vendita (2 ). 380. Intanto si comprende, che la
giurisprudenza romana, la quale, nel suo primo consolidarsi, aveva prese le
mosse da una unica forma di obbligazione quiritaria , che era quella assunta
col nexum , allorchè pervenne a così grande ricchezza di sviluppo , abbia
cominciato a sentire il bisogno di richiamare a certe classi i genera
obligationum , quae ex contractu nascuntur; ma intanto essa si trovò già di
fronte ad una suppellettile così copiosa, che per potervi riuscire ac canto ai
contratti fu costretta a creare la figura dei quasi- con (1) Cfr. per ciò che
si riferisce all'expensilatio ed all'abitudine del capo di fami glia romano di
tenere il Codex accepti et expensi, vedi il PADELLETTI, Storia del diritto
romano, cap. XXI, pag. 249 e segg. Quanto all'acceptilatio vedi SCHUPFER ,
nella « Enciclopedia giuridica italiana » , vol. I, pag. 175 a 180 , vº
acceptilatio. (2) Quanto alle origini di uno di questi contratti consensuali,
cioè della societas, vedi l'articolo del Ferrini nell'a Archivio giuridico »
diretto dal Serafini, anno 1887. 490 tratti ; accanto ai contratti nominati
dovette porre quelli non no minati ; accanto ai veri e proprii contratti, i
patti, che non pro ducono azione, ma una semplice eccezione ; e da ultimo
accanto ai contratti, che avevano avuto origine nel diritto civile, quelli che
avevano avuto origine nel diritto delle genti. Anche qui pertanto è facile lo
scorgere come, prima nel ius quiritium e poscia nel ius civile, presentisi
costantemente una parte già formata e consoli data , e un'altra , che si viene
foggiando e consolidando sựl modello somministrato dalle formazioni anteriori,
senza che mai si abbandoni il concetto fondamentale della primitiva
obbligazione, da cui il ius quiritium aveva preso le mosse. Ciò tanto è vero,
che, anche nel conchiudersi dello svolgimento storico del diritto delle
obbligazioni, si riscontra ancora quel con cetto , a cui si informava l'istituzione
primitiva del nexum , con cetto , che viene ad essere enunziato da Paolo con
dire « obligationum « substantia non in eo consistit , ut aliquod corpus,
nostrum , aut « servitutem , nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad «
dandum aliquid , vel faciendum , vel praestandum » (1). Si viene cosi a
mantenere una separazione fra la teoria delle obbligazioni e quella del
trasferimento della proprietà , non meno radicale e pro fonda, di quella, che
negli inizii del ius quiritium esisteva fra il concetto del facere nexum e
quello del facere mancipium . È questo il motivo, per cui la genesi dei modi,
coi quali nel diritto ro mano si acquistano e si trasferiscono la proprietà e i
diritti inchiusi nella medesima, deve essere cercata in un altro istituto del
diritto primitivo di Roma, che è quello della mancipatio . $ 3. – La mancipatio
e la storia primitiva dei modidi acquistare e di trasferire ildominio
quiritario . 381. Mentre il facere nexum costitui senz'alcun dubbio la forma
primitiva dell'obbligazione quiritaria, il facere mancipium invece, che prese
più tardi il nome di mancipatio , deve considerarsi come la forma primordiale ,
che ebbe ad assumere l'acquisto ed il trasferi mento della proprietà ex iure
quiritium (2). Tanto la nexi datio, ( 1) Paolo, Leg . 3 , Dig . (44 , 7). ( 2)
Anche sulla mancipatio abbiamo una ricchissima letteratura . Tra i recenti mi
limiterò a ricordare il Leist, Mancipatio und Eigenthums Tradition , Iena,
1865; il MuirHead, Hist. Introd., sect. 30 , pag . 131 a 149 ; il Voigt, XIl
Tafeln , II, SS 84 491 quanto la mancipatio, debbono poi essere considerate
come due ap plicazioni dell'atto quiritario per eccellenza, che era l'atto per
aes et libram , come lo dimostra il fatto , che i più antichi giureconsulti
comprendono l'una e l'altra nella categoria di quegli atti, che si compiono per
aes et libram (1). Esse vengono soltanto a differire fra di loro nella
nuncupatio, ossia in quelle parole solenni, che dovevano accompagnare l'atto
per aes et libram , e che potevano attribuire al medesimo una significazione
diversa . Mentre la nun cupatio nel nexum doveva consistere in una specie di
condanna convenzionale del debitore al pagamento della somma da lui tolta in
imprestito ; la nuncupatio invece nella mancipatio, quale ebbe ad esserci
conservata da Gaio , consiste nella affermazione solenne del mancipio accipiens
, che la cosa gli appartiene ex iure qui ritium , per averla egli acquistata
con tutte le solennità richieste dal diritto quiritario (hunc ego hominem ex
iure quiritium meum esse aio , isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra ).
Gaio poi non ci dice , se a questa affermazione solenne del mancipio ac cipiens
corrispondesse una congrua risposta del mancipio dans; ma ad ogni modo egli è
certo , che questi, essendo presente all'atto , e ricevendo quell'aes rude, con
cui si percuoteva la bilancia, a titolo di prezzo , riconosceva con cið la
verità dell'affermazione dell'acqui rente (2). È poi anche degno di nota nella
mancipatio, che sebbene a 88 ; il Longo, La mancipatio , Firenze, 1887. Sembra
essere opinione comune a questi autori, che nell'antico linguaggio in luogo di
mancipatio si dicesse mancipium ; donde la conseguenza, che la espressione
facere mancipium sarebbe pressochè un sinonimo di facere mancipationem . Noi
abbiamo veduto invece, che il vocabolo man cipium ebbe, fra le altre
significazioni, anche quella di indicare il primitivo patri. monio del quirite
; quello cioè, che doveva da lui essere consegnato nel censo. Quindi per noi le
antiche espressioni di facere mancipium , mancipio dare, mancipio acci pere
dovettero significare il ricevere una cosa nel proprio mancipium , o il
trasferirla nel mancipium altrui. Quanto ai vocaboli di mancipare e di
mancipatio, essi si for marono, allorchè l'uso frequente di queste espressioni
costrinse a foggiare una parola, che esprimesse più brevemente il concetto . Di
qui la conseguenza , che il vocabolo di mancipatio non deriva direttamente da
manu capere, ma piuttosto da mancipium facere, mancipio dare e simili. Cfr.
BONFANTE , Res mancipi e nec mancipi, Roma, 1888, pag. 90 e 91. (1) « Nexum
Manilius scribit omne quod geritur per aes et libram , in quo sine mancipia » .
VARRO, De ling. lat., VII, 105. Vedi gli altri passi citati nel § 1° di questo
capitolo, nº 369, pag. 471, nota 1. (2 ) Gaio descrive la mancipatio e le
formalità, da cui era accompagnata , nei Comm ., I, SS 119 a 123 . 492 la
medesima in effetto servisse per il trasferimento della proprietà quiritaria ,
aveva perd eziandio tutti i caratteri di un acquisto ori ginario, come lo
dimostra il fatto , che era l'acquirente , il quale doveva per il primo
affermare la sua proprietà sulla cosa ed affer rare materialmente la cosa
stessa ; donde anche la conseguenza, che la mancipatio richiedeva la presenza
delle cose mobili, e per gli immobili era stata la sola necessità , che aveva
condotto all'uso, accen nato da Gaio , secondo cui « immobilia in absentia
solent manci. pari » (1). 382. La circostanza intanto, che la mancipatio ebbe
dapprima ad essere indicata coll'espressione di facere mancipium , costituisce
un forte indizio, che la mancipatio sia comparsa nel diritto quiri tario, in
quell'epoca stessa , in cui si formd il concetto del manci pium , e che essa
sia stata introdotta quale mezzo peculiare per la formazione e per il trasferimento
del mancipium , in quanto il me desimo costituiva il primo nucleo della
proprietà quiritaria , quella parte cioè del patrimonio, che doveva essere
consegnata e valutata nel censo. Fu l'importanza economica e politica , dal
censo attribuita al mancipium , che rese necessario un atto solenne per la
trasmis sione delle res mancipii contenute nel medesimo. Quindi l'origine della
mancipatio deve rimontare probabilmente alla costituzione serviana, e
l'introduzione di essa avere una stretta attinenza col concetto del mancipium ;
il che è comprovato dal fatto, che anche i classici giureconsulti, memori
dell'origine di essa , continuarono sempre a considerare la mancipatio , come
un modo di alienazione del tutto proprio delle res mancipii, e sostennero perfino
, che queste fossero cosi chiamate, perchè erano suscettive della mancipatio
(2). (1) Gaio , Comm ., I, 119. Sono da vedersi , quanto alla necessità di
adprehendere manu la cosa acquistata , se mobile, i passi citati dal Voigt, op.
cit., II, pag. 133, nota 10. Intanto nella necessità di questa materiale
apprensione della cosa parmidi scorgere un'altra prova, che il concetto del
primitivo mancipium implicava in certo modo la detenzione materiale e la
proprietà delle cose, che ne formavano oggetto, al modo stesso che il nexum
indicava ad un tempo il vincolo fisico e il vincolo giuri dico, a cui era
sottoposto il debitore. Ciò a parer mio rende probabile l'etimologia di
mancipium da manucaptum , come lo provano i passi citati dallo stesso Voigt,
op. e loc. cit., pag. 134 , nota 12. (2 ) Cfr., quanto alle origini della
mancipatio, il MUIRHEAD, op. cit., pag. Sono poi Gaio, I, 120 e Ulpiano , Fragm
., XIX, 3 , i quali attestano che la manci patio era esclusivamente propria
delle res mancipii. « Mancipatio, scrive quest'ultimo, propria species
alienationis est rerum mancipü » . Ciò però non impedì, che, trattan 57 e segg
. 493 - Siccome però fin da quest'epoca, accanto alle cose, che costituivano il
nucleo del mancipium , vi erano quelle, che non erano comprese nel medesimo, e
a cui perciò non potevasi applicare il facere man cipium , così ne venne che
accanto alla mancipatio dovette già essere in vigore la semplice traditio , la
quale, accompagnata dal pagamento del prezzo , poté servire per il trasferimento
delle cose, che non erano comprese nel mancipium . Mentre quindi la man cipatio
veniva ad essere una costruzione giuridica , la cui forma zione fu determinata
dal formarsi del mancipium , la traditio in vece era il mezzo naturale ed ovvio
per il trasferimento di quelle cose, che erano nec mancipii, e che perciò in
questo primo periodo non formavano oggetto di vera proprietà ex iure quiritium
(1). 383. Questo stato di cose venne poi a subire una modificazione profonda,
sotto l'influenza della legislazione decemvirale. Infatti è colla medesima, che
al concetto del mancipium , il quale restringeva di troppo il novero delle cose
, che potevano essere oggetto di pro prietà quiritaria , cominciò già a
sovrapporsi un concetto più esteso del dominium ex iure quiritium . Da questo
momento infatti le res mancipii continuano ancor sempre a costituire il nucleo
più importante delle cose, che possono essere oggetto di proprietà qui ritaria
, ma questa già può estendersi ad altre cose, che non erano comprese nel
primitivo mancipium . Di qui ne derivo , che mentre le XII Tavole serbarono la
mancipatio, quale mezzo esclusivamente proprio per la trasmissione delle res
mancipii, esse perd introdus sero o confermarono due altri mezzi, per
l'acquisto e la trasmis sione del dominium ex iure quiritium , di cui uno è
l'in iure cessio, la quale, essendo compiuta davanti almagistrato, potè anche
dosi di cose, le quali si ritenevano di grande prezzo e perciò si trasmettevano
in fami glia , quali erano ad esempio le pietre preziose, si potesse nella
consuetudine appli carvi anche la mancipatio. V. quanto si è detto a pag . 441,
nota 1. (1) Ciò è dimostrato da ULP., Fragm ., XIX, 3, e 7 ; il quale, dopo
aver premesso che la mancipatio era propria delle res mancipii, soggiunge poi:
« traditio aeque propria est alienatio rerum nec mancipii » ; nei quali passi è
evidente, che la man cipatio e la traditio si contrappongono fra di loro, come
il mancipium ed il nec mancipium . Quello cade sotto il diritto civile , e
perciò deve essere alienato colle forme del diritto civile, il che pure si
accenna da Festo, tº censui, allorchè scrive: « censui censendo agri proprie
appellantur, qui et emi et venire iure civili pos sunt » (Bruns, Fontes, pag.
334). Che il contrapposto fra mancipatio e traditio sia stato poi la prima
origine della distinzione fra i modi civili e naturali di acqui stare e di
trasmettere il dominio appare ad evidenza da Gaio , Comm ., II, 65 . 494 essere
estesa alle res mancipii, e l'altro è l'usus auctoritas, più tardi denominata usucapio
, mediante cui l'uso ed il possesso di una cosa , durato per un certo tempo,
potė attribuire la proprietà quiritaria della medesima. Colla legislazione
decemvirale pertanto vengono ad essere tre i principali mezzi, con cui può
essere acqui stata e trasmessa la proprietà quiritaria , e che costituiscono
perciò un diritto esclusivamente proprio dei cittadini romani. 384. Di questi
mezzi il più importante è sempre la mancipatio , la quale è il vero modo ex
iure quiritium per l'acquisto ed il tras ferimento del dominio , ma la
medesima, essendo nata col mancipium , continua sempre ad essere un mezzo di
alienazione proprio delle res mancipii. Vero è, che in questi ultimi tempi si è
dubitato , se la mancipatio non siasi più tardi applicata anche a quelle res
nec mancipii, che potevano essere oggetto di proprietà quiritaria : ma questa
opinione non sembra potersi accogliere, di fronte alle afferma zioni precise di
Gaio e di Ulpiano, i quali parlano sempre della manci. patio, come propria
delle res mancipii (1). Ciò tuttavia non impedi, che colla legislazione
decemvirale la mancipatio abbia acquistata una elasticità e pieghevolezza , che
prima non aveva, il che spiega come essa sia durata così lungo tempo , quale
mezzo di trasferimento della proprietà, ed abbia in questa parte esercitata una
influenza analoga a quella esercitata dalla stipulatio in materia di
obbligazioni. Sembra infatti, che il facere mancipium , negli inizii, fosse uno
di quei ne gozii di strettissimo diritto , che producevano l'immediata traslazione
della proprietà , e non ammettevano perciò nè termine, nè condi zioni. Le XII
Tavole invece introdussero il principio : « qui manci pium faciet, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » , e diedero così libertà ai contraenti di
aggiungere al primitivo mancipium , sotto la forma di una nuncupatio, che
faceva parte integrante del negozio, tutte le clausole e condizioni, che
potessero convenire ai contraenti. Fu in questo modo, che l'antica mancipatio
potè accomodarsi alla varietà dei casi e delle esigenze , e che si vennero così
formolando, per opera degli stessi pontefici e giureconsulti, quelle clausole
diverse , che sogliono essere indicate col vocabolo di leges mancipii. Colle
medesime infatti il mancipio dans , pur alienando la cosa , potè riservarsi
l'usufrutto della medesima, potè alienarla con patto di ( 1) GA10, I, 120,
Ulp., Fragm ., XIX , 3. Vedi tuttavia ciò che in proposito si disse a pag. 441,
nota 1. 495 - riscatto , poté restringere la propria garanzia per l'evizione,
ed anche limitare l'uso della cosa venduta per parte dell'acquirente. Era pero
naturale , che, per aggiungere alla mancipatio tutte queste clausole , più non
poteva bastare la semplice affermazione del man cipio accipiens, che la cosa
era sua ex iure quiritium ; maoccor reva eziandio, che il mancipio dans, con
una congrua risposta , apponesse quelle clausole e condizioni, che potessero
essere del caso , le quali, entrando a far parte integrante della stessa
mancipatio , dovevano fra i contraenti avere la forza di vere leggi (1) . 385.
Sopratutto , fra queste leges mancipii, viene ad essere impor tantissima
quella, che suol essere indicata col vocabolo di lex fidu ciae , od anche
semplicemente con quello di fiducia (2). Questa pro babilmente doveva essere
nata nelle consuetudini della plebe, la quale, non possedendo le vere forme
giuridiche, doveva di necessità nelle proprie convenzioni lasciare una larga
parte alla scambievole fiducia (3 ). Anche questa fiducia colla legislazione
decemvirale pe netrò nel ius quiritium , dove, combinandosi col rigoroso atto
della mancipatio, diede origine a quella singolare istituzione della man
cipatio cum fiducia , che doveva poi acquistare un così largo ( 1) Si può veder
raccolta nel Voigt, op . cit., II, $ 85, pag. 146 a 166, una varietà grandissima
di queste clausole o leges mancipii, raccolte da passi di antichi autori. Nel
Bruns parimenti, Fontes, pag. 251 a 256, sono riportati parecchi moduli di
mancipationes, che pervennero fino a noi. ( 2) Quanto alla mancipatio cum
fiducia è a vedersi il Voigt, $ 86 , pag. 166 a 187, ove sono raccolte le
formole, che vi si riferiscono. È poi degno di nota quel modulo di mancipatio
fiduciae causa , che si fa risalire al primo o secondo secolo dell' êra
cristiana , riportato dal Bruns, Fontes, pag. 251. ( 3) Le ragioni, per cui le
origini della fiducia devono cercarsi nelle costumanze della plebe, furono già
esposte al n ° 149 , pag. 184. Di recente un giovine e dotto autore, l’Ascoli,
ebbe in proposito a scrivere, che la fiducia, come forma di pegno, non dovette
essere il prodotto spontaneo delle pratiche necessità del commercio, ma una
creazione artificiale , e che l'ipoteca nel suo concetto astratto è più
semplice della fiducia (Le origini dell'ipoteca e l'interdetto Salviano,
Livorno, 1887, pag. 1). Io credo, che se l'autore si riporti col pensiero ad
una plebe ragunaticcia , in parte immigrata e priva ancora di una vera
posizione di diritto, di fronte ai patrizii, fon datori della città,
comprenderà facilmente come i membri di essa, per trovar cre dito presso coloro
, che già vi si trovavano stabiliti, non avessero mezzo più acconcio , che
quello di alienare a questi cum fiducia le cose, che loro dovevano servire di
pegno. L'ipoteca invece avrebbe già supposto una comunanza di diritto, che
ancora non esisteva, e un'analisi del diritto di proprietà , che mal si poteva
conciliare colle condizioni di un popolo primitivo. 496 svolgimento nel diritto
civile di Roma. Con essa , accanto all'ele mento strettamente giuridico,
cominciò a penetrare anche la consi derazione della buona fede, in quanto che
non si bado più in modo esclusivo alla osservanza delle forme esteriori del
negozio giuridico, ma cominciò anche a tenersi qualche conto dell' intenzione
vera ed effettiva dei contraenti. Che anzi questo elemento fiduciario fu
introdotto nella formola stessa della mancipatio , cosicchè il man cipio
accipiens non affermò più , la sua proprietà assoluta sulla cosa a lui
alienata, ma disse invece : « hunc ego hominem fidei fi duciae causa ex iure
quiritium meum esse aio » ; colla qual formola già si lasciava intendere, che,
sebbene egli avesse acquistata la proprietà quiritaria, questa perd era stata
affidata al suo onore per l'adempimento di qualche incarico di fiducia ( 1).
Questa fiducia poi, secondo Gaio, poteva farsi o con un amico o con un
creditore. Essa accadeva, ad esempio , con un amico nella manci patio familiae
cum fiducia , che fu una delle forme più antiche di testamento , mediante cui
si mancipava il proprio patrimonio ad un amico ( familiae emptor), coll'incarico
di disporne nella guisa statagli indicata per il tempo, in cui altri avesse
cessato di vivere. La fiducia seguiva invece con un creditore, allorchè a lui
si mancipava la cosa , che si voleva lasciargli a titolo di pegno (2 ). È
probabile che dap prima questa clausola fiduciaria non avesse efficacia
giuridica , ma col tempo essa venne acquistandola. Per tal modo la mancipatio
cum fiducia venne cambiandosi in un espediente giuridico , mediante cui la
mancipatio non serviva più unicamente al trasferimento della proprietà ; ma
serviva eziandio per costituire comodati, donazioni mortis causa, doti, e
riceveva cosi applicazioni diverse, anche nei rapporti famigliari, nei quali
essa si svolse , come vedremo a suo tempo, sotto la forma di coemptio
fiduciaria (3). 386. Fu questo il magistero, mediante cui la mancipatio fu dal
diritto civile di Roma adattata alle varie contingenze di fatto ; ma (1) Cfr.
il MUIRHEAD, op . cit., pag. 140 e seg . e il Voigt, op. cit., II , pag . 172.
(2) È notevole in proposito il passo di ISIDORO, Orig., 5, 22, 23 , 24 ,
riportato dal Bruns, Fontes , pag. 406 , in cui egli istituisce, sulle vestigia
di qualche antico au tore, una specie di raffronto fra il pignus, la fiducia e
l'hypotheca . Della fiducia egli scrive : « fiducia est, cum res aliqua ,
sumendae mutuae pecuniae gratia, vel man cipatur vel in iure ceditur » . (3)
Quanto alle svariate applicazioni della fiducia V. Ascoli, op. cit., pag. 3 e
seg . 497 siccome la sua applicazione era pur sempre circoscritta alle res
mancipii, cosi, accanto alla medesima, si introdussero o si confer marono dalla
legislazione decemvirale due altri modi di acquistare e di trasmettere la
proprietà, di indole e di origine compiutamente diversa , ancorchè entrambi
costituiscano un ius proprium civium romanorum . Essi sono l'in iure cessio e
l'usucapio . È ovvio scorgere l'opposizione, che esiste fra questi due mezzi di
acquisto della proprietà ' quiritaria . Mentre l'in iure cessio viene talvolta
nelle fonti ad essere indicata col vocabolo di legis actio , perchè essa , al
pari delle legis actiones, si compie in iure, cioè da vanti al magistrato, ed è
in certo modo una rei vindicatio non con traddetta . (1) ; l'usucapio invece
nelle dodici tavole viene ad essere indicata col vocabolo di usus auctoritas.
Mentre la prima consiste in una finta rivendicazione, fatta dal compratore o
dal cessionario , non contrastata dal venditore o dal cedente della cosa , che
forma oggetto di negozio , la quale si compie davanti almagistrato , e a cui
sussegue l'aggiudicazione del medesimo ; la seconda invece fondasi
esclusivamente sull'autorità dell'uso, cosicchè una cosa posseduta per due
anni, se trattisi di un fondo, e per un anno, se trattisi di qualsiasi altra
cosa , finirà per appartenere ex iure quiritium a colui che ebbe a possederla .
Mentre nella in iure cessio noi abbiamo un modo di procedere, eminentemente
legale e giuridico , in quanto che essa compiesi coll'intervento del magistrato
;, nella usucapio in vece abbiamo un fatto , che trasformasi in diritto , ossia
l'uso od il possesso , che trasformansi nella proprietà ex iure quiritium ,
quando abbiano durato per un certo spazio di tempo . Queste considerazioni mi
inducono a ritenere, che, mentre l'in iure cessio è un modo di acquisto ,
ricavato dal diritto proprio delle genti patrizie , presso le quali tutto già
facevasi con formalità so lenni e coll'intervento del magistrato , l'usus
auctoritas invece do vette avere origine presso la plebe, la quale , avendo
dapprima più una posizione di fatto, che una posizione di diritto , dovette
cono scere più l’uso ed il possesso, che non la proprietà nella significa zione
, che vi attribuivano i patrizii. L'accoglimento pertanto di questi due modi di
acquistare e di trasmettere la proprietà quiri di essa (1) È lo stesso Gaio,
Comm., II, 24, che, dopo aver descritta l'in iure cessio, dice idque legis
actio vocatur » . A questa descrizione di Gaio poi corrisponde quella
brevissima di Ulp., Fragm ., XIX , 10 « In iure cedit dominus ; vindicat is ,
cui ceditur; addicit Praetor » . G. CARLE, Le origini del diritto di Roma . 32
498 taria fu in certo modo il frutto di una specie di compromesso fra i due
ordini; poichè da una parte si riconosceva la cessio in iure davanti al
magistrato , il quale era ricavato dall'ordine patrizio , e dall'altra il
patriziato cominciava a riconoscere qualche efficacia giu ridica a quell'usus
auctoritas, sulla quale 'soltanto fondavansi i di ritti della plebe (1). (1)
Qui cade in acconcio di arrestarci alquanto alla significazione da attribuirsi
alla espressione « usus auctoritas » , che occorre nelle XII Tavole. La legge
relativa dal DIRKSEN collocata al nº 3 della Tavola VI, e fu riportata colle
parole stesse di CICERONE, Top ., 4 : « usus auctoritas fundi biennium est ;
ceterarum rerum omnium annuus est usus » . Essa invece dal Voigt, op. cit., I,
pag. 110, sarebbe collocata al n . 6 , della Tavola V , e sarebbe così
concepita : « usus, auctoritas biennium , cetera rum rerum annuus esto » . Di
qui molte discussioni fra gli studiosi relativamente ai rapporti fra i due
termini usus ed auctoritas, al qual proposito l'opinione pre valente sembra
essere, che il vocabolo di usus si riferisca all'usucapione e quello di
auctoritas alla garanzia del titolo , che incombe al venditore in una
mancipazione; cosicchè la legge verrebbe a dire, che tanto l'usus quanto
l'auctoritas sarebbero li mitati a due o ad un anno, secondo le cose di cui si
tratta . Tale opinione sarebbe stata prima enunciata dal SALMASIO, De usuris,
cap. 8 , pag. 215 ; Lugd., Bat. 1638 , e troverebbe seguito ancora oggidì,
presso il Voigt, il quale avrebbe perciò separato l'usus dall'auctoritas con
una virgola . A mio avviso invece sembra alquanto fuor di luogo, che si venga a
discorrere di garanzia dall'evizione colà , ove tutti gli antichi autori non ci
parlano che dell'usucapione. Parmi poi evidente, che l'espressione effi
cacissima di « usus auctoritas » non possa essere che il contrapposto
dell'altra espres sione « iuris auctoritas » , e che quindi la significazione
naturale della medesima consista in dire, che l'uso varrà come titolo, e il
possesso equivarrà a proprietà , allorchè essi siano durati un biennio pei
fondi, e un anno per tutte le altre cose. Il solo vocabolo di usus, analogo a
quello di possessio , non avrebbe potuto da solo indicare l'usucapione, e fu
perciò , che dovette dirsi usus auctoritas, la quale espressione appunto
occorre in Cic., Top ., 4. Sia pure che lo stesso Co., pro Caec., 19 , sembri
separare le due cose, allorchè scrive: « lex usum et auctoritatem fundi iubet
esse biennium » ; ma è facile il vedere, che la dizione qui è già alterata
dall'uso dell'infinito, e che le due parole indicano pur sempre una cosa sola ,
cioè l'autorità od il diritto sul fondo provenienti dall'uso . Ogni dubbio poi
viene ad essere tolto dal passo di Boezio , in Cic., Top ., loc. cit ., nel
quale trovansi appunto contrapposte l'usus auctoritas e la iuris auctoritas.
Egli infatti, dopo aver definita l'usucapio, scrive : « Plurima « rum autem
rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, « id firma
iuris auctoritate possideat, velut rem mobilem ; fundi vero usucapio « biennii
temporis spatio continetur. Ait Cicero : ut, quoniam ususauctoritas fundi «
biennium est, sit etiam aedium . Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio «
fieri sentit » (Bruns, Fontes, pag . 400). Che se altrove la legge dice a
adversus hostes aeterna auctoritas esto » , gli è perchè ivi parlasi tanto
della iuris, che del l'usus auctoritas, e quindi non occorreva specificare il
concetto, ed anche perchè il vocabolo di auctoritas da solo significa la iuris
auctoritas. In ogni caso sarebbe in 499 387. Dei due istituti tuttavia esercito
certamente una maggiore influenza sullo svolgimento del diritto romano
l'usucapio , che non l'in iure cessio . Di questa infatti dice Gaio , che la
medesima, quanto alle res man cipii, non poteva competere colla mancipatio,
poichè era naturale che quello, che poteva compiersi dagli stessi contraenti,
coll'inter vento di amici, non si compiesse con difficoltà maggiori presso il magistrato
(1). Di qui ne venne che , sebbene l'in iure cessio po tesse anche applicarsi
alle res mancipii, essa invece fini per restrin gersi al trasferimento di
quelle cose, che per essere nec mancipii non erano suscettive di mancipatio .
Così, ad esempio , Gaio ci dice, che mediante l'in iure cessio si poteva fare
la costituzione delle servitù urbane, le quali erano res nec mancipii, la
cessione della eredità , che consideravasi come una cosa incorporale, come pure
la costituzione dell'usufrutto . Quanto a quest'ultimo tuttavia , egli os
serva, che esso poteva anche costituirsi mediante la mancipatio, al lorchè
altri, mancipando la cosa , riservava per sè l'usufrutto della medesima,
apponendovi una lex mancipii: mentre invece colui, che voleva conservare la
proprietà , non avrebbe potuto staccarne l'usu frutto, che mediante la in iure
cessio (2). L'usucapio invece deve essere considerata come una delle istitu
zioni, che maggiormente influirono sullo svolgimento del diritto . Essa in
certo modo fu il mezzo somministrato alla plebe per passare da una posizione di
fatto ad una posizione di diritto , per cambiare cioè la semplice usus
auctoritas nella iuris auctoritas. Fu quindi essa , che determinò la formazione
della teoria del possesso , accanto a quella della proprietà , e che condusse
la giurisprudenza a deter minare le condizioni, mediante cui il possesso può
trasformarsi in proprietà. È poi degno di nota, quanto all'usucapio del diritto
qui comprensibile, che Gato ed ULPIANO, i quali ebbero più volte ad accennare a
questa disposizione delle XII Tavole, avessero sempre solo avuto occasione di
parlare della durata dell'usucapio , e non mai della durata dell'obbligo di
garanzia per parte del mancipante. Parmi quindi, che la ricostruzione più
probabile sia la seguente: « usus auctoritas fundi biennium , ceterarum rerum
annus esto » ; la quale concorda anche di più colle regole grammaticali. ( 1)
Scrive infatti Garo , Comm ., II, 25 , discorrendo della iure cessio per le res
mancipii : « Plerumque tamen et fere semper mancipationibus utimur; quod enim
ipsi per nos, praesentibus amicis, agere possumus, hoc non est necesse cum
maiore difficultate apud Praetorem aut Praesidem provinciae agere » . (2) GAIO,
II, 33 ; Ulp., Fragm ., XIX, 11 e 12 . 500 ritario, che essa, a differenza
della prescrizione, che ebbe ad essere introdotta molto più tardi, non
presentasi ancora come un mezzo di estinzione dei diritti, ma ha sopratutto il
carattere di un mezzo di acquisto, come lo indica il vocabolo stesso di
usucapio . Cid pure è confermato dal motivo, che si assegna come fondamento
all'usucapio , il quale non consiste nell'intento di punire coloro, che
trascurassero di esercitare il proprio diritto , ma bensi in quello di evitare
l'in certezza dei dominii : « ne rerum dominia diutius in incerto essent » .
388. Le considerazioni premesse dimostrano, che l'usucapio fu effettivamente
adottata dai decemviri per fare in modo che le pos sessioni della plebe
potessero in un breve periodo di tempo acqui. stare anch' esse il carattere quiritario
, cosicchè tutti i possessori di terre si cambiassero in breve in veri
proprietarii ex iure quiritium . Quest'effetto era già stato ottenuto in grande
col censo serviano, il quale aveva convertito di un tratto tutti i mancipia ,
proprii della plebe , in altrettante proprietà ex iure quiritium , facendoli
consegnare nel censo ; ed il medesimo processo venne ad essere reso
continuativo colla disposizione relativa all'usus auctoritas , la quale in
breve spazio di tempo attribuiva al sem plice possesso il carattere di un vero
e proprio diritto . Ciò appare eziandio dalle applicazioni del tutto diverse di
questa usus aucto ritas, la quale compare non solo qual mezzo per acquistare la
pro prietà quiritaria delle cose mobili ed immobili, ma anche qual mezzo per
far acquistare al marito la manus sulla propria moglie , e quale mezzo infine
per far acquistare col possesso di un anno la proprietà quiritaria di
un'eredità , come accade nell'usucapio pro herede (1 ). Così pure dapprima non
si richiedono condizioni di sorta , perchè l'usucapio possa effettuarsi, ma
basta il possesso di uno, op pure di due anni, ed è solo posteriormente , che i
giurisprudenti fis (1) Il concetto qui accennato fu già più largamente svolto
al nº 154, p . 190 e seg., ove ho dimostrato che l'attribuire carattere
giuridico ai possessi della plebe nel ter . ritorio romano era il miglior mezzo
per interessarla all'avvenire e alla grandezza della città. Cfr. il MUIRHEAD,
op. cit., pag. 48, e l'Es sin , Histoire de l' usucapion nei « Mélanges
d'histoire du droit » , Paris, 1886, pag. 171 a 217. Dal momento poi, che
l'usus auctoritas era per i decemviri un mezzo per cambiare una posizione di
fatto in una posizione di diritto, si comprende come essi non abbiano avuto
diffi coltà di applicarla all'acquisto della proprietà, all'acquisto della
manus, ed anche all'acquisto dell'eredità (usucapio pro herede). 501 sano le
condizioni, che debbono concorrere in tale possesso , perchè possa dar luogo
all'usucapione (1). Tuttavia fin da principio la legge decemvirale già comincia
ad escludere certe cose dall'usucapione, come le cose furtive, le res mancipii
appartenenti alla donna, quando siano state vendute e consegnate senza il
consenso del tutore (sine tutoris auctoritate) (2 ), mentre è solo più tardi, che
la giurisprudenza venne a richiedere la buona fede nell'acquirente. Per tal
modo un mezzo, che dapprima servi per mutare una posizione di fatto in una
posizione di diritto , fini col tempo per convertirsi eziandio in un rimedio
contro il difetto inerente al titolo di acquisto , proveniente o da
irregolarità dell'atto di trasferimento o da incapacità dell'ac quirente (3 ).
L'usucapione poi, per sua natura, può già applicarsi cosi alle res mancipii ,
che alle res nec mancipii , ma non pud tuttavia applicarsi al suolo
provinciale, come quello, che non poteva essere oggetto di proprietà quiritaria
(4 ). Tuttavia anche qui co mincia a svolgersi una istituzione del diritto
delle genti , che è quella della prescrizione, la quale, salvo la durata
maggiore, ha un carattere analogo a quello della usucapio nel diritto civile :
come lo dimostra il fatto , che le due istituzioni finiscono col tempo per
fondersi insieme, e dar cosi origine alla praescriptio longi temporis
giustinianea (5 ). ( 1) Questo carattere dell'usucapio primitiva è già
accennato dall'Esmein , op. cit., pag. 177, e può inferirsi dalla definizione
di Ulpiano, Fragm ., XIX , 8 : « Usucapio « est dominii adeptio per
continuationem possessionis anni, vel biennii » ; nella quale non occorre
ancora quel carattere della iusta possessio , che compare invece nelle altre
definizioni, e fra le altre in quella di Boezio riportata dal Bruns, Fontes,
pag . 400. Quanto ai rapporti fra il possesso, di cui qui si parla , che
sarebbe il pos sesso ad usucapionem , ed il possesso ad interdicta, che
costituisce un istituto, avente un proprio scopo , e distinto da quello della
proprietà, vedi ciò che si disse più sopra al n . 357, pag. 452, nota 1. A
parer mio dovette forınarsi prima il concetto del pos sesso ad usucapionem , e
più tardi soltanto quello del possesso ad interdicta. (2 ) Questa condizione
speciale delle res mancipii, spettanti alle femmine ed ai pupilli, la quale ha
evidentemente lo scopo di impedire l'alienazione delmancipium per conservarlo
nella linea agnatizia , è attestata in modo concorde da Gaio, Comm ., I, 47,
192 e II, 80, e da ULP., Fragm ., XI, 27 . (3) È naturale infatti, che
l'usucapione in una società , che si forma, sia un modo di acquisto , e che in
una società invece, che si è formatn , si converta in un mezzo di difesa ; e
richieda così un tempo maggiore per servire quale mezzo di acquisto. Le società
giovani pensano sopratutto all'acquisto ; mentre le società adulte e già for
mate pensano sopratutto a conservare l'acquistato. (4 ) GAIO, Comm ., II, 46 :
« item provincialia praedia usucapionem non recipiunt » . (5 ) Mainz, Cours de
droit romain , I, SS 111 e 112 , pag. 745 e segg. 502 389. Intanto ,mentre
accade questo svolgimento nei modi di trasfe rimento della proprietà ex iure
quiritium , accanto alla medesima viene lentamente consolidandosi un'altra
forma di proprietà , che prende il nome di proprietà in bonis . Questa dapprima
non è che una proprietà di fatto , ma col tempo ottiene anch'essa in via indi
retta e per opera del pretore una protezione di diritto, e viene così a
costituire un vero dualismo nel concetto di proprietà , il che ebbe ad
esprimere Gaio con dire: « postea divisionem accepit dominium , ut alius possit
esse ex iure quiritium dominus, alius in bonis habere (1) » . Il primo nucleo
di questa nuova forma di proprietà ebbe ad essere costituito dalle res
mancipii, allorchè le medesime erano trasmesse colla semplice traditio ; ma
poscia essa fini per comprendere tutte le altre cose, che per qualsiasi causa
non fossero oggetto della proprietà ex iure quiritium . Che anzi il dualismo
andò fino a tale per l'esistenza contemporanea del ius civile e del ius
honorarium , che di una stessa cosa potè accadere, che altri fosse il
proprietario ex iure quiritium , mentre un altro la teneva in bonis; il che
voleva dire in sostanza, che l'uno ne aveva la pro prietà ufficiale, mentre
l'altro ne aveva l'effettivo godimento . È tut tavia notabile , che prima della
fusione delle due proprietà , quella in bonis già cominciava in certe cose ad
avere la prevalenza ; come lo dimostra il fatto , che se un servo appartenesse
ad una persona ex iure quiritium , e fosse stato in bonis di un altro, gli
acquisti, che egli faceva, andavano a profitto di colui, del quale era in bonis
(2 ). Diqui una lotta fra le due forme di proprietà , che diede occasione allo
svolgersi dei modi naturali di acquisto , accanto a quelli ricono sciuti dal
diritto civile ; lotta , che Gaio ebbe a riassumere scrivendo : « Ergo ex his,
quae dicimus, apparet, quaedam naturali iure alie nari, qualia sunt ea , quae
traditione alienantur ; quaedam civili, nam mancipationis et in iure cessionis
et usucapionis ius pro prium est civium romanorum » ( 3). Così è pure questa
lotta, che porge occasione allo svolgersi della publiciana in rem actio (4 ),
ac canto alla rei vindicatio, della prescrizione accanto all'usucapione, ( 1)
Gaio , Comm ., II, 40. ( 2) Gaio, II, 88 e UlP., Fragm ., XIX , 20. (3) Id.,
II, 65. Di qui infatti Gaio prende occasione di discorrere deimodi natu rali di
acquisto . (4) Quanto all'actio in rem pubbliciana è da vedersi APPLETON, De
l'action pub blicienne nella « Nouvelle Revuehistorique » , 1885, pag. 481-526
, e 1886, pag. 276-342. - - 503 fino a che le due proprietà finiscono per
essere pareggiate fra di loro , ed allora si consegue l'effetto, che quelle
caratteristiche della pro prietà quiritaria , che si erano prima applicate a
quel nucleo ristretto di cose, che erano comprese nel mancipium , poi si erano
estese a tutte le cose, che erano oggetto delle proprietà ex iure quiritium ,
finiscono per essere estese a tutte le cose, che, per essere in com mercio,
possono essere oggetto di proprietà privata . È solo allora che Giustiniano,
forse non troppo consapevole dell'ufficio , che un tempo avevano compiuto le
distinzioni fra res mancipii e nec man cipii e fra la proprietà ex iure
quiritium e la proprietà in bonis, abolisce pressochè ab irato queste
distinzioni, le quali a suo giu dizio « nihil ab eniymate discrepant» e dànno
solo più origine ad inutili ambiguità ed incertezze (1) . 390. Infine anche qui
deve essere notato , che tutta questa teoria del trasferimento della proprietà
non potè mai trovare applicazione in tema di obbligazioni. Almodo stesso , che
più tardi la giurisprudenza romana continua ad affermare che « traditionibus et
usucapionibus dominia rerum , non nudis pactis, transferuntur » (2); così essa
pur continua a professare, che i modi, i quali servono a trasferire la pro
prietà, non possono invece servire per trasferire un'obbligazione da una
persona ad un'altra . Scrive infatti Gaio, dopo aver discorso della mancipatio
e della in iure cessio, quali modi di trasferimento della proprietà: «
obligationes, quoquo modo contractae, nihil eorum recipiunt; nam quod mihi ab
aliquo debetur, id si velim tibi de beri, nullo eorum modo, quibus res
corporales ad alium transfe runtur, id efficere possum ; sed opus est, ut,
iubente me, tu ab eo stipuleris » (3 ). Quindi le obbligazioni, che si
contraggono colla sti pulatio, devono essere trasmesse e cedute anche colla stipulatio,
e non potrebbero esserlo colla mancipatio e colla in iure cessio, che sono
circoscritte al trasferimento della proprietà e dei diritti reali. Per tal modo
quella distinzione radicale e profonda, che apparve nell'antico ius quiritium ,
fra il facere mancipium ed il facere nexum , si mantenne per tutto lo
svolgimento posteriore del diritto civile romano, nel che abbiamo un'altra
prova della dialettica co (1) Giustin., Cod ., VII, 25 : de nudo iure quiritium
tollendo; e VII, 31, $ 4 : de usucapione transformanda et de sublata
differentia rerum mancipii et nec mancipii (2 ) L.20, Cod ., II , 3 (Dioclet.
et Maxim .). (3 ) Gaio , Comm ., II, 38. 504 stante, con cui i giureconsulti
romani tengono dietro ai concetti pri mordiali, da cui presero le mosse nella
prima elaborazione del ius quiritium . Ciascun concetto di questo è come un
nucleo, che viene attraendo tutto ciò , che può esservi di affine, ma il
medesimo non si confonde mai coi concetti, da cui ebbe già a separarsi, nè pud
at trarre materie, che siano partite da un concetto primordiale diverso . Chi
poi volesse trovare la ragione intima, per cui nel diritto civile romano il
semplice contratto può soltanto essere sorgente di obbligazioni, e non potè mai
bastare da solo al trasferimento della proprietà, dovrebbe probabilmente
ricercarla nel concetto in parte materiale, che il primitivo diritto erasi
formato prima del manci pium e poscia anche del dominium ex iure quiritium ;
avrebbe infatti ripugnato alla logica giuridica, che un dominio, il quale aveva
in se qualche cosa di corporale, potesse trasferirsi senza es sere accompagnato
da qualche fatto esteriore, che mettesse la cosa acquistata a disposizione
dell'acquirente . Veniamo ora al testamento e cerchiamo di spiegare come mai
anche un atto di questa natura abbia finito per rivestire la forma dell'atto
per aes et libram . $ 4 . La testamenti factio e la storia primitiva del
testamento quiritario . 391. Degli atti, che rimontano all'antico ius quiritium
, il testa mento è certamente quello , di cui ci pervennero in maggior quantità
i dati per ricostruirne la storia primitiva , e per seguire le trasfor mazioni,
che ebbe a subire nel passaggio dal periodo gentilizio alla vita cittadina. Non
può dubitarsi anzitutto , che le origini del testamento rimon tano ad un'epoca
anteriore alla fondazione della città , perchè noi sappiamo con certezza, che
esso fin dagli inizii della città esclusiva mente patrizia fu uno degli atti,
che, al pari dell'adrogatio , della detestatio sacrorum e simili, dovevano
essere compiuti coll'inter vento dei pontefici, davanti al popolo delle curie ,
riunito nei comizii calati. Ciò dimostra, che esso già preesisteva presso le
genti patrizie, che concorsero alla fondazione delle città , le quali dovettero
ser virsene, comedi un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto . Si è
veduto infatti, che nella organizzazione delle genti italiche la famiglia ,
ancorchè entrasse a far parte di un organismo maggiore, cioè della gente e
della tribù, aveva però già una propria esistenza, 505 un proprio culto , e un
proprio patrimonio (heredium ). Era quindi naturale , che essa tendesse a
perpetuarsi, e che perciò il capo di famiglia riguardasse. come una grande
sventura la mancanza di un erede , che continuasse in certo modo la sua
personalità , e che adem piesse all'obligo del sacrifizio domestico . Fu quindi
per supplire alla mancanza di un erede naturale, che noi troviamo essere in uso
presso le genti italiche l'adrogatio ed il testamentum : due istitu zioni, le
quali , ancorchè in guisa diversa , mirano in sostanza al medesimo intento ,
cioè alla perpetuazione della famiglia e del suo culto . Intanto però , siccome
l'una e l'altra istituzione toccavano da vicino l'organizzazione gentilizia ,
cosi egli è certo , che nel periodo gentilizio l'adrogatio e il testamentum non
poterono compiersi dal capo di famiglia , di sua privata autorità , ma
dovettero invece essere compiuti colla approvazione degli altri capi di
famiglia , che appar tenevano alla medesima gente o tribù (1). 392. Allorchè
poi le due istituzioni vennero ad essere trapiantate nella città patrizia, esse
conservarono dapprima il medesimo carat tere, e perciò apparirono come due
negozi, i quali, avendo un carat tere pubblico, non potevano operarsi di
privata autorità, ma dovevano essere compiuti nei comizii calati delle curie,
convocati dai ponte fici. Che anzi, se abbiamo da argomentare dalla formola
dell'adro gatio, che ci fu conservata da Gellio , conviene inferirne , che
anche il testamento , in questo periodo, dovette assumnere il carattere di una
vera e propria legge (2 ). Intanto però egli è evidente, che questo testamento
nei comizii calati delle curie dovette essere esclusivamente proprio delle
genti patrizie , e che il medesimo non ebbe certamente lo scopo di porgere al
testatore un mezzo di disporre a capriccio delle proprie sostanze; ( 1) Ho già
toccato dell'attinenza strettissima, che intercede fra l'adrogatio ed il
testamentum nel periodo gentilizio al nº 63-65, pag. 77 e segg . Cfr. in
proposito il SUMNER -MAINE, Ancien droit, pag . 184 e il CoQ, Recherches sur le
testament per aes et libram nella « Nouvelle Revue historique » , 1886 , pag.
536. Qui solo ag. giungerò, che questa attinenza appare anche meglio nel
diritto greco, e sopratutto nell'ateniese , nel quale il primitivo testamento
compare sotto la forma dell'adozione. Cfr. il Jannet, Les institutions sociales
a Sparta . Paris, 1880 , pag. 96 e segg . ; e il Cocotti, La famiglia nel
diritto attico . Torino, 1886, pag . 69. (2) Questo carattere pressochè
pubblico dell'adrogatio e del testamentum in Roma non è mai intieramente
scomparso, come lo prova il detto di PAPINIANO , L. 4 , Dig . (28-1) :
testamenti factio iuris publici est. Cfr . quanto ho scritto a n ° 221, pag.
268 e seg . 506 - ma lo scopo invece di perpetuare la famiglia ed il suo culto
, e di impedire la divisione immediata del patrimonio, come lo dimostra
l'antica espressione romana « ercto non cito » ; la quale ha tutti i caratteri
di una primitiva clausola testamentaria . Quanto alla plebe , non avendo essa
la organizzazione gentilizia , non poteva certamente possedere un simile
testamento ; quindi è probabile, che il capo di famiglia plebeo , quando
rimaneva senza figliuolanza diretta , non avesse altro mezzo di disporre delle
proprie cose , che quello di ri correre all'istituto della fiducia , affidando
il suo patrimonio ad un amico, che ne disponesse nel modo da lui indicato ;
modo questo di far testamento , che era una conseguenza naturale delle
condizioni economiche e giuridiche, in cui trovavasi la plebe, e che Gaio ci
indicherebbe come affatto primitivo, ed anteriore ancora a quella forma di
testamento, che a noi pervenne sotto la denominazione di testamento per aes et
libram (1 ). Di qui la conseguenza, che fin dagli esordii di Roma dovettero tro
varsi di fronte due forme di testamento ; un testamento cioè, di origine
patrizia , fatto colla formalità di una vera e propria legge, nei comizii
calati delle curie , coll'intervento dei pontefici, diretto a perpetuare la
famiglia ed il suo culto e ad impedire la disper sione dei patrimonii; e
l'altro , di origine plebea , che compievasi colle forme stesse di quel
fedecommesso , che penetrò solo più tardi nel diritto civile romano, il quale
non era che una applicazione della fiducia , e aveva l'unico scopo di porgere
un mezzo al capo di famiglia per disporre delle proprie cose per il tempo , in
cui egli avrebbe cessato di vivere. 393. Fu soltanto allorchè la plebe entro
eziandio a far parte del populus, che potè svolgersi una forma di testamento ,
comune ai due ordini, ed è sopratutto a questo punto, che l'esposizione di Gaio
ci può venire in sussidio per ricostruire la storia primitiva del testa mento
civile romano (2 ). Gaio ci parla di due forme primitive di testamento , cioè:
di un testamento , che compievasi in calatis comitiis, i quali si sarebbero
radunati due volte all'anno per la confezione dei testamenti; e del (1) Gaio,
Comm ., II, 107. Vedi a proposito di questo primitivo testamento della plebe,
che era una applicazione della fiducia e corrispondeva in certo modo a quel
fedecommesso, che fu accolto più tardi nel diritto romano, cid che ho scritto a
n ° 149, pag. 184 e seg . Cfr. MUIRHEAD, Histor. Introd ., pag. 45 e seg. e p .
166 . ( 2 ) GAIO , II, 101 a 108 . 507 testamento in procinctu , che facevasi
invece davanti all'esercito già preparato alla battaglia. Egli anzi sembra
compiacersi nel notare, che queste due forme di testamento corrispondevano a
quel carat tere civile e militare ad un tempo, che era proprio del popolo ro
mano: « alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in praelium
exituri » ( 1); ma intanto non dice , se i comizii calati, a cui egli accenna,
fossero i comizii delle curie o quelli delle centurie . Sembra tuttavia ovvio
l'osservare , che Gaio qui discorre già delle due forme di testamento , comuni
cosi al patriziato che alla plebe, allorché i medesimi già erano entrati a far
parte dello stesso populus, e che perciò la sua distinzione non si deve
riferire al popolo primitivo delle curie , ma bensì al popolo plebeo-patrizio
delle centurie; del quale sopratutto si poteva dire a ragione, che mentre in
pace co stituiva i comizii, in guerra invece costituiva un esercito . Di qui la
conseguenza, che il testamento in calatis comitiis, di cui discorre Gaio , non
è più il testamento proprio delle genti patrizie , che fa cevasi nei comizii
calati delle curie, coll'intervento dei pontefici: ma bensi un testamento , già
comune al patriziato ed alla plebe, che fa cevasi in quei comizii calati, che
noi sappiamo da Aulo Gellio essere stati eziandio proprii delle centurie (2 ).
Furono probabilmente questi comizii calati delle centurie , che dovevano
radunarsi due volte l'anno per la confezione dei testamenti: mentre i comizii
calati delle curie potevano convocarsi dai pontefici, ogni qualvolta ne
occorresse il bi sogno. Siccome poi in questo tempo il quirite, come tale,
appare già prosciolto dai vincoli dell'organizzazione gentilizia, ed è già
libero dispositore delle proprie cose, anche per atto di morte , come ebbe a
dichiararlo espressamente la legge decemvirale ; così si può in durne, che il
popolo delle centurie, in questa fase del testamento quiritario , più non
intervenisse per approvare il medesimo con una legge, ma soltanto per prestare
la propria testimonianza , secondo la ( 1) GAIO , II, 101. (2 ) Gellio, XV, 27
, 1 e 2, parlando dei co:nitia calata , scrive : « eorum alia esse « curiata ,
alia centuriata. Curiata per lictorem curiatim calari, id est convocari ; «
centuriata per cornicinem ». Egli dice poi, che in questi comizii si facevano i
testa menti, il che fa supporre che si facessero tanto nei comizii calati
curiati, che nei centuriati. Lo stesso autore V , 19, 6 , parla un'altra '
volta dei comizii calati, a pro posito dell'adrogatio, ma qui sembra alludere
soltanto ai comizii calati curiati. Sembra infatti che l'adrogatio, a
differenza del testamento, abbia continuato sempre a farsi davanti alle curie ,
salvo che la medesima finì per compiersi davanti ai trenta littori, che la
rappresentavano. Cic., Adv. Rutt., II, 12. Cfr . Cuq, art. cit., p . 539 . 508
formola , che poi ricompare più tardi nel testamento per aes et libram : « et
vos , quirites, testimonium mihi perhibitote » . Cid è confermato eziandio
dalla considerazione, che questi comizii calati non si sarebbero radunati che
due volte l'anno per la confezione dei testamenti, il che avrebbe reso
pressochè impossibile , che ognuno dei testamenti presentati nei medesimi
avesse potuto essere approvato con tutte quelle formalità di una vera e propria
legge , che erano richieste nei comizii calati delle curie primitive . 394. Di
qui deriva, che se questo testamento nei comizii calati delle centurie imitava
ancora nella forma esteriore il testamento pa trizio, che facevasi nei comizii
calati delle curie , nella sostanza pero già ne differiva grandemente: poichè
nel medesimo questo intervento di tutto il popolo convertivasi in una semplice
formalità , in quanto che il popolo non era più chiamato ad approvare il
testamento ,ma sol tanto ad assistere al medesimo cometestimonio . Si comprende
pertanto , che la consuetudine popolare cercasse di sostituirvi qualche mezzo
più semplice di fare testamento, e che ricorresse percið alla manci patio
familiae cum fiducia , che è appunto la forma ditestamento, che Gaio ci
descrive essersi introdotta posteriormente al testamento in calatis comitiis
(1). Questo testamento non era in sostanza, che il testamento primitivo di
origine plebea , salvo che esso era già sottoposto alla forma quiritaria
dell'atto per aes et libram , e ac compagnato dalla fiducia . Era quindi un
testamento , che era facile a celebrarsi, ma che , al pari della fiducia iure
pignoris , aveva dapprima l'inconveniente di rimettere ogni cosa alla buona
fede del familiae emptor, il quale poteva anche abusare della fiducia , che il testatore
aveva in lui riposta . Fu allora, che i veteres iuris conditores sentirono la
necessità, come dice Gaio , di ordinare altrimenti il testamento per aes et
libram , e modellarono così quella forma di testamento , che penetrd con questa
denominazione nel ius quiritium o meglio nel ius pro prium civium romanorum , e
che fu poi argomento di uno svolgi mento storico non interrotto fino a
Giustiniano. Questo testamento (1) Fra gli autori, che distinguono la primitiva
mancipatio familiae cum fiducia, che ha quasi del fedecommesso, dal posteriore
testamento per aes et libram , quale è descritto da Gaio , II, 102, è da
vedersi il MuIRHEAD, op . cit., pag. 66 e 167, e sopratutto il Cuq, Op. e loc.
cit., pag. 534 e segg., il quale, dopo aver discorso prima della familiae
mancipatio, passa a trattare separatamente del testamento per aes et libram .
509 pertanto compare nel ius quiritium molto più tardi, che non il nerum ed il
mancipium , e viene ad essere una artificiosa applica zione dell'atto per aes
et libram , nell'intento di porgere al quirite un mezzo per disporre del suo
patrimonio per il tempo , in cui avrà cessato di vivere. 395. Questo testamento
, secondo la definizione di Gaio e di Ul. piano, componevasi di due parti, cioè
della mancipatio familiae e della nuncupatio. La prima consiste in un atto per
aes et libram , compiuto, come al solito, davanti a non meno di cinque
testimoni, cittadini romani, ed al libripens, in cui si addiviene ad una « ima.
ginaria venditio » delle sostanze del testatore ( familiae). È però a notarsi,
che,mentre nella primitiva mancipatio familiae il negozio seguiva
effettivamente fra il testatore e l'erede, di cui quello era il familiae
venditor e questo il familiae emptor ; nel testamento invece per aes et libram
, quale appare modellato in questo secondo stadio , il familiae emptor non è
più il vero erede, ma è piuttosto un depositario e custode del patrimonio,
accid il testatore possa disporne « secundum legem publicam » (1 ). Cið appare
dalla circostanza , che il familiae emptor, dopo aver finto di comprare il
patrimonio e di pagarne il prezzo, se ne dichiara perd semplice depositario ,
ricorrendo alla formola seguente : « familia pecuniaque tua endo mandatelam ,
custodelamque meam , quo tu iure testamentum facere possis secundum legem
publicam , hoc aere esto mihi empta » (2). ( 1) Trovo alquanto singolare la
interpretazione che il Cuq, art. cit., pag . 565, verrebbe a dare a queste
parole: « secundum legem publicam ». Egli ritiene, che tutte le parole del
testamento dovessero aversi come confermate da quella lex publica , che era
andata in disuso ; mentre invece è evidente, che le parole della formola : «
quo tu iure testamentum facere possis secundum legem publicam » , mirano
evidentemente a porre il familiae venditor in condizione di poter fare il
testamento approvato e riconosciuto dalla legge pubblica . Una prova di cið
l'abbiamo nella circo stanza, che questa stessa espressione « secundum legem
publicam » , compare eziandio nella formola della nexi liberatio, in cui si dice
: « hanc tibi libram primam postre mamque tibi expendo secundum legem publicam
» (Gaio, III, 174 ), ove la medesima non può certo avere la significazione, che
vorrebbe attribuirvi il Cuq. La causa di questa erronea interpretazione sta in
ciò, che il Cuq considera il testamento per aes et libram , come una
modificazione di quello in calatis comitiis, mentre esso ha un'origine affatto
diversa, come ho cercato di dimostrare nel testo . (2) GAIO, Comm ., II, 104.
Ho ricavato questa formola dall'ultima edizione curata dal MOMMSEN,
sull'Apographum Studemundianum , novis curis auctum , Berolini, 1884; la quale
presenta qualche notevole differenza dalle anteriori edizioni fatte dal Dubois,
dall'HUSCHKE e dal MUIRHEAD. 510 – Fin qui pertanto non havvi che una imaginaria
venditio , della quale Gaio dice espressamente, che viene compiuta soltanto «
dicis gratia , propter veteris iuris imitationem » . La sostanza invece di
questa forma di testamento consiste nella nuncupatio solenne, nella quale il
testatore , in presenza dei testimoni, istituisce il proprio erede, il quale
viene cosi già a distinguersi dal familiae emptor, ed indica eziandio i legati,
che saranno poi a carico dell'erede. Questa nuncupatio dapprima dovette essere
compiutamente orale ; ma poscia potè essere fatta in doppia guisa , in quanto
che il testa tore – o dichiarava espressamente la sua volontà davanti ai testi
moni, - o presentava invece ai medesimi le sue tavole testamen tarie ,
dichiarando solennemente , che queste contenevano la sua ultima volontà : «
haec ita , ut in his tabulis cerisve scripta sunt, ita do, ita lego, ita testor
: itaque, vos, quirites, testimo nium mihiperhibitote » (1). Di qui prorenne,
che già collo stesso testamento per aes et libram comincid a delinearsi la
distinzione, che acquistò più tardi grandissima importanza fra il testamento
nun cupativo e il testamento scritto . 396. Basta questa semplice descrizione
per dimostrare, che il testa mento per aes et libram è già informato ad un
concetto ben diverso da quello, a cui si ispirava il primitivo testamento delle
genti patrizie. Mentre infatti il testamento primitivo in calatis comitiis
mirava a perpetuare il culto domestico e ad impedire la dispersione dei patri
monii: quello invece per aes et libram tendeva senz'altro a sommi nistrare al
quirite un mezzo per disporre liberamente delle proprie cose. Ciò è dimostrato
dalla circostanza indicataci da Cicerone, che questo testamento deve
considerarsi come un'applicazione della di. sposizione delle XII Tavole : qui
nexum faciet mancipiumque, uti lingua nuncupassit, ita ius esto ; ed è pur
confermato dagli antichi giureconsulti, i quali parlano di questo testamento,
come di una va rietà ed applicazione del nexum , o meglio dell'atto per aes et
libram (2 ). Così pure, mentre nel testamento primitivo si richiedeva ( 1) Gaio
, loc. cit. e Ulp., Fragm ., XX, 2 a 10. Quest'ultimo sopratutto distingue
nettamente le due parti, di cui componesi il testamento per aes et libram ,
allorchè scrive al $ 9 : « In testamento, quod per aes et libram fit, duae res
aguntur, fa miliae mancipatio et nuncupatio testamenti » ; e dopo viene
senz'altro a parlare della nuncupatio, come di quella , che veramente importa .
(2 ) Cic., De Orat., I, 57, § 245. La stessa esposizione di Gaio, II, 102 e
103, dimostra, che il testamento per aes et libram ebbe origine diversa da
quello in - 511 . l'intervento dei pontefici, perchè in esso trattavasi di
provvedere al mantenimento del culto ; il testamento invece per aes et libram
viene ad essere considerato come una esplicazione del ius commercii, ossia
della facoltà del quirite di disporre liberamente delle proprie cose, e quindi
si attua mediante un atto di carattere esclusivamente mercantile , quale era
l'atto per aes et libram , lasciando poi al ius pontificium di provvedere,
quanto all'adempimento dei sacra (1). Mentre infine nel testamento primitivo la
volontà del testatore era sottoposta all'approvazione del popolo ; nel
testamento invece per aes et libram , la volontà del quirite appare
indipendente e sovrana, e non è soggetta a qualsiasi limitazione. Dopo ciò
credo di poter conchiudere con fondamento , che anche il testamento per aes et
libram , quale compare nel ius quiritium , deve già essere considerato come il
frutto di una vera e propria elaborazione giuridica, e comeuna conseguenza
logica di quel potere illimitato e senza confine, che appartiene al quirite di
disporre delle proprie cose, non solo per atto tra vivi , ma anche per causa di
morte . Non potrei quindi ammettere col Sumner Maine, che questa forma di testamento
importasse dapprima uno spoglio immediato ed irrevocabile del testatore a
favore del proprio erede : tanto più , che questa congettura è in diretta
opposizione con tutte le notizie, che a noi pervennero del testamento romano ,
il quale appare essere stato fin dapprincipio una attestazione solenne « de eo
quod quis post mortem tuam fieri vult » (2 ). calatis comitiis, poichè egli non
dice già , che il medesimo sia stato surrogato a quello in calatis comitiis, ma
dice invece : « accessit deinde tertium genus testamenti » . (1) Cic ., De
leg., II , 19 , 47. Cfr. in proposito il Cuq, art. cit., pag . 555 , il quale
pure osserva, che la mancipatio familiae, e quindi anche il testamento per aes
et libram più non aveva carattere religioso, pag. 553, nota 2 . (2) È noto come
il SUMNER Maine, Ancien droit, pag. 191, abbia coll'autorità del suo nome resa
accetta a molti l'opinione, che il testamento per aes et libram fosse di
origine plebea , e che esso importasse negli inizii una spogliazione immediata
ed irre vocabile del testatore a favore dei proprii eredi. Tale opinione non
può essere ac colta ; poichè il testamento per aes et libram , anzichè essere
proprio della plebe, fu invece una creazione del ius quiritium , e quindi, al
pari di ogni altro negozio qui ritario, rivestà la forma dell'atto per aes et
libram . Il motivo poi, per cui esso ri vestì la forma di una mancipatio non
sta in ciò, che esso siasi veramente riguar dato come una vendita immediata, ma
bensì nella circostanza, che esso imponeva all'erede una quantità di
obbligazioni, e fra le altre anche quella di provvedere alla continuazione dei
sacra e al pagamento dei legati. A questo motivo si aggiunge una causa storica
, ed è che il testamento per aes et libram era un rimaneggia mento della primitiva
mancipatio familiae cum fiducia, la quale, essendo un atto di carattere
puramente fiduciario , figurava come un vero atto fra vivi. 512 397. Una volta
poi che questo testamento entrò a far parte del diritto quiritario , esso ebbe
a ricevere uno svolgimento storico e Ingico ad un tempo, non dissimile da
quello delle altre istituzioni quiritarie , senza che mai si perdessero i
caratteri essenziali, con cui era penetrato nel diritto civile di Roma. Così,
ad esempio , il testamento era stato accolto nel diritto quiri tario sotto
l'apparenza di un negozio, che seguiva fra il testatore, qual familiae
venditor, e l'erede, quale familiae emptor: or bene ancora all'epoca di
Giustiniano esso conserva questo carattere, come lo provano l'unità di contesto
, che è richiesta nel testamento , e la disposizione per cui quelli, che
dipendono dall'erede, non possono servire di testimoni nel medesimo ( 1). Cosi
pure il testamento, nel suo concetto primitivo , aveva per iscopo di perpetuare
nell'erede la personalità del testatore, donde la conseguenza, che
l'istituzione dell'erede venne ad essere considerata quale « caput et fundamen
tum testamenti» ; il qual concetto continua pure a mantenersi fino alla più
tarda giurisprudenza . Parimenti il testamento, nel suo primo presentarsi, era
stato un negozio di carattere nuncupativo, uno di quei negozi cioè, in cui la
parola del testatore costituiva legge , e noi troviamo, che in tutto il suo
svolgimento posteriore esso continua ad essere uno degli atti solenni, in cui
giunge fino agli ultimi confini l'osservanza di un linguaggio esatto e preciso
; come lo provano le espressioni solenni e precise, con cui doveva farsi
l'istituzione di erede, la diseredazione, l'istituzione di erede cum cretione,
e simili. Sopratutto poi questo carattere nuncupativo del testamento si fece
palese nel tema dei legati, in quanto che nel diritto civile di Roma le varie
specie di legato vennero ad essere determinate dalle diverse espressioni,
adoperate dal testatore (2 ). Infine anche quel principio , secondo cui la
volontà del testatore costituiva legge, continud a mantenersi anche più tardi;
dapprima infatti si cercò con mezzi in diretti, quali sarebbero l'obbligo della
diseredazione e la querela di (1) Questo carattere del primitivo testamento per
aes et libram , per cui esso si presenta come un negozio fra il familiae emptor
ed il familiae venditor, è chiara . mente attestato da Gaio , Comm ., II, 105 a
107 e da Ulp., Fragm ., XX, 3 a 6 . Questo carattere poi non si perdette mai
completamente, ed è ancora ricordato da GIUSTINIANO , Instit., II, 10, $ 10.
(2) È nota la distinzione fra i legati per vindicationem , per damnationem ,
sinendi modo, e per praeceptionem : in essi la volontà del testatore appare
come una vera legge, e viene ad essere analizzata e studiata come la parola
stessa del legislatore. V. Gaio, II, 192 e 222; Ulp., Fragm ., XXIV. 513
inofficioso testamento, di impedire che il testatore potesse abusare della
libertà , a lui consentita dal primitivo diritto , e fu solo con Giustiniano
che si introdusse una limitazione diretta all'arbitrio del testatore,
attribuendo a certe persone il diritto ad una porzione legittima (1). 398.
Intanto, anche nella materia testamentaria , è facile scorgere come accanto al
diritto già formato siavi sempre una parte , che continua ad essere in via di
formazione. Quindi anche qui, accanto al testamento civile, si esplica un te
stamento pretorio ; ma anche questo appare modellato a somiglianza del primo.
Per verità nel testamento pretorio più non comparisce l'atto per aes et libram
, ma debbono però intervenire due nuovi testimoni, i quali si ritengono
corrispondere al libripens ed al fa miliae emptor: donde la necessità di sette
testimoni, che dånno au tenticità al testamento, apponendovi col testatore il
proprio sigillo . Allorchè poi il testamento pretorio è riuscito anch'esso ad
avere una efficacia giuridica, sopravvengono anche in questa parte le co
stituzioni imperiali, le quali tendono a fondere insieme le due forme di
testamento, finchè si giunge al testamento giustinianeo, il quale è ancor esso
un coordinamento delle forme anteriori. Esso infatti , secondo l'attestazione
di Giustiniano, viene ad essere costituito da un triplice elemento, cioè:
dall'unità di contesto e dalla presenza dei testimoni, che proviene dal diritto
civile : dal numero di sette testimoni e dall'apposizione del loro sigillo ,
che è di origine pre toria : e infine dalla sottoscrizione del testatore e dei
testimonii, che deriva dalle costituzioni imperiali. Ciò però non toglie , che
anche Giustiniano , per imitazione dell'antico , continui a ritenere il testa
mento come un negozio che interviene fra il testatore e l'erede, nel che
abbiamo una prova della logica tenace, che è propria della giu risprudenza
romana, e del metodo da essa costantemente seguito di venire coordinando nel
medesimo istituto gli elementi, che si ven nero successivamente formando (2 ).
(1) L'istituzione della legittima ebbe presso i Romani una lunga preparazione
prima nello stesso diritto civile , poi nel diritto onorario, la quale non
terminò che collo stesso Giustiniano. A mio avviso, il motivo degli espedienti,
a cui si appiglid il diritto , prima di venire alla fissazione di una
legittima, deve appunto essere riposto in cid, che non volevasi porre una
limitazione diretta alla volontà del testatore. Quanto alla storia della
legittima, è a consultarsi il Boissonade, De la réserve héréditaire. Chap. IV,
Paris , 1888, pag. 61–160. (2 ) Justin ., Instit., II, 10, $ S 3 e 10 . G.
CARLE, Le origini del diritto di Roma . 33 - 514 399. A compimento di questa
materia non saranno inopportune le seguenti osservazioni intorno allo
svolgimento storico del testamento : 1 ° Il testamento in Roma è un atto , in
cui il quirite si presenta col suo doppio carattere di uomo di pace e di guerra
ad un tempo, come lo dimostra il dualismo fra il testamento civile ed il
testamento militare, il quale, dopo essere cominciato colla distinzione fra il
te stamento in calatis comitiis ed in procinctu , non solo si mantiene, ma si
viene accentuando sempre più fino all'epoca diGiustiniano ; 2 ° Nella storia
del testamento romano si presenta questo fatto singolare, che si vede
ricomparire più tardi sotto nome di fidecom messo, una forma di testamento
analoga a quel testamento fiduciario , che era stato il testamento primitivo in
uso presso la plebe. Cid significa, che, accanto al testamento quiritario ,
dovette mantenersi nelle consuetudini la primitiva forma di testamento , la
quale non riesci ad ottenere il proprio riconoscimento , che all'epoca di Au gusto.
Questi poi, accordando efficacia al fidecommesso, fini per ce dere alla forza
della pubblica opinione , e alla nécessità di ovviare agli abusi, a cui dava
luogo l'inefficacia giuridica di un testamento , in cui tutto dipendeva dalla
buona fede di colui, a cui erasi affi dato il testatore (1). Noi abbiamo così
una prova, che alcune delle istituzioni, che penetrarono più tardi nel diritto
quiritario, come proprie del diritto delle genti, già preesistevano nella
comunanza plebea, salvo che non erano riuscite a penetrare in quella rigida
selezione, mediante cui erasi formato il primitivo ius quiritium . Un altro
carattere di questo svolgimento storico consisterebbe in cid , che nel diritto
civile romano non riescirono mai a mescolarsi insieme la successione testamentaria
e la successione legittima ; ma questa singolarità potrà essere più facilmente
spiegata nel capitolo seguente, dopo aver discorso di quel ius connubii, di cui
era una conseguenza la successione legittima, stata accolta dal diritto civile
romano (2 ). (1) Che il fedecommesso sia sempre vissuto, se non nel diritto,
almeno nelle con suetudini del popolo romano, lo dimostra il fatto, che Augusto
si indusse a dargli efficacia giuridica per l'abuso , che taluni avevano fatto
della fiducia in essi riposta . Appena accolto poi il fedecommesso apparve così
popolare e trovò così favorevole ac coglienza, che si dovette ben presto
istituire un pretore apposito ( praetor fideicom missarius). V. Justin .,
Instit., II, 23 , ss 1 e 2. (2 ) Rimando l'indagine intorno alle cagioni
storiche della massima « nemo pro parte testatus pro parte intestatus decedere
potest , al seguente capitolo V , $ 5 ; perchè la questione non potrebbe essere
risolta senza aver prima cercato i rapporti, in cui stavano presso i romani la
successione testamentaria e la legittima. 515 CAPITOLO V. Il ius connubii nel
primitivo ius quiritium e l'ordinamento giuridico della famiglia romana . $ 1.
- Sguardo generale all'argomento . 400. Più volte fu osservato dagli autori,
che la famiglia romana nella realtà dei fatti si presenta con caratteri molto
diversi da quelli, che si potrebbero argomentare dall'ordinamento giuridico di
essa . Mentre, sotto il punto di vista giuridico, la famiglia costituisce come
un'aggregazione, retta dispoticamente dal proprio capo, nel quale si vengono ad
unificare le persone e le cose, che entrano a costituirla ; nella realtà invece
essa då origine ad una comunione di tutte le utilità domestiche, in cui trovano
campo a svolgersi la pietà , l'os sequio e la reciproca confidenza. Mentre,
giuridicamente parlando, havvi un unico padrone nella casa : « pater familias
in domu do minium habet » ; nella realtà invece anche la moglie e i figli ap
pariscono comproprietarii del patrimonio paterno : « vivo quoque parente , quodammodo
condomini existimantur » . Mentre infine, in base al diritto, il padre ha
perfino il ius vitae ac necis sulle persone tutte, che da lui dipendono, nel
costume invece la famiglia è sopratutto governata dal sentimento profondo dei
doveri famigliari, dalla religione, dalla morale e dal civile costume (1 ). Di
fronte ad una opposizione di questa natura fra la famiglia quale appare nel
diritto , e quale si presenta nel fatto, non è certo (1) Ho già accennato a
questo contrasto , fra la configurazione giuridica della fa miglia e la realtà
dei fatti, al nº 94, pag. 119. Del resto gli autori sembrano essere concordi in
rilevare questa speciale caratteristica della famiglia romana. Basterà citare
fra gli altri il Savigny, Sistema del diritto romano attuale, I, &$ 54 e 55
; il JHERING , L'esprit du droit romain , trad . Meulenaere, tomo II, SS 36 e
37 , e specialmente da pag. 190 a 214 ; il Gide , Étude sur la condition privée
de la femme, 2a ed., par Esmein, Paris 1885 , cap . IV e V ; il Voigt, XII
Tafeln , II, $ 92, pag. 241 a 256 ; il MUIRHEAD, Histor, introd ., pag. 24 a 34
; il Brixi, Matrimonio e di vorzio , Bologna, 1886 , parte 1“, passim , e
specialmente ai SS 21 e 22 , pag . 87 a 110. Tra le opere poi, che si occupano
della famiglia romana in genere, ricorderò lo SCHUPPER , La famiglia secondo il
diritto romano , vol. 1°, Padova 1876 ; e il CE NERI, Lezioni su temi del ius
familiae, Bologna, 1881. ; 516 il caso di ritenere, che i Romani ci abbiano
trasmesso nel proprio diritto una immagine non conforme alla realtà dei fatti ;
ma piut tosto deve credersi, che essi, anche in questa parte del proprio di
ritto, abbiano cercato di isolare l'elemento giuridico da tutti gli elementi
affini, con cui trovavasi intrecciato, e siano cosi riusciti ad una costruzione
giuridica , che fini per attribuire alla famiglia romana una rigidezza ben
maggiore di quella , che esisteva real mente nel costume. Quindi il vero
problema, che presentasi al ri guardo, sta nel ricostruire il processo storico
e logico ad un tempo, che può aver condotto i romani ad accogliere un
ordinamento giu ridico della famiglia, il quale, a giudizio degli stessi
giureconsulti, si differenziava grandemente da quello di tutti gli altri
popoli. 401. A questo proposito vuolsi anzitutto premettere, che l'ordi namento
famigliare dovette certamente essere la parte del diritto primitivo , in cui
trovavansi a maggior distanza le istituzioni già elaborate , proprie delle
genti patrizie , e le istituzioni appena ab bozzate , proprie della plebe. Ciò
è provato da quel divieto dei connubii fra il patriziato e la plebe, che si
protrasse fin dopo la legislazione decemvirale ; dalle lotte accanite, a cui
diede origine l'abolizione di questo divieto per opera della legge Canuleia ;
ed anche dal disprezzo ostentato dai patrizii per le unioni della plebe, come
pure dal culto di una pudicizia propria delle matrone patrizie, a cui si
contrappose più tardi una pudicizia plebea. Così stando le cose , era anche
naturale, che in questa parte le istituzioni dei due ordini dovessero riuscire
più difficilmente a fondersi e a mescolarsi fra di loro. Da una parte eravi la
famiglia patriarcale delle genti patrizie, la quale , unificata sotto la patria
potestà del padre, e stretta insieme dal vincolo dell'agnazione, era sopratutto
intesa a perpetuare la stirpe ed il suo culto, costituiva una vera corporazione
religiosa , e conduceva alla comunione delle cose divine ed umane ; mentre
dall'altra eravi la famiglia della plebe, la quale, costituita dall'unione
consensuale di un uomo e di una donna , fatta palese dalla loro coabitazione,
unita dai vincoli della affinità e della cognazione, aveva piuttosto per iscopo
la procreazione della prole, e di soppor tare insieme i pesi del matrimonio (1)
. (1) Quanto all'organizzazione domestica delle genti patrizie, vedi libro I,
cap. 3', § 2º , pag. 28 a 34 ; quanto a quella della plebe, lo stesso lib . I,
cap . 9 , pagina 188 e segg. - 517 Dei due ordinamenti però, il più forte , il
più elaborato , il più coerente in tutte le sue parti , era certamente quello
delle genti patrizie ; quindi non è meraviglia, se essé in questa parte siansi
ri fiutate a qualsiasi transazione ed accordo, e siano così riuscite a dare
un'assoluta prevalenza alle proprie istituzioni domestiche. La plebe quindi,
quanto all'ordinamento della famiglia, dovette cercare in qualche modo di
imitare l'organizzazione delle famiglie patrizie; il che dovette riuscire più
agevole, allorchè la plebe primitiva venne ad essere accresciuta da un largo
contingente di famiglie di origine latina, la cui organizzazione doveva già
essere analoga a quella propria delle genti patrizie . 402. Ne consegui
pertanto , che l'ordinamento domestico , adottato dalla comunanza quiritaria ,
fu quello della famiglia patriarcale propria delle genti patrizie , e che anche
in questa parte i veteres iuris conditores seguirono quel medesimo processo, a
cui si erano attenuti nelle altre parti del diritto quiritario. Essi cioè
trapianta rono nella città quell'organizzazione domestica , che già preesisteva
nel periodo gentilizio ; la isolarono cosi da quell'ambiente patriar cale , in
cui erasi formata , il quale serviva a temperarne la rigi dezza ; la
riguardarono come organizzazione tipica della famiglia quiritaria e presero a
svolgerla logicamente in tutte le sue parti. Siccome pertanto i concetti
informatori della famiglia , nel periodo gentilizio, si riducevano
essenzialmente all'unificazione potente della famiglia nella persona del
proprio capo, ed alla tendenza della me desima a perpetuarsi e a conservare il
proprio patrimonio ; cosi questi concetti vennero in certo modo a costituire il
capo saldo, da cui prese le mosse l'elaborazione del diritto quiritario, e
spinti a tutte le conseguenze , di cui potevano essere capaci, condussero logi
camente a quell'ordinamento della famiglia , che ci fu trasmesso dal diritto
civile romano. Fu in questa guisa , che ogni famiglia , nel diritto primitivo
di Roma, fini per costituire un gruppo di persone e di cose, ordinato sotto il
potere del proprio capo , e disgiunto per modo da ogni altro gruppo, che una
persona, uscendo da una famiglia , per entrare in un'altra , cessava di avere
qualsiasi rapporto giuridico colla prima. Così pure la forma tipica del
matrimonio quiritario dovette essere dapprima il solo matrimonio cum manu ;
perchè solo la conventio in manu, collocando la moglie in posizione di figlia ,
poteva con durre alla unificazione della famiglia nella persona del proprio
capo. 518 Accolta poi questa unificazione giuridica della famiglia nella per
sona del padre, ne derivava eziandio che il vincolo , il quale univa imembri
della famiglia , non poteva più essere quello della cogna zione,ma doveva
essere quello dell'agnazione; il quale aveva appunto la sua radice nel potere
spettante al capo di famiglia, ed era cosi una conseguenza diretta della
preponderanza dell'elemento paterno nell'organizzazione della famiglia . Se poi
tutti i membri, che costi tuiscono il gruppo, sotto il punto di vista giuridico
, appariscono unificati nel proprio capo , viene pure a conseguirne logicamente
, che tutto quello , che essi facciano od acquistino, debba in diritto
ritenersi fatto od acquistato per il medesimo. Cid infine ci spiega eziandio,
come, nel diritto primitivo romano, mentre i figli possono rappresentare il
padre, ed i servi il padrone, questa specie di rap presentazione non sia invece
ammessa, quando trattasi di persone , che appartengano ad un gruppo diverso .
Così pure sarà una con seguenza logica di questo ordinamento giuridico della
famiglia, che la persona, la quale, per adozione o per matrimonio , venga ad
uscire da un gruppo per entrare in un altro , sotto il punto di vista giuri
dico , cessi di esistere per la famiglia, da cui esce, e pigli nella fa miglia
, in cui entra , quel posto , che le sarebbe spettato , quando fosse nata nel
medesimo (1 ). 403. È poi degno di nota, che quest'organizzazione giuridica
della famiglia quiritaria , la cui elaborazione già erasi cominciata nella
città esclusivamente patrizia , ebbe occasione di svolgersi, anche più
rigidamente , mediante l'istituzione del censo serviano. Con questo infatti la
famiglia venne ad essere staccata affatto da quel l'ambiente patriarcale, che
in parte aveva ancora potuto mantenersi nel periodo della città patrizia, in
quanto che ogni cittadino venne ad essere censito, come capo di famiglia, e
dovette come tale denun ziare le persone e le cose, che da lui dipendevano, e
ne costituivano in certo modo il mancipium . Fu quindi sopratutto sotto
l'influenza del censo serviano , che i diritti del padre sulla moglie, sui
figli , sui servi vennero in certo modo ad essere modellati sul concetto rozzo,
ma preciso del mio e del tuo, il quale aveva anche il vantaggio di essere, più
di qualsiasi altro , suscettivo di una vera e propria ela (1) Il concetto di
quest'unità potente della famiglia è uno dei più radicati nella coscienza dei
primitivi romani. Si può averne una prova nei passi di antichi autori, citati
dal Voigt, Op. cit., II, $ 72, pag. 6 e segg ., a proposito della domus fami
liaque, considerata come un'unità organica di persone e di cose ad un tempo. --
-- 519 berazione giuridica. L'epoca serviana pertanto dovette essere il mo
mento storico , in cui la famiglia quiritaria cominciò ad essere mo dellata
esclusivamente sul concetto di proprietà , cosicchè le forme dei negozii, proprie
del commercium , poterono essere applicate eziandio per acquistare i diritti
derivanti dal connubium . Per tal modo la logica del diritto quiritario potè
essere applicata in tutto il suo rigore anche all'ordinamento giuridico della
famiglia , e venne così ad uscirne quella struttura giuridica della medesima,
in cui tutto sembra ridursi ad una questione di mio e di tuo (1 ). Quando poi
si promulgò la legislazione decemvirale, questa con tinud l'opera già iniziata
di estendere anche alla plebe l'ordina mento giuridico della famiglia
patriarcale . Essa infatti riconobbe la coabitazione, non interrotta per un
anno, come un mezzo, che poteva servire alla plebe per attribuire alle proprie
unioni il carattere qui ritario, e rese comune eziandio alla plebe quel sistema
di succes sione legittima, che era proprio dell'organizzazione gentilizia.
Infine allorchè la legge Canuleia tolse il divieto del connubio fra i due or
dini, tutto l'ordinamento giuridico della famiglia patriarcale venne ad essere
accolto nel ius proprium civium romanorum , salve al cune poche modificazioni,
che erano imposte dalle condizioni, in cui si trovavano le infime classi della
plebe (2). Fu da questo momento, che la famiglia quiritaria venne a costi tuire
una costruzione giuridica , organica e coerente in tutte le sue parti, i cui
caratteri non potrebbero essere compresi, quando si di menticasse , che la
medesima è un rudere dell'organizzazione genti lizia, trapiantato nella città ,
e svolto logicamente in tutte le con seguenze, di cui poteva essere capace. È
certo che un processo di questa natura doveva finire per at tribuire alla
famiglia quiritaria un carattere rigido e pressochè inumano, perchè escludeva
dall'ordinamento giuridico di essa ogni traccia di sentimento e di affetto ; ma
il medesimo ebbe anche il (1) Come il censo serviano abbia contribuito ad
isolare la famiglia dall'ambiente gentilizio, e a far considerare ciascuna
famiglia , come un gruppo separato e distinto da tutte le altre , fu dimostrato
nel libro III , cap. 3 °, e in questo stesso libro, cap. 1 ° e 2°, § 1º. (2)
Così, ad esempio, la legge decemvirale, pur cercando di estendere anche alla
plebe il matrimonio cum manu , fu tuttavia nella necessità di aprire l'adito
fin d'allora al matrimonio sine manu , accordando alla donna di sottrarsi al
vincolo della manus, mediante l'usurpatio trinoctii, ossia l'interruzione della
coabitazione per tre notti di seguito . 520 vantaggio di isolare ciò , che
havvi di giuridico nella famiglia , da ogni elemento estraneo , e di sottoporre
così all'elaborazione giari dica una istituzione, in cui le considerazioni
religiose e morali avrebbero ad ogni istante impedito l'applicazionedella
logica propria del diritto (iuris ratio ). Si aggiunga, che questa apparenza ,
pressochè inumana, non produsse in realtà alcun inconveniente , poichè essa
punto non impedi, che il costume temperasse il rigore della costru zione
giuridica ; che il iudicium de moribus, dalle XII Tavole affi dato al pretore,
impedisse al padre la dilapidazione del patrimonio famigliare ; che il censore,
vindice della morale, punisse in effetto il padre, che abusasse de' proprii
poteri; e che infine il diritto stesso intervenisse a moderare i poteri
spettanti al capo di famiglia, al lorchè, per il corrompersi dei costumi,
cominciò a sentirsi il pericolo, che egli potesse abusare dei medesimi. 404.
Intanto una importante conseguenza di questo svolgimento storico fu anche
questa , che, siccome nell'organizzazione gentilizia tutto l'ordinamento
famigliare metteva capo al concetto del con nubium , cosi anche tutto
l'ordinamento giuridico della famiglia qui ritaria sembra essere derivato da
quest'unico concetto . Quel connubium infatti , che nei rapporti fra le varie
genti aveva significato quella facoltà di imparentarsi , che di regola era
circo scritta ai membri delle genti, che appartenevano allo stesso nomen ,
trasportato nel diritto quiritario , venne a trasformarsi nel ius con nubii ex
iure quiritium , ossia nel diritto di addivenire alle iustae nuptiae,
riconosciute dai quiriti, e di dare così origine ad una fa miglia , organizzata
ex iure quiritium , con tutte le conseguenze, che potevano derivarne (1).
Quindi è, che anche la famiglia ex iure (1) Io parlo ancora qui di una famiglia
ex iure quiritium : ma, a scanso di equi voci, devo far notare, che siccome
l'organizzazione della famiglia romana non venne ad essere comune ai due ordini
del patriziato e della plebe, che dopo la legislazione decemvirale e la legge
Canaleia, così l'espressione, solitamente adoperata da Gaio e da Ulpiano relativamente
al ius familiae, non è più quella di ius quiritium ,ma bensì quella di ius
proprium civium romanorum ; poichè in quell'epoca il concetto del quirite già
si era allargato in quello del civis romanus, e per conseguenza il ius
quiritium si era in certo modo travasato nel ius proprium civium romanorum . Di
qui consegue che mentre, per quello che si riferisce al ius commercü , i
giurecon sulti parlano, ancora sempre del ius quiritium (Gaio , II , 40),
trattandosi invece della manus (Id ., I, 108 ) e della patria potestas (ID., I,
55 ), parlano invece di un ius proprium civium romanorum . 521 – quiritium , al
pari del dominium ex iure quiritium , venne a costituire una famiglia
privilegiata, che può giustamente chiamarsi propria civium romanorum , in quanto
essa ha certi caratteri, che la contraddistinguono da ogni altra : quali sono
la manus delmarito sulla moglie, la patria potestas del padre sui figli,
l'agnazione, che stringe i varii membri di essa e che viene a costituire il
fonda mento della tutela e della successione legittima. Del resto il concetto ,
che tutti i diritti di famiglia discendono in sostanza dal connubium , ha
eziandio un fondamento nella realtà ; perchè è col connubio che viene a
costituirsi una nuova famiglia , la quale poi si esplica nella figliuolanza :
il qual concetto, trovasi mi rabilmente espresso da Cicerone , allorchè scrive
: « prima societas in coniugio, proxima in liberis ; deinde una domus, communia
omnia » (1). Diqui derivò la conseguenza , che la famiglia quiritaria, pur
essendo il frutto di una lunga e lenta elaborazione giuridica , fini in
sostanza per modellarsi sulla realtà dei fatti, e per cogliere, per cosi
esprimerci , l'essenza giuridica di essi. Essa quindi costi tuisce un tutto
organico e coerente in tutte le sue parti, il cui svol. gimento può appunto
essere studiato, nei tre momenti essenziali, per cui passa l'organismo
famigliare, cioè : lº nella sua origine, ossia nella iustae nuptiae e negli
effetti giuridici che derivano da esse ; 2 ° nel suo svolgimento , ossia nei
rapporti fra il capo di fami glia e le persone che ne dipendono ; 3º e da
ultimo nel suo disciogliersi per la morte del proprio capo , scioglimento che
dà occasione alla successione ed alla tutela legittima, fondate sul vincolo
dell’agnazione. 405. Siccome poi in questa parte il diritto delle genti
patrizie riuscì a penetrare, pressochè intatto nel diritto civile romano, e ad
imporre a tutti i cittadini una organizzazione domestica , che era propria
soltanto di una minoranza , e che per giunta era una so pravvivenza di un
periodo anteriore di convivenza sociale ; cosi, in tema di diritto famigliare,
venne a farsi manifesto,meglio che altrove, il conflitto fra le istituzioni,
che riuscirono a penetrare nel diritto quiritario , e quelle invece, che
continuarono a vivere nel costume. Questo conflitto , che può scorgersi in ogni
parte del diritto fami gliare, è sopratutto evidente nella lotta fra il
matrimonio cum manu ( 1) Cic., De officiis, I, 17, 54. 522 e quello sine manu ;
in quella fra l'agnazione e la cognazione ; e in quella fra la successione e
tutela legittima e la successione e tutela testamentaria ; e più tardi anche
nella lotta fra l'hereditas e la bonorum possessio . Sono queste lotte , che
danno interesse allo svolgimento storico delle istituzioni famigliari, spiegano
le modifica zioni lente e graduate che si introdussero nelle medesime, e dimo
strano come anche in questa parte, alla parte del diritto già formato e
consolidato , se ne contrapponga costantemente un'altra , che tro vasi in via
di formazione, e che tenta di temperare il rigore delle primitive istituzioni
quiritarie . § 2. – Le iustae nuptiae e la storia primitiva del matrimonio
quiritario. 406. Anche nella parte, che si riferisce al matrimonio romano, gli
ultimi studii conducono al risultato , che il medesimo, al pari della proprietà
e del negozio giuridico , dovette incominciare da un concetto tipico , che è
quello del matrimonio cum manu . Non è già che in Roma primitiva non potessero
esistere altre forme più umili di matrimonio, sopratutto nelle costumanze della
plebe; ma il ius quiritium non si curò dapprima delle medesime, e non riconobbe
gli effetti quiritarii, che al matrimonio cum manu ( 1). Che anzi vi sono forti
indizii per supporre, che l'unica forma solenne, per contrarre il matrimonio
quiritario , stata riconosciuta finchè duro la città esclusivamente patrizia ,
fu quella accompagnata dalla cerimonia re ligiosa della confarreatio , la quale
importava fra i coniugi la comunione delle cose divine ed umane. Cid sarebbe in
parte (1) Questa è la conseguenza , a cui giunse fra gli altri l'Esmein, nel
suo scritto : La manus, la paternité et le divorce dans l'ancien droit romain ,
nei « Mélanges d'histoire du droit » , Paris 1886 , pag . 6. Una prova poi di
quest'antico diritto l'abbiamo in questo, che la moglie, in questo primo
periodo, chiamavasi materfami lias, e tale nell'antico diritto era soltanto la
moglie , quae in manu 'convenerat. Sono testuali in proposito le affermazioni
di CICERONE , Top . 3 , il quale scrive : « genus est enim wor ; eius duae
formae : una matrumfamilias, earum quae in manum convenerunt, altera earum ,
quae tantummodo uxores habentur » . La cosa poi è confermata da Gellio, XVIII,
6 , 9 , ove dice : « matremfamilias appellatam eam solam , quae in maritimanu
mancipioque erat » , e da Nonio MARCELLO nel passo riportato dal BRUNS, Fontes
, pag. 390. Sopratutto è degno di nota , che l'espres sione di materfamilias è
pur quella adoperata nella formola dell'adrogatio, conser vataci dallo stesso
Gellio , V , 19, 9. Cfr. in proposito KARLOWA, Formen den rö mischen Ehe und
manus, pag . 71, e il Brini, Op. cit., pag . 37. 523 comprovato dalla
circostanza , che le leggi regie, ogniqualvolta ac cennano al matrimonio , si
riferiscono in modo espresso al matri monio per confarreationem . Così, per
esempio , Dionisio attribuisce a Romolo di aver richiamato alla pudicizia le
donne romane, rico noscendo questa sola forma di matrimonio , e parla anche di
una legge attribuita a Numa, con cui sarebbesi stabilito , che il figlio, il
quale fosse addivenuto alle nozze confarreate col consenso del ge nitore, non
potesse più essere venduto dal medesimo ( 1). Tutto ciò significa, che le genti
patrizie , fondatrici della città , presero senz'altro le mosse da una forma di
matrimonio, che pree • sisteva nel periodo gentilizio , e che il loro
matrimonio continud nella città a celebrarsi con una certa solennità religiosa
e patriarcale ; come lo dimostrano l'intervento del pontefice e del flamine di
Giove, la cerimonia simbolica per cui i coniugi gustano insieme il pane di
farro , ed anche la presenza dei dieci testimonii, in cui si vollero ravvisare
i rappresentanti delle curie , in cui dividevasi la tribù, a cui appartenevano
gli sposi. Non pud poi esservi dubbio intorno al l'altissimo concetto, che
queste genti patrizie avevano del matrimonio, il quale, oltre all'essere
strettamente monogamo, importava l'unione perpetua de' coniugi, e la comunione
fra essi delle cose divine ed umane (divini et humani iuris comunicatio). Che
anzi, a questo proposito , sembra pure essere probabile , che questa forma
primitiva di matrimonio non potesse dapprima dar luogo al divortium , ma
soltanto al repudium , il quale doveva essere accompagnato dalla cerimonia
religiosa della diffarreatio, e poteva solo aver luogo nei casi, che erano
determinati dal costume e dalla legge (2). Cosi pure è a questo primitivo
concetto del matrimonio presso le genti pa trizie, che deve rannodarsi quel
disprezzo per la donna che passi a seconde nozze, di cui trovansi ancora le
traccie nel diritto poste riore di Roma (3 ). Ad ogni modo egli è certo, che
questa forma di matrimonio , in (1) Dion ., II, 25 e 27. V. sopra lib. II, nº
268 , pag . 329 e seg . ( 2) Cid sarebbe attestato da PLUTARCO, nella Vita di
Romolo, 22, in un passo, che è riportato dal Bruns, Fontes, pag. 6. Una prova
poi, che il matrimonio per confar reationem doveva durare tutta la vita, si
rinvien lle attestazioni di Gellio , X , 15 , 23, e di Festo , vº Flammeo,
dalle quali risulta , che alla moglie del flamine di Giove, le cui nuptiae
farreatae erano un ricordo del matrimonio primitivo, non era consentito il
divorzio . Cfr. Esmein , Op. cit., pag. 17. (3) È a consultarsi in proposito il
dotto lavoro del DELVECCHIO, Le seconde noeze del coniuge superstite , Firenze
1885 , pag. 12 a 15 . 524 cui apparisce quel carattere eminentemente religioso
, che è proprio delle genti patrizie, non poteva appartenere alla plebe. Per
questa il matrimonio dovette avere più un'esistenza di fatto, che una con.
sacrazione di diritto , e consistere in una unione fondata sul reci proco
consenso , fatta manifesta mediante la coabitazione dei coniugi, piuttosto che
con cerimonie di carattere giuridico e religioso ad un tempo . 407. Era
frammezzo a queste due istituzioni, di carattere compiu tamente diverso , di
cui una era forse importata dall'antico Oriente , mentre l'altra si ispirava
alle tendenze spontanee dell'umana natura , che dovette formarsi un diritto
comune alle due classi. Questo fu il problema, che dovette risolvere la legislazione
decemvirale , e la cui difficoltà era tanto più grande, in quanto è probabile,
che le classi più infime della plebe stentassero a comprendere un matri monio ,
come quello cum manu, che costituiva la moglie in condi zione di figlia del
proprio marito. Questo potere del marito, il quale , corretto dal patriarcale
costume, conduceva all'unificazione della fa miglia patrizia, poteva invece
cambiarsi in un dispotismo pericoloso , allorchè fosse esteso a classi sociali,
che non vi fossero preparate da una lunga educazione civile . È questa speciale
condizione di cose, che spiega i singolari tem peramenti, che a questo
proposito furono adottati dalla legislazione decemvirale. In questa infatti i
decemviri, mentre da una parte si studiano di fornire alla plebe un facile
mezzo per addivenire allo acquisto della manus, e di dar cosi carattere
giuridico al proprio matrimonio , collo stabilire che basti perciò la
coabitazione di un anno (usus), dall'altra si trovano nella necessità di aprire
l'adito ad un matrimonio sine manu , accordando alla donna il mezzo di
sottrarsi alla manus, coll'interrompere la coabitazione per tre notti di
seguito (trinoctium ) (1). 408. Colla legislazione decemvirale non sembra
essersi andato più oltre nella elaborazione di un diritto comune ai due ordini;
poiché (1) In base all'attestazione di Gaio, I, 111, l'usus, qual mezzo di
acquisto della manus, non fu che un'applicazione della teoria dell'usucapione:
la donna poi , che avesse voluto sottrarvisi , doveva ogni anno interrompere la
coabitazione per tre notti di seguito. Questa parte della legge sarebbe dal
Voigt, XII Tafeln , I, pag. 708, assegnata al n° 1', tav. IV , e ricostrutta
nei seguenti termini: « si qua nollet in manu mariti convenire , quotannis
trinoctio usum interficito » . - 525 sussisteva ancora il divieto dei connubii
fra il patriziato e la plebe . Quando invece il divieto fu tolto dalla legge
Canuleia , si dovette sentire la necessità di introdurre un modo essenzialmente
quiritario per l'acquisto della manus, che poteva essere comune al patriziato
ed alla plebe. Fu allora, che si ebbe ricorso a quell'atto per aes et libram ,
che era la forma solenne propria del negozio quiritario , e si diede cosi
origine alla coemptio , quale modo di acquistare la manus (1). Non potrei
quindi ammettere l'opinione, che considera la coemptio, come la forma
essenzialmente plebea del matrimonio cum manu , e neppur quella , che ravvisa
nella medesima una compra della moglie per parte del marito . La coemptio in
Roma non fu che un'applicazione dell'atto quiritario per eccellenza , che era
l'atto per aes et libram , e venne cosi ad essere un espediente giuridico per
esprimere l'acquisto di quel potere del marito sulla moglie, che nel ius
quiritium era indicato col vocabolo generico di manus (2 ). ( 1) La questione
della precedenza dei varii modi riconosciuti dal diritto romano per l'acquisto
della manus fu assai discussa in questi ultimi tempi. Secondo il Mac LENNAN,
Primitive marriage, 2me édit., 1876, pag. 71,avrebbe preceduto l'usus, poscia
sarebbesi introdotta la coemptio, e da ultimo sarebbe venuta la confarreatio .
Anche secondo il BERNHÖFT , Staat und Recht der römischen Konigszeit , 1882,
pag. 187, l'usus sarebbe più antico della coemptio : mentre invece
quest'ultima, secondo il Karlowa , Formen der römischen Ehe und manus, pag. 59,
avrebbe avuta la precedenza sull'usus. Per risolvere la questione conviene bene
intenderci. O si vuol fare la storia dei modi di contrarre il matrimonio presso
le primitive genti italiche, e in allora non ripugna, che anche presso le
medesime la moglie sia stata prima rapita e poscia comprata ; o si vuol invece
determinare l'ordine, in cui queste varie forme penetrarono nel diritto romano,
e in allora, pur ammettendo, che i vocaboli del primitivo diritto romano
possano ancora richiamare uno stato ante riore di cose, si può però affermare
con certezza, che le varie forme di matrimonio, adottate dal diritto romano,
sono già il frutto di una vera e propria elaborazione giuridica. Quanto
all'ordine cronologico , con cui queste varie forme furono accolte, esso non
potè essere che il seguente , cioè dapprima fa accolta nel ius proprium civium
romanorum la confarreatio dei patres o patricii ; poscia fu riconosciuto l'usus
di un anno per dar carattere giuridico alle unioni della plebe ; da ultimo,
quando si comunicarono i connubii, comparve anche la coemptio, la quale fu
comune ai due ordini, e come tale finì per avere la prevalenza su tutti gli
altri modi di acquistare la manus. Cfr. ESMEIN , Op. cit ., pag. 8 e 9 . (2)
Non posso quindi accogliere l'opinione sostenuta da molti autori , che la
coemptio fosse di origine plebea , e che essa implicasse la compra della moglie
per parte del marito . Cfr. SCHUPFER, La famiglia nel diritto romano, I, pag.
94 ; Voigt, XII, Tafeln , II , $ 159; BRINI, Matrimonio e divorzio , pag . 50 e
segg . La coemptio non fu invece, che una nuova applicazione dell'atto per aes
et libram , e perciò deve ritenersi come una creazione del diritto quiritario,
nell'intento di attri 526 Essa quindi, al pari di ogni atto quiritario,
componevasi di due parti, cioè : lº dell'atto per aes et libram , compiuto
colle solite formalità ed inteso ad esprimere l'acquisto della manus per parte
del marito ; 20 e della nuncupatio solenne , le cui parole non ci sono perve
nute , ma la cui sostanza , secondo Servio e Boezio , consisteva in una
reciproca interrogazione, con cui lo sposo interrogava la sposa se volesse
assumere a suo riguardo la qualità di madre di famiglia , e questa interrogava
lo sposo se volesse assumere quella di padre di famiglia. Ciò intanto ci
spiega, come la coemptio , sotto un aspetto, abbia potuto essere descritta da
Gaio come una compra fittizia della moglie per parte del marito , e sotto un
altro invece colla sua stessa denominazione sembri indicare il reciproco
consenso degli sposi nel riconoscersi rispettivamente la qualità di padre e di
madre di famiglia (invicem se coemebant) ( 1). È poi probabile, che, come il
vocabolo di coemptio è certamente modellato su quello di confarreatio , cosi anche
le parole solenni, che accompagnavano la coemptio , fossero una imitazione di
quelle, che erano adoperate nella confarreatio, esclusi però i riti religiosi,
che accompagnavano quest'ultima. 409. Questo svolgimento storico deimodi,
riconosciuti dal diritto quiritario, per contrarre il matrimonio cum manu,
lascia abbastanza buire la manus al marito , e di attribuire carattere
giuridico al matrimonio romano. In esso quindi è già scomparsa qualsiasi idea
di vendita della figlia , sebbene non sia improbabile, che il vocabolo possa
ancora ricordare un' epoca anteriore, in cui la moglie fosse effettivamente
comprata. Cfr. MUIRHEAD, Op. cit., pag. 65 , e sopratutto l'appendice sulla
coemptio in fine al volume, nota B , pag. 441. (1) Che l'essenza della coemptio
fosse per dir così simboleggiata in un reciproco acquisto, che facevano i due
sposi, non è solo comprovato dal vocabolo, ma è atte stato da Servio , in Aen
., IV , 103 (Bruns, pag.402), allorchè dice : « Mulier atque vir inter se quasi
coemptionem faciunt; da Nonio MARCELLO, vº nubentes (Bruns, pag. 370); da
Isidoro, Orig., $ 24 , 26 (Bruns, pag. 407); e sopratutto da Boazio nei
commenti alla Top. di Cic., dove, appoggiandosi all'autorità di Ulpiano, dice
che il marito e la moglie « sese in coemendo invicem interrogabant » (BRUNS,
pag. 399). Solo farebbe eccezione Gaio, I, 113, il quale dice, che nell'atto
per aes et libram « is emit mulierem , cuius in manum convenit » ; ma la cosa
si comprende, quando si tenga conto che la coemptio componevasi di due parti ,
e quindi se nel l'atto per aes et libram doveva certo figurare come compratore
il marito, che acqui stava la manus, nulla impedisce, che nella nuncupatio gli
sposi apparissero uguali, e reciprocamente si interrogassero se volessero
assumere rispettivamente fra di loro la qualità di pater e di materfamilias, V.
in senso contrario BRINI, Op. cit ., pag. 51 e segg. 527 scorgere il contributo
diverso , che vi arrecarono il patriziato e la plebe. Non vi ha dubbio
anzitutto, che la confarreatio dovette essere di origine patrizia , come lo
dimostrano il suo carattere eminente mente religioso , e l'origine di essa ,
che rimonta ad un'epoca ante riore all'ammessione della plebe alla cittadinanza
romana. Che anzi, egli è probabile, che, anche dopo, la confarreatio abbia
continuato ad essere usata di preferenza dalle genti originariamente patrizie,
come lo dimostra il fatto , che essa continud a sussistere anche sotto gli
imperatori, sopratutto per considerazioni di carattere religioso . Noi sappiamo
infatti, che i figli nati da tale matrimonio conserva rono più tardi certi
privilegii religiosi, che convengono assai bene ai discendenti dell'antico
patriziato. Essi soli infatti erano ammessi a certi sacerdozii; soli potevano
figurare in certe cerimonie reli giose, ed erano anche indicati coi nomi
speciali di patrimi e di matrimi. Così pure il matrimonio per confarreationem
era il solo, a cui potessero addivenire i flamini di Giove , di Marte e di Qui
rino , i quali negli inizii dovevano appartenere all'ordine patrizio ( 1). Per
contro può affermarsi con una certa probabilità , che l'usus, ossia la
coabitazione non interrotta per un anno, qual mezzo per fare acquistare la
manus, non potè essere che un mezzo per tras formare i matrimonii di fatto,
proprii della plebe , in matrimonii di diritto, che come tali erano produttivi
della manus. Ciò spiega come l'usus , quanto aimatrimonii, abbia potuto
produrre lo stesso effetto dell'usucapio , quanto all'acquisto della proprietà
ex iure quiritium , e come i decemviri abbiano applicato la stessa regola in
argomenti, che pur erano cosi compiutamente diversi (2 ). Da ultimo la coemptio
vuol essere considerata come il modo di contrarre il matrimonio cum manu ,
essenzialmente proprio dei quiriti, e come tale dovette essere introdotto ,
quando già erano permessi i connubii fra patrizii e plebei, cosicchè essa , fin
dalle sue origini, dovette essere comune agli uni ed agli altri. Noi troviamo
(1) Gaio, I, 112. Nel passo già citato di Boezio, in cui egli parla delle varie
forme di matrimonio, fondandosi sull'autorità di Ulpiano (Bruns, pag. 399), si
dice espressamente che « confarreatio solis pontificibus conveniebat » . Cfr.
Esmein, Op. cit., pag . 7, nota 1. (2) La ragione fu questa, che tanto
l'usucapio, applicata alle cose, quanto l'usus, qual mezzo per acquistare la
manus, si proposero il medesimo'intento, quello cioè di cambiare una posizione
di fatto in una posizione di diritto. 528 infatti, che la coemptio viene ad
essere la forma dimatrimonio , che incontra maggior favore presso le varie
classi dei cittadini; cosicchè, nei rapporti di famiglia , essa sembra compiere
quella funzione stessa, che compie la mancipatio nel trasferimento della
proprietà quiritaria . Quindi al modo stesso , che accanto alla mancipatio
effettiva abbiamo visto svolgersi la mancipatio cum fiducia , così accanto alla
coemptio effettiva, che sottoponeva la moglie alla manus del marito, vediamo
pure svolgersi quel singolare istituto della coemptio fiduciaria, la quale
serve come espediente per sottrarre la donna alla tutela degli agnati, e per
metterla in condizione di poter fare testamento (1). Intanto perd la coemptio
dovette avere per effetto di attribuire un carattere essenzialmente civile
almatrimonio, che nella confar reatio aveva un carattere eminentemente religioso.
Quindi viene ad essere probabile , che colla introduzione di essa anche il
matrimonio cum manu abbia cominciato ad essere suscettivo del divorzio, il che
non sarebbe consentaneo col carattere religioso della confarreatio . Nella
coemptio infatti la manus viene ad essere l'effetto di un con tratto, e perciò
può essere risolta nel modo stesso , in cui ebbe ad essere acquistata, cioè
mediante la remancipatio (2 ). 410. Intanto il carattere e l'origine diversa
dei varii modi per contrarre il matrimonio cum manu , pud anche spiegare le
sorti ( 1) GAIO, I, 114 a 116 . (2) GAIO , I, 115 e 137. Se siammette che il
matrimonio primitivo per confarreatio nem non consentisse il divorzio, è un
grave problema quello di spiegare, come il mede simo abbia potuto essere
introdotto anche nel matrimonio cum manu , e persino essere esteso al
matrimonio per confarreationem , il quale doveva però ancor sempre essere
accompagnato dalla diffarreatio. V. Festus, pº diffarreatio ; Bruns, pag. 336.
Alcuni ritengono, che il divortium abbia cominciato a svolgersi nel matrimonio
sine manu , e poi da questo siasi anche esteso a quello cum manu ( Cfr. Esmein
, Op. cit., pag. 23 e segg.); ma non parmi probabile un'imitazione di questa
natura . Piuttosto il cambiamento venne a farsi, allorchè, accanto al
matrimonio religioso per confar reationem , venne a svolgersi il matrimonio
civile per coemptionem . Fa in quella occasione, che al rito religioso
sottentrò l'idea del contratto, la quale rese applica bile il divortium , anche
al matrimonio cum manu. L'applicabilità poi di questo divortium anche al
matrimonio cum manu, e precisamente a quello contratto per coemptionem , parmi
che non possa essere posta in dubbio di fronte al passo di Gaio, . I, 137, ove,
paragonando la moglie ad una figlia di famiglia , dopo aver detto che la figlia
non può costringere il padre ad emanciparla, aggiunge quanto alla moglie : «
haec autem (virum ), repudio misso, proinde compellere potest , atque si ei nun
quam nupta fuisset » . 529 diyerse , che ciascuno di essi ebbe nell'ulteriore
svolgimento del diritto civile romano . Noi sappiamo infatti, che l'usus, fra i
modi di acquistare la manus, fu il primo a scomparire , poichè secondo Gaio «
hoc ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est» (
1). Esso infatti era stato un espediente per dar carattere quiritario ai
matrimonii della plebe , che prima non l'avevano, e quindi si com prende che le
leggi e il costume tendessero ad abolirlo, allorchè, mediante la coemptio,
anche la plebe venne ad avere un mezzo di retto per acquistare la manus. La
confarreatio invece, colla introduzione della coemptio, venne ad essere più
circoscritta nel proprio uso, ma intanto fu quella, che ebbe a perdurare più
lungamente ; provenisse ciò dalla tenacità con servatrice, che era propria
delle genti patrizie, o da considerazioni di carattere religioso . Questo è
certo , che Gaio parla della confar reatio , come di cerimonia che era in uso
ancora ai suoi tempi; poichè i flamini maggiori e il rex sacrorum dovevano
esser nati da nozze confarreate, e non potevano contrarre altrimenti il proprio
matrimonio . Noi sappiamo tuttavia da Tacito , che il mantenere questa antica
tradizione ebbe talvolta a dar luogo a difficoltà, per trovare le persone, che
potessero essere elevate alla dignità di fla mini, il che sarebbe appunto
accaduto al tempo di Tiberio , e che le matrone ottennero in quell'occasione
dal senato , che il matri monio per confarreationem non dovesse più produrre
gli effetti di un tempo , sopratutto quanto ai diritti del marito sui beni
della moglie (2 ) Infine la coemptio diventò senz'alcun dubbio il modo più
frequente per contrarre il matrimonio cum manu , e non scomparve che cessare di
questa forma di matrimonio ; cessazione, che venne ope randosi verso il finire
dell'epoca repubblicana, più nel costume che per opera di legge , stante la
prevalenza sempre maggiore, che venne acquistando il matrimonio sine manu (3 )
. ( 1) Gaio , I, 111. (2 ) GAIO , I, 36 ; Tacito, Ann. IV , 6 . (3 ) La
laudatio Thuriae scritta dal marito, Q. Lucrezio Vespillone , console nel 735
di Roma, riportata dal BRUNS , pag. 303 e seg., dimostra che verso il finire
della Repubblica il matrimonio sine manu già cominciava a praticarsi anche
nelle grandi famiglie. Tuttavia il fare un elogio speciale di Turia per aver
fatto a meno della conventio in manu , a differenza della sua sorella, e per
avere, malgrado di ciò , lasciato il suo patrimonio all'amministrazione del
marito , dimostra che un fatto G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 34 530
411. Un autore recente, il Bernhöft, ebbe a considerare l'esten dersi e il
prevalere del matrimonio sine manu , come un segno di decadenza del primitivo
costume di Roma (1 ). A me parrebbe invece , che questa importantissima
trasformazione dell'ordinamento giuridico della famiglia romana , debba essere
considerata come una conse guenza necessaria dello svolgimento della vita
cittadina, che veniva a poco a poco cancellando le vestigia dell'anteriore
organizzazione patriarcale. È ovvio infatti lo scorgere, che la manus, mentre
era una istituzione confacente all'organizzazione gentilizia , perchè da una
parte serviva ad unificare la famiglia, e dall'altra era temperata dal
patriarcale costume, trapiantata invece nella città , ove le famiglie vivevano
isolate le une dalle altre, poteva essere sorgente di gravi pericoli,
sopratutto nelle infime classi della plebe , poichè lasciava la moglie priva di
qualsiasi difesa , contro il potere dispotico del proprio marito . Fu questo il
motivo, per cui i decemviri, i quali pur miravano, come si è veduto , ad
estendere a tutte le classi dei cittadini l'or . ganizzazione patriarcale della
famiglia patrizia , si trovarono tuttavia nella necessità di lasciar l'adito
aperto ad un matrimonio sine manu, dando alle donne il singolare diritto di
interrompere l'usus, collo assentarsi dalla casa maritale per tre notti di
seguito . Fu poi una conseguenza di questo provvedimento, che in ogni tempo in
Roma, accanto al vero matrimonio ex iure quiritium , venne ad esistere di fatto
un matrimonio sine manu, che non producera le conse guenze rigide del
matrimonio cum manu . Il diritto civile non si preoccupo dapprima di questa
forma più umile di matrimonio, e quindi esso si limitò a svolgersi come un
matrimonio di fatto , di fronte al vero matrimonio ex iure quiritium , che era
il matri monio cum manu. Giunse però un tempo, in cui lo svolgersi della vita
cittadina finì per rendere grave il vincolo della manus, anche per le donne,
che appartenevano alle classi sociali più elevate, e fu in allora che il
matrimonio sine manu cominciò ad entrare nella pratica comune, e dovette essere
preso in considerazione anche dal diritto proprio dei quiriti. Tutto ciò però
accadde lentamente e gra datamente, per modo che lo svolgimento del matrimonio
sinemanu , simile costituiva ancora a quei tempi una eccezione degna di nota
nelle famiglie di condizione elevata . Cfr. De-Rossi, L'elogio funebre di Turia
, negli « Studii e do cumenti di storia e diritto » . Roma, 1880 , pag. 17 .
(1) BERNHöft, Op. cit., pag. 179. Cfr. Voigt, XII Tafeln, II, pag. 703. -- - --
- 531 - di fronte a quello cum manu , presenta una singolare analogia collo
svolgersi della proprietà in bonis, di fronte alla proprietà ex iure quiritium
. Quindi al modo stesso, che la proprietà in bonis :i venne a poco a poco
modellando su quella ex iure quiritium , così anche il matrimonio sine manu
venne delineandosi lentamente sulmodello del matrimonio cum manu, per modo che
esso fini per assorbire ed assimilare in se medesimo il concetto etico , che
ispirava il primitivo matrimonio delle genti patrizie, che era il matrimonio
cum manu . Quindi è, che nel matrimonio sine manu scompariscono bensì le 80
lennità dirette all'acquisto della manus, ma si mantiene la neces sità della
deductio della sposa in domum mariti, quasi ad indicare che essa abbandona la
casa del padre per entrare in quella del marito, la quale continua sempre a
considerarsi come il domicilium matrimonii. Così pure anche nel matrimonio
sinemanu si trasfonde il concetto altissimo del matrimonio cum manu , come lo
dimostrano la maritalis affectio , e la perpetua vitae consuetudo , di cui
parlano i giureconsulti classici nella definizione del matrimonio, al lorchè
era già scomparsa la manus (1). 412. Cid pero non impedisce, che dalla sostituzione
delmatrimonio sine manu a quello cum manu, siano derivati degli importantissimi
effetti nell'ordinamento giuridico della famiglia romana, che possono essere
cosi riassunti : lº Accanto al concetto della materfamilias, che era in certo
modo assorbita nella personalità del capo di famiglia, viene a deli nearsi la
figura dell'uxor, la quale, senza essere uguale al marito (vir ), comincia però
già ad avere una propria personalità giuridica , distinta da quella del marito
; 2 ° La pratica del divorzio viene ad essere più facile , poichè, più non
essendovi l'acquisto della manus, più non si dovette richie (1) Credo che
questa analogia fra il processo seguito dai Romani nello svolgere il diritto di
famiglia e quello di proprietà non apparirà come puramente fantastica , quando
si tenga conto della correlazione evidente fra il concetto dei matrimonii cum
manu e sine manu coi concetti del mancipium e del nec mancipium , e più tardi
con quelli del dominium ex iure quiritium e di quello in bonis; fra la fun zione,
che compie la mancipatio, in tema di proprietà, e quella che compie la
coemptio, in tema dimatrimonio ; tra la mancipatio cum fiducia e la coemptio
fidu ciae causa ; e infine la correlazione anche più singolare fra l'usus
auctoritas, appli cato all'acquisto dei fondi, e l'usus, applicato all'acquisto
della manus sulla moglie . 532 - dere per il divorzio, nè la diffarreatio , nè
la remancipatio , ma poté bastare il reciproco consenso del marito e della
moglie ; 3° Sopratutto poi ebbe ad avverarsi un grave cambiamento nella
posizione economica della moglie di fronte al marito. Senza affermare infatti,
che l'istituto della dote sia veramente sorto col matrimonio sine manu , questo
è certo, che la dote, qual concorso della moglie a sostenere i pesi del matrimonio
, non potè svolgersi che col matrimonio sine manu ; poichè un simile concorso
non avrebbe potuto avverarsi di fronte a quell'unificazione potente , che
veniva ad essere l'effetto della manus. Cid intanto ci spiega, come la dote,
anche col matrimonio sine manu , abbia cominciato dal di ventare proprietà del
marito , e siansi richieste stipulazioni speciali, perchè esso o i suoi eredi
fossero tenuti a restituirla (1). Non potrei invece ammettere, che il
matrimonio sine manu debba considerarsi come una causa della decadenza della
corruzione del costume romano. Basta perciò osservare, che il matrimonio sine
manu, quale ebbe ad esser concepito dai romani, poteva condurre ad un ideale
più elevato dello stesso matrimonio cum manu . In questo infatti l'unità della
famiglia veniva ad essere imposta dalla legge, mentre nel matrimonio libero la
comunione delle cose divine ed umane veniva ad essere il frutto del libero
accordo e della con fidenza reciproca (2). Non fu quindi il matrimonio sine
manu, che O per (1 ) Sonovi autori, che vorrebbero rannodare l'origine
dell'istituto della dote al matrimonio sine manu , V. fra gli altri PADELLETTI,
Op. cit., pagg. 172-73, e il Cogliolo , Saggi di evoluzione, pag. 33. A questo
proposito conviene intenderci. O per dote si intende cid che la moglie o il
padre di lei consegna al marito in occa sione del matrimonio , e la dote in
questo senso dovette rimontare anche all'epoca del matrimonio cum manu , come
lo dimostra l'esistenza di un'antichissima dotis dictio e di un'actio dictae
dotis. Cfr. Voigt, XII Tafeln , II , pag . 486 . dote si intende invece
l'istituto già svolto, per modo che essa venga ad apparire come il concorso
della moglie a sostenere i pesi del matrimonio ed attribuisca alla moglie una
personalità distinta da quella del marito, e questa non potè svolgersi col ma
trimonio sine manu, perchè in quello cum manu lo svolgimento dell'istituto era
impedito dall'unificazione potente della famiglia e del suo patrimonio nella
persona del proprio capo. Intanto ciò spiega la necessità di apposite
stipulazioni, per la resti tuzione della dote, intorno alle quali è da vedersi
GELLIO, IV , 3 , il quale dice, che la opportunità di esse avrebbe cominciato a
sentirsi dopo il divorzio di Spurio Carvilio Ruga , seguito nel 523 dalla fondazione
di Roma. (2 ) Cfr. in proposito quanto scrive il Labbé nell'articolo intitolato
: Du mariage romain et de la manus, nella « Nouvelle Revue historique » , 1887,
pag. 1 a 20 specialmente pag. 17 e segg. 533 corruppe il costume, ma fu
piuttosto il costume che abbassò l'altis . simo concetto del matrimonio . $ 3.
— Il pater familias e i poteri al medesimo spettanti. 413. Fermo il concetto,
che in Roma primitiva la famiglia , sotto il punto di vista giuridico ,
costituisce un tutto organico, separato da ogni altro ed ordinato sotto il
potere del proprio capo, sarà facile il comprendere come la logica quiritaria
non scorgesse nella mede sima che un capo , il quale comanda, ed un complesso
di persone, le quali debbono obbedire. Da una parte havvi il pater familias,
che è l'unica personalità giuridica riconosciuta dal primitivo ius qui ritium :
dall'altra sonvi le persone, che dipendono da esso , cioè la moglie , i figli
ed i servi, che in antico dovettero tutte essere sot toposte alla medesima
manus, e furono perfino indicate col vocabolo generico e comprensivo di familia
od anche dimancipium . Il padre è quegli, che è padrone nella casa , che figura
nel censo colle persone e cose che da lui dipendono, che risponde di tutti i
suoi dipendenti di fronte alla comunanza quiritaria ; perciò i diritti, che a
lui spet tano sulle persone componenti la famiglia , sono modellati in tutto e
per tutto su quelli, che a lui appartengono sul patrimonio della medesima. Ciò
tuttavia non deve essere considerato come un indizio , che i romani
confondessero il potere sulle persone col potere sulle cose ; ma soltanto che
essi, nel modellare la costruzione giuridica della famiglia , si collocarono al
punto di vista del mio e del tuo, e una volta accolto il medesimo lo spinsero a
tutte le conseguenze, di cui poteva essere capace. Intanto se nella concezione
primitiva era unico il potere spettante al capo di famiglia sulla moglie, sui
figli e sui servi, viene pure ad essere probabile , che questo potere sia stato
indicato con un unico vocabolo , il quale con tutta verosimiglianza dovette
essere quello di manus, la quale designava in genere la potestà giuridica spet
tante al quirite (1). Fu poi nell'elaborazione ulteriore, che in questo (1)
L'autore, che ha recato incontestabilmente il maggior numero di prove per
dimostrare, che il vocabolo di manus indicò in genere la potestà giuridica,
spettante al capo di famiglia, è certamente il Voigt, Op. cit., II, SS 79 e 80.
Cid però non toglie che il vocabolo di manus, pur indicando in senso largo la
potestà spettante anche sulle cose, designasse in modo più specifico il potere
sulle persone , e fosse così pres sochè un sinonimo di potestas. 534 concetto
sintetico e comprensivo cominciò ad apparire una prima distinzione, per cui
mentre il vocabolo di manus, pur conservando in qualche caso la sua
significazione generica, fini per indicare più specialmente il potere del
marito sulla moglie , quello invece di po testas indico di preferenza il potere
del padre sui figli e sui servi, e venne cosi a distinguersi in patria ed in
dominica potestas. Quanto al vocabolo mancipium , esso non scomparve, ma fini
per restringersi ad indicare il complesso delle cose spettanti al capo di
famiglia , e qualche volta servi ad indicare il complesso dei servi. Infine , siccome
anche le persone libere potevano essere date a mancipio , ed essere poste così
transitoriamente in condizione di servitù ; cosi dovette pure aggiungersi la
categoria giuridica delle persone « quae in mancipii causa sunt » e che come
tali « servo rum loco habentur » ( 1). 414. Allorchè poi questi aspetti diversi
di un unico potere si furono differenziati gli uni dagli altri , ciascuno potè
obbedire al proprio concetto ispiratore, e ricevere cosi uno svolgimento
storico compiutamente diverso . Di questi poteri, quello , che per il primo
ebbe a sostenere un rude conflitto colle esigenze della vita cittadina, fu la
manus, ossia il potere del marito sulla moglie. Sopravvivenza
dell'organizzazione patriarcale, la manus appariva disadatta nella città , ove
non era più temperata dal patriarcale costume, e convertivasi in un potere
dispotico del marito sulla moglie. Se a ciò si aggiunga, che le donne, le quali
avevano da sottomettersi alla manus, dovevano prima consentirvi, e avevano per
giunta la protezione dei proprii genitori, sarà facile il comprendere come la
conventio in manu , dopo essere stata la regola , sia divenuta l'eccezione,
finchè fini per cadere com piutamente in disuso . Con ciò non deve già
intendersi, che il marito perdesse ogni autorità sulla propria moglie, ma solo
che la moglie non fu più assorbita nella personalità del capo di famiglia , ma
(1) Secondo Gaio, I , 52 e 55 , il vocabolo di potestas comprenderebbe tanto il
potere sui servi, quanto quello sui figli; quello di manus, invece il potere
del ma rito sulla moglie (I, 109). Quando esso viene poi a parlare delle
personae, quae in mancipio sunt, I, 116 e segg., comincia dal premettere, che
anche i figli e la moglie mancipari possunt nel modo stesso, in cui lo possono
i servi: il che dimostre rebbe, che il vocabolo di mancipium ,nella sua
significazione più larga, comprendeva eziandio tutte le persone soggette alla
potestà del padre. Quanto alle persone , quae in causa mancipii sunt, vedi lo
stesso Gaio, I, 138 e segg. 535 acquistò una certa indipendenza dal proprio
marito, sopratutto sotto l'aspetto economico (1) . 415. Così invece non accadde
della patria potestas . Questa non ha più bisogno di essere volontariamente
accettata , come la manus, ma deve invece essere necessariamente subita , e
sotto un certo aspetto può anche apparire come una conseguenza del fatto della
nascita . Mancò quindi il principale motivo, che contribuì alla abo lizione
della manus del marito sulla moglie : donde la conseguenza , che la patria
potestà potè più a lungo conservare nel diritto romano le sue fattezze
primitive, e fu quindi un'istituzione, in cui la logica quiritaria ebbe campo a
spiegarsi in tutto il suo rigore. Il padre dal punto di vista giuridico si
appropria tutti gli acquisti, che siano fatti dai figli; pud vendere ed anche
uccidere i proprii figli ; può rivendicarli, se gli siano sottratti ; può
dargli a mancipio , se abbiano recato un danno, che egli non voglia risarcire .
È però a notarsi, che anche in questa parte la costruzione giuridica non risponde
sempre alla realtà dei fatti; poichè in sostanza i figli si ritengono compro
prietarii del padre, nè mostrano di lagnarsi di un potere, a cui il costume
reca gli opportuni temperamenti, e che loro non impedisce di aspirare e di
giungere agli onori e alle magistrature della città (2). Anche qui fu il
corrompersi dei costumi, che fece sentire il peri colo di un potere illimitato
e senza confine, e fu allora, che il di ritto civile romano , pur serbando
integro il concetto della patria potestà , venne attribuendo forma e carattere
giuridico a quei tem peramenti della medesima, che prima esistevano soltanto
nel costume. Fu in questa guisa , che il diritto romano, senza derogare alla
supe riorità del padre, fini per riconoscere una certa personalità giuridica
anche al figlio, il quale venne così ad avere un proprio caput, e un proprio
status nel seno della famiglia , ed introdusse eziandio dei temperamenti, sia
quanto alla durata , che quanto agli effetti della patria potestà . 418. Noi
troviamo infatti, che, mentre la patria potestà continud a durare per tutta la
vita , venne formandosi l'istituto dell'emancipa zione, in cui si assiste ad
una singolare trasformazione, per cui il potere, che al padre appartiene, di
vendere il proprio figlio , viene a (1) V. in proposito il precedente $ nella
parte relativa al conflitto del matrimonio cum manu e di quello sine manu , nn.
411 e 412 , pag . 530 e segg . (2 ) Cfr. Voigt, Op. cit., II, SS 93 e 94 . 536
convertirsi in un espediente per liberarlo dalla patria potestà . Anche qui
abbiamo una applicazione dell'atto quiritario, ossia dell'atto per aes et
libram , salvo che, in base alla letterale interpretazione delle XII Tavole,
per l'emancipazione di un figlio si richiedono tre man cipazioni, mentre,
trattandosi di figlie o di nipoti, basta una semplice mancipatio (1). Ed è
notabile eziandio , che questa emancipazione, pur attribuendo al figlio una
libertà ed indipendenza , che prima non aveva, continua pur sempre ad essere
considerata come una capitis diminutio ; poichè sotto il punto di vista
giuridico, l'emancipato cessa di appartenere a quel gruppo famigliare, da cui
esce mediante l'emancipazione, e viene cosi a perdere quello status, che a lui
ap parteneva rimpetto alla medesima. Che anzi il rigore del diritto primitivo
si spinge fino al punto da escludere l'emancipato dalla successione per legge
alla morte del padre, e toccherà poi al diritto pretorio il cercare con mezzi
indiretti di ovviare a queste conse guenze, le quali, pur essendo conformi alla
logica giuridica, ripu gnano però ai naturali sentimenti ed affetti (2 ). Cosi
pure, mentre si mantiene sempre il concetto primitivo, che tutti gli acquisti
del figlio debbono sotto l'aspetto giuridico essere at tribuiti al padre , si
viene a poco a poco attribuendo carattere giu ridico all'istituzione dei
peculii. Non può infatti esservi dubbio , che i peculii già dovevano
preesistere nel costume, almeno sotto la forma di peculium profecticium , che
era quel piccolo patrimonio, di cui il ( 1) Gaio , I, 135. Si è molto disputato
circa la ragione probabile delle tre man cipazioni, che sono richieste per
l'emancipazione del figlio . Alcuni vogliono scorgere in ciò un indizio del più
forte vincolo , con cui il figlio intendevasi congiunto al proprio padre.
PADELLETTI, Op. cit., pag . 86. A parer mio, sembra invece molto più probabile,
che questa triplice mancipazione richiesta per i figli sia stata, come dice
Gaio, I, 132, una conseguenza della letterale interpretazione data alla legge
delle XII Tavole, secondo cui « si pater ter filium venum duit, filius a patre
liber esto » . Per tal modo una disposizione, che era evidentemente introdotta
per impedire al padre di abusare della persona del suo figlio,dandolo a
mancipio più di tre volte, si cambiò in un mezzo per emanciparlo. Negli altri
casi invece, a cui non estendevasi la lettera di questa disposizione, per
trattarsi o di una figlia o di un nipote, potè bastare una semplice
mancipazione per produrre ilmedesimo effetto. Le singolarità di questo genere
si possono facilmente spiegare, quando si tenga conto della lette rale
osservanza della legge, che era un carattere della primitiva iuris
interpretatio . Questa interpretazione del resto trova un appoggio in Dionisio
, II, 27. (2) Vedi quanto all'emancipatio, in quanto costituisce una capitis
diminutio, ciò che si disse al nº 338, pag . 424, nota 4. Aggiungerò tuttavia
agli autori colà ci tati il Voigt, Op. cit ., II, $ 73, presso il quale occorre
una raccolta completa dei passi relativi all'argomento, pag. 27 e 28 , note 12,
13 , 14 . 537 padre concedeva una separata amministrazione al figlio ;ma ciò
punto non impedi, che essi, solo assai tardi e gradatamente,abbiano ottenuto il
loro riconoscimento giuridico. Ed è notabile eziandio l'ordine e il processo,
con cui vennesi operando tale riconoscimento , poichè si comincið dall'
attribuire al figlio i guadagni, che egli avesse fatti servendo nella milizia
(peculium castrense ); poi si assomigliarono ai lucri, da lui fatti in guerra ,
quelli fatti nell'esercizio delle pro fessioni liberali ( peculium quasi
castrense); da ultimo si presero in considerazione tutti quegli acquisti, che a
lui fossero provenuti dagli ascendenti materni o in qualsiasi altra guisa (bona
adventicia ). Intanto, mentre si modellavano così le varie specie di peculii,
si introduceva ad un tempo una sapiente ed acconcia graduazione per determinare
a queste proposito i diritti , che appartenevano al padre ed al figlio (1 ).
Questi temperamenti tuttavia non tolgono, che la patria potestà continuasse
sempre ad essere il rudere meglio conservato dell'an tica organizzazione della
famiglia patriarcale, e quindi non è me raviglia se ad operá compiuta gli
stessi giureconsulti fossero colpiti dal carattere particolare della patria
potestà del cittadino romano, di fronte alle istituzioni degli altri popoli.
417. L'importanza di questa unificazione della famiglia sotto la patria potestà
del padre viene a farsi anche più evidente, quando trattasi di quelle
istituzioni, che hanno per iscopo di supplire in qualche modo al difetto di figliuolanza.
Esse sono l'adrogatio , con cui si viene a sottoporre alla patria potestà una
persona sui iuris, e la semplice adoptio , con cui un figlio ancora sottoposto
alla patria potestà di una persona, viene ad essere costituito sotto la patria
potestà di un altra. Le origini dell'una e dell'altra rimontano senza alcun
dubbio all'organizzazione della famiglia patriarcale, nella quale ( 1)
L'antichità del peculium è dimostrata dalla stessa etimologia della parola (a
pecudibus). Del resto è facile a comprendersi, che lo stesso accentramento
della famiglia nel proprio capo rendeva indispensabile la concessione di un
certo peculio, così ai figli che ai servi. Anche qui pertanto il ius civile non
creò già l'istituzione ; ma la raccolse dalle costumanze, e diede alla medesima
configurazione giuridica . Quanto all'ordine, con cui furono accolte le diverse
forme di peculia , cfr. MUIRHEAD , Op. cit., pagg. 344 e 347; il PADELLETTI ,
Storia del dir. rom ., ediz . Cogliolo, pag. 187, nota 4 ; il SERAFINI, Istituzioni
di diritto romano, $ 169. Sono poi degne di nota , quanto all'istituzione dei
peculii, le osservazioni del SumnER MAINE , L'ancien droit, pag. 134. 538 si
proponevano l'intento importantissimo di perpetuare la famiglia ed il suo culto
. Quella perd fra esse, che produceva più gravi ef fetti, al punto di vista
gentilizio, era certamente l'adrogatio , come quella che sopprimeva in certo
modo una famiglia ed il suo culto , per rendere possibile la perpetuazione di
un'altra (1). Essa quindi, nella comunanza gentilizia , dovette probabilmente
essere compiuta coll'approvazione dei capi di famiglia , o degli anziani del
villaggio ; donde la conseguenza , che quando fu poi trasportata nella città ,
essa fu uno di quegli atti solenni, che, al pari del testamento , dovevano es
sere compiuti in calatis comitiis , coll'intervento dei pontefici, i quali
dovevano vegliare al mantenimento dei culti pubblici e privati, e colle forme
di una vera e propria legge. L'adoptio invece, riferen dosi a persona, che era
ancora soggetta alla patria potestà , suppo neva da una parte la rinunzia del
padre al proprio potere, il che facevasi col mezzo della mancipatio ,
applicando al solito l'atto per aes et libram , e dall'altra la sottomissione
del figlio alla patria po testà dell'adottante, il che compievasi davanti al
magistrato , me diante quella finta rivendicazione ed aggiudicazione, che
costituiva l'in iure cessio . 418. Intanto qui viene ad essere evidente, che,
siccome trattavasi di istituzioni di origine esclusivamente patrizia , perchè
era sopratutto nella famiglia patrizia, che era viva ed efficace l'aspirazione
a per petuare se stessa ed il proprio culto, cosi lo svolgimento storico di
queste istituzioninon ritiene le traccie di un contributo diretto , che possa
avervi recato la plebe. Le forme infatti , che le accompagnano, o sono di
origine patrizia, come quella relativa all'adrogatio, o sono invece una
elaborazione giuridica del diritto quiritario, comequelle che circondano
l'adoptio, senza che trovinsi le traccie di un modo di adozione, che possa
essere di origine plebea. Ciò però non tolse, che anche l'arrogazione e
l'adozione abbiano finito per diventare una istituzione comune a tutti gli
ordini sociali ; ma intanto a misura che ciò accade, esse perdono sempre più il
loro carattere gentilizio , finchè finiscono per informarsi ad un con cetto
ispiratore compiutamente diverso. Esse infatti col tempo ces (1) Questo effetto
dell'adrogatio è efficacemente espresso da PAPIN., Leg . 11, § 2 , Dig .
(37-11): « dando se in arrogando testator cum capite fortunas quoque suas in
familiam et domum alienam transfert » . Quanto alle origini dell'adrogatio nel
pe riodo gentilizio, vedi lib. I, n° 25 , pag. 31. Le differenze poi fra
l'adrogatio e l'a doptio sono sopratutto poste in evidenza da Gellio , V , 19.
539 sano dall'essere un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto ; ma
si limitano allo scopo di procurare le gioie della figliuolanza a coloro che
siano privi della medesima, per guisa che in contrad dizione col diritto primitivo,
anche le donne poterono adottare ed essere adottate. Così pure queste
istituzioni, che negli inizii stacca vano affatto una persona dalla sua
famiglia, per trasportarla in un'altra, finirono per modificarsi in guisa da
contemperare i diritti della famiglia naturale con quelli della famiglia
adottiva (1). 419. Rimane ora a dire brevemente del potere del padre di fa
miglia sui servi. Anche qui non pud esservi dubbio, che la servitù rimonta al
periodo gentilizio , e che essa non dovette essere propria delle genti
italiche, ma comune a tutte le genti; come lo dimostra il fatto , che i Romani
non riguardarono mai la servitù come istitu zione loro propria , ma comeuna
istituzione del diritto delle genti (2 ). La medesima sotto un certo aspetto
era un compimento necessario della famiglia patriarcale: perchè senza di essa
questa non avrebbe potuto costituire un gruppo , che potesse bastare a se
stesso . È quindi naturale, che quando il capo di famiglia entrò a parte cipare
alla comunanza quiritaria , esso comparisse nella medesima non solo colla
moglie e colla figliuolanza , ma anche coi servi, i quali vennero ad essere
compresi nel suo mancipium , e costituirono così una parte integrante della
famiglia romana (3 ). Per tal modo i servi diventarono in Roma gli strumenti
intelligenti del cittadino romano, il quale potè valersi di essi per esercitare
qualsiasi ne gozio o commercio , senza derogare alla sua dignità , ed anche per
evitare ai proprii figli l'ignominia di una eredità passiva , chia mandoli
anche loro malgrado a succedergli, in qualità di heredes necessarii (4). Si
comprende quindi, che al punto di vista giuri dico i servi fossero considerati
come cose, anzichè come persone, e che il potere del padrone sopra di essi
apparisse illimitato e senza confine. Tuttavia , anche qui la famigliarità dei
rapporti fra il pa drone ed i servi, l'intimità di vita , che eravi talora tra
i figliuoli (1) Quanto all'ultimo stadio del diritto civile romano nello
svolgimento dell'ado zione, vedi Justin., Instit. II, XI. (2 ) Fra gli altri
Gaio, I , 52 , dichiara espressamente, che la potestas sui servi iuris gentium
est. (3 ) Come i servi costituissero una parte integrante della famiglia
risulta ad evi. denza dai passi raccolti dal Voigt, XII Tafeln , II, pag . 12 e
segg., e note relative. (4 ) GAIO, II, 152 ; ULP., Fragm . XXII, 11 e 24. 540 -
dell'uno e quelli degli altri, l'abnegazione frequente dei servi per il loro
padrone, e la necessità stessa, in cui fu la legge di porre dei limiti alla
facoltà di manomettere i proprii servi, sono circo stanze che dimostrano, come
anche la condizione effettiva dei servi, sopratutto nei primi tempi di Roma,
non corrisponda in ogni parte alla severità, con cui essa ebbe ad essere
governata sotto l'aspetto giuridico (1). 420. In ogni caso è cosa fuori di ogni
dubbio, che la condizione dei servi ebbe a subire ancor essa una trasformazione
profonda nel pas saggio dall'organizzazione gentilizia alla città propriamente
detta . Giuridicamente parlando , il potere del padrone appare forse più rigido
nella città, che non nel periodo gentilizio ; ma in essa il servo ha il
vantaggio di poter essere fatto libero , e di essere così elevato alla dignità
di cittadino. Mentre dapprima il servo manomesso do veva, per la stessa
necessità delle cose , cercare protezione e tutela nel gruppo, a cui
apparteneva, e quindi col cessare di esser servo doveva trasformarsi in cliente
: nella città invece, sopratutto dopo Servio Tullio , a cui si attribuisce di
aver attribuita la cittadinanza ai servi affrancati, il servo manomesso venne
ad essere sotto la protezione della pubblica autorità , e potè colla libertà
acquistare anche la cittadinanza. Colla manomissione pertanto viene a verifi
carsi la più profonda trasformazione nello stato giuridico , di cui ci porga
esempio il diritto civile romano. Con essa il servo , che era considerato come
una cosa, viene a trasformarsi in una persona, e colui, che non aveva nė
libertà, nè cittadinanza, nè posizione nella famiglia , viene ad acquistare
tutte queste cose ad un tempo. Solo rimangono le traccie dell'antico stato di
cose nella istituzione del patronato , la quale deve perciò essere considerata
come una soprav vivenza dell'organizzazione gentilizia. Malgrado di ciò ,
questa impor tantissima trasformazione nello stato di una persona viene
dapprima ad essere rimessa intieramente all'arbitrio del quirite, il quale può
manomettere i proprii servi vindicta , censu , testamento , ed ha cosi potestà
di accrescere indefinitamente il numero dei cittadini romani. (1) Nota
giustamente l'HÖLDER , Istituz., $ 42, pag. 117, che il servo, ancorchè sia
considerato come una cosa , non perde però la sua qualità d'uomo, poichè gli si
ri conoscono le facoltà , che lo distinguevano come uomo, prima dell'altrui
dominio. È questo il motivo , per cui il potere sullo schiavo chiamavasi
potestas, e gli atti acqui. sitivi da lui compiuti erano stati validi, come se
fossero stati compiuti dal suo padrone. 541 Anche qui fu solo più tardi, che
l'esercizio illimitato di questa po testà privata sembrò essere in conflitto
colle esigenze del pubblico interesse , e allora, mentre da una parte si cercd
di assicurare i di ritti del patrono sull'eredità dei liberti, dall'altra si
cerco di met tere dei confini alla manomissione dei servi, il che si ottenne in
parte coll'introdurre gradazioni diverse nella libertà , che era accor data ai
servi (1). Fu in questa guisa , che al concetto di un'unica libertà i
giureconsulti, interpretando le leggi Aelia Sentia e Junia Norbana,
sostituirono le categorie diverse dei latini, dei latini iu niani, e dei
dediticii, la cui libertà può essere migliore o peggiore , secondo che essa
lasci più facile l'adito alla cittadinanza romana : « pessima itaque, conchiude
Gaio , eorum libertas est, qui dediti ciorum numero sunt, nam ulla lege, aut
senatus consulto , aut con stitutione principali aditus illis ad civitatem
romanam datur » (2 ). 421. Da ultimo anche le persone libere, quae in causa
mancipii erant,dovettero pur esse avere un posto in questa costruzione
giuridica della famiglia romana, il che si ottenne collocandole nella posizione
di servi (servorum loco habentur), per tutto quel tempo per cui erano date a
mancipio. Tuttavia i giureconsulti stessi hanno cura di notare, che la
concezione giuridica non deve in questa parte essere confusa colla realtà, come
lo prova questa notevole proposizione di Gaio: « admonendi sumus, adversus eos,
quos in mancipio ha bemus, nihil nobis contumeliose facere licere ; alioquin
iniuria rum actione tenebimur: ac ne diu quidem in eo iure detinentur homines ,
sed plerumque hoc fit dicis gratia, uno mo mento, nisi scilicet ex noxali causa
mancipentur » (3 ). Con ciò parmi di aver abbastanza dimostrato, che la
rigidezza, con cui fu modellata nel diritto civile di Roma la potestà spettante
al capo di famiglia , trova la sua causa in ciò , che i Romani, anche in ( 1) È
notabile a questo riguardo, che il più antico diritto di Roma, come lasciava al
cittadino piena libertà dimanomettere i propri servi, così, in omaggio sempre
alla libertà del testatore,non aveva tutelato in nessun modo le ragioni del
patrono contro il testamento del liberto . Ciò viene attestato da Gaio, III, 40
, 41 , il quale, dopo aver detto, che « olim licebat liberto patronum suum
impune in testamento prae terire » aggiunge poi che il diritto pretorio e
poscia la legge Papia Poppea avevano cercato di riparare a questa iuris
iniquitas. (2 ) Gaio , 1 , 26 ; Ulp., Fragm ., I, 5 . (3 ) Gaio , I, 141. 542
questa parte , trasportarono nella città il potere del capo di famiglia
patriarcale; lo isolarono dall'ambiente, in cui erasi formato e da ogni
elemento estraneo al diritto ; e riuscirono così a dare una configu razione
prettamente giuridica , ad un potere, che in realtà conti nuava poi a trovare
molti temperamenti nel costume e nella morale. Questi caratteri della famiglia
romana trovano poi una conferma nel modo, in cui era governata la successione
legittima, nel primi tivo diritto di Roma. § 4. – La successione e la tutela
legittima nel primitivo ius quiritium . 422. L'ordinamento giuridico della famiglia
primitiva in Roma presenta eziandio questa singolarità, che mentre, vivo il
padre, tutto sembra unificarsi in lui, mancando invece il medesimo, senza aver
disposto delle proprie cose per testamento (si intestato moritur), ricompare
una specie di comproprietà famigliare fra le persone, che dipendono dalla sua
patria potestà . Queste persone infatti son chia mate a succedergli come
heredes sui; non possono respingerne la eredità (heredes sui et necessarii) ;
che anzi, senza bisogno di una vera e propria accettazione, sembrano essere
direttamente investite dalla legge stessa di quel patrimonio famigliare, di cui
già prima apparivano comproprietarie : « sui quidem heredes, dice Gaio , ideo
appellantur, quia domestici heredes sunt et vivo quoque parente quodammodo
domini existimantur » (1). Molti autori combatterono il concetto di questa
comproprietà fa migliare, dicendola in contraddizione colla unificazione
potente della famiglia romana nella persona del proprio capo (2). A nostro
avviso invece questa specie di comproprietà , che i giureconsulti pongono a
fondamento della successione degli heredes sui, può essere facil mente spiegata
e conciliata coll'unità potente della famiglia romana, ( 1) GAIO , II, 157. (2
) Fra gli autori, che combattono questa comproprietà famigliare, mi limiterò a
citare il PADELLETTI, Op. cit., pag . 201, e il Cogliolo, Saggi di evoluzione
nel di ritto privato, pag. 108 e segg.; il quale, a pag. 111, in nota, fa pure
un elenco degli autori, che tengono per l'una o per l'altra opinione. Fra
quelli, che ammettono questa comproprietà famigliare, vuolsi aggiungere il
DUBOIS, La saisine héréditaire en droit romain , Paris, 1880, pag. 63 , e il
CARPENTIER, Essai sur l'origine et l'étendue de la règle : nemo pro parte
testatus, pro parte intestatus decedere potest, nella « Nouvelle Revue
historique » , 1886, pag. 457 e segg . 513 quando si ritenga che la famiglia
quiritaria non è in sostanza, che la stessa famiglia patriarcale, trasportata
nella città , ed isolata dal l'ambiente gentilizio, in cui erasi formata . La
famiglia patriarcale infatti riuniva appunto due caratteri, pressochè opposti
fra di loro ; quello cioè di apparire da una parte unificata nella persona del
padre , il che la rendeva unita e compatta per la lotta , che doveva sostenere
cogli altri gruppi, da cui era circondata ; e quello di sup porre dall'altra
un'assoluta comunione di tutte le utilità domestiche, il che produceva
un'intima solidarietà fra le persone, che entravano a costituirla . In questo
senso potevasi dire di essa con Cicerone : « una domus, communia omnia » .
Questa solidarietà e compro prietà fra i membri del medesimo gruppo famigliare
viene ad essere dimostrata dai seguenti indizii : che il primitivo heredium era
di sua natura trasmessibile di padre in figlio ; che il padre trovava un
ostacolo alla dilapidazione del patrimonio famigliare, nel iudicium de moribus
per parte del consiglio degli anziani della gens ; che il padre infine non
poteva disporre delle proprie cose per testamento , nè scegliersi un figlio adottivo
senza l'approvazione degli altri capi di famiglia , che appartenevano alla sua
gente o tribù (1). Vero è , che tutti questi temperamenti del potere
patriarcale del capo di famiglia sembrano scomparire, quando, col formarsi
della città, la famiglia venne ad essere staccata dal gruppo patriarcale, di
cui entrava a far parte , e il capo di essa apparve così investito di un potere
illimitato e senza confini; ma ciò deve essere considerato come un effetto di
quella elaborazione giuridica , che tendeva ad uni ficare la famiglia nella
persona del proprio capo. Era quindinatu rale, che, quando questa unificazione
non era più possibile per la mancanza del capo, risorgesse la primitiva
comproprietà famigliare fra le persone libere, che appartenevano allo stesso
gruppo . Che anzi la stessa unificazione potente del gruppo nel proprio capo do
veva determinare una specie di comunione fra i membri del gruppo, e condurre
così alla conseguenza giuridica, che in questo caso non si avverasse una vera
successione, ma il dominio del padre conti nuasse in certo modo nella persona
dei figli ; conseguenza, che ebbe ad essere mirabilmente espressa dal
giureconsulto Paolo : in suis heredibus evidentius apparet continuationem
dominii eo rem per ducere, ut nulla videatur hereditas fuisse , quasi olim hi
domini ( 1) Ho cercato di dimostrare questi caratteri della proprietà
famigliare nel pe riodo gentilizio nel lib . I, cap . 4, § 3º, sopratutto pag.
70 e segg . 544 essent, qui, vivo etiam patre, quodammodo domini existimantur .
Itaque post mortem patris non hereditatem percipere videntur , sed magis
liberam bonorum administrationem consequuntur (1) . Fu in questa guisa, che la
famiglia primitiva potè perpetuarsi nelle generazioni, e cambiarsi in un
organismo immortale e perpetuo, poichè i figli apparivano come i continuatori
della personalità del padre, e al modo stesso, che dovevano perpetuare il culto
domestico, così dovevano raccoglierne, anche loro malgrado, l'eredità . 423. Nè
si può ammettere, che questa specie di comproprietà , a cui accennano i
giureconsulti , sia un concetto penetrato più tardi nella classica
giurisprudenza , per spiegare il passaggio del patrimonio famigliare dal padre
nei figli (2 ): poichè questo intimo rapporto fra l'hereditas ed i sacra, è
certo un concetto, che rimonta all'an tichissimo diritto , come pure è a
questo, che deve farsi risalire quella posizione del tutto speciale , che gli
heredes sui assumono di fronte agli altri ordini di eredi. Questa distinzione
infatti già doveva esistere nella universale coscienza , all'epoca della
legislazione decem virale. In questa infatti non si fa menzione espressa della
succes sione dell'heres suus, ma solo vi si accenna come a cosa , che na
turalmente accade, e che quasi non abbisogna di speciale menzione ; mentre è
solo per il caso , in cui non siavi un heres suus, che le XII Tavole
determinano l'ordine della successione per legge , chia mando alla medesima
prima l’agnatus proximus, e in mancanza del medesimo i gentiles: « si intestato
moritur , cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto ; si
adgnatus nec escit, gentiles familiam habento » (3). Che anzi a questo
proposito parmi di poter con fondamento inol trare la congettura , che in
occasione della legislazione decemvirale le genti patrizie cercarono di
trasportare nel ius proprium civium ( 1) PAOLO, Leg . 11, Dig. X (28-2). V. nel
CARPENTIER , Op. e loc. cit., una rac colta di testi che confermano questa
comproprietà famigliare. (2) Tale sarebbe l'opinione del PADELLETTI, Op. cit.,
pag. 201 . (3 ) Queste due disposizioni delle XII Tavole, secondo il Voigt, Op.
cit., I, pag. 704, sarebbero la 2a e la 3a legge della Tav. IV. A questo
proposito poi il Voigt, Op. cit., II, pag. 387, sembra ritenere, che esistesse
una comproprietà di fatto, ma non di diritto . Convien però ammettere, che tale
comproprietà producesse, dopo la morte del padre, delle vere conseguenze di
diritto, dal momento che faceva considerare gli heredes sui, come continuatori
della personalità del padre , e li metteva anzi nella impossibilità di
rinunziarvi. Vedi Gaio , I, 157. - 545 romanorum , e di rendere così comune a
tutte le classi quel sistema di successione ab intestato , che doveva già
esistere nel loro costume durante il periodo gentilizio . Noi sappiamo infatti
dagli stessi giu reconsulti , che colle XII Tavole soltanto ebbe ad essere
introdotto il sistema di successione legittima, e ne abbiamo anche una prova
nella circostanza , che fu perfino introdotto un ordine di eredi le gittimi,
che era quello dei gentiles, il quale non poteva certo appar tenere alla plebe,
dal momento che questa non possedeva le gentes. Per tal modo il patriziato, che
già aveva trasportata nella comu nanza quiritaria la propria organizzazione
domestica, riusci eziandio a farvi penetrare il proprio sistema di successione.
Di qui la con seguenza, che anche il sistema successorio dei romani deve essere
considerato come una sopravvivenza dell'organizzazione patriarcale della
famiglia patrizia ; come lo dimostra la circostanza , che esso fondasi esclusivamente
sull'agnazione, non tiene alcun conto della cognazione, e si propone come scopo
esclusivo di perpetuare il pa trimonio nella famiglia agnatizia , e di farlo
ritornare alla gente, al lorchè siasi estinta la famiglia (1) . Per tal modo,
in base alla legislazione decemvirale, noi veniamo a trovarci di fronte a tre
ordini di eredi, che sono : lº gli heredes sui, nei quali si comprendono la
moglie, i figli cosi maschi come femmine e gli altri discendenti nella linea
maschile , tutte le per sone insomma, che erano soggette alla patria potestà
del capo di famiglia ; 2 ° gli agnati, cioè tutti coloro, che discendono per la
linea maschile da un comune autore, alla cui potestà sarebbero stati sog getti,
quando non fosse premorto ; 3º e da ultimo i gentiles, ossia tutti coloro , i
quali, più non essendo compresi nella familia omnium agnatorum , hanno però
comune la discendenza da un medesimo ( 1) Che la successione e la tutela
legittima siano state introdotte dalle XII Ta vole, mentre queste non avrebbero
fatto altro , che confermare le successioni testa mentarie, è cosa a più
riprese affermata da ULPIANO, Fragm . XI, 3 , e XXVII, 5 . Di qui ilMuirhead
avrebbe perfino indotto, che i decemviri abbiano creato di pianta l'ordine
degli agnati, come tutori e successori legittimi (Op. cit., pag. 122 e 172 ).
Ho già dimostrato più sopra , pag. 39, nota 1", che questa opinione non
può essere accettata, perchè l'ordine degli agnati già esisteva
nell'organizzazione gentilizia, ed il concetto dell'agnazione stava a fondamento
della medesima; ma intanto questa sua opinione può essere accolta , quando sia
intesa nel senso, che i decemviri colle XII Tavole estesero anche alla plebe
quel sistema di successione legittima , che le consuetudini avevano già svolta
presso le genti patrizie. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 35 546
antenato, e come tali hanno ancora ilmedesimo nome e appartengono alla stessa
gente. 424. È poi degno di nota il modo diverso, con cui questi varii ordini di
eredi sono chiamati a succedere . Finchè trattavasi di heredes sui, essi,
essendo soggetti alla patria potestà della stessa persona, e come tali
appartenendo almedesimo gruppo, venivano in certo modo ad essere eredi di se
stessi; esclu devano gli emancipati, le figlie passate a matrimonio e cosi entrate
in un'altra famiglia , tutti coloro insomma, che erano già usciti dal gruppo;
non abbisognavano di vera accettazione dell'eredità , ma suc cedevano anche
loro malgrado (heredes sui et necessarii) : non potevano essere spogliati
dell'eredità mediante l'usucapio pro he rede ; infine succedevano per stirpe ,
ossia per rappresentazione, perchè nella costituzione della famiglia primitiva
i figli rappresen tano il padre (1). Quando trattavasi invece di agnati , il
patrimonio doveva già uscire da un gruppo per passare ad un altro : quindi la
legge, per impedirne la suddivisione soverchia , si limitava a devolverlo allo
agnatus proximus, escludendone ogni altro. Questi però non può più essere
considerato come un heres suus, ma è già un heres extraneus, perchè più non
appartiene al gruppo famigliare nello stretto senso della parola . Egli quindi
ha già facoltà di accettare o di respingere l'eredità , e può vedersi usucapita
l'eredità da altre per sone. Nella interpretazione dei giureconsulti prevalse
poi l'opinione, che nell'ordine degli agnati non dovesse farsi luogo alla
successione per stirpi o per rappresentazione, forse perchè nel concetto romano
è solo nei limiti della stessa famiglia, che i figli appariscono come i
rappresentanti dei loro genitori. Quindi è, che l'agnato prossimo esclude tutti
gli altri agnati, e se egli non accetti o non possa ac cettare l'eredità ,
questa viene ad essere devoluta all'altro ordine, ossia ai gentiles (2 ). (1 )
Gaio, III, 1 a 8 ; Ulp., Fragm ., XXIV, 1 a 3 . (2) GAIB, III , 9 a 15 , Ulp.,
Fragm ., XXIV , 1. L'enumerazione , che Gaio ed Ulpiano fanno degli agnati,
confermano il concetto, che ho svolto nel lib . I, pag. 38 e 39, secondo cui la
cerchia degli agnati sarebbe stata determinata da quella in divisione di
patrimonio, che, morto il padre, mantenevasi fra i fratelli e i loro di
scendenti per la linea maschile. Questo gruppo continuava in certo modo l'unità
indivisa della famiglia, e costituiva quella famiglia più grande, che fu
chiamata 547 Qui però l'espressione della legge cambia, in quanto che essa dice
senz'altro: « si agnatus proximus nec escit, gentiles familiam habento » ; il
che fa ritenere, che i gentili non fossero chiamati a succedere come individui,
ma in quanto costituivano l'ente collet tivo della gens, cosicchè l'eredità
sarebbe in certo modo ritornata alla gente considerata nella propria
universalità , e sarebbe così ve nuta a ricadere in quell'ager gentilicius, da
cui si erano staccati i primitivi heredia delle singole famiglie. Era
sopratutto in questa parte, che erasi cercato di mantenere viva nella città
l'antica orga nizzazione gentilizia : ma l'istituzione non potè mantenersi a
lungo come lo dimostra Gaio, il quale parla di questo ius gentilicium , come di
cosa andata da lungo tempo in disuso (1) . Non ha poi bisogno di essere
dimostrato, che questo sistema di successione per legge, desunto dall'antica
organizzazione gentilizia , trovava il proprio compimento nella disposizione,
per cui la succes sione del cliente o del liberto , che fosse morto senza testamento
o senza eredi suoi, veniva dalla legge ad essere devoluta al patrono, od ai
figli di lui, od infine alla gente del patrono: « si cliens in testato moritur
, cui suus heres nec escit, pecunia ex eius fa milia in patroni familiam redito
» (2). omnium agnatorum . Quando poi venne meno quest' indivisione del
patrimonio, si chiamarono agnati tutti coloro, che sarebbero stati soggetti
alla patria potestà, quando il padre non fosse premorto . Fra essi ULPIANO,
loc. cit., comprende anzitutto quelli, che egli chiama i consanguinei , « id
est fratres et sorores ex eodem patre » ; poscia , quando questi manchino, gli
altri agnati prossimi « id est cognatos virilis sexus, per mares discendentes,
eiusdem familiae , (1) Gaio , III, 17 ; UlP ., Fragm ., XXIV, 1. Noi abbiamo
tuttavia CICERONE, De orat., I, il quale accenna ad una causa di eredità ,
dibattutasi davanti ai Centum viri fra i Claudii patrizii ed i Marcelli
discendenti da un loro liberto , in cui dice che gli oratori delle parti
dovettero occuparsi « de toto stirpis ac gentilitatis iure » . Sembra tuttavia,
che anche all'epoca di Cicerone fossero già infrequenti le cause di questo
genere . (2 ) Ulp., L. 195, § 1, Dig . (50, 16). Nella ricostruzione del Voigt,
I, pag. 705 , questa legge sarebbe la 4a della Tavola IV. Vedi ciò che dice lo
stesso Voigt, II, pag . 392 e 393, quanto alla successione del patrono al
liberto. Anche quanto alla successione del liberto si manifesta una specie di
antagonismo fra la successione testamentaria e la legittima ; poichè,mentre
nella prima il liberto poteva nei primi tempi (V. Gaio, III, 40-41) dimenticare
impunemente il suo patrono , la seconda invece, introdotta eziandio dalle XII
Tavole, tendeva a richiamare il patrimonio del liberto alla famiglia del
patrono, quando il primo fosse morto senza eredi suoi. 548 425. Per contro è
assai degno di nota , che, unitamente al sistema della successione legittima,
dalla legislazione decemvirale fu eziandio introdotto il sistema della tutela
legittima. Di cid abbiamo l'espressa attestazione dei giureconsulti ( 1): ma la
prova più convincente vuolsi riporre nella circostanza, che il sistema della
tutela legittima, quale ebbe ad essere regolato dalle XII Tavole, é coordinato
con quello della successione legittima, ed obbedisce al medesimo concetto ispi
ratore. Per giustificare la cosa i giureconsulti più tardi misero in nanzi la
considerazione, che l'onere della tutela doveva cadere su coloro , che avevano
il vantaggio della successione : « ubi emolu mentum successionis, ibi onus tutelae
» ; ma la causa storica deveessere cercata nel fatto, che tanto la tutela , che
la successione le gittima si informano ancora ai concetti dell'organizzazione
genti lizia , da cui furono desunte , e come tali mirano a conservare il
patrimonio prima alla famiglia agnatizia e pos cia alla gente. Viene così
a comprendersi, come nel sistema primitivo la tutela degli im puberi ed anche
la cura dei prodighi e dei furiosi , fosse affidata agli agnati ed ai gentili ;
come le donne, anche perfectae aetatis , cadessero sotto la tutela degli
agnati; come infine le res mancipii, spettanti alle medesime e ai pupilli, non
potessero essere usucapite , quando non si fossero alienate col consenso del
tutore. Così pure viene a spiegarsi quel singolare carattere della tutela primitiva
del l'impubere , la quale mira piuttosto alla conservazione del patrimonio, che
non alla educazione della persona , la cui cura soleva essere lasciata alla
madre ed agli altri congiunti, i quali si ispiravano di preferenza all'affetto
del sangue, che all'interesse gentilizio di ser bare integro il patrimonio
famigliare (2) . i 426. Chi tuttavia riguardi al posteriore svolgimento del
diritto civile romano, può facilmente inferirne, che tanto il sistema della
successione, quanto quello della tutela legittima, non trovarono mai favorevole
svolgimento nella opinione comune della cittadinanza ro mana. Conformi al modo
di pensare di quella minoranza patrizia , che si atteneva strettamente alle
tradizioni gentilizie , esse invece ripugnavano al modo di sentire delle altre
classi, i cui rapporti di ( 1) Ulp., Fragm ., XI, 3 . (2) È da vedersi, quanto
alla tutela legittima e ai suoi caratteri peculiari, il Pa DELLETTI, Op. cit .,
pag . 188 e le note relative. 549 famiglia si ispiravano di preferenza al vincolo
naturale del sangue e della cognazione. A misura poi, che le traccie
dell'organizzazione gentilizia si venivano dissolvendo sotto l'influenza della
vita citta dina, questo sistema di successione e di tutela apparve disadatto a
quei magistrati stessi, che dovevano applicarlo . È questo il motivo, per cui
Gaio a questo proposito non parla solo di sottigliezze del l'antico diritto ,
ma di vere iuris iniquitates ; alle quali cercò poi di riparare il diritto
pretorio , introducendo, accanto alla successione legittima, una successione
pretoria , e creando , accanto ai tutores legitimi, i tutores Atiliani o
dativi. Fu pur questo il motivo, per cui i giureconsulti mal potevano spiegarsi
la tutela perpetua , a cui le donne erano sottoposte nell'antico diritto , e vennero
creando essi stessi degli espedienti giuridici , quale fu quello veramente ca
ratteristico della coemptio cum fiducia , per liberarle da una tutela , le cui
ragioni dovevano forse essere cercate in un periodo anteriore di organizzazione
sociale ( 1). In ogni caso poi una prova di questa generale condanna del si
stema di successione e di tutela legittima può scorgersi eziandio nel largo
sviluppo che presero in Roma la successione e la tutela testamentaria , e
nell'antagonismo che sembra esistervi fra le due maniere di successione. $ 5. –
Rapporti fra la successione legittima e la testamentaria nel diritto primitivo
di Roma. 427. È noto che in Roma la successione legittima e la testamen taria
non poterono mai fondersi insieme, e si mantennero anzi in una specie di
antagonismo fra di loro . Ciò è dichiarato espressa mente dal giureconsulto,
che scorge nelle due istituzioni un natu (1) Fra i giureconsulti, che non sanno
darsi ragione della tutela perpetua , a cui le donne erano sottoposte, abbiamo
Gaio, I, 190. È tuttavia a notarsi, che egli, più sotto, I, 192, finisce per
indicare la vera ragione, per cui anche le donne erano sot toposte alla tutela
dei loro agnati; la quale consiste in ciò , che siccome gli agnati erano
chiamati a succedere alle donne, che morissero ab intestato , così essi avevano
interesse a che esse, senza il loro consenso , non potessero fare testamento,
nè alienare le cose più preziose, che entravano a costituire il patrimonio. Per
tal modo la tutela degli agnati ebbe lo scopo stesso della loro successione
legittima , quello cioè di conservare il patrimonio nella famiglia agnatizia ;
il qual concetto è per certo uno di quelli, le cui origini debbono essere
cercate nel periodo gentilizio. 550 rale conflitto ; è confermato dalla massima
: nemo paganus partim testatus, partim intestatus decedere potest ; ed è
provato eziandio da quella specie di ripugnanza , che avevano i Romani a morire
senza testamento : ripugnanza , che si spinse fino a tale da ritenere pressochè
disonorato chi morisse senza testamento. Il fatto può quindi essere affermato
con certezza ; ma è tanto più ardua la spie gazione di esso , come lo dimostra
la varietà grandissima di opinioni e di congetture , che furono emesse in
proposito (1 ). Credo tuttavia , che anche in questa parte possa condurci a
qualche conclusione, forse nuova, lo studio delle origini del ius quiritium .
Questo studio infatti ci pone in grado di affermare, che la succes sione
legittima ed il testamento hanno avuto una origine e uno svolgimento compiutamente
diversi nel primitivo ius quiritium . Mentre la successione e la tutela
legittima , le quali soltanto colle XII Tavole entrarono a far parte del
diritto comune , sono istitu zioni di origine prettamente gentilizia , ispirate
al concetto di ser ( 1) L'origine storica della massima « nemo paganus, ecc. »
è una questione, che è lungi dall'essere risolta , malgrado la ricchissima
letteratura , di cui fu argomento . Fra autori, che la esaminarono di recente ,
citero soltanto il RUGGERI, nei Do cumenti di storia e di diritto , 1880, pag.
147 a 168, e 1881, pag. 31 a 51; il CARPENTIER, nella Nouvelle Revue
historique, 1886 , pag . 449 a 474 ; il Padel LETTI, La istituzione di erede ex
re certa (« Archivio giuridico » , vol. IV ). Anche l'ESMEIN , La manus, la
paternité , ecc., pag . 4 , nota 10. accenno di passaggio ad una spiegazione di
questa massima , dicendo che la medesima proveniva da che il patrimonio si
trasmetteva come l'accessorio di un culto, e che siccome di un culto non si
poteva disporre per una parte soltanto, così non si poteva neppure lasciare
un'eredità parte per testamento e parte per legge. Parmi che questa non possa
an cora essere la risoluzione definitiva : poichè se un culto poteva dividersi
fra più eredi legittimi, non vi può essere ragione , per cui non si potesse
anche dividere fra eredi legittimi e testamentarii. Il CARPENTIER poi, nel suo
dotto lavoro sopra citato , verrebbe alla conseguenza , che questa massima
fosse una conseguenza logica del concetto romano, per cui tanto la successione
legittima, quanto la testamentaria , do vevano comprendere l'intiero patrimonio
; ma anche qui si potrebbe sempre dire, che quest'universum ius, come poteva
dividersi fra gli eredi per legge e testamentarii ; così avrebbe potuto
dividersi eziandio fra gli uni e gli altri. Secondo il RUGGIERI, Op. cit., il
motivo della massima starebbe in ciò , che anche il testamento dapprima era una
vera lex , e quindi doveva prevalere o la lex publica o la lex testamenti,ma
non potevano concorrere insieme; ma egli è evidente , che questa ragione, se po
trebbe valere per il testamentum in calatis comitiis , non può certo applicarsi
al testamentum per aes et libram , che non ha più il carattere di una legge. Fu
questo il motivo, per cui ho creduto didover cercare la causa prima di questa
mas sima nella stessa dialettica fondamentale, a cui si informa il diritto
primitivo di Roma. 551 - bare il patrimonio alla famiglia agnatizia ed alla
gente ; il testamento invece, che prevalse nel ius quiritium , non è più il
testamento delle genti patrizie , ma è già un'applicazione dell'atto quiritario
per ec cellenza, ossia dell'atto per aes et libram , che si ispira al prin cipo
: uti legassit, ita ius esto. In quella prevale ancora lo spirito conservatore
dell'antico gruppo patriarcale : mentre in questo già campeggia la fiera
individualità del quirite, la cui volontà solenne mente manifestata deve essere
legge, anche per il tempo in cui avrà cessato di vivere ( 1). A cið si
aggiunge, che la successione legittima e la testamentaria , nella struttura
organica del ius quiritium , muovono da un con cetto fondamentale compiutamente
diverso . Mentre infatti la suc cessione legittima prende le mosse dal ius
connubii , ed è quindi una conseguenza dell'organizzazione giuridica della
famiglia romana, il testamento invece, che prevalse nel diritto quiritario, fu
un'ap plicazione del principio : « qui nexum faciet mancipiumque, uti lingua
nuncupassit, ita ius esto » ; come tale, esso prese le mosse dal ius commercii,
e fu considerato come un mezzo di disporre libe ramente delle proprie cose (2
). Fu sopratutto questa circostanza del l'essere le due istituzioni partite
nella loro elaborazione giuridica da un concetto fondamentale diverso , che
impedì alle medesime di con fondersi e di compenetrarsi insieme; poichè è un
carattere della dialet tica quiritaria , che gli istituti giuridici, una volta
separati, obbediscano ciascuno al proprio concetto ispiratore, nè sogliano mai
confondersi con un altro, che si informi ad un concetto compiutamente diverso .
Tale sembra appunto essere la significazione della celebre regola del
giureconsulto Paolo : « ius nostrum non patitur eundem in paganis et testato et
intestato decessisse , earumque rerum natu raliter inter se pugna est, testatus
et intestatus » (3 ). Per verità (1) Quanto al carattere diverso di queste due
successioni vedi il cap . III , § 4 , in cui si discorre della successione
testamentaria , ed il $ precedente relativo alla successione legittima. (2)
Questo carattere speciale del testamento per aes et libram è attestato ,
ancorchè solo di passaggio , da Cic., De orat., I, 57 , § 245 ; ma è poi
dimostrato all'evidenza da ciò, che questo testamento ebbe ad essere ritenuto
come un negozio, che compie vasi fra testatore ed erede, e in cui la volontà del
testatore dominava sovrana . (3) Paolo, Leg. 7, Dig. (50-17). Secondo il
PadELLETTI, Storia del dir . rom ., pag. 201, questa massima sarebbe invece una
conseguenza della superiorità esclusiva della successione testamentaria sulla
legittima; ma questo non è ancora un motivo adeguato per impedire che le due
eredità si confondessero fra di loro. 552 sarebbe stato illogico, che quel
diritto , il quale in tutto il suo svi luppo tenne sempre mai distinte fra di
loro le obbligazioni e i trasferimenti di proprietà, di cui quelle erano
partite dal concetto primitivo del nexum e questi da quello del mancipium ,
avesse pui consentito , che concorressero insieme due istituzioni, le quali
muove vano da concetti fondamentali anche più distanti fra di loro . Questo quindi
fu uno dei casi in cui la logica quiritaria non volle piegarsi alle nuove
esigenze, e si limitò ad introdurre una eccezione a fa vore del testamento dei
soldati. 428. Qui intanto cade in acconcio di esaminare brevemente un'altra
gravissima questione, quella cioè della precedenza, che nel diritto primitivo
di Roma abbia avuto la successione legittima o la successione testamentaria .
Sull'autorità del Sumner Maine, suole essere generalmente seguita l'opinione,
che nella evoluzione storica del diritto romano dovette precedere la
successione ab intestato, poichè la possibilità del testa mento, anche nel
diritto romano, avrebbe cominciato dall'essere am messa soltanto in quei casi,
in cui non vi fosse figliuolanza, e poi sarebbe stata estesa anche agli altri casi
( 1). Mentre ritengo , che questa opinione possa essere conforme al vero, per
quanto si rife risce al periodo gentilizio , nel quale il testamento non
dovette essere , che un mezzo per perpetuare la famiglia ed il suo culto, per
il caso in cui non vi fossero dei figli, crederei invece , che essa non sia con
forme all'evoluzione storica , che ebbe ad avverarsi nel ius quiritium . Sonvi
infatti degli indizii, che ci inducono ad affermare, che nel ius quiritium
penetrd dapprima il testamento, mentre la successione legittima vi fu solo
introdotta più tardi, e che il testamento ebbe fin dal principio una prevalenza
incontrastata sulla successione le gittima. È noto infatti, che Ulpiano dice
espressamente, che la suc cessione legittima fu introdotta dalle XII Tavole ,
mentre queste invece avrebbero confermata la successione testamentaria ; il che
indica appunto , che il testamento era già comune ai due ordini, e aveva già
subito l'elaborazione del ius quiritium , mentre la suc cessione legittima non
sarebbe penetrata nel diritto comune, che colla legislazione decemvirale .
Anteriormente a quest'epoca la suc cessione legittima, per ciò che si riferisce
agli agnati ed ai gentili, (1) SUMNER MAINE, L'ancien droit, pag. 186 . 553
doveva probabilmente essere esclusivamente propria delle genti pa trizie, le
cui consuetudini in quest'argomento erano certo diverse dalle semplici
costumanze della plebe ( 1). Appare poi fino all'evidenza dalle espressioni
stesse delle XII Tavole , che la successione testamentaria ha una prevalenza
indiscutibile sulla successione legittima, in quanto che quest'ultima non può
verificarsi, che quando manchi il testa mento (si intestato moritur); il qual
concetto perdurò poi per tutto lo svolgimento storico del diritto civile romano
(2 ). In cid abbiamo un'altra prova, che il ius quiritium non deve essere
considerato unicamente , come il frutto di un'evoluzione lenta e graduata delle
istituzioni giuridiche, a misura che ne occorra il bisogno, ma piuttosto come
il frutto di una selezione su materiali giuridici preesistenti. In esso infatti
istituzioni più antiche penetra rono talvolta più tardi di altre, la cui
formazione nella realtà dei fatti doveva essere più recente. Così, ad esempio,
la successione le gittima, che fu certo la prima a svolgersi nell'ordine dei
fatti, fu l'ul tima a penetrare nel ius quiritium , mentre il testamento, che
era stato ultimo a comparire , fu il primo ad esservi accolto , come quello che
meglio rispondeva a quella potente individualità giuridica , che era il quirite.
— Cid apparirà anche più evidente trattando del si stema delle actiones, le
quali, mentre furono le prime a formarsi nell'ordine dei fatti, furono invece
le ultime ad essere elaborate nel primitivo ius quiritium . (1 ) ULP., Fragm .,
XI, 3; XXVII, 5 ; L. 130, Dig. (50-16 ). (2) La prevalenza della successione
testamentaria sulla legittima nel diritto civile romano è provata da una
quantità grande di passi di giureconsulti, fra i quali mi limito a citaro i
seguenti: « quamdiu possit valere testamentum , tamdiu legitimus non admittitur
» (Paolo, L. 89, dig. 50, 17) ; « quamdiu potest ex testamento adiri hereditas,
ab intestato non defertur » (Ulp., L. 39, dig. 29, 2). 554 CAPITOLO VI. Le
legis actiones e la storia primitiva della procedura civile romana. $ 1.- Le
origini della procedura ex iure quiritium . 429. Quella tecnica giuridica , di
cui già si riscontrarono le traccie nelle varie parti del ius quiritium ,
appare anche più rigida e se vera nella parte, che si riferisce alla procedura
delle legis actiones. È qui sopratutto, ove l'elemento giuridico del fatto
umano compare del tutto isolato e disgiunto da ogni elemento estraneo , e ove
l'ela borazione giuridica dell'antico diritto ebbe a spingersi a tal punto di
tecnicismo da rendere difficile alle nostre menti il comprenderne i concetti
direttivi, e la logica inesorabile, a cui obbedi nella pro pria formazione.
Alla difficoltà intrinseca dell'argomento si aggiun sero poi altre cause , che
contribuirono a mantenere in questa parte una quantità di dubbii e di
incertezze, la quale non potè del tutto essere dileguata dalla scoperta delle
istituzioni di Gaio , dalla ricchissima letteratura, che in seguito alla
medesima ebbe a svolgersi sull'argomento (1). È noto infatti, in base alle
attestazioni concordi degli antichi au tori, che la parte dell'antico diritto ,
relativa alla procedura delle legis actiones , ebbe ad essere custodita ed
elaborata dal collegio dei pontefici, anche dopo le XII Tavole, e continuò cosi
ancora a co e (1) Anche qui non mi propongo di dare una bibliografia completa :
ma piuttosto di indicare le opere, di cui ho potuto giovarmi per il punto
speciale di vista , a cui mi collocai in questo lavoro. Fra esse citerò lo
ZIMMERN , Traité des actions, trail . Etienne, Paris 1843; BONJEAN, Traité des
actions chez les Romains, Paris 1845; il KELLER, Il processo civile romano e le
azioni, trad. Filomusi-Guelfi, Napoli 1872; BETHMANN-HOLLWEGG , Der röm .
Civilprocess in seiner geschichtl. Entwichelung, 3 vol., Bonn 1864-66, e
sopratutto il primo, che tratta delle legis actiones ; BEKKER, Die Aktionen d .
röm . Privatrechts, 2 vol., e sopratutto il vol. I, pag . 18-74 ; KAR LOWA ,
Der röm . Civilprocess zur Zeit d. Legisactionen , Berlin 1872 ; BUONAMICI, La
storia della procedura civile romana, Pisa 1886, e sopratutto il 1°, da pag .
15 a 86 ; JHERING , L'esprit du droit romain , tome 36, pag. 312 a 343;
MuiraEAD, Histor. Introd ., pag . 181 a 235 ; Zocco-Rosa , Le palingenesi della
procedura civile romana, Roma 1887 ; WLASSAK, Römische Processgesetze, Leipzig
1888. 555 stituire per qualche tempo un segreto di professione e di casta .
Pomponio infatti attribuisce ai pontefici di aver modellate le legis actiones,
in base alla legislazione decemvirale ; egli anzi dice con Gaio, che di qui
sarebbe provenuta la denominazione di legis actio nes, le quali poi per la
prima volta sarebbero state rese di pubblica ragione da Gneo Flavio ,
segretario di Appio Claudio (1). La notizia poi, che ci pervenne di queste
legis actiones , è molto imperfetta ; poichè lo stesso Gaio , che è forse il
solo che ebbe a discorrerne di proposito, ci descrive il sistema delle legis
actiones nell'ultimo stadio del suo svolgimento , e quindi si limita alla enu
merazione ed alla descrizione dei varii modi o genera agendi, al lorchè questi
furono definitivamente formati, senza farci assistere alla progressiva
formazione di essi, salvo quel poco, che egli ci dice , circa la introduzione
della legis actio per condictionem . A ciò si aggiunge, che Gaio , discorrendo
di un sistema di procedura già andato in disuso ai suoi tempi, si limita a
cenni assai generali, i quali per giunta ci pervennero anche con gravissime
lacune, quali quelle relative alla iudicis postulatio , ed alla condictio (2 ).
430. Da questa notizia, per quanto imperfetta, si possono tuttavia ricavare
alcune illazioni, che, per quanto generali, sono perd impor tantissime per la
ricostruzione della prima procedura quiritaria, che fu senz'alcun dubbio quella
delle legis actiones . È certo anzitutto, che anche in questa parte il primitivo
ius qui ritium non venne creando speciali procedure, per i varii casi, che si
presentavano; ma parti invece da certe forme tipiche di proce dura , che i
pontefici od il magistrato venivano poi accomodando ai casi particolari, per
guisa che le primitive legis actiones costitui scono , secondo l'esatta
espressione di Gaio, altrettanti modi o genera agendi, di cui ciascuno poteva
comprendere una varietà di azioni particolari (3 ). Noi sappiamo in secondo
luogo , che il sistema delle legis actiones è decisamente informato al concetto
, secondo cui la procedura per ogni controversia, che percorresse tutti i suoi
stadii, viene a divi dersi in due parti essenziali , di cui una compievasi in
iure, cioè (1) Pomp., Leg . 2, § 6 , Dig. (1, 2 ) ; Gaio, IV, 11. (2) V. Gaio,
IV, 17, ove manca il foglio, in cui egli doveva trattare dell'actio per iudicis
postulationem , e passare poi a discorrere della legis actio per condictionem .
( 3) Gaio , IV , 12 , scrive : , lege agebatur modis quinque etc. 556 davanti
al magistrato , e l'altra invece seguiva davanti al giudice singolo od al corpo
collegiale dei giudici, al quale le parti potevano essere rimesse dal
magistrato . Mentre in iure si decideva , se in quel determinato caso si
potesse far luogo all'applicazione della legis actio , e si dava alla
fattispecie la configurazione giuridica delle me desima; in iudicio invece
giudicavasi della ragione e del torto fra le parti contendenti , in base alla
configurazione giuridica , che la controversia aveva assunto davanti al magistrato
( 1). Ci consta infine, che le legis actiones si dividevano in due ca tegorie,
ispirate ad un concetto compiutamente diverso , in quanto che vi erano quelle,
che miravano a fissare il punto in questione e ad ottenere la decisione del
medesimo, e costituivano così la pro cedura , che potrebbe chiamarsi
processuale o contenziosa ; e quelle invece , che miravano all'esecuzione del
giudicato , e costituivano così la procedura esecutiva . Nella prima categoria
noi troviamo la legis actio sacramento e la iudicis postulatio , alle quali
venne ad ag giungersi più tardi la legis actio per condictionem ; mentre nella
seconda la vera procedura di esecuzione è costituita dalla manus iniectio , che
è diretta contro la persona del debitore condannato o confesso , poichè solo in
pochi casi, determinati dalla legge o dal costume, è accordata la pignoris
capio (2). ( 1) Ho già accennato altrove n ° 243, pag. 296 e seg., come la
distinzione fra il ius ed il iudicium debba considerarsi come una conseguenza
necessaria di ciò , che la pubblica giurisdizione del magistrato non
estendevasi dapprima a tutte le con troversie civili e penali, ma comprendeva
soltanto quelle, che eransi sottratte alla giurisdizione domestica e gentilizia
, per essere deferite alla giurisdizione del magi strato . Di qui la
conseguenza, che ogni controversia civile ed ogni accusa penale davano
anzitutto luogo ad una questione preliminare , da decidersi in iure, in cui
trattavasi di vedere, se la controversia , o se il delitto, di cui si trattava,
potessero dare argomento ad un iudicium . Di qui le espressioni di actionem
dare, iudicium dare. Questa distinzione pertanto , fra il ius ed il iudicium ,
non ha nulla che fare colla separazione tra il fatto ed il diritto : ma mira in
certo modo a sceverare le questioni, che debbono essere lasciate alla
giurisdizione domestica ed agli arbitra menti privati, da quelle, che debbono
essere giudicate a secundum legem publicam » . (2) Questa distinzione fra la
procedura contenziosa e la procedura di esecuzione non è espressamente indicata
in Gaio, il quale si limita a dare come caratteristica delle legis actiones ,
che esse , ad eccezione della pignoris capio , si compievano in iure , cioè
davanti al magistrato ; ma tale distinzione è comunemente accettata e può
dedursi dalla circostanza, che Gaio comincia in effetto a discorrere delle
azioni, che si potrebbero chiamare processuali, e poi viene a parlare delle
procedure esecu . tive, ancorchè queste fossero certo più antiche della legis
actio per condictionem , 557 431. In questo stato di cose , la questione
fondamentale, che pre sentasi all'investigatore delle origini della procedura
quiritaria , sta in cercare, se il sistema delle legis actiones debba ritenersi
creato di pianta dopo la legislazione decemvirale ed in base alla medesima, o
se invece debba ritenersi costruito e modellato con materiali giu ridici già
preesistenti (1). A questo proposito ho cercato di dimostrare a suo tempo, che
già fin dal periodo regio , cosi nei giudizii penali come nei civili , si
possono trovare le traccie di quella separazione fra il ius ed il iudicium ,
che venne poi ad essere fondamentale nel sistema delle legis actiones , e che
dovettero fin d'allora già esistervi delle pro cedure consuetudinarie,
certamente analoghe a quelle, che compa riscono più tardi col nome di legis
actiones. Che anzi abbiam visto eziandio essere probabile, che sopratutto
all'epoca serviana, in cui si cominciò ad elaborare un ius quiritium , comune
al patriziato ed alla plebe, e si modello l'atto quiritario per eccellenza, che
era l'atto per aes et libram , siasi pure iniziata la formazione di una
procedura propria per le questioni di carattere quiritario . Le prime origini
di tale procedura sembrano accennate dalla tradizione, che at tribuisce appunto
a Servio Tullio, di aver distinto i giudizii pubblici dai privati, e di aver
ritenuto per sè la cognizione delle contro versie di maggior importanza ,
mentre avrebbe affidato a giudici scelti nell'ordine dei senatori, la
risoluzione delle controversie di minor importanza. È infatti questa
tradizione, che unita alla considerazione del grande movimento legislativo ,
che dovette ve rificarsi in quell'epoca, rende assai verosimile l'opinione di
co loro , che farebbero rimontare a Servio Tullo l'origine del tribu che egli
ci dice essere stata introdotta per l'ultima. Cfr. BUONAMICI, Op. cit., pag .
19 e 20 . (1) È questa la questione, che fu di recente presa in esame dallo
Zocco-Rosa, Palingenesi della procedura civile romanı , Roma 1887. Egli
ridurrebbe le teorie in proposito enunciate a tre, cioè : 1) a quella che vuol
fare uscire la primitiva procedura dal seno stesso della religione e del ius
sacrum ; 2) alla teoria, che egli chiama della preesistenza delle legis
actiones alle XII Tavole ; 3 ) e alla teoria della discendenza delle medesime
dalle XII Tavole. Egli viene alla conclusione ammessa dalla generalità degli
autori, che prima delle XII Tavole moribus agebatur , mentre posteriormente
lege agebatur. Passa poi a cercare le origini della primitiva proce dura consuetudinaria
presso i popoli di origine Aria, e questa sarebbe ricerca di grande interesse ;
ma forse per ora non si hanno ancora materiali sufficienti per giungere ad una
conclusione definitiva . 558 - nale quiritario dei centumviri, quella dei
iudices selecti, ed anche la prima distinzione fra l'actio sacramento e la
iudicis postulatio ; di cui quella avrebbe aperto l’adito al centumvirale
iudicium , e questa invece alla nomina di arbitri o di giudici, scelti dal
novero dei iudices selecti. Questi indizii tuttavia , che accennano alla for
mazione di una procedura quiritaria, anteriore alle XII Tavole , non
impediscono punto, che la medesima abbia dovuto subire un rima neggiamento in
tutte le sue parti, di fronte ad un avvenimento cosi importante per il diritto
privato di Roma, quale fu quello della le gislazione decemvirale . Non parmi
quindi, che possano essere respinte le attestazioni con cordi degli antichi
autori, secondo cui la procedura civile, se non creata , dovette almeno essere
rimaneggiata , in base alla legislazione decemvirale, per opera del collegio
dei pontefici, e che in quell'oc casione appunto le actiones, essendo state
accomodate alla legge, abbiano assunta la denominazione caratteristica di legis
actiones. Che anzi da questo fatto parmi si possa indurre con fondamento , che
la parte del ius quiritium , relativa alle legis actiones, dovette essere
l'ultima ad essere elaborata dai veteres iuris conditores , al lorchè già erasi
formato un vero ius quiritium , e che, ciò stante, questa parte , per essere
sopraggiunta più tardi, quando le altre già erano formate , non potè ridursi ad
una semplice incorporazione di consuetudini processuali già preesistenti, ma
dovette già essere il frutto di una selezione e di una elaborazione, a cui le
medesime furono sottoposte. Nė può ritenersi improbabile , che questa elabo
razione abbia potuto essere l'opera degli stessi pontefici, quando si ritenga,
che essi da una parte erano i custodi delle tradizioni delle genti patrizie e
personificavano in certo modo lo spirito conserva tore delle medesime, e
dall'altra furono senz'alcun dubbio i creatori della tecnica giuridica , e i
primi maestri alla cui scuola si forma rono i grandi giureconsulti della
Repubblica e dei primi secoli del l'Impero. Parmi anzi, che questa elaborazione
dei pontefici, giure consulti e patrizii ad un tempo, valga a spiegare quel
doppio carattere dell'antica procedura romana, la quale nelle proprie forme e
nei proprii vocaboli richiama ancora l'organizzazione patriarcale, mentre sotto
un altro aspetto è già un capolavoro di tecnica giuridica, che corrisponde
mirabilmente alle altre parti del diritto privato romano e al concetto del
quirite , ispiratore del medesimo. A quel modo in somma, che i veteres iuris
conditores , trascegliendo fra le forme di matrimonio e di negozii già
preesistenti nelle consuetudini delle - 559 genti italiche , riuscirono a
sceverarne un connubium ed un com mercium ex iure quiritium , e a richiamare
l'uno e l'altro a certe forme tipiche e solenni, che costituirono il diritto
esclusivamente proprio della comunanza quiritaria : cosi essi, operando una
scelta fra i modi di procedere, che già potevano essersi formati nei rap porti
fra i capi di famiglia, e in quelli fra essi ed i loro dipendenti, riuscirono a
ricavarne una procedura tipica, che potè essere consi derata come propria della
comunanza quiritaria . Anche qui pertanto i materiali certo erano preesistenti;
ma il primitivo diritto romano non li accetto senz'altro , quali esistevano, il
che avrebbe dato ori gine ad una varietà di procedure , analoga a quella che
occorre presso gli altri popoli primitivi; ma li sottopose invece ad una se
lezione, riducendoli a quelle forme tipiche , in cui tanto si compia ceva il
genio giuridico romano, come lo dimostra il modo, in cui fu rono modellate
tutte le loro istituzioni giuridiche. Fu in questa guisa , che si riuscì ad una
procedura, la quale , mentre è adatta ad un popolo agricolo e militare ad un
tempo , quale era il popolo romano, porta perd le traccie evidenti dell'organizzazione
patriarcale, da cui usciva, e contiene cosi un ricordo prezioso delle varie
fasi, per cui passo lo stabilimento della civile giustizia (1) . 432. Noi
abbiamo infatti veduto a suo tempo , come già nella stessa organizzazione
gentilizia , e sopratutto, allorchè al disopra della gens venne a svolgersi la
tribus, e colla riunione dei vici si formò il pagus, già potessero sorgere
controversie di carattere giu ridico fra i varii capi di famiglia , ed anche
fra essi ed i loro di pendenti, e come il bisogno di venire alla risoluzione di
tali con ( 1) Questa spiegazione intorno all'origine delle legis actiones ha il
vantaggio di mettere d'accordo fra di loro i passi di antichi autori, relativi
a quest'argomento, che pervennero fino a noi. Con essa infatti può conciliarsi
la vetustissimi iuris ob servantia, a cui accenna Pomponio, coll'attestazione
concorde dello stesso Pomponio e di Gaio, secondo cui le legis actiones furono
composte ed accomodate sulle parole stesse delle XII Tavole. Questi due
caratteri, pressochè in opposizione fra di loro , possono conciliarsi fra di
loro , quando si accetti la teoria , svolta più sotto, di distin guere nella
legis actio, come già nell'atto per aes et libram due parti, cioè la parte
mimica , e la verborum conceptio. È la prima, che costituisce una vetustissimi
iuris observantia , ed è un ricordo delle varie fasi attraversate nello
stabilimento della civile giustizia ; ed è la seconda , che potè invece essere
accomodata e composta sulle parole stesse della legge. GAIO , IV , 11 ; POMP.,
Leg. 2 , 8 6 e 24 , Dig. ( 1,2). 560 troversie, abbia potuto dare origine a
certimodi di procedura, che col tempo dovettero acquistare una vera autorità
consuetudinaria (1) . Da una parte si dovette formare una procedura fra i capi
di fa miglia , uguali fra di loro , che nella loro fiera indipendenza non
accettavano altro giudice, che quello che erasi fra loro concordato , il quale
, anzichè giudice diretto della controversia , lo era invece della scommessa,
con cui cercavano di rafforzare l'affermazione so lenne della propria ragione .
Questa è quella procedura , che presso i romani fu ridotta ad una forma tipica,
e denominata actio sacra mento , le cui traccie trovansi non solo fra le genti
italiche , ma anche fra le elleniche, e presso i popoli Arii dell'India (3).
L'altra invece fu una procedura , la quale ricorda ancora uno stato di privata
violenza, e che probabilmente dovette svolgersi nei rapporti fra i vincitori ed
i vinti, e più tardi nei rapporti fra la classe superiore dei padri, dei patroni,
dei patrizii, e quella infe riore dei servi, dei clienti e dei plebei. Essa
nelle proprie origini dovette essere una effettiva manus iniectio , ma poscia
fu richiamata ad una significazione giuridica, e significò l'esercizio anche
violento della potestà giuridica spettante a una persona , come lo dimostra il
fatto, che essa continuò anche più tardi ad essere adoperata dal padrone sul
servo, dal padre sul figlio, ed anche dal patrono sul liberto (3 ). Or bene
entrambe queste forme di procedere, che certo ricordano un periodo anteriore di
organizzazione sociale, entrarono nella com pagine del ius quiritium , e vi
furono modellate per modo da cor rispondere alle altre parti di esso . La prima
fu adottata come azione tipica , allorchè trattasi di istituire un giudizio fra
quiriti : come tale essa mira a serbare la più scrupolosa imparzialità ed ugua
glianza fra i contendenti, non sapendosi ancora chi possa essere il vincitore e
chi il soccombente . La seconda invece fu adottata come azione tipica , allorchè
trattasi di procedere all'esecuzione contro chi abbia subita una condanna, o
confessato il proprio debito . ( 1) Quanto alla primitiva formazione delle
actiones, nei rapporti fra i capi di fa miglia della stessa tribù e in quelli
fra i capi famiglia e i loro dipendenti, vedi ciò , che si è detto nel lib . I,
cap. V , § 3º, pag. 130 e segg. (2 ) V. in proposito lib . I, nº 104, pag. 135
, nota 14. Cfr. il SUMNER MAINE, Early history of institutions, Lect. IX ; e lo
Zocco- Rosa , Op. cit., pag . 209 e seg . (3 ) V., quanto alle prime origini
della manus iniectio, lib . I , nº 106 , pag . 137. Cfr. CAPUANO, Storia del
diritto romano , Napoli 1878 ; Cugino, Trattato storico della procedura civile
romana, pag. 116 ; BuonamiCI, Op. cit., pag. 58. - 561 433. Di qui provennero i
caratteri compiutamente diversi del l'actio sacramento e della manus iniectio.
Nella prima abbiamo una procedura fra eguali ; quindi i con tendenti sono in
certo modo attori e convenuti ad un tempo : sono le persone, fra cui si discute
, che recansi dinanzi al magistrato . Esse fingono un combattimento fra di
loro; affermano con identiche parole il proprio diritto; fanno le medesime
scommesse di 50 o di 500 assi , secondo il valore della controversia ; sono
ugualmente obbligati a dare garanzia (vindicias dare) se siano ammessi al
possesso della cosa , che forma oggetto della controversia . Lo scru polo nel
mantenere l'uguaglianza non potrebbe spingersi più oltre, ed è uguale anche il
pericolo per l'uno e per l'altro dei contendenti; poichè la somma scommessa si
perde dal soccombente , e mentre nell'epoca gentilizia era forse consacrata ad
usi religiosi, nel periodo storico deve andare invece a benefizio del pubblico
erario (1). L'altra procedura invece, rozza, violenta suppone una assoluta disuguaglianza
fra i contendenti. Quella stessa legge, che procedeva titubante e quasi
diffidente per il timore dioffendere l'indipendenza dei contendenti, non teme
invece di accordare diritti illimitati e pres sochè senza confine al creditore
contro il iudicatus ed il confessus. Essa non si preoccupa dei beni di
quest'ultimo, ma dà diritto al creditore di procedere contro la persona del
debitore, di imporre sopra di lui la sua manus, e di trascinarlo avanti al
magistrato per farsi aggiudicare la persona del debitore stesso . Questi invece
non ha diritto di reagire contro la violenza del creditore (a se de pellere
manum ) né di agere pro se lege ; ma solo di nominare un altro, che faccia
valere le sue ragioni (vindicem dare) (2 ). Mentre l'actio sacramento è come
una rappresentazione simbolica (vis festucaria) di quel combattimento effettivo
(vis realis), a cui poteva dar luogo una privata controversia fra capi di
famiglia indipendenti e sovrani, dell'interporsi fra essi di un vir pietate
gravis, dell'affermazione scambievole della propria ragione, fatta dai
contendenti e rafforzata da una scommessa , della quale deve esser giudice
quegli a cui le parti si sono rimesse ; la manus in (1) Tutti questi caratteri
della legis actio sacramento si possono ricavare dalla descrizione di
quest'azione fatta da Gaio, IV , 13 a 17, per quanto la medesima presenti molte
lacune, sia quanto all' actio sacramento in personam , che quanto all'actio
sacramento relativa agli immobili . (2 ) Gaio , Comm ., IV, 21 a 26 . G. CARLE,
Le origini del diritto di Roma. 36 562 iectio invece è la procedura del
vincitore contro il vinto , di colui, che ha il diritto, contro colui, il quale
ne è privo, di quegli, che può dettare la legge, contro colui, che deve
subirla. Anche la controversia è una lotta : quindi se durante la me desima
deve essere serbata l'uguaglianza , allorchè invece essa è finita , il
vincitore può stendere la propria mano sul vinto e questi è forzato ad
arrendersi. Era poi naturale, che la procedura di un popolo agricolo e militare
ad un tempo , per cui l'asta era il sim bolo del giusto dominio , venisse
eziandio ad essere simboleggiata in una specie di lotta e di conflitto . 434. È
tuttavia degno di nota, che i pontefici, nell'accogliere e nel modellare queste
forme di procedura, si attennero ad un processo del tutto analogo a quello ,
che abbiam visto essersi seguito nel fog giare le forme dei negozii giuridici
del diritto quiritario . Al modo stesso, che nell'atto quiritario per aes et
libram può ravvisarsi una parte , che compievasi « dicis gratia , propter
veteris iuris imitationem » e che costituiva cosi un ricordo del passato , ed
una parte veramente viva, che era la nuncupatio, mediante cui un medesimo atto
poteva accomodarsi ad una varietà grandissima di negozii, anche di carattere
compiutamente diverso ; cosi anche nella procedura primitiva , miri essa ad
istituire un giudizio od alla esecuzione di un giudicato, possono facilmente
distinguersi due parti, che compiono una funzione compiutamente diversa. Havvi
anzitutto una parte, che potrebbe chiamarsi mimica, che si presenta sempre
uniforme ed uguale , la quale è mantenuta evidentemente più come un ricordo del
passato, che per l'utilità effettiva, che si possa ricavarne; come lo dimostra
la disinvoltura , con cui si accettano gli espedienti, che mirano a
semplificarla . Questa parte nell'actio sacramento è rappresentata dal recarsi
sul luogo, ove trovasi l'oggetto in contestazione , se trattisi di immobile ;
dal portare davanti al magistrato la cosa mobile o una particella di essa ; dal
simbolo della festuca, che adoperavasi hastae loco; dalla finta manuum
consertio , dalla mutua provocatio , e dal sacra mentum . Nella manus iniectio
invece essa è rappresentata dal fatto di adprehendere manu qualche parte del
corpo del proprio debitore. È questa parte mimica, la quale, costituendo in
certomodo una soprav vivenza , col tempo divento pressochè incomprensibile, e
potè talvolta essere posta in derisione, anche da autori antichi e fra gli
altri da Cicerone. E tuttavia a notarsi, che lo stesso Cicerone, allorchè
scrisse 563 nell'interesse del vero e non in quello del cliente, non dubito di
dichiarare, che era di grande diletto questa impronta di vetusta , inerente
alle legis actiones, e di affermare che : « actionum ge nera quaedam maiorum
consuetudinem vitamque declarant» (1). Queste formalità infatti, conservateci
da un popolo , che, più di qualsiasi altro , seppe sceverare l'essenzialità del
fatto umano dalle circostanze accidentali del medesimo, sono anche oggidi un
impor tantissimo documento del modo di pensare e di agire. che era proprio
delle primitive genti italiche. Intanto perd, accanto a questa parte, il cui
mantenimento era l'effetto dello spirito conservatore del popolo romano, eravi
eziandio la parte veramente viva ed attuosa , e questa consisteva in quelle
concezioni verbali, solenni e precise (conceptiones verborum , verba concepta ,
certa verba ), che servivano a dare una configurazione giuridica alle varie
fattispecie e a farle entrare nella veste rigida delle legis actiones (2). Era
in questo modo, che, malgrado la va rietà infinita delle fattispecie, si
riusciva ad isolare l'obbiettività giuridica delle medesime e a richiamarle
tutte a pochissimi genera agendi. Questo era l'ufficio, a cui attesero dapprima
i pontefici, poi il pretore , e da ultimo i giureconsulti, e fu con questo
magistero che la sola actio sacramento fini per essere accomodata a tutte le
controversie di carattere quiritario , e la sola manus iniectio poté bastare a
qualsiasi procedura esecutiva . Vuolsi quindi conchiudere, che queste due legis
actiones costi tuiscono in certo modo il nucleo centrale della procedura
quiritaria . Esse sono quelle, in cui si può leggere il modo di pensare e di
agire del primitivo quirite, fiero , indipendente , geloso del proprio (1) Co.,
Pro Murena, vol. 2, scherza spiritosamente sull'actio sacramento, relativa alla
proprietà di un fondo, dimostrando come le forme primitive avessero complicata
una procedura, che avrebbe potuto essere semplice e pronta. Egli però nel De
orat., I, riconosce eziandio quanto possa essere di dilettevole e di utile in
questo studio dell'antico, allorchè scrive : « Nam si quem aliena studia
delectant, plurima est in omni iure civili, et in pontificum libris , et in XII
Tabulis antiquitatis effigies, quod et verborum prisca vetustas cognoscitur, et
actionum genera quaedam maiorum con suetudinem vitamque declarant. ( 2) A mio
avviso, la conceptio verborum nella legis actio tiene il posto stesso della
nuncupatio nell'atto per aes et libram . Ciò sarà meglio dimostrato più sotto,
nº 449, ed apparirà così la costanza e la coerenza dei processi, a cui suole
atte nersi il primitivo diritto romano. 564 diritto , finchè la sentenza non
sia pronunziata ; umile , sottomesso , pronto ad abbandonare se stesso al
proprio creditore, allorchè sia stato soccombente nella lotta giudiziaria .
Intanto però, accanto a queste due procedure fondamentali, se ne vennero
svolgendo delle altre , che sembrano sussidiarne l'azione, e quindi importa di
ri cercare lo svolgimento storico , così della procedura contenziosa, che della
procedura esecutiva. § 2. – Lo svolgimento storico della procedura contenziosa
nel primitivo diritto. 485. Se l'actio sacramento costituisce il nucleo
centrale della procedura contenziosa nel sistema delle legis actiones, noi
sappiamo però, che attorno ad essa fin dai primi tempi si vennero svolgendo la
iudicis postulatio fra i cittadini, e la recuperatio fra cittadini e stranieri,
e che alle medesime più tardi venne ancora ad aggiun gersi la legis actio per
condictionem . Importa quindi di determinare la funzione, che questi vari
genera agendi esercitarono sulla pri mitiva procedura , e di ricercare eziandio
l'ordine progressivo della loro formazione. Delle antiche legis actiones,
quella , intorno a cui ci pervennero maggiori notizie , è certo l'actio
sacramento . Noi sappiamo della medesima, che generalis erat, in quanto che
poteva essere adoperata per tutte le controversie, per cui non fosse stata
introdotta altra speciale procedura , si trattasse di agere in rem , od anche
di agere in personam . Essa quindi sembra riportarci ad un'epoca, in cui non
doveva esistere ancora la distin zione fra l'azione in rem e l'azione in
personam ; il che però non impedisce , che essa presentasse delle differenze nelle
solennità e nelle espressioni adoperate, secondo che trattavasi di agere in rem
o di agere in personam . Cosi pure in essa non vi è ancora la distin zione
netta e precisa fra l'attore ed il convenuto, ma i contendenti sono attori e
convenuti ad un tempo, come lo dimostra l'identità delle espressioni da essi
adoperate . Infine essa non conduce alla ri soluzione diretta della
controversia, ma piuttosto a giudicare quale dei due contendenti abbia
affermato il vero e quale il falso , e quale perciò debba essere soccombente
nella scommessa fra i medesimi intervenuta (utrius sacramentuin iustum , utrius
sacramentum in iustum sit) ; cosicchè in essa il soccombente, oltre al perdere
in 565 - direttamente la lite , corre anche il rischio di perdere la scom messa
(1) . Noi sappiamo poi, quanto alle controversie che dovevano rivestire la
forma di questa legis actio, che essa costituiva un preliminare indispensabile
per tutte le cause di carattere veramente quiritario , le quali erano
sottoposte al centumvirale iudicium , ed anche per quelle relative alla verità
ed allo stato delle persone (caussae liberales), quanto alle quali noi
sappiamo, che il sacramentum era solo di cinquanta assi (quinquagenarium ), e
che esse erano devolute ai decemviri stlitibus iudicandis (2 ) . Tutti questi
caratteri imprimono un suggello di vetustà all'actio sacramento , e ci
richiamano a quella potente sintesi, che è carat teristica del primitivo ius
quiritium , in cui non distinguesi ancora fra diritto personale e reale , fra
attore e convenuto , fra la provo . catio e la litis contestatio . Si comprende
quindi, che la mimica , che la precede, sia come un ricordo dei varii stadii,
per cui passò lo stabilimento della civile giustizia , fra i capi di famiglia ,
e che essa , trapiantata dall'organizzazione gentilizia nella città, sia stata
rico nosciuta come l'azione tipica del diritto quiritario . Ciò spiega eziandio
come essa, mentre è certamente la più antica , sia stata anche la più duratura
delle legis actiones; poichè, quando le altre furono abolite, continud pur
sempre ad essere mantenuta qual preliminare al centumuirale iudicium , cioè
davanti a quel tribunale dei cen tumviri, che può essere considerato come il
tribunale essenzial mente quiritario , sia per il modo, in cui era composto, sia
per le controversie , che gli erano sottoposte, che erano appunto quelle, che
riguardavano la posizione di ciascun cittadino nel censo , e quindi anche nello
Stato ( 3). (1) GAIO, IV , 13 a 17 : Cic., Pro Caecina, 33, ove dice , che in
una causa da lui trattata per la libertà di una certa Aretina fu deciso , che
il suo sacramentum era iustum . Di qui le espressioni: iusto sacramento
contendere , iniustis sacramentis petere. ( 2) La necessità della legis actio
sacramento , per una causa da istituirsi davanti al centumvirale iudicium , è
dimostrata dal fatto che , secondo Gaio , IV , 31, anche dopo l'abolizione
delle legis actiones, fu ancora permesso di agire in questa guisa : a domini
infecti nomine, et si centumvirale iudicium futurum sit » . È poi lo stesso
Gaio , IV , 14 , il quale ci attesta, che le cause di stato erano precedute
dall'actio sacramento, in quanto che egli afferma, che in base alle XII Tavole
il sacramentum per una questione di libertà era solo di cinquanta assi. L'uso
del sacramentum nelle caussae liberales è poi anche confermato da Cic., Pro
Caec. 33 . (3) La competenza del centumvirale iudicium , per le cause di
carattere eminente. - 566 436. È invece ben poca cosa quello , che ci pervenne
intorno alla legis actio per iudicis postulationem . Dal palimpsesto di Verona
non si potè ritrarne, che il titolo , mentre da Valerio Probo si ricavo la
formola , che dovette adoperarsi per ottenere la nomina di un giudice o di un
arbitro : iudicem arbitrumve postulo uti des. Nelle XII tavole poi sono
indicati varii casi, in cui trattandosi di controversie di carattere
indeterminato, che suppongono una certa libertà di apprezzamento , e che
talvolta sono anche designate col vocabolo di iurgia , piuttosto che con quello
di lites, si propone la nomina di uno o più arbitri ( 1). Bastano tuttavia
questi pochiindizii per dimostrare le molte e gravi differenze , che la
contraddistinguono dall'actio sacramento . Essa in fatti già suppone la persona
dell'attore distinta da quella del conve nuto ; suppone una amministrazione
della giustizia già organizzata , in cuiil magistrato procede alla designazione
del giudice ; conduce alla risoluzione diretta della controversia ; non trae
più con sè, per quanto almeno noi possiamo saperne, il pericolo di perdere una
scommessa . Essa parimenti, come lo indica la sua denominazione, non conduce
più alla rimessione dei contendenti avanti ad un tribunale collegiale , come
quello dei centumviri e dei decemviri; ma dà origine ad un iudicium privatum ,
nel vero senso della parola, in cui il giudice o l'arbitro , secondo un
antichissimo costume ro mano, dovevano essere concordati fra le parti (2 ).
Essa infine differisce eziandio dall'actio sacramento per il ca rattere di
indeterminatezza delle controversie , che ne formavano oggetto , le quali
supponevano una certa libertà di apprezzamento 1 mente quiritario, è attestata
dall'enumerazione fatta di tali cause da Cic., De orat., I, 38. (1) I casi, in
cui la legge decemvirale parla di nomine di arbitri , sono quelli relativi al
regolamento di confini: « si iurgant de finibus, tres arbitros dato » ; alla
divisione dell'eredità fra i coeredi (actio familiae erciscundae);
all'apprezzamento del danno dato dall'acqua piovana (arbiter aquae pluviae
arcendae) e qualche altro caso analogo. Vedi KELLER, Il processo civile romano,
$ 7, pag. 25 ; ORTOLAN , Expli cation historique des Institutes de Iustinien ,
Paris 1883, III, pag. 494. (2 ) Sebbene non si possa dire, che il centumvirale
iudicium si contrapponga in senso stretto al iudicium privatum , tuttavia
occorrono passi di autori , in cui i centumviri sono contrapposti al privatus
iudex , come in Cic., De or., I, 38 , 39; in Quint., Instit. or., 10 , n ° 115,
ove scrive : « alia apud centumviros , alia apud iudicem privatum in iisdem
quaestionibus ratio » . Cfr. ZIMMERN, Traité des actions, pag. 36, nota 3 e 4 .
567 - — nel giudice o nell'arbitro chiamato a risolverlo ; cosicchè, di fronte
al iudicium directum , asperum , simplex , che era istituito col l'actio
sacramento , essa iniziava di preferenza un iudicium od un arbitrium moderatum
, mite , in cui cominciava ad essere lasciata qualche parte a quell'equità e
buona fede, che erano escluse dalle forme rigide e precise del primitivo ius
quiritium . Al qual pro posito vuolsi eziandio notare, che quando si confronti
la denomi nazione attribuita da Gaio a questa legis actio, che è quella di
iudicis postulatio , colla formola serbataci da Valerio Probo, secondo la quale
si domanda un giudice od un arbitro , è lecito di inferirne, che in essa dovette
avverarsi uno svolgimento storico. Essa dapprima infatti dovette implicare
soltanto la nomina di un iudex , sotto il quale vocabolo si comprendeva anche
l'arbiter . Più tardi invece, e probabilmente in seguito alla legislazione
decemvirale , la quale am metteva per certe questioni anche la nomina di
arbitri, essa dovette porgere occasione a quella distinzione fra iudicium ed
arbitrium , la quale presentava ancora tante incertezze all'epoca di Cicerone
(1). 437. Questi caratteri presi insieme mi condurrebbero alla con clusione,
che la iudicis postulatio non presenti più quell'impronta di vetustà , che è
propria dell'actio sacramento, e non possa perciò essere considerata come una
procedura di carattere patriarcale , trasportata nella città . Essa invece dovette
già formarsi sotto l'in fluenza della vita cittadina, e dovette probabilmente
essere una con seguenza della stessa formazione del ius quiritium . Siccome
infatti, secondo appare dalle leggi, che ne governarono la formazione, il ius
quiritium non costitui mai tutto il diritto primitivo di Roma, ma solo quella
parte di esso , che corrispondeva al concetto del quirite , e che primo era
riuscito a consolidarsi mediante il ricono scimento di una lex publica : cosi
ne consegui necessariamente, che anche le controversie, che potevano sorgere
fra i cittadini, si divi ( 1) Cic. , Pro Mur., 12, osserva, scherzando, che i
giuristi non si erano ancora potuti accordare circa l'uso delle parole di iudex
o di arbiter. La difficoltà di allora non è ancora scomparsa oggidì; poichè la
distinzione fra iudicium e arbitrium , fra il ius strictum e l'aequitas, fra la
lis e il iurgium , è una di quelle questioni di limiti, che non saranno mai
definitivamente risolte. Cfr. KELLER , Op. cit ., § 17, pag. 59. Quanto alla
differenza fra iudicium strictum e arbitrium , mi rimetto ad una mil vecchia
dissertazione col titolo: « De exceptionibus in iure romano » Torino 1873 , pag
. 28 e segg. 568 dessero naturalmente in due categorie. Vi erano da una parte
le controversie di carattere eminentemente quiritario , relative al caput, alla
manus, al mancipium , all'atto per aes et libram , ai negozii rivestiti della
forma del medesimo (nexum , mancipium , testa mentum ), all'eredità e alla
tutela legittima; le quali, per poggiare sopra una legge o sopra un atto od un
negozio di carattere quiri tario , potevano ridursi in certo modo ad una
affermazione o ad una negazione, ed accomodarsi così alle forme rigide
dell'actio sacra mento. Vi erano invece dall'altra parte quelle controversie,
le quali, o per l'indeterminatezza del loro oggetto, o per supporre una certa
latitudine di apprezzamento in chi era chiamato a giudicarle, o per dipendere
più dalla consuetudine, che da una vera legge, abbisogna vano in certo modo più
di un arbitro, che non di un giudice, nel significato ristretto , che ebbe ad
assumere più tardi questo vocabolo . Quest'ultime pertanto richiedevano una
procedura più semplice , non accompagnata dai pericoli dell’actio sacramento ,
in quanto che le parti contendenti potevano anche in parte essere nella ragione
ed in parte essere nel torto : quindi è probabile , che siano state ap punto
queste controversie, le quali, al punto di vista quiritario , ave vano minor
importanza, che Servio Tullio avrebbe cominciato a de ferire al iudex privatus,
introducendo appunto per esse la iudicis postulatio. Così pure non è punto
improbabile, che nella precisione ed esattezza del linguaggio primitivo le
prime controversie di ca rattere veramente quiritario si indicassero col
vocabolo di vere lites, mentre le altre fossero designate piuttosto col
vocabolo di iurgia (1). Siccome poi col tempo una parte di quel diritto, che in
certo modo esisteva allo stato fluttuante intorno al nucleo centrale del ius
quiritium , fini per essere attratto dal medesimo, e per entrare eziandio nelle
forme rigide e precise del diritto quiritario ; cosi si può comprendere, come
col tempo la iudicis postulatio , che dap prima aveva un carattere sussidiario
, abbia potuto entrare anch'essa a far parte del sistema delle legis actiones.
Ciò anzi dovette av. venire naturalmente, allorchè la legislazione decemvirale
accolse la iudicis arbitrive postulatio , come lo dimostrano le controversie, (
1) L'opinione qui svolta , circa i rapporti fra l'actio sacramento e le iudicis
po stulatio , si avvicina a quella enunziata dal KARLOWA, Der röm .
Civilprozess, pag. 47 e segg.; 122 e segg. 569 per cui essa prescrisse al
magistrato di addivenire alla nomina di un giudice , o di uno o più arbitri. Da
quel punto la iudicis postulatio entrò a far parte del sistema della procedura
civile romana ; costitui ancor essa una legis actio ; che anzi, per il minor
pericolo che offriva ai contendenti, dovette acquistare un largo svolgimento,
come lo dimostrerebbe il Voigt, il quale attribuisce un maggior numero di
azioni alla iudicis postulatio , che alla stessa actio sacramento (1). Questo
svolgimento poi fu sopratutto favorito dalla distinzione, che si operò nella
stessa iudicis postulatio , fra il iudicium e l'arbitrium , il quale ultimo,
accompagnato dalla clausola « ex fide bona » , fini, secondo l'attestazione di
Cicerone, per essere applicato, dopo la scomparsa delle legis actiones, in
tutti quei negozii, in cui do mina la buona fede, quali sarebbero la società ,
la fiducia , il man dato , la vendita , la locazione e simili . Questi negozii
infatti , negli inizii, erano ancora esclusi dalla cerchia del ius quiritium ,
e come tali non potevano formar tema dell'actio sacramento, ma solo della
iudicis postulatio, alla quale probabilmente dovette appartenere la clausola
conservataci dallo stesso Cicerone : uti ne propter te fi demve tuam captus
fraudatusve siem (2 ). 438. Pervenuto a questo punto nella storia della
primitiva pro ceilura romana, parmi opportuno di arrestarmi alquanto all'esame
di un istituto, il quale, malgrado le sue modeste apparenze , dovette tuttavia
esercitare una potente influenza sullo svolgimento della me desima. Esso è
quell'antichissimo istituto, che è indicato col vocabolo di reciperatio , ed al
quale si rannoda senz'alcun dubbio quella ca tegoria di giudici, o di arbitri,
che vengono sotto il nome di recu peratores. Si è veduto in proposito , che
nelle consuetudini delle genti ita liche era indicata col vocabolo di
reciperatio quella clausola , che soleva aggiungersi aitrattati di amicitia e
di hospitium fra le varie genti o tribù, con cui stipulavasi fra esse un
diritto di reciproca actio , cosicchè i cittadini di un popolo potevano
chiedere ed ottenere ragione nel territorio e presso il magistrato di un altro
. Era con ( 1) Il Voigt, XII Tafeln , I, 586-589, assegnerebbe alla iudicis
arbitrive postu latio ben 35 azioni, di cui nove apparterrebbero agli arbitria
, e il rimanente ai éu dicia propriamente detti. Cfr. MUIRHEAD, Histor. introd
., pag. 199 . ( 2 ) Cic., De offic., III, 17. 570 - questa clausola , che la
protezione giuridica , in base ad un trattato ( foedus), cominciava ad
oltrepassare la cerchia degli abitanti di un territorio per estendersi a quelli
di un altro , con cui si fosse in amichevoli rapporti. Essa poi aveva questo di
particolare, che po neva in certo modo di riscontro i diritti dei due popoli, e
rendeva anche necessario il ministero di più recuperatores, tolti anche da
popoli diversi, in quanto che i medesimi dovevano rappresentare l'elemento
cittadino e lo straniero ad un tempo (1 ). Quando poi si ritenga, che Roma usci
essa stessa dalla confede razione di genti di origine diversa , e fin dalle
proprie origini cerco di accrescere le proprie forze colle amicizie e colle
alleanze coi po poli vicini, sarà facile a comprendersi, come in essa la
reciperatio sia venuta a cambiarsi in una istituzione permanente , e abbia col
tempo assunto il carattere di una procedura regolare, da applicarsi nei
rapporti fra i cives ed i peregrini. Cid è dimostrato dal fatto , che gli
antichi autori indicano talvolta la recuperatio col vocabolo caratteristico di
actio , e che in Roma i recuperatores, dopo essere stati giudici fra i cives ed
i peregrini, si cambiarono in una cate goria di giudici, che potevano essere
nominati anche per le contro versie inter cives, e sopratutto dal bisogno
sentito più tardi di creare un praetor peregrinus « qui inter peregrinos ius
diceret » (2 ). (1) Ebbi già occasione di parlare della reciperatio,
discorrendo del ius pacis, nei rapporti fra le varie genti, nel lib . 1', capo
VII , § 2º, nº 211, pag . 143. Se fosse lecito di paragonare istituti, che si
svolsero a distanza di migliaia di anni,direi che la reciperatio , nel
passaggio dall'organizzazione gentilizia alla città nel mondo an tico,
corrispose a quella istituzione, che pure ebbe a svolgersi nel periodo di forma
zione degli Stati moderni, e che si esplicò col nome analogo di reciprocanza di
di ritto, la quale consisteva nell'accordare agli stranieri quella stessa
protezione di diritto, che fosse accordata ai nostri concittadini nello Stato ,
a cui gli stranieri ap partenevano. In quei tempi antichissimi la reciperatio,
come nei tempi moderni la reciprocanza , concorsero alla formazione dell'idea
di una comunanza di diritto fra i diversi popoli, che presso i Romani prenderà
il nome di ius gentium , e che nell'età moderna fu dal Savigny indicata col
nome di comunanza di diritto , la quale, se condo il grande fondatore della
scuola storica, dovrebbe essere posta a fondamento del diritto internazionale privato.
V. Savigny, Traité de droit romain , trad .Guenoux, tome VIII, § 374. Quanto ai
rapporti poi, che intercedono fra il concetto dell'antico ius gentium , e
questa comunanza di diritto fra gli stati moderni,mirimetto ad altro mio lavoro
col titolo : La dottrina giuridica del fallimento nel diritto intern . privato,
Napoli 1872, pag. 25 , come pure all'opera : La vita del diritto nei suoi
rapporti colla vita sociale, Torino 1880, pag. 346. (2 ) Quanto all'influenza,
che esercitarono in Roma la recuperatio ed i recupera 571 439. Queste
circostanze intanto rendono probabile la congettura, che in Roma, fin dai più
antichi tempi, dovettero trovarsi di fronte due forme di procedura. L'una,
propria dei quiriti, e perciò adatta al rigore del diritto quiritario ; l'altra
invece, applicabile ai rap porti fra cittadini e stranieri, e percid più
semplice e spedita . Sic come perd uno stesso magistrato sovraintendeva
dapprima all'una e all'altra, cosi esso veniva ad essere posto nella posizione
singolare di proseguire da una parte l'elaborazione del ius quiritium e di
sentire dall'altra l'influenza del diritto degli altri popoli, e di potere cosi
giudicare dell'opportunità e del bisogno di trasportare nella procedura romana
certe semplificazioni, che erano invece proprie della reciperatio . Di qui una
scambievole influenza di queste due forme di procedura, la quale continud
ancora, allorchè l'accre scersi delle controversie condusse a dividere la
iurisdictio fra due pretori, che nella loro stessa denominazione di praetor
urbanus e di peregrinus portano le traccie del dualismo, che essi
rappresentano. Fu questo il motivo per cui, a quelmodo stesso , che i
recuperatores finirono per essere accolti nelle categorie dei giudici fra i
cittadini, così certe procedure, che prima dovettero essere seguite nei rap
porti fra i cives e i peregrini, finirono, come più semplici e spedite , per
essere accolte eziandio nel diritto civile di Roma (1). Che anzi la coesistenza
di queste due procedure dovette , a mio tores, i quali diventarono col tempo
una istituzione romana e furono i modesti pre paratori della maggior opera, che
doveva poi compiere il praetor peregrinus, istituito probabilimente nell'anno
512 dalla fondazione di Roma, vedi KELLER, Il processo civile romano, pag. 28
de segg.; ZIMMERN, Traité des actions, pag. 45 e segg. ; JHERING , L'esprit du
droit romain , I, pag. 235 e segg. ; KarLOWA, Röm . Civil prozess, pag. 218-230
; Bouché-LECLERQ, Instit . rom ., pag. 421 e segg . ; MUIRHEAD, Histor. introd
., pag . 111 e 112 , 123 e 225 , quanto all'applicazione della recuperatio
inter cives. ( 1) Il Keller, Op. cit., pag . 41; nota a ragione: « che il
riguardare la legis actio come propria soltanto dei cittadini romani, è una
asserzione più volte prodotta, ma non pienamente giustificata ». Noi sappiamo
anzi da Gaio, IV , 31 , che coll'actio sacramento poteva procedersi, anche
davanti al praetor peregrinus, al modo stesso che il praetor urbanus nominava
dei recuperatores , anche per cause inter cives ; ma ciò venne appunto ad essere
l'effetto di questa esistenza contemporanea delle due procedure, la quale
condusse ad uno scambio fra di esse. Intanto qui non può esservi dubbio, che
negli inizii le cause relative allo stretto diritto quiritario, quali erano
quelle, che si recavano davanti al centumvirale iudicium , non potevano essere
che assolutamente proprie dei cives romani o dei latini , o dei peregrini , a
cui fosse stato esteso il ius quiritium . 572 avviso , servire a preparare
lentamente certi effetti, chenegli avve nimenti posteriori appariscono
pressochè repentini. Cosi, ad esempio, essa dovette essere una delle principali
cause, per cui, accanto al concetto rigido del ius civile, si dovette venir
gradatamente deli neando nella mente del pretore e dei giureconsulti, che lo circon
davano, il concetto più largo di un ius gentium , il quale, una volta formato ,
doveva poi recare cosi profonde trasformazioni nel primo . Cosi pure egli è
probabile, che il pretore in questa procedura, non essendo vincolato ai
terminidi una legge, dovette avere una maggior libertà nel formolare
giuridicamente la controversia , il che lo pose in condizione di poter
lentamente preparare, fin da quel tempo, in cui fra i cittadini duravano ancora
le legis actiones, quel sistema delle formulae, il quale col tempo doveva poi
essere accolto dal ius civile ( 1 ). Infine, per non spingere troppo oltre le
induzioni, parmi eziandio probabile, che quella « legis actio per condictionem
» , che ultima comparve nel sistema delle legis actiones, siasi modellata sulla
condictio, che certo già esisteva nella procedura della recuperatio. Noi
sappiamo infatti, che questa era appunto iniziata , mediante una condictio , in
quanto che i contendenti condicebant diem , ossia fis savano di comparire fra
trenta giorni, avanti il magistrato , per ot tenere la nomina dei
recuperatores; come lo dimostrano le espres sioni, che occorrono nelle XII
Tavole, di « status, condictus dies cum hoste » , il quale doveva essere sacro
per modo da essere un legittimo impedimento a comparire in un giudizio fra
cittadini. Sembra tut tavia , che vi fosse una differenza fra la condictio
nella procedura inter peregrinos, e la condictio come legis actio inter cives ;
poichè, mentre nella prima era in certo modo concordato il giorno di com parire
avanti al magistrato, nella seconda invece, secondo la descri zione di Gaio ,
era l'attore, che intimava al convenuto (actor adver sario denuntiabat) di
comparire fra trenta giorni avanti almagistrato ad iudicem capiendum (2 ). ( 1)
Quanto all' influenza del praetor peregrinus nel preparare il sistema delle
formole e dell'Editto provinciale nell'estendere il concetto del ius gentium è
da ve dersi il Glasson, Étude sur Gajus, Paris 1885, § 12, pag. 212 e segg.
Cfr. Carle, L'evoluzione storica del diritto romano, Prolus., Torino 1886, pag.
18 e segg. (2 ) Secondo il Voigt, XII Tafeln , I, pag . 697 e 698, la legge 2.
Tav. II, fra le altre cause di legittimo impedimento a comparire avanti il
magistrato, accenna appunto lo status, condictus dies cum hoste . Cfr. quanto alla
« condictio cum hoste » il MuruEAD, Op. cit., pag. 224. - 573 440. Anche
intorno alla legis actio per condictionem ci per vennero notizie molto scarse,
in quanto che il manoscritto di Gaio si presenta manchevole in quella parte, in
cui egli, accingendosi a parlare della legis actio per condictionem , sembrava
accennare alle origini di essa . Da quel poco tuttavia, che egli ne dice, si
può ri cavare : lº che la sostanza di questa legis actio consisteva nella
condictio , o meglio nella denuntiatio , che l'attore faceva al conve nuto di
comparire fra trenta giorni ad iudicem capiendum ; 2º che nella medesima quella
scommessa, che occorreva nel sacramentum , appare surrogata dalla sponsio et
restipulatio tertiae partis, per cui il soccombente, oltre l'importo della
controversia , deve corrispondere al vincitore il terzo della medesima a titolo
di pena ; 3º che infine essa fu introdotta prima da una lex Silia per le
obbligazioni di una certa pecunia e poi estesa dalla lex Calpurnia alle
obbligazioni di una certa res : leggi, che sogliono essere assegnate approssima
tivamente al principio del sesto secolo di Roma (anni 510 a 520 U. C.). Quanto
alla causa , per cui la condictio ebbe ad essere intro dotta, essa forma
oggetto di discussione fra i giureconsulti, i quali ebbero ad osservare, che
per le controversie di questa natura po . tevano servire le anteriori legis
actiones ( 1). Ricomponendo tuttavia questi pochi indizii col resto , che
sappiamo delle legis actiones, si possono ricavare alcune importanti illazioni.
È certo anzitutto , che la condictio non era del tutto nuova, nè quanto al
nome, nè quanto alla sostanza , e non è punto improbabile , che fosse una
imitazione della condictio, propria della procedura inter cives et peregrinos.
Essa poi fu accolta nel sistema delle legis actiones per le controversie, che
volgevano o intorno ad una certa pecunia o intorno ad una certa res: quindi,
riguardando obbliga zioni relative ad un certum , essa dovette restringere il
dominio della (1) Gaio, IV, 17 a 20. Quanto alla stipulatio et restipulatio
tertiae partis essa non è accennata nel testo mutilato di Gaio , relativo alla
legis actio per condictio nem ; ma noi possiamo indurne la esistenza da ciò ,
che egli dice altrove, IV , 13 , che questa stipulatio et restipulatio tertiae
partis faceva parte dell’qctio certae cre ditae pecuniae propter sponsionem .
Ora l'actio certae creditae pecuniae, nel sistema formolario, succedette alla
legis actio per condictionem : quindi se essa ritiene questo carattere, che
certamente sa di antico , e richiama sott'altra forma la scommessa del
sacramentum , dovette certo ereditarlo dalla medesima. È poi lo stesso Gaio, IV
, 20, che accenna ai dubbi fra i giureconsulti circa il motivo, per cui fu
introdotta questa nuova legis actio. 574 actio sacramento, anzichè quello della
iudicis postulatio, la quale era propria delle controversie di carattere
indeterminato . Per tal modo la condictio si presenta come una semplificazione
dell'actio sacramentu ; abolisce tutta la parte mimica del sacramentum ;
sostituisce, quanto alle obbligazioni aventi per oggetto un certum , il giudice
singolo al tribunale popolare dei centumuiri; infine sur . roga alla scommessa
, che andava a beneficio dell'erario, la sponsio et restipulatio tertiae partis
, che va invece a benefizio del vinci tore delle lite ( 1 ). 441. Quanto alla
causa storica , che può aver determinata questa semplificazione nella procedura
relativa alle obbligazioni di un certum , essa deve certamente essere cercata
in qualche importantissima tra sformazione, che dovette avverarsi nell'epoca
della lex Silia e Calpurnia , quanto alle obbligazioni di carattere quiritario.
Qui per tanto viene ad aprirsi un largo campo alle congetture ; ma è possi bile
di giungere a qualche risultato probabile, se si tenga dietro al processo
storico del ius quiritium nella parte relativa alle obbli gazioni. A questo
proposito si è dimostrato a suo tempo , che la forma primitiva
dell'obbligazione ex iure quiritium fu quella del l'atto per aes et libram ,
che pigliava il nome di nexum . Colla medesima il debitore sottoponeva
senz'altro la sua persona a tutti i rigori della manus iniectio , per il caso
che non avesse soddisfatto il suo debito a scadenza. In questa parte però il
ius quiritium subi una trasformazione profonda, allorchè la lex Poetelia tolse
di mezzo gli effetti speciali del nexum , negando al medesimo l'efficacia di
un'esecuzione immediata contro la persona del debitore. Da quel momento il
nexum cessò di costituire quell'ingens vinculum fidei che prima era, e cominciò
a cadere in disuso ; ma sottentrarono in suo luogo e vece altri modi,
esclusivamente proprii dei cittadini romani, per assumere l'obbligazione di una
certa pecunia , o di una certa res, quali furono ad esempio la sponsio o
stipulatio, la ex pensi latio o litteris obligatio , o infine la mutui datio,
di cui formano oggetto quelle cose « quae numero, pondere acmensura constant »
. Per tutte queste obbligazioni di un certum , non essendo più consentita la
immediata manus iniectio , che un tempo era con (1) Cfr. in proposito Keller ,
Op. cit., pag. 62 e 63; e il BuonAMICI, Proc. civ. rom ., 1, 52 e segg . 575
sentita per il nexum , non poteva più esservi altra procedura, che quella
dell'actio sacramento , la quale, per il pericolo, che vi era inerente, non
poteva a meno di riuscire grave per i creditori di una somma o cosa certa , il
cui credito risultava in modo solenne da atti riconosciuti dal diritto civile .
Si comprende pertanto, che prima la lex Silia , per una certa pecunia , e poi
la lex Calpurnia , per ogni certa res, abbiano sostituita all’actio sacramento
la legis actio per condictionem , in cui evvi ancora un vestigio dell'antica
scommessa nella sponsio et restipulatio tertiae partis, la quale tuttavia non
va più a benefizio dell'erario, ma è un compenso e come un indennizzo per il
vincitore ed una pena per il soccom bente (1 ). Siccome poi nel diritto romano
ogni istituto , che riesce a pene trare nella compagine di esso , ben presto si
rivendica il posto , che gli compete, e riceve tutto lo sviluppo, di cui può
essere capace; così la condictio , appena fu ammessa come legis actio, essendo
più semplice , più spedita , meno pericolosa dell'actio sacramento, fini per
richiamare a sè stessa tutte le controversie relative all'obbli gazione di un
certum , mentre l'actio sacramento si circoscrisse a tutte quelle controversie
, che hanno il carattere di una vindicatio , intesa in largo senso . Di qui
consegui col tempo, che il vocabolo di condictio , nel linguaggio giuridico,
divenne pressochè sinonimo di actio in personam , mentre l'actio sacramento
finì per significare di preferenza l'actio in rem o la vindicatio . Ha quindi
tutte le ragioni Gaio di accusare di improprietà l'uso , che facevasi ai suoi
tempi, del vocabolo di condictio per indicare l'actio in personam , poiché
l'essenza della primitiva condictio non consisteva tanto nel dari oportere,
quanto piuttosto nella denuntiatio diei; ma ciò punto non toglie, che di fatto,
in virtù di un lungo processo storico, verifica tosi nel sistema delle legis actiones,
l'actio sacramento si fosse ri dotta alle sole vindicationes, mentre la
condictio era in sostanza divenuta la forma, sotto cui facevansi valere tutte
le actiones in (1) V. il cap . prec., $ 2 , relativo al nexum , n ° 376 , pag .
484 e sogg ., ove trattasi appunto del comparire della mutui datio e della
stipulatio, in surrogazione del nexum primitivo, che andava in disuso. Anche il
MUIRHEAD, Op. cit ., pag. 226 a 235, 80 stiene un'opinione analoga a quella
proposta nel testo, come lo dimostra il fatto, che egli tratta
contemporaneamente della introduzione della stipulatio e della legis actio per
condictionem . Ho però già notato, come quest'autore ritenga col Leist la
stipulatio come importata dalla Grecia, opinione che non credo da ammettersi. 576
personam , e quindi realmente veniva ad essere come un sinonimo dell'actio in
personam (1 ). 442. Intanto dalle cose premesse può esser ricavato il seguente
svolgimento storico della procedura contenziosa nel sistema delle legis
actiones. Le due procedure più antiche, le quali rimontano probabilmente ad
epoca anteriore alla fondazione stessa della città , sono l'actio sacramento e
la reciperatio. Quella è la procedura , che fu accolta come esclusivamente
propria dei quiriti, per le questioni di carat tere quiritario , e quindi negli
inizii dovette essere la legis actio fondamentale del ius quiritium , nello
stretto senso della parola ; questa invece si applicò nei rapporti inter
peregrinos ed anche in quelli inter cives et peregrinos. Siccome però nella città
di Roma era continuo l'attrito fra i cives ed i peregrini, e l'una e l'altra
procedura seguiva davanti allo stesso magistrato, così ne venne, che le due
procedure finirono per esercitare scambievole influenza l'una sull'altra ;
cosicchè col tempo le forme più semplici e spedite della procedura inter cives
et peregrinos finirono talvolta per es sere trasportate ed accomodate alle
esigenze del diritto civile romano. Così, ad esempio , allorchè fra i
cittadini, accanto alle vere lites di carattere quiritario, che per la
precisione ed esattezza di questo diritto , potevano risolversi affermando o
negando, si svolsero delle questioni di carattere più indeterminato , che
chiamavansi piuttosto iurgia , accanto all’actio sacramento , che continuò ad
essere l'a zione tipica del ius quiritium , cominciò a svolgersi la iudicis po
stulatio , la quale fini colla legislazione decemvirale per entrare eziandio
nel novero delle legis actiones. Per tal guisa le controversie, che hanno per
oggetto un certum , si trattano coll'actio sacramento ; quelle invece, che
riguardano un incertum , dånno argomento alla iudicis postulatio. Ognuna poi di
queste due legis actiones fini ( 1) Gaio , IV , 18 , dopo aver detto, che
l'essenza dell'antica legis actio per condi ctionem consisteva nella
denuntiatio diei, aggiunge: « nunc vero non proprie con dictionem dicimus
actionem in personam , qua intendimus dari oportere ; nulla enim hoc tempore eo
nomine denuntiatio fit o . Egli aveva ragione dal suo punto di vista , perchè
l'essenza dell'actio in personam ai suoi tempi stava non più nella denun tiatio
diei , ma nel dari oportere ; ma storicamente lo scambio della parola si era
operato, perchè nel sistema delle legis actiones la condictio era divenuta la
forma, sotto cui si proponevano tutte le actiones in personam aventi per
oggetto un certum . · 577 per subire una suddistinzione. Quando infatti,
accanto all'actio sa cramento, penetrd la condictio, la prima fini per
restringersi alle vindicationes, e questa invece attirò a sè tutte le actiones
in per sonam , che avessero per oggetto un certum , e divenne quasi si nonimo
di actio in personam . Cosi pure, allorchè nel diritto civile romano penetrd in
parte la considerazione dell'aequitas e della bona fides, nel seno della
iudicis postulatio si operd pure una distinzione; poichè essa potė dar luogo o
alla nomina di un giudice o a quella soltanto di un arbitro, secondo la
larghezza maggiore o minore dei poteri, che era loro affidata
nell'apprezzamento della causa e nel tener conto delle considerazioni di equità
. Intanto però , mentre si avverava questo svolgimento storico, è probabile,
che tanto la iudicis postulatio quanto la condictio, almeno in parte, abbiano
imitate delle procedure, che già si applicavano nei rapporti inter cives et
pere grinos . Fu in questa guisa, che, già sotto la veste ferrea delle legis
actiones, si vennero preparando tutte quelle distinzioni di actiones , che
poterono poi acquistare un libero svolgimento col sistema delle formulae. Tali
sono le distinzioni fra la vindicatio e la condictio ; fra l'actio in rem e
l'actio in personam ; fra le actiones stricti iuris e bonae fidei; fra le
actiones certae e le incertae ; fra l'actio nes in ius conceptae e le actiones
in factum . Si può quindi conchiudere , che anche in tema di procedura tutte le
varietà e di stinzioni delle azioni sembrano procedere da un'unica forma tipica
, che è quella dell’actio sacramento , la quale fu il nucleo centrale, intorno
a cui si svolse la procedura contenziosa dell'antico diritto ; ma che accanto alla
medesima fin dai primi tempi fuvvi la recipe ratio per le controversie inter
cives et peregrinos, dalla quale do vettero essere mutuate certe procedure più
semplici, come quella della condictio. Fu poi eziandio in questa procedura, che
doveva essere applicata dal praetor peregrinus, che cominciò a prepararsi quel
concetto del ius gentium , e quel sistema delle formulae, che esercitarono poi
tanta influenza sul diritto civile romano. $ 3 . Lo svolgimento storico della
procedura esecutiva nel sistema delle legis actiones. 443. Mentre nella
procedura contenziosa l'antico diritto cerca di mantenere la più rigorosa
imparzialità fra i contendenti, esso invece apre l'adito ad una procedura ben
più decisiva, allorchè la G. CARLI, Le origini del diritto di Roma . 37 578
lotta fra i contendenti giunse al suo termine, e trattisi di proce dere
all'esecuzione contro il soccombente . Anche il linguaggio giu ridico sembra
allora richiamare un'epoca di privata violenza , in cui ciascuno era vindice
del proprio diritto , e noi veniamo cosi a tro varci di fronte alla manus
iniectio e alla pignoris capio, di cui quella sembra avere il carattere di una
esecuzione contro la per sona del debitore, e questa invece il carattere di una
pignorazione privata contro i beni del medesimo. È tuttavia facile lo scorgere
, che nella procedura quiritaria si preferisce nell'esecuzione di procedere
contro la persona del debitore, anzichè contro i beni del medesimo. Infatti
nell'antico diritto il modo generale di esecuzione per le ob bligazioni viene
ad essere la manus iniectio , che è diretta appunto contro la persona ; mentre
la pignoris capio riveste in certo modo il carattere di un privilegium , e
viene così ad essere ristretta a pochissimi casi , che furono specificamente
introdotti o dalla legge o dal costume, e determinati dalla natura del credito
(1 ). Intanto nell'una e nell'altra procedura già apparisce evidente , che se i
vocaboli richiamano ancora l'uso della forza, questa perd viene già ad essere
regolata dall'impero della legge ; poichè è questa che determina i varii casi,
in cui può ricorrersi all'uno od all'altro modo di esecuzione. 444.
Incominciando dalla manus iniectio , noi troviamo che la medesima, nel
primitivo ius quiritium , compare sotto forme diverse, che vogliono essere tenute
ben distinte fra di loro. Una prima forma di essa era la manus iniectio, a cui
poteva appigliarsi il padrone col servo, che avesse cercato di sottrarsi al suo
potere, e questa era una conseguenza della podestà del padrone sul servo , di
cui rimasero le traccie nella vindicatio in servitutem . Un'altra forma era
quella invece, a cui dava origine l'obbligazione solenne del nexum , in base a
cui il debitore, che non pagava a sca denza, poteva, anche senza l'intervento
del magistrato , essere trasci nato nella casa del debitore, e quivi essere
ridotto a condizione pressochè servile, fino a che non avesse soddisfatto il
proprio debito . ( 1) Vuolsi qui aggiungere , che Gaio , IV . 29, accenna
perfino al dubbio surto fra i giureconsulti, relativamente alla natura della
pignoris capio, che alcuni ritenevano non essere una legis actio, in quanto che
la medesima, sebbene si compiesse certis verbis, a differenza tuttavia delle
altre legis actiones, extra ius peragebatur, e poteva perfino compiersi in
giorno nefasto. 579 Questa manus iniectio rimonta certamente ad epoca anteriore
alla legislazione decemvirale, ed era una conseguenza del rigore della
primitiva obbligazione quiritaria, contratta colle formedell'atto per aes et
libram . Questa fu quella manus iniectio, la quale, applicata sopratutto nei
rapporti coi debitori plebei, diede origine a quelle dis sensioni civili, a
proposito dei nexi, a cui cercò di porre termine la lex Poetelia nel 428 di
Roma. Essa però non era ancora una vera legis actio , in quanto che non
fondavasi sulla legge, ma derivava direttamente dal rigore dell'obbligazione
quiritaria , assunta colle forme del nexum , nella quale la volontà manifestata
dalle parti co stituiva legge, ed implicava la condanna del debitore . Havvi
infine quella manus iniectio , che occorre nella legislazione decemvirale e che
costituisce un modo generale di esecuzione contro coloro , che avessero
confessato il proprio debito (aeris confessi), o che avessero subita una
condanna giudiziale per il pagamento di una determinata somma (iudicati vel
damnati). A mio avviso , è solo a quest'ultima, che Gaio attribuisce il
carattere di una vera legis actio , e che egli indica col nome di manus
iniectio iudicati, sive damnati (1 ). La severità inumana, a cui poteva
giungere la procedura della (1) Gaio , IV , 21. L'opinione espressa nel testo
fondasi sulla considerazione, che Gaio restringe evidentemente la legis actio
per manus iniectionem ai casi « de quibus, ut ita ageretur, lege aliqua cautum
est » , e si limita a fare una rassegna storica delle varie leggi, le quali,
incominciando dalle XII Tavole,avrebbero consentito questo mezzo di esecuzione
. Nella sua esposizione pertanto non si accenna più a quella rigorosa procedura
, di origine pressochè contrattuale, a cui dava origine il primitivo nexum ;
tanto più che la medesima era andata in disuso fin dal tempo, in cui la lex
Poetelia aveva tolte di mezzo le conseguenze speciali del nexum . Non mi sembra
quindi il caso di voler forzare le espressioni di Gaio per far entrare i nexi
nella espressione dei iudicati o dei damnati, adoperata da Gaio. Piuttosto i
nexi dell'antico diritto potevano ritenersi compresi negli aeris confessi delle
XII Tavole, dei quali non era più il caso che Gaio si occupasse ; poichè, se
con quel vocabolo si intendevano gli obbligati col nexum , le disposizioni
delle XII Tavole erano state abrogate, e se si intendevano gli in iure
confessi, non era il caso di farne una categoria speciale di fronte al
principio:« in iure confessus pro iudicato habetur » . Questa opinione intanto
si differenzia da quella di coloro, che vorrebbero compren dere i nexi nei
damnati, di cui parla Gaio, fra i quali il MUIRHEAD, op . cit., p. 205, e da
quella eziandio di coloro, che appoggiati al testo di Gajo, il quale non parla
dei nexi, vorrebbero escludere gli obbligati col nexum dalla procedura della
manus iniectio, e porre imedesimi nella condizione di tutti gli altri debitori,
come il Voigt, I, 626, e il Cogliolo , nelle note al PADELLETTI, Storia del
dir. rom ., pag . 328, il quale pure ha adottato l'opinione del Voigt. 580
manus iniectio, fu probabilmente una delle cause , per cui la me desima col
tempo diventò oggetto di investigazione curiosa per gli stessi autori latini, i
quali ebbero cosi occasione di tramandarci le espressioni testuali delle XII
Tavole a questo riguardo (1) . Allorchè altri aveva subito condanna per un
proprio debito , gli era prima consentita una specie di tregua (velut quoddam
iustitium ), che durava trenta giorni, in cui doveva avvisare almodo di pagare
il debito (conquirendae pecuniae causa ). Trascorsi i medesimi senza che egli
pagasse , il creditore poteva porre sopra di lui la sua manus, condurlo davanti
al magistrato , e quivi pronunziare la formola solenne della manus iniectio ;
né al debitore era lecito di depellere manum a se, né di agere lege pro se, ma
solo poteva nominare un vindex , che facesse valere le sue ragioni, dando
sicurtà per il processo e per l'eventuale pagamento del doppio nel caso in cui
vincesse l'attore. Intanto il creditore po teva condurre il debitore nel suo
carcere privato, e quivi metterlo in catene, con scelta al debitore di
alimentarsi del suo o di lasciarsi alimentare dal creditore. Questo arresto
durava sessanta giorni, e negli ultimi tre giorni di mercato , compresi in questo
spazio di tempo, il creditore doveva condurlo di nuovo davanti al magistrato, e
far pubblica la somma da lui dovuta accid qualcuno potesse pagare per lui. Che
se anche allora non si fosse fatto il pagamento , il creditore poteva ucciderlo
0 venderlo al di là del Tevere (capite poenas dabat, aut trans Tiberim venum
ibat) ; ed anzi, se più fossero i creditori, veni vano le famose espressioni
conservateci da Gellio : « partis se canto : si plus minusve secuerunt, se
fraude esto » . (1) L'autore , che ci ha serbata più particolare notizia della
procedura esecutiva nell'antico diritto, conservandoci perfino le parole
testuali della legge , è Gellio , Noc. Att., XX, 1, $ S 41, 51, dove introduce
il giureconsulto Sesto Cecilio Africano e il filosofo Favorino, a discutere
intorno ad alcune singolari disposizioni del primitivo diritto : interessante
discussione , poichè da una parte abbiamo il giureconsulto, che, riportandosi
alle opportunità dei tempi, cerca di scusare il vigore dell'antico diritto , e
dall'altra abbiamo il filosofo , il quale, a nomedella ragione, viene combat
tendone quelle disposizioni, che il tempo aveva fatto apparire o irragionevoli
od inumane. Intanto, a questa discussione poi dobbiamo la maggior parte di
quelle te stuali disposizioni delle XII Tavole, che a noi siano pervenute, le
quali composte insieme colle informazioni dateci da Gaio, IV, 21, ci porgono le
fattezze primitive della manus iniectio . 531 445. Si comprende come
l'enormezza del potere, che la legge qui accordava al creditore, abbia lasciati
increduli gli antichi ed anche i moderni. Di qui il tentativo recente del Voigt
di interpre tare la legge nel senso, che il capite poenas dabat significasse la
riduzione in schiavitù del debitore, e che il partis secanto si rife risse alla
ripartizione del prezzo ricavato dalla vendita, per il caso in cui fossero più
i coeredi del creditore (1) . Certo è, che se noi avessimo soltanto il testo
della legge, questo potrebbe forse consen tire questa interpretazione, punto
non ripugnando che la legge at tribuisse a quei vocaboli una significazione
giuridica, anzichè lette rale : ma noi, oltre al testo della legge, abbiamo
anche il commento , che vi diedero gli antichi, e questo è tale da escludere
qualsiasi interpretazione più benigna. Noi troviamo infatti presso Gellio , che
il giureconsulto Sesto Cecilio , pur tentando di spiegare il rigore della
legge, punto non accenna alla possibilità di tale interpretazione; ma dice
invece , che i primitivi legislatori, nell'intento di tutelare la fede nei
negozii privati, avrebbero introdotta una pena, che per la propria immanità non
poteva essere applicata , come in effetto non lo era mai stata (2 ). ( 1)
Voigt, XII Tafeln , II, pag . 361. Egli, ciò stante, nella ricostruzione della
legge 8 della Tav. III , aggiungerebbe alle parole serbateci da Gellio : «
Tertiis nundinis, partis secanto » le parole « si coheredes sunt » : il che
vorrebbe dire, che se il debitore era domum ductus da uno dei suoi creditori,
egli non poteva più es sere soggetto alla manus iniectio degli altri; ma
intanto se fossero stati più i coe redi del creditore, che l'aveva domum
ductus, i medesimi potevano , in base alle XII Tavole, procedere contro di lui
soltanto per la quota loro spettante di credito, e perciò dovevano chiedere il
riparto della somma loro dovuta. Certo la supposizione è ingegnosa ; ma è
difficile di persuadersi, che una espressione larghissima, quale sa rebbe
quella di Gellio, possa restringersi ad un caso abbastanza speciale , qual sa
rebbe quello posto innanzi dal Voigt. ( 2) Questa interpretazione letterale
della legge, di cui si tratta , non sarebbe solo attribuita alla medesima da
Gellio XX , 1 , 50 , ma eziandio da Quintil., Instit. or., III, 6 , 84 , e da
TERTULL., Apol., 4 ; ma con parole alquanto vaghe, e coll'ag giunta ,pur fatta
da Gellio, loc. cit., $ 51, che la storia non ricordava alcun caso di sectio
corporis: «dissectum esse antiquitus neminem equidem neque legi,neque audiri »
, Parmi poi, che un argomento per questa letterale interpretazione siavi eziandio
in quell'altra disposizione delle XII Tavole, secondo cui: « si membrum rupit,
ni cum eo pacit, talio esto » ; ove compare in certo modo la stessa tendenza di
accordare a colui, che ha subìto un danno per colpa di un altro , una potestà
corrispondente sul corpo di lui. Questa letterale interpretazione ebbe pure ad
essere sostenuta, col sus sidio della giurisprudenza comparata, dal Kohler ,
das Recht als Culturerscheinung, Vürzburg 1884 , pag. 17 e segg. , il cui brano
relativo è riportato dal MUIRHEAD , 582 Non può quindi essere il caso di dare
alla legge una significa zione diversa da quella , che vi attribuirono gli
antichi, ma piuttosto di cercare, come mai i decemviri abbiano potuto giungere
ad una disposizione di questa natura . Tale spiegazione , a parer mio , non
deve essere cercata tanto nella rozzezza dei costumi romani, quanto piut tosto
in quella logica inesorabile, di cui già sonosi trovate le traccie nelle varie
parti del ius quiritium , e sopratutto nel rigoroso con cetto, che questo diritto
ebbe a formarsi dell'obbligazione personale. Al modo stesso che il diritto
quiritario, nella sua logica rude, trat tandosi del dominio, immedesimò in
certo modo la cosa , oggetto della proprietà , colla persona a cui essa
appartiene : così pure esso, nel concepire il diritto di obbligazione , vide
nel medesimo un vincolo strettamente personale, che stringe pressochè
materialmente il de bitore al suo creditore (nexum ), senza punto preoccuparsi
dei beni, che appartenessero a quest'ultimo. Se quindi il debitore condannato
non soddisfi il debito, la logica del diritto primitivo non si appiglierà
all'espediente di ripiegarsi sovra i beni del debitore, ma procederà diritta
per la sua via, e verrà così aggravando i mezzi di coazione contro il debitore
che non paga,nell'intento di forzarlo ad eseguire il pagamento . Che se le
coazioni di carattere giudiziale od estragiu diziale non bastino, questa logica
primitiva, fissa nel carattere esclu sivamente personale dell'obbligazione,
potrà anche giungere fino al l'estremo di accordare al creditore il diritto di
vendere o di uccidere il debitore, al modo stesso , che attribuisce al
proprietario la facoltà di distruggere la cosa, che gli appartiene (ius
abutendi). È tuttavia evidente, che l'antico diritto , accordando simili
diritti al creditore contro il debitore condannato, non intende tanto di
accordargli un diritto reale ed effettivo , quanto piuttosto di attribuirgli
efficaci e potenti mezzi di coazione. Ciò è dimostrato da tutta la procedura
op. cit., Appendix a nota 5, pag . 446 e 447. Lo stesso Kohler già erasi
occupato della questione nel « Shakespeare vor dem Forum der Jurisprudenz » ,
Vürzburg 1884, di cui può vedersi un largo resoconto del GIRARD nella «
Nouvelle revue historique » 1886 , p. 226 a 240. A compimento di questa notizia
ricorderò anche la interessante dissertazione dell'ESMEIN, Débiteur privé de
sépulture, nei « Mélanges d'histoire de droit », pag. 244 e 266 , ove il
diritto del creditore prende un altro singolare svolgimento, quello cioè di
porre un sequestro sul cadavere del debitore, e di rifiutare al medesimo il
riposo della tomba, finchè i congiunti o gli amici non ne abbiano pagato il
debito . Qui la coazione adoperata s'appoggia sull'opinione po polare, che
l'anima del debitore non trovi riposo, finchè il suo corpo non riposi nella
tomba . 583 della manus iniectio , dalla necessità nei varii stadii della
medesima della presenza del magistrato , dall'obbligo imposto al creditore di
far pubblico il suo credito e di esporre sul mercato la persona del debi tore ;
ed è questo il concetto , che ebbe ad esprimere, presso Gellio , il
giureconsulto Sesto Cecilio dicendo che i decemviri: « eam capitis poenam ,
sanciendae fidei gratia , horrificam atrocitatis ostentu , novisque terroribus
metuendam reddiderunt » . Che anzi, prendendo alla lettera l'espressione delle
XII Tavole, nella parte , che si riferisce alla spartizione ; del corpo del
debitore , essa appare perfino di im possibile attuazione, poichè vien
dichiarato in frode il creditore, che tolga dal corpo del debitore una parte
maggiore o minore diquella che gli sia dovuta , il che confermerebbe eziandio
l'altra espressione dello stesso giureconsulto, secondo cui: « eo consilio
tanta immanitas poenae denuntiata est, ne ad eam perveniretur » . Del resto non
è questo il solo esempio di questa logica astratta , propria del diritto
primitivo, che talora si spinge fino a tale da non essere quasi più applicabile
nel fatto. Il diritto infatti del creditore sul corpo del de bitore trova un
riscontro nel diritto al talione, spettante a colui, di cui fosse stato rotto
un membro: talione che, secondo l'osservazione da Gellio attrituita al filosofo
Favorino (1), non poteva essere più fa cilmente eseguito che la spartizione del
corpo del creditore in propor zione dei crediti. Cosi pure esso ha un altro
riscontro nel ius vitae et necis, che giuridicamente parlando spetta al padre
sui figli, al ma rito sulla moglie, al padrone sullo schiavo , ancorchè in
questa parte sia certo, che il rigore del diritto trovava dei temperamenti nel
pub blico e nel privato costume. Non è quindi il caso di inferire da queste
disposizioni l'esistenza di costumi antropofagi presso i ro mani (2); ma
soltanto di scorgere in ciò una nuova prova, che il loro ius quiritium ,
essendo il frutto di una elaborazione giuridica , la quale mirava ad isolare
l'elemento giuridico da ogni elemento estraneo , fini per essere governato da
una logica inesorabile, che tal volta appare non solo inumana, ma perfino
inapplicabile nel fatto. (1) Dice infatti Favorino presso Gellio , XX , 1 , 15
: « praeter enim ulciscendi « acerbitatem ne procedere quoque executio iustae
talionis potest; nam , cui mem « brum ab alio ruptum est, si ipsi itidem
rumpere per talionem velit, quaero , an « efficere possit rampendi pariter
membri aequilibrium ? in qua re primum ea dif « ficultas est inexplicabilis » .
(2) È il KOHLER, op. e loc. cit., il quale dice scherzevolmente, che alla lista
delle ipotesi escogitate per spiegare questa disposizione, ne manca una sola ,
quella cioè che gli antichi Romani siano stati degli antropofagi. 584 . 446.
Dal momento poi che il primitivo ius quiritium , nella sua procedura di
esecuzione, aveva preso di mira piuttosto la persona del debitore, che non i
beni, che ne costituivano il patrimonio , si comprende, che esso , nella sua
perseveranza tenace, abbia stentato più tardi ad abbandonare la via , che aveva
prima seguito . Noi tro viamo infatti, che nel posteriore svolgimento della
procedura esecu tiva in Roma, mentre il diritto civile nello stretto senso
della pa rola continuò sempre a dirigersi contro la persona, anzichè contro i
beni del debitore, fu invece il ius honorarium , il quale soltanto molto più
tardi riusci ad organizzare una procedura esecutiva contro i beni, che
costituivano il patrimonio del debitore. L'una e l'altra circostanza è
abbastanza comprovata dalle atte stazioni di Gaio . Questi infatti, parlando
delle legis actiones, ci fa assistere allo svolgimento storico della manus
iniectio nel diritto civile di Roma, dimostrando, come, sul modello della manus
iniectio iudicati, altre leggi abbiano introdotto una manus iniectio pro iu
dicato , ed altre abbiano poi dato occasione ad una manus iniectio pura, la
quale, a differenza delle altre due , non impediva che il debitore potesse manum
a se depellere et lege agere pro se, senza ricorrere all'opera di un vindex .
Posteriormente poi una legge Vallia avrebbe ristretto di nuovo i casi, in cui
non potevasi manum de pellere e pro se lege agere, a quei due, che primierano
stati in trodotti, in cui si agiva o in base a un giudicato , o contro una per
sona per cui altri aveva dovuto pagare qual sicurtà : del che, secondo Gaio
rimase una traccia anche dopo l'abolizione delle legis actiones in ciò , che
anche ai suoi tempi colui, col quale si agisce in base a un giudicato o per
aver pagato per esso, « iudicatum solvi satisdare cogitur » ( 1). Lo stesso
Gaio poi, sebbene alla sfuggita, dice altrove , che l'introduzione della
bonorum venditio soleva essere attribuita a Publio Rutilio , il quale dovette
essere Pretore nel 647 di Roma, e noi sappiamo, che è appunto con questa
bonorum venditio , che si introdusse in Roma un concorso fra i creditori, non
dissimile da quello , che ora ha luogo nella procedura per fallimento (2 ). Fu
solo più tardi, che anche il diritto civile , per mezzo della lex Iulia de (1)
Gaio, IV , 21 a 25. È notabile infatti come Gaio in tutta la sua esposizione
della procedura esecutiva non accenni mai alla esecuzione sui beni del debitore
. (2 ) Gaio, IV , 35. Quanto a questa procedura contro i beni , vedi KELLER ,
Iі processo civ . rom ., $ 83, pag. 307 e segg., e quanto alle analogie, che
questo con corso dei creditori presenta col fallimento, cfr . Montluc, La
faillite chez les Romains. - - - 585 cessione bonorum , accordo al debitore il
mezzo di evitare l'esecu zione personale , ricorrendo alla cessio bonorum : ma
anche allora questa cessio bonorum dovette essere consentita dallo stesso debi
tore , e costitui in certo modo un benefizio , che gli venne accordato per
cansare la esecuzione personale e per evitare anche l'infamia , da cui questa
era accompagnata . Quindi neppur questa legge aboli intieramente l'esecuzione
contro la persona, ma piuttosto fece in guisa, che essa cadesse in disuso,
essendosi introdotto un mezzo per liberarsi da essa . 447. Parmi poi, che
questa preferenza indiscutibile del ius qui ritium per la esecuzione contro la
persona del debitore, anzichè contro i beni spettanti al medesimo, sia stata
eziandio la ragione, per cui si mantenne in così ristretti confini
l'applicazione della pi gnoris capio. Essa infatti si ridusse ad essere un
privilegio per crediti di origine militare (aes militare, hordearium ,
equestre), e per crediti di origine religiosa (il prezzo di un hostia e il nolo
di giumento allo scopo di un sacrificio , in dapem ). Un solo caso di pignoris
capio lascið traccie durature nella storia delle istituzioni giuridiche, e fu
quello introdotto da una lex praediatoria o cen soria , a favore degli
appaltatori delle imposte, sui fondi che erano gra vati dalle medesime :
privilegio di carattere fiscale, che ha un'ana logia incontrastabile col
privilegio generale sugli immobili, che ancora oggidi spetta al fisco per le
imposte dirette. Intanto però sta sempre il concetto , che nel diritto
primitivo di Roma è la persona, che risponde direttamente delle proprie obliga
zioni, e che la missio in bona deve ritenersi soltanto introdotta dal pretore .
Che anzi è degno di nota , che anche questa procedura sembra negli inizii
essersi forse introdotta fuori di Roma, come lo dimostra il fatto , che noi la
troviamo descritta dapprima nella lex Rubria de Gallia Cisalpina ( 1). Una
ragione di questa preferenza (1) Quanto all'origine pretoria dell'esecuzione
contro i beni, vedi eziandio LENEL, das Edictum perpetuum , pag. 340. La lex
Rubria , XXII , 25 (Bruns, Fontes, pag. 99 ) attribuisce la facoltà di
accordare questa missio in bona al solo pretore della città di Roma, come lo
dimostrano le seguenti parole della legge « Praetor , « isve qui de eis rebus
Romae iure dicundo praeerit, in eum et in heredem eius de « eius rebus omnibus
ius deiicito , decernito, eosque dari bona eorum , possideri, « proscribique
venire iubeto, etc. » Cfr. WLASSAK, Röm . Processegesetze, pag. 94 e segg. 586
dell'antico diritto per la persona, anzichè per i beni del debitore, non
potrebbe essa trovarsi nella considerazione, che tutto il primitivo ius
quiritium ebbe ad essere modellato sul concetto fondamentale del quirite, in
quanto era considerato come una individualità integra e completa sotto l'aspetto
giuridico , la cui parola dava origine al nexum , e la cui volontà costituiva
una legge , cosi nei negozii tra vivi come nel testamento ? Non abbiamo anche
in questo una conse guenza dal punto speciale di vista , a cui eransi collocati
i model latori dell'antico diritto ? § 4 . Alcune considerazioni sulla
influenza delle legis actiones sulla formazione del diritto civile romano .
448. Basta ora ricomporre insieme queste varie parti della pro cedura romana e
metterle in movimento ed in azione, per compren dere come il sistema delle
legis actiones , anzichè essere , come vorrebbero taluni, un complesso di
solennità , escogitate dallo spirito sottile e formalista dei Romani, sia stato
invece il mezzo più po tente ed efficace ,mediante cui venne preparandosi
l'elaborazione del diritto civile romano. Le legis actiones furono, per cosi
esprimerci, il crogiuolo mediante cui l'obbiettività giuridica del fatto umano
potè essere isolata da tutti gli elementi estranei, ed essere ridotta cosi a
quello stato di purezza , che solo si rinviene negli scritti dei giureconsulti
romani. Siccome infatti ogni diritto , per poter affermarsi in giudizio, doveva
passare per lo strettoio della legis actio : cosi ne veniva , che con questo
sistema prima i pontefici nel modellare le legis actiones ; poscia le parti
nell'adattare alle medesime la loro controversia ; quindi il magistrato nel
determinare i termini, in cui tale contro versia dovesse essere giuridicamente
concepita ; infine i giudici, che dovevano di necessità restringere la loro
decisione al punto di que stione che era loro sottoposto , attendevano tutti ad
un medesimo lavoro , che era quello di spogliare una fattispecie da ogni
elemento etico o religioso, con cui si trovasse implicata , per ridurla ad una
configurazione e ad una formola esclusivamente giuridica . Siccome poi i
giudici della controversia , o erano tolti dalle varie classi o tribù, come i
centumviri e forse anche i decemviri, o scelti nel l'ordine dei senatori, come
i iudices selecti, o convenuti fra le parti, come gli arbitri, od anche scelti
in parte fra i peregrini, come i 587 recuperatores: cosi ne veniva, che
l'elaborazione del diritto in Roma era un'opera collettiva, a cui concorrevano
tutti gli ordini e tutte le classi, e che poteva perfino sentire l'influenza
del diritto e della procedura , che applicavasi dei rapporti fra i cittadini e
gli stranieri. Siccome parimenti tutto questo lavoro era unificato e coordinato
per opera del magistrato , che sovraintendeva all'amministrazione della
giustizia , ed era poi assecondato dall'opera dei giureconsulti , che venivano
racchiudendo in formole la varietà grandissima dei negozii giuridici ; cosi ne
venne, che in Roma fin dai suoi inizii si trovo sapientemente organizzato un
sistema di mezzi, il quale mirava ad isolare l'elemento giuridico del fatto
umano dagli elementi estranei, a consolidare le consuetudini fluttuanti in
forme determinate e pre cise, a richiamare le varietà dei fatti umani a certe
forme tipiche e generali. Fu in questo modo, che poterono scomparire i conten
denti e si sostituirono ai medesimi dei nomi convenzionali ( Aulus Agerius e
Numerius Negidius nelle formole processuali, Titius, Caius, Sempronius, etc. in
quelle contrattuali) ; che le contro versie particolari furono tutte richiamate
a certe forme generali ; e che intanto i concetti primordiali , da cui aveva
preso le mosse il diritto privato di Roma, poterono con una logica perseverante
e tenace essere spinti a tutte le conseguenze, di cui erano capaci. Fu quindi
sopratutto in Roma, che il diritto potè essere l'espressione della coscienza
giuridica di tutto un popolo, un elemento organico della vita sociale, il
frutto di un'elaborazione unica e varia ad un tempo, la quale obbedì
costantemente a quei processi, i quali, applicati prima dai pontefici,
passarono poscia al pretore ed ai giureconsulti, e non furono neppure
abbandonati sotto gli stessi imperatori. Per tal modo quel lavoro di selezione,
che erasi in Roma iniziato mediante le leggi, le quali, trascegliendo fra le
istituzioni delle varie genti, ne avevano ricavato un diritto tipico ,
esclusivamente proprio dei qui riti, e perciò chiamato ius quiritium , venne ad
essere eziandio proseguito nella interpretazione della legge e
nell'amministrazione della giustizia , le quali si sforzarono dapprima di fare
entrare nelle forme determinate dalla legge la varietà sempre crescente dei rap
porti giuridici, a cui dava occasione la convivenza cittadina, e vennero poi
gradatamente ampliando e differenziando le forme stesse , allorchè esse cominciavano
ad essere inadeguate ai bisogni, a cui trattavasi di provvedere. Per tal modo
il ius quiritium si allargd ed amplid nel ius proprium civium romanorum ;
poscia accanto a questo venne svolgendosi il ius honorarium , il quale pur
derogando al 588 ius civile ed assimilando nuovi elementi, li forza tuttavia ad
entrare in forme analoghe a quelle già preparate dal ius civile. È in questa
guisa , che il diritto romano, dopo essere stato la selezione più rigida
dell'elemento esclusivamente giuridico, che presentila storia , ed essere stato
una produzione esclusivamente propria del popolo romano, viene a poco a poco
attirando nella propria cerchia le considera zioni di equità e di buona fede,
assimilando quelle istituzioni delle altre genti, che potevano ricevere
l'impronta del genio giuridico di Roma, finchè non diventò tale da poter essere
comune a tutte le genti, che avevano somministrato i materiali, sovra cui erasi
venuto elaborando. Può darsi ed è anzi probabile, che i principii di questa
grande opera di selezione fossero dapprima inconsapevoli, come gli inizii di
tutte le opere umane, e fossero determinati dal modo di formazione della città
, e dal genio eminentemente giuridico dei fondatori di essa ; ma egli è certo
eziandio , che essa non tardd a cambiarsi ben presto in un'opera
consapevolmente voluta e proseguita per più di dodici secoli con una
perseveranza tenace, di cui non potrebbesi tro vare esempio, salvo forse nella
storia delle grandi religioni della umanità . Così, ad esempio, dell'importanza
delle legis actiones già dovette aver consapevolezza il patriziato romano,
allorchè, dopo avere in parte reso comune alla plebe il proprio diritto ,
continud tuttavia a riservare al collegio dei suoi pontefici la formazione
delle legis actiones, e la cambiò in un segreto di professione e di casta ;
come pure dovette averne coscienza anche la stessa plebe romana, come lo
dimostra la sua riconoscenza a Gneo Flavio, il quale, secondo la tradizione,
avrebbe resa di pubblica ragione le primitive legis actiones (1 ) 449. Questa
influenza poi del sistema delle azioni venne ad essere anche maggiore, allorchè
l'abolizione delle legis actiones e l'intro duzione del sistema delle formole
attribui da una parte almagistrato libertà maggiore nella concezione giuridica
delle varie fattispecie , e dall'altra gli porse eziandio il modo di introdurre
nuove azioni, accanto a quelle, che si fondavano direttamente sui termini della
legge. Fu in quest'epoca, che il medesimo, oltre al ius dicere, si (1) Pomp.,
Leg. 2 , § 7, Dig . (1, 2 ); Liv. IX , 46. Secondo la tradizione, Gneo Flavio
sarebbe stato dalla riconoscenza della plebe elevato alla dignità di tribuno
della plebe, di senatore e di edile curule. 589 trovò eziandio nella necessità
di edicere, ossia di pubblicare, entrando in ufficio, le norme, che avrebbe
applicate nell'amministrazione della giustizia ; che accanto ai iudicia
legitima si svolsero quelli imperio continentia ; che , accanto alle actiones
legitimae, quae ipso iure competunt, se ne formarono eziandio di quelle, quae a
praetore dantur. Da quel momento il pretore potè essere considerato come una
lex loquens, e venne in certo modo ad essere arbitro sovrano
nell'amministrazione della giustizia ( 1) . Tuttavia l'abolizione delle legis
actiones e la sostituzione del sistema delle formulae debbono essere intese
alla romana , il che vuol dire, che l'abolizione è soltanto parziale e non
impedisce la sopravvivenza dell'actio sacramento , come preliminare del centum
. virale iudicium e di quello damni infecti nomine, al modo stesso che
l'introduzione delle formulae, anzichè una rivoluzione, è piut tosto il
riconoscimento e l'adozione fatta per legge di una pratica, che doveva già
essersi prima introdotta nel fatto. È infatti proba bile, che il sistema delle
formulae già potesse esser applicato nella procedura inter cives et peregrinos
, nella quale non potevano essere applicate le legis actiones , e che in tal
guisa una procedura propria della recuperatio sia penetrata nel ius proprium
civium ro manorum , almodo stesso , che più tardi l'actio sacramento potè ezian
dio essere proposta davanti al praetor peregrinus (2 ). Che anzi, per esprimere
tutto il mio pensiero, riterrei, che il sistema delle formole fosse in certa
guisa già contenuto in germe nel sistema delle legis actiones . A quel modo,
che la stipulatio riducesi in sostanza alla parte nuncupativa del nexum , la
quale , liberata dalla solennità del l'atto per aes et libram , potè essere
adattata alla varietà dei negozii ( 1) Gaio, IV , 11, dice espressamente, che,
negli esordii di questo sistema di pro cedura, edicta praetorum nondum in usu
habebantur. Era quindi naturale, che quando questi furono introdotti, accanto a
quella parte di diritto , che fondavasi direttamente sulla legge, e che perciò
dava origine alle denominazioni di actus legi timi, actiones legitimae, iudicia
legitima, si svolgesse un diritto, che fondavasi in certo modo sull'autorità
del magistrato, e che, come tale, imperio continebatur, il quale finì poi per
essere compreso sotto il nome di ius honorarium . È poi Cic., pro Cluentio, $
3, 146 , il quale ebbe a dire, che siccome le leggi sono al disopra del
magistrato, e questo è al disopra del popolo, « vere dici potest magistratum
legem esse loquentem ; legem mutum magistratum . » . Quanto ai concetti di actio
legi tima e di iudicium legitimum , vedi WLASSAK, op. cit ., $$ 3 a 5 , pag. 31
e 57. ( 2) Sall'influenza del praetor peregrinus e dell'edictum provinciale sul
sistema delle formulae, v. Glasson, Étude sur Gajus, $ 12 , pag. 112. -. 590
giuridici: così la formola consiste essenzialmente in quei concepta verba , che
già occorrevano nella legis actio , salvo che questa verborum conceptio ,
liberata dalla parte mimica , da cui era ac compagnata, e da quel rigore di
termini (certis verbis), che era propria delle legis actio , potè acquistare
una duttilità e pieghevo lezza, che la prima non poteva avere. Noi trovammo
infatti , che già sotto la veste ferrea delle legis actiones, ogni modus agendi
aveva finito per abbracciare diverse azioni particolari, e che queste azioni
già avevano cominciato a distinguersi nelle actiones in rem in quelle in
personam , in quelle, che avevano per oggetto un certum od un incertum , e in
quelle , che davano origine ad un iudicium o ad un arbitrium . Or bene tutti
questi materiali, che ancora erano riuniti nella sintesi potente della legis
actio , si trovarono in certo modo abbandonati a se stessi, e si cambiarono in
altrettante azioni, autonome ed indipendenti, aventi un nome specifico , una
propria formola ed un proprio contenuto , e diedero cosi origine a quello
splendido ed opulento sviluppo, che ebbe ad avverarsi col sistema delle
formole. Quella libertà della formola , che sarebbe stata peri colosa negli
inizii della elaborazione giuridica , venne invece ad es sere opportuna, quando
questa era già iniziata ed abbastanza pro gredita ; poichè le prime formole,
essendo state preparate sotto la rigida disciplina delle legis actiones e del
ius pontificium , indica vano abbastanza la via , in cui doveva mettersi il
magistrato per continuare l'opera già incominciata. È questa la ragione, per
cui i pretori, malgrado la libertà apparente, che loro appartiene, sia di
introdurre nuove azioni, sia di modificare le formole già ricevute , procedono
in cið molto a rilento , ed amano piuttosto di ricorrere a finzioni e di
forzare cosi fatti ad entrare nelle forme ricono . sciute dal diritto, che non
di alterare le forme, che già furono ac colte dal diritto civile . Per tal modo
il nuovo trova sempre un addentellato nell'antico , anche allorchè mira ad
introdurre una modificazione al medesimo, e intanto ciò non impedisce , che una
parte di quel diritto, che viveva fluttuante pelle consuetudini, ac canto al
vero ius civile , si venisse ancor esso consolidando sotto forma di un ius
honorarium , che è pur sempre modellato sul primo. Così pure, nella opera
progressiva dei pretori succedentisi gli uni agli altri, potè manifestarsi uno
spirito di continuità, per cui le azioni ed eccezioni introdotte opportunamente
da alcuno di essi finirono per costituire un ius translaticium , che passava ai
succes sori, e serviva cosi a preparare i materiali, che raccolti e coordi 591
nati costituirono poi l'Editto perpetuo di Salvio Giuliano. In questa
condizione di cose appare ad evidenza l'importanza del sistema delle azioni,
poichè ogni progresso pratico della giurisprudenza romana viene ad esser
introdotto , o per mezzo di una nuova azione, che tuteli un diritto prima non
riconosciuto, o per mezzo di una ecce zione, che neutralizzi l'effetto di
un'azione già riconosciuta dal diritto civile . Allorchè poi un'azione è
accolta od un'eccezione è ammessa, essa viene ad essere come un centro, intorno
a cui si moltiplicano le formole per abbracciare l'infinita varietà delle
fattispecie, finchè si giunge a quella ricchezza di formole , a cui accenna
Cicerone, allorchè scrive : « sunt formulae de omnibus rebus constitutae, ne
quis aut in genere iniuriae aut in ratione actionis errare possit : expressae
sunt enim , ex uniuscuiusque damno, dolore, incommodo, calamitate, iniuria ,
publicae a praetore formulae, ad quas privata lis accomodatur » (1). Le formole
pertanto servirono anch'esse ad ampliare e a compiere quel lavoro di selezione,
che già erasi iniziato sotto l'impero delle legis actiones. Esse si accomoda
rono alle varie fattispecie ; isolarono l'elemento giuridico da ogni elemento
estraneo, gli elementi essenziali del fatto umano dalle cir costanze
accidentali : accolsero quelle aggiunte , che erano rese ne cessarie dalla
maggiore varietà dei negozii; riassunsero le varie fasi della controversia in
guisa da presentare come uno specchio ed un compendio dell'intiero giudizio .
Queste formole poi non furono qualche cosa di esclusivo alla pro cedura: ma
all'epoca stessa , in cui penetrarono in questa , si vennero eziandio esplicando
nei contratti , nei testamenti , nei legati , e in ogni altra parte del diritto
civile romano, e vi portarono cosi dap pertutto l'esattezza e la precisione del
linguaggio giuridico , non disgiunta da elasticità e pieghevolezza alla varietà
infinita dei ne gozii giuridici (2 ). È quindi facile il comprendere come
pontefici , pretori e giureconsulti, non abbiano creduto indegno del loro
ufficio l'attendere alla composizione delle formole, e come bene spesso l'in
venzione di una formola abbia reso celebre e tramandato fino a noi il nome di
un pretore o di un giureconsulto . Basta perciò aver presente l'importanza
grandissima e la larghissima applicazione, che ( 1) Cic, Pro Roscio, 4 , 5 a 9.
Cfr. WLASSAK, op . cit ., pag. 67. (2 ) Occorrono delle notevoli osservazioni
sulla importanza delle formole nel diritto civile romano presso il LABBÉ,
Préface all'ultima edizione da lui curata dell'Or TOLAN , Explication
historique des Institutes de Justinien , Paris 1883, pag. vii e segg . - 592
ricevettero le clausole « ex fide bona » « quando aequiusmelius » « ne propter
te fidemve tuam fraudatus siem », le formole aquiliane de dolo malo ed altre,
che sarebbe lungo ricordare; le quali ser virono a far penetrare nel diritto la
considerazione dell'equità e della buona fede , e a dare forma concreta e
pratica applicazione alle lente mutazioni, che si venivano operando nella
coscienza giu ridica del popolo romano. Era infatti per mezzo di una piccola ag
giunta in una formola contrattuale e giudiziaria , che le aspirazioni latenti
della coscienza giuridica popolare ricevevano applicazione pratica, e che il
diritto fluttuante nelle consuetudini veniva ad ot tenere la tutela e la
sanzione dell'autorità giudiziaria (1). 450. Quest'ultima considerazione
intanto mi porge opportunità di conchiudere questa trattazione, spiegando un
carattere del tutto peculiare della giurisprudenza romana. Credo che questo
tentativo di ricostruzione del primitivo ius qui ritium abbia quanto meno
dimostrato , che il diritto civile romano, anzichè essere stato il frutto di
una incorporazione qualsiasi di con . suetudini preesistenti, operatasi a caso
e lasciata in balia delle cir costanze, fu invece governato , fin dai proprii
inizii, da una logica fondamentale , che non venne mai meno a se stessa . Esso
può es sere paragonato ad un lavoro lento di cristallizzazione, in virtù di cui
gli elementi affini, fluttuanti in un liquido, cominciano dal pre cipitarsi a
poco a poco, e poi si compongono insieme, atteggiandosi costantemente a quelle
forme tipiche, che sono imposte dalla legge, che ne governa la formazione. Se
ciò è fuori di ogni dubbio, vuolsi però anche ammettere , che questa dialettica
fondamentale , la quale regge tutta la formazione del diritto civile romano,
sembra in certo modo essere dissimulata nelle opere anche dei grandi
giureconsulti. In tali opere, per quel poco che a noi ne pervenne, i singoli
istituti appariscono come autonomi ed indipendenti gli uni dagli altri, go ( 1)
Questa importanza delle formole appare sopratutto nelle formole processuali,
poichè ogni progresso nell'amministrazione della giustizia lascia in certo modo
le traccie nella composizione della formola giudiziaria. Questo concetto ebbi
ad espri mere, molti anni or sono, in un breve lavoro « De exceptionibus in
iure romano, Torino 1873, pag . 13 , colle seguenti parole : « neque vereor
dicere, omnia quae in < iudiciorum ordine, progressione temporum et
seculorum elaboratione, invecta fue « runt ad corrigendam , producendam ,
emendandam et adiuvandam antiquissimi iuris « formulam quodammodo adhibita
fuisse » . 593 vernati ciascuno da una propria logica, senza che più si
scorgano le commettiture, che possono stringere un istituto cogli altri. Vero è
, che considerando attentamente il formarsi di ogni singolo istituto, facilmente
si riconosce la mano di artefici, educati tutti alla medesima scuola, cosicchè
i varii istituti si possono paragonare ad altrettanti cristalli foggiati sulla
stessa forma: ma intanto più non si scorgono le traccie della legge, che ne
governd la formazione. Era questo disordine apparente degli scritti dei
giureconsulti, che tornava grave alla mente filosofica ed ordinata di Cicerone,
il quale perciò giunse fino a dire, che i primigrandimaestri avevano cercato
didissimulare la propria arte (1); ma se questo potè forse esser vero, finchè
la scienza del diritto fu un monopolio delle genti patrizie , o meglio dei pon
tefici, custodi delle loro tradizioni, non può più ammettersi per il tempo, in
cui la casa del giureconsulto fu aperta a tutti coloro , che volevano
consultarlo , e anche i plebei furono ammessi al collegio dei pontefici e a
professare giurisprudenza . Non è quindi in una causa alquanto puerile e di
carattere transitorio , che vuolsi cercare il motivo di questa specie di
contraddizione , che presenta l'elabo razione della giurisprudenza romana, ma
piuttosto nel modo, in cui venne in Roma operandosi l'elaborazione stessa . A
questo riguardo vuolsi aver presente , che i modellatori del pri mitivo diritto
di Roma (veteres iuris conditores ) non ebbero mai in animo di insegnare una
scienza , ma piuttosto di professare un'arte (iuris prudentia), che formò solo
più tardi argomento di scienza . Essi quindi, nei loro scritti , non intesero
punto di soddisfare alle esigenze didattiche, nè di introdurre quell'ordine
sistematico, che è proprio della scienza : ma si proposero sopratutto di
soddisfare alle esigenze pratiche, poichè erano i casi, che si venivano
presentando , che loro offrivano occasione di applicare l'arte loro. Siccome
per tanto nella pratica era l' actio, che predominava , poichè era con essa,
che il diritto sperimentava se stesso ; così ne venne, che dap prima furono le
legis actiones, che costituirono il punto di richiamo dell'elaborazione
giuridica , e determinarono l'ordine, a cui la medesima venne obbedendo. Quando
poi la sintesi potente della legis actio venne ad essere disciolta , e
pullularono così azioni e formole, molteplici e svariate, aventi ciascuna una
propria vita ed una propria funzione nella formazione dei negozii e nell'ammini
strazione della giustizia, furono eziandio le actiones, gli interdicta , (1)
Cic., De orat., I. G. CARLE, Le origini del diritto di Roma. 88 594 le
exceptiones e simili, che costituirono il punto centrale , intorno a cui
dovette appuntarsi l'arte dei giureconsulti. Quindi è , che essi, per quanto
ubbidissero ad una dialettica fondamentale , trascurarono naturalmente di far
scorgere i fili, che componevano la trama; co sicchè i loro scritti appariscono
come a frammenti, e ravvicinano istituti, che non hanno attinenza,
disgiungendone altri, che sono in vece strettamente affini fra di loro (1). Di
qui la conseguenza , che la costruzione giuridica romana non seguì il processo
dei concetti fondamentali, da cui partiva, ma venne seguendo invece l'ordine
prima delle XII Tavole, e poscia dell'Editto . Nè questo disordine apparente
poteva recare imbarazzo agli esperti, perchè l'arte in essi era viva e feconda
; ma poteva invece riuscire grave agli altri, i quali, come Cicerone, cercavano
di inoltrarsi in questo campo con un indirizzo mentale diverso . Fu soltanto ,
allorchè la ricchezza dei materiali cominciò ad ingom brare il campo, che si
senti il bisogno di introdurre distinzioni siste matiche, ma anche queste
distinzioni non compariscono nelle opere di costruzione giuridica propriamente
detta , quali sono quelle dei elassici giureconsulti, ma soltanto nelle opere
di carattere didattico ; donde la spiegazione dell'ordine diverso , che occorre
nelle Istituzioni di Gaio e di Giustiniano e nelle Pandette . Siccome poi anche
l'or dine sistematico, introdotto nelle Istituzioni, aveva naturalmente lo
scopo pratico di coordinare la giurisprudenza romana nello stato in cui si
trovava, anzichè di fare assistere alla formazione progressiva di essa ; cosi
ne viene, che anche le distinzioni, che occorrono in Gaio ed in Giustiniano,
dånno talvolta come contemporanei degli istituti, che possono avere avuto
origine in epoca compiutamente di. versa . Ne consegui, che la giurisprudenza
romana, quale a noi per venne, colle sue proporzioni armoniche e colla coerenza
delle sue varie parti, cela in certo modo la trasformazione lenta e graduata ,
che venne operandosi in essa , e la dialettica, che ne governò la for (1) Ciò
appare sopratutto nelle Receptae sententiae di Paolo. Questo apparente disordine
invece è alquanto minore nei cosidetti Fragmenta di Ulpiano, in quanto che
questo lavoro di Ulpiano segue già passo passo l'ordine dei Commentarii di
Gajo, abbreviandoli in qualche parte, e facendovi altrove qualche aggiunta ,
che al tera talvolta le armoniche proporzioni dei Commentarii di Gajo. Questi
ultimi poi, a parte l'originalità maggiore o minore del giureconsulto, saranno
sempre un mo dello di ordinamento sistematico, fatto in un intento didattico.
Cfr. Huschke, Jurisp . antijustin., ed i proemii da lui preposti alle opere
sopra citate dei giureconsulti. 595 - mazione; ma ciò punto non impedisce, che,
penetrando sotto la scorza di essa , tosto si incontrino le traccie di
materiali e di ruderi, che appartengono a sorgenti e ad epoche diverse , e
rivelano cosi al l'investigatore i diversi periodi e momenti, per cui passd la
lenta e graduata formazione della legislazione romana. Giunto al termine di
questo faticoso lavoro di ricostruzione , ri tengo opportuno di riassumere a
grandi linee quelli fra i risultati a cui sono pervenuto , che possono cambiare
in qualche parte il modo comunemente seguito di spiegare la storia primitiva di
Roma, nel l'intento sopratutto di porre in evidenza quella mirabile coerenza
organica , che sempre si mantenne nello svolgimento storico delle istituzioni
pubbliche e private di Roma. CONCLUSIONE. Allorchè le genti italiche si
sovrapposero alle popolazioni già prima stanziate sopra quel suolo , che più
tardi fu denominato italico, dovette avverarsi un periodo di forza e di
violenza , non dissimile da quello, che si avvero più tardi all'epoca delle
invasioni barbariche, ed il maggior bisogno , che dovette sentirsi allora dai
vincitori e dai vinti, fu quello di uscire da quello stato di privata violenza.
Fu allora , che le genti sopravvenute , memori forse delle tradizioni, che
portavano dall'antico Oriente, irrigidirono la propria organizzazione
gentilizia , cercando di attirare nella medesima anche le popolazioni dei
vinti, e costituirono così l'aristocrazia territoriale dei patres, dei patroni,
dei patricii, mentre i vinti furono orga nizzati nella classe inferiore dei
servi , dei clienti , e infine dei plebei. Questa organizzazione, malgrado le
differenze nei particolari, assunse pressochè dapertutto un carattere uniforme,
non dissimile da quello dell'organizzazione feudale nel Medio Evo : essa venne
cosi ad essere composta di familiae, di gentes e di tribus, strette in sieme
dal vincolo di discendenza reale o fittizia da un medesimo antenato , le quali
risiedevano rispettivamente nella domus, nel vicus e nel pagus , mentre il
territorio da esse occupato era ripartito in heredia , in agri gentilicii, e in
compascua. Fu a questo stadio del proprio svolgimento, che le genti italiche
596 presero tutte a travagliarsi intorno alla grande opera del passaggio
dall'organizzazione gentilizia alla città . Questa ebbe sopratutto lo scopo di
assicurare la comune difesa e di fortificarsi nelle lotte pres sochè quotidiane
fra i varii gruppi. La città cominciò dall'essere un sito fortificato (arx ,
oppidum , capitolium ) per servire di rifugio in caso di pericolo ; poi diventò
un sito per il mercato (forum ) e un luogo di riunione dei capi di famiglia
delle varie comunanze confederate per la trattazione degli affari comuni
(conciliabulum , comitium ); fu posta sotto la protezione di una divinità ,
comune patrona; finchè da ultimo sotto la protezione della comune fortezza
cominciarono eziandio a costruirsi le abitazioni private. Non tutte le stirpi
però erano pervenute al medesimo stadio di svolgimento , nè tutte avevano
seguito il medesimo indirizzo nella formazione della città . Mentre gli Umbro
-Sabelli aderivano ancora strettamente alla organizzazione gentilizia, e gli
Etruschi erano già pervenuti alla città chiusa e fortificata , i Latini invece
si trovavano in uno stato in termedio : essi erano pervenuti alla città di
carattere federale, con siderata come un centro della vita pubblica per varie
comunanze di villagio . È al buon seme Latino, che deve attribuirsi l'origine
del grande nome di Roma. Essa cominciò dall'essere lo stabilimento fortificato
di un nucleo di uomini forti ed armati (viri, quirites), staccatisi dalla città
di Alba per cercare altrove sorti migliori, secondo una consuetudine comune
delle genti primitive, fidenti sopratutto nella forza del proprio braccio, ma
non immemori delle tradizioni proprie della stirpe, a cui appartenevano. Le
lotte di questo nucleo di uo mini di arme, stabilitosi sul Palatino, i quali,
senza essere ancora veri capi di famiglia , tendevano a diventarlo, colle
comunanze di villagio stabilite sulle alture circostanti dell'antico
Septimontium , lo condussero prima alla comunanza dei connubii e in seguito
alla confederazione colle medesime. Da quel momento Roma primitiva nella sua
progressiva formazione percorse due periodi compiutamente distinti, cioè : il
periodo della città federale, in cui essa è una città esclusivamente patrizia ,
ed è un centro di vita pubblica fra varie comunanze gentilizie : e quello in
cui la città esclusivamente patrizia associasi anche la plebe cir costante, già
pervenuta ad una certa agiatezza , nell'intento sopra tutto di provvedere alla
comune difesa , e chiude nelle proprie mura le primitive comunanze di villagio
, che entravano a costituirla . 597 Nel primo periodo i cittadini di Roma sono
i capi famiglia delle genti patrizie, confederati in uno scopo di comune difesa
, e la loro città , posta nel centro delle varie comunanze di villaggio, ri
specchia in se medesima le istituzioni dell'organizzazione gentilizia, a quella
guisa che un lago limpido rispecchia le abitazioni e i vil laggi, collocati
sulle alture, che lo circondano . Essi infatti trapian tano nella città ,
centro della loro vita pubblica , le proprie istituzioni gentilizie , salvo che
le medesime, assumendo un intento essenzial mente civile, politico e militare,
cominciano a perdere alquanto il proprio carattere patriarcale , e ricevono
cosi uno svolgimento com piutamente diverso . La città esce cosi dalla
confederazione e dal l'accordo dei capi di famiglia (patres ) e dei loro
discendenti (pa tricii) : ma intanto assume un carattere religioso, politico e
militare ad un tempo, come le genti che concorsero alla sua formazione. Sono i
pontefici, che ne serbano le tradizioni giuridiche e religiose ad un tempo ; gli
auguri, che modellano gli auspicia publica sugli auspicia , a cui già
ricorrevano i capi di famiglia o delle genti ; i feziali , che serbano le
tradizioni relative ai rapporti fra le varie genti. In questo periodo la città
servi ad operare la selezione della vita pubblica , che cominciò a spiegarsi
nella città , dalla vita dome stica e patriarcale, che continuò a svolgersi
nelle varie comunanze di villaggio . L'urbs infatti designa l'orbita sacra , in
cui trovansi riuniti gli edifizii aventi pubblica destinazione, ed ha nel
proprio contro il tempio di Vesta e la domus regia ; la civitas non com prende
ancora i rapporti di carattere privato , ma quelli soltanto che si riferiscono
alla vita civile , politica e militare : il populus non comprende tutta la popolazione,
ma quella parte eletta della me desima, che possa giovare alla res publica col
braccio (iuniores ) o col consiglio (seniores). Per tal modo il grande intento
della città in questo periodo fu quello di sceverare la vita pubblica dalla
privata (publica pri vatis secernere), di modellare il concetto della res
publica , in quanto essa ha un'esistenza distinta dalla res familiaris, e di ar
chitettarne la costituzione politica , la quale venne cosi ad uscire dal
concorso di tutti gli elementi, che entravano a costituirla. La sorgente della
pubblica potestà risiede quindi nel populus ; ma in tanto la parte dovuta
all'età e all'esperienza nel provvedere all'in teresse comune viene ad essere
rappresentata dal senatus , che è già elettivo ed è nominato dal rex ; il quale
alla sua volta è l'eletto del populus e unifica in se medesimo l'imperium , che
il medesimo 598 gli conferisce . Tutto cid , che riguarda l'interesse comune,
deve essere deliberato col concorso di tutti questi elementi, cioè essere
proposto dal re, appoggiato dal senato, votato dal popolo ; cosicchè la legge
assume la forma di una pubblica stipulazione (communis reipublicae sponsio ).
Per quello invece , che si riferisce alla vita domestica e privata (res
familiaris), essa continua a svolgersi nel seno della domus, del vicus, del
pagus, sotto la potestà dei capi di famiglia o delle genti. Queste continuano a
possedere le proprie terre sotto la forma collettiva di agri gentilicii e di
compascua, soli eccettuati gli heredia , assegnati dalla gens od anche dal re ,
i quali appariscono intestati ai singoli capi di famiglia . Anche la
repressione dei delitti continua ad essere lasciata al potere domestico e
patriarcale , e le pene conservano quel carattere religioso , che avevano nel
periodo gentilizio : solo assumono carattere di delitti pubblici, e sono sotto
posti alla giurisdizione del re, temperata dalla provocatio ad po pulum , il
parricidium e la perduellio , di cui quello è come il germe del reato comune e
questa il germe del reato politico. Quanto al diritto privato , esso continua
in gran parte ad essere governato dal costume (mos ), il quale appare ancora
circondato da un ' aureola religiosa ( fas) ; cid tuttavia non impedisce, che
fra le consuetudini e le tradizioni preesistenti già ve ne siano di quelle ,
che vengono sanzionate da una lex publica , la quale è preparata dai pontefici,
proposta dal re e votata dal popolo ; donde la formazione delle leges regiae,
nelle quali tuttavia le istituzioni giuridiche ser bano ancora quel carattere
religioso , che era proprio delle istitu zioni delle genti patrizie . Nel
frattempo quell'elemento plebeo , la cui formazione già erasi iniziata nelle
stesse comunanze di villaggio, prende un grandissimo incremento collo svolgersi
della città ; poichè, esso trovasi accresciuto dalle popolazioni conquistate e
da coloro che, spostati nell'orga nizzazione gentilizia , vengono a stanziarsi
nel territorio circostante alla città. Questa moltitudine, che per essere
composta di elementi di provenienza diversa e per difetto di organizzazione
chiamasi plebes, non entra ancora a formare il populus, nè è ammessa alle
curiae della città patrizia , ma abita nelle circostanze di essa , e tiene cosi
una posizione più di fatto che di diritto . Ai plebei, che la compon gono, solo
dovette essere accordato, negli ultimi tempi della città esclusivamente
patrizia , il ius nexi, ossia il diritto di contrarre dei prestiti, vincolando
direttamente la propria persona, e il ius man 599 cipii, ossia il diritto di
ritenere quello spazio di terra, sovra cui essi erano stanziati colle proprie
famiglie . È sotto l'influenza etrusca , che la città comincia a prepararsi ad
un secondo stadio, a quello cioè di città chiusa e fortificata nelle proprie
mura, il che però non toglie, che essa continui ancor sempre ad essere un
centro di vita pubblica per le comunanze e le famiglie , che trovansi stanziate
nell'ager romanus, ma fuori del pomoerium della città . La trasformazione ,
iniziata da Tarquinio Prisco , si compie , allorchè con Servio Tullio la città
viene a com prendere nella propria cerchia non solo gli edifizii pubblici, ma
anche le abitazioni private, e in base alla sua costituzione viene a formarsi
accanto ai patres o patricii, un nuovo populus, composto di patrizii e di
plebei, ripartito in classi ed in centurie, di carattere essenzialmente
militare, i cui membri hanno i loro diritti ed ob blighi civili, politici e
militari determinati sulla base del censo . Da questo momento quel dualismo,
che esisteva negli elementi, che entra vano a partecipare alla medesima città,
penetra eziandio nelle istitu zioni politiche di Roma. Per tal modo accanto ai
veri magistrati del popolo, comparvero i tribuni della plebe ; accanto ai
comizii delle curie e delle centurie si formarono i concilia plebis, i quali col
tempo si trasformarono in comizii tributi ; e da ultimo accanto alle leges si
svolsero i plebiscita . Di qui lotte , che condussero a svol gere e in parte
anche a modificare i concetti fondamentali, che servivano di base alla
costituzione primitiva di Roma. Intanto la città si è ingrandita ; nelle
suemura non si esplica più soltanto la vita pubblica , ma anche la vita
domestica e privata : quindi la grande opera , che si inizia in questo periodo
, viene ad es. sere la formazione di un diritto privato, comune ai due ordini,
e la creazione di quell'arte, in cui i romani dovevano essere maestri al mondo,
cioè dell' « ars iura condendi» . Gli elementi, che dovevano convivere sotto la
protezione di un comune diritto, erano due, cioè : il patriziato ,onusto di
tradizionireligiose, giuridiche e poli tiche, e la plebe la quale era un
agglomeramento di elementi diversi, nuovo ancora alla vita civile e politica.
Quello aveva l'organizza zione gentilizia fondata sul vincolo civile dell'
agnazione, e questa non conosceva che la famiglia, stretta insieme dal vincolo
naturale della cognazione ; quella aveva tante forme di proprietà , quante
erano le gradazioni dell'organizzazione gentilizia , e questa non aveva in
certo modo che il possesso delle terre, sovra cui era stan 600 ziata (mancipium
) ; quello aveva il fas, il ius, l'imperium , gli auspicia , i mores veterum ,
mentre questa non conosceva che l'usus auctoritas. Fu la distanza stessa, a cui
trovavansi collocati i due elementi, e il loro modo di sentire e di pensare
compiuta mente diverso , in fatto di religione e dimorale, che resero
necessaria la elaborazione di un diritto , comune ai due ordini, il quale
facesse compiutamente astrazione dalla religione e dalla morale. Cosi pure è
questa distanza, che spiega la lentezza di questa elaborazione e la ricchezza
dei risultati a cui essa pervenne , poichè la medesima dovette prendere le
mosse dalle istituzioni più elementari, comuni ai due ordini, e poi estendersi
a poco a poco a tutti i rapporti della vita civile. Per qualche tempo ciascun
elemento continud ad atte nersi alle proprie consuetudini e costumanze ; ma la
convivenza dei due ordini nelle stesse mura e l'attrito dei quotidianiinteressi
finirono per determinare una specie di precipitazione delmateriale giuridico ,
fluttuante sotto la forma di tradizioni patrizie (mores veterum ), o di
costumanze della plebe (usus). Si iniziò così la più mirabile se lezione
dell'elemento giuridico dagli elementi affini, con cui trovasi implicato, che
siasi mai avverata nella storia dell'umanità ; selezione, che da una parte
obbedisce a leggi naturali di formazione, e dal l'altra è già l'opera di una
elaborazione, per parte sopratutto dei pontefici, i quali, essendo i custodi
delle tradizioni delle genti pa trizie, già erano in possesso di una vera
tecnica giuridica . Il nucleo centrale di questa formazione venne ad essere il
con cetto del quirite,ossia dell'uomo, isolato da tutti gli altri suoi
rapporti, per essere riguardato esclusivamente come capo di famiglia e pro
prietario di terre, quale appunto compariva nel censo . Il quirite viene cosi
ad essere una realtà ed una astrazione, un individuo e un capo gruppo, un
soldato ed un agricoltore ad un tempo ; ed il punto di vista , sotto cui si
riguardano i quiriti nei reciproci rapporti, essendo determinato dal censo,
viene ad essere quello delmio e del tuo. Di qui consegue, che per essi
ogninegozio riducesi ad un trapasso dal mio al tuo, simboleggiato nell'atto per
aes et libram , e ogni procedura viene ad essere simboleggiata in una specie di
combattimento e di reci proca scommessa . Questo diritto , costituendo un
privilegio dei qui riti, viene ad essere denominato ius quiritium ; i suoi
concetti fonda mentali sono quelli vasti e comprensividi caput, manus,mancipium
, commercium , connubium ed actio ; esso costituisce in certo modo l'ossatura
rigida di tutta la giurisprudenza romana. Siccome pero, attorno a questo primo
nucleo , che si vien precipitando e consoli 601 dando, si mantengono ancora
sempre, allo stato fluttuante, tanto le consuetudini e le tradizioni dei
patres, quanto gli usi della plebe; così il primitivo ius quiritium viene in
certo modo attraendo ed assimilando quelle istituzioni preesistenti, che
potevano avere qualche analogia col diritto già formato. Per tal guisa il
medesimo, arricchen dosi di nuove forme, si viene gradatamente allargando nel
ius pro prium civium romanorum , il quale può essere considerato come un
proseguimento di quella selezione, che erasi già incominciata col ius quiritium
. Sono le XII Tavole, che danno forma scritta alle basi fondamentali di questo
ius civile : quindi nelle medesime si possono scorgere le commettiture dei
varii elementi, che entrano a costituirlo . Infatti in qualsiasi istituzione di
quel ius, che i giure consulti chiamano proprium civium romanorum , può
scorgersi una formazione centrale, che è dovuta al ius quiritium , e due
laterali, di cui una suole essere di origine patrizia , e l'altra di origine
plebea . Così, ad esempio, fra le forme del matrimonio havvi da una parte la confarreatio
di origine patrizia e dall'altra l'usus di origine plebea , mentre la coemptio
sta nel mezzo, ed è la forma essenzialmente quiri taria ; fra le forme del
testamento , le più antiche sono il testamento in calatis comitiis, propria del
patriziato , e la mancipatio familiae cum fiducia , propria della plebe, le
quali poi, pressochè componendosi insieme, dànno origine al vero testamento
quiritario, che è quello per aes et libram ; infine, fra i modi di acquistare e
trasmettere il dominio , il primo a formarsi è quello essenzialmente quiritario
della manci patio , attorno a cui si vengono poi accogliendo l'in iure cessio e
l'usucapio . Intanto perd questa selezione non si arresta ancora colla
formazione di un ius civile, e quindi, accanto al medesimo, si esplica il ius
honorarium , il quale, pur derogando al primo, assimila nuovi elementi ,
facendoli perd entrare in forme modellate a somiglianza di quelle già adottate
dal ius civile . È con questo meraviglioso processo , che il diritto privato di
Roma, dopo aver cominciato dall'essere la selezione più rigida dell'elemento
giuridico , che ricordi la storia , ed una produzione esclusivamente romana,
venne a poco a poco attraendo nella propria orbita anche le considerazioni di
equità e di buona fede, ed assimilando quelle istituzioni delle altre genti,
che si acconciavano alla logica fonda mentale , da cui era governato , finchè
divenne poi tale da essere considerato come un diritto universale, e da poter
essere accomu nato a tutte le genti, da cui aveva tolti i materiali, sovra cui
erasi 602 venuto elaborando. Il diritto romano riusci cosi ad essere una co
struzione eminentemente dialettica , la quale riunisce da sè gli op posti ed i
contrarii; esso è antico nei materiali, che lo compongono, nuovo per le applicazioni
che se ne ricavano ; sotto un aspetto è sempre fisso e fermo nei proprii
concetti, sotto un altro è sempre in via di formazione ; esso obbedisce ad una
logica fondamentale , e intanto lascia che ogni istituto proceda per proprio
conto e segna un proprio concetto ispiratore ; mentre è una produzione del
tutto propria del genio romano, assimila in se stesso le istituzioni di tutte
le genti ; è un'arte ed una scienza ad un tempo. Esso infine, mentre obbedisce
e si piega alle esigenze pratiche, appare informato , come ben diceva il
giureconsulto , ad una vera e propria filosofia, la quale non si abbandona alle
speculazioni ideali, mamedita sui fatti sociali ed umani, ne scevera l'essenza
giuridica, la modella in con cezioni tipiche, e svolge le medesime in tutte le
conseguenze, di cui possono essere capaci. È questo il motivo, per cui le
costruzioni giuridiche dei giureconsulti romani saranno sempre dei modelli, che
difficilmente potranno essere superati, poichè nella divisione di la voro, che
si operò fra i popoli moderni, non ve ne ha certamente alcuno, che possegga in
questa parte le attitudini veramente mera vigliose dell'ingegno romano per
l'elaborazione dell'elemento giu ridico, e nessuno parimenti, che possa aver
l'occasione, il modo e il campo , che esso ebbe, per applicare la sua
giurisprudenza alla immensa varietà dei fatti sociali ed umani. Singolare
destino quello della città di Roma! Come le sue mura furono costrutte coi massi
più solidi dell'epoca gentilizia ; così i concetti , che le servirono di base ,
furono la sintesi potente di tutto un periodo di umanità , le cui vestigia si
vengono ora disco prendo nelle necropoli delle più antiche città italiche e
nelle civiltà fossili dell'antico Oriente. Da questi ruderi di un periodo che
può chia marsi preistorico , essa seppe ricavare uno svolgimento storico e
logico ad un tempo, che bastd ad organizzare il mondo per tutto un grande
periodo di civiltà . Senza essere ricca di concetti proprii, essa ebbe però
tanta forza ed energia assimilatrice da fare entrare nei me desimi il lavoro di
tutte le genti, con cui denne a trovarsi a con tatto . Senza abbandonarsi a
speculazioni ideali, essa riusci ad isolare l'essenza giuridica dei fatti
sociali ed umani, e a svolgerla in tutte le sue conseguenze con una logica
inesorabile e tenace. Quando poi i concetti, che stavano a base della sua
grandezza, furono anch'essi 603 esauriti, dalle loro macerie uscì ancora la
grande idea della uma nità civile, e le sue leggi poterono servire come punto
di partenza ad un nuovo periodo di cose sociali ed umane, Soltanto Roma, fra le
città dell'universo , pud personificare in se stessa quella legge di con
tinuità, che unifica la storia del genere umano. Le sue radici si perdono nella
preistoria , e le nazionalità moderne furono preparate da essa ; essa fu
l'erede e la raccoglitrice paziente delle tradizioni del periodo gentilizio , e
intanto pose le basi, da cui presero le mosse, gli stati e le nazioni moderne.
Inchiniamoci alla città eterna: quando si pretendeva di cambiarla in sede
esclusiva del potere spirituale, essa seppe di nuovo rivivere alla vita civile:
quando si credeva di riguardarla come una specie di museo del mondo civile,
colle sole sue memorie essa cooperd a ridestare a vita una giovine nazione. I
dualismi, che ora esistono in Roma, non ci debbono impaurire ; perchè Roma fu
sempre la città dei dualismi. Punto non ripugna, che essa da una parte possa
essere la sede del potere religioso , e che dall'altra sia la sede del governo
civile ; già altra volta essa apprese l'arte di separare il potere religioso
dal civile (sacra profanis secernere). Non ri. pugna parimenti, che essa
continui ad essere la città dei dotti e degli eruditi, e che intanto sia la
capitale di un giovine stato ; essa ha tal copia di monumenti del passato da
ricavarne la più splen dida passeggiata archeologica , e ha spazio che basta
per fondare nuovi quartieri, che possano corrispondere alle nuove esigenze ed
ai nuovi bisogni. Ormai era tempo, che essa un'altra volta arric chisse il
nucleo ristretto della sua popolazione, accordando nuova mente la sua
cittadinanza alle popolazioni, che vi concorsero da ogni parte dell'Italia .
Solo sarebbe a deplorarsi, che mentre il potere religioso cura te nacemente le
proprie tradizioni, lo Stato invece non cercasse di far rivivere la tradizione
civile e politica di Roma. Lasciamo ad altri di combattere l'influenza della
romanità ; noi studiando fra i ruderi di Roma antica avremo nella grandezza del
suo passato uno stimolo ed un incitamento per l'avvenire; nè sarà inutile , che
il giovine regno cerchi di educare il suo senso politico e legislativo ,
studiando l'opera dei più grandi politici e legislatori del mondo. La storia ci
vile e politica di Roma e quella del suo diritto non deve in Italia essere
privilegio di dotti e di eruditi; ma deve essere parte dell'i struzione e
dell'educazione civile e politica del popolo italiano. È solo in questo modo,
che si spiega la falange di giovani studiosi, 604 che si precipito sopra questo
patrimonio, che deve essere nostro , allorchè lo studio della storia del
diritto romano fu opportunamente chiamato a far parte dell'insegnamento
giuridico nelle Università italiane. Credo infatti di poter affermare, senza
timore di essere con traddetto , che nessun nuovo insegnamento provocò nel
nostro paese cosi largo movimento di studii, come lo dimostrano le
pubblicazioni fattesi sull'argomento , gli istituti per lo studio del diritto
romano, che ora vengono sorgendo, e l'entusiasmo stesso , con cui non solo
l'Italia, ma tutto il mondo scientifico partecipa alla commemorazione solenne
di quell'epoca, in cui l'iniziarsi degli studi sul diritto ro mano poneva le
fondamenta dell'illustre Ateneo di Bologna. L'im portanza dogmatica del diritto
romano potrà forse diminuire colla pubblicazione del Codice Civile Germanico,
il quale farà si che il diritto romano cessi di essere il diritto comune di un
grande po polo ; ma la sua importanza storica verrà per cið stesso ad essere
accresciuta , perchè si tratterà pur sempre di determinare la parte , che nelle
moderne legislazioni deve essere attribuita alla grande in fluenza del diritto
romano. Ne è da farsi illusione, che questo ge pere di studii possa ugualmente
mantenersi fuori della cerchia delle Università ; poichè, tanto in Italia che
in Germania , la scienza è nata e si è svolta nelle Università , ed è in esse,
che deve essere tenuto vivo il focolare della medesima. È soltanto nelle
Università , che la storia del diritto antico può cessare di occuparsi
esclusivamente di minute ricerche archeologiche, per cambiarsi in un sistema di
con cetti, che possa essere succo e sangue per la giovine generazione.
Giuseppe Carle. Keywords. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Carle” – The Swimming-Pool Library.
CARLINI (Napoli).
Filosofo. Grice: “I love Carlini, and Speranza loves him even more, but then he is Italian! My favourite is his
“A brief history of philosophy,” especially the subtitle: “Da Talete di Mileto
a Talete di Mileto, con una postfazione di Talete di Mileto – “Nel principio
era l’acqua”!” – “Il primo filossofo – che cadde in un pozzo.” Si laurea a
Bologna (“l’unica universita italiana”) sotto Acri. Insegna a Iesi, Foggia,
Cesena, Trani, e Parma. E chiamato presso Pisa per sostituire Gentile,
trasferitosi a Roma, come titolare della cattedra di filosofia teoretica. Membro
dell’Accademia d'Italia. Inizia a farsi conoscere assumendo la direzione di una
collana edita da Laterza che inizialmente venne lanciata sotto il nome di “Testi
di filosofia ad uso dei licei”. Ad introdurlo nella Laterza fu Gentile, conosciuto
qualche anno prima, e Croce, all'epoca ancora in rapporti col filosofo di
Castelvetrano. “Testi di filosofia ad uso dei licei” ha un scopo divulgativo, ma
divenne presto celebre per l'alto livello degli autori che collaborarono in
vario modo al suo interno, fra cui, oltre al Carlini, anche Saitta e lo stesso Gentile.
Oltre al lavoro di direzione e coordinamento in qualità di direttore responsabile,
pubblica due saggi su Aristotele (in realtà raccolte aristoteliche da lui
curate, commentate e tradotte) cui fece seguito uno studio su Bovio che desta
l'interesse di non pochi studiosi e l'approvazione di Gentile, considerato da
Carlini suo tutore indiscusso. Pubblica due corposi volumi che gli
assicurarono un posto di assoluto rilievo nell’ambiente filosofico: un
esaustivo studio sul sense e l’esperienza, e soprattutto “Lo spirito”. In “Lo spirito” si inizia infatti chiaramente
a delineare il proprio pensiero: adesione alla dottrina idealista, vista come
sintesi fra il pensiero immanentista gentiliano (Gentile fu, fino alla propria
scomparsa, suo amico, oltre che tutore) e quello crociano. Il soggetto
attraversa un costante irto di dubbi ed angosce e un dialogo che riusciamo ad
instaurare con noi stessi, in un percorso critico dialettico, una conquista
realizzabile solo attraverso gli strumenti di una metafisica critica. La
centralità della teoria della conoscenza e sviluppata in “Lineamenti di una
concezione realistica dello spirito umano” e “Alla ricerca di noi stessi”,
“alla ricerca di tu”. Comprensibile appare pertanto l'interesse che nutre per
l'esistenzialismo, che però si espresse con una singolare preferenza verso Heidegger,
nelle cui speculazioni trovarono ben poco posto le istanze metafisiche, piuttosto
che nei confronti di Jaspers che su quelle stesse istanze aveva strutturato la
propria filosofofia. Commenta il pensiero logico di Heidegger, e Che cos'è la
metafisica? (“La nulla anihila”). Rende un commosso omaggio a Gentile con i
suoi Studi gentiliani, raccolta di scritti in massima parte già pubblicati
precedentemente, tesi a ricordarne la figura e le affinità intellettuali che un
tempo lo avevano legato al grande filosofo siciliano. “Bovio” (Bari, Laterza);
“Senso ed esperienza” (Firenze, Vallecchi); “Lo spirito” (Firenze, Vallecchi);
“Note a la metafisica d’Aristotele” (Bari, Laterza); “Filosofia” (Roma,
Quaderni dell'Ist. Naz. di Cultura, ser. 4; 5); “Il mito del realism” (Firenze,
Sansoni); “Lo spirito” (Roma, Perrella); Filosofia (Roma, Ist. Naz. di Cultura,
2); Il problema di Cartesio, Bari, Laterza); Storia della filosofia, Firenze,
Sansoni); “La Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici” (Firenze,
Sansoni); Le ragioni della fede, Brescia, Morcelliana); Michelino e la sua eresia”
( Bologna, Nicola Zanichelli). Dizionario biografico degli italiani. Armando
Carlini. Keywords: Bovio, Locke, senso, esperienza, il mito del realismo, la
categoria dello spirito, animus e spiritus, filosofia italiana, storia della
filosofia romana, l’ambasciata di Carneade a Roma, la antichissima sapienza
degl’italici, la scuola di pitagora, sicilia e la magna grecia, geist, ghost,
spirito, animo, spirito oggetivo, Bosanquet, testi di filosofia ad uso dei licei,
aristotele, il principio logico, Cartesio, il problema di cartesio, senso ed
esperienza, storia della filosofia, avvivamento alla filosofia, i grandi
filosofi – mondatori – the great and the minor -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Carlini” – The Swimming-Pool Library.
CARO (Roma). Filosofo. Grice:
“Caro likes ‘interpretant,’ I spent various tutorials going through Aquino’s
Commentarium’ on the ‘peri hermeneias’ – my tutees were fascinated by the fact
that while the Grecian hermeneias is figurative – after Hermes, some say –
‘inter-pretatio’ is not!” -- “I love Caro – he has philosophised on Davidson’s
philosophising, notably Davidson’s idea of the interpretant, an idea Davidson
borrowed – but never returned – from Peirce!” Insegna a Roma. Si occupa di filosofia morale, di libero
arbitrio, teoria dell'azione e storia della scienza. Ha difeso la teoria detta
" naturalismo liberale", già oggetto di discussione nelle letteratura
specialistica sull’argomento. È membro dei comitati scientifici delle riviste Rivista
di Estetica e Filosofia e questioni
pubbliche. Collabora con Il Sole 24 Ore, e ha scritto per The Times, La
Repubblica, La Stampa e il manifesto. È
stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Analitica (SIFA) dal al . È vicepresidente della Consulta Nazionale
di Filosofia. Ha condotto ZettelFilosofia in movimento, programma televisivo
RAI dedicato alla filosofia. L'asteroide
5329 Decaro è chiamato così in suo onore; “Dal punto di vista dell'interprete.
La filosofia di Donald Davidson, Roma, Carocci); Il libero arbitrio, Roma-Bari,
Laterza); Azione, Bologna, Il Mulino); La logica della libertà, Roma, Meltemi);
Normatività, Fatti, Valori” (Macerata, Quodlibet); Scetticismo. Storia di una
vicenda filosofica” ( Roma, Carocci). Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e
il mistero del libero arbitrio (Torino, Codice). La filosofia analitica e le
altre tradizioni (Roma, Carocci).
Bentornata Realtà: Il nuovo realismo (Torino, Einaudi, . Quanto siamo
responsabili? Filosofia, neuroscienze e società” (Torino, Codice, . Biografie
convergenti: venti ircocervi filosofici, disegni di Guido Scarabottolo, Milano-Udine,
Mimesis). Cos’è il nuovo realismo [“What is the
new realism”], Mimesis, Milano , forthcoming.2) Azione
[“Action”] , Il Mulino, Bologna, 2008.3) Il libero arbitrio.
Un ’ introduzione [ “ Free Will. An Introduction ” ], Laterza,
Roma-Bari,2004; second edition 2006; Third edition 2009; Fourth edition
2011.4) Dal punto di vista de ll’int erprete. Il pensiero di
Donald Davidson [ “ From theInterpreter s Point of View. Donald
Davidson s Thoug ht”], Carocci, Roma 1998 8 5)
Interpretazioni e cause [“Interpretations and Causes”] , Doctoral
dissertation, Università diRoma. Editor (with M. Mori - E. Spinelli)
of La libertà umana: storia di un’id ea , Carocci,Roma,
forthcoming.2) Editor (with A. Lavazza – G.
Sartori) of Quanto siamo responsabili? Filosofia,neuroscienze e società,
Codice, Torino, 2013.3) Editor (with M. Marraffa) of La
filosofia di Ernesto De Martino , special issue of Paradigmi , 31,
2013.4) Editor (with L. Illetterati) of a special issue of
Verifiche on “ Classical German Philosophy. New Research Perspectives
between Analytic Philosophy and the Pragmatist Tradition” ,46, 2013.5)
Editor (with S. Gozzano) of a special issue of Rivista di
filosofia on “T he philosophy ofconsciousness, ” 104,
2013.6) Editor (with M. Ferraris) of Bentornata realtà. Il
nuovo realismo in discussione , Einaudi,Torino, 2012.7) Editor
(with S. Poggi), La filosofia analitica e le altre tradizioni , Carocci,
Roma,2011.8) Guest editor, Naturalismo , special issue
of Rivista di Estetica , 44, 2010 (with C. Barberoand A.
Voltolini).9) Editor of The Architecture of Reason. Epistemology,
Agency, and Science , Carocci,Roma 2010 (with R. Egidi).10) Editor
of Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero arbitrio
,Codice, Torino 2010 (second edition 2010; third edition 2011) (with A. Lavazza
and G.Sartori).11) Guest editor of E’ naturale essere naturalisti?
, special issue of Etica e politica , 9,2010 (with C. Barbero - A.
Voltolini).12) Editor of Scetticismo . Storia di una vicenda
filosofia , Carocci, Roma 2007 (secondedition 2007; third edition, 2008) (with
E. Spinelli).13) Editor of La mente e la natura , Fazi, Roma
2005 (Italian version of Naturalismin Question ) (with D.
Macarthur).14) Editor of the Italian version of H. Putnam, The
Fact/Value Dicothomy , Fazi, Roma,2004.15) Editor of
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vonWright, J. Hornsby, R. Fogelin, et alii ) (with Rosaria Egidi and Massimo De
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Free dom”], Meltemi, Roma, 2002(contains the Italian translation of essays
by A. Ayer, R. Chisholm, P.F. Strawson, P. vanInwagen, H. Frankfurt).17)
Guest editor of “ Libertà e Deter minismo” [ “ Freedom and
Determinism ” ], specialissue of Paradigmi , 3, 1999. 11
3) “Presentazione” del numero speciale di Paradigmi
(25, 2013) dedicato a La filosofia di Ernesto De Martino , pp.
4-7.4) “Machiavelli e Lucrezio ”, postface to A. Brown,
Machiavelli e Lucrezio. Fortuna elibertà nella Firenze del Rinascimento ,
Carocci, Roma, 2013, pp. 113-126.5) “Metafisica e naturalism o: una
entente cordiale? ”, Sistemi intelligenti , 25, 2013, pp. 84-94.6)
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(ed), Il platonismo e le scienze , Carocci, Roma 2012, pp.
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(ed.), Il platonismo e le scienze ,Carocci, Roma 2012, pp. 13-21.8)
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mente ,” in Dizionario della mente Treccani , Istituto de ll EnciclopediaItaliana
Italiana, Roma 2010, pp. 391-394.12) “Ne uro-mania e natura
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CristianoCastelfranchi e Fabio Paglieri) (con A. Lavazza), Giornale italiano di
psicologia , 2,2009, pp. 319-323.13) “ Il migliore dei naturalismi
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Storia dell'etica contemporanea. Da Kant alla filosofia analitica ,in
Iride , 20, 2007, pp. 257-258.4) Review of A. Massarenti, Il
lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima , in Bollettino
della Società filosofica italiana , January-April 2007, pp. 100-101.5)
Review of M. De ll Utri, L’inganno assurdo , in
Epistemologia , 29, 2006, pp. 512-514.6) Review of Carlo
Montaleone, Don Chisciotte o la logica della follia , in Bollettino
della Società filosofica italiana , May-August 2006, pp. 91-93.7)
Review of Mario Ricciardi - Corrado Del B o (a cura di),
Pluralismo e libertà fondamentali , in Iride , 2006, pp. 456-457.8)
Review of Giacomo Marramao, Minima temporalia , Iride ,
in Iride , 47, 2006, pp. 214-216.9) Review of Donald
Davidson, Subjective, Intersubjective, Objective , in Iride , 17, 2004,
pp. 436-437.10) Review of Massimo Marraffa, Filosofia e
psicologia, in Epistemologia , 29, 2006, pp.461-463.11)
Review of Nicla Vassallo, Teoria della conoscenza, in Epistemologia
, 26, 2006, pp.484-486.11) “ Wittgenstein su mente e linguagg io” [Review
of R. Egidi (ed.) Wittgenstein: Mind and Language ], in Rivista di
filosofia , 1998, pp. 155-158.12) Review of Mark Pickering (ed.),
Science as Practice and Culture, in Archives Internationale s
d’ Histoire Des Sciences, 1995, pp. 169-171.13) Review
of Marc De Mey, The Cognitive Paradigm. An Integrated Understanding
ofScientific Development, in Archives Internationales d ’
Histoire Des Sciences, 1995, p.189.14) Review of M. De ll
Utri, Le vie del realismo. Verità, linguaggio e conoscenza in Hilary
Putnam, in Physis, XXX, 1993, pp. 578-580.15 Review of “ Il
naturalismo filosofico di Willard Van Orman Quine ” [review of:
W.V.O.Quine, La scienza e i dati di senso , Roma 1987], Tempo presente,
124, 1993, pp. 78-90.16 Review of “ Scienza e relativismo: un
ossimoro? ” [review of: R. Egidi (ed.), La svoltarelativistica
nell'epistemologia contemporanea, Milano 1988], Tempo presente, 1989, pp.
103-105.17) Review of “ E' ancora possibile una storiografia dell'arte ?
” [review of: H. Belting, La fine della storia dell'arte o la
libertà dell'arte , Torino 1990], Tempo presente, 109-111,1990, pp.
88-90. 19 June 6, 2006: Università della Calabria, Conference of Italian
Association of Philosophy ofMind. Commentator of the main speaker, Tim
Crane.May 16, 2006: participant in the debate on “ Semiotics and Phenomenology
of the Se lf,” Roma, Società Italiana di Filosofia.May 10, 2006: University of
L Aquila. Lecture on “ Free Will and Causal Determinism ” . March31
– April 1, 2006: Ravenna Scienza, “ Neurobiology of Free
Will: Is Our Will Free? ” .Invited speaker. Paper: “ The Philosophical Mystery
of Free W ill”. January 22, 2006: Roma, Auditorium “ Parco della Musica
,” Festival of Science. Lecture on: “ Gödel Theorems and Free will”
(with Rebecca Goldstein).January 20 – 21, 2006: Reggio
Emilia, Istituto Banfi. Conference “ Nature and Free dom”; invited
spekaer for the section “ The naturalization of free dom” (commentators A.
Benini eS.F. Magni). Paper: “ Nature and Free dom”. December 2,
2005: University “ Ca Fosca ri,” Venice. International
Conference, “ DonaldDavidson: Language - Meaning - Mind - Action ” ; invited
speaker. Paper: “F reedom andInference to the Best Explanation ” . November 17
2005: Sassari, Sassari Association of Philosophy and Science. Lecture on “
Freedom and Scien ce” .October 27 – 28, 2005: “ Vita
– Salute “ San Raffae le” University, Cesano Maderno
(Milano), First Meeting of the Italian Association of Philosophy of
Mind ; organizer and chairperson.October 19-21, 2005: University of
Genoa, International conference, “ Mental Processes ” ;relatore invitato per la
sezione “ Action and Rationality ” (discussant of Jennifer
Hornsby).September 29-30, 2005: SISSA, Trieste. Conference “
Neurophysiology and Free W ill”; invited speaker. Paper: “ Etica e libero
arbitrio ” .June 9 – 11, 2005: University of Trento,
International Conference, “ Agency and Causation in theHuman Sciences ” .
Invited speaker (paper: “F reedom and the Social Sciences ” ).June 1, 2005: “
Vita e Salute - San Raffae le” University, Milano. International
Conference, “ ADay for Freedom? An International Conference on Free W ill”.
Discussant di ChristopherHughes.May 12, 2005: University of Florence,
International Conference “ Philosophy, Neurophysiologyand Free will”
(invited speaker). Paper: “ On the compatibility of philosophy and scienc e”
.March 21 - 22 2005: Istituto di studi americani, Roma, International
Conference, “ Pragmatismand Analytic Philosophy: Differences and Interac
tions” (invited speaker). Paper: “B eyondScientific Natura lism”.
January 31 – February 2, 2005: University of Piemonte
orientale, Department of HumanisticStudies. Three lectures on Freedom and
Nature. November 26, 2004: University of Florence - Department of
Philosophy. Lecture on TheConcept of Naturalism . November 16, 2005: University
of Pavia – Giason del Maino College. Lecture on
TheContemporary Debate on Free Will . November 15, 2004: University
"Vita e Salute – San Raffae le,” Milano. Lecture
on Freedomand Nature .October 22-23, 2004: University of Piemonte
Orientale, Vercelli, Department ofHumanistic Studies, conference on “
Scientists and Philosophers and the Study ofComplex Sy stems”. September
23-25: Genova, VI International Conference of the Italian Society of
AnalyticPhilosophy (member of the scientific committee). 20 May
11-12, 2004, Rome. International Symposium "Questions on Naturalism"
(Organizer anddiscussant). November 7, 2003, Rome. Paper: “ Davidson on Human
Free dom”. Conference on DonaldDavidson, Department of Philosophy,
Università Roma Tre (speaker and organizer). November 6, 2003, Rome. Discussant
of Akeel Bilgrami. Workshop at LUISS University.September 29, 2003, Florence.
Paper: “ Metaphysical Libertarianism ” . Conference on Robert Nozick s
philosophy, Department at the University of Florence (speaker).September 15,
2003, Sassari. Lecture on “ Logica e retorica ” [Logic and Rhetoric].Department
of Foreign Languages and Literatures, University of Sassari (invited lecturer).
May7, 2003, Siena. Paper on “ Naturalism and Free dom”. Workshop on
The Free Will problem . Department of Philosophy, Università di
Siena (invited speaker).May 5, 2003, Sassari. Workshop on Skepticism and the
Reemergence and the Self ,” Department of Philoosophy, Università di
Sassari, (discussant).October 12, 2002, Messina. Paper on “ Naturalism
and Intentionality ” . Annual Meeting of theItalian Society of Philosophy of
Language (speaker).May 14, 2002, Cosenza. Lecture: Memoria e identità
[Memory and Identity].Department of Philosophy, Università di Cosenza.May 6,
2002, Florence. Paper: “ Freedom and Moral Responsibility: Mysteries
orIllusions? ” . Department of Philosophy, University of Florence (invited
speaker). February7, 2002, Rome. Lecture La teoria della conoscenza nel
Novecento [TheTheory of Knowledge in the Twentieth Century]. Italian Society of
Philosophy (invitedspeaker)February 5, 2002, Rome. Paper on Il fondamento
filosofico dei diritti umani [ThePhilosophical Foundation of Human Rights].
Conference “ The Question of HumanRights Today ,” Università di Roma “ La
Sapienza ” (sp eaker).January 16, 2002, Pavia. Lecture on Responsabilità
e causalità: critiche a Strawson e Frankfurt [ “ Responsability and Causality:
Some Criticisms of Strawson and Frankfur t”]. Department of Philosophy,
Università di Pavia (invited speaker).October 30, 2001, Cosenza. Lecture on “
Ragioni e ca use” [ “ Reasons and causes ” ],Department of Philosophy,
Università della Calabria (invited speaker).May 27, 2001, Padua. Lecture on
“ Freedom and Naturalism ,” Department of Philosophy,Università di
Padova (invited speaker).May 8, 2001, Milan. Paper on “ Interpretations and
Criteria of Correctness ” .Conference: Interpretation and Correcteness ,
Università Statale di Milano (invitedspeaker).May 7, 2001, Bologna. Paper on
Causality and Naturalism . Annual Meeting of the ItalianSociety of Analytic
Philosophy, Università di Bologna (invited speaker).April 10, 2001, Rome. Paper
on Forms of Causation . Annual Meeting of the Italian Societyof
Philosophy, Università Roma Tre (speaker).October 5, 2000, Siena. Paper on What
P.F. Strawson Hasn ’ t Proved . Annual Conference ofthe Italian
Society of Analytic Philosophy (spekaker)May 25-26, 2000, Rome. Paper on “
Freedom and the Self ” . Conference: The Nature of theSelf, between
Philosophy and Psychology , Università Roma Tre (speaker). 21 April
16, 2000, Rome. Paper on “ Van Inwagen s Consequence Argument ”
.Workshop: Freedom and Necessity , Università Roma Tre (organizer
andspeaker).April 8, 2000, Florence. Paper on “ What we should mean with the
Word Pe r son” (withS. Maffettone). Conference Le
ragioni del corpo [The Reasons of the Body]. Istituto Gramsci (invited
speaker).December 21, 1999, Rome. Paper on “ Davidson on the Conceptual Schemes
” .Workshop: Talking with Donald Davidson , Università Roma Tre (organizer and
speaker).December 20, 1999, Rome. Speaker with D. Donald Davidson at the
presentation of the book M. De Caro (ed.), Interpretations and Causes.
New Perspectives on Donald Dav idson’s P hilosophy , Università Roma Tre
(speaker).October, 28-30 1999, Rome. Paper on “ Against an Alleged Refutation
of Kripke sSkeptical Argument ” . Conference: Facts and Norms , IV
National Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Università
Roma Tre (speaker).October 14-16, 1999, Palermo. Paper on “ Davidson on
Following a Rule ” .Conference: The Linguistic Rule . Conference of the Italian
Society of Philosophy ofLanguage (invited speaker).April 16-17, 1999, Rome.
Paper on Is Libertarianism About Free Will Scientifically Acceptable? .
Conference: Determinism and Freedom , Università Roma Tre(organizer and
speaker).September 23-26, 1998, Bologna. Paper on “ The Roots of Epistemic
Skepticism ” .Conference: Science, Philosophy, and Common Sense , III National
Conference of theItalian Society of Analitic Philosophy, Bologna
(speaker).February 27, 1997, Rome. Lecture on Freedom and Necessity .
Seminar of theInterdipartimental Reasearch Center on Scientific Methodology
(invited speaker).October 17-19, 1996, Rome. Paper on “ G.H. von Wright on the
Mind-Body Proble m”. Conference The Study of Mankind in George Henrik von
Wright , Università RomaTre (speaker).December 5-6, 1994, Rome. Paper on
“ Davidson on Holism and SemanticExterna lism”. Conference:
Perspectives on Holism , CNR Roma (organizer andspeaker).October 24-26, 1994,
Rome. Paper on “ Galileo s method ” . Conference: Philosophies of
Nature from the Renaissance to the Twentieth Century , Università Roma “
LaSapienza ” (speaker).April 2, 1993, Rome. Paper on “ Davidson on
skepticism”. Conference Donald Dav idson’s philosophy ,
Università di Roma “ La Sapienza ” (speaker and organizer).January 7-10
1993, Lucca. Paper on Logic and Philosophy of Science: Problems and
Perspectives . Triennal Meeting of Italian Society of Logic and Philosophy
ofScience (speaker) . November 30, 1991, Rome. Paper on “ Perspectives of Rea
lism”. Lecture at the Departmentof Philosophy, Università di Roma “ La Sapienza
” (speaker). November 20-22, 1989, Rome. Paper on “W ittgenstein and the
Philosophy of Mind ” .Conference: Wittgenstein on Mind and Language , Università
Roma Tre (speaker). Mario De Caro. Keywords: Davidson, Putnam,
“derivative Old-World philosopher focusing on New-World philosophers like
Putnam or Davidson!”, interpretatione, peri hermeneias, Davidson on Grice –
Grice on Putnam on Grice ‘too forma’ – Davidson on Grice – ‘a nice derangement
of epitaphs’ Grice on Davidson on intending: conversational implicature theory
too social to be true: ‘intending’ ENTAILS belief, does not IMPLICATE it!
Pears, D. F. Pears. – P. F. Strawson and H. P. Grice on ‘free’ – Actions and
Events --.- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Caro” – The Swimming-Pool Library.
CARRAVETTA: Peter Carravetta
(Lappano), filosofo.. Note Peter
Carravetta, Del postmoderno., by Alessandro Carrera iawa-West welcomes Peter Carravetta and Marisa
Frasca on Saturday, February 14, at
Sidewalk Cafe NYC IAWA’s Open Reading
Series Featuring Peter Carravetta & Marisa FrascaFebruary 14, Filosofia Letteratura Letteratura Filosofo del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloPoeti italiani del XX secoloPoeti italiani del XXI
secoloTraduttori italiani 1951 10 maggio. Grice: “Carravetta has been stealing
the Italian voice of Italian philosophers, or rather silencing it!” -- Pietro
Carravetta. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carravetta” – The
Swimming-Pool Library.
Tractatus
semeiotico-philosophicus – the opus magnum, almost, of Grice – or Speranza.
CARULLI (Bari). Filosofo. Grice:
“I like Carulli – he philosophises on things we do not philosophy at Oxford,
such as menstruation – or piegaturi, as Speranza prefers, since this is plural
– ‘delle mestruazioni’.” Grice: “But Carulli has also philosophised on some
anti-Griceian themes: my ‘fiducia’ becomes his ‘sfiducia;’ my ‘ragione’ becomes
his ‘sragione’! Delightful!” – Grice: “When I philosophised on “Not,” or “Not
I!” alla Beckett – I wouldn’t realise these are negative implicatures –
‘negative implicatures of ‘not’ – Carulli speaks of ‘negative reflections on
unaffirmation’!” “Genius!” – Grice: “Carulli can play with word: ‘il ‘mito’
della inatualitta ‘ di X’ – is this equivalent or, as I prefer, a mere vehicle
for the cancellable implicature: ‘la attualita’ di X’?!” – Grice: “Carulli
knows how to subtitle: his ‘sfiducia e sragione’ is not just that but a
Spinozian double treatise, like Witters’s abhandlung – cfr. Speranza’s “Tractatus
semeiotico-philosophicus”.Studia a Bari, una città tradizionalmente soggetta
allo storiografismo, all'impegno cattolico e al marxismo. Produce una filosofia
aliena ai grandi inganni e refrattaria alla celebrazione dei suoi miti -- la
democrazia, i diritti, la socialità, il debolismo -- con un'inconsueta
attenzione alla forma, seguendo la scuola della cosiddetta critica della
cultura, da Nietzsche in poi, unendo gli epigoni di quello ai moralisti. Partito
da posizioni di anti-storicismo puro, culminato in un Benjamin schiacciato sulla
im-politicità di ritorno della sua filosofia in “Oggettività dell'impolitico: riflessioni
negative a partire da Benjamin” (Genova, Il Melangolo). Così come da un'analisi
eterodossa dell'ultimo Schelling, De contemptu, Dello Schelling tardo (Genova,
Il Melangelo) è giunto ad esiti originali con “Metafisica delle mestruazioni”
(Genova, Il Melangolo), dove si sottrae il fenomeno femminile alle analisi
socio-antropologiche per riconsegnarlo alla sua radice metafisica. Il discorso
sul cristianesimo ritorna in “Sfiducia e sragione. Trattato teologico-politico”
(Napoli, La Scuola di Pitagora), dove si riprende inoltre la critica della
democrazia. Il cristianesimo è visto come una forma culturale stanca e
abitudinaria, ma in grado di reggere con la sua apatia allo scontro con
l'Islam. Si affaccia la verità ontologica del “ente” in diminuzione che non
giungono mai all'annullamento definitivo; una verità che lo distanzia
dall'eternità dell’ “essente” come pure dai cultori dell'annientamento. La sua filosofia, centrata ossessivamente
sugli stessi temi, può essere idealmente divisa secondo un'altra direttrice,
volta alla ri-costruzione critica pionieristica di su amico Sgalambro. In
quest'ambito pubblica “Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Sgalambro”
(Napoli, La Scuola di Pitagora); Introduzione a Sgalambro” (Genova, Il
Melangolo), e “La piccola verità. Quattro saggi su Sgalambro” (Milano,
Mimesis). Altre opere:“Lettera in La felicità? Prove didattiche di studenti
“tieffini” in formazione, Chiara Gemma, Barletta, Cafagna. Gianluca Veneziani,
Storia, verità e politica. Perché Benjamin non è un marxista, in Libero, De
contemptu, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Alighieri, Harry Potter e
le mestruazioni: l'idea bellicosa di editoria di Regazzoni, su il foglio Alessio
Cantarella, Sfiducia e sragione, su alessiocantarella, Davide D'Alessandro,
Ratzinger, Bergoglio e l'Abitudine al Cristianesimo, su il foglio. Pier
Francesco Corvino, Religio Medici. Andrea
Comincini, Per una interpretazione di Dio e del Contemporaneo, su scena illustrata.com.
alessio cantarella. Sgalambro, un metafisico distruttore, in La Sicilia. Corriere del Mezzogiorno, Sgalambro,
“impiegato di filosofia” contro i luoghi comuni, in Il Mattino, Sgalambro,
filosofo pessimista che sape come godersi la vita, in Libero, Luca Farruggio,
Una preziosa “Introduzione a Sgalambro” -- Davide D'Alessandro, Cara “Italian
Theory”, ricordati di Sgalambro, su il foglio, Introduzione a Sgalambro su rai
playradio. Alessio Cantarella, su alessiocantarella. Davide D'Alessandro, Uno
Sgalambro non isolato, tra Cacciari e Severino, su il foglio, convenzionali.wordpress.com,
Sgalambro e le piccole verità, su lgiornale. Sgalambro, l’esistenza e il peso
di dio, su scena illustrata.com. Sgalambro, il filosofo che ama la canzone, in
La Gazzetta del Mezzogiorno. Antonio Carulli. Keywords: critica della cultura,
Nietzsche, De Contemptu, Schelling, impolitico, Benjamin, menstruazione,
Aligheri sulla mestruazione, ente, essente, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Carulli”
– The Swimming-Pool Library.
CASALEGNO (Torino). Filosofo.
Grice: “I like, indeed love, Casalegno; but then, he loves me! Translating
Griice, or me, is tricky – as Mommsen says of Garet translating Cassiodoro,,
“more than a translation, he provided a correction – and he tried to prove that
Cassiodoro was a Benedictine monk.’” Grice: “Casalegno does not try to
‘translate’ Grice – let THAT to the technicians! As a philosopher, he tries to
‘re-interpret’ Grice, if a re-interpretation is needed!” Si laurea a Pisa sotto Sainati con “Aspetti della
logica modernista”. Insegna a Milano, chiamato da Bonomi. Approfondizza diversi
temi all'interno della filosofia analitica, quali il concetto di verità, la
teoria degli insiemi, l'epistemologia della testimonianza, la teoria della
ricorsività. Altre opere: “Alle origini della semantica formale,” Cuem;
“Filosofia del linguaggio: un'introduzione,” Carocci, “Teoria degli insiemi,
un'introduzione, Carocci); “Brevissima introduzione alla filosofia del linguaggio,
Carocci, Verità e significato. Scritti
di filosofia del linguaggio, Carocci,
(P. Frascolla, D. Marconi ed E. Paganini). Il puzzle di Kripke, in
Teoria, Sulla logica dei plurali, in Teoria; Tre osservazioni su verità e
riferimento, in Iride; Come interpretare l'argomento antirealista di Dummett?,
in Lingua e stile; Le proprietà modali della verità: problemi e punti di vista,
in Logica e teologia (Pisa, ETS). Un problema concernente le condizioni di
asseribilità, in Modi dell'oggettività, Milano, Bompiani, Normatività e
riferimento, in Politeia. Chomsky sul
riferimento, Monza, Polimetrica. Casalegno, il maestro della filosofia del
linguaggio, di Franco Manzoni, Corriere della Sera, Archivio storico. Grice H. P. (1975). Logica e conversazione. In P. Casalegno,
P. Frascolla, A. Iacona, E. Paganini, M. Santambrogio (a cura di). Filosofia
del linguaggio, Milano, Raffaello Cortina 2003, 221–244. Il libro che vi
presento oggi appartiene alla collana “Bibliotheca” della casa editrice
Raffaello Cortina. Il titolo è Filosofia del linguaggio (come spesso accade tra
i libri di cui ho parlato in questo blog) e si tratta di una interessante e
utile antologia di testi, appartenenti alla tradizione novecentesca della
filosofia analitica del linguaggio. I curatori sono importanti docenti
italiani, tra cui Paolo Casalegno, Pasquale Frascolla, Andrea Iacona, Elisa
Paganini e Marco Santambrogio. I testi antologizzati consentono al
lettore di farsi un’idea (e non poco approfondita) sulle principali questioni e
problematiche inerenti al linguaggio umano, su cui si è dibattuto negli ultimi
decenni in ambito analitico. Ogni testo è preceduto da una introduzione dei
curatori, in cui è presentato il pensiero dell’autore, il contesto culturale e
i concetti chiave che emergono dalla sua opera. Apre il classico Senso e
significato di Gottlob Frege (di cui avevo già parlato qui), seguono
quindi Le descrizioni di Bertrand Russell (testo che tratta delle
descrizioni definite), Significato, uso, comprensione di Ludwig Wittgenstein
(tratto dalle sue Ricerche filosofiche del 1953), Due dogmi dell’empirismo e
Relatività ontologica di Willard Van Orman Quine, Nomi e riferimento di Saul
Kripke, Significato, riferimento e stereotipi di Hilary Putnam, Interpretazione
radicale di Donald Davidson, Logica e conversazione di Paul Grice, Dispute
metafisiche intorno al realismo, di Michael Dummett, e si conclude con
l’interessante Linguaggio e natura, di Noam Chomsky. versazione – afferma Grice
- è un ' attività cooperativa alla quale i partecipanti devono contribuire in
maniera appropriata . A tale fine , bisogna che ciascuno si attenga a quattro “
massime ” che possono ... Introduzione alla filosofia del
linguaggio Paolo Casalegno 1. Significato e condizioni di verità
Prendiamo in considerazione un’idea del primo Wittgenstein: “Comprendere
una proposizione vuole dire sapere che accada se essa è vera” (Tractatus,
4.024). Poiché comprendere una proposizione equivale a conoscerne il
significato, molti hanno concluso che alla base di una teoria del significato
si deve porre la nozione di verità. Come sostenere la tesi
wittgensteiniana? Un modo può essere questo:
usiamo il linguaggio per descrivere la
realtà. Una proposizione singola fornisce una descrizione appropriata,
anche se parziale, della realtà se le cose stanno in un certo modo, una
descrizione inappropriata altrimenti. Per comprendere una proposi-zione
dobbiamo sapere quali sono le circostante in cui la descrizione della realtà
che essa offre è ap-propriata, dobbiamo sapere come deve essere fatto il mondo
affinché essa sia vera. Possiamo anche esprimerci così: per comprendere una
proposizione dobbiamo conoscere le sue ‘condizioni di veri-tà’. Evitiamo
di fraintendere. Conoscere le condizioni di verità di una proposizione è molto
diverso dal sapere se essa sia, di fatto, vera o falsa, e non bisogna dunque
confondere le due cose. Inoltre, non bisogna assumere che il conoscere
le condizioni di verità di una proposizione equivalga
a sapere come si fa, in pratica, per stabilire se essa è vera. La
tesi wittgensteiniana sembra essere ragionevole, e così anche la sua
conseguenza più immediata: una teoria del significato, ammesso che la si possa
elaborare, deve essere imperniata sulla nozione di verità. Le obiezioni che si
possono però muovere a un siffatto modo di vedere le cose sono moltepli-ci,
concentriamoci su alcune di queste. Le obiezioni possono essere, principalmente,
di due tipi. Da un lato si può concedere che compren-dere una proposizione
equivalga a conoscerne le condizioni di verità, ma respingere l’idea che la
nozione di verità sia la nozione centrale di una teoria del significato (ci
sono espressioni per le quali parlare di condizioni di verità sembra essere
assurdo). Dall’altro lato, si può più radicalmente soste-nere che il
significato delle proposizioni non può essere ridotto a un insieme determinato
di condi-zioni di verità. [Nota metodologica. Al termine ‘proposizione’
preferiamo contrapporre un gergo leggermente più tecnico, facciamo quindi uso
del termine ‘enunciato’; ciò per riferirci a quelle che talvolta si chia-mano
‘frasi dichiarative’: le frasi per mezzo delle quali si può fare un’asserzione
e delle quali ha sen-so chiedersi se siano vere o false.] La prima
obiezione si basa sull’ovvia constatazione che esistono
espressione le quali, pur essendo dotate di significato, non sono enunciati, e
alle quali, di conseguenza, non sono sensatamente attri-buibili
condizioni di verità. Ci sono espressioni
sintatticamente ben formate che non sono
frasi complete, parole singole o espressioni come ‘valigia
pesante’. Che queste espressioni abbiano un significato è
indubbio, ma che si possa parlare di condizioni di verità sembra essere
un’evidente for-zatura. In secondo luogo, ci sono frasi
complete come le interrogative e le imperative.
Inevitabil-mente, una teoria che voglia analizzare il significato di queste due
sorte di espressioni deve ricorre a nozioni diverse da quella di
verità. Sembra dunque impossibile che
proprio su questa nozione si fondi tutta quanta una
teoria del significato. Cosa si può rispondere a quest’obiezione? Si può voler
dire che la nozione di verità, sebbene non possa essere considerata l’unica
nozione di una teoria del significato, rimane in ogni caso la nozione centrale.
Si può sostenere che anche il significato delle espressioni che non sono
enunciati ha a che fare con la verità. Consideriamo il caso delle parole
singole: queste servono a costruire frasi complete, è di queste in-fatti che ci
serviamo per parlare, non di parole isolate (a meno che le parole singole non
fungano esse stesse da frasi complete). Ci interessa che le parole abbiano un significato
perché ci interessa che abbiano un significato le frasi complete in cui esse
figurano. Conoscere il significato di una pa- 1 rola, comprenderla, equivale in
definitiva a sapere qual è il suo contributo al significato delle frasi: in
particolare alle condizioni di verità degli enunciati. Non è possibile spiegare
in che cosa consista per una parola essere nome di qualcosa — e, più in
generale, che cosa sia il significato di una parola qualsiasi — se non
presupponendo la nozione di verità. Una teoria del significato deve fare
appello alla nozione di verità anche nell’analisi delle parole singole (questo
vale anche per frasi più com-plesse che tuttavia non sono frasi complete)
(MAH). Vediamo ora il caso delle frasi complete che non sono enunciati.
Se ci si riflette un po’ su, ci si ren-de conto che la nostra capacità di
capire e di usare correttamente frasi interrogative e imperative dipende dalla
nostra capacità di usare il linguaggio per descrivere il mondo, il che comporta
che si sappia quando una descrizione è appropriata e quando non lo è, il che ci
riporta, ancora una volta, alle condizioni di verità. Nel caso di domande molto
semplici, domande che esigono come risposta un ‘Sì’ o un ‘No’, ciò è evidente:
queste domande (come ‘è partito il treno per Udine’)corrispon-dono in modo
ovvio a un enunciato, ora è ovvio che ciò che vuole sapere chi formula la
domanda è sapere se questo enunciato sia vero o falso. É anche chiaro che il
rispondere ‘Sì’ alla domanda equi-vale al dire che è vero, e rispondere ‘No’ al
dire che è falso. A conclusioni analoghe si perviene ri-flettendo sui casi
delle interrogative che non richiedono una risposta nei termini di una
negazione o un’affermazione, e delle frasi
imperative. La centralità della nozione di
verità sembra così essere confermata. Della
seconda obiezioni esistono più varianti,
potremmo perciò formularla come segue.
Concen-trando l’attenzione sulle condizioni di verità, si privilegia solo uno
degli scopi cui il linguaggio può essere adibito: la descrizione della realtà,
la trasmissione di informazioni su come è fatto il mondo. E questa è una mossa
evidentemente arbitraria. Se si decide di ignorare la straordinaria varietà
degli usi cui gli enunciati possono essere adibiti nelle circostanze concrete
delle vita per concentrarsi in modo esclusivo sul loro ruolo di
veicoli di informazione, ci si condanna ad offrire del linguaggio un’immagine
desolantemente impoverita. Del resto anche se si è interessati al linguaggio
come mez-zo per descrivere la realtà, bisogna convincersi che anche da questo
punto di vista le cose sono assai più complicate. In primo luogo, il fornire
informazione non può mai ridursi al proferire enunciati in modo casuale e
sconnesso: parlando dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci
tro-viamo, delle informazioni di cui i
nostri interlocutori già dispongono, delle
loro aspettative ecc.; inoltre, ci sono regole precise di
costruzione del discorso, violando le quali ciò che diciamo potreb-be non esser
compreso o risultare folle. Per tutto questo le condizioni di verità non
bastano. In se-condo luogo, le condizioni di verità degli enunciati sono
concepite di solito come qualcosa di relati-vamente fisso e stabile. Di
conseguenza, se il contenuto informativo degli enunciati dipendesse per intero
dalle loro condizioni di verità, dovrebbe essere a sua volta stabile. Ma solo
fintanto che si con-templano gli enunciati prescindendo da ogni loro impiego
effettivo si può avere l’impressione che sia così. Ciò che si può
comunicare con un dato enunciato varia enormemente con il variare dei
contesti. La risposta abituale a questa obiezione consiste nell’evocare la
distinzione tra semantica e pragmati-ca, una distinzione che risale a un saggio
di Charles Morris, secondo il quale lo studio di una lingua, o di un qualsiasi
altro sistema di segni, si compone di tre parti: sintassi, semantica e
pragmatica. La sintassi si occuperebbe dei segni in quanto tali, prescindendo
dalla loro interpretazione e dal loro uso, la semantica del significato dei
segni, e la pragmatica di ciò che con i segni si può fare, dei loro impieghi
concreti. Un’obiezione come sopra, si può dire, confonde semantica e
pragmatica. Qualcuno potrebbe però voler dire che questa risposta si
riduce, nei fatti, ad una mera stipulazione definitoria. Il problema è se un
tale modo di circoscrivere la semantica disgiungendola dalla prag-matica sia
giustificato o meno: se cioè la decisione di isolare le condizioni di verità da
altre dimen-sione del linguaggio rispecchi un’articolazione intrinseca della
nostra competenza di parlanti, iden-tifichi un livello realmente fondamentale,
e possa costituir una scelta metodica feconda. Due punti: né il filosofo
del linguaggio né il linguista sono tenuti a rendere conto di tutti gli usi
pos-sibili del linguaggio. Si è tenuti a rendere conto solo di quelli che
potremmo chiamare gli usi “lin-guistici” del linguaggio (MAH). Se focalizziamo
la nostra attenzione su questi usi, possiamo convin-cerci che l’idea di
partenza mantiene la propria plausibilità: sembra che la conoscenza delle
condi-zioni di verità degli enunciati svolga un ruolo
essenziale anche quando sono coinvolti fattori che non sono
riducibili alle condizioni di verità pure e semplici. Non solo è legittimo
distinguere seman-tica e pragmatica nel modo che si è detto, ma la pragmatica
presuppone la semantica (MAH). Ad esempio si è rilevato come gli enunciati
siano usati spesso per trasmettere un contenuto informativo 2 Questa
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pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti importanti! stato di
cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la nozione di forma è
quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di interpretazioni che ha
subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda complicazione. Una
proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso la mediazione di un
“pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine: un’immagine mentale i cui
elementi sono “costituenti psichici”. Usando
le parole di Wittgenstein si può
continuare a dire, come faceva Frege, che ogni proposizione esprime
un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero espresso è il senso della
proposizione: il senso della proposizione è lo stato di cose di cui è il
pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite il pensiero,
rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il rapporto fra una
proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato. Il motivo è che
il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il linguaggio trave-ste i
pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore dell’abito non si può
concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la forma esteriore
dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far conoscere la forma
del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che la strutture di una
proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi fedelmente la
struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti. Quindi, fintanto
che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire che le proposizione
elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è corretto solo
approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è un’immagine
solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e propria che
è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di cose che
rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale:
oggetti non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso
co-mune (?) e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio
ordinario. Ciò che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione
completamente analizzata dagli oggetti del senso comune è il
requisito della semplicità. L’oggetto deve
essere semplice, ma di questa semplicità il Tractatus
non da’ neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la
genesi del Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente
di Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli
oggetti semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava
l’esi-stenza non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì
sulla base di considerazioni logiche astratte e generali. In effetti
un’argomentazione vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus
si in-contrano soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli
oggetti formano la sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”;
“Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso
dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora
impossibile progettare un’immagine del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo
presumere che il ragionamento di Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I)
Anzitutto, affinché una proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che
figura in essa corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue
dall’idea che le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi
potessero corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna
garanzia che ad un dato nome corrisponda davvero qualcosa.
Un’entità complessa consta di entità più semplici correlate in un certo
modo; ora, che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te.
5 stato di cose che l’immagine rappresenta. Tuttavia va notato che la
nozione di forma è quanto mai elusiva, come testimonia il gran numero di
interpretazioni che ha subito da parte di studiosi. Vi è poi una seconda
complicazione. Una proposizione rappresenta uno stato di cose solo attraverso
la mediazione di un “pensiero”. Il pensiero è esso stesso un’immagine:
un’immagine mentale i cui elementi sono “costituenti psichici”.
Usando le parole di Wittgenstein si
può continuare a dire, come faceva Frege, che ogni
proposizione esprime un pensiero, ma non si può più dire che il pen-siero
espresso è il senso della proposizione: il senso della proposizione è lo stato
di cose di cui è il pensiero è immagine e che la proposizione stessa, tramite
il pensiero, rappresenta (?). Nel caso del linguaggio ordinario, il
rapporto fra una proposizione e il pensiero che essa esprime è molto intricato.
Il motivo è che il linguaggio ordinario è logicamente imperfetto: “Il
linguaggio trave-ste i pensieri. E precisamente così che dalla forma esteriore
dell’abito non si può concludere alla forma del pensiero rivestito; perché la
forma esteriore dell’abito è formata per ben altri scopi che quello di far
conoscere la forma del corpo” (Cfr. Ricerche filosofiche). É ben difficile che
la strutture di una proposizione elementare del lin-guaggio ordinario rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero e dello stato di cose corrispondenti.
Quindi, fintanto che ciò cui ci si riferisce è il linguaggio ordinario, dire
che le proposizione elemen-tari sono immagini significa dire qualcosa che è
corretto solo approssimativamente. Una proposizio-ne del linguaggio ordinario è
un’immagine solo in via derivata, in quanto associata a quell’immagi-ne vera e
propria che è il pensiero. Il pensiero è collegato da un lato allo stato di
cose che rappre-senta in virtù della sua natura di immagine, dall’altro alla
proposizione attraverso una “legge di pro-iezione” circa la quale il Tractatus
non ci fornisce ulteriori notizie. Una proposizione che rispecchi
fedelmente la struttura del pensiero espresso è detta da
Wittgen-stein “completamente analizzata”. Se si vuole evitare ogni
travestimento del pensiero, bisogna ricor-rere per forza ad un linguaggio
artificiale costruito in modo da essere esente da fallacie logiche. La
convinzione che il linguaggio ordinario sia logicamente imperfetto è alla base
della concezione della filosofia che emerge dal Tractatus. Per un verso, “il
più delle questioni e delle proposizioni che sono state scritte su cose
filosofiche è non falso, ma insensato”, perché “si fonda sul fatto che noi non
comprendiamo la nostra logica del linguaggio”, che ci lasciamo sviare dal modo
ingannevole in cui il linguaggio ordi-nario esprime i pensieri; per un altro
verso, “scopo della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri. La
filosofia è non una dottrina, ma un’attività. […] Risultato della filosofia non
sono “proposizioni filosofiche”, ma il chiarirsi di proposizioni”. Wittgenstein
rinnegherà il Tractatus per intero, ma questa concezione della filosofia
resterà per lo più immutata. I nomi che figurano in una proposizione
completamente analizzata devono denominare oggetti di tipo molto speciale: oggetti
non identificabili con le entità che popolano l’ontologia del senso co-mune (?)
e quindi diversi dagli oggetti associati ai nomi del linguaggio ordinario. Ciò
che contraddi-stingue gli oggetti nominati in una proposizione completamente
analizzata dagli oggetti del senso comune è il requisito
della semplicità. L’oggetto deve essere
semplice, ma di questa semplicità il Tractatus non da’
neanche un esempio. Leggendo i Quaderni che documentano in parte la genesi del
Tractatus, si scopre che una preoccupazione ricorrente di
Wittgenstein era proprio quella di non riuscire a fornire degli oggetti
semplici una caratterizzazione esplicita e diretta. Ne postulava l’esi-stenza
non perché ne avesse in mente esempi specifici, bensì sulla base di
considerazioni logiche astratte e generali. In effetti un’argomentazione
vera e propria Wittgenstein non la produce mai. Nel Tractatus si in-contrano
soltanto qua e là affermazioni piuttosto enigmatiche: “Gli oggetti formano la
sostanza del mon-do, perciò non possono essere composti”; “Se il mondo non
avesse una sostanza, l’avere una proposizione senso dipenderebbe dall’essere
un’altra proposizione vera”; “Sarebbe allora impossibile progettare un’immagine
del mon-do (vera o falsa)”. Possiamo presumere che il ragionamento di
Wittgenstein vada ricostruito come se-gue. (I) Anzitutto, affinché una
proposizione abbia senso, bisogna che a ogni nome che figura in essa
corrisponda un oggetto. Questo, come si è osservato sopra, segue dall’idea che
le proposizione elementari siano immagini. (II) Se ai nomi potessero
corrispondere entità complesse, non ci sarebbe a priori nessuna garanzia che ad
un dato nome corrisponda davvero qualcosa. Un’entità
complessa consta di entità più semplici correlate in un certo modo; ora,
che sussista una tale correlazione è un fatto contingen-te. 5
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(III) Pertanto, se ai nomi potessero corrispondere entità complesse, non ci
sarebbe a priori nessuna garanzia che una data proposizione abbia un senso.
Supponiamo che nella proposizione P figuri il nome N: se a N potesse
corrispondere un’entità complessa C, saremmo sicuri che a N corri-sponde
davvero qualcosa, e quindi che P ha senso, solo se fossimo sicuri
che C esiste: in altri termini, solo se sapessimo già che è vera la
proposizione P’ la quale asserisce che gli elementi costituitivi di C sono
correlati in quel certo modo. Come dice Wittgenstein, “l’avere una
proposi-zione senso dipenderebbe dall’essere un’altra proposizione vera”. (IV)
Ma questo sarebbe assurdo. Se una proposizione abbia senso oppure no deve
essere chiaro a priori. É inconcepibile che la sensatezza o l’insensatezza di
una proposizione possa essere “sco-perta”. Se, per essere sicuri che una proposizione
è sensata, dovessimo sempre aver stabilito pri-ma la verità di un’altra
proposizione, si genererebbe un regresso all’infinito, e noi non potrem-mo mai
sapere se, parlando, stiamo dicendo alcunché di determinato. Non saremmo mai in
gra-do di “progettare un’immagine del mondo vera o falsa”.
(V)Conclusione: devono esserci oggetti semplici e sono gli oggetti semplici che
devono corrispon-dere ai nomi del nostro linguaggio. NB. In questo
ragionamento, la corrispondenza tra entità complesse e oggetti semplici viene
fatta coincidere con quella tra entità la cui esistenza è un fatto contingente
ed entità la cui esistenza è in-vece necessaria e nota a priori. “É manifesto
che un mondo, per quanto diverso sia pensato da quello reale, pure deve avere
in comune con il mondo reale qualcosa — una forma —”; “Questa forma fissa
consta appunto degli oggetti”. La proposizione (I) non è dunque
un’immagine vera e propria: la sua struttura non rispecchia la struttura di uno
stato di cose perché i costituenti ultimi di uno stato di cose sono sempre
oggetti semplici, mentre Piero e Marco sono entità complesse. I termini ‘Piero’
e ‘Marco’ non sono nomi del tipo che a Wittgenstein interessa. Questo però non
implica che (I) sia priva di senso. Grazie alla mediazione del pensiero un
senso ce l’ha (?), ma per esplicitarlo adeguatamente bisognerebbe ri-correre a
proposizioni con una struttura del tutto diversa: a proposizioni completamente
analizzate. Si può finalmente comprendere perché ai nomi non si possa
attribuire, a suo avviso, un senso di tipo descrittivo come quello cui pensava
Frege. Identificare un oggetto attraverso una descrizione vuole dire
identificarlo riferendosi ad uno stato di cose di cui esso fa parte. Ma il
sussistere di uno stato di cose è sempre un fatto contingente, mentre la
correlazione di un nome con l’oggetto che ne costi-tuisce il significato deve
essere garantita a priori. Pertanto, ciò che istituisce la correlazione
nome/oggetto non può essere una descrizione dell’oggetto stesso.
Vediamo ora cosa Wittgenstein sostiene riguardo
le proposizioni complesse. La sua idea è
che le proposizioni complesse siano funzioni
di verità delle proposizioni elementari che
figurano come loro costituenti. Supponiamo che le proposizioni elementari
che figurano nella proposizione com-plessa P siano P1, …, Pn. Allora dire che P
è una funzione di verità di P1, …, Pn equivale a dire che il valore di verità
di P dipende esclusivamente dai valori di verità di P1, …, Pn (negazione,
congiun-zione, disgiunzione, condizionale…). Per visualizzare il modo in
cui il valore di verità di una proposizione costruita per mezzo di un dato
connettivo dipende dai valori di verità delle proposizioni costituenti,
Wittgenstein propone un arti-ficio grafico: le cosiddette ‘tavole di
verità’. Tavola di verità della negazione: P¬ PT (1)F (0)F (0)T (1)
6 Tavola di verità della congiunzione: Tavola di verità della disgiunzione
(inclusiva): Wittgenstein osserva che le tavole di verità, così come
sono, potrebbero addirittura fungere da pro-posizioni complesse di un
linguaggio artificiale: ad esempio, le tre tavole di verità sopra
riportate potrebbero essere usate in luogo di ¬ P,( P ^ Q),(P ∨ Q). Se si seguisse questo suggerimento si
di-sporrebbe di un simbolismo autoesplicativo ma anche enormemente
ingombrante. Notiamo ora una grossa differenza tra Frege e Wittgenstein
nel modo di concepire i connettivi logi-ci. Per Frege ogni connettivo denota
una certa funzione che associa valori di verità a valori di verità (dove i valori
di verità vanno pensati come oggetti). Frege avrebbe dunque interpretato la
tavola di verità per un connettivo come un modo per descrivere la funzione da
esso denotata. Per Wittgen-stein, invece, i connettivi non denotano nulla.
Tutto quel che c’è da dire circa un connettivo è che esso consente di costruire
proposizioni complesse il cui essere vere o false dipende, secondo certe
modalità determinate, dall’essere vere o false le proposizioni costituenti.
Chiedersi che cosa denoti un connettivo è, per Wittgenstein, come chiedersi che
cosa denotino le parentesi. A queste considerazioni circa le proposizioni
complesse è strettamente collegata la concezione witt-gensteiniana della
logica. Né Frege né Russell avevano saputo spiegare che cosa contraddistingue
una proposizione logica da una proposizione di altro tipo, e questo era proprio
uno degli obbiettivi di Wittgenstein nella stesura del Tractatus. Se si pensa
ancora una volta al valore di verità di una pro-posizione complessa
come determinato dai valori di verità dei suoi
costituenti elementari, si può constare che ci sono due casi
limite: quello in cui una proposizione complessa risulta vera, e quello in cui
una proposizione complessa risulta essere falsa, per tutte le possibili
combinazioni di verità dei costituenti elementari. Una proposizione del primo
tipo Wittgenstein la chiama ‘tautologia’, una del secondo tipo
‘contraddizione’. Ciò che Wittgenstein sostiene circa la natura della
logica è che essa consta per intero di tautologie. É l’essere una tautologia
ciò che contraddistingue una proposizione logica da qualsiasi altra. Una
pro-posizione logica non è tale per via del suo contenuto ma, piuttosto, perché
non ha contenuto, per-ché non dice nulla. Le tautologie non possono fornirci
alcuna informazione sulla realtà. Il loro inte-ressa sta nel fatto che, essendo
vere in virtù delle sole regole del linguaggio, esse ci mostrano come questo
funzioni. Avevamo detto che il senso di una proposizione elementare è lo
stato di cose che la proposizione rappresenta. Alle proposizioni
complesse questa nozione di senso non può essere applicata
senza modifiche. Il motivo è che, se P è una proposizione complessa, non c’è
uno stato di cose di cui si possa ragionevolmente dire che è rappresentato da
P. Tuttavia, se Wittgenstein ha ragione nel dire che tutte le proposizioni
complesse sono funzioni di verità dei loro costituenti proposizionali
ele-mentari, l’essere P vera o falsa dipende pur sempre dal sussistere o non
sussistere di certi stati di cose. Ciò che Wittgenstein dunque propone è di
identificare il senso di P con quelle combinazioni del sussistere e non
sussistere degli stati di cose S1, …, Sn per le quali P risulta vero. “Il senso
della PQP ^ QTTTTFFFTFFFFPQP ∨
QTTTTFTFTTFFF 7 Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti
parti importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non
perderti parti importanti! è un'attività cooperativa alla quale i partecipanti
devono contribuire in maniera appropriata. A tale fine bisogna che ciascuno si
attenga a quattro “massime”: CASALEGNO “FILOSOFIA DEL
LINGUAGGIO”:1.SIGNIFICATO E CONDIZIONI DI VERITA’:-“TRATTATO LOGICO-FILOSOFICO”
di Wittgenstein: CAPIRE UNA PROPOSIZIONE SIGNIFICA SAPERE COSA ACCADE SE ESSA
E’VERA( alla base deve esserci la nozione di verità)-LINGUAGGIO: usato x
descrivere la realtà, attraverso la PROPORZIONE che fornisce una descrizione
della realtà= X COMPRENDERLA DOBBIAMO SAPERE QUALI SONO LE CIRCOSTANZE IN CUI
LA PROPORZIONE E’ APPROPIATA,DOBBIAMO CONOSCERE LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’(circostanze
in cui essa è vera)-FRAINTENDIMENTI POSSIBILI:*1.CONOSCERE LE CONDIZIONI DI
VERITA’ DI UNA PROPOSIZIONE E’ DIVERSO DAL SAPERE SE E’ V O FEs: l’uomo + alto
del mondo è bruno= NON SO SE E’ VERA MA CONOSCO LE CONDIZIONI DI VERITA’ES :
Napoleon was defeated by Nelson=E’ VERA ,MA NON CONOSCO L’INGLESE E NON CONOSCO
LE SUE CONDIZIONI DI VERITA’*2. CONOSCERE LE CONDIZIONI DI VERITA’ DI UNA
PROPOSIZIONE EQUIVALE A SAPERE COME SI FA X STABILIRE SE ESSA E’ VERAEs: La
luna ha un diametro superiore ai tremila km= CONOSCO BENE LE CONDIZIONI DI
VERITA’,MA NON CONOSCO IL METRO X VALUTARE IL DIAMETRO DELLA LUNA XCIO’ NON SO
COME SI FA A STABILIRE SE ESSA E’ VERA-PROPOSIZIONE=FRASE DICHIARATIVA(x mezzo
della quale si può fare un asserzione e ha senso chiedersi se è v o
f)=ENUNCIATO*tesi è plausibile ma può essere soggetta a critiche,2
obiezioni:1.ESPRESSIONI DOTATE DI SIGNIFICATO ,MA NON ENUNCIATI ALLE QUALI NON
HA SENSO ATTRIBUIRE CONDIZIONI DI VERITA’ : espressioni sintatticamente ben
formate che non sono frasi complete-PAROLE SINGOLE ,ESPRESSIONI COME “VALIGIA
PESANTE”,FRASI INTERROGATIVE-ESCLAMATIVE(Dov’è l’ombrello?, Mi porti il
conto!*LA NOZIONE DI VERITA’ NON E’ L’UNICA MA E’ CENTRALE NELLA TEORIA DEL
SIGNIFICATO: anche nell’analisi delle PAROLE SINGOLE,ESPRESSIONI COMPLESSE E
FRASI COMPLETE CHE NON SONO ENUNCIATI2.LA NOZIONE DI CONDIZIONE DI VERITA’ NON
E’ SUFFICIENTE X UN’ANALISI ADEGUATA DEL SIGNIFICATO DEGLI ENUNCIATI -
concentrando l’attenzione sulle condizioni di verità si privilegia la
descrizione della realtà , ma questo atteggiamento è arbitrario: UN INDIVIDUO
PUO’ PROFERIRE ENUNCIATI X + FINI E IN TUTTI I CASI NON HA MOLTA IMP SE
GLI ENUNCIATI SONO V O F *parlando dobbiamo tenere conto della situazione in
cui ci troviamo, delle info che possiedono i nostri interlocutori, delle loro
aspettative e delle regole della costruzione del discorso -GLI ENUNCIATI HANNO
CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO LETTERALE”,MA
E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE UN PARLANTE
IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in 3
parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI ASPETTI
DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI VERITA’3.PRAGMATICA: si
occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro impegni
concreti*GRICE: -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE I
PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4
massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo 2.QUALITA’= non dire cs false
3. RELAZIONE=cose pertinenti 4.MODO= parlare in modo chiaro
e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là del
significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo
analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna -inventa
IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la
teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento
inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO
DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato
linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE
LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è
l’individuo Aristotele La montagna + alta al mondo=
SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’
ABBREVIAZIONE DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni
definite= ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME
HA SENSI DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del
linguaggio naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro
senso-senso diverso da rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE -GLI ENUNCIATI
HANNO CONDIZIONI DI VERITA’ CORRISPONDENTI AL LORO “SIGNIFICATO
LETTERALE”,MA E’INSUFFICIENTE X CAPIRE CIO’ CHE QUELL’ENUNCIATO PUO’ VOLER DIRE
UN PARLANTE IN UN CONTESTO CONCRETO*Morris= lo studio della lingua si divide in
3 parti:1.SINTASSI: studia segni in quanto tali2.SEMANTICA: STUDIO DEGLI
ASPETTI DI SIGNIFICATO CHE HANNO ACHE FARE CON LE CONDIZIONI DI
VERITA’3.PRAGMATICA: si occupa di ciò che con i segni si può fare,dei loro
impegni concreti*GRICE: -conversazione= ATTIVITA’ COOPERATIVA ALLE QUALE
I PARTECIPANTI DEVONO CONTRIBUIRE IN MANIERA APPROPRIATA, dobbiamo rifarci a 4
massime:1.QUANTITA’=giusta via di mezzo 2.QUALITA’= non dire cs
false 3. RELAZIONE=cose pertinenti 4.MODO= parlare in
modo chiaro e ordinato*massime violate x comunicare qualcosa che va al di là
del significato letterale= IMPLICATURA CONVERSAZIONALE2.FREGE:primo filosofo
analitico-contribuisce alla nascita della logica moderna -inventa
IDEOGRAFIA: linguaggio formale *Ritiene che alla base della filosofia ci sia la
teoria del significato-è diffidente verso il linguaggio ordinario, è strumento
inaffidabile= x questo crea l’ideografia-LA FILOSOFIA DEVE LIBERARE IL PENSIERO
DAI VINCOLI DELLA PAROLA-TEORIA SEMANTICA: riguardo alla natura del significato
linguistico generale1.SINN:senso(OGGETTIVO,NOZIONE
LOGICA)2.BEDETUNG:significato= riferimentoEs: Aristotole= SIGNIFICATO è
l’individuo Aristotele La montagna + alta al mondo=
SIGNIFICATO è il Monte Everest-TERMINI SINGOLARI: * nomi propri = E’ ABBREVIAZIONE
DI UNA DESCRIZIONE D. es: Totò,Grazia,New York *descrizioni definite=
ARTICOLO DET SING+NOME SINGOLARE es: IL marito di Luisa-UN NOME HA SENSI
DIVERSI, x diversità di parlanti e tempi differenti=difetto del linguaggio
naturale-le espressioni hanno un significato in virtù del loro senso-senso
diverso da rappresentazione= E’ SOGGETTIVA,PRIVATA, NOZIONE
PSICOLOGICA:IMMAGINI,SENSAZIONI,STATI D’ANIMO CHE EVOCANO PAROLE Questa pagina
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DEL LINGUAGGIO – PAOLO CASALEGNO + DISPENSE.INTRODUZIONEPlatone, Socrate,
MedioevoPREMESSAPARADIGMA CLASSICO DEL 900FregeRussellWi�gensteinTarskiQuinePutnamFREGESENSO
E SIGNIFICATOENUNCIATI DI IDENTITÀ (A=A/A=B)TERMINI SINGOLARI (NOMI PROPRI e DESCRIZIONI
DEFINITE)ENUNCIATIPREDICATIPRINCIPI (del CONTESTO, di COMPOSIZIONALITÀ e di
SOSTITUIBILITÀ)QUANTIFICATORIRUSSELLLE DESCRIZIONIDESCRIZIONI
INDEFINITEWITTGENSTEINSTATI DI COSEIMMAGINEFATTORAFFIGURAZIONEFUNZIONI DI
VERITÀCONNETTIVI PROPOSIZIONALITAUTOLOGIECONTRADDIZIONI TAVOLE DI VERITÀLA
NOZIONE DI VERITÀ IN LOGICA.TARSKILINGUAGGIO OGGETTO e METALINGUAGGIODEFINIRE
LA VERITÀCONVENZIONE VCOSTANTI (INDIVIDUALI, PREDICATIVE e LOGICHE)SIMBOLI
AUSILIARISODDISFACIMENTOPARADOSSIVERITÀ RELATIVA AD UN MODELLOCARNAPDESCRIZIONI
DI STATOESTENSIONE e INTENSIONEPOSSIBILITÀ e NECESSITÀ LOGICHEKRIPKEVERITÀ
LOGICAMODELLO KVERBI DI CREDENZADEISSI (o INDICALI)QUINEDUE DOGMI
DELL’EMPIRISMOANALITICO / SINTETICORIDUZIONISMOREGOLE SEMANTICHETEORIA DELLA
VERIFICAZIONE Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! Questa pagina non è visibile nell’anteprima Non perderti parti
importanti! - il significato non può essere rido�o ad un
insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla constatazione ovvia che esistono
espressioni che, pur avendo significato, non sono enuncia� e
quindi non gli si possono a�ribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu� gli
studen� che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por� il
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enuncia� ha a che fare con la
verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola
essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del
significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole
singole.Questa linea argomenta�va risale a Frege e si può
applicare anche alle espressioni complesse. Rifle�endoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interroga�ve ed
impera�ve dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del
significato degli enuncia�. Concentrando l’a�enzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di
ignorare i vari usi cui gli enuncia� possono essere adibi� per
concentrarsi sul loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare
impoverito. Poi, però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista
le cose sono molto più complicate, per due mo�vi:-
parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui ci troviamo. Ci
sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere questo, conoscere
le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come qualcosa di fisso e
stabile. Se il contenuto informa�vo degli enuncia�
dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In realtà, varia col
variare dei contes�.Restano aperte solo due opzioni:- respingere la nozione di CDV-
amme�ere che gli enuncia� abbiano CDV che corrispondono
al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate la dis�nzione
tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo Morris, lo studio di una
lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in quanto tali;SEMANTICA che
riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che riguarda gli impieghi concre� dei
segniL’obiezione, dunque, sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella
direzione giusta, ma serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe riba�ere che
tu�o ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la seman�ca sia gius�ficato.
So�olineiamo due pun�:- non si è tenu� a
rendere conto di tu� gli usi possibili del linguaggio - il significato non può essere
rido�o ad un insieme di CDV.OBIEZIONE #1.Essa si basa sulla
constatazione ovvia che esistono espressioni che, pur avendo significato, non
sono enuncia� e quindi non gli si possono a�ribuire CDV. Tra di esse
troviamo:- espressioni ben formate che non sono complete, come ad ex. “Tu� gli
studen� che hanno superato la prova”- frasi complete come le
INTERROGATIVE e le IMPERATIVE, come ad ex. “Dov’è l’ombrello?” o “Mi por� il
conto!”Cosa si può rispondere a questa obiezione???Che la NDV di una teoria del
significato ne resta comunque la nozione centrale, poiché anche il significato
delle espressioni che non sono enuncia� ha a che fare con la
verità. Inoltre, non è possibile spiegare in cosa consista per una parola
essere nome di qualcosa se non presupponendo la NDV. Ancora, la teoria del
significato deve fare in ogni caso appello alla NDV nell’analisi delle parole
singole.Questa linea argomenta�va risale a Frege e si può
applicare anche alle espressioni complesse. Rifle�endoci,
ci si può convincere che la nostra capacità di capire ed usare frasi interroga�ve ed
impera�ve dipende dalla nostra capacità di usare il linguaggio per
descrivere il mondo. E ciò comporta sapere quando una descrizione è appropriata
o meno. OBIEZIONE #2.Essa consiste nel sostenere che la nozione di CDV non è sufficiente per un’analisi adeguata del
significato degli enuncia�. Concentrando l’a�enzione sulle CDV si
privilegia uno solo degli scopi del linguaggio. Per cui, se si decide di ignorare
i vari usi cui gli enuncia� possono essere adibi� per concentrarsi sul
loro ruolo di veicoli di informazione, il linguaggio appare impoverito. Poi,
però, bisogna convincersi che anche da questo punto di vista le cose sono molto
più complicate, per due mo�vi:- parlando, dobbiamo sempre tener conto della situazione in cui
ci troviamo. Ci sono regole precise di costruzione del discorso e per sapere
questo, conoscere le CDV non basta. - le CDV sono considerate di solito come
qualcosa di fisso e stabile. Se il contenuto informa�vo
degli enuncia� dipendesse dalle CDV dovrebbe essere a sua volta stabile. In
realtà, varia col variare dei contes�.Restano aperte solo due
opzioni:- respingere la nozione di CDV- amme�ere che gli enuncia�
abbiano CDV che corrispondono al loro SIGNIFICATO LETTERALERISPOSTA = evocate
la dis�nzione tra SEMANTICA e PRAGMATICA che risale a MORRIS.Secondo
Morris, lo studio di una lingua si compone di:SINTASSI che riguarda i segni in
quanto tali;SEMANTICA che riguarda il significato dei segni;PRAGMATICA che
riguarda gli impieghi concre� dei segniL’obiezione, dunque,
sembra confondere SEMANTICA e PRAGMATICA. Siamo nella direzione giusta, ma
serve qualche integrazione. Qualcuno potrebbe riba�ere che
tu�o ciò si riduce ad una mera definizione. Il problema è se questo
modo di circoscrivere la seman�ca sia gius�ficato.
So�olineiamo due pun�:- non si è tenu� a
rendere conto di tu� gli usi possibili del linguaggio Questa pagina non è visibile
nell’anteprima Non perderti parti importanti! - è legi�ma la dis�nzione
tra seman�ca e pragma�ca e, anzi, la pragma�ca presuppone la seman�caQuesto
secondo punto è messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE
CONVERSAZIONALI di GRICE, secondo cui una conversazione è un’a�vità
coopera�va alla quale i partecipan� devono contribuire in
modo appropriato; per questo è necessario che ciascuno si a�enga a
4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né maggiori di quanto
richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi false o per cui non ci
sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose per�nen�4-
MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità - è
legi�ma la dis�nzione tra seman�ca e pragma�ca e,
anzi, la pragma�ca presuppone la seman�caQuesto secondo punto è
messo bene in luce dalla TEORIA DELLE IMPLICATURE CONVERSAZIONALI di GRICE,
secondo cui una conversazione è un’a�vità coopera�va alla
quale i partecipan� devono contribuire in modo appropriato; per questo è necessario
che ciascuno si a�enga a 4 massime:1- QUANTITÀ: fornire informazioni né minori né
maggiori di quanto richiesto al momento2- QUALITÀ: non dire cose che credi
false o per cui non ci sono prove adeguate3- RELAZIONI: dire cose per�nen�4-
MODO: parlare in modo chiaro ed ordinato, evitando oscurità ed ambiguità
Paolo
Stefano Casalegno. Paolo Casalegno. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casalegno” – The Swimming-Pool Library.
CASANOVA (Veenezia). Filosofo. Grice: “It is
fascinating to analyse what Casanova calls ‘piegadura’, or ‘piegadure,’ in the
plural – bendings – my implicatura is a bit like his piegadura, only less
acute!” -- Grice: “I would hardly call Casanova a philosopher, but my wife
hardly would not!” -- Giacomo Casanova ritratto dal fratello Francesco Giacomo
Girolamo Casanova (Venezia) avventuriero, scrittore, poeta, alchimista,
esoterista, diplomatico, finanziere, scienziato, filosofo e agente segreto
della Serenissima italiano, cittadino della Repubblica di Venezia. Benché
di lui resti una produzione letterariatra trattati e testi saggistici
d'argomento vario (s'occupò, nell'ampia gamma dei suoi interessi, perfino di
matematica) e opere letterarie in prosa come in versivastissima, viene a tutt'oggi
ricordato principalmente come un avventuriero e, per via della sua vita amorosa
a dir poco movimentata, come colui che fece del proprio nome l'antonomasia del
soave e raffinato seduttore e libertino. A tutt'oggi un playboy viene spesso
chiamato "casanova". A questa sua fama di grande conquistatore
di donne contribuì verosimilmente la sua opera più importante e celebre:
Histoire de ma vie (Storia della mia vita), in cui l'autore descrive, con la
massima franchezza (pur non per questo privandosi d'anedotti romanzeschi e
alcuni abbellimenti), le sue avventure, i suoi viaggi e, soprattutto, i suoi
innumerevolissimi incontri galanti. L'Histoire è scritta in francese: tale
scelta linguistica fu dettata principalmente da motivi di diffusione
dell'opera, in quanto all'epoca il francese era la lingua più conosciuta e
parlata dalle élite d'Europa. Fra corti e salotti vari, si ritrovò a
vivere, quasi senza rendersene conto, un momento di svolta epocale della
storia, non comprendendo affatto lo spirito di fortissimo rinnovamento che
avrebbe fatto virare la storia in direzioni mai percorse prima; rimase infatti
ancorato fino alla fine dei propri giorni ai valori, precetti e credenze
dell'ancien régime e della sua rispettiva classe dominante, l'aristocrazia,
alla quale era stato escluso per nascita e della quale cercò disperatamente di
far parte, anche quando essa era ormai irrimediabilmente avviata al crepuscolo,
per tutta la propria vita. Tra le personalità eccelse dell'epoca che ebbe modo
di conoscere personalmente, e di cui ci ha lasciato testimonianza diretta, si
possono citare Jean-Jacques Rousseau, Voltaire, Madame de Pompadour, Wolfgang
Amadeus Mozart, Benjamin Franklin, Caterina II di Russia e Federico II di
Prussia. Dalla nascita alla fuga dai Piombi. Venezia, Calle della Commedia
(ora Malipiero) Giacomo Girolamo Casanova nacque a Venezia, in Calle della
Commedia (ora Calle Malipiero), nei pressi della chiesa di San Samuele, dove fu
anche battezzato, il 2 aprile del 1725. Molte opere enciclopediche o
letterarie recano erroneamente i nomi di battesimo Giovanni Giacomo, la cui
origine è sicuramente da ricercarsi nella pubblicazione dell'opera del 1835
Biografia degli italiani illustri nelle scienze, lettere ed arti del secolo
XVIII e de' contemporanei, Emilio De Tipaldo, in cui l'autore della voce
relativa al Casanova, Bartolomeo Gamba, intestò erroneamente la voce a un certo
Giovanni Giacomo Casanova. Successivamente, l'errore fu ripetuto nel 1931 nella
voce su Casanova dell'Enciclopedia Treccani e da allora è spesso riapparso.
Si può leggere il nome corretto nel documento relativo al battesimo del
Casanova. «Addì 5 aprile 1725 Giacomo Girolamo fig.o di D. Gaietano
Giuseppe Casanova del q.(uondam) Giac.o Parmegiano comico, et di Giovanna
Maria, giogali, nato il 2 corr. battezzato daGio. Batta Tosello sacerd. di
chiesa de licentiaComp. il signor Angelo Filosi q.(uondam) Bartolomeo stà a S.
Salvador. Lev. Regina Salvi.» (Storia della mia vita, Mondadori) Il
padre, Gaetano Casanova, era un attore e ballerino parmigiano di remote origini
spagnole (almeno stando alla dubbia genealogia tracciata dal Casanova
all'inizio dell'Histoire, gli avi paterni sarebbero stati originari di
Saragozza, nell'Aragona[E 3]), mentre la madre, Zanetta Farussi, era un'attrice
veneziana che, nella sua professione, ebbe di gran lunga maggior successo del
marito, dato che la troviamo menzionata persino da Carlo Goldoni nelle sue
Memorie, ove la definì: "...una vedova bellissima e assai valente".
La voce popolare lo considerava frutto di una relazione adulterina della madre
con il patrizio veneziano Michele Grimani[E 4] e Casanova stesso affermò,
seppur in maniera criptica nel suo libello Né amori né donne, di essere figlio
naturale del patrizio. Ma ulteriori indizi a suffragio della tesi potrebbero
derivare dal fatto che, dopo la morte del padre, i Grimani si presero cura di
lui con un'assiduità che appare andasse oltre i normali rapporti di protezione
e liberalità che le famiglie patrizie veneziane praticavano nei confronti delle
persone che, a qualche titolo, avevano servito la casata. Il che troverebbe
conferma anche nel fatto che la giustizia della Repubblica, solitamente
piuttosto severa, non infierì mai particolarmente nei suoi confronti. Dopo la
sua nascita, la coppia ebbe altri cinque figli: Francesco, Giovanni Battista,
Faustina Maddalena, Maria Maddalena Antonia Stella e Gaetano Alvise.
Chiesa di San Samuele, Venezia Rimasto orfano di padre a soli otto anni
d'età ed essendo la madre costantemente in viaggio a causa della sua
professione, Giacomo fu allevato dalla nonna materna Marzia Baldissera in
Farussi. Da piccolo era di salute cagionevole e per questo motivo la nonna lo
condusse da una fattucchiera che, eseguendo un complicato rituale, riuscì a
guarirlo dai disturbi da cui era affetto. Dopo quell'esperienza infantile,
l'interesse per le pratiche magiche lo accompagnerà per tutta la vita, ma lui
stesso era il primo a ridere della credulità che tanti manifestavano nei
confronti dell'esoterismo. All'età di nove anni fu mandato a Padova, dove
rimase fino al termine degli studi; nel 1737 s'iscrisse all'università dove,
come ricorda nelle Memorie, si sarebbe laureato in diritto; la questione
dell'effettivo conseguimento del titolo accademico è molto controversa: infatti
Casanova descrive nelle Memorie gli anni passati all'Padova, sostenendo di
essersi laureato. Analoga affermazione risulta anche dalla dedica dell'opera
del 1797 a Leonard Snetlage, il cui frontespizio reca scritto A Leonard
Snetlage, Docteur en droit de l'Université de Gottingue, Jacques Casanova,
docteur en droit de l'Universitè de Padoue. Inoltre da documenti risulta che il
Casanova abbia lavorato nello studio dell'avvocato Marco Da Lezze, dal che si
era presunto che, compiuti gli studi e conseguita la laurea, fosse andato a compiere
il praticantato presso il Da Lezze. Nonostante queste fonti, il primo a
dubitare del titolo conseguito dal Casanova fu Pompeo Molmenti, ma ben presto
gli studi del Brunelli, il quale aveva reperito documenti che dimostravano in
modo certo l'avvenuta immatricolazione al primo anno e le successive
iscrizioni, convinsero tutti gli autori dell'effettivo conseguimento del titolo
accademico; in tal senso, tra i tanti, anche James Rives Childs (Casanova).
Successivamente Enzo Grossato pose nuovamente in dubbio il conseguimento del
titolo rifacendosi ai registri di laurea, i quali non menzionano il nome del
veneziano. Dello stesso avviso Piero Del Negro, il quale rilevò che, oltre ai
registri consultati dal Grossato, anche un ulteriore codice, il Registro dottorati
1737 usque ad 1747, non riportava il nome del Casanova; inoltre egli constatò
che il Casanova non aveva mai parlato del titolo se non in epoca tarda, quando
ormai ricostruire la circostanza sarebbe stato difficile per chiunque.
Terminati gli studi, Giacomo Casanova viaggiò a Corfù e a Costantinopoli, per
poi rientrare a Venezia nel 1742. Nella sua città natale ottenne un impiego
presso lo studio dell'avvocato Marco da Lezze. Il 18 marzo 1743 la nonna Marzia
Baldissera morì. Con la morte della nonna, alla quale era legatissimo, si
chiuse un capitolo importante della sua vita: la madre decise di lasciare la
bella e costosa casa in Calle della Commedia[E 7] e di sistemare i figli in
modo economicamente più sostenibile. Questo evento segnò profondamente Giacomo,
togliendogli un importante punto di riferimento. Nello stesso anno fu
rinchiuso, a causa della sua condotta piuttosto turbolenta, nel Forte di
Sant'Andrea dalla fine di marzo alla fine di luglio. Più che l'applicazione di
una pena, fu un avvertimento tendente a cercare di correggerne il
carattere. Messo in libertà, partì, grazie ai buoni uffici materni, per
la Calabria, al seguito del vescovo di Martirano che si recava ad assumere la
diocesi. Una volta giunto a destinazione, spaventato per le condizioni di
povertà del luogo, chiese e ottenne congedo. Viaggiò a Napoli e a Roma, dove
nel 1744 prese servizio presso il cardinal Acquaviva, ambasciatore della Spagna
presso la Santa Sede. L'esperienza si concluse presto, a causa della sua
condotta imprudente: infatti aveva nascosto nel Palazzo di Spagna, residenza
ufficiale del cardinale, una ragazza fuggita di casa. Targa
commemorativa su Palazzo Malipiero Nel febbraio del 1744 arrivò ad Ancona, dove
era già stato sette mesi prima. Durante il primo soggiorno nella città era
stato costretto a passare la quarantena nel lazzaretto, dove aveva intessuto
una relazione con una schiava greca, alloggiata nella camera superiore alla
sua.[E 9] Fu però durante il suo secondo soggiorno ad Ancona che Casanova
ebbe una delle sue più strane avventure: si innamorò di un seducente cantante
castrato, Bellino, convinto che si trattasse in realtà di una donna. Fu solo
dopo una corte serrata che Casanova riuscì a scoprire ciò che sperava: il
castrato era in realtà una ragazza, Teresa (con cui avrà il figlio illegittimo
Cesarino Lanti), che, per sopravvivere dopo essere rimasta orfana, si faceva
passare per un castrato in modo da poter cantare nei teatri dello Stato della
Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palcoscenico. Il nome di
Teresa ricorre spesso nel testo dell'Histoire, a testimonianza dei molti
incontri avvenuti, negli anni, nelle capitali europee dove Teresa mieteva
successi con le sue interpretazioni. Ritornò quindi a Venezia e, per un certo
periodo, si guadagnò da vivere suonando il violino nel teatro di San Samuele,
di proprietà dei nobili Grimani che, alla morte del padre, avvenuta
prematuramente (1733), avevano assunto ufficialmente la tutela del ragazzo,
avvalorando la voce popolare secondo la quale uno dei Grimani, Michele, fosse
il vero padre di Giacomo. Nel 1746 avvenne l'incontro con il patrizio
veneziano Matteo Bragadin, che avrebbe migliorato sostanzialmente le sue
condizioni. Colpito da un malore, il nobiluomo fu soccorso da Casanova e si convinse
che, grazie a quel tempestivo intervento, aveva potuto salvarsi la vita. Di
conseguenza prese a considerarlo quasi come un figlio, contribuendo, finché
visse, al suo mantenimento. Nelle ore concitate in cui assisteva Bragadin,
Casanova venne in contatto con i due più fraterni amici del senatore, Marco Barbaro[E
11] e Marco Dandolo; anch'essi gli si affezionarono profondamente e, finché
vissero, lo tennero sotto la loro protezione. La frequentazione con i nobili
attirò l'interesse degli Inquisitori di Stato e Casanova, su consiglio di
Bragadin, lasciò Venezia in attesa di tempi migliori. Nel 1749 incontrò
Henriette, che sarebbe stata forse il più grande amore della sua vita. Lo
pseudonimo nascondeva probabilmente l'identità di una nobildonna di Aix-en-Provence,
forse Adelaide de Gueidan. Su questa e su altre identificazioni, i
"casanovisti" si sono accapigliati per decenni. In linea di massima,
come è stato sostenuto da molti studiosi, i personaggi citati nelle Memorie
sono reali. Al più, l'autore potrebbe essersi cautelato con qualche
piccola accortezza: spesso, trattandosi di donne sposate, alcune sono citate
con le iniziali o con nomi di fantasia, talvolta l'età viene un po' modificata
per galanteria o per vanità dell'autore che non amava riferire di avventure con
donne considerate, con i criteri di allora, in età matura, ma in generale le
persone sono identificabili e anche i fatti riferiti sono risultati corretti e
riscontrabili. Innumerevoli identificazioni e notizie documentali hanno
confermato il racconto. Se qualche errore c'è stato, lo si deve anche al
fatto che, all'epoca in cui furono scritte le Memorie (dal 1789 in poi), erano
passati molti anni dai fatti e, per quanto l'autore si possa essere aiutato con
diari o appunti, non era facile incasellare cronologicamente gli eventi. Ogni
tanto l'autore si faceva però trascinare dalla sua visione teatrale delle cose
e non rinunciava a qualche "colpo di teatro", il che peraltro
contribuisce a rendere la lettura più piacevole. Il problema dell'attendibilità
del racconto casanoviano è tuttavia molto complesso: ciò che è difficile o, in
molti casi, impossibile da valutare è se i rapporti che Casanova riferisce di
aver intrattenuto con i personaggi siano rispondenti alla realtà dei fatti.
Taluni studiosi hanno ritenuto che nel corpus delle Memorie siano stati
inseriti dei passaggi totalmente romanzati e di pura invenzione, basati
comunque su personaggi storicamente esistiti ed effettivamente presenti nel
luogo e nel tempo della descrizione. Il caso più clamoroso è quello che
riguarda la relazione di Casanova con suor M.M.e i conseguenti rapporti con
l'ambasciatore di Francia De Bernis. Si tratta di una delle parti più valide
dell'opera dal punto di vista letterario e stilistico. Il ritmo del racconto è
serratissimo e la tensione emotiva dei personaggi di straordinario realismo.
Secondo alcuni studiosi il racconto è assolutamente veritiero e si è
ripetutamente tentata l'identificazione della donna, secondo altri il racconto
è di pura fantasia e basato sulle confidenze del cuoco dell'ambasciatore (tale
Rosier), che effettivamente Casanova conosceva molto bene. La diatriba tra le
varie tesi continuerà ma, comunque stiano le cose, il valore dell'opera non
cambia, perché ciò che perde il Casanova memorialista lo guadagna il Casanova
romanziere.[E 15] Rientrato a Venezia nella primavera del 1750, nel
giugno successivo decise di partire per Parigi. A Milano si incontrò con l'amico
Antonio Stefano Balletti, figlio della celebre attrice Silvia, e con lui
proseguì alla volta della capitale francese. Durante il viaggio, a Lione,
Casanova aderì alla Massoneria.[E 17] Non sembra che la decisione fosse
ascrivibile a inclinazioni ideologiche, ma piuttosto alla pratica esigenza di
procurarsi utili appoggi. «Ogni giovane che viaggia, che vuol conoscere
il mondo, che non vuol essere inferiore agli altri e escluso dalla compagnia
dei suoi coetanei, deve farsi iniziare alla Massoneria, non fosse altro per
sapere superficialmente cos'è. Deve tuttavia fare attenzione a scegliere bene
la loggia nella quale entrare, perché, anche se nella loggia i cattivi soggetti
non possono far nulla, possono tuttavia sempre esserci e l'aspirante deve
guardarsi dalle amicizie pericolose.» (Giacomo Casanova, Memorie) Ottenne
qualche risultato: infatti molti personaggi incontrati nel corso della sua
vita, come Mozart[E 18] e Franklin erano massoni e alcune facilitazioni
ricevute in varie occasioni sembrerebbero dovute ai benefici derivanti dal far
parte di un'organizzazione ben radicata in quasi tutti i paesi europei. Giunti
a Parigi, Balletti presentò Casanova alla madre, che lo accolse con
familiarità; la generosa ospitalità della famiglia Balletti si protrasse per i
due anni in cui visse nella capitale francese. Durante la permanenza si applicò
allo studio del francese, che sarebbe divenuto la sua lingua letteraria oltre
che, in molti casi, epistolare.[E 20] Ritornato a Venezia dopo il lungo
soggiorno parigino e altri viaggi a Dresda, Praga e Vienna, il 26 luglio 1755,
all'alba, fu arrestato e ristretto nei Piombi. Come d'uso all'epoca,
al condannato non venne notificato il capo d'accusa, né la durata della
detenzione cui era stato condannato. Ciò, come in seguito scrisse, si rivelò
dannoso, poiché se avesse saputo che la pena era di durata tutto sommato
sopportabile, si sarebbe ben guardato dall'affrontare il rischio mortale
dell'evasione e soprattutto il pericolo della possibile successiva eliminazione
da parte degli inquisitori, i quali, spesso, arrivavano a operare anche molto
lontano dai confini della Repubblica. Questi magistrati erano l'espressione più
evidente dell'arbitrarietà del potere oligarchico che governava Venezia. Erano
insieme tribunale speciale e centrale di spionaggio. Sui motivi reali
dell'arresto si è discusso parecchio. Certo è che il comportamento di Casanova
era tenuto d'occhio dagli inquisitori e rimangono molte riferte (rapporti delle
spie al soldo degli Inquisitori) che ne descrivevano minutamente i
comportamenti, soprattutto quelli considerati socialmente sconvenienti. In
definitiva l'accusa era quella di "libertinaggio" compiuto con donne
sposate, di spregio della religione, di circonvenzione di alcuni patrizi e in
generale di un comportamento pericoloso per il buon nome e la stabilità del
regime aristocratico. Di fatto, Casanova conduceva una vita alquanto
disordinata, ma né più né meno di tanti rampolli delle casate illustri: come
questi giocava, barava e aveva anche delle idee abbastanza personali in materia
di religione e, quel che è peggio, non ne faceva mistero. L'arresto
di Casanova (illustrazione per Storia della mia fuga) Anche la sua adesione alla
Massoneria, che era nota agli Inquisitori, non gli giovava, così come la
scandalosa relazione intrattenuta con "suor M.M.", certamente
appartenente al patriziato, monaca nel convento di S. Maria degli Angeli in
Murano e amante dell'ambasciatore di Francia, abate De Bernis. Insomma,
l'oligarchia al potere non poteva tollerare oltre che un individuo ritenuto
socialmente pericoloso restasse in circolazione. Tuttavia gli appoggi, di
cui certamente poteva disporre nell'ambito del patriziato, lo aiutarono
notevolmente, sia nell'ottenere una condanna "leggera" sia durante la
reclusione, e forse addirittura ne agevolarono l'evasione. La contraddizione è
solo apparente, perché Casanova fu sempre un personaggio ambivalente: per
estrazione e mezzi faceva parte di una classe subalterna, anche se contigua
alla nobiltà, ma per frequentazioni e protezioni poteva sembrare far parte, a
qualche titolo, della classe al potere. A questo riguardo va anche considerato
che il suo presunto padre naturale, Michele Grimani, apparteneva a una delle
famiglie più illustri dell'aristocrazia veneziana, annoverando ben tre dogi e
altrettanti cardinali. Questa paternità fu rivendicata da Casanova stesso nel
libello Né amori né donne e sembra che anche la somiglianza di aspetto e di
corporatura dei due avvalorasse parecchio la tesi. Dalla fuga dai Piombi
al ritorno a Venezia (17561774) Presunto ritratto di Giacomo Casanova,
attribuito a Francesco Narici, e in passato ad Anton Raphael Mengs o al suo
allievo Giovanni Battista Casanova (fratello di Giacomo) Appena riavutosi dallo
shock dell'arresto, Casanova cominciò a organizzare la fuga. Un primo tentativo
fu vanificato da uno spostamento di cella. Nella notte fra il 31 ottobre e il
1º novembre 1756 mise in atto il suo piano: passando dalla cella alle soffitte,
attraverso un foro nel soffitto praticato da un compagno di reclusione, il
frate Marino Balbi, uscì sul tetto e successivamente si calò di
nuovo all'interno del palazzo da un abbaino. Passò quindi, in compagnia
del complice, attraverso varie stanze e fu infine notato da un passante, che
pensò fosse un visitatore rimasto chiuso all'interno e chiamò uno degli addetti
al palazzo il quale aprì il portone, consentendo ai due di uscire e di
allontanarsi fulmineamente con una gondola. Si diressero velocemente
verso nord. Il problema era seminare gli inseguitori: infatti la fuga gettava
un'ombra sull'amministrazione della giustizia di Venezia ed era chiaro che gli
Inquisitori avrebbero tentato di tutto per riacciuffare gli evasi. Dopo brevi
soggiorni a Bolzano (dove i banchieri Menz lo ospitarono e aiutarono
economicamente), Monaco di iera (dove Casanova finalmente si liberò della
scomoda presenza del frate), Augusta e Strasburgo, il 5 gennaio 1757 arrivò a
Parigi, dove nel frattempo il suo amico De Bernis era divenuto ministro e
quindi gli appoggi non gli mancavano. Illustrazione da Storia della
mia fuga Rinfrancato e trovata una sistemazione, iniziò a dedicarsi alla sua
specialità: brillare in società, frequentando quanto di meglio la capitale
potesse offrire. Conobbe tra gli altri la marchesa d'Urfé nobildonna
ricchissima e stravagante, con la quale intrattenne una lunga relazione,
dilapidando cospicue somme di denaro che lei gli metteva a disposizione,
soggiogata dal suo fascino e dal consueto corredo di rituali magici. Il
28 marzo 1757 assistette, come accompagnatore di alcune dame «incuriosite da
quell'orrendo spettacolo» (mentre lui distolse lo sguardo) e di un conte
trevigiano, alla cruenta esecuzione (tramite squartamento) di Robert François
Damiens, che aveva attentato alla vita di Luigi XV. Molto fantasioso,
come al solito, si fece promotore di una lotteria nazionale, allo scopo di
rinsaldare le finanze dello stato. Osservava che questo era l'unico modo di far
contribuire di buon grado i cittadini alla finanza pubblica. L'intuizione era
talmente valida che ancora adesso il sistema è molto praticato. L'iniziativa
venne autorizzata ufficialmente e Casanova venne nominato "Ricevitore"
il 27 gennaio 1758. Nel settembre dello stesso anno, De Bernis fu nominato
cardinale; un mese dopo Casanova fu incaricato dal governo francese di una
missione segreta nei Paesi Bassi.[26] Al suo ritorno fu coinvolto in
un'intricata faccenda riguardante una gravidanza indesiderata di un'amica, la
scrittrice veneziana Giustiniana Wynne. Di madre italiana e padre inglese,
Giustiniana era stata al centro dell'attenzione per la sua rovente relazione
con il patrizio veneziano Andrea Memmo. Questi aveva cercato in tutti i modi di
sposarla, ma la ragion di stato (lui era membro di una delle dodici
famigliecosiddette apostolichepiù nobili di Venezia) glielo aveva impedito, a
causa di alcuni oscuri trascorsi della madre di lei, e, in seguito allo
scandalo che ne era sortito, i Wynne avevano lasciato Venezia.[27] Giunta a
Parigi, trovandosi in stato interessante e di conseguenza in grosse difficoltà,
la ragazza si rivolse per aiuto a Casanova, che aveva conosciuto a Venezia e
che era anche ottimo amico del suo amante. La lettera con cui implorava aiuto è
stata ritrovata[28] ed è singolare la schiettezza con cui la ragazza si rivolge
a Casanova, dimostrando una fiducia totale in quest'ultimo,[29] tenuto conto
dell'enorme rischio a cui si esponeva (e lo esponeva) nel caso in cui il
messaggio fosse caduto nelle mani sbagliate. Casanova si prodigò per
darle aiuto, ma incorse in una denuncia per concorso in pratiche abortive,
presentata dall'ostetrica Reine Demay in combutta con un losco personaggio,
Louis Castel-Bajac, per estorcere denaro in cambio di una ritrattazione. Benché
l'accusa fosse molto grave, Casanova riuscì a cavarsela con la consueta
presenza di spirito e fu prosciolto, mentre la sua accusatrice finì in carcere.
L'amica abbandonò l'idea di interrompere la gravidanza e in seguito partorì nel
convento in cui si era rifugiata. Ceduti i suoi interessi nella lotteria,
Casanova si imbarcò in una fallimentare operazione imprenditoriale, una
manifattura di tessuti, che naufragò anche a causa di una forte restrizione
delle esportazioni derivante dalla guerra in corso. I debiti che ne derivarono
lo condussero per un po' in carcere (agosto 1759). Come al solito, il
provvidenziale intervento della ricca e potente marchesa d'Urfé lo tolse
dall'incomoda situazione.[30] Gli anni successivi furono un intenso
continuo peregrinare per l'Europa. Si recò nei Paesi Bassi, poi in Svizzera,
dove incontrò Voltaire nel castello di Ferney. L'incontro con Voltaire, il
maggior intellettuale vivente all'epoca, occupa parecchie pagine dell'Histoire
ed è riferito nei minimi particolari; Casanova esordì dicendo che era il giorno
più felice della sua vita e che per vent'anni aveva aspettato di incontrarsi
con il suo "maestro"; Voltaire gli rispose che sarebbe stato ancora
più onorato se, dopo quell'incontro, lo avesse aspettato per altri vent'anni.[31]
Un riscontro obiettivo si trova in una lettera di Voltaire a Nicolas-Claude
Thieriot, datata 7 luglio 1760, in cui la figura del visitatore viene
tratteggiata con ironia. Lo stesso Casanova non era d'accordo con molte idee di
Voltaire («Voltaire [...] doveva capire che il popolo per la pace generale
della nazione ha bisogno di vivere nell'ignoranza», dirà in seguito), e quindi
rimase insoddisfatto, anche se scrisse poi delle parole di stima per il
patriarca dell'illuminismo: «Partii assai contento di aver messo quel grande
atleta alle corde l'ultimo giorno. Ma di lui mi rimase un brutto ricordo che mi
spinse per dieci anni di seguito a criticare tutto ciò che quel grand'uomo dava
al pubblico di vecchio o di nuovo. Oggi me ne pento, anche se, quando leggo ciò
che pubblicai contro di lui, mi sembra di aver ragionato giustamente nelle mie
critiche. Comunque avrei dovuto tacere, rispettarlo e dubitare dei miei
giudizi. Dovevo riflettere che senza i sarcasmi che mi dispiacquero il terzo
giorno, avrei trovato tutti i suoi scritti sublimi. Questa sola riflessione
avrebbe dovuto impormi il silenzio, ma un uomo in collera crede sempre di aver
ragione.[31]» In seguito andò in Italia, a Genova, Firenze e Roma.[33]
Qui viveva il fratello Giovanni, pittore, allievo di Mengs. Durante il
soggiorno presso il fratello fu ricevuto dal papa Clemente XIII. Nel 1762
ritornò a Parigi, dove riprese a esercitare pratiche esoteriche insieme alla
marchesa d'Urfé, fino a che quest'ultima, resasi conto di essere stata per anni
presa in giro con l'illusione di rinascere giovane e bella per mezzo di
pratiche magiche, troncò ogni rapporto con l'improvvisato stregone che, dopo
poco tempo, lasciò Parigi, dove il clima che si era creato non gli era più
favorevole, per Londra, dove fu presentato a corte.[34] Nella capitale
inglese conobbe la funesta Charpillon, con la quale cercò di intessere una
relazione. In questa circostanza anche il grande seduttore mostrò il suo lato
debole e questa scaltra ragazza lo portò fin sull'orlo del suicidio. Non che fosse
un grande amore, ma evidentemente Casanova non poteva accettare di essere
trattato con indifferenza da una ragazza qualsiasi. E più lui vi
s'intestardiva, più lei lo menava per il naso. Alla fine riuscì a liberarsi di
questa assurda situazione e si diresse verso Berlino.[36] Qui incontrò il re
Federico il Grande, che gli offrì un modesto posto d'insegnante nella scuola
dei cadetti. Rifiutata sdegnosamente la proposta, Casanova si diresse verso la
Russia e giunse a San Pietroburgo nel dicembre del 1764.[37] L'anno
successivo si recò a Mosca e in seguito incontrò l'imperatrice Caterina II,[38]
anche lei annessa alla straordinaria collezione di personaggi storici
incontrati nel corso delle sue infinite peregrinazioni. Merita una riflessione
la straordinaria facilità con cui Casanova aveva accesso a personaggi di
primissimo piano, che certo non erano usi a incontrarsi con chiunque.
Evidentemente la fama lo precedeva regolarmente e, almeno per effetto della
curiosità suscitata, gli consentiva di penetrare nei circoli più esclusivi
delle capitali. Un po' la questione si autoalimentava, nel senso che
in qualsiasi luogo si trovasse, Casanova si dava sempre un gran da fare per
ottenere lettere di presentazione per la destinazione successiva. Evidentemente
ci aggiungeva del suo: aveva conversazione brillante, una cultura enciclopedica
fuori del comune e, quanto a esperienze di viaggio, ne aveva accumulate
infinite, in un'epoca in cui la gente non viaggiava un granché. Insomma
Casanova il suo fascino lo aveva, e non lo spendeva solo con le donne.
Nel 1766 in Polonia avvenne un episodio che segnò profondamente Casanova: il
duello con il conte Branicki.[39] Questi, durante un litigio a causa della
ballerina veneziana Anna Binetti,[40] lo aveva apostrofato chiamandolo poltrone
veneziano. Il conte era un personaggio di rilievo alla corte del re Stanislao
II Augusto Poniatowski e per uno straniero privo di qualsiasi copertura
politica non era molto consigliabile contrastarlo. Quindi, anche se offeso
pesantemente dal conte, qualsiasi uomo di normale prudenza si sarebbe ritirato
in buon ordine; Casanova, invece, che evidentemente non era solo un amabile
conversatore e un abile seduttore, ma anche un uomo di coraggio, lo sfidò in un
duello alla pistola. Faccenda assai pericolosa, sia in caso di soccombenza sia
in caso di vittoria, in quanto era facile attendersi che gli amici del conte ne
avrebbero rapidamente vendicato la morte. Targa commemorativa del soggiorno di
Casanova a Madrid Il conte ne uscì ferito in modo gravissimo, ma non abbastanza
da impedirgli di pregare onorevolmente i suoi di lasciare andare indenne
l'avversario, che si era comportato secondo le regole. Seppur ferito abbastanza
seriamente a un braccio, Casanova riuscì a lasciare l'inospitale paese. La
buona stella sembrava avergli voltato le spalle. Si diresse a Vienna, da dove
fu espulso.Tornò a Parigi, dove, alla fine di ottobre, lo raggiunse la notizia
della morte di Bragadin, il quale, più che un protettore, era stato per
Casanova un padre adottivo. Pochi giorni dopo (6 novembre 1767) fu colpito da
una lettre de cachet del re Luigi XV, con la quale gli veniva intimato di
lasciare il paese. Il provvedimento era stato richiesto dai parenti della
marchesa d'Urfé, i quali intendevano mettere al riparo da ulteriori rischi le
pur cospicue sostanze di famiglia. Si recò quindi in Spagna, ormai alla
disperata ricerca di una qualche occupazione, ma anche qui non andò meglio: fu
gettato in prigione con motivi pretestuosi e la faccenda durò più di un
mese. Lasciò la Spagna e approdò in Provenza, dove però si ammalò gravemente
(gennaio 1769). Fu assistito grazie all'intervento della sua amata Henriette
che, nel frattempo sposatasi e rimasta vedova, aveva conservato di lui un
ottimo ricordo. Riprese presto il suo peregrinare, recandosi a Roma, Napoli,
Bologna, Trieste. In questo periodo si infittirono i contatti con gli
Inquisitori veneziani per ottenere l'agognata grazia, che finalmente giunse il
3 settembre 1774. Dal ritorno a Venezia alla morte. La narrazione delle
Memorie casanoviane cessa alla metà di febbraio del 1774. Ritornato a Venezia
dopo diciott'anni, Casanova riannodò le vecchie amicizie, peraltro mai sopite
grazie a un'intensissima attività epistolare. Per vivere, si propose agli
Inquisitori come spia, proprio in favore di coloro che erano stati tanto decisi
prima a condannarlo alla reclusione e poi a costringerlo a un lungo esilio. Le
riferte di Casanova non furono mai particolarmente interessanti e la
collaborazione si trascinò stancamente fino a interrompersi per "scarso
rendimento". Probabilmente qualcosa in lui si opponeva a esser causa di
persecuzioni che, avendole provate in prima persona, conosceva bene.
L'ultima abitazione veneziana di Casanova Rimasto senza fonti di
sostentamento, si dedicò all'attività di scrittore, utilizzando la sua vasta
rete di relazioni per procurare sottoscrittori alle sue opere.[49] All'epoca si
usava far sottoscrivere un ordinativo di libri prima ancora di aver dato alle
stampe o addirittura terminato l'opera, in modo da esser certi di poter
sostenere gli elevati costi di stampa. Infatti la composizione avveniva
manualmente e le tirature erano bassissime. Nel 1775 pubblicò il primo tomo
della traduzione dell'Iliade. La lista di sottoscrittori, cioè di coloro che
avevano finanziato l'opera, era davvero notevole e comprendeva oltre
duecentotrenta nomi fra quelli più in vista a Venezia, comprese le alte
autorità dello stato, sei Procuratori di San Marco in carica[50] due figli del
doge Mocenigo, professori dell'Padova e così via. Va rilevato che, per essere
un ex carcerato evaso e poi graziato, aveva delle frequentazioni di altissimo
livello. Il fatto di far parte della lista non era tenuto segreto, ma in una
città piccola, in cui le persone che contavano si conoscevano tutte, era di
pubblico dominio; dunque le adesioni dimostravano che, malgrado le sue
vicissitudini, Casanova non era affatto un emarginato. Anche qui è opportuna
una riflessione sull'ambivalenza del personaggio e sul suo eterno oscillare tra
la classe reietta e quella privilegiata. In questo stesso periodo iniziò
una relazione con Francesca Buschini, una ragazza molto semplice e incolta che
per anni avrebbe scritto a Casanova, dopo il suo secondo esilio da Venezia,
delle lettere (ritrovate a Dux) di un'ingenuità e tenerezza commoventi,[52]
utilizzando un lessico molto influenzato dal dialetto veneziano, con evidenti
tentativi di italianizzare il più possibile il testo. Questa fu l'ultima
relazione importante di Casanova, che rimase molto attaccato alla donna: anche
quando ne fu irrimediabilmente lontano, rattristato profondamente dal
crepuscolo della sua vita, teneva una fitta corrispondenza con Francesca, oltre
a continuare a pagare, per anni, l'affitto della casa in Barbaria delle Tole in
cui avevano convissuto, inviandole, quando ne aveva la possibilità, lettere di
cambio con discrete somme di denaro. Il nome della calle deriva dalla
presenza, in tempi antichi, di falegnamerie che riducevano in tavole (tole, in
dialetto veneziano) i tronchi d'albero. La calle si trova nelle immediate
vicinanze del Campo SS. Giovanni e Paolo. L'ultima abitazione veneziana di
Giacomo Casanova è sita in Barbarìa delle Tole, al civico 6673 del sestiere di
Castello. L'identificazione certa è stata ricavata da una lettera a Casanova di
Francesca Buschini, ritrovata a Dux (odierna Duchcov, Repubblica Ceca), datata
13 dicembre 1783.L'appartamento occupato da Casanova e dalla Buschini (di
proprietà della nobile famiglia Pesaro di S. Stae), affittato a 96 lire venete
a trimestre, corrisponde alle tre finestre del terzo piano situate sotto la
soffitta che si vede in alto a sinistra (vedi foto). La lettera in questione,
spedita dalla Buschini a Casanova ormai in esilio, faceva riferimento alla casa
antistante "È morto la molgie del maestro di spada che mi stà in fasa di
me quela casa in mezzo al brusà, giovine e anche bela la era..." (testo
originale tratto dall'edizione critica delle lettere di F. Buschini Marco
Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna, Grenoble, Antonio Trampus, Trieste,
Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, cit. in bibl.) Poiché tutti
i caseggiati antistanti erano andati distrutti a causa di due successivi
incendi, avvenuti nel 1683 e nel 1686, l'area era rimasta praticamente priva di
fabbricati e destinata a giardino. L'unico fabbricato ancora esistente era
quello dinanzi al 6673[53]. In seguito la situazione non ha subito modifiche di
rilievo; l'edificio in questione, antistante al 6673, si trova tra il ramo
primo e il ramo secondo "Del brusà" e quindi l'identificazione appare
fondata e verificabile[54]. Negli anni successivi pubblicò altre opere e
cercò di arrabattarsi come meglio poté. Ma il suo carattere impetuoso gli giocò
un brutto scherzo: offeso platealmente in casa Grimani da un certo Carletti,
col quale aveva questionato per motivi di denaro, si risentì perché il padrone
di casa aveva preso le parti del Carletti. Decise a questo punto di vendicarsi
componendo un libello, Né amori né donne, ovvero la stalla ripulita in cui, pur
sotto un labile travestimento mitologico, facilmente svelabile, sostenne
chiaramente di essere lui stesso il vero figlio di Michele Grimani, mentre Zuan
Carlo Grimani sarebbe stato "notoriamente" frutto del tradimento
della madre (Pisana Giustinian Lolin) con un altro nobile veneziano, Sebastiano
Giustinian.[55] Probabilmente era tutto vero, anche perché in una città
in cui le distanze tra le case si misuravano a spanne, si circolava in gondola
e c'erano stuoli di servitori che ovviamente spettegolavano a più non posso,
era impensabile poter tenere segreto alcunché. Comunque, anche in questo caso
l'aristocrazia fece quadrato e Casanova fu costretto all'ultimo, definitivo,
esilio. Tuttavia la questione non passò inosservata, se si ritenne opportuno
far circolare un libello anonimo, con cui si replicava allo scritto
casanoviano, intitolato "Contrapposto o sia il riffiutto mentito, e
vendicato al libercolo intitolato Ne amori ne donne ovvero La stalla ripulita,
di Giacomo Casanova".[56] Ritratto del 1788 Annotazione
della morte di Casanova nei registri di Dux Lasciò Venezia nel gennaio 1783 e
si diresse verso Vienna. Per un po' fece da segretario all'ambasciatore
veneziano Sebastiano Foscarini; poi, alla morte di questi,[57] accettò un posto
di bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia. Lì
trascorse gli ultimi tristissimi anni della sua vita, sbeffeggiato dalla
servitù,[58] ormai incompreso, e considerato il relitto di un'epoca tramontata
per sempre. Da Dux, Casanova dovette assistere alla Rivoluzione francese,
alla caduta della Repubblica di Venezia, al crollare del suo mondo, o perlomeno
di quel mondo a cui aveva sognato di appartenere stabilmente. L'ultimo
conforto, oltre alle lettere numerosissime degli amici veneziani che lo
tenevano al corrente di quanto accadeva nella sua città, fu la composizione
della Histoire de ma vie, l'opera autobiografica che assorbì tutte le sue
residue energie, compiuta con furore instancabile quasi per non farsi precedere
da una morte che ormai sentiva vicina. Scrivendola, Casanova riviveva una vita
assolutamente irripetibile, tanto da entrare nel mito, nell'immaginario
collettivo, una vita «opera d'arte». Morì il 4 giugno del 1798, si suppone che
la salma fosse stata sepolta nella chiesetta di Santa Barbara, nei pressi del
castello. Ma riguardo al problema dell'identificazione corretta del luogo di
sepoltura di Giacomo Casanova, le notizie sono comunque piuttosto vaghe, e non
ci sono, allo stato, che ipotesi non correttamente documentate.
Tradizionalmente si riteneva che fosse stato sepolto nel cimitero della
chiesetta attigua al castello Waldstein, ma era una pura ipotesi. Altre
opere: “Zoroastro, tragedia tradotta dal Francese, da rappresentarsi nel Regio
Elettoral Teatro di Dresda, dalla compagnia de' comici italiani in attuale
servizio di Sua Maestà nel carnevale dell'anno MDCCLII. Dresda); La
Moluccheide, o sia i gemelli rivali. Dresda 1769Confutazione della Storia del
Governo Veneto d'Amelot de la Houssaie, Amsterdam (Lugano). 1772Lana caprina.
Epistola di un licantropo. Bologna. 1774Istoria delle turbolenze della Polonia.
Gorizia. 1775Dell'Iliade di Omero tradotta in ottava rima. Venezia); Scrutinio
del libro "Eloges de M. de Voltaire par différents auteurs". Venezia.
Il duello; Opuscoli miscellaneiIl duelloLettere della nobil donna Silvia
Belegno alla nobildonzella Laura Gussoni. Venezia. 1781Le messager de Thalie.
Venezia); Di aneddoti viniziani militari ed amorosi del secolo decimoquarto
sotto i dogadi di Giovanni Gradenigo e di Giovanni Dolfin. Venezia. 1782Né
amori né donne ovvero la stalla ripulita. Venezia. 1784Lettre
historico-critique sur un fait connu, dependant d'une cause peu connu...
Amburgo (Dessau). Expositionne raisonée du différent, qui subsiste entre le
deux Républiques de Venise, et d'Hollande. Vienna. 1785Supplément à l'Exposition
raisonnée. Vienna); Esposizione ragionata della contestazione, che susiste trà
le due Repubbliche di Venezia, e di Olanda. Venezia. 1785Supplemento alla
Esposizione ragionata.... Venezia); Lettre a monsieur Jean et Etienne Luzac....
Vienna); Lettera ai signori Giovanni e Stefano Luzac.... Venezia); Soliloque
d'un penseur, Prague chez Jean Ferdinande noble de Shonfeld imprimeur et
libraire. 1787 -Histoire de ma fuite des prisons de la République de Venise
qu'on appelle les Plombs. Ecrite à Dux en Bohème l'année 1787, Leipzig chez le
noble de Shonfeld 1788. Historia della mia fuga dalle prigioni della republica
di Venezia dette "li Piombi", prima edizione italiana Salvatore di
Giacomo (prefazione e traduzione). Alfieri&Lacroix editori, Milano 1911.
1788Icosameron ou histoire d'Edouard, et d'Elisabeth qui passèrent quatre
vingts ans chez les Mégramicres habitante aborigènes du Protocosme dans
l'interieur de notre globe, traduite de l'anglois par Jacques Casanova de
Seingalt Vénitien Docteur èn lois Bibliothécaire de Monsieur le Comte de
Waldstein seigneur de Dux Chambellan de S.M.I.R.A., Prague à l'imprimerie de
l'école normale. Praga. (romanzo di fantascienza) 1790Solution du probleme
deliaque démontrée par Jacques Casanova de Seingalt, Bibliothécaire de Monsieur
le Comte de Waldstein, segneur de Dux en Boheme e c., Dresde, De l'imprimerie
de C.C. Meinhold. 1790Corollaire a la duplication de l'Hexaedre donée a Dux en
Boheme, par Jacques Casanova de Seingalt, Dresda. 1790Demonstration geometrique
de la duplicaton du cube. Corollaire second, Dresda. 1792 Lettres écrites au
sieur Faulkircher par son meilleur ami, Jacques Casanova de Seingalt, le 10
Janvier 1792. 1797A Leonard Snetlage, Docteur en droit de l'Université de
Gottingue, Jacques Casanova, docteur en droit de l'Universitè de Padoue.
Dresda. Edizioni postume: Le Polemoscope, Gustave Kahn, Paris, La Vogue.
1960-1962Histoire de ma vie, F.A. Brockhaus, Wiesbaden e Plon, Parigi. Edizioni
italiane basate sul manoscritto originale: Piero Chiara , traduzione Giancarlo
BuzziGiacomo Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965. 7 voll. di
cui uno di note, documenti e apparato critico. Piero Chiara e Federico
Roncoroni Giacomo Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori "I
meridiani" 1983. 3 voll. Ultima edizione: Milano, Mondadori "I
meridiani", 2001. 1968Saggi libelli e satire di Giacomo Casanova, Piero
Chiara, Milano. Longanesi & C. 1969Epistolario (17591798) di Giacomo
Casanova, Piero Chiara, Milano. Longanesi & C. Rapporti di Giacomo Casanova
con i paesi del Nord. A proposito dell'inedito "Prosopopea Ecaterina II
(1773-74)", Enrico Straub. Venezia. Centro tedesco di studi veneziani.
1985Examen des "Etudes de la Nature" et de "Paul et
Virginie" de Bernardin de Saint Pierre, Marco Leeflang e Tom Vitelli.
Utrecht, Edizione italiana: Analisi degli Studi della natura e di Paolo e
Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Gianluca Simeoni, Bologna, Pendragon, Pensieri
libertini, Federico di Trocchio (sulle opere filosofiche inedite rinvenute a Dux),
Milano, Rusconi. 1993Philocalies sur les sottises des mortels, Tom Vitelli.
Salt Lake City. 1993Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte
intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Édition présentée
et établie par Francis Lacassin.
2-221-06520-4. Éditions Robert Laffont. 1997Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto primo. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte, Venezia, Editoria Universitaria. 1998Iliade di Omero in veneziano
Tradotta in ottava rima. Canto secondo. Riproduzione integrale del manoscritto
a fronte. Venezia, Editoria Universitaria. 1999Storia della mia vita,
traduzione Pietro Bartalini Bigi e Maurizio Grasso. Roma, Newton Compton, coll.
« I Mammut », Dell'Iliade d'Omero tradotta in veneziano da Giacomo Casanova.
Canti otto. Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna. 2005Iliade di Omero in
veneziano. Tradotta in ottava rima. Riproduzione integrale del manoscritto a
fronte. Venezia, Editoria Universitaria,
Dialoghi sul suicidio. Roma, Aracne,
88-548-0312-X 2006Iliade di Omero in idioma toscano'. Riproduzione
integrale dell'edizione Modesto Fenzo. Venezia, Editoria Universitaria.
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati et Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et
Helmut Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome I.
Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie, tome
II. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont,
Bouquins. Parigi. Histoire de ma vie,
tome II. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et
Marie-Françoise Luna avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut
Watzlawick. Collection Bibliothèque de la Pléiade (nº 137), Gallimard.
Parigi. Histoire de ma vie, tome III.
Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati et Marie-Françoise Luna
avec la collaboration de Furio Luccichenti et Helmut Watzlawick. Collection
Bibliothèque de la Pléiade (nº 147).Gallimard. Parigi. Histoire de ma vie, tome III. Édition établie
par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne, Laffont, Bouquins. Parigi. Icosameron, traduzione di Serafino Balduzzi,
Milano, Luni Editrice, , 978-88-7984-611-0
Istoria delle turbolenze della Polonia, Milano, Luni Editrice, Valore
letterario e fortuna dell'opera casanoviana Presunto ritratto di Giacomo
Casanova, attribuito ad Alessandro Longhi o, da alcuni[62][63], a Pietro
Longhi. Sul valore letterario e la validità storica dell'opera di Giacomo
Casanova si è discusso parecchio.[67] Intanto bisogna distinguere tra l'opera
autobiografica e il resto della produzione. Malgrado gli sforzi fatti per
accreditarsi come letterato, storico, filosofo e addirittura matematico,
Casanova non ebbe in vita, e tantomeno da morto, nessuna notorietà e nessun
successo.[68] Successo che arrise invece all'opera autobiografica, anche se si
manifestò in tempi molto posteriori alla morte dell'autore. Disegno
di un busto di Giacomo Casanova, ubicato in origine a Dux, oggi al Museo
delle Arti Decorative di Vienna La sua produzione fu spesso d'occasione, cioè
di frequente i suoi scritti furono creati per ottenere qualche beneficio.
Principale esempio è la Confutazione della Storia del Governo Veneto d'Amelot
de la Houssaye, scritta in gran parte durante la detenzione a Barcellona nel
1768, che avrebbe dovuto servire, e infatti così fu, a ingraziarsi il governo
veneziano e a ottenere la tanto sospirata grazia. Lo stesso si può dire per
opere scritte nella speranza di ottenere qualche incarico da Caterina II di
Russia o da Federico II di Prussia. Altre opere, come l'Icosameron, avrebbero
dovuto sancire il successo letterario dell'autore ma così non fu. Il primo vero
successo editoriale fu ottenuto dall'Historia della mia fuga dai Piombi che
ebbe una diffusione immediata e varie edizioni, sia in italiano sia in francese
ma il caso è praticamente unico e di proporzioni limitate a causa delle
dimensioni dell'opera costituita dal racconto dell'evasione. Sembra quasi che
Casanova tollerasse le sue creature autobiografiche e il loro successo,
continuando a inseguire, con opere non autobiografiche, un successo letterario
che non arrivò mai. Questo aspetto fu acutamente osservato da un memorialista
suo contemporaneo, il principe Charles Joseph de Ligne, il quale scrisse[70]
che il fascino di Casanova stava tutto nei suoi racconti autobiografici, sia
verbali sia trascritti, cioè sia la narrazione salottiera sia la versione
stampata delle sue avventure. Tanto era brillante e trascinante quando parlava
della sua vita[71]- osserva de Lignequanto terribilmente noioso, prolisso,
banale quando parlava o scriveva su altre materie. Ma sembra che questo,
Casanova, non abbia mai voluto accettarlo. E soffriva tremendamente di non
avere quel riconoscimento letterario o meglio scientifico a cui ambiva.
Da ciò si può comprendere l'astio nei confronti di Voltaire, che nascondeva una
profonda invidia e una sconfinata ammirazione. Quindi anche contro la volontà
dell'autore, quasi invidioso dei suoi figli più fortunati ma meno prediletti,
le opere autobiografiche avrebbero potuto essere un grande successo editoriale
quando egli era ancora in vita. Ma ciò avvenne in misura molto ridotta per vari
motivi: principalmente perché questo filone fu iniziato tardi. Si pensi ad
esempio che la narrazione della fuga dai Piombi, che costituì per decenni il
cavallo di battaglia del Casanova salottiero, fu pubblicata soltanto nel
1787. Inoltre l'opera "vera", cioè quella in cui aveva trasfuso
tutto sé stesso, l'Histoire, fu scritta proprio negli ultimi anni di vita e il
motivo è semplice: infatti lui stesso affermò, in una lettera indirizzata a
quel Zuan Carlo Grimani, da lui offeso molti anni prima e che era stato la causa
del secondo esilio: "... ora che la mia età mi fa credere di aver finito
di farla, ho scritto la Storia della mia vita...". Cioè sembra che per
mettere su carta tutto in forma definitiva, l'autore dovesse prima ammettere
con sé stesso che la storia era terminata e di futuro davanti da vivere non ce
n'era più. Ammissione questa sempre dolorosa per chiunque, in particolare per
un uomo che aveva creato una vita-capolavoro irripetibile. Ma un altro
aspetto, questo strutturale, ha ritardato la fortuna dell'opera autobiografica:
l'Histoire era all'epoca assolutamente impubblicabile. Non è un caso che la
prima edizione francese del manoscritto, acquistato[73] dall'editore Friedrich
Arnold Brockhaus di Lipsia nel 1821, fu pubblicata, dal 1826 al 1838, però in
una versione notevolmente rimaneggiata da Jean Laforgue, il quale non si limitò
a "purgare" l'opera, sopprimendo passi ritenuti troppo audaci, ma
intervenne a tappeto modificando anche l'ideologia dell'autore, facendone una
sorta di giacobino avverso alle oligarchie dominanti. Ciò non corrispondeva
affatto alla verità storica, perché di Casanova si può dire che era ribelle e
trasgressivo, ma politicamente era un fautore dell'ancien régime, come
dimostrano chiaramente il suo epistolario, opere specifiche e la stessa
Histoire. In un passo delle Memorie, Casanova esprime chiaramente il suo punto
di vista sull'argomento della Rivoluzione: «Ma si vedrà che razza di dispotismo
è quello di un popolo sfrenato, feroce, indomabile, che si raduna, impicca,
taglia teste e assassina coloro che non appartenendo al popolo osano mostrare
come la pensano.[75]» Per l'edizione definitiva delle memorie si dovette
attendere fino a quando la casa Brockhaus decise di pubblicare, insieme
all'editore Plon di Parigi, dal 1960 al 1962, il testo originale in sei volumi
curato da Angelika Hübscher. Ciò fu dovuto all'impianto generale dell'opera che
era, a detta dell'autore e di smaliziati contemporanei come de Ligne, di un
cinismo assolutamente impresentabile.[77] Quello che essi chiamarono cinismo
sarà considerato, due secoli dopo, modernità e realismo. Casanova è già
uno scrittore di costume "moderno". Non teme di rivelare situazioni,
inclinazioni, attività, trame e soprattutto confessioni che erano all'epoca, e
tali rimasero ancora più di un secolo, assolutamente irriferibili. Naturalmente
il primo problema, ma questo limitato a pochi anni dopo la morte dell'autore,
fu quello di aver citato personaggi di primissimo piano, con circostanze molto
precise del loro agire. Le memorie sono affollate all'inverosimile dagli attori
principali della storia europea del Settecento, sia politica sia culturale.
Probabilmente si farebbe prima a dire di chi Casanova non ha scritto, e chi non
ha incontrato, tanto vasto è stato il panorama delle sue frequentazioni.[78]
Ma questo, come si è detto, è marginale. L'altro problema, questo
insuperabile, fu la sostanziale "immoralità" dell'opera casanoviana.
Ma ciò deve intendersi come contrarietà alle abitudini, ai tic, alle ipocrisie
della fine del Settecento e, ancor di più, del successivo secolo, ancora più
fobico e per certi versi molto meno aperto di quello che l'aveva preceduto.
Casanova ha precorso i tempi: era troppo avanti per diventare un autore di
successo. E forse se ne rendeva perfettamente conto. Nella lettera a Zuan Carlo
Grimani, ricordata in precedenza, Casanova, parlando dell'Histoire, scrive
testualmente: ... questa Storia, che verrà diffusa fino a sei volumi in ottavo
e che sarà forse tradotta in tutte le lingue... E poi, richiede una risposta
... perché io possa porla nei codicilli che formeranno il settimo volume
postumo della Storia della mia vita. Tutto questo è avvenuto
puntualmente.[79] Riguardo all'uso della lingua francese, Casanova vi
fece riferimento nella prefazione:
«J'ai écrit en français, et non pas en italien parce que la langue
française est plus répandue que la mienne.[80]» «Ho scritto in francese e
non in italiano perché la lingua francese è più diffusa della mia.» Certo
dell'immortalità della sua opera, se non al fine di garantirsela, Casanova
preferì utilizzare la lingua che gli avrebbe consentito di raggiungere il
maggior numero possibile di potenziali lettori. Molte opere minori, del resto,
le scrisse in italiano, forse perché sapeva bene che esse non sarebbero divenute
mai un monumento, come avvenne invece per la sua autobiografia. Carlo Goldoni,
altro celebre veneziano, coevo al Casanova, scelse allo stesso modo di scrivere
la propria autobiografia in francese. L'autobiografia del Casanova, a
parte il valore letterario, è un importante documento per la storia del
costume, forse una delle opere letterarie più importanti per conoscere la vita
quotidiana in Europa nel Settecento. Si tratta di una rappresentazione che, per
le frequentazioni dell'autore e per la limitazione dei possibili lettori,
riferisce principalmente delle classi dominanti dell'epoca, nobiltà e
borghesia, ma questo non ne limita l'interesse in quanto anche i personaggi di
contorno, di qualsiasi estrazione, sono rappresentati in modo vivissimo.
Leggere quest'opera è uno strumento importante per conoscere il quotidiano
degli uomini e delle donne di allora, per comprendere dal di dentro la vita di
ogni giorno. La fortuna dell'opera casanoviana, presso i protagonisti di
vertice della scena letteraria mondiale, è stata ristretta solo all'opera
autobiografica ed è stata vastissima. Iniziando da Stendhal, al quale fu
attribuita la paternità dell'Histoire, a Foscolo il quale mise addirittura in
dubbio l'esistenza storica del Casanova, Balzac, Hofmannstahl, Schnitzler,
Hesse, Márai. Molti furono solo lettori e quindi influenzati in modo inconscio,
altri scrissero opere ambientate nell'epoca di Casanova e di cui egli era
protagonista. Innumerevoli sono i riferimenti, nella letteratura moderna,
a questa figura che ha finito per diventare un'antonomasia. In Italia
l'interesse si è manifestato tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento. La prima edizione italiana della Historia della mia fuga dai Piombi
fu curata nel 1911 da Salvatore di Giacomo, il quale studiò anche i ripetuti
soggiorni napoletani dell'avventuriero e su questo argomento scrisse un
saggio.Seguirono Benedetto Croce[ e via via molti altri fino a Piero Chiara. Un
capitolo a parte andrebbe dedicato ai "casanovisti" cioè a tutti
quelli che si sono occupati e si occupano, più o meno professionalmente, della
vita e dell'opera del Casanova. Proprio a questa legione di sconosciuti si
debbono infinite identificazioni di personaggi, revisioni e importantissimi
ritrovamenti di documenti. Molto dell'opera casanoviana è ancora inedito,
Nell'Archivio di Stato di Praga rimangono circa 10 000 documenti che attendono
di essere studiati e pubblicati, oltre un numero imprecisato di lettere che
probabilmente giacciono in chissà quanti archivi di famiglia sparsi per l'Europa.
La grafomania dell'avventuriero fu veramente impressionante: la sua vita a un
certo momento divenne totalmente e ossessivamente dedicata alla
scrittura[91] Riguardo al mito del seduttore, Casanova, insieme a Don
Giovanni, ne è stato l'incarnazione. Il paragone è d'obbligo ed è stato tema di
numerose opere critiche. Le due figure finirono addirittura per fondersi,
benché ritenute antitetiche dai maggiori commentatori: a parte il fatto che il
veneziano era un personaggio reale e l'altro romanzesco, i due caratteri sono
agli antipodi. Il primo amava le sue conquiste, si prodigava con generosità per
renderle felici e cercava sempre di uscire di scena con un certo stile,
lasciando dietro di sé una scia di nostalgia; l'altro invece rappresenta il
collezionista puro, più mortifero che vitale, assolutamente indifferente
all'immagine di sé e soprattutto agli effetti del suo agire, concentrato
unicamente sul numero delle vittime della sua seduzione.
L'interpretazione del suo mito sarebbe fornita proprio dal libretto del Don
Giovanni di Mozart, scritto da Lorenzo Da Ponte, in cui Leporello, il servo di
Don Giovanni, in un'aria notissima recita: Madamina il catalogo è questo, delle
belle che amò il padron mio... e prosegue snocciolando le innumerevoli conquiste,
diligentemente registrate. Il fatto che alla redazione del libretto sembra
abbia partecipato anche Casanovacome è stato sostenuto basandosi su documenti
trovati a Dux, sul fatto che Da Ponte e Casanova si frequentassero e che
l'avventuriero fosse sicuramente presente la sera in cui a Praga andò in scena
la prima dell'opera mozartiana (29 ottobre 1787)è tutto sommato
marginale.[senza fonte] La partecipazione, comunque molto limitata, di Casanova
alla composizione del libretto di Da Ponte per l'opera mozartiana Don Giovanni,
è ritenuta molto probabile da vari commentatori. L'elemento fondamentale è un
autografo, rinvenuto a Dux, che contiene una variante del testo che si è
ipotizzato facesse parte di una serie di interventi operati in accordo con Da
Ponte e forse anche con lo stesso Mozart.[94] Quel che è certo è che Casanova
si misurò col mito di don Giovanni e ne costruì uno ancora più grande,
certamente più positivo e soprattutto reale. Mostre 1998 Praga, Palazzo
Lobkowicz, "Casanova v Čechách" (Casanova in Boemia). Catalogo:
Casanova v Čechách, Praga, Gema Art 1998. 1998 Venezia, Ca' Rezzonico "Il
mondo di Giacomo Casanova". Catalogo: Il mondo di Giacomo Casanova, un
veneziano in Europa 1725-1798, Venezia, Marsilio, 1998. 88-317-7028-4
Francia "Casanova for ever, 33 expositions
Languedoc-Roussillon". Catalogo: Casanova For Ever, Emmanuel Latreille
(dir.), Parigi, Editions Dilecta, Parigi, Bibliothèque nationale de France
“Casanova, la passion de la liberté” (dal 15 novembre al 19 febbraio ). Catalogo: Casanova, la
passion de la liberté, Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, . 978-2-7177-2496-7 (BnF) 978-2-02-104412-6 (Seuil) Stati Uniti d'America "Casanova: The
seduction of Europe", varie sedi: Museum of Fine Arts, Boston; Kimbell Art
Museum, Forth Worth; Fine Arts Museums, San Francisco. Catalogo: Casanova The
seduction of Europe MFA Pubblications Museum of fine arts, Boston. 978-0-87846-842-3. Filmografia su Casanova
Casanova (1918). Regia di Alfréd Deésy Il cuore del Casanova (Germania) Regia
di Erik Lund. Soggetto di Enrik Rennspies. Sceneggiatura di Bruno Kastner. Con
Bruno Kasner, Ria Jende, Rose Lichtenstein, Karl Platen. Casanovas erste und
letzte Liebe (Austria, 1920). Regia di Julius Szoreghi. Casanova (1927). Regia
di Alexandre Volkoff Les amours de Casanova (Francia, 1934). Regia di René
Barberis L'avventura di Giacomo Casanova (Italia, 1938). Regia di Carlo
Bassoli. Le avventure di Casanova (Les Aventures de Casanova) (Francia, 1947).
Regia di Jean Boyer. Il cavaliere misterioso (Italia, 1948). Regia di Riccardo
Freda. Con Vittorio Gassman, Gianna Maria Canale, María Mercader, Antonio
Centa. Le avventure di Giacomo Casanova (Italia). Regia di Steno. Con Gabriele
Ferzetti, Corinne Calvet, Marina Vlady, Nadia Gray, Carlo Campanini. Last Rose
from Casanova, titolo originale Poslední růže od Kasanovy, (Cecoslovacchia,
1966). Regia di Vaclav Krska. Infanzia, vocazione e prime esperienze di Giacomo
Casanova, veneziano (Italia). Regia di Luigi Comencini. Con Leonard Withing, Maria
Grazia Buccella, Tina Aumont, Ennio Balbo, Senta Berger, W. Branbell,
Clara Colosimo, C. ComenciniDe Clara, Silvia Dionisio, Evi Maltagliati, Raoul
Grassilli, Mario Scaccia, Lionel Stander. Cagliostro (Italia, 1975). Regia di
Daniele Pettinari. Con Bekim Fehmiu, Curd Jürgens, Rosanna Schiaffino, Robert
Alda, Massimo Girotti. (Casanova è uno dei personaggi). Il Casanova di Federico
Fellini (Italia, 1976). Regia di Federico Fellini Con Donald Sutherland, Tina
Aumont, Olimpia Carlisi, M. Clementi, Carmen Scarpitta, C. Browne, D. M.
Berenstein. Il mondo nuovo (Italia, 1982). Regia di Ettore Scola. Con Jean
Louis Barrault, Marcello Mastroianni, Hanna Schygulla, Harvey Keitel,
Jean-Claude Brialy, Andréa Ferréol, M. Vitold, A. Belle, E. Bergier, Laura
Betti. David di Donatello 1983 per la migliore sceneggiatura, scenografia e
costumi. Il ritorno di Casanova, titolo originale Le retour de Casanova
(Francia, 1992). Regia di Édouard Niermans Con Alain Delon, Fabrice Luchini, E
Lunghini. Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000). Regia di Mauro Borrelli. Con G.
Scandiuzzi, Y. BleethGidley, C. FilpiGanus, E. Bradley. Il giovane Casanova
(Francia, Italia, Germania, 2002). Regia di Giacomo Battiato. Con Stefano
Accorsi, Thierry Lhermitte, Cristiana Capotondi, Silvana De Santis, Catherine
Flemming, Katja Flint. Casanova (Stati Uniti, 2005). Regia di Lasse Hallström.
Con Heath Ledger, Jeremy Irons, Lena Olin, Sienna Miller, Adelmo Togliani.
Historia de la meva mort (Spagna/Francia ). Regia di Albert Serra. Con Vicenç
Altaió, Lluís Serrat, Eliseu Huertas. Casanova variations
(Austria/Germania/Francia/Portogallo ). Regia di Michael Sturminger, con John
Malkovich, Fanny Ardant, Veronica Ferres. Zoroastro, Io Casanova (Italia )
Regia di Gianni di Capua, con Galatea Ranzi Dernier Amour (Francia ). Regia di
Benoît Jacquot, con Vincent Lindon (Giacomo Casanova), Stacy Martin (Marianne
de Charpillon), Valeria Golino, (La Cornelys). Film solo lontanamente ispirati
alla figura di Casanova Casanova farebbe così! (Italia 1942). Regia di Carlo
Ludovico Bragaglia. Le tre donne di Casanova (Stati Uniti 1944). Regia di Sam
Wood. Casanova '70 (Italia 1965). Regia di Mario Monicelli. Film comici La
grande notte di Casanova (Stati Uniti 1954) Norman Z. McLeod. Casanova &
Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976). Regia di Franz Antel. Tony Curtis,
Marisa Berenson, Sylva Koscina, Britt Ekland, Umberto Orsini, Marisa Mell, Hugh
Griffith. Telefilm su Casanova Casanova (Regno Unito, 2005). Regia di Sheree
Folkson. Con David Tennant, Rose Byrne, Peter O'Toole, Laura Fraser, Nina
Sosanya, Shaun Parkes. Onorificenze Cavaliere dello Speron d'oronastrino per
uniforme ordinariaCavaliere dello Speron d'oro — Roma, 1760 Riguardo
l’onorificenza, Casanova nelle Memorie descrive l'incontro con il pontefice e
il successivo conferimento dell'Ordine (cfr. G. Casanova, Storia della mia
vita, Milano, Mondadori 2001, II pag.
925 cit. in bibl.). Si è dubitato anche in questo caso, come in altri, che il
racconto autobiografico risponda a verità. Per chiarire i dubbi sono state
compiute approfondite ricerche nell'Archivio segreto vaticano al fine di
ritrovare il breve papale di conferimento, sia nel periodo di cui parla
Casanova (dicembre 1760-gennaio 1761) sia in periodi precedenti e successivi,
senza alcun esito. Il che non significa che l’onorificenza non sia stata
effettivamente conferita, in quanto potrebbe essersi verificato un errore
burocratico, di trascrizione o altro. Sta di fatto però che intorno allo stesso
periodo furono conferite onorificenze ad altri personaggi come Piranesi,
Mozart, Cavaceppi e il breve relativo è stato ritrovato. Quindi manca, allo
stato, un riscontro oggettivo. Si aggiunga che il cavalierato dello Speron
d’Oro era all’epoca già piuttosto inflazionato, al punto da sconsigliare
l’esibizione in pubblico della decorazione. Lo stesso Casanova in un passo
dell’opera autobiografica Il duello scrive, riferendosi all’onorificenza,
"il troppo strapazzato ordine della cavalleria romana" (cfr. Il
duello cit. in bibl.).[95] Note Esplicative Casanova visse a lungo in Francia e conobbe
personalmente molti protagonisti del movimento illuminista tra cui Voltaire e
Rousseau. Inoltre, in patria, frequentò membri dell'oligarchia aristocratica
dominante appartenenti all'ala progressista, come Andrea Memmo. In più aveva
anche aderito alla Massoneria, il che lo pose a contatto con tutta una serie di
personaggi portatori di idee progressiste. Malgrado tutto questo egli fu, e si
definì sempre, un conservatore, legato a doppio filo con la classe nobiliare
cui, pur non appartenendovi formalmente, riteneva d'esservi membro in pectore,
reputandosi a torto od a ragione il figlio naturale di Michele Grimani. Allo
scoppio della Rivoluzione francese e nel periodo alquanto turbolento che ne
seguì, scrisse numerosissime lettere (cfr. Epistolario P.Chiara cit. in ) in
cui deprecava in modo reciso l'accaduto e soprattutto non riconobbe mai, negli
eventi, la paternità culturale del movimento illuminista. Ad esso aveva
assistito come semplice spettatore, non avendone percepito mai la dirompente
potenzialità e non condividendone nessuna delle istanze che, ad esempio,
Montesquieu espresse nei confronti dell'iniquo sistema già dal 1721 (cfr.
Montesquieu, Lettres Persanes) e riteneva che, pur con qualche modifica, il
governo della classe nobiliare fosse il migliore possibile. Un esame attento ed
approfondito della posizione politica del Casanova è stato compiuto da
Feliciano Benvenuti (Casanova politico, atti del convegno: Giacomo Casanova tra
Venezia e l'Europa, 16.11.1998, Gilberto Pizzamiglio, fondazione Giorgio Cini,
Venezia, ed. Leo S. Olschki, 2001, pag. 1 e seg.) Il cognome Casanova è attestato appartenere a
nobile famiglia vissuta a Cesena, Milano, Parma, Torino-Dronero Casanova afferma che dalla città
spagnola il suo antenato, padre Jacob Casanova, a seguito del rapimento di una
monaca, Donna Anna Palafox, sarebbe fuggito, nel 1429, a Roma in cerca di un
rifugio dove, dopo aver scontato un anno di carcere, avrebbe ricevuto il
perdono e la dispensa dei voti sacerdotali da parte del pontefice in persona,
potendo così unirsi in matrimonio con la rapita. A questo riguardo è
interessante la tesi di Jean-Cristophe Igalens (G. Casanova, Histoire de ma
vie, tome I. Édition établie par Jean-Christophe Igalens et Érik Leborgne,
Laffont , pag. XL , op. cit. in Opere postume) il quale sostiene che la
genealogia inserita dal Casanova all'inizio delle Memorie sia del tutto
fantasiosa. Si tratterebbe di una sorta di parodia di ciò che facevano
regolarmente i memorialisti aristocratici dell'epoca i quali, all'inizio
dell'opera, enunciavano il loro antico lignaggio, quasi a ricercare una
legittimazione per il fatto di esporre, in un'opera letteraria, le vicende di
cui erano stati protagonisti, almeno quelle pubbliche, poiché le private
rientravano nell'ambito dell'autobiografia. La tesi appare fondata se si
considera che la ricostruzione genealogica proposta dal C. risale addirittura
al 1428, cioè a tre secoli dalla sua nascita ed è relativa a un cognome,
praticamente un toponimo, estremamente comune.
A conferma del fatto che la nascita illegittima di Casanova fosse
oggetto di chiacchiere, va citato un passaggio de La commediante in fortuna di
Pietro Chiari (Venezia 1755) in cui si tratteggia un ritratto precisissimo di
Casanova che chiunque era in grado di riconoscere sotto le spoglie di un nome
di fantasia, il Signor Vanesio "C'era tra gli altri un certo Signor
Vanesio dì sconosciuta e, per quanto dicevasi, non legittima estrazione, ben
fatto della persona, di colore olivastro, di affettate maniere e di franchezza
indicibile". Evidentemente il riferimento a tratti somatici tipici e
riconoscibili fa pensare che le dicerie fossero suffragate da una notevole
somiglianza fisica con Michele Grimani. L'identificazione del Signor Vanesio
con Casanova è pacifica, tra i tanti autori, concordi sul punto, si veda:
E.Vittoria Casanova e gli Inquisitori di Stato cit. in bibl. pag. 25. (Immatricolazione 29 novembre 1737 col numero
122, iscrizione al secondo anno 26 novembre 1738, fede di terzeria del 20
gennaio, 22 marzo e I maggio 1739. Fonte: Bruno Brunelli, Casanova studente, in
“Il Marzocco” 15 aprile 1923, pag 1-2)
Il 2 aprile 1742 firmò un testamento in qualità di testimone. Sull'ubicazione esatta della casa natale di
Casanova e di quella in cui trascorse l'infanzia dal 1728 al 1743, anno della
morte della nonna materna Marzia, si è discusso moltissimo. Certo è che al
momento del matrimonio Gaetano e Zanetta Casanova non disponevano di un reddito
tale da sostenere un spesa come quella affrontata, dal 1728 in poi, di 80
ducati annui. Quindi molto probabilmente, dopo il matrimonio avvenuto il 27
febbraio 1724, i coniugi andarono a vivere a casa della madre di Zanetta,
Marzia Baldissera, cheera vedova essendo mortole il marito Girolamo Farussi
poche settimane avanti il matrimonio della figlia. E questa con ogni
probabilità fu la casa in cui Casanova nacque il 2 aprile 1725 con l'assistenza
della levatrice Regina Salvi. L'identificazione esatta della casa natale è
assai ardua, ma comunque è stata tentata. Il casanovista Helmuth Watzlawick ha
identificato la casa di Marzia Baldissera con l'attuale civico 2993 di Calle
delle muneghe. Questa sarebbe dunque la casa natale di Casanova (Fonte: Helmuth
Watzlawick, House of childhood, house of birth; a topographical distraction, in
Intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XVI 1999, pag. 17 e seg.). I
coniugi Casanova si trasferirono nella casa di Calle della Commedia al ritorno
dalla fortunata tournée londinese quando rientrarono a Venezia col
secondogenito Francesco, nato a Londra il primo di giugno 1727. Tale abitazione
risulta essere stata di gran rappresentanza, su tre livelli, con un salone al
secondo piano che fu usato in occasione di feste. L'affitto di 80 ducati annui
era circa il doppio della media che veniva corrisposta nel vicinato per
appartamenti evidentemente meno lussuosi. A questo punto sembrerebbe tutto
chiaro, si tratta solo di trovare in Calle della commedia un'abitazione che
corrisponda alla descrizione: grandezza, salone al secondo piano e camera al terzo,
nonché corrispondenza con la proprietà che si sa essere stata con certezza
della famiglia Savorgnan. L'unica che potrebbe corrispondere alla descrizione è
quella sita nell'attuale Calle Malipiero (già Calle della Commedia) al civico
3082. Ma su questo non tutti gli studiosi concordano, tanto che la lapide
apposta in calle Malipiero dice "In una casa di questa calle, già Calle
della Commedia, nacque il 2 aprile 1725 Giacomo Casanova" senza alcun
altro più specifico elemento. Alcuni sostengono che a causa di rimaneggiamenti
interni non è più possibile identificare la struttura originaria. Uno studioso
dell'argomento, Federico Montecuccoli degli Erri, ha pubblicato
(L'intermédiaire des Casanovistes, Genève Année XX, 2003, pag.3 e seg.)
un'analisi molto approfondita basata sulle cosiddette "Condizioni"
cioè sulle dichiarazioni dei redditi immobiliari che venivano presentate dai
proprietari. All'epoca, per verificare l'esattezza dei dati dichiarati, si
procedeva ad un'ispezione diretta casa per casa effettuata, in ogni parrocchia,
dal parroco. Egli procedeva con un certo ordine chiedendo a ognuno il titolo di
possesso. I proprietari dichiaravano il titolo di proprietà e gli affittuari
dovevano o esibire il contratto oppure giurare le condizioni contrattuali. Poiché
è stato ritrovato il documento in cui la madre di Zanetta, Marzia, giurava per
la figlia, nel frattempo trasferitasi per lavoro a Dresda, che il contratto
prevedeva un affitto di 80 ducati annui e che l'immobile era di proprietà
Savorgnan, conosciamo con certezza i dati contrattuali e la residenza indicata
sull'atto, cioè Calle della Commedia. Purtroppo le modifiche urbanistiche e
catastali intervenute non consentono con certezza l'identificazione, anche
perché all'epoca non esistevano dati catastali precisi. Secondo lo studioso
citato, l'abitazione è da identificarsi con la casa al civico 3089 della Calle
degli orbi che all'epoca potrebbe essere stata designata come Calle della
Commedia. Corrisponderebbero sia l'aspetto fisico che la proprietà. Comunque
tutte queste ipotesi si muovono entro un fazzoletto di spazio di poche
centinaia di metri; infatti è certo che i Casanova abitavano, per motivi di
lavoro, nei pressi del Teatro San Samuele, di proprietà dei Grimani. Documento:
Calle della Commedia 324|casa|Giovanna Casanova comica al presente s'attrova in
Dresda, giurò Marzia sua Madre|N.H Zuanne e F.llo Co. Savornian|d.ti 80 (annui)
Registro dell'anno 1740 Atti della Parrocchia di S.Samuele. Non nel noto lazzaretto del Vanvitelli, ma in
quello in uso precedentemente. Si è
mantenuta la cronologia quale risulta dal testo delle Memorie. L'autore ha qui,
come in altri casi, confuso le date o fuso insieme più viaggi. In realtà la
permanenza nel Lazzaretto era durata dal 26 (o 27) ottobre 1743 al 23 (o 24) novembre
1743. Quindi l'intervallo tra i due viaggi è stato di tre mesi, non di sette.
Come affermato dall'autore, il soggiorno si svolse nel Lazzaretto
"Vecchio", in quanto quello "Nuovo", pur terminato nel
febbraio del 1743, iniziò a funzionare solo nel 1748 allorché la Reverenda
Camera Apostolica se ne prese carico. Sull'argomento si veda: Furio
Luccichenti, Quattro settimane nel Lazzaretto in L'Intermédiaire des
Casanovistes Genève, Année XXVIII, anno
pag. 711. In tale studio viene ricostruita la situazione dei lazzaretti
di Ancona e confrontato il racconto casanoviano con le risultanze di archivio
relative ai progetti e all'iconografia degli edifici adibiti alle quarantene.La
cronologia della permanenza è stata stimata dall'autore nel periodo 26.10/23.11.1743.
Un'altra cronologia differisce di un giorno soltanto: 27.10/24.11.1743 (J.
Casanova, Histoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de
textes inédits. Editore Robert Laffont,
I, Cronologia, pag. XXX, cit. in bibl.) Il progetto di ristrutturazione
del Lazzaretto "Vecchio", datato 1817, si conserva nell'Archivio di
Stato di Roma (Collezione Mappe e Piante, Parte I, Cart. 2, n° 87/I, II, III.).
Esso consente di verificare lo stato del fabbricato all'epoca della permanenza del
Casanova. Il personaggio di
Teresa/Bellino ripropone una tematica ricorrente cioè la questione
dell'aderenza alla realtà dei fatti riportati nell'Histoire e il considerare il
personaggio descritto come realmente esistito. L'identificazione di Teresa con
Angela Calori, nota virtuosa, cioè cantante, di gran successo, si basa su
ricerche effettuate già dai casanovisti del passato, come Gustavo Gugitz, il
quale però ritenne che il personaggio fosse in realtà una costruzione
letteraria. Teresa viene spesso citata nell'Histoire sotto il nome fittizio di
Teresa Lanti, maritata con Cirillo Palesi, nome anch'esso fittizio. Ma molte
delle notizie, date e fatti riferiti nel racconto casanoviano non quadrano con
quelli attribuibili alla Calori. Quest'ultima è anche ricordata direttamente
nell'Histoire allorché Casanova riferisce di averla incontrata a Londra e di
aver provato, vedendola, le stesse sensazioni avute in occasione di un
incontro, a Praga, con Teresa/Bellino, il che ha indotto taluni a considerare
questo fatto una prova che la Teresa delle memorie fosse effettivamente la
Calori. Molti studiosi (tra gli altri Furio Luccichenti) propendono per
l'assemblaggio d'invenzione, cioè pensano che Casanova abbia costruito il
personaggio di cui parla con elementi derivanti da più persone diverse, il che
non esclude che l'autore possa essersi ispirato, in larga misura, anche alla
Calori. Comunque gli studiosi non demordono: Sandro Pasqual (L'intreccio,
Casanova a Bologna, 2007, pag. 33 e seguenti, cit. in bibl.) ha ipotizzato trattarsi
non della Calori, ma di un'altra famosa cantante bolognese, Vittoria Tesi, nota
per il suo fascino androgino e per aver interpretato spesso en travestie parti
maschili. La tendenza a romanzare del Casanova sarebbe in questo caso
particolarmente stimolata dall'ambiente e dai ruoli dei personaggi descritti.
Egli ebbe sempre, infatti, fortissimi legami col mondo teatrale, essendo figlio
di attori e avendo frequentato tutta la vita teatri e teatranti. Curiosamente,
ogni volta che rappresenta un personaggio femminile che ha a che fare col
teatro, sia cantante o ballerina, lo descrive, salvo rarissimi casi, in modo
particolarmente negativo; come se, pur attratto da quel mondo, ne disprezzasse
profondamente gli interpreti, attribuendo, soprattutto a quelli femminili, le
peggiori inclinazioni alla falsità, all'avidità e al calcolo. Teresa/Bellino è
una delle eccezioni, il che farebbe propendere per l'idealizzazione, cioè per
la non rispondenza alla realtà del personaggio, peraltro nascosto, come si è
detto, sotto un nome fittizio. Sul rapporto tra l'Histoire e il mondo del
teatro si veda, di Cynthia Craig, Representing anxiety. The figure of the
actress in Casanova's Histoire de ma vie. L'intermédiaire des casanovistes,
Genève, Année 2003 XX. Marco Barbaro (19
luglio 1688-25 novembre 1771), patrizio veneziano del ramo Barbaro di San
Aponal, figlio di Anzolo Maria, morto senza figli, lasciò a Casanova un legato
di sei zecchini al mese. (Fonte: Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original, suivi de textes inédits. Editore
Robert Laffont cit. in bibl. I pag. 997,
che rinvia a Salvatore di Giacomo, Historia della mia fuga dai Piombi,
Milano) Marco Dandolo, patrizio
veneziano del ramo Dandolo di San Giovanni e Paolo. Documento: Testamento di
Marco Dandolo 28 marzo 1779 in Archivio di Stato di Venezia. Legato
testamentario "...Raccomando alla loro bontà la persona di Giacomo
Casanova, che mi fu in tutta la sua vita attaccato col cuore, e amoroso alla
mia persona, e che ha mostrato in ogni tempo la più comendabile gratitudine a'
miei pochi benefizj. Dichiaro che a lui appartengono tutti i mobili, che sono
nella stanza in cui dorme.......... Al suddetto Giacomo Casanova lascio il mio
orologio d'oro e le mie quattro possate d'argento" (Fonte:
L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, cit. in , pag.29 nota
104). L'identificazione di
"Henriette" insieme a quella di "Suor M.M." è stato uno
degli argomentipiù dibattuti dai casanovisti. Il motivo di tante accanite
ricerche è connesso con la centralità sentimentale di questi due personaggi
nella vita di Casanova. Il nome di Henriette ricorre di con tinuo nelle
Memorie e la sua identità è stata mascherata accuratamente dall'autore. Tra le
identificazioni che si sono susseguite quelle più autorevoli sono da ascrivere
a: John Rives Childs (1960), che sostenne trattarsi di Jeanne-Marie
d'Albert de Saint Hyppolite, nata il 22 marzo 1718, sposata a Jean-Baptiste
Laurent Boyer de Fonscolombe, nipote di Joseph de Margalet, proprietario del
castello di Luynes, che si trova nella zona descritta da Casanova come quella
di residenza di Henriette. Helmut Watzlawick (1989), che sostiene trattarsi di
Marie d'Albertas, nata a Marsiglia il 10 marzo 1722. Louis Jean André (1996),
che avrebbe identificato Henriette in Adelaide de Gueidan (1725-1786).
Quest'ultima ricostruzione è sostenuta da un apparato critico impressionante
che, attraverso una raccolta minuziosa di elementi (lettere, atti, iconografia,
topografia della zona), conduce a una notevole verosimiglianza
dell'identificazione. Immagini del castello di Valabre, residenza della
famiglia De Gueidan, che secondo André corrisponderebbe perfettamente alla
descrizione datane da Casanova senza nominarlo, sono visibili qui. Manca ancora
però la prova inoppugnabile, una lettera o un qualsiasi manoscritto del
Casanova stesso che consenta l'identificazione certa. Molti studiosi hanno tentato
l'identificazione di suor M.M. Lo studio più completo sull'argomento si deve a
Riccardo Selvatico, che la identifica con Marina Morosini (R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti T.
CXLII (1983-84) pag. 235-266. Sul
rapporto tra romanzo e autobiografia nelle Memorie si veda tra gli altri
L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova Michele Mari, pag. 237 e seguenti,
cit. in . Balletti era il nipote della
Fragoletta, l'attempata attrice amata dal padre di Giacomo, Gaetano, al seguito
della quale era arrivato in giovane età a Venezia. (Fonte: Charles Samaran,
Jacques Casanova, Vénitien, une vie d'aventurier au XVIII siècle, Pag. 26, note
1,2,3. Cit. in bibl. con rinvio a un passaggio delle Memorie di Goldoni) Casanova fu iniziato nella loggia Amitié amis
choisis, probabilmente su presentazione di Balletti (Fonte: Jean-Didier
Vincent, Casanova il contagio del piacere, cit. in bibl. pag. 145, nota
35). L'affiliazione di Mozart alla
Fratellanza Massonica avvenne il 14 dicembre del 1784, nella loggia “Zur
Wohltätigkeit” (Alla Beneficenza) di Vienna (Fonte: Lidia Bramani, Mozart
massone e rivoluzionario, pag. 56. Bruno Mondadori, 2005). Nel novembre del 1750, Casanova ricevette i
gradi di Compagno e Maestro nella loggia di S. Giovanni di Gerusalemme (cfr.
Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma
vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in
bibl.) Malgrado la diuturna
applicazione, il fatto di aver avuto eccellenti maestri come Crebillon e di
aver potuto fare ampia pratica durante la permanenza in Francia, il francese di
Casanova non fu mai ritenuto sufficientemente perfetto nella forma scritta,
soprattutto a causa degli “italianismi” che si riscontrano numerosissimi nelle
Memorie. Casanova riferisce con dovizia di particolari il suo incontro con Crebillon
e la successiva intensa frequentazione allo scopo di imparare la lingua.
Ammette anche i suoi limiti: infatti scrive: Per un anno intero andai da Crebillon
tre volte alla settimana ma non riuscii mai a liberarmi dei miei italianismi
(Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori). L'imputazione e la sentenza: 21 agosto 1755
Venute a cognizione del Tribunale le molte riflessibili colpe di Giacomo
Casanova principalmente in disprezzo publico della Santa Religione, SS. EE. lo
fecero arrestare e passar sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. L'oltrascritto Casanova
condannato anni cinque sotto li piombi. Andrea Diedo Inquisitor. Antonio
Condulmer Inquisitor. Antonio Da Mula Inquisitor. (VeneziaArchivio di
StatoInquisitori di StatoAnnotazioniB. 534245)
Riferte di Giovanni Battista Manuzzi, confidente degli Inquisitori di
Stato Incaricata la mia obbedienza dal Venerato Comando di riferire chi sia
Giacomo Casanova, generalmente rilevo ch'è figlio di un comico e di una
commediante; viene descritto il detto Casanova di un carattere cabalon, che si
fa profittare della credulità delle persone come fece col N.H. Ser Zanne
Bragadin, per vivere alle spalle di questo o di quello... Giovanni Battista Manuzzi,
22 marzo 1755. ...Mi sovvenne allora che lo stesso Casanova parlato mi avea ne'
giorni passati della Setta de' Muratori, raccontandomi i onori e vantaggi che
si hanno ad essere nel numero de' confratelli, che vi aveva dell'inclinazione
il N.H. Ser Marco Donado per essere arrolato a detta Setta... Giovanni Battista
Manuzzi, 12 luglio 1755. Secondo il
casanovista Pierre Gruet, il motivo fondamentale dell'arresto di Casanova è da
ricercare proprio nella relazione con suor M.M. che, se l'identificazione con
Marina Morosini è corretta (sul punto si veda R. Selvatico, Note
casanovianeSuor M.M. Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti),
apparteneva ad una delle più potenti famiglie del patriziato veneziano. I
Morosini avrebbero quindi fatto pressioni sugli inquisitori per far cessare la
scandalosa situazione. Cfr. Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie.
Texte intégral du manuscrit original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag
1065. Bibliografiche Giacomo
Casanova, Histoire de ma vie, Wiesbaden-Paris, F. A. Brockhaus-Librairie Plon,
1960-62. Giacomo Casanova, Examen des
"Etudes de la Nature" et de "Paul et Virginie" de Bernardin
de Saint Pierre, 1788-1789127. Carlo
Goldoni, Memorie, Torino, Einaudi, 1967158.
Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LVI in Casanova, Histoire de
ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in
bibl. G.Casanova,Storia della mia vita,
Mondadori 2001, I, pag. 502 cit. in
bibl. (Fonte: P.Molmenti, Carteggi casanoviani) (Fonte E.Grossato, Un bizzarro allievo dello
Studio Padovano. Giacomo Casanova, in Padova e la sua provincia) (Fonte:
P.Del Negro, Giacomo Casanova e l'Padova, estratto da Quaderni per la storia
dell'Padova n°25, 1992) Aprile, maggio
1741 secondo la cronologia delle Memorie. Cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie,
pag. LVIII in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.
(Fonte: Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII in Casanova, Histoire
de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit.
in bibl.) Helmut Watzlawick,
Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl. Fonte: Silvio Calzolari, Vita, Amori, Mistero
di un libertino veneziano, cit. in bibl. pag.32: Ma perché fu fermato? Non
aveva da scontare alcuna pena. L'arresto fu probabilmente organizzato dal
Grimani che voleva dargli una lezione per aver venduto di nascosto i mobili
della casa paterna e per aver maltrattato un suo incaricato, Antonio Razzetta,
che doveva occuparsi della questione. Si
veda di Furio Luccichenti, La prassi memorialistica di Giacomo Casanova, L'Intermédiaire
des casanovistes, XII (1995), pag. 27 e seguenti. Si veda di Pierre-Yves Beaurepaire, Grand
Tour', ‘République des Lettres' e reti massoniche : una cultura della mobilità
nell'Europa dei Lumi », in Storia d'Italia, Annali 21, La Massoneria, Gian
Mario Cazzaniga, Torino, Giulio Einaudi, 200632-49 cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag.
LXIII e LXIV in Casanova, Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la
direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.
cfr. Helmut Watzlawick, Chronologie, pag. LXIII e LXIV in Casanova,
Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée sous la direction de Gérard
Lahouati, , cit. in bibl, Fonte: Elio
Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, pag. 140 e seguenti, cit. in bibl. Fonte: Bruno Rosada, Il Settecento veneziano.
La letteratura, Venezia, Corbo e Fiore, 2007, pag. 231, cit. in bibl. Riguardo alla paternità del quadro in
questione, la precedente attribuzione a Mengs (risalente a Johann Joachim
Winckelmann) è stata praticamente abbandonata dalla critica e, allo stato delle
ricerche, il quadro è probabilmente attribuibile a Francesco Narici, pittore di
origine genovese attivo a Napoli. La tela fu scoperta nel 1952 a Milano da un
restauratore di Bologna: Armando Preziosi, il quale sosteneva di aver trovato
tra la cornice, sicuramente coeva, e il quadro, un biglietto manoscritto che
recava le parole Jean-Jacques Casanova 1767. Il fatto che il soggetto
rappresentato possa effettivamente essere Giacomo Casanova, si basa su una
serie di dati che sono: l'osservazione delle fattezze, soprattutto il naso;
il fatto che essendo il quadro a grandezza naturale consenta di ipotizzare
trattarsi di un uomo della stessa statura di Casanova che è nota; il fatto che
i tratti assomiglino in maniera sorprendente all'altro quadro, di mano del
fratello Francesco, di sicura attribuzione, sia per l'autore che per il
soggetto. Inoltre l'insieme del ritratto: l'amorino, i libri, fanno pensare a
una simbologia molto affine al personaggio di Casanova che, pur nello stile di
vita brillante e mondano, teneva sempre a porsi come un letterato. Il quadro
passò, nel 1993, da Preziosi alla collezione privata del casanovista Giuseppe
Bignami di Genova. Per documentarsi sull'argomento si veda: Giuseppe Bignami,
Aggiornamenti e proposte sull'iconografia casanoviana, in L'intermédiaire des
casanovistes XI, 1994, pagg. 17-23. Il
mondo di Giacomo Casanova.... (catalogo della mostra a Ca' Rezzonico, 1998,
cit. in bibl.). Giuseppe Bignami, Casanova tra Genova e Venezia, La Casana, n°
3 luglio-settembre 2008, pag. 25-37. Una summa dell'iconografia casanoviana,
che si compone di nove opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è
consultabile in Casanova, la passion de la liberté, catalogo della mostra
organizzata dalla BNF, , Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France /
Seuil, pag.68-71 Marino Balbi
(1719-1783), monaco somasco. Era un patrizio veneziano appartenente a una
casata barnabota, cioè a una di quelle famiglie patrizie che avevano perso ogni
ricchezza e i cui membri erano ridotti a vivere di espedienti. Erano detti
barnabotti in quanto gravitavano intorno a Campo San Barnaba (Fonte: L'histoire
de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari, pag. 22, citato in ). Si trattava di un certo Andreoli, custode del
palazzo, che il Casanova vide approssimarsi, da una fessura del portone,
"in parrucca nera e con un mazzo di chiavi in mano". Sul punto, per
maggiore approfondimento, si veda il commento di Riccardo Selvatico Cento note
per Casanova a Venezia, Furio Luccichenti, ed. Neri Pozza 1997, pag. 316. Sentenza di condanna a carico di Lorenzo
Basadonna, carceriere del Casanova Lorenzo Basadonna era custode delle Prigioni
de Piombi, che esisteva nei camerotti per difetti del suo ministero, da quali
ne provenne la fuga al primo novembre decorso da Piombi stessi delBalbi
somasco, e di Giacomo Casanova, che vi erano condannati, per tenui motivi di
contrasto con Giuseppe Ottaviani pur condannato ne' camerotti, ne commise la
interfezione. Presi dal Tribunale gl'essami per rilevare l'origine, e i modi
del non ordinario avvenimento, risultò infatti per la confessione stessa del
reo il caso per proditorio in ogni sua circostanza. Tutto che però meritasse il
supplizio maggiore, la clemenza del Tribunale con pieni riflessi di carità e di
clemenza è devenuta alla sentenza qui contro estesa''. Alvise Barbarigo Inq.r
Lorenzo Grimani Inq.r Bortolo Diedo Inq.r 175710 giugno. Lorenzo Basadonna sia
condannato ne' Pozzi per anni dieci. Alvise Barbarigo Inq.r Lorenzo Grimani
Inq.r Bortolo Diedo Inq.r Venezia, Archivio di Stato, Inquisitori di Stato,
Annotazioni, R. 535 c.83. Jeanne Camus
de Pontcarré marchesa d'Urfé 1705-1775, sposò nel 1724 Louis-Christophe de
Lascaris d'Urfé de Larochefoucauld marchese di Langeac, dal quale ebbe tre
figli. Rimase vedova nel 1734 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori
2001, II pag.1634 nota) G. Casanova, Historie de ma vie, Libro 2,
Volume 5, Capitolo 3 Molti commentatori
hanno avanzato dubbi sul racconto casanoviano relativo all'istituzione della
lotteria, che sarebbe servita a finanziare la costruzione della École
militaireprogetto che era sostenuto in modo pressante dalla Pompadoure su
particolari, relativi all'architettura dell'operazione ideata dai fratelli
Ranieri e Giovanni Calzabigi, così come esposti nell'Histoire. Comunque, vista
la rilevanza della documentazione, è indubitabile che Casanova abbia svolto un
ruolo chiave, probabilmente mettendo a disposizioni le sue forti entrature
politiche. Il che dimostrerebbe anche che il rapporto con de Bernis e il suo
entourage era molto solido. Sul punto si veda G. Casanova, Storia della mia
vita, Mondadori 2001 cit. in bibl. II,
Pag. 164 nota 1, in cui si puntualizza che la lista dei 28 ricevitori,
pubblicata nel febbraio 1758, non riporta il nome di Casanova in relazione alla
ricevitoria di Rue Saint Denis, citata nel racconto autobiografico. Secondo
Samaran, (Jacques Casanova ecc.. Cit. In bibl.) Casanova avrebbe diretto una
ricevitoria dal settembre 1758 a tutto il 1759, ma a Rue Saint Martin. Si veda
anche Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie…. Éd. Robert Laffont 1993
cit. in bibl. II, pag 21 nota 4
(con rinvio a C. Meucci, Casanova Finanziere, cit. in bibl. pag. 66 e seg.),
pag. 23 nota 2, (con rinvio a A. Zottoli, Giacomo Casanova) e Jean Leonnet, Les
loteries d'état en France aux XVIII e XIX siécles. Imprimerie nationale, 1963,
pag 15 e seg. Il decreto di fondazione della lotteria è un arrêt delConsiglio
di Stato del re Luigi XV, datato 15 ottobre 1757 (BnF, Departement des
Manuscrit Française 26469, fol. 198).
Del viaggio nei Paesi Bassi, come incaricato di una missione diplomatica
descritto da Casanova, vi è un riscontro obiettivo: il passaporto, ritrovato a
Dux, rilasciatogli il 13 ottobre 1758 da Matthys Lestevenon van Berkenroode
(1715-1797), ambasciatore della Repubblica delle Sette Province a Parigi dal
1750 al 1762 (Fonte: G. Casanova Storia della mia vita, ed. Mondadori). Il
documento originale è riprodotto in Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma
vie. Texte intégral du manuscrit original,.... Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol
II, Appendice Documents pag. 1193 e seg.
Dopo il naufragio dei progetti matrimoniali di Giustiniana, la madre
Anna Gazini (che aveva sposato, dopo la nascita della primogenita, sir Richard
Wynne) decise di lasciare Venezia per evitare che i pettegolezzi danneggiassero
le altre due figlie, Mary Elizabeth, nata nel 1741, e Teresa Susanna, nata nel
1742. La partenza avvenne il 2 ottobre 1758 (Fonte: Andrea di Robilant, Un
amore veneziano, Milano, Mondadori, 2003, pag. 23 e seg. e pag. 120 e seg.). La lettera autografa di Giustiniana Wynne è
andata all'asta all'Hôtel Drouot (Parigi) il 12 ottobre 1999. Il collezionista
che l'ha acquistata, e che ha voluto mantenere l'anonimato, ne ha però
consentito la pubblicazione integrale (cfr. Helmut Watzlawick, L'Intermédiaire
des Casanovistes anno 2003 pag. 25)
«...siete filosofo, siete onesto, avete la mia vita nelle mani,
Salvattemi se c'è ancora rimedio, e se potete...» G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori, Edizione 2001, II, pag. 394,
cit. in bibl. Histoire, volume 15, capitolo XIX Nous avons ici une espèce de plaisant qui
serait très capable de faire une façon de Secchia Rapita, et de peindre les
ennemis de la raison dans tout l'excès de leur impertinence... (Fonte: Œuvres
complètes de Voltaire avec des notes... Parigi 1837, II pag. 91)
Fonte: Frédéric Manfrin in Casanova, la passion de la liberté, Parigi,
Coédition Bibliothèque nationale de France / Seuil, , Chronologie, pag. 221. G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, II, pag. 1508 cit. in bibl. Marie Anne Geneviéve Augspurger, detta La
Charpillon, (circa 1746-1778), nota cortigiana londinese (Fonte: G. Casanova,
Storia della mia vita, ed. Mondadori 2001,
III pag.117 nota). Un riscontro
del soggiorno di Casanova a Berlino deriva da una annotazione nel diario di
James Boswell, datata 1º settembre 1764, in cui lo scrittore scozzese accenna
all'incontro avvenuto da Rufin, cioè alla locanda Zu den drei Lilien (Ai tre
gigli) in Poststraße, dove anche Casanova alloggiava. In particolare scrive: Ho
mangiato da Rufin dove Nehaus, un italiano, voleva brillare come grande
filosofo e quindi sosteneva di dubitare di tutto, a cominciare dalla sua stessa
esistenza. Lo ritenni un perfetto cretino. (A.Pottle, The Yale edition of the
Private Papers of James Boswell, London 1953,
IV, pag. 67). Il nome Nehaus è la traduzione di Casanova in tedesco (con
un errore di grafia = Neuhaus) e risulta che Casanova abbia usato il suo
cognome tradotto, con diverse forme. Ad esempio, in una lettera a lui
indirizzata a Wesel, si legge come destinatario comte de Nayhaus de Farussi,
Farussi era il cognome della madre del Casanova. (Fonte: Helmut Watzlawick,
Casanova and Boswell, nota in L'Intermédiaire des Casanovistes, XXIII 2006, pag
41). Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XVII pag. 271. Casanova passò la frontiera
russa a Riga sotto il nome di Farussi, cognome della madre (cfr. Helmut
Watzlawick, Chronologie, pag. LXXIV in Histoire de ma vie, tome I. Édition
publiée sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 273, 274. Secondo quanto affermato nelle
Memorie, Casanova incontrò varie volte la sovrana, sottoponendole vari
progetti, ma senza alcun risultato. Franciszek
Ksawery Branicki, conte di Korczak, (1730–1819). Sul contesto storico in cui si
muoveva Branicki, che era un rappresentante della nobiltà filorussa, la cui
collusione con la potente nazione vicina rappresentò un vero e proprio
tradimento, si può consultare la voce dedicata a Tadeusz Kościuszko, in
particolare il paragrafo "Ritorno in Polonia". Anna Binetti (cognome di nascita Ramon)
celebre ballerina, nota in tutta Europa. Sposò nel 1751 il ballerino Georges
Binet. Dopo il ritiro dalle scene (circa 1780) si dedicò all'insegnamento della
danza a Venezia (Fonte: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori
2001, III pag.1183 nota) G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, III, pag. 285 e seguenti, cit. in
bibl. La vicenda sollevò un clamore
notevole e fu riportata nelle cronache. Una descrizione dei fatti, che ricalca
sostanzialmente il racconto casanoviano e ne attesta la veridicità, si trova in
una lettera datata 19 marzo 1766, scritta da Giuseppe Antonio Taruffi, segretario
del nunzio apostolico Antonio Eugenio Visconti, e spedita da Varsavia a
Francesco Albergati Capacelli (Ernesto Masi, Ed. Zanichelli Bologna, 1878. La
vita i tempi gli amici di Francesco Albergati pagg. 196 e seg. e nota 1 pag.
203.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di
Giacomo Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 288. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova, cit. in bibl. Cap. XIX pag. 293. Cfr. anche, per la data di morte di
Bragadin e la data in cui la notizia fu appresa da Casanova (26 ottobre),
Helmut Watzlawick, Chronologie, in Histoire de ma vie, tome I. Édition publiée
sous la direction de Gérard Lahouati, , cit. in bibl.) Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo
Casanova. I soggiorni romani di Casanova furono tre: il primo dal 1º settembre
1743 al 23 febbraio 1744; il secondo dal dicembre 1760 al 5 febbraio 1761; il
terzo dal 14 maggio 1770 a fine maggio 1771. I personaggi descritti,
numerosissimi, sono noti alle cronache del tempo e quindi è possibile ritenere
veridico il racconto che consente riscontri obiettivi. Uno dei riscontri è
costituito da un documento che certifica la presenza a Roma del Casanova
durante la Quaresima del 1771. Documento: Stato delle anime 1771, in Registri
parrocchiali di S.Andrea delle Fratte Piazza di SpagnaCasa del Conservatorio di
S.Eufemia Francesco Poletti anni 51 M. Angela moglie .anni 40 Margarita figlia
zitella anni 16 Tommaso figlio anni 20 Vincenzo figlio anni 14 Anna Proli serva
anni 40 Piggionanti Giovanni Nicolao Fedriani anni 22 Giuseppe
fratello anni 18 D. Giacinto Cerreti anni 37 Il signor Giacomo Casanova...anni
46 L'immobile in questione è quello, antistante l'Ambasciata di Spagna,
sito nella piazza all'attuale numero civico 32. L'abitazione del Casanova era
al secondo piano. (Fonte: A.Valeri Casanova a Roma cit. in bibl.) Si è a lungo discusso circa l'esistenza di
ulteriori capitoli che dovrebbe essere comprovata dal titolo originale
dell'opera: Histoire de ma vie jusqu'à l'an 1797, come risulta dalla prima pagina
della prefazione. Tuttavia ciò rimane solo un'ipotesi, perché non è stato mai
trovato un manoscritto riguardante il periodo successivo al 1774. Va quindi
considerato che, fino alla data in questione, la fonte primaria delle vicende
di Casanova sono le sue Memorie; dopo il termine temporale delle medesime ci si
è basati su epistolari o notizie di altro tipo: scritti di contemporanei,
registrazioni amministrative, notizie apparse su gazzette. Alcuni autori hanno
tentato una ricostruzione cronologica dei fatti utilizzando i documenti
disponibili, tra cui il Brunelli (Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo
le sue memorie, cit. in bibl.) e il Bartolini (Elio Bartolini, Casanova dalla
felicità alla morte 17741798, cit. in bibl.). Evidentemente le notizie
riguardanti il periodo compreso temporalmente nelle Memorie sono enormemente
più numerose di quelle relative al periodo successivo. Circa l'attendibilità e
la precisione delle notizie riportate nelle Memorie, il dibattito è stato
amplissimo, ma numerosissimi riscontri ne hanno comprovato la sostanziale
veridicità. Il viaggio da Trieste a
Venezia iniziò il 10 settembre 1774; la data è verificabile da una notizia
apparsa sulla Gazzetta Goriziana “Sabato 10 corrente è passato per qua il
signor Giacomo Casanova di Saint Gall celebre per li diversi famosi incontri da
lui avuti, girando l'Europa; come non meno per le opere da lui stampate, fra le
quali abbiamo già annunziato in un nostro foglio la Storia delle vicende di
Polonia; ha egli inaspettatamente ottenuto il suo perdono e dopo venti anni si
è restituito a Venezia sua patria”. (fonte: Rudj Gorian Editoria e informazione
a Gorizia nel Settecento: la “Gazzetta goriziana” , Trieste, Deputazione di
Storia Patria per la Venezia Giulia , pag. 221-223). È da osservare che la notorietà del
personaggio era grande e che anche della sua attività di scrittore, oltre che
di avventuriero, si parlava molto, negli ambienti intellettuali, ancor prima
del suo rientro a Venezia. In una lettera datata Venezia Elisabetta Caminer,
rivolgendosi a Giuseppe Bencivenni Pelli, scrive "...È dunque costì quel
famoso Casanova che ha fatto tante pazzie e alcune cose buone? Io lo conosco
assai di nome, e mio padre lo conosce anche di persona. Ditemi, in che le sue
maniere sono diverse dalle vostre? Qual tuono è il suo? Voi già sapete la sua
prodigiosa fuga da' piombi di Venezia. Stampa egli codesta sua Storia della
Polonia? Avete voi letta la sua confutazione dell'opera di Amelot della
Houssaye?..." (Fonte: Rita Unfer Lukoschik, Lettere di Elisabetta Caminer, organizzatrice
culturale, Edizioni Think Adv, Conselve, Padova, 2006). Si tratta di Lorenzo Morosini, Alvise Emo,
Pietro Pisani, Nicolò Erizzo, Andrea Tron, Sebastiano Venier. L'elenco completo dei sottoscrittori è
consultabile in: G. Casanova, Storia della mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero
Chiara, vol VII. (pag.293 e seg.) Delle
lettere di Casanova alla Buschini non resta nulla ma, poiché spessissimo la
Buschini, nel testo, ripete le notizie inviatele e le richieste di notizie rivoltele,
è facile ricavare, almeno in parte, il testo delle lettere ricevute. A Dux sono
state reperite da Aldo Ravà 38 lettere di Francesca Buschini che coprono il
periodo dal luglio del 1779 all'ottobre del 1787. Di queste, 33 sono state
riportate nel volume Lettere di donne a Giacomo Casanova Aldo Ravà, Milano,
Treves 1912 cit. in bibl. L'edizione critica più recente delle lettere di
Francesca Lettres de Francesca Buschini à G. Casanova, 1996, è stata edita
Marco Leeflang, Utrecht, Marie-Françose Luna , Grenoble, Antonio Trampus,
Trieste, cit. in bibl. La corrispondenza consente di ricostruire gli anni
successivi al secondo esilio di Giacomo Casanova. Attraverso esse si vive il
dramma umano della Buschini la quale, col passare degli anni, era sempre più
avvolta da una cupa povertà, da dolori familiari causati dal fratello, che
praticamente viveva alle sue spalle e dalla madre, che col tempo diveniva
sempre più intollerante. Quando Casanova dovette sospendere i suoi aiuti in
denaro, essendo ormai nell'impossibilità materiale di inviarne, la Buschini si
ritrovò letteralmente in mezzo alla strada, dovendo lasciare l'appartamento di
Barbaria delle Tole, non avendo più la possibilità di pagare l'affitto. Nessuna
notizia ulteriore ci è giunta, ma la sua testimonianza di lenta emarginazione è
oltremodo toccante. A.Ravà, Lettere di
donne a Giacomo Casanova, cit. in bibl. p.176 e nota. Fonte dell'ammontare del
canone: A.Ravà, J. Marsan, Sui passi di
Casanova a Venezia. Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova, cit. in
bibl. pag. 347 Fonte: G. Casanova,
Analisi degli studi sulla natura... G. Simeoni. Ed. Pendragon 2003, pag. 9. Il
testo del libello è stata oggetto di una pubblicazione a tiratura limitata
Furio Luccichenti, ed. Il collezionista 1981. Si è ipotizzato che il Grimani
abbia incaricato della redazione della replica Girolamo Molin, tuttavia il
libello non fu mai dato alle stampe all'epoca, ma fu fatto circolare in forma
manoscritta (Fonte: Bruno Brunelli, Vita di Giacomo Casanova dopo le sue
memorie, cit. in bibl. pag.68 nota 9).
Foscarini morì il 23 aprile del 1785.
Il conflitto con la servitù del castello divenne con gli anni sempre più
acuto, tanto da far giudicare insostenibile la permanenza al castello del
maggiordomo Georg Feldkirchner, che fu infatti rimosso dall'incarico. La
diatriba fu poi oggetto dell'opera Lettres écrites au sieur Faulkircher...
(vedi in ) nella quale Casanova trasfuse tutto l'astio accumulato per le
persecuzionia suo diresubite. Il
concetto è ripreso da un passo di Piero Chiara (cfr. G. Casanova, Storia della
mia vita, ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag.13, 14) ...Ma il
Casanova è quello che è, e non vuole essere altro; vero eroe del suo tempo per
l'audacia, la sincerità con la quale lo visse, allo sbaraglio, senza temere i
colpi di spada o di pistola, il carcere o l'esilio, pur di consumare fino
all'ultimo l'avventura della sua esistenza in un'epoca in cui la vita era
un'opera d'arte e si poteva farne, con vera gioia, un capolavoro dei
sensi..... Il casanovista Helmut
Watzlawick ha pubblicato (cfr. L'intermédiaire des casanovistes, anno XXIII,
2006 pag. 38) una breve nota intitolata Lieu de sepolture de Casanova, in cui
riferisce la notizia, comunicatagli da uno studioso tedesco, Hermann Braun, di
una testimonianza sull'argomento individuata nell'opera di un memorialista e
storico coevo al Casanova: Johann Georg Meusel (1743-1820), professore di
storia a Erlangen. Meusel, nella sua opera Archiv für Künstler und Kunst-Freunde
(Dresda, 1805 I parte seconda, pag. 172)
fa il seguente commento: «L'aîne, Jacques Casanova, Docteur en Droit de Padoue
et bibliothécaire de Comtes de Waldstein-Warthemberg, à Dux en Bohème, où il
mourût aussi, immortalisé par un monument plein de goût que le Comte lui a fait
ériger dans son jardin, où il le faisait aussi enterrer selon son propre
désir.» Pare quindi evidente che la sepoltura fosse ubicata all'interno del
parco del castello e il conte vi avesse fatto erigere un monumento “pieno di
gusto” in memoria del suo bibliotecario. Il conte Waldstein aveva certamente
dell'affetto per Casanova, oltre al legame derivante dalla comune appartenenza
alla Massoneria, se è vero che gli conferì un incarico formale di bibliotecario
ma in pratica, visto lo scarso impegno che comportava, una pensione, che lo
mantenne per lunghi anni provvedendo a tutti i suoi bisogni e che spesso
dovette far fronte ai suoi debiti, talvolta cospicui, con gli editori. È quindi
più che logico che abbia deciso di onorarne la memoria con una sepoltura degna
e con un monumento funebre. Inoltre il Meusel è conosciuto come un biografo
scrupoloso e non avrebbe avuto motivo per inventare un dettaglio facilmente
verificabile da parte dei suoi lettori, tra i quali Francesco Casanova,
fratello minore di Giacomo e famoso pittore, al quale Meusel dedicò, nella
medesima opera, un contributo biografico e che era ancora in vita al tempo
della redazione dell'opera. Come sostiene Watzlawick, per avere la prova certa,
bisognerebbe revisionare la contabilità del castello al momento della morte del
Casanova, cercando la traccia dei pagamenti effettuati per la sepoltura e
l'erezione del monumento. Edizione in
tre tomi basata sul manoscritto conservato presso la BNF, con le varianti di
testo relative a passi rimaneggiati dall'autore. Attualmente () è l'edizione
critica di riferimento. Archivio
Alinari, su alinariarchives. Archivio
GrangerNew York Opere di
LonghiCasanovaUbication: Firenze Miti e
personaggi della modernità: Dizionario di storia, letteratura, arte,
musica e cinema, edizioni Bruno Mondadori, : «Nell'arte. Di Casanova esistono
alcuni ritratti, tra cui un dipinto giovanile a opera del fratello, uno di Lon ghi
che lo raffigura all'epoca della maturità (Collezione Gritti, Venezia), e un
terzo attribuibile a Mengs» (NDR: oggi quest'ultimo è attribuito a Francesco
Narici) Il quadro, conservato un tempo
nella collezione Gritti di Venezia, poi a Firenze, e qua riprodotto in bianco e
nero in una fotografia o una stampa eseguita forse negli anni '30, sarebbe
stato eseguito presumibilmente nel 1774 allorché Casanova rientrò a Venezia
dall'esilio. Sembra si trattasse di un lavoro a olio su tavola di dimensioni
sconosciute donato dall'artista a un membro della famiglia Gritti.
Successivamente passò a Francesco Antonio Gritti di Treviso, zio materno
dell'avvocato Ugo Monis di Roma che lo ereditò dalla sorella di Francesco
Antonio, Maria Gritti Rizzi. Nel 1934 il quadro faceva ancora parte della
collezione di Monis. Molto dubbia l'identificazione del Casanova nel soggetto
ritratto che apparentemente non sembra superare la quarantina mentre, all'epoca
in cui dovrebbe essere stato eseguito il ritratto, Casanova era vicino ai
cinquant'anni. Una summa dell'iconografia casanoviana, che si compone di nove
opere di cui soltanto due di sicura attribuzione, è consultabile in Casanova,
la passion de la liberté, catalogo della mostra organizzata dalla BNF, ,
Parigi, Coédition Bibliothèque nationale de France/Seuil, pag.68-71. Su
Alessandro Longhi si veda l'amplissimo studio di Paolo Delorenzi (consultabile
su Ca' Foscari online). In particolare a pag. 237 vengono riassunte le vicende
del ritratto con richiami bibliografici a Ver Heyden De Lancey C., Les
portraits de Jacques et de François Casanova, «Gazette des Beaux-Arts», Bernier
G., Beau garçon, Casanova?, «L‟OEil», La questione è stata oggetto di un
cospicuo dibattito sul quale spesso ha pesato il giudizio moralmente negativo
circa la personalità dell'autore. Soprattutto al primo apparire di opere
critiche sulla questione, cioè alla fine dell'Ottocento, primi del Novecento,
si tendeva a separare la indiscussa validità storica delle Memorie, nel loro
complesso, dal giudizio di riprovazione morale nei confronti dell'autore e dei
passi delle memorie ritenuti sconvenienti. Posizione questa ad esempio assunta
da Benedetto Croce il quale si occupò ripetutamente di personaggi e vicende
casanoviane (si veda: Personaggi casanoviani in Aneddoti e profili
settecenteschi, ed. Sandron 1914) pur definendo le Memorie "un libro
osceno" (B.Croce, Salvatore di Giacomo e il canto del grillo in "la
Critica"). Col tempo il valore storico e letterario cominciò ad avere
sempre più numerosi sostenitori, come Ettore Bonora il quale scrisse ...fissati
i loro limiti. i Mémoires restano un libro eccezionale, rappresentativo
quant'altri mai del mondo settecentesco, un libro che, per la sua stessa
ricchezza di materiali quanto pochi altri, può rivelare a un lettore paziente
lo spirito della vecchia società che la Rivoluzione doveva distruggere
(E.Bonora Letterati, memorialisti e viaggiatori del Settecento, pag 717, citato
in ). Fonte: T. Iermano, Le scritture della modernità, citato in . Emblematico a questo riguardo è il caso del
romanzo utopistico Icosameron (Praga, 1788) che costituì un tale insuccesso
editoriale da minare definitivamente la già non florida situazione finanziaria
del Casanova. Malgrado gli sforzi dei volenterosi sottoscrittori, si accumulò
una perdita di duemila fiorini, secondo una nota autobiografica rinvenuta a
Dux, di ottocento zecchini secondo una lettera a Pietro Antonio Zaguri. Cifre
comunque di grande rilievo che costrinsero l'incauto scrittore e improvvisato
editore a ricorrere a prestiti usurari, dando in pegno i pochissimi beni
residui e perfino capi di vestiario (Fonte: Elio Bartolini Vita di Giacomo
Casanova, ed. Mondadori 1998, pag. 389 e seg.).
Fonte: Elio Bartolini, Vita di Giacomo Casanova. La redazione della
Confutazione fu soltanto uno dei tanti elementi della lunga strategia che
condusse all'ottenimento del perdono da parte delle autorità della Repubblica e
il consenso al ritorno in patria dell'esule, il che avvenne peraltro anni dopo.
La pubblicazione dell'opera fu sicuramente appoggiata da Girolamo Zulian il
quale, pur privo di parentele influenti, stava compiendo un percorso politico
lusinghiero e attraverso il sostegno a Casanova si aspettava di ottenere dai
patrizi che lo appoggiavano, alcuni dei quali molto influenti come i Memmo e il
procuratore Lorenzo Morosini, di essere aiutato a sua volta nel prosieguo della
carriera. Zulian era anche vicino ad ambienti massonici il che spiegava
ulteriormente il suo agire. Sul gruppo di patrizi che sosteneva le ragioni di
Casanova ed era fautore del perdono si veda Piero Del Negro, Il patriziato
veneziano nell'Histoire de ma vie, in L'Histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in , pag.25, 26 nota 90. Si veda inoltre la lettera di
Casanova a Zulian scritta da Lugano nel luglio del 1769, Epistolario di Giacomo Casanova, Piero Chiara, cit. in
bibl. pag. 105,106. Il brano, un
ritratto in prosa, fu intitolato dall'autore Aventuros. De Ligne riuscì a
cogliere con straordinaria esattezza e rendere con estrema obiettività gli
elementi del carattere del Casanova. Il passo può essere consultato qui
(Mémoires et mélanges historiques et littéraires, ed. Ambroise Dupont et C.
Parigi 1828). Su come Casanova
esercitasse il suo fascino sull'uditorio, con il racconto delle sue avventure,
vi è una testimonianza assai qualificata, per lo spessore del personaggio, che
è stata lasciata da Alessandro Verri il quale, in una lettera al fratello
Pietro, inviata da Roma nel 1771, scrive: ...V'è un certo uomo straordinario
per le sue avventure, per nome il signor Casanova, Veneziano: egli è
attualmente in Roma. Egli ha molto spirito e vivacità; ha viaggiato tutta
l'Europa...Fu posto nei camerotti a Venezia...gli riuscì di fuggire...Egli
racconta questa dolorosa anecdota della sua vita, successagli quindici anni or
sono, con tanto interesse e forza, come se gli fosse accaduta ieri... Alla
risposta del fratello, che avanzava dei dubbi sulla veridicità del racconto,
Alessandro replicava: ...Ultimamente gliel'ho sentita raccontare da lui stesso.
Egli ha tutta l'apparenza di dire la verità: scioglie le obiezioni, ed ha
un'eloquenza naturale ed ha una forza di passione che v'interessa
infinitamente.. Fonte: Riccardo Selvatico Cento note per Casanova a Venezia,
Furio Luccichenti ed. Neri Pozza 1997.
La lettera, datata Dux 8 aprile 1791 è consultabile in: G. Casanova,
Storia della mia vita ed. Mondadori 1965, Piero Chiara, vol VII. pag. 340 Alla morte di Casanova, il manoscritto
originale dell'Histoire, unitamente a quattro saggi, passò a Carlo Angiolini
che nel 1787 aveva sposato Marianna, figlia della sorella di Giacomo, Maria
Maddalena. Quest'ultima aveva lasciato Venezia raggiungendo la madre Zanetta a
Dresda, dove aveva sposato l'organista di corte Peter August. Il manoscritto e
i quattro saggi furono venduti, nel 1821, all'editore Brockhaus. Il 18 febbraio
, il ministro francese della cultura, Frédéric Mitterrand, ha annunciato
l'acquisto del manoscritto dell'Histoire e degli altri carteggi di proprietà di
Hubertus Brockaus, da parte della Bibliothèque nationale de France. Molti studiosi hanno analizzato, parola per
parola, l'adattamento operato da Laforgue giungendo alla conclusione che si è
trattato di una vera e propria riscrittura. Un'interessante analisi della
questione è quella operata da Philippe Sollers (Il mirabile Casanova). L'autore
procede per exempla, indicando il passo com'era stato scritto da Casanova e la
versione di Laforgue, mettendo in luce la raffinatezza e la meticolosità con
cui era stata operata la trasformazione (o meglio manomissione) dell'intera
biografia, al duplice fine di ammorbidire i passaggi ritenuti troppo licenziosi
e modificare l'ideologia dell'autore, attenuando o eliminando le affermazioni
che mostravano, ad esempio, l'animosità nei confronti del popolo francese e dei
crimini (tali Casanova li giudicava) di cui si era reso responsabile durante la
rivoluzione, cosa diffusa tra molti intellettuali dell'epoca, anche non
espressamente conservatori comunque legati al vecchio mondo, (come Vittorio
Alfieri, nella Vita scritta da esso e nel Misogallo). G. Casanova, Storia della mia vita, Mondadori
2001, I pag. 733, cit. in bibl. A questo proposito de Ligne scrive ...le sue
memorie, il cui cinismo,tra l'altro, pur essendo il loro più grande pregio,
difficilmente le renderà pubblicabili. (C.J. de Ligne, Aneddoti e ritratti,
pag. 189, cit. in bibl.), Illuminante, a
questo riguardo, il passo di una lettera datata 20 febbraio 1792, inviata da
Casanova a Giovanni Ferdinando Opiz in cui lo scrivente dichiara: Per ciò che
riguarda le Mie Memorie, più l'opera va avanti più mi convinco che è fatta per
essere bruciata. Da questo potete capire che fin quando saranno in mie mani non
verranno certo pubblicate. Sono di una tale natura di non far passare la notte
al lettore; ma il cinismo che vi ho messo è tanto spinto che passa i limiti
posti dalla convenienza all'indiscrezione (Fonte: Epistolari 1759-1798 di
Giacomo Casanova, Piero Chiara, ed. Longanesi & C.) Si veda in Giacomo Casanova tra Venezia e
l'Europa, Gilberto Pizzamiglio, Editore Leo O. Olschki 2001, pag. 171, cit. in
bibl. G. Casanova, Storia della mia vita,
Mondadori, Piero Chiara/ L'affermazione si legge nella prefazione dell'Histoire
(Jacques Casanova de SeingaltHistoire de ma vie. Texte intégral du manuscrit
original,....Ed. Laffont, cit. in bibl. Vol I, pag 10). Quindi la scelta
sarebbe stata orientata soltanto dalla possibilità di maggiore diffusione
dell'opera. Ma il pensiero dell'autore viene chiarito, ampliato e approfondito
nella cosiddetta “Prefazione rifiutata” (Pensieri libertini, F. Di Trocchio,
cit. in bibl. Pag. 55), Casanova dice Ho scritto in francese, perché nel paese
dove mi trovo, questa lingua è più conosciuta di quella italiana; perché, non
essendo la mia un'opera scientifica, preferisco i lettori francesi a quelli
italiani; e perché lo spirito francese è più tollerante di quello italiano, più
illuminato nella conoscenza del cuore umano e più rotto alle vicissitudini
della vita. Come si vede, la scelta andava ben al di là di un problema di
diffusione. Stendhal fa, nella sua
opera, numerosi riferimenti a Casanova e all'Histoire cfr. Promenades dans Rome,
Paris, Levy/ Sul punto si veda anche Furio Luccichenti Il casanovismo fra
Ottocento e Novecento in L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova, Michele Mari
cit. in bibl. pag. 383. Foscolo, durante
il soggiorno londinese, recensiva opere di autori italiani. A proposito
dell'Histoire casanoviana scrisse, in due diverse occasioni (sulla Westminster
review dell'aprile 1827 e sulla Edinburgh review del giugno dello stesso anno),
che il protagonista era di pura fantasia e le vicende narrate completamente
inventate. Balzac si ispirò largamente
alle Memorie casanoviane utilizzando personaggi, nomi ed episodi per
l'ambientazione veneziana delle sue opere, come nel caso di Facino Cane o per
desumere spunti narrativi, come nel caso di Sarrasine. Sul punto si veda
Raffaele de Cesare Balzac e Manzoni e altri studi su Balzac e l'Italia,
Mondadori. Molte parti del libro, comprese le pagine indicate con relativa
note, sono consultabili on line. Sempre sui collegamenti tra l'opera
casanoviana e Sarrasine si veda L'histoire de ma vie di Giacomo Casanova,
Michele Mari, cit. in bibl. pag. 95 nota 5 con rimando a J.R. Childs,
Casanova. Biographie nouvelle, pag. 64. Ed. Jean-Jacques Pauvert, Paris
1962 Hofmannstahl nel 1898 è a Venezia e
scrive al padre: ..mi sono comprato le Memorie di Casanova dove spero di
trovare un soggetto. Il soggetto fu il Casanova stesso, rappresentato nella
commedia L'avventuriero e la cantante (1899) (Fonte: L'avventuriero e la
cantante con postfazione di Enrico Groppali, ed. SE). Schnitzler scrisse varie opere ispirate alla
vita dell'avventuriero, tra cui Le sorelle ovvero Casanova a Spa (ed. Einaudi)
e Il ritorno di Casanova (ed. Adelphi).
Hesse scrisse il racconto La conversione di Casanova (ed. Guanda 1989)
che fu pubblicato nel 1906. Márai
scrisse il romanzo La recita di Bolzano (ed. Adelphi), pubblicato a Budapest,
che ha come protagonista l'avventuriero veneziano. Salvatore di Giacomo "Casanova a
Napoli" in Nuova antologia 1922.
Benedetto Croce "Aneddoti di varia letteratura", Napoli 1942.
"Di un cantastorie del Settecento e di un luogo delle Memorie di Giacomo
Casanova" opera il cui autografo di sei pagine è andato all'asta a Milano
il 21.5.92. Piero Chiara curò per
Mondadori (1965) la prima edizione italiana basata sul manoscritto originale
delle Memorie, scrisse un saggio Il vero Casanova, Mursia (1977) e molti
articoli sull'argomento. Scrive Casanova
in una lettera all'Opiz Scrivo dall'alba alla sera e posso assicurarvi che
scrivo anche dormendo, perché sogno sempre di scrivere. (Fonte: Piero Chiara Il
vero Casanova, Mursia 1977, pag.209).
Tra le altre si veda Margherita Sarfatti, Casanova contro Don Giovanni,
ed. Mondadori (1950), citata in . La
tesi è esposta in modo articolato da Francis Lacassin (Jacques Casanova de SeingaltHistoire
de ma vie. Ed. Robert Laffont, I, Préface, pag. X). Di questo avviso Piermario Vescovo (Il mondo
di Giacomo Casanova, pag. 187, , ed. Marsilio 1998, citato in bibl.).
Un'analisi particolarmente approfondita si deve ad Andrea Fabiano il quale
esamina, in dieci tesi, tutti i motivi che rendono probabile la partecipazione
(Giacomo Casanova tra Venezia e l'Europa, G. Pizzamiglio, ed. Leo S. Olschki
2001, pag. 273 e seg.). In sostanza è stato osservato che Da Ponte e Casanova
si conoscevano e frequentavano, che Casanova era certamente presente a Praga
nei giorni che precedettero la prima, che sia lui che Mozart erano massoni, che
una serie d'incidenti aveva procrastinato la rappresentazione, costringendo a
varie modifiche del testo per manifesta insoddisfazione di alcuni cantanti, che
Casanova era stato sempre molto vicino per gusti e frequentazioni al mondo
teatrale e autore egli stesso di opere di teatro quindi perfettamente in grado
di apportare le modifiche necessarie. Inoltre sembra assai improbabile che,
rientrato a Dux, si mettesse a ipotizzare varianti al testo del libretto per
puro passatempo. Sull’argomento si veda
lo studio di Furio Luccichenti, in L'intermédiaire des casanovistes, Genève
Année XVII 2000, pag. 21 e seg. In cui vengono minuziosamente riferite le
ricerche effettuate, senza esito, nell'Archivio vaticano. Lettere a G.C.
raccolte da Aldo Ravà , Il mondo di Giacomo Casanova, Venezia, Marsilio, Casanova,
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casanoviani (), Antonio Trampus, Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali
Comparati, Università Ca' Foscari Venezia, Ca' Bembo. Libertino (personaggio) Storia della mia fuga
dai Piombi Manon Balletti Silvia Balletti Matteo Bragadin Francesco Casanova
Gaetano Casanova Giovanni Battista Casanova François-Joachim de Pierre de
Bernis Zanetta Farussi Michele Grimani Charles Joseph de Ligne Andrea Memmo
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gallica.bnf.fr. Sito della BNF con
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su www-syscom.univ-mlv.fr.Testo dell'Histoire de ma vie edizione integrale in
inglese, su hot.ee. Filosofi italiani. Aspetti poco noti della vita di Casanova
vengono portati alla luce della recente consultazione dei documenti inediti
custodii nell'archivio storico Waldstein a Praga. Emergono cosi' nuove
testimonianze che non solo confermano il suo straordinario fascino esercitato
sulle donne ma rivelano anche che il libertino veneziano ebbe in incontri
sessuali con uomini. Ad esempio si cita i ripetuti rapporti con un uomo in
maschera con cui fa un esplicito giocco erotico. Partendo da verifiche
sull'opera autobiografica ''Storia della mia vita'', in cui descrive, con la
massima franchezza, le sue avventure, i suoi viaggi e i suoi innumerevoli
incontri galanti. Si ipotizza che ha rapporti sessuali (o 'conversazioni') con
almeno una ventina di uomini. La prima testimonianza di un rapporto sarebbe
legata alla sua adolescenza, quando, in seminario, dove studia per diventare
prete, fu scoperto a letto con un uomo, cosa che costa a Casanova l'espulsione
del seminario. Ma il numero di uomini con cui Casanova e' stato a letto non e'
significativo. E' molto piu' importante sottolineare il *modo* in cui Casanova
racconta le sue avventure sessuali con un uomo. E' il primo a sottolineare la
qualita' del godimento, ad affermare l'idea che la comprensione del sesso e' la
chiave per una comprensione di se'. Oggi, dopo oltre un secolo di dottrina
psicoanalitica freudiana, cio' puo' apparire normale, ma nel secolo XVIII non
lo era affatto. E questo e' un grande merito di Casanova.L’ultimo amore di
Casanova: Una grande storia d'amorebooks.google.com › books· Translate this
page Fausto Bertolini · 2021 FOUND INSIDE ai tempi di Padova e ai giorni delle
lezioni dell'abate Gozzi, che l'aveva istruito con amore per avviarlo al
sacerdozio, e con un po' più di passione e di attenzione se lo era portato a
letto per iniziarlo alla pratica omosessuale che Casanova si ... – Grice: “His
first experience was with a Venetian nobleman; his second one cost him the
expulsion from the seminary – Altham alleges he (Casanova, not Altham) slept
with “at least” twenty males!” – Grice: “Altham’s favourite is the description
of the ‘erotical game’ as masked in Venice -- Giacomo Casanova. Keywords.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casanova: conversazione sessuale, conversazione
e conversazione” – The Swimming-Pool Library.
CASATI: Grice: “I like Casati; he is from
Milano, and therefore, as the Italians say, intelligent! – or ‘clever’” – His
dissertation is on ‘shadow’ as used by Plato to explain that there’s ‘man,’ and
“man” and the idea of “man,” so the thing is the thing, but the idea stands for
the thing, and the expression stands for the thing that stands for the thing!
But he has also explored ‘amicizia’, as in the case of Oreste’s alter ego,
‘Pilade,’ – also into the philosophy of sports – in sum, a typical Renaissance
man of a philosopher, as he should!” Studia a Milano con Bonomi. Pubblica
la raccolta di racconti filosofici Il caso Wassermann e altri incidenti
metafisici (Laterza). Si occupa di fenomenologia dello spazio e degli
oggetti. Analizzato la rappresentazione di questi due elementi secondo il senso
comune. Buchi e altre superficialità (Garzanti), e Semplicità insormontabili
(Laterza). Buchi e altre superficialità è un tentativo di analizzare i
diversi tipi di buco, superando il paradosso di classificare un elemento che
evoca l'assenza, il vuoto e il nulla. Utilizza strumenti di filosofia della
percezione, geometria, logica e topologia, ma anche linguistica e letteratura.
Un esperimento epistemologico che dimostra come l'esperienza e il linguaggio
quotidiani si trasformino quando diventano oggetto di un'indagine filosofica e
di una formalizzazione scientifica. Un concetto che sembra semplice, di uso
quotidiano, diventa sfuggente e ambiguo. Tra i suoi principali contributi
si annoverano la teoria della filosofia come arte del negoziato concettuale; la
teoria 'conversazionale' degli artefatti. Tra i contributi alla metafisica
analitica: la teoria dei suoni come eventi localizzati, la regione
spaziale immateriale, la struttura parte/intero totto -- -- nel dominio degli
oggetti materiali, la teoria del futuro "strizzato" nella
metafisica del tempo (cf. Grice/Myro). Studia il fenomeno percettivo delle
ombre e il loro contributo alla ricostruzione delle scene tridimensionali
grazie alla scoperta di doppie dissociazioni nella rappresentazione delle ombre
(ombre corrette che appaiono sbagliate, ombre sbagliate che appaiono corrette),
scoprendo o prevedendo svariate illusioni percettive (l'illusione
"copycat", l'illusione di Lippi, l'illusione della doppia ombra, la
cattura delle ombre, le ombre delle ombre, il mascheramento delle ombre, le
ombre di oggetti non materiali). Una parte della sua ricerca ha riguardato il
modo in cui l'ombra è stata rappresentata nella pittura ed è stata usata per il
ragionamento geometrico, in particolare in astronomia (La scoperta dell'ombra).
Un'altra linea di ricerca riguarda gli artefatti cognitivi. I risultati
principali in questo settore sono la prima e finora unica semantica formale per
le mappe, una sintassi e una semantica per la notazione musicale standard, la
teoria dei "micro crediti" nelle pubblicazioni scientifiche, e una
teoria generale dei vantaggi cognitivi degli artefatti rappresentativi. Autore
di un progettodenominato Wikilexper l'uso di strumenti wiki nella scrittura
normativa, in un contesto di democrazia partecipata. La sua Prima Lezione
di filosofia difende una concezione della filosofia come arte del negoziato
concettuale. Da questa tesi discende che la filosofia è molto diffusa nella
società e nella scienza anche al di fuori dell'ambito accademico che le è
proprio, che non esistono problemi filosofici fuori dal tempo e dalla storia,
che non c'è un canone filosofico né un modo canonico di insegnare la filosofia.
Altre opere: “L'immagine. Introduzione ai problemi filosofici della
rappresentazione, La Nuova Italia); Buchi e altre superficialità, Garzanti); La
scoperta dell'ombra, Arnoldo Mondadori Editore, Laterza); Semplicità insormontabili:
39 storie filosofiche (Laterza); Il caso Wassermann e altri incidenti
metafisici, Laterza); Il pianeta dove scomparivano le cose. Esercizi di
immaginazione filosofica (Einaudi); Prima lezione di filosofia, Laterza);
Contro il colonialismo digitale: istruzioni per continuare a leggere,
Laterza); Dov'è il sole di notte? Lezioni atipiche di astronomia,
Raffaello Cortina); L'incertezza elettorale, Aracne Editrice); Semplicemente
diaboliche. 100 nuove storie filosofiche, Laterza); La lezione del freddo, Einaudi).
Isola di Arturo-Elsa Morante. Stramaledettamente logico. ELEMENTI DI UNA TEORIA
DELL' IMMAGINE. L'IMMAGINE COME OGGETTO MATERIALE. Paradigma e definizione.
Materialità e causalità. Soggettività e realismo. L'OGGETTO DELLA VISTA E
L'OGGETTO VISIVO. Le caratteristiche del mondo visivo. L'oggetto visivo. Ombra.
Casi limite: trasparenza, riflesso, specchio. Vedere un oggetti materiali: la
nozione di aspetto.Vedere una cosa muovendosi. Sguardo. IMMAGINE E PERCEZIONE
DELL' IMMAGINE. L'immagini come medio percettivio. Aspetto ed immagine.
L'Illusorio, il pre-sentativo, realismo. Le forme del realismo e il problema
dello spettatore. Intenzione, convenzione, somiglianza. In favore della teoria
della somiglianza Somiglianza e rappresentazione. Alcuni casi limite.
Contro la teoria della somiglianza. La complessità della percezione
dell'immagine. Immagine ed im- maginazione. Vedere-come, vedere-in. LO SPAZIO
NELL' IMMAGINE. Vivere nell'immagine. Direttrice, orizzonte, visione canonica e
scorciatura. La continuità degli spazi. Punti di vista da nessun luogo. QUADRO
E SCENA. Patologia dell'immagine: l'immaginazione e la storie percettiva.
L'INDICALITÀ E IL PROBLEMA DELL'AUTO-RITRATTO. Dizionario iconografico. Quadro
ed eticheta. Indicali. Verso una soluzione: lo specchio nel quadro. Alcuni
esempi. Quadro nel quadro. L'IMMAGINE NELL' IMMAGINE. Contesto di
interpretazione. Iterazione. Scena e immaginatori. Credenza iterata. Cornice e
finestra. Cornice ed aspetto. Relazioni causali. Iterazione ridondante. I
CONFINI DELL' IMMAGINE. Il Paradosso del vedere. L'implicatura di Escher e il
fondamento della rappresentazione. L'implicatura di Magritte: rappresentare e
immaginare. PROBLEMI APERTI. Gerarchia concettuale e gerarchia estetica. IL
PRIMATO DELLA RAPPRESENTAZIONE. L'annullamento dell'immagine nella materialità.
La geometria dell'espressione. La dissoluzione della rappresentazione. Lo Stilo
rappresentativo. Forma e contenuto; tema e mezzi di esplicitazione. L'IMMAGINE
E IL SEGNO. La metafora euristica del segno e la comunicazione. Critica.
Riferimento e generalità. La teoria che Grice e Casati propongono può
chiamarsi teoria meta-cognitiva dello spunto per la conversazione -- ma
‘conversazione’ è qui un segna-posto per candidati alternativi. La teoria di
Grice e Casati sostiene che un artefatto (segno artificiale, non-naturale --
'che p') e un oggetto prodotto con lo scopo precipuo essere ri-conosciuto come
emesso in base all’intenzione di profferire una espressione che... – dove si
può immaginare vari modi di riempire lo spazio lasciato vuoto dai puntini di
sospensione. Un modo di riempire lo spazio vuoto è il seguente. Una emissione
conversazionale è un oggetto con lo scopo precipuo di essere riconosciuti come
creati in base all’intenzione di creare un oggetto che servisse a suscitare una
qualche conversazione sulla loro produzione. Cominciamo con lo sgombrare il
campo da possibili equivoci. Un’obiezione semplice è che “molte cose vengono
create con lo scopo di suscitare una conversazione, e queste non sono opere d’arte,
come per esempio la produzione di gesti che conducono alla disseminazione di
pettegolezzi, o affermazioni roboanti sulla stampa”. L’obiezione non coglie nel
segno in quanto la teoria metacognitiva dello spunto conversazionale non dice
che le opere d’arte vengono create con l’intenzione di suscitare una
conversazione. Di fatto la teoria è compatibile con l’ipotesi che le opere
d’arte non vengano create con l’intenzione di suscitare una conversazione.
L’intenzione pertinente è un’altra: è l’intenzione di creare oggetti che
vengano riconosciuti (per esempio, in virtù di certe caratteristiche fisiche)
come creati allo scopo di suscitare una conversazione. È irrilevante per la
soddisfazione di questa intenzione se vi sia un’intenzione di suscitare una
conversazione, o se una conversazione venga poi effettivamente suscitata 4 .
Vediamo subito anche alcune conseguenze immediate, tenendo presente il fatto
che i due competitori diretti della teoria sono la teoria della comunicazione e
quella dell’intenzione artistica, laddove la prima compete sull’aspetto
sociale, e la seconda in quanto teoria intenzionale. Secondo la teoria
metacognitiva dello spunto conversazionale i prodotti artistici non servono per
una “comunicazione” semplice tra l’artista e il pubblico – non sono latori di
“messaggi” nel senso della teoria della comunicazione. Sono piuttosto oggetti
che hanno un legame preciso con l’attenzione, che devono attrarre (quindi,
anche se sono oggetti utilitari, devono far coesistere questo fatto con una
sovrapposizione di altri elementi che vanno al di là dell’uso), il tutto
all’interno di un contesto sociale in cui potrebbero venir usati come oggetto
di discussione in quanto sono riconosciuti come tali. Questa ipotesi permette
di inquadrare alcuni dei fatti poc’anzi elencati. Va notato che la teoria non
dice che l’artista debba creare l’opera sulla base della formulazione di
un’intenzione di inserirsi in una conversazione specifica (che è molto
probabilmente quella comune nella sua epoca), ma dice piuttosto che l’opera
deve essere in grado di esser vista come creata allo scopo di inserirsi in una
conversazione qualsiasi. Questo fatto impone dei vincoli importanti sulla
struttura delle opere d’arte. Si tratta di oggetti che devono portare dei segni
chiari dell’intenzione che li ha animati. 4 La teoria metacognitiva
sembra tagliata su misura per performances artistiche come le opere di Duchamp.
In realtà se la teoria è vera certe opere d’arte sono particolarmente
interessanti proprio perché rendono espliciti gli aspetti impliciti di tutte le
opere d’arte. 17 La teoria spiega perché i prodotti artistici riescono a
sopravvivere al tempo (se ci si pensa bene, questa sopravvivenza è un fatto
molto strano, e comunque poco compatibile con l’idea che i prodotti artistici
contengano un messaggio.)5 Passano il test del tempo perché la capacità di
essere riconosciuti come creati allo scopo di suscitare una conversazione non
dipende dalle contingenze specifiche di questa o quella conversazione, ma dai
parametri generici che regolano la nostra capacità di inserirci in una
conversazione, di generarla, di mantenerla. Anche quando non è più possibile
conoscere i termini della conversazione in cui il prodotto avrebbe inizialmente
dovuto inserirsi come stimolo, resta comunque la possibilità di recuperare il
prodotto all’interno di una nuova conversazione. In modo simile, le teoria
spiega perché le opere d’arte passano il test dello spazio, ovvero possono
venir apprezzate da comunità che sono distanti dalla comunità originale del
creatore. La teoria spiega perché i prodotti artistici hanno l’aspetto che
hanno. I prodotti artistici devono risolvere svariati problemi - massimizzare
la novità - attrarre l’attenzione (essere sufficientemente differenti da
artefatti utilitari) - essere sufficientemente complessi (per via della loro
forma apparente, o per via della storia della loro origine) da massimizzare la
possibilità di venir utilizzati come spunti di conversazione in quanto li si è
riconosciuti come tali. La teoria spiega le fluttuazioni di valore estetico ed
economico dei prodotti artistici. Non basta avere delle buone qualità per
essere un buono spunto di conversazione: deve anche esserci una conversazione
per cui tale qualità può venir rilevata. La teoria spiega perché i prodotti
artistici sopravvivono, sono soggetti a effetti di moda, e muoiono (laddove la
maggior parte delle latre teorie impone cesure irriconciliabili tra grande arte
e arte demotica). La teoria conversazionale spiega l'origine dell'arte e degli
artefatti artistici. L’arte non è stata inventata. Le opere d'arte sono state
scoperte, nel senso che si è visto che certi artefatti erano produttori di
interazioni sociali e davano al loro autore un credito che questi poteva
riutilizzare in altre produzioni. Solo in seguito si è cristallizzata
l’intenzione di produrre oggetti che soddisfassero certi requisiti. La teoria
spiega perché gli oggetti utilitari possano essere opere d'arte (come nel caso
dell'architettura, che alcune estetiche puriste cercano di espungere dal novero
dell'arte.) 5 Riprendo nel seguito ed espando alcuni elementi da Casati
2002. 18 Spiega l'esistenza di gradi di artisticità, e del perché certe cose
siano considerate arte da alcuni, non arte da altri (sono predicati estrinseci
con un fondamento nel lavoro che l'artista ha profuso per rendere un certo
oggetto massimalmente “conversazionabile”). La teoria spiega perché gli artisti
amano parlare del loro lavoro e corredarlo di spiegazioni (questo è
particolarmente arduo da spiegare in una teoria della comunicazione o
dell’espressione). La teoria spiega perché i quadri hanno le etichette e i
pezzi di musica dei titoli. La teoria spiega perché le opere d’arte vengono
acquistate senza alcun riguardo per l’autore, come inviti alla conversazione
scollegati dalla persona dell’autore. La teoria è compatibile con svariate
strategie che possono venir messe in atto dagli artisti perché l’intenzioe che
è alla base dell’opera vada a buon fine: sospensione delle routines (Bullot
2002), esposizione in spazi privilegiati, ecc. Per finire, dato che la teoria
ipotizza che gli artisti producano con un occhio di riguardo alle possibili
conversazioni sulla loro opera, questo permette di risolvere, in modo del tutto
immediato, il problema dell’unità del genere opera d’arte. Le opere d’arte sono
oggetti creati con lo scopo precipuo di rendere possibile una conversazione. La
clausola principale è metarappresentazionale: l’autore deve avere un’intenzione
appropriata di creare un’opera che sia riconoscibile come... La clausola
esclude casi in cui certi artefatti siano di fatto moneta per lo scambio
conversazionale, come le teorie matematiche, senza essere opere d’arte. Dove
interviene lo studio della cognizione nella teoria conversazionale? Nel fatto
che non tutti i soggetti sono riconoscibili come creati allo scopo di fornire
spunti per la conversazione. Studiare i vincoli normativi sul successo
dell’intenzione meta-conversazionale permetterà di fare interessanti predizioni
empiriche sul contentuto e la forma degli artefatti astistici. Un progetto di
ricerca, una antropologia della visita museale, potrebbe essere un primo passo
in questa direzione. Che cosa dice chi passa davanti a un quadro in un museo?
Conclusione La teoria metacognitiva dello spunto conversazionale rappresenta
un’ipotesi che cerca di rendere giustizia dell’unità delle nostre intuizioni su
che cosa è un’oggetto artistico di fronte all’estrema varietà degli oggetti
artistici e all’estrema varietà delle risposte che tali oggetti suscitano.
Anche se è una teoria che si situa nella regione della dipendenza della
risposta, non non è una teoria della riposta estetica – le risposte estetiche
sono un tipo di risposte agli oggetti artistici, e si applicano anche a oggetti
non artistici. Non è quindi una teoria del bello, come del resto ci si dovrebbe
aspettare di fronte al fatto che i giudizi estetici possono variare a fronte
del 19 riconoscimento che quello che alcuni giudicano bello e altri brutto
resta un’opera d’arte. Un altro fattore importante di questa teoria è che
considera le opere d’arte come oggetti creati con una funzione specifica, e la
cui forma dipende da questa funzione; una funzione che richiede un’intuizione
di controllo il cui contenuto è sociale e metacognitivo. Anche se la teoria
metacognitiva non non è certamente l’ultima parola su che cosa fa di un certo
oggetto un’opera d’arte, si tratta di un’ipotesi che mi sembra sufficientemente
articolata per fare predizioni empiriche precise (per esempio, riconoscere un
oggetto come opera d’arte attiverebbe aree cerebrali deputate alla cognizione
sociale). Queste predizioni non sono però al momento inquadrate in un’ipotesi
comprensiva dei meccanismi soggiacenti: si potrebbe certo sostenere che esiste
uno pseudo-modulo per le intuizioni artistiche che recluta componenti sociali e
componenti percettive. Tuttavia la struttura e la natura degli pseudo-moduli
richiede una considerazione metodologica a sé stante. Casati, R.,“L'unità del
genere opera d'arte. Rivista di Estetica. Formaggio, D. 1990 L'arte come idea e
come esperienza. Milano: Mondadori. Zeri, F., intervistato su La repubblica.
Luigi Speranza, "Gilbert Proebsch e George Passmore", Luigi Speranza,
"Kosuth" -- Luigi Speranza, "Keith Arnatt" -- Luigi
Speranza, "Unità etica ed unità emica" -- Luigi Speranza,
"Fenomenologia" -- Luigi Speranza, "Concettualismo".
Roberto Casati. Keywords: “la conversazione come arte del negoziato”; teoria
conversazionale dell’artifatto, segno, comunicazione, imagine, intenzione,
Grice, Ricominiciamo da capo – logico, stramaledettamente logico – implicatura
come stramaledettamente logica -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casati”
– The Swimming-Pool Library.
CASINI
(Roma). Filosofo. Grice: “I like Casini – he takes, unlike me, physics
seriously! But then so did Thales, according to Aristotle! – At Clifton we did
a lot of ‘physical’ rather than ‘metaphysical’ education!” – Linceo. Studia a
Roma sotto Nardi, Antoni, e Chabod. Si laurea sotto Spirito (disc. Gregory) con
“L'idea di natura”. I suoi interessi di ricerca in storia della
filosofia si sono successivamente estesi all'intreccio tra filosofia e scienze
sperimentali nel Settecento, soprattutto attorno alla figura di Isaac Newton e
alla diffusione della sintesi newtoniana nella cultura filosofica europea, a
proposito di filosofi come D'Alembert, Buffon, Maupertuis, Clairaut, Eulero,
non senza tener conto dell'opera divulgativa di Voltaire, fino a collocare in
tale contesto Kant. Insegna a Trieste, Bologna, e Roma. Le sue
ricerche riguardano Diderot e la filosofia dell'illuminismo, i nessi tra rivoluzione
scientifica e riflessione filosofica, l'origine e diffusione della fisica di
Newton, le vicende del mito pitagorico tra "prisca philosophia" e
"antica sapienza italica", le dispute sorte attorno al
darwinismo. Altre opere: “Diderot "philosophe", Laterza);
Mecanicismo -- L'universo-macchina: origini della filosofia newtoniana,
Laterza); Rousseau, Laterza); Introduzione all'illuminismo, Laterza --
razionalismo); Newton e la coscienza europea (Il Mulino); “Progresso ed utopia”
(Laterza); “L'antica sapienza italica. Cronistoria di un mito” (Il Mulino);
“Hypotheses non fingo” (Edizioni di Storia e Letteratura); “Alle origini del
Novecento: "Leonardo", rivista filosofica di Firenze (Il Mulino); Il
concetto di creazione (Il Mulino). La lista di autorità e
l’accenno alla filosofia nazionale preludono al Platone. --Paolo Casini.
Si tratta di un saggio dedicato all'evoluzione del mito pitagorico nella
cultura europea. Senza cadere mai nella rassegna erudita, l'autore segue passo
passo le trasformazioni del mito dalla sua prima incarnazione nella cultura
romana alla riscoperta operata nel Rinascimento, alle discussioni
storico-archeologiche e alle strumentalizzazioni politiche del
Sette-Ottocento. Giuseppe Bottai o delle
ambiguità (Un'erma bifronte - Leader revisionista - Nella babele corporativa -
La guerra di Pisa - «Starci con la mia testa» - Apologia – Espiazione) - 2. Ugo
Spirito: «scienza» e «incoscienza» (Una teoresi postidealista - Teorico
dell'economia corporativa - Il «bolscevico» epurato - «Mutevolezza e
instabilità» - «Scienza», «ricerca», «arte» - Guerra e Dopoguerra - Alla
ricerca del padre) - 3. Camillo Pellizzi: il fascio di Londra e la sociologia
(Genius loci - Tra Roma e Londra - Pax romana in Albione - «Aristòcrate» -
Dottrina del fascismo - Il postfascismo e la «rivouzione mancata» - Verso la
sociologia) - 4. I doni di Soffici («Si parla» - «Scoperte e massacri» -
Sguardi retrospettivi: tragedia e catarsi - Docta ignorantia - «Commesso
viaggiatore dell'assoluto» - Genus irritabile vatum - Un dialogo tra sordi -
Amici e nemici) - 5. Un autoritratto (A metà ventennio – Riflessi - Tra casa e
scuola - Agrari in Toscana - I primi pedagoghi - L'Istituto Massimo sj -
Vinceremo! - Il passaggio del fronte – Dopoguerra - Scuola a Firenze - Al Liceo
Tasso) - 6. Studium Urbis (Gli anni Cinquanta - Nardi e Chabod - Eredità
idealistiche - Ideologie in crisi – Diderot - Roma, gli amici - Savinio,
Carocci - La naja – Intermezzi - Olivetti, Ivrea - La "cultura" della
RAI – Let Newton Be - Anni di prova) - Indice dei nomi Order
Zoogonia e "Trasformismo" nella fisica epicurea Giornale
Critico Della Filosofia Italiana 17 (n/a): 178. 1963. Like Recommend Bookmark
L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1
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Filosofia 104 (2): 285-294. 2013. Jean-Jacques Rousseau Like Recommend
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Storia Della Filosofia 2. 2006. Like Recommend Bookmark 5 Newton in
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17th/18th Century French Philosophy Like Recommend Bookmark Lo spettro del
materialismo e la "Sacra famiglia" Rivista di Filosofia 17 261. 1980.
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di Filosofia 13 109. 1979. Like Recommend Bookmark 21 The New World and
the Intelligent Design Rivista di Filosofia 100 (1): 157-178. 2009.
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Scienziati italiani del Seicento e del Settecento Rivista di Filosofia 75 (3):
457. 1984. Like Recommend Bookmark 9 Kant e la rivoluzione newtoniana
Rivista di Filosofia 95 (3): 377-418. 2004. Kant: Philosophy of Science Like
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(1738-1748).« Rivista di Filosofia 18 354-381. 1980. Like Recommend Bookmark
Introduzione All'illuminismo da Newton a Rousseau Laterza. 1973. Like Recommend
Bookmark Newton e i suoi biografi Rivista di Filosofia 84 (2): 265. 1993. Like
Recommend Bookmark Diderot e Shaftesbury Giornale Critico Della Filosofia
Italiana 14 253. 1960. Like Recommend Bookmark 9 L'iniziazione Pitagorica
Di Vico Rivista di Storia Della Filosofia 4. 1996. Like Recommend Bookmark Per
Conoscere Rousseau with Jean-Jacques Rousseau Mondadori. 1976. Jean-Jacques
Rousseau Like Recommend Bookmark Toland e l'attività della materia Rivista di
Storia Della Filosofia 22 (1): 24. 1967. 17th/18th Century British Philosophy,
Misc Like Recommend Bookmark L'eclissi della scienza' Rivista di Filosofia 61
(3): 239-262. 1970. Like Recommend Bookmark Rousseau, il popolo sovrano e la
Repubblica di Ginevra Studi Filosofici 1 (n/a): 77. 1978. Like Recommend
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vera storia Rivista di Filosofia 24 397. 1982. Like Recommend Bookmark 13
Francesco Bianchini (1662-1729) und die europäische gelehrte Welt um 1700 Early
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l'Histoire» Rivista di Filosofia 102 (3): 381-404. 2011. Voltaire Like
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215-284. 2003. Like Recommend Bookmark Vico's initiation into the study of
Pythagoras Rivista di Storia Della Filosofia 51 (4): 865-880. 1996.
Pythagoreans Topic Order Teoria e storia delle
rivoluzioni scientifiche secondo Thomas Kuhn Rivista di Filosofia 61 (2): 213.
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Philosophie 38 (148): 35-45. 1984. Denis Diderot Like Recommend Bookmark
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(2): 197-222. 1997. Isaac Newton Like Recommend Bookmark La Natura Isedi. 1975.
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Rivista di Filosofia 87 (1): 83-94. 1996. Like Recommend Bookmark 9
Leopardi apprendista: scienza e filosofia Rivista di Filosofia 89 (3): 417-444.
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in Italia Rivista di Filosofia 97 (1): 117-130. 2006. Like Recommend
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Rivista di Filosofia 83 (3): 411. 1992. Like Recommend Bookmark Rousseau e
Diderot Rivista di Storia Della Filosofia 19 (3): 243. 1964. Like Recommend
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l'Etranger 162 324-324. 1972. Continental Philosophy 1 citation of this work
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Filosofia Italiana 1 (1): 7. 1981. Like Recommend Bookmark La ricerca
embriologica in Italia da Malpighi a Spallanzani Rivista di Filosofia 78 (1):
137. 1987. 1 citation of this work Like Recommend Bookmark L'empirismo e la
vera filosofia: il caso Scinà Rivista di Filosofia 80 (3): 351. 1989. Like
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Storia Della Filosofia 61 (2): 299-316. 2006. Classical Mechanics Like
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scholia History of Science 22 (1): 1-58. 1984. 1 reference in this work 15
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philosophe éclectique Revue Internationale de Philosophie 38 (1): 35. 1984. 1
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L'universo-Macchina Origini Della Filosofia Newtoniana Laterza. 1969. 1
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italica” razionalismo, la metafora della lume, illuminismo, Bruno, il patto
sociale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Casini” – The Swimming-Pool
Library.
CASOTTI (Roma). Filosofo. Grice:
“I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is
into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade
learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to
teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of
my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in
an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb
with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’
– “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola
e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia”
in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana
dell'attualismo. Dopo aver aderito
all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento
della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione
della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e
rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella
redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di
approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera
piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire
all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a
Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia”
dell'aristotelismo aquinista. Egli avversa
da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della
«lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta
all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto
tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa
dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità,
concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita,
incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che
consente il passaggio dalla potenza all'atto.
Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna,
rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua
filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come
disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno
speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e
adattare alle difficoltà del contesto.
Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze,
Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia
e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero);
Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau,
Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione,
Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale,
Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva,
Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano,
Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La
Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia,
La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà,
Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte
e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia,
La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione
Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia
nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea:
il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel
pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto
maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione,
lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia
Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto
dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e
sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti
e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico
degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale , in « L '
Educazione Nazionale » , 1920 , n . ... L ' Idea Nazionale » , 18 , 20 , 21 e
22 aprile 1920 ) vedere M . Casotti , Dopo il Congresso Nazionale , in « La
Nostra Scuola » , 1920 , nn . 1 - È costituito un Fascio di
educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori
dei problemi concernenti la ... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi
Mario Casotti , il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare ...
Casotti Mario , La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna ,
Vallecchi , Firenze , 1923 . Mazzoni Elda , L ' idealismo ... GENTILE GIOVANNI
, Il Fascismo al governo della Scuola , Sandron , Palermo , 1924 . SGROI
CARMELO . Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A
tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was
called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist
scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is
particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e
vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A
spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer
in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a
conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced
critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began
a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end);
anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his
"anthropological" writings, he defends personalism against idealism
and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal
Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that
later became more widespread among Italian philosophers. AQUINOSaggi di
filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di S. Aquino, L'educazione
naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie
" nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle
Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in
Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il
secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non
aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima
tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al
più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non
ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non
trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto
filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza
agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo
stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta,
per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia
cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere,
di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di
trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile
stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo
fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri
occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è
anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità
d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli
altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il
campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo
di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e,
insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo
- il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una
intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La
pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire,
archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un
passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un
pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita
quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or
non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche
studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione
moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va
subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha
nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di
parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di
libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa
dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella
Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più
deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso,
oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si
vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come
cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di
avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione
Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e
Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così
volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se
acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle
quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di
rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i
suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato
abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di
pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio
discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più
fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia
fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico LA PEDAGOGIA DI S. TOMMASO D’AQUINO Saggi di
pedagogia generale MARIO CASOTTI Professore nell’Università del Sacro Cuore
BRESCIA, Editrice “La Scuola”, 1931 * * * INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di
S. Tommaso d'Aquino 65 L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125
Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia
cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari * * *
PREFAZIONE Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si
ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di
saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto
fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia
cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso
come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato
cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella
grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e,
in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino. Altre volte vi
abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori
scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema
dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un
concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano
abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi,
questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però,
salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la
pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama
credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si
desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e
speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno
sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea,
che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o,
almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore
la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra.
Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché,
dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo
possano lavorare dopo di noi. Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il
soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San
Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola
per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire
allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata
studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e
mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare
i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane,
dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in
relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto,
giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso
asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna,
si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito
completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle
teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole
vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di
«creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del
bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia
sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale
che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in
voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il
rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche,
tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere
amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale
che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi
annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma
alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi
se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine
«autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione»,
che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi
migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa
collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello
sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della
mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della
Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o
meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della
educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per
un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile,
che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital
bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle
immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è
tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma
non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi,
se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto
tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango
che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e
là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la
mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose
ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di
partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione,
dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese
e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri
avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un
passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo
pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero
di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà
e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume
Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle
scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia
cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo
illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna
educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche
come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose
opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le
faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri
mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o
rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed
intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore
(Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome
di Gesù. NOTA. - I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti
pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola
Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti : L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di
filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze
1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso
d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci
fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza
sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il
dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione,
l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra
costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato
sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che
possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a
tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera
dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere
spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e
della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente
discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che
dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia
possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze.
Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un
problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi
di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a
proporselo con tutta la chiarezza desiderabile. E questo perché i
pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni
più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto,
anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica
dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono,
certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma
che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o
di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici
e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo
direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la
storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri
sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive
della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in
concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci
nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga
ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere
che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia
dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data
dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità,
della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di
filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna,
quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo
occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso
lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo
«De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con
tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno
studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?»
domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno
sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile
l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e
descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che
cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono
intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare
dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto
malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto
dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle
particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella
pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione
stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e
caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile,
davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione
medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un
soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede
determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste
stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e
lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro
che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in
virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed
attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De
Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa
impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e
scaltrite filosofie dell'educazione. * * * Posto così, il problema dell'
educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche
pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il
formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno
sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un
soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate
cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine
«trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi
a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se
non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico
del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale,
allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o
cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò
che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la
scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel
significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto
interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto
impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è
impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in
Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia
spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato
problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la
difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due
soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa,
e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di
ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo
meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la
maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su
salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza
(mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava
interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a
dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello
stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando,
cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al
discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più
tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina
dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè,
che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione
filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria
dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più
contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di
giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che
immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo
via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al
soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la
sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento
e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla
chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e
della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano
concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva
presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse,
anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda
verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma
inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da
Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella
interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita
attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in
un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava
anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto
soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere
subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e
verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a
ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente
scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De
Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto
conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un
modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa,
come non si arresterà poi l'indagine di S. Tommaso, ai particolari problemi
della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui
s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S.
Agostino, né più né meno di S. Tommaso, incomincia da questa domanda. “Come è
possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo
scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende
in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire
tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in
genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o
scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche
ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale,
se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette
la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente
critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente
l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul
linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può
rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva
(spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una
esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica
realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col
dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della
scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta,
tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più
concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa,
per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha
sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo»,
ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte,
del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per
sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa
stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli
spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione
l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il
camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco
devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente,
anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla
cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito
tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete:
né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro
Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio,
parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo
inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non
conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci
servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le
conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola
latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio
perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna,
dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre
parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per
aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che
la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con
quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere
il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che
fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni;
e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi
dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli
qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire
ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la
possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro
allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere
veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili,
invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della
mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono
date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo
attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose
intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è
questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto
abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio;
chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre,
quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà»
[Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera
e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde
direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo
notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica,
dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana,
sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria
della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico
maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione
fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto
l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può
insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità,
ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il
fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto
l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la
possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha
preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti
geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e
tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci
desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è
infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà
precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma
la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non
le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del
problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III
L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il
problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o,
meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a
noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora,
il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare
l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso
le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di
teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più
recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del
Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di
alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci
permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo
il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che,
del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa
già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate
intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni
dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste
fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro
una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni
modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi
dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa
sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da
sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un
prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la
stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione
disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione
117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San
Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e
scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora,
l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel
problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più
probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina
averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia
filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a
questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità
dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine
all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può
essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo
che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo
come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con
intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina
agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo
già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la
tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella
incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità,
non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie
incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo
benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e
che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi
fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa
essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo
fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si
potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura
dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda
la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani
dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a
un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella
mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e
dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem
numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si
cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso
Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...»
Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad
sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi
contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo,
ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che
questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema
della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla
polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate,
qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo
intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto
del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel
soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto
unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli
corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che
illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le
differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale
sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può
esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del
pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che
il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima
sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in
quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno
del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale
l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze
d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte,
ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più
evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono
trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema
dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è
uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due
soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma
allora ecco risolta quella tal difficoltà della «comunicazione» fra
maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più
bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che
l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso
lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro
si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro
perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I,
117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che
già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico.
Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli
argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si
presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente
scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio
come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di
Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca,
nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità
di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non
basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze
circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte
energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi
riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se
stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli
abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro,
finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle
difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e
fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la
pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al
principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto
pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto
pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità,
riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare
una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé
con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo
rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una
fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria dell'intelletto
unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava
insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano
non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di
Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel
1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere
nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti
della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla
necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i
commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa
affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare
di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo
l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato
la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le
superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità,
se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata
riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto
diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol
perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero
spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà
d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle
intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che
sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e
indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre,
anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere
addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause
prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo,
questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme
a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un
vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De
Magistro di S. Tommaso. IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due
diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere
la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la
teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle
teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art.
1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze
circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della
conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti
gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una
scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad
ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a
riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione
della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat
scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem
scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in
anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem
apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima
sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo,
e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo
soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del
pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o
allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito
solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così
dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o
all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo
scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno
abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e
due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece,
nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in
modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto
unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia
disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso
vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a
formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente
l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima,
ma era come adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la
sua chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura
impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il
vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui
giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti
particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare
la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già
faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie
moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro
deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare
il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e
separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste
singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del
pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro?
Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa
difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il
termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta
di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come
la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa
attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme
intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che
siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire
che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione
del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per
avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo,
Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico
intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti
bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i
soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire,
«immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità
o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si
chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei
singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile.
Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa
alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare
dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi
argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama
alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria
averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie,
ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che,
nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e
scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro
sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277]
con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una
mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto
che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica
per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali
distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della
mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente
trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente
la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante
l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel
maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum « ...docens non dicitur transfundere
scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro,
in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei
quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia
fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o
addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica
contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i
soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli
altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V Nel De Magistro,
invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al
problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema
metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che
l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della
Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere
metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il
solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a
tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale,
e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza
sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza
derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli
oggetti sia nei soggetti individuali. Accanto a questa dottrina S. Tommaso
ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria
materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117
della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti
elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle
cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli
agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella
materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus
essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per
exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae
naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella
quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio
Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano
soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle
Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad
susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem
specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo
alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso,
ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che
all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e
l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della
scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo
[De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che
è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della
autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte,
non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono
da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria
materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due
forme diverse di un medesimo idealismo. E, infatti, quanto
all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che
concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in
modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma
velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una
rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa,
al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che
differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie
dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due
aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo
scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un
grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico
compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso
punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione
dell'agostinismo in senso averroistico, S. Tommaso ha effettivamente innanzi a
sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra
mentalità, la pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e
all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in
questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma
che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul
serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre,
si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e
scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come
potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento
fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il
linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi
significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a
insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni. A ciò S.
Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più
importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la
quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può
considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza,
dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché,
per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività
conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune
«forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la
sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla
sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se
ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria
tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello,
poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di
richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza
critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia
moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva
costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a
priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra
«a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che
riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due
teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso
completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione
che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si
vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività
dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam
scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare
immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o
le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni
scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti
primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro
concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe
formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note
musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia
escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette
note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente,
esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto
vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta
tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in
atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata
o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi,
poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro
sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il
maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in
potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in
quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è
contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle
determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del
maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo
scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera
del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa
cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è,
secondo San Tommaso uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana:
essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività
sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti
i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che
percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente
nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle
che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre
che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per
mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De
Mag. Art. I (ad XII. mum) « ...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia
consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus
implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per
officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando
»]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi,
mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e
immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed
è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella
scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi
mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno
cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse,
non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia
concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S.
Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a
delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta
neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali,
sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci
abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto,
non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi
principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima
analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno,
immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie»
di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti
moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le
categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si
sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo
fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose
potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono.
Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai
discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi
primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è
dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di
tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni
e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale. Appunto
per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget...
motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio
perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le
conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e
fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba
conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve
fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto
angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un
solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la
verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto
le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora,
proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il
discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non
avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni
e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra
l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem
principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem
collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé
come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha
anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i
primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel
nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto
solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano
essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai
dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere»,
ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di
«vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione
dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe
caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale»,
«vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così : «Cum
autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia,
quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam
acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i
primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre
ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente
umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste
particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che
ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del
maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo:
presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità
delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero
proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa
ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas
propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus
dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia
vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis
manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)].
Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro
«aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi,
giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti
materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la
attività e la solerzia di chi li adopera. Che cosa c'è di vero, dunque,
nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la
verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la
facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità.
Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto
avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per
intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che
non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha
creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero
nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè
producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus
aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I
(in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche
il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la
bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci
di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è
appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie,
averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione
dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col
non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa
d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che
ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e
capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita
proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la
giustificazione. * * * Ma, e quel tale, difficile problema della
«comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la
scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio,
dall’uno all'altro soggetto ? Per rispondere a queste domande S. Tommaso
tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi
delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica. E, in primo luogo,
il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba
considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra?
Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal
maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre
restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente
in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non
riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale
benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente
una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege
sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due
rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti
particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non
accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come
una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro:
basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta
sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto
delle nozioni, alla scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni
(e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un
processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno
dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti,
nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo
della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza,
anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una
scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e
basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale
apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del
modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol
dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né
uno di numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce
l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche
dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto
è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di
medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo
altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo
intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico
per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e
fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi
intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé,
tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa
questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo
operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)]
il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o
sia identica alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo
riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che
l'arte imita la natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della
scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose
ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto»
[Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la
somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell'
insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte
non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal
problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la
natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma
anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla
sua? Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo
strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il
linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla
difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la
materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e
l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S.
Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se
vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo
attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie
sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e
al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado
più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici.
Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza
delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone
già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta,
perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della
sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge
fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una
«forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la
dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in
generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati
oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei
corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza
che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre
si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione
partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che
potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il
corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni
particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E
come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua
volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della
dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo.
Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi,
eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro
i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale!
E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi,
ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come
forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la
costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono. Ma
si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un
trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il
calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito
o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la
percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o
scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il
concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha
dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il
dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E
perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato
e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma
assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto
scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non
ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o
leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e
leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge
della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della
sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè
anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è
detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della
dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali
il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della
gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così,
patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi
regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne
ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È
questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia
delineata da S. Tommaso. Per la quale, a differenza di ciò che succede in
moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né,
tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere,
all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei
vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da
Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza
- abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca
tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono
variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S.
Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima
puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo
scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole
dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza
nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e
dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili".
Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano
scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima,
in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I
(ad XI.nium) "ipsa verba doctoris audita, vel visa in scripta, hoc modo se
habent ad causandum scientiam in intellectu sicut res quae sunt extra animam,
quia ex utrisque intellectus intentiones intelligibiles accipit; quamvis verba
doctoris propinquius se habeant ad causandum scientiam quam sensibilia extra
animam existentia, inquantum sunt signa intelligibilium intentionum "]. E
sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius)
che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto
che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già
astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o
"intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli
oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere
senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere
dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente,
attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato
finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari
forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo,
è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e
sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo
scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli
elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli
elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può
anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce
se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del
maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e
farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al
nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del
maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che
la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e
valore. È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra
maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati
del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile
del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si
serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e,
insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza
nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro
- San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro,
ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale
scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già
ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così
formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale
consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea,
che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo
sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte
continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è
già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume
intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera
superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano
l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo
riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di
Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione.
L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la
natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento
rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso
un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi
si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più
brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. * * *
VIII Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente
agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere
l'autodidattica non solo un fatto evidentissimo e una realtà
incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione.
Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che
tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se
stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima
di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale
l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo
stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente. E,
anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due
espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro
di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina
tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il
lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al
materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre
certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme
intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme
di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della
gravitazione e della dilatazione. È questa, così ottenuta, scienza vera e
propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è
dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una
continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa
astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in
via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa
via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si
ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa
giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo
modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo
proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma se questo processo é,
innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero?
Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge
mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme
intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle
forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono
soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di
chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli
non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un
altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso
soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne
consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme
intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di
formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e
operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della
gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi
che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non
insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il
che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei
bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di
parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi
l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per
il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due
concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di
estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è
caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e
l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale
acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno
per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e
propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto
l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per
potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che
l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non
accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)].
Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una
malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non
contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce
la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio
d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è
necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da
essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente
sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade
soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in
sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà
poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio
è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la
causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile,
contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili
come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al
suo essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene -
un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al
contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio
in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò,
attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del
semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione
che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria
a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e
giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no
non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste
precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua
cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina
sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più
sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo,
anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver
scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E,
dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi
dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e
il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore
difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza
mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in
quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la
scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento»
[De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per
inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur
habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior
per doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più
speditamente», sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di
principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso
veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica
e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o
l'idealismo. C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda,
dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e
notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza
non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento.
Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere
un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai
completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si
svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora,
un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto
realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma
aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto
di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì
potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza
passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di
conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene,
una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar
origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto
antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta,
derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera
l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre,
la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro,
derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di
conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e
dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in
potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme,
già ci vuol la pianta completa. Ecco la differenza fra la scolastica e
l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà
procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o
materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere,
insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un
Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono
eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei
valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio
primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la
doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire»
e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie
filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo
«scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in
realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio
presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto
essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme
stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi
esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla
quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima:
sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè
archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della
doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del
maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella
natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più
lontana dalla materia e più vicina a quella delle rationes aeternae nella
mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento,
fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non
sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza
che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto,
dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. * * * Andare più oltre
vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in
una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e
concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di
dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria
della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio
[Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro
e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare,
per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a
quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e
dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il
sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina
intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto
che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua
funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più
elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere
umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i
primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca
puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai
Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la
Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I
geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come
procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta
e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce,
soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto,
l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto
stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola
come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come
per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede
tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto
l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non
s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella
mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si
trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli
articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi
sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la
legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione
per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno,
certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a
nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a
ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il
Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità.
Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e
fondata sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel
conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve
dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi
un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui
che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria
violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che
riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma
libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e,
perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più
sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina
rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella
sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un
pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento
della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben
lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto
liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia
moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto
diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché
per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse
vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito
lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina
completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse
lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di
età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così,
affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei
gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto
«medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo
scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa
pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa,
oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro
caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di
una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa
come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato?
Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale
(Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani,
Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o
soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel
primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od
atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice
esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale
l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti
nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto
irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio,
prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e,
così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza,
della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio,
dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà
dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel
contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù
non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella
maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura
umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle
stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate,
colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria
disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se
stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un
Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo,
invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di
un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di
educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale
per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura
umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel
contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della
parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi
solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele
deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando
istruisce nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due
casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e
viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il
metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo
tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti
considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e
attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia
vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono
agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così
numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o
mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti
che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe,
nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la
discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi
abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora
trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate,
tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del
Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore
d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre
ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco
furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da
permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il
mondo allora conosciuto. Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito
- della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e
neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto
puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di
attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione
naturale. II Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di
queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise
come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle
quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non
potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad
affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione
sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non
vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le
permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità.
Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani
come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata,
appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e
nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle,
l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la
verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra,
come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o
le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la
natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto
varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i
maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non
si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche
nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità
del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi,
libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa
legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi
naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la
pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia
del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui
attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato
come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento
del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando
«errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe
al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà.
Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté
mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue
Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare
intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi,
giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo,
una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé
delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto
spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non
è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie
moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario
all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha
nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento:
afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura
umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a
riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al
bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e
l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il
bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese
o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo
bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una
educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come
ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un
elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due
cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione
naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi,
sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti
gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli
uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene,
almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua
esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui
tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra.
Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo
ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità,
che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo
all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere
umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è
facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente,
o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità
e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità
delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé,
esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la
delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante
come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si
confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come
lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato
in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da
lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato
i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e
le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione
dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo
inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto
dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva
affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa
possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal
genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole
differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione
effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce,
almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza
del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei
santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini,
capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è
troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili
l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non
dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni
dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte
ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita;
la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure;
dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la
serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito
incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere
questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più
modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o
gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non
sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la
competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le
cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di
maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le
elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti
onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi
fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole
vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe
colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i
pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà.
Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da
tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri,
e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse
venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse
citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione
naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a
realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella
potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana.
E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima?
In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un
individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché
quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si
supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili
accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in
quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali
l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro
potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato in generale. Ma le
stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della
pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il
problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso,
dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel
loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente
dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua
fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se
il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la
lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva
imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli
malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e
per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può
ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la
lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno
se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle
sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non
fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è
sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e
dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni,
appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia,
specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo
semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per
istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola,
infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa
trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e
chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto
interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può
ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata,
come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale
spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi
nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione
chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il
paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e
già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è
ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa
superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive
in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne
l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale
sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di
concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un
errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo
scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche,
semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende
l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto
le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il
fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al
partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a
chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo
ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la
pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione
al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee
astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso
all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza
la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito:
procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea
sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo»
che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da
augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le
istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo
effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e
applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza
sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un
oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun
significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto
assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel
prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della
sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si
rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole»
ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di
immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima
analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta
l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la
genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome
i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di
conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non
artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile
la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da
solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è,
poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo,
troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto
superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la
teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile
ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche,
nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando
occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi
garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate:
sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i
pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il
deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere
scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor
oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione
dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in
alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi
privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta
spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni
e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per
ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio
scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare
per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità
pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon
andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano
messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui
l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori
possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi;
supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o
limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità
sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo
conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà
che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un
Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i
più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti
dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un
altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno,
falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita
risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da
circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in
fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i
sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più
ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà
dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione
della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà
della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro
l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la
storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di
questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini
dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono
abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi
verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla
cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale
sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione,
e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le
ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente
istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio»,
«non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano
appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad
altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione.
Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse
dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si
sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei
precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e
applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli
diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante,
appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la
temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non
significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia
moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il
vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o
novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e
la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù
non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il
tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima
base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali
debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che
le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari.
Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad
organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne,
tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i
muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più
specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio
della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria
pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle
conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per
converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia
esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale
teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei
casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che
il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla
rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della
finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il
mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero
del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il
rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo,
cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia
dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere
quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare
l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si
tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare,
pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe
peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole
azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha
riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a
proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo
ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in
questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato
dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole
questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci
garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e
puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare
per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre
verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In
teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale
probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che
raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica.
In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che
variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta
per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si
fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono
sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma
l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di
quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale
ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta
proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla
virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di
addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di
falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce
ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce
l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si
tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo
sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a
giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e
fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E
chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre,
nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri,
tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a
favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni,
delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina?
VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare,
emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se
gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato,
l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona
scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze
imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi
elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato,
quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un
grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo
senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non
può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e
ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche
essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo
senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo
d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure,
nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto,
meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di
produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi
superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie,
l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e
morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione:
e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la
civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la
compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale
dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur
difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più
che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito
loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che
un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato
a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e
dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi
progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di
peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai
abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche
nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono,
secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si
ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso
desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un
figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità
ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con
tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere
feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli
altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e
realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in
quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe
giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo
fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi
è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose,
l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la
razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed
onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle
loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue
istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono
ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza
sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo
della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire
nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro
pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore
alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la
storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde
nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si
possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così
perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari
è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto
ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi
è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la
ragione. «Materia», «spirito», «evoluzione o storia» sono tanti nomi del
mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro
singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi
oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col
fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla.
L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla
probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante
possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a
caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non
riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità
sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed
intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio
miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo,
talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le
nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe
temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle
scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano
in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio.
Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni,
nell'opera educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la
filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine
soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la
Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le
verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della
scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso
la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed
imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la
filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante
conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche
nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso
tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente
necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale
e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca,
dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una
necessità relativa e morale: utile nello stesso senso in cui i teologi
parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una sfera lanciata
attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba
indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe
accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto,
arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la
forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La
natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente
educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso.
Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle
passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono
tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare
ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono
macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata
quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti
i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di
un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i
maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo,
possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che
tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i
suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il
pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di
Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la
corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato,
nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per l'inaugurazione
dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata »
il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data,
poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano,
necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono —
com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.) Domando scusa
se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco
peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si
tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e
nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da
quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi
capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un
organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti,
tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come
l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il
brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani,
mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è
dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità
riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la
curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da
un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più
mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole
di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano
qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare
nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano
immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non
abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto
dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare
oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione
un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei
discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana
nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera
quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor
scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa
all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé
l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei
ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario.
Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o
della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere
nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti
— forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura
decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili
moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente
pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli
individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per
propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si
contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo
troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire,
ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti
pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo
imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che
è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori
spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio
d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più
svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a
finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti,
leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe
comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca,
unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la
proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica
neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non
vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della
riforma Gentile: i benefici effetti della quale, giova credere, presto si
faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto
naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno
agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale
che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi
sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto
primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non
peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le
mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che
s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo
una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in
Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali
nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo
stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il
necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render
grazie alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è
formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto,
essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere
domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto
dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno
offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo
gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a
ieri, una nuova scuola universitaria? Problema difficile certo, e tale da
render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in
Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo
perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido
a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in
certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto
quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto
d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente
pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre
finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i
primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso
morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere
se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la
propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e,
direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che
avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a
questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo
spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi
nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata
sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati,
ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e
dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il
cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé
un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica,
voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e
allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed
ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con
tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono
coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali
appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E
chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo
delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora,
nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi
dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti
riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E
non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale
l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma
occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria
intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla
malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la
nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non
ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle
classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno
numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari,
inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico che
li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si
assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una
tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno
Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi
personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una
classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore,
costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a
quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso
dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o
l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una
certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano,
i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le
proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario,
uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli
ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va
acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa
la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la
casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica
d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere,
poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche
difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima
vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e
di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che
accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si
tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè,
dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la
mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta
facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E
invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti
si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa
incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici,
industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni
— altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il
caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere
il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di
studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda,
frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una
meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli,
fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai
esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile
esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della
parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la
scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero
e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del
'20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a
vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe
costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro,
inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste
la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel
professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio
lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della
meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si
forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità
adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo,
dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi
seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una
vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che
nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei
vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i
ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto
escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi
la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano
necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e
al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla
esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e
sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche
la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo,
della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più
complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più
elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti
politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la
incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza.
Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente
simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli
annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello
«stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla
discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se
non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per
esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e
feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri
pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e
democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di
famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli
trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo
denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese
fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più
andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni
socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi
in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole,
erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse
presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti?
Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come
parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle
conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto
sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli
articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza
d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta
per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La
gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia
importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e
ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da
anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra
razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri
provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure
necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni
di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città:
quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono
ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre
nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi
ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto
e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro
popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola,
l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già
bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete
in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel
conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli
ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima
linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta
come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun
carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze,
opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello
spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il
Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le
conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle
fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che
ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere
nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle —
sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un
fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un
più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa
grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che
ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a
questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima
comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre.
Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e
delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili
valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel
contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo
la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema
d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri
pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che
tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle
favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni
preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete,
è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani
generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se
aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho
cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia,
essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello
alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi
annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura,
l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre
migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si
offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana,
ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro
dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato
di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova
che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è parsa
inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro
Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico
odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non
crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si
studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire
d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia
scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini
e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto
e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e
degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune
discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro
funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie,
alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora,
secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il Cattolicesimo è vecchio,
miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato.
Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri
e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi
tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la
cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe
sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e
greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica
formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre
medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le
vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato...
Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella
scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella
scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie,
disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man
mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali
deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che
agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana
elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario
come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica,
l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica.
Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge
sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro
l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere
classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza,
daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e
Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da
riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai
positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di
scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato
l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni
civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone,
attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle
letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque
risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la
cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo
scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un
nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia
idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il
medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario.
Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica
che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e
delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria,
superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo
dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo
contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un
Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi
metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera
piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento
“ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare
chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi,
onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai
tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare
i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella
rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con
cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori
umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri
stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno
d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il
realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema
pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior
cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo
avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue
classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al
realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione,
della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel
proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui
metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una
cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di
risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che
è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia
laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi
quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di
ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi
inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola
realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale,
anche la scuola neoumanistica ? La ragione? Ma la ragione sta nello
stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per
umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta
una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come
“uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli
ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema
educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività
umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè,
dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia,
esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o
l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività
umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel
senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito,
ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista,
cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi
ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una
cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella
letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso
contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso
l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò
egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque,
la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e
della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve
affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista
? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente
da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un
momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura
gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere
con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E
infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà
superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando
guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei,
essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il
caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio,
tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il
più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica
è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna
in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del
realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre
insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica
prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est
necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite
per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia
cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla
filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via
su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia
divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza
fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché
il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile
anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve
riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il
circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo,
nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro
che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal
terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della
storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata
categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in
ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi
indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma
come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si
perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e
imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco
perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la
grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la
vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla
pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore
e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito
cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al
realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi
di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice.
Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di
intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio
lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza,
debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta
d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica
l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi,
la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle
proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al
terribile problema: «che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche
volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?»
Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e
che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale
ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto
pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno
bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la
libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il
nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso
tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di
comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno
una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo
che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro
col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del
neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il
problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno
non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e
della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la
maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se,
viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual
criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che
tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco
lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e
all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni
moderne. Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà
pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità
è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori
spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra
qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione
di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più
l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno
da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella
perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post
me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle
comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi
pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso
interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio”
antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il
paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine
la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole
assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si
proporranno per fine le attività, socialmente più basse, servili,
dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma
chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le
piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non
inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da
realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo
numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale
sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio
della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare
colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che
è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben
sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni,
interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior
ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un
cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei
cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il
Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo
pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col
quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e
fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la
tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio
dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo,
pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali
consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo
che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando
l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari,
nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo,
Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se
cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi,
naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in
sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate
dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte
d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio.
Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere
aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre
migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere
per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio:
siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo
propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini
naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è
da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale
dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa
distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state
già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da
meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione
della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il
presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro
manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione
intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché
cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo,
stoltissima empietà non meno che — ecco la vera parola — barbara distruzione
della libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste
di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente
osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo
di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei
giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo,
dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a
riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro
di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui
lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della
moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone,
lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei
così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più
adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha
sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare
come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza
plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non
potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta,
senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è
stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina,
ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti
architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti
potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio,
dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e
delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima
dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i
principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli
illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico,
nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più
profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica
che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da
spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni,
considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la
partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura,
la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? — Oggi si
raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura,
si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal
Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del
lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana
che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero?
Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo
dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della
Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro
opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire
collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti
accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché
i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia
razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi
pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il
compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le
contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato
anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti
dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i
Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro
collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione
clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo
spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente
riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in
mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale,
ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui
vantata negli antichi? E che il benedettino, il francescano, il domenicano e
via dicendo, per quanti ordini religiosi - e non sono pochi!- la Chiesa
racchiude nel suo seno, fossero altrettanti “tipi” spirituali non meno ben
delineati? Di un metodo educativo si può, certo, avere un'idea guardando a
qualsiasi sua manifestazione, ma non si può giudicarlo completamente se non là
dove esso si è fatto tutte le condizioni occorrenti alla sua piena
realizzazione. Sarà benissimo che i risultati ottenuti dalle congregazioni
insegnanti della Controriforma non debbano giudicarsi brillantissimi: ma si
consideri che quelle congregazioni, in quanto si proponevano d'esplicare una
larga azione sulla società laica circostante, dovevano forzatamente accettare
sistemi e metodi consacrati dall'opinione pubblica, sia pur per volgerli, in
quanto era possibile, ai propri fini. Così i gesuiti trassero tutto quel bene
che si poteva trarre, da un punto di vista cristiano, dall'umanesimo letterario
e dalla vita moralmente corrotta che nelle classi sociali dirigenti si
accompagnava allora all'ideale umanistico. È colpa loro se la scuola umanistica
era, per intima costituzione, una scuola oppressiva, e se, in fatto di morale
pubblica e privata, il mondo e la famiglia s'incaricavano di erudire l'alunno
uscito dai collegi con una serie di lezioni ben altrimenti significative? Ma si
guardi il rovescio della medaglia, si prenda l'educazione gesuita nella
formazione del gesuita, così come, risalendo nei tempi, si prende l'educazione
francescana nella formazione del francescano e l'educazione benedettina nella
formazione del benedettino, si prendano, cioè, tutti quei sistemi educativi in
quanto hanno la libertà di foggiare interamente l'educando secondo i propri
principi informatori. E poi si dica quale educazione laica, in qualsivoglia
condizione, saprebbe, non solo plasmare, nella rigorosa unità d'una dottrina
ferma come la cattolica, tanta e così varia ricchezza di spiriti quante sono le
diverse famiglie religiose; ma, quel che più conta, indurre in una tal moltitudine
di persone un dispregio dei propri comodi e dei propri interessi, un amore
della sofferenza e del sacrificio, una devozione al dovere, una infaticabile
attività non d'altre ricompense sollecita se non al di là della sfera umana,
una umiltà che rifiuta persino quelle legittime soddisfazioni per cui l'uomo
guarda con compiacenza l'opera propria spesa in servigio di superiori ideali
quali sono quelli che oggi la stessa opinione mondana ammira quando la
colpiscono nei tipi, più facilmente visibili, della suora di carità o del
missionario. Né bisogna poi credere che, anche nelle difficili condizioni
presentate dal dover trattare con gente già imbevuta d'idee e d'abitudini
anticristiane, qual è appunto il caso della educazione che la Chiesa impartisce
a laici, l'educazione cattolica non possa nulla, o possa meno della pedagogia
razionalista. E basta, per convincersene, pensare alle anonime folle che, anche
nei tempi più difficili per la religione, si stringono intorno alla Chiesa e ne
ricevono giornalmente, per bocca d'un umile sacerdote, la parola, il consiglio,
l'ammonimento che trasformano anche la disperazione della più sventurata
esistenza, nella umana dignità d'un sacrificio offerto a Dio, nella nobiltà
d'un dovere adempiuto con serena consapevolezza. Nelle ore torbide della
storia, quando la scuola tace, fatta deserta, e la scienza è travolta dal
turbine che sradica anche le civiltà più robuste, la Chiesa parla e gli stessi
nemici l'ascoltano con deferenza, sia pure per tornare, quando la
burrasca sarà passata, a combatterla: ma che, intanto, l'abbiano dovuta
ascoltare, è altamente significativo. Ma è tempo ormai ch'io concluda
questo lungo discorso, specialmente dacché mi è capitata fra le mani una
conclusione così bella e confortante per voi, maestre cattoliche, una
conclusione che, non ne dubito, anche nella forma troppo pedestre in cui le mie
scarsissime forze hanno dovuto presentarvela, voi terrete presente, durante il
nostro futuro lavoro comune, perché vi sia d'incitamento a fare sempre più e
sempre meglio. E questa conclusione è che, nel prepararvi ad affrontare i
maggiori problemi della pedagogia moderna, voi obbedite a una voce che vi
richiama là dove da secoli la vostra gran madre, la Chiesa, ha combattuto e,
possiamo dire senza tema di smentite, ha vinto, le sue più belle battaglie.
Diffondete pure il sapere fra le moltitudini, ma diffondetelo nei modi e con
gl'intenti ch'Essa vi ha insegnato, sicure di porgere soccorso, cosi, alle
tormentose crisi dell'anima moderna; di soddisfare, così, pienamente alle
esigenze della pedagogia più raffinata e scrupolosa. Allora questa scuola dalla
quale sarete uscite, potrà veramente affermare d'avere, in mezzo a tutte le
altre scuole universitarie, una sua precisa ragion d'essere, potrà veramente,
in quanto ciò è dato ai nostri deboli sforzi umani, non demeritare di
raccogliersi sotto l'altissimo nome che oggi invochiamo a guida e conforto:
sotto l'altissimo nome di Colei che è Vergine Madre, figlia del Suo figlio,
umile ed alta più che creatura, termine fisso d'eterno consiglio. Filosofia,
religione e "filosofie" nelle scuole medie L'introduzione
dell'insegnamento religioso nelle scuole medie e, più, l'esplicita
dichiarazione del Concordato secondo la quale la dottrina cattolica deve essere
il necessario fondamento e coronamento di ogni istruzione, hanno fatto nascere,
strano a dirsi, nell'animo di molti e insegnanti e studiosi un turbamento la
cui eco si è sentita nell'ultimo Congresso nazionale di filosofia (1929), e si
sente tuttora negli scritti e nelle private conversazioni di quanti, o per
elezione o per ufficio, amano discutere i vivi problemi della scuola. E forse
non andrebbe molto lontano dal vero chi dicesse che tale discussione,
interessante, senza dubbio, quando riguarda la scuola media in genere, offre
poi un interesse specialissimo quando tocca l'Istituto magistrale, dal quale
(si noti bene) debbono uscire maestri che hanno l'obbligo d'istruire i loro
alunni non solo intorno a questa o quella singola materia, ma precisamente
intorno alla religione cattolica; cosa che non potrebbero fare certamente, se
già non avessero ricevuto dall'Istituto magistrale una salda istruzione e
formazione religiosa. È bene dirlo subito: intendiamo di deliberato
proposito trascurare tutti i problemi pratici e contingenti che possono nascere
e nascono nelle odierne condizioni della scuola dalla introduzione
dell'insegnamento religioso cattolico. E intendiamo trascurarli, non solo per
un legittimo desiderio di circoscrivere il nostro discorso, ma perché siamo
persuasi che il turbamento di cui si parlava ora deriva, nella maggior parte
dei casi, non tanto dal considerare l'uno o l'altro aspetto pratico della
questione, sibbene dal non aver impostato con sufficiente chiarezza o dall'aver
male risolto il problema filosofico che della questione stessa sta al
fondo. Per convincersene basta aver la pazienza di formulare solamente la
difficoltà quale corre, si può dire, sulle bocche di tutti. — Che significa —
si domandano molti — questa dottrina cristiana che deve essere d'ora innanzi il
coronamento degli studi? Significa forse che si debbano escludere e bandire
severamente dalla scuola tutte quelle dottrine e quegli autori non conciliabili
colla ortodossia cattolica? Ammettiamolo pure. Ma allora dove andrà a finire la
libertà di coscienza dell'insegnante, anzi, dove andrà a finire quella stessa
libertà della ricerca scientifica che si svolge, è vero, e si esplica
pienamente solo negli studi superiori e nelle Università, ma che non si può
neppure escludere del tutto dalle scuole medie, senza ridurre l'istruzione a
una semplice trasmissione meccanica di vuote formule, onde ogni vero senso di
intima ricerca è esulato? Vedete qual differenza fra il Cattolicesimo e il
pensiero moderno, e non certo a vantaggio del Cattolicesimo! Mentre l'uno
esclude assolutamente quella diversità di pareri e di teorie dalla quale nasce
la feconda ricerca e la discussione, senza cui non v’è scienza, anzi pretende
di ridurre tutti, volenti o nolenti, ad un unico modo di pensare; l'altro ha sì
gran braccia che accoglie generosamente, nel suo capace seno, ogni dottrina,
poiché in ogni dottrina riconosce un momento e un aspetto necessario della
verità. E dunque, mentre, secondo il filosofo moderno, anche il cattolico ha
diritto di esprimere il suo parere e di portare nella scuola il suo pensiero,
secondo il cattolico, il filosofo moderno, ben lungi dall'avere questo diritto,
deve esser cacciato e tenuto fuori dalla scuola come un individuo pericoloso.
Ora, ognuno vede da qual parte stia la libertà e la vera tolleranza: mentre il
prevalere della filosofia moderna apre alla scuola tutte le conquiste del
pensiero, il prevalere del cattolicesimo implicherebbe il ritorno al più gretto
e ristretto oscurantismo, segno di remoti e barbari tempi. che la civiltà
moderna ha, e vuole avere, per sempre superato. E, poste queste premesse,
ecco che molta brava gente già si sente venire i brividi addosso. Che, già le
par di vedere l'Inquisizione e il Sant'Uffizio armarsi del braccio secolare, ed
entrar nelle scuole, e buttar sossopra libri e programmi, e, afferrato per il
collo con mano ferrea ciascun insegnante, interrogarlo, e voler sapere per filo
e per segno che cosa dice e che cosa opina, e che cosa pensa, e come e perché.
E poi, al menomo odoraccio di eresia, giù ammonizioni e sospensioni, e
rimozioni dall'impiego, e magari, tanto per essere in armonia col color locale,
o meglio, storico, una buona dose di tratti di fune applicati sulla pubblica
piazza, e un buon rogo, dove se non le persone, che non li usa più, almeno i
libri proibiti formassero un bel falò, a consolazione della gente devota che
assisterebbe, fra cantici di gioia e inni sacri, all'edificante
spettacolo. Ora, i timori - più o meno irragionevoli - sono timori, e la
filosofia è filosofia, e forse non c'è cosa tanto difficile a questo mondo
quanto il persuadere certe brave persone che i timori vanno trattati da timori
e la filosofia da filosofia; che le questioni filosofiche non si risolvono coi
timori, ma cogli argomenti. Accuse di oscurantismo alla religione cattolica se
ne sono fatte da che mondo è mondo, e sempre se ne faranno, fino alla fine dei
secoli; sarebbe dunque puerile meravigliarsi che se ne facciano anche oggi. Ma
giustizia vuole che di queste accuse si esamini spassionatamente il fondamento
e il valore, prima di sentenziare. Giacché le affermazioni sono una bellissima
cosa, ma finché non vengono dimostrate si riducono ad essere semplicemente
parole: segni, o suoni, siano poi i suoni d'arpa eolia coi quali il poeta
avvinca a sé i cuori, o gli stonati rulli del tamburo coi quali i saltimbanchi
stordiscono, sulle piazze, la moltitudine. Sia dunque lecito porre, al
presente studio, questo fine: domandarsi qual valore abbiano quelle accuse, e
su quali argomenti poggino quelle affermazioni, ora riferite, colle quali si
vorrebbe sequestrare il cattolicesimo dalla civiltà e dalla scuola moderna, per
relegarlo nei musei d'un incerto e torbido passato che si dovrebbe
inonoratamente seppellire. Mettiamo da parte i vaghi fantasmi passionali coi
quali si cerca di carpire il consenso attraverso la mozione degli affetti e
guardiamo, se ci riesce, di non arrenderci che alla forza dell'evidenza e della
ragione. Cerchiamo, se è possibile, di ridurre la questione a un tale stato di
chiarezza che chiunque ci segue, amico o avversario, possa senza disperati
sforzi d'ingegno o di dottrina, comprendere le ragioni sulle quali poggia la
nostra tesi, od, occorrendo, scoprire anche il più piccolo errore nel quale ci
sia avvenuto d'incappare. I. Cominciamo con l'osservare subito che la
questione che ora c'interessa non riguarda tanto i rapporti, o i conflitti che
possono nascere, nella scuola media, fra l'insegnamento religioso in quanto
puramente tale, e l'insegnamento della filosofia. Che se il problema fosse
questo, molti amerebbero risolverlo, almeno in pratica, con una pacifica e
cortese reciproca neutralità: l'insegnante di religione insegni la sua
religione; l'insegnante di filosofia insegni la sua filosofia, e tutti pari. Ma
il problema riguarda, invece che l'insegnamento della religione e quello della
filosofia, due modi diversi di concepire l'insegnamento della filosofia, cioè
due diverse concezioni della filosofia, o, meglio, due diverse concezioni della
verità, diverse tanto, che non possono convivere pacificamente fra loro, né
stare insieme senza distruggersi a vicenda. E se poi anche l'insegnamento della
religione finisce con l'essere implicato in questo conflitto, ciò accade pei
diversi effetti che quelle due concezioni producono, e non possono fare a meno
di produrre, nel modo stesso di concepire la religione. Ma quali sono
queste due diverse concezioni in conflitto? L'abbiamo detto; anzi, lo dicono e
lo ripetono a sazietà coloro che formulano, contro la filosofia ispirata al
cattolicesimo, quelle obiezioni che or ora abbiamo sentito. Possibile mai che
la verità debba essere qualcosa di fisso, di statico, d'immobile, definibile
una volta per tutte e racchiusa, per tutti i secoli, entro i ferrei cancelli di
una determinata dottrina? Ma la verità è invece, progresso, sviluppo, divenire:
e, anzi, lo stesso sviluppo e divenire del pensiero che incessantemente si
accresce su sé medesimo, creando sempre nuovi sistemi e nuove dottrine, ognuna
delle quali è un momento e un aspetto immortale del vero, ma nessuna delle
quali può aspirare ad esaurire in sé la verità tutta quanta. Ecco dunque
le cose singolarmente semplificate. Verità fissa ed immobile da una parte;
verità in continuo sviluppo dall'altra; verità trascendente, da una parte,
verità immanente, e identica col divenire stesso del pensiero dall'altra;
verità oggettiva, che il pensiero filosofico può soltanto scoprire e
riconoscere qual è, da una parte; verità soggettiva, eternamente creata dal
pensiero, dall'altra. Per rendere, se non più semplice, più chiara questa antitesi,
molti amano ricorrere alla storia della filosofia e impersonare in alcuni nomi
di filosofi celebri quelle due diverse concezioni. Kant ed Hegel da una parte e
San Tommaso dall'altra, quasi due mondi l'un contro l'altro armati, la
filosofia moderna contro il medioevo e la filosofia scolastica. Contro, si
capisce, per modo di dire poiché, chi crede tutti i sistemi filosofici
veri, non può, senza contraddizione, dar l'ostracismo a San Tommaso e alla
scolastica, ma deve considerarli essi stessi come un “momento” della immortale
verità. E pure Kant ed Hegel per modo di dire, poiché chi pensa la verità come
un continuo sviluppo non può poi, senza darsi la zappa sui piedi, offrirci a
modello un sistema filosofico, sia pure il kantiano o l'hegeliano, a preferenza
di un altro. Kant ed Hegel sì, ma come li pensiamo e li ricostruiamo noi. Kant
ed Hegel con tutti i filosofi venuti dopo, compreso colui che adesso parla o
scrive nel loro venerando nome. Comunque, questo appello alla storia della
filosofia, se anche non riesce molto a chiarire - e, anzi, vedremo che
intorbida - la questione riesce tuttavia ad ottenere un altro effetto di
maggior vantaggio immediato. Quello di far apparire manifestamente vera la
concezione della verità alla quale si vuol dare il nome di “moderna”, e, per
necessaria conseguenza, manifestamente falsa la concezione opposta, quella
tomistica, scolastica o “cattolica” che si voglia dire. Secondo tale concezione
infatti, una sola filosofia sarebbe vera, quella di san Tommaso; tutte le altre
filosofie, da San Tommaso in poi, costituirebbero un cumulo di errori, degni
soltanto della più lacrimevole compassione. Per altra parte, al filosofo che si
proclamasse oggi scolastico e cattolico, non rimarrebbe altra missione che
quella di ripetere alla lettera San Tommaso, e di concentrare tutto l'universo
nelle sacre pagine delle due Somme, alfa ed omega d'ogni sapere, o, piuttosto,
colonne d'Ercole oltre le quali non è permesso spingere la ricerca, nell'oceano
della verità. Di modo che il filosofo cattolico verrebbe a trovarsi in questa
imbarazzante condizione: dover torcere inorridito lo sguardo dalla storia della
filosofia, diventata per lui un enigma indecifrabile (un catalogo d'errori non
è una storia) e di dover, insieme, rinunziare a qualsiasi iniziativa
scientifica nel campo della filosofia pura. Viceversa il filosofo “moderno” non
ha pregiudizi quanto a storia della filosofia, che può intendere e ricostruire
appieno appunto perché può e sa simpatizzare con tutti i sistemi anche più
opposti, persuaso di trovarvi sempre un'anima di verità, e in filosofia pura
può dar sfogo a tutte le ardite idee e intuizioni geniali, significando
liberamente quanto una prepotente ispirazione gli detta dentro e costruendo, se
così gli paresse, anche un nuovo sistema al giorno, con immenso vantaggio per
le magnifiche e progressive sorti del genere umano. Con questo, gli applausi
delle platee sono assicurati al libero filosofo moderno, e i fischi e
gl'improperi ricacciano fra le tenebre medioevali colui che avesse lo sconsigliato
ardire di voler essere al tempo stesso cattolico e filosofo, o “scolastico”,
“tomista” e filosofo. Ci sia permessa, prima di procedere oltre, una
semplice osservazione. Anche a proposito di questo piccolo dramma, o di questa
piccola commedia, dove si fanno muovere con tanta disinvoltura i personaggi del
filosofo moderno e del filosofo cattolico, occorre ricordare che le parole sono
parole e gli argomenti sono argomenti. I termini di “modernità”, di “libera
ricerca”, di “ progresso del pensiero” e simili, fanno sempre un grande
effetto, anche quando la realtà che essi designano sia per avventura - e ciò
accade non poche volte - assai mediocre e meschina. Tutti vogliono essere, in
questo mondo, spregiudicati, liberi, moderni e progrediti, e hanno a noia di
sentirsi chiamare oscurantisti, arretrati e schiavi, così come tutti vogliono
essere intelligenti e civili, e hanno grandemente a noia di sentirsi chiamare
stupidi o barbari. È un troppo naturale effetto dell'amor proprio, sia negli
uomini che nelle dottrine e nei sistemi da essi escogitati. Ma appunto perché è
un naturale effetto dell'amor proprio, bisogna diffidarne; e come a chi ci
venisse innanzi affermandoci di esser molto intelligente e civile noi non
crederemmo già sulla parola, ma domanderemmo le prove della sua
asserzione, e vorremmo sapere quali fatti e quali opere gli danno il diritto di
ambire a quei titoli onorevoli, così ad una dottrina che ci afferma d'esser
progredita e libera, moderna e spregiudicata, noi non possiamo credere ciecamente,
ma dobbiamo domandare quali prove effettive di libertà, di progresso e di
spregiudicatezza, essa sia in condizione d'offrirci. II. Il procedimento
adoperato, di solito, dagli avversari per fare apparire la filosofia dei
cattolici, e, sopratutto, la filosofia tomistica e scolastica, come retriva e
non all'altezza dei tempi, è un procedimento così artificiale ed artificioso
che chiunque si provasse ad usarlo per valutare qualunque altra filosofia non
scolastica né cattolica, si attirerebbe certo un coro di vituperi. E se queste
parole, di solito adoperate a indicare cosa molto diversa da quella che
vogliamo dir noi, non corressero il rischio d'esser fraintese, diremmo che tale
procedimento è assai simile a quella “illusione cinematografica” del pensiero per
la quale si pensa d'aver afferrato e ricostruito un organismo vivente quando se
ne sono raccostate alcune immagini parziali e frammentarie. E, infatti,
tutto l'equivoco si fonda su questo: quando alcuno dice di ritener vera una
filosofia, sia essa scolastica o antiscolastica, religiosa o irreligiosa,
idealistica o positivistica, dogmatica o scettica e così via, è costretto a
dirlo con frasi e parole le quali ci danno, per forza, di essa soltanto
un'immagine approssimativa e inadeguata. E tanto più approssimativa ed
inadeguata, quanto meno è possibile condensare in una breve formula verbale,
qual è quella per cui uno si dichiara scolastico, materialista, idealista o
naturalista ecc., ciò che è veramente essenziale nella filosofia: gli argomenti
coi quali essa stabilisce e dimostra le proprie tesi. E questo stesso carattere
di approssimazione e di inadeguatezza si estende, in un certo senso, a tutte le
parole, e a tutte le frasi, e a tutti i libri che sono stati scritti per
esporla e svolgerla, ognuno dei quali, per importante che sia, non si può mai
dire che esaurisca in sé tutta quella dottrina che pure insegna, o possa
considerarsene un equivalente materialmente completo. Tanto è vero che da che
mondo è mondo si continua a scriver libri per esporre e difendere le varie
dottrine filosofiche, e ancora non s'è finito, né si può finire. Poiché una
dottrina filosofica è un insieme di concetti e di ragionamenti: e benché
concetti e ragionamenti si esprimano, certo, con parole e con libri, e si
possano, magari, riassumere e indicare con brevi formule, pure, non i libri e
le parole o le formule, ma i concetti e i ragionamenti costituiscono l'essenza
della dottrina. E chi, perciò, la dottrina vuol capire, non deve fermarsi alle
parole e alle formule, ma deve, mediante esse, risalire ai concetti e ai
ragionamenti, cioè compiere in sé quell'atto dell'intelletto pel quale si
costituisce e si dimostra una determinata dottrina: che non è, evidentemente,
lo stesso atto col quale si ripete materialmente una formula, o s'impara a
memoria un libro. Segue da ciò che quando un filosofo vi dice “siate
idealisti”, “siate scettici”, “siate cattolici” o “siate scolastici”, e vi
scrive un libro per dimostrarvelo, o vi indica alcuni classici della filosofia
quali Hegel o Sesto Empirico, Aristotele o San Tommaso, come quelli coi quali
il suo pensiero meglio si trova d'accordo, non può essere davvero così sciocco
ed insensato da volervi indurre solo a ripetere pappagallescamente “siamo
scolastici” o “siamo scettici”, o a ripetere tal quali le sue parole, e ad
imparare a memoria i libri di Hegel o di Sesto Empirico, di Aristotele e di San
Tommaso. Ma pretende, invece, che i suoi uditori o lettori, da quelle formule e
da quei libri risalgano ai ragionamenti in essi contenuti, e, mediante u n
positivo lavoro del loro intelletto, li riscontrino veri e se li approprino,
facendo così un'opera di ricerca che è certamente originale, benché riesca
(nihil sub sole novi!) a conclusioni già scoperte da altri pensatori, siano
essi Hegel o Sesto Empirico, Kant o San Tommaso. Né questo riuscire a
conclusioni già scoperte da altri menoma in nulla l'originalità e la libertà
della ricerca; giacché la libertà del pensiero non consiste punto nel non aver
nulla innanzi a sé, ma solo nel non accettare nulla che non sia dimostrato
vero. E quando una dottrina è dimostrata vera, la libertà dell'intelletto è
garantita, in altro non consistendo tale libertà se non nell'esser fatto
l'intelletto per conoscere il vero, e quindi nell'esser libero e attivo sol
quando il vero effettivamente conosce. Ma che cosa fanno, rispetto alla
scolastica, e quindi rispetto al cattolicesimo, i critici poco esperti, o male
intenzionati? Credono, o mostrano di credere, che i filosofi scolastici siano,
essi soli, così insensati da far consistere la loro filosofia, non nel pensiero
ma nelle parole, sì che, presso i soli cattolici esser “scolastici” significhi
non già compiere quell'effettivo e originale processo di pensiero pel quale
ognuno può riscontrare col proprio intelletto la verità della filosofia
scolastica, ma solo mandare a memoria e ripetere, senza mutare una virgola,
l'una e l'altra Summa di San Tommaso. Onde, la facile accusa agli scolastici
d'esser ripetitori pedissequi e di voler, perciò, diseducare il pensiero umano,
riducendo ogni ricerca scientifica alla meccanica fatica di ripetere frasi, o
libri altrui, con quelle pessime conseguenze per l'educazione e per la scuola
che già abbiamo udito deplorare. Accusa alla quale, evidentemente, non si
può rispondere altro che negando l'arbitraria e cervellotica supposizione dalla
quale è partita. Nessun filosofo scolastico, infatti, s'è mai sognato di voler
indicare col termine “scolastica” soltanto la parola e non la cosa, i libri, e
siano pur di San Tommaso, e non la dottrina in essi contenuta, le conclusioni,
e non il concreto processo di pensiero col quale ci si arriva. Nessun filosofo
scolastico, quando dice agli altri “siate scolastici” vuol loro imporre la
irragionevole schiavitù di una dottrina senza dimostrazione e senza ricerca.
Nessun filosofo scolastico, infine, ha mai creduto che la sua filosofia fosse
altro che un concreto processo di pensiero, nel quale certe tesi si dimostrano
vere alla luce della ragione e dell'esperienza e mediante lo sforzo originale
di colui che studia. Il quale, poiché si tratta appunto d'una dottrina e non
d'un pezzo di legno, non potrà certo afferrarla e mettersela in tasca così
com'è, ma dovrà bene arrivarci nell’unico modo possibile, cioè pensando e
ripensando, e non smettendo mai di pensare, argomentando, inducendo, deducendo,
sillogizzando, dialettizzando e così via; che sono precisamente, se non
c'inganniamo, i modi e le forme attraverso le quali il pensiero umano afferma
la propria attività e originalità, garantendosi di conoscere il vero, e respingendo
da sé il falso. Né si vede in che cosa, sotto questo aspetto, la dottrina
scolastica differisca dalle altre dottrine, idealistiche o positivistiche,
materialistiche o scettiche. Che se appare diversamente, è sempre per quel tale
equivoco fra il pensiero e le parole, sul quale gli avversari della scolastica
si compiacciono d'insistere. Infatti, una dottrina, come or ora s'è
visto, la si formula in parole e in libri che, naturalmente, in un primo tempo,
e a chi li guardi dall'esterno, debbono per forza apparire un puro dato,
esterno anch'esso; esterno, ben inteso, finché colui che esamina la
dottrina proposta non sia in condizione di passare all'interno, cioè di
riscontrare vera, mediante la propria ricerca, la dottrina medesima, persuadendosi
così anche della bontà ed esattezza di quelle espressioni, di quelle formule,
di quei libri che prima gli erano apparsi qualcosa di arbitrario e di
indimostrato. Ma questa, se così vogliamo dirla, imperfezione e limitazione del
pensiero umano che non può afferrar la verità immediatamente e tutto in una
volta, ma è costretto a raggiungerla per gradi, non ricade certo sulla sola
filosofia scolastica, bensì appartiene a tutte le dottrine, idealistiche o
positivistiche, materialistiche o scettiche che siano. Le quali, debbono pure
anch'esse formularsi in parole e in libri che, in un primo tempo appaiono, per
forza, un puro e indimostrato dato esterno, finchè colui che le esamina non è
in condizione di dimostrar vera la rispettiva teoria idealistica o positivistica,
materialistica o scettica. Il che è ancor più manifesto quando si tratta
della scuola e dello scolaro; che, appunto perché scolaro non è ancora in tali
condizioni da poter riscontrare da sé e colle sue sole forze la verità della
dottrina insegnata e deve, ancora per un pezzo seguitare a imparar libri e
definizioni e formule delle quali non scorge, o scorge solo imperfettamente la
ragione. Che se in questo fatto cosi semplice si vuol trovare a tutti i costi
una oppressione e un vincolo alla libertà del pensiero umano, allora non
soltanto la scolastica, ma anche ogni altra dottrina, idealistica o
positivistica, materialistica o scettica e, magari, eclettica, si dovrà dire
oppressiva e restrittiva per la libertà del pensiero, e perciò, in quanto tale,
oscurantista e retriva, di fatto, anche se a parole si dichiara svisceratamente
amica della libertà e del progresso. Non si vede infatti perché il proporsi
come testo di studio San Tommaso debba esser più oppressivo, o restrittivo che
proporsi Kant, Hegel o Ardigò, e perché l'imparare definizioni e formule
scolastiche debba esser più avvilente che imparare definizioni o formule
positivistiche o idealistiche, vero essendo che in ogni caso ci s'imbatte nel
solito dilemma dal quale non è dato trovare una via d'uscita. O il presentare
una dottrina restringendola in alcune formule e in alcuni libri ed autori, che
in un primo tempo appaiono, necessariamente, allo studioso come puri dati
esterni da accettarsi solo sull'autorità altrui (salvo a ottenerne, in un
secondo tempo, una compiuta dimostrazione) è ammissibile, oppure non lo è. Se è
ammissibile, nulla ci vieta d' insegnare la scolastica, così come altri insegna
l'idealismo o il positivismo o di prendere per testo San Tommaso così come
altri può prendere Hegel o Spencer. Se non è ammissibile, la scolastica
diventa, certo, una dottrina oppressiva, incompatibile con l'attività e la
libertà del pensiero umano, ma anche l'idealismo, il positivismo, lo
scetticismo e persino l'eclettismo diventano dottrine altrettanto retrive e
incompatibili con l’attività e la libertà del pensiero umano. Ciò è tanto
vero, che, in ogni tempo, ci sono stati autori e scrittori più coerenti degli
altri, i quali, per essere imparziali e non far danno a nessuno, hanno
addirittura dichiarato oppressiva, antiquata e insopportabile la filosofia
stessa, a qualsivoglia tendenza o dottrina appartenente, e si sono vantati di
condurre liberamente la loro vita intellettuale, fuori dalle ristrette gabbie
delle dottrine e dei sistemi. Pretesa assurda certo, poiché, come è noto a
tutti, anche il dire di non credere nella filosofia è fare della filosofia, e
anche il dire di non avere un sistema è un sistema, come lo scetticismo,
l'eclettismo o qualche altro tipo simile. Ma pretesa coerente, anzi
coerentissima con l'assurdo medesimo dal quale è partita, poiché se insegnare
una qualsiasi dottrina rigorosamente definita e formulata vuol dire opprimere
il pensiero, il miglior modo, anzi, l'unico modo di non opprimere il
pensiero sarà addirittura quello di non formulare né insegnare mai
nessuna dottrina, né idealistica, né scolastica, né materialistica né di altro
indirizzo. Soluzione che sarebbe l'ideale dell'economia e della semplicità per
filosofi, scienziati, legislatori, maestri e scolari, se solo non avesse, come
or ora s'è chiarito, il difetto d'essere inattuabile. * * * Colla pura e
semplice denunzia di un equivoco verbale cadono, dunque gran parte delle
irragionevoli e ingiustificate antipatie contro la filosofia scolastica. La
quale non è un insieme di frasi o di formule da ripetere meccanicamente, ma è
un vivente organismo di pensieri da pensare; così come appunto sono, o vogliono
essere, tutti gli altri sistemi filosofici. Una dottrina che, lungi dal
pretendere d'imporsi irragionevolmente o arbitrariamente al pensiero umano, non
vuole essere accettata altro che mediante argomenti e dimostrazioni. È bene
ricordarlo, poiché oggi certe nozioni sono grandemente obliate anche da coloro
che per professione ed ufficio avrebbero l'obbligo di meglio conoscerle. La filosofia
scolastica pretende di essere accettata unicamente perché vera e dimostrabile
tale con argomenti filosofici; e dimostrabile a chiunque, anche a chi non creda
punto in una rivelazione religiosa, anzi a chi non sappia neppure se una
rivelazione religiosa ci sia o no, sia possibile o meno, tutte questioni che si
possono trattare dopo, e non prima che l'indagine filosofica abbia saldamente
stabilito e dimostrato vera una certa concezione della realtà. Questo spiega
perché sia molto meglio e più conforme alla precisione scientifica parlare di
filosofia “scolastica” che di filosofia “cristiana” o “cattolica”, contenendo
questi ultimi termini un riferimento alla rivelazione religiosa e alla teologia
che non è ancora ammissibile, né dimostrabile, durante la pura ricerca
filosofica, laddove il termine “scolastica” ha il vantaggio di definire
direttamente la filosofia dal suo stesso contenuto dottrinale o speculativo,
senza introdurre altri elementi. Che se, ciò nonostante, è gloria della
scolastica aver adoperato e adoperare tuttavia anche l'altro metodo, ed essersi
servita della Rivelazione cattolica e della teologia per controllare le sue
tesi, l'uso di questo secondo metodo non ha mai infirmato l'uso del primo, che
vale durante la ricerca filosofica e prima di aver saputo se c'è ed è possibile
una rivelazione religiosa, così come l'altro vale dopo averlo saputo ed essersi
persuasi, cogli argomenti e della filosofia e della teologia ”fondamentale” o
apologetica, che una rivelazione è possibile, e c'è, ed è proprio la
rivelazione cattolica. III. Risulta, dunque, evidente da quel che si è
detto fin qui che per insegnare filosofia scolastica da parte del maestro, come
per apprenderla da parte del discepolo occorre precisamente tanto spirito
inventivo ed originalità quanta ne occorre per insegnare od apprendere
qualunque altro sistema filosofico, e che, perciò il meccanicismo, il
mnemonismo, il dogmatismo irragionevole e l'oscurantismo sono da temersi
nell'insegnamento della filosofia scolastica appunto quanto sono da temersi
nell'insegnamento di ogni altra filosofia, né più, né meno. Questo significa
che non c'è un criterio estrinseco col quale si possa decidere su due piedi
quali filosofie siano per riuscire, nell'insegnamento, oppressive, e quali
liberatrici; ma che un tale criterio è soltanto interno, in altro non
consistendo che nella maggiore o minore verità delle filosofie stesse.
Fra le quali, secondo quanto già abbiamo avvertito prima, solo una dottrina
vera sarà sul serio liberatrice, e le altre riusciranno sempre e per forza
oppressive, dogmatiche e oscurantiste; poiché solo il vero può imporsi
all'intelletto dello scolaro con l'intima forza della persuasione, senza
ricorrere a minacce, lusinghe, o costrizioni esterne, alle quali, invece,
debbono necessariamente ricorrere i sistemi erronei che riescono, dunque,
sempre malamente dogmatici e oppressivi, e portano, perciò, nella scuola le
cattive conseguenze che si volevano addossare alla scolastica, qualunque sia la
loro etichetta di modernità o l'altisonante affermazione di libertà colle quali
si presentano al pubblico. Ma con ciò eccoci ritornati - sembra - al
punto donde eravamo partiti. Poiché - si dirà - anche col massimo buon volere,
e anche deposto ogni ingiustificato pregiudizio contro la scolastica, è certo
che proprio in questa diversa concezione del quando e a quali condizioni debba
ritenersi vera una filosofia sta la differenza più notevole fra il sistema
scolastico e il sistema moderno, e il conseguente pericolo che la scolastica
introdotta nell'insegnamento porti quei frutti di oppressione e di scarso
spirito scientifico che si temevano. Infatti, s'era già detto: per la
scolastica la verità è qualcosa di già fatto, ed esistente fuori del pensiero
che la pensa, dunque: una sola dottrina è vera, e tutte le altre debbono per
forza esser false. Per il pensiero moderno, invece, la verità e la realtà
medesima coincidono con l'atto stesso del pensare, perciò cambiano, si
svolgono, si accrescono, collo svolgersi del pensiero e, dunque, non una sola
dottrina ma tutte le dottrine sono vere, in quanto ognuna di esse è sempre un
atto del pensiero che si crea ogni volta la sua verità. E rieccoci, allora, a
quelle tali conseguenze tanto deprecate. Poiché, mentre il filosofo scolastico
non potrà che insegnare ai suoi discepoli una sola dottrina, la sua, il
filosofo moderno potrà non solo insegnare tutte le dottrine che la storia della
filosofia abbia mai registrato, ma potrà, anzi, dovrà incitare il discepolo a
“crearne” delle nuove. E va benissimo. Sennonché, a un esame più attento,
questo modo di ragionare che sembra correr cosi piano e facile, si rivela
almeno tanto superficiale quanto il precedente. Poiché, in primo luogo, esso
cela in sé una proposizione non dimostrata né dimostrabile, e cioè che il gran
numero dei sistemi filosofici insegnati nella scuola sia un bene; e che
coincida colla libertà e col progresso del pensiero. Allo stesso modo, si
direbbe scherzando, ragionava quel bravo villico che, convinto che se una
pillola faceva bene due avrebbero fatto meglio e tre meglio ancora, pensò di
guarir subito col pigliar tutte insieme le pillole che gli aveva ordinato il
dottore, ma invece di guarire morì, contrariamente alle sue poco sagge
previsioni. I sistemi filosofici - se si preferisce un paragone meno malinconico
- non sono già come i polli, le pernici, i poderi o i biglietti da mille, che
più se ne ha meglio è. E chi crede che l'insegnamento di molte dottrine
filosofiche coincida per lo scolaro con l'originalità, col progresso e colla
libertà dello spirito, mostra d'aver confuso due cose fra loro tanto diverse
come il “progresso” e il “mutamento”. Pregiudizio, in verità, molto diffuso ai
giorni nostri, e che nasce dall'aver inconsapevolmente confuso fra loro due
ordini di realtà così diversi come il materiale e l'ideale. Se, infatti, una
dottrina filosofica, poniamo la scolastica, fosse un campo o un orto, si
avrebbe ragione di dire che chi si rinchiude in essa, rinunzia a tutto lo
spazio ch'è al di là dei suoi confini, come il misantropo che se ne sta dietro
i cancelli di casa sua e non vuol mettere il naso fuori. Ma una dottrina non è
un campo o un orto, bensì un atto immateriale del pensiero, e in quanto
tale non ha altri confini che il suo riuscire o meno a colpir la verità. E se
riesce a coglierla, essa non si lascia fuori più niente, né ha bisogno di
cercare altrove che in se stessa i motivi d'un infinito progresso e sviluppo:
ché essendo la verità per sua natura infinita, non c'è mai un momento nel quale
si possa dire d'averne esaurito la conoscenza; ed essendo la filosofia un atto
immateriale, non viene mai il momento in cui si possa metter da parte in un
cassetto per riprenderla meccanicamente; ma sempre fa d'uopo ripensarla, cioè
pensarla davvero, con una attività la cui originalità e spontaneità è
inesauribile. Approfondire la verità, questo è il progresso. Per contro, è
proprio l'errore che ci presenta una indefinita molteplicità e un continuo
cambiamento di sistemi; poiché, dove la mente non può acquietarsi nel
tranquillo ritmo progressivo d'una dottrina vera, è costretta a cercare un
simulacro di progresso nel mutamento, e a ripagarsi colla illusoria ricchezza
dei molti sistemi, della effettiva miseria inerente alla loro falsità. Per cui
dal momento che la verità è una e gli errori sono molti, le parti vanno
invertite e quei filosofi che si vantano di permettere, anzi, di introdurre
nella scuola molte dottrine, o non sanno quel che si dicono, o si vantano d'una
cosa assurda com'è insegnare l'errore e mettere al bando la verità. E
viceversa, quei filosofi che vogliono nella scuola una sola dottrina, non solo
fanno onore alla loro intelligenza di filosofi, ma sono, essi, gli unici
fautori d'uno spirito sanamente progressivo e inventivo qual è quello che può
aversi dalla conoscenza della verità. Ma qualcuno può ancora obbiettarci:
il vostro ragionamento ha il solito difetto: presuppone arbitrariamente la
vostra concezione della verità ed esclude la nostra. Si capisce che se la
verità è tale che possa esser colta da una sola dottrina ad esclusione di tutte
le altre, voi avete ragione nel voler che quella sola dottrina venga insegnata.
Ma, e se la verità non fosse tale che potesse coglierla una sola dottrina, ma
si trovasse in tutte le dottrine, come appunto sosteniamo noi? Non avremmo,
allora, ragione noi di sostenere che la presenza, nella scuola, di tutti i
principali sistemi filosofici, sia utile e necessaria? La risposta a
questa obiezione non può essere che una sola: non esistono due concetti
differenti della verità, benché esistano le parole colle quali ci si illude di
esprimere un concetto della verità diverso dal nostro. Ma sono vuote parole; e
la dimostrazione ce la forniscono gli avversari stessi. Quando essi dicono,
infatti, di non creder vera una teoria filosofica ad esclusione delle altre, ma
di tener vere tutte le teorie che la storia della filosofia registra, che cosa
fanno essi mai se non sostenere e difendere come vera una loro teoria
filosofica particolare? Dire che la verità è in tutti i sistemi filosofici, non
è forse sostenere una teoria filosofica? È il solito argomento contro lo
scetticismo e l'eclettismo: filosofie che proclamano, sia di non creder vera
alcuna teoria filosofica, sia di ammetterle tutte, e intanto cominciano, sotto
mano, col creder vere se stesse e solo se stesse. Ora, la contraddizione è
evidente. Ritener vere tutte le filosofie vorrebbe dire ritener vere anche
quelle filosofie che affermano esserci una sola filosofia vera e tutte le altre
esser false. Ma ammetter queste filosofie vorrebbe dire distruggere appunto quella
nozione della verità alla quale tanto si tiene, e che esclude assolutamente
potersi sostenere la verità di una sola filosofia, cioè distruggere lo stesso
principio eclettico, o idealistico. Onde, una delle due: o l'idealismo,
l'eclettismo e gli altri sistemi dello stesso tipo restano fedeli al loro
programma di ammetter vere senza esclusione alcuna tutte le filosofie, e si
uccidono colle proprie mani, perché debbono tener vero anche il concetto della
verità opposto al loro. Oppure ammettono tutte le filosofie, ma eccettuate
quelle che sostengono un concetto della verità opposto al loro, e allora la
loro famosa tolleranza e larghezza di vedute è finita, ed essi sono
liquidati come idealismo od eclettismo, avendo dimostrato col fatto che la
verità non sta punto in tutti i sistemi filosofici, ma solo in alcuni, e
precisamente in quelli che s'accordano con l'idealismo o con l'eclettismo,
cioè, in ultima analisi, in un sistema solo. La libertà, dunque, che la
filosofia moderna pensa di garantire in fatto di sistemi, è molto simile alla
libertà di certe democrazie, ove ognuno è libero di pensarla a suo modo purché,
però, non dissenta in nulla dal pensiero dei governanti. Libero ognuno di
scegliersi il sistema filosofico che vuole, purché questo sistema sia l'idealistico,
o almeno s'accordi in tutto col criterio fondamentale dell'idealismo: essere la
verità in divenire continuo ed essere, perciò, vere tutte le filosofie che lo
spirito umano ha escogitato. Ché fuori di questo concetto non v'è salvezza
possibile, e le filosofie che non lo ammettono, non sono filosofie, ma aborti
del pensiero, non vanno neppure presi in considerazione, anzi, vanno seppelliti
sotto l'unanime disprezzo della gente ben pensante. Ora, quando si è stabilito
ciò che in un sistema filosofico è più importante, cioè il concetto della
verità, tutto il resto ne viene di necessaria conseguenza, e si può ben lasciar
libero lo studioso di dedurlo in un modo piuttosto che nell'altro, di fregiarlo
con un titolo piuttosto che con l'altro, e di compiacersi, così, della propria
intelligenza ed originalità inventiva. Allo stesso modo, per ripigliar
l'esempio di prima, poco importa che in quelle tali democrazie la gente voti in
un modo o nell'altro ed abbia l'una o l'altra costituzione - tutte cose intorno
alle quali, anzi, è bene che ciascuno si diverta a discutere a perdifiato,
ricavandone un gran senso della propria dignità e importanza - purché, alla
resa dei conti, siano sempre gli stessi uomini politici che detengono
effettivamente il potere. Così la storia della filosofia che i pensatori
moderni si vantano d'insegnare con tanta larghezza e liberalità, si risolve in
una illusione. Poiché, sotto l’apparenza di tutti i sistemi filosofici che la
mente umana ha escogitato, da Talete ai giorni nostri, la dottrina insegnata è
sempre una sola: l'idealismo, il concetto della verità come coincidente collo
sviluppo stesso del pensiero umano, e come escludente qualsiasi altra realtà
che il pensiero umano non sia. Ed è ben vero che si parla di Talete e di Platone,
di Aristotele e di S. Tommaso, di Kant e di Hegel, di Stuart Mill e di Spencer,
e che ognuno vi può spaziare entro i confini del materialismo e del platonismo,
della scolastica e del kantismo, del positivismo e dell'agnosticismo e via
dicendo. Ma si tratta di un dramma dove i personaggi si riducono ad uno solo,
benché volta a volta variamente travestito, e dove Talete e Platone, Aristotele
e San Tommaso, Kant ed Hegel, Stuart Mill e Spencer, sono, volenti o nolenti,
costretti a rappresentare un'unica parte, quella del filosofo idealista; ora
dell'idealista in germe, più tardi dell'idealista consapevole fino a metà, poi
dell'idealista evoluto e progredito, dopo ancora, dell'idealista che nega se
stesso, ma prepara così la strada a un nuovo e più moderno idealismo, ma in
ogni caso, sempre e soltanto, la parte del filosofo idealista. Poco importano
le forme, circa le quali, anzi, si può concedere la massima libertà, purché la
sostanza sia sempre quella. Ma che volete farci? - sembra di sentire
rispondere un filosofo idealista - Dal momento che la dottrina idealistica è la
vera e che l'intelletto umano non può, per quanti sforzi faccia, appagarsi se
non del vero, necessariamente in tutti i sistemi escogitati dalla mente umana
per risolvere i nostri problemi si ritroverà, per forza, qualche cosa
dell'idealismo, cioè della verità. Noi, non facciamo altro che metterlo in
luce. - Ah, dunque eccovi colti colle mani nel sacco! Anche voi credete una
dottrina vera, cioè conforme all'intima costituzione della realtà (e sia pur
questa realtà la sola storia) e mediante essa vi assumete il diritto di
giudicare tutti gli altri sistemi. Orbene, che cosa farebbe di diverso la più
intollerante, tagliente ed autoritaria filosofia scolastica? Che cosa, se non
precisamente ritener vera una dottrina e giudicare con essa tutte le altre? Che
cosa, se non mostrarci che anche tutte le altre dottrine, in quanto sono
davvero pensabili, e, cioè vere, e non si riducono a parole e fantasmi
dell'immaginazione in servizio di bisogni sentimentali e pratici, sono,
parzialmente o totalmente, implicitamente o esplicitamente, consapevolmente o
no, conformi alla scolastica stessa? Che cosa, se non configurare tutta la
storia della filosofia, in quanto storia della scienza filosofica, e non delle aberrazioni
o dei bisogni fantastici, passionali e pratici dello spirito umano, come
preparazione, svolgimento, decadenza, rifioritura ecc. della filosofia
scolastica? Ciò posto, non si vede in che cosa, anche per questa parte,
la posizione della scolastica sia inferiore a quella dell'idealismo, o a quella
di qualsiasi altro sistema filosofico che si affermi vero e voglia sostenere la
propria verità coi mezzi consentiti dalla ragione. Né si vede in che cosa la
scolastica meriti più di qualsiasi altro sistema l'accusa d'intolleranza, di
dogmatismo o di oscurantismo, dato che una tale accusa, fallitole il concetto
d'una verità omnibus, è costretta a poggiarsi su elementi puramente
accidentali. Quali sarebbero, ad esempio, il fatto che i sistemi filosofici riconosciuti
vicini alla verità sono in maggior numero per l'idealismo che per la
scolastica, o che sono nati in epoche cronologicamente diverse, poniamo nel
secolo XIII o XIV anziché nel XVIII o nel XIX. Circostanze che non fanno né
caldo né freddo, poiché la verità non ha nulla da spartire colla quantità o
colla cronologia, né si vede perché debba appartenere al secolo XIX anziché al
XIII, o perché debba esser posseduta, in forma scientificamente adeguata, da
molti sistemi anziché da pochi o perché un professore tedesco in parrucca e
codino debba averla vista meglio d'un frate domenicano colla sua brava tonaca e
cintola. E ciò anche a prescindere da apprezzamenti di fatto, i quali ci
mostrerebbero che la scolastica ha i suoi rappresentanti nel secolo XIX non meno
che nel secolo XIII; e grandi - usiamo espressioni volutamente moderatissime -
non meno di qualsiasi altro rappresentante di qualsiasi altra modernissima
“novità” filosofica idealistica, materialistica, pragmatistica e così
via. Supponiamo che qualcheduno dicesse: Signori, io vi dimostro che
l'arte di G. D'Annunzio, o di F. T. Marinetti è superiore a quella d'Omero e di
Pindaro. Infatti quest'ultima è arte antica e quell'altra è arte moderna: ora,
dai tempi antichi, dei Greci, ad oggi si sono effettuati innegabilmente dei
progressi; dunque, anche l'arte d'oggi deve essere in progresso su quella d'una
volta. Un tale ragionamento ci farebbe, certo, assai ridere né vi sarebbe
scolaretto che non ne sapesse scoprire l'errore pel quale, dal fatto che
un'opera d'arte è venuta dopo un'altra, si vorrebbe dedurre ch'essa è anche
migliore dell'altra, e dai progressi dell'umanità, poniamo nelle scienze
naturali, nella vita civile e nella produzione economica, si vorrebbero
inferire i suoi progressi in un campo del tutto diverso qual è l'artistico.
Ora, lo stesso errore che è derisibile applicato alla storia dell'arte, non è
meno derisibile se applicato alla storia della filosofia ove il professore X od
Y, autore di un novissimo sistema, dovrebbe saperne più di Aristotele o di San
Tommaso, sol perché è nato tanti secoli dopo. Si crede di negare tale analogia
fra la storia della filosofia e quella dell'arte con l'osservare che l'arte è
l'espressione del temperamento individuale dell'artista, che è, appunto come
temperamento individuale, non trasmissibile, e perciò esclude il progresso da
uomo a uomo e da tempo a tempo, mentre la filosofia è la conoscenza d'una
verità universale ed astratta, che può e deve, quindi, essere trasmessa e
progredire. Ma si dimentica che progresso possibile non vuol dire progresso
reale, e che anzi il progresso filosofico, il quale sarebbe necessario e
ineluttabile se l'uomo fosse solo puro intelletto come gli angeli, ha da fare i
conti, nelle attuali condizioni umane, proprio colle attitudini, coi bisogni,
colle tendenze, colle passioni, cioè, in una parola, col “temperamento” del
filosofo, che è tanto personale, intrasmissibile, e perciò non suscettibile di
passare, progredendo, da individuo a individuo, quanto il temperamento
dell'artista e che influisce sulla conoscenza della verità in filosofia, quanto
il temperamento dell'artista sulla produzione dell'opera d'arte. E con
conseguenze assai più gravi, poiché se all'arte basta riuscire sincera
espressione d'un temperamento per essere arte, e se anche temperamenti mediocri
possono riuscire artisti, senza bisogno d'arrivare all'altezza di Omero o di
Dante; alla filosofia non basta essere espressione anche sincera d'un
temperamento personale per riuscir vera, anzi, il più delle volte la mediocrità,
la povertà, le scarse doti del temperamento individuale d'un filosofo avranno
per conseguenza il non fargli trovare la verità e il fargli produrre un sistema
sincero e personale sì, ma falso; onde segue che il filosofo, se vuol esser
certo di non sbagliare deve sempre batter l'ala vicino alle altezze di Platone,
d'Aristotele o di San Tommaso, poiché, nel suo caso la mediocrità è la morte. E
la diversità notata sopra tra l'arte e la filosofia vale solo in questo: mentre
l'artista deve esser grande lui e non ammette sostituzioni, il filosofo, se non
è grande lui, può andare a scuola dai grandi e ricevere da loro quella verità
che colle sole sue forze non avrebbe saputo scoprire. In ogni caso, non
c'è da meravigliarsi che i grandi filosofi, come i grandi poeti, siano pochi, e
nascano nelle più diverse epoche che la Provvidenza ha stabilito, senza darsi
pensiero della successione cronologica né del progresso. E dunque è chiaro che
la scolastica può aver le sue buone ragioni nel concedere relativamente a pochi
l'ambìto titolo di filosofi, come la storia dell'arte concede a pochi l’ambìto
titolo di poeti, e che l'opposto criterio, il quale vorrebbe che ogni momento
nascesse un filosofo capace di “creare” una “nuova” filosofia è lungi dal
parere soddisfacente. E può essere anche indizio d'un inadeguato e troppo largo
concetto della filosofia, così come sarebbe segno d'un insufficiente concetto
dell'arte lo scovare i poeti a decine e centinaia per ogni lustro, quando è
risaputo che la vera arte e la vera filosofia sono cose difficili e che,
perciò, in ogni tempo la grande maggioranza di coloro che si qualificano poeti
o filosofi è composta, invece, di pseudo-poeti o di pseudo-filosofi. * * *
IV. Possiamo dunque riconfermare, senza tema di smentite, la nostra conclusione.
Ogni sistema filosofico, idealistico o scolastico, scettico o materialistico,
non può, nonostante ogni sforzo contrario, insegnare mai più di una dottrina e
di una verità, la quale necessariamente esclude la verità di altre dottrine
diverse od opposte. E il sogno di una dottrina che abbracci e concili in sé
tutte le altre dottrine si rivela presto per quello che è, un puro e semplice
sogno, sfornito di qualsiasi consistenza scientifica, l'eterno sogno
irrealizzabile, perché contraddittorio, dello scetticismo e
dell'eclettismo. La verità di questa proposizione risulta manifesta dallo
stesso ingenuo sofisma col quale gli avversari pensano di poter mettere la
scolastica e il cattolicesimo al bando dalla scuola moderna. La nostra
filosofia ammette e giustifica, tanto la scolastica e il cattolicesimo
quanto il pensiero moderno, la vostra, invece, nega il pensiero moderno, e
ammette soltanto la scolastica, dunque voi siete più ristretti ed intolleranti
di noi. Sofisma la cui apparente consistenza è data dal duplice significato che
s'attribuisce al termine “ammettere” o “giustificare”, che una volta si prende
nel senso di “condividere” una dottrina e accettarne la verità, e un'altra
volta si prende nel senso di “giustificarla” storicamente, cioè di indagare le
condizioni storiche nelle quali nacque, i bisogni ai quali rispose e così via.
Poiché, se si tratta di “giustificare” nel primo senso, allora è certo che la
scolastica non può ammettere e insegnare come vero l’idealismo, il positivismo
o qualsiasi altro sistema del genere, ma è altrettanto certo che neppure
l'idealismo, il materialismo o un altro sistema simile possono ammettere e
insegnar come vera la scolastica, tanta essendo l'opposizione della scolastica
a quegli altri sistemi, quanta è per l'appunto l'opposizione degli altri
sistemi alla scolastica. Ma se si tratta di “giustificare” nel secondo senso,
allora anche la scolastica si può prendere il gusto di fare una elegante
rassegna di tutti i sistemi filosofici che ci sono stati da che mondo è mondo,
metterli in bell'ordine, studiarne i corsi e ricorsi, assegnarne le condizioni,
enumerare le cause che li hanno fatti nascere e ne hanno garantito il successo,
corredando il tutto con un grande apparato di erudizione critica e una
sesquipedale bibliografia. Può prendersi il gusto, diciamo, poiché in realtà la
scolastica, possedendo un concetto della verità molto più severo ed elevato di
quello che mostrano d'avere tanti sistemi moderni, è sollecita più della
formazione mentale, che della brillante informazione ed erudizione dei suoi
scolari, e teme sempre non accada loro questa disgrazia: «necessaria non
norunt, quia superflua didicerunt»: il che la conduce a limitare, nella scuola,
più che sia possibile questa parte storico-erudita, nella quale tanto si compiacciono
i sistemi moderni, perché tanto bene si accorda col loro intimo scetticismo ed
eclettismo. E allora la discussione sarà, non più sulla necessità di tener per
veri o meno questi o quei sistemi filosofici, quanto sulla opportunità di fare,
nella scuola media, un posto più o meno ampio alla storia della filosofia, e,
specialmente, alla sua parte informativa ed erudita. Questione di metodo, della
quale adesso non intendiamo occuparci. Ma l'accusa del pensiero moderno,
o del sedicente pensiero moderno, alla scolastica, di essere limitata ed
oscurantista, può facilmente essere ritorta. Si scandalizzano, i nostri
avversari perché la scolastica accusa di falsità la maggior parte dei sistemi
che hanno avuto fortuna nel mondo della cultura filosofica, e domandano
indignati: l'umanità ha dunque vissuto sempre nelle tenebre della barbarie? E
come allora ha potuto svolgersi e progredire fino a raggiungere una civiltà per
tanti rispetti superiore a quella dei tempi antichi? Dimenticano, costoro, nel
far questa domanda tendenziosa, di richiamare i reali rapporti che intercedono
fra i sistemi filosofici ora ricordati, e lo svolgersi dell'umanità e della
civiltà, poiché la filosofia è una scienza difficile e, come tale,
aristocratica sì che solo un piccolo gruppo di dotti, che in confronto
dell'umanità è una trascurabile minoranza, può in ogni tempo coltivarla e
dedicarvisi. Quanti, fra i contemporanei di Spinoza, di Rousseau, di Kant, o di
Hegel, poterono effettivamente leggere quei filosofi, formarsi un'adeguata idea
del loro sistema, e ad esso ispirare la propria vita? Quanti, oggi, nonostante
l'accresciuta cultura e la maggior facilità di studiare, possono far lo stesso
coi filosofi recentissimi? Il grosso pubblico dai sistemi filosofici prende,
per opera di compiacenti divulgatori, solo qualche idea così vaga e generale
che in tale vaghezza e generalità ogni carattere filosofico ha perduto, come
sarebbe l'idea che Dio non c'è e che l'uomo è tutto, o che la società è
organizzata male e bisogna rifarla, o che ciascuno è libero di seguire le
proprie passioni, ecc. Idee che l'umanità avrebbe certo trovato anche senza i
sistemi filosofici, tanto sono comode e larghe. Sì che si può dire, senza tema
d'errare, che le varie dottrine filosofiche, in quello che hanno di specificatamente
filosofico, passano senza toccare la vita dell'umanità nella sua grandissima
maggioranza, onde, nulla v’ha di impossibile a che l'umanità progredisca e
costruisca una civiltà anche se i sistemi filosofici dei suoi dotti sono
errati, potendo la verità farsi strada da sé ugualmente, benché in forma
imperfetta, per altre vie, nell’etica, nei costumi e nelle scienze
stesse. Ben più difficile e ben più intollerante è, invece, la posizione
degli avversari, quando, sforzati dalla logica, sono costretti a condannare non
solo la scolastica, ma, addirittura il cattolicesimo il quale non soltanto è un
sistema che vanta per sé il possesso esclusivo della verità, ma afferma questa
verità di averla ricevuta, per rivelazione, da Dio. E il cattolicesimo non è una
dottrina filosofica che vada solo per le mani di alcuni dotti, e la cui verità
o falsità non interessi la maggior parte del genere umano, ma è una religione,
attraverso l'insegnamento della Chiesa, chiaramente conosciuta, seguita e
praticata da milioni di uomini, i quali costituiscono certamente la maggioranza
del mondo civile; una religione che non ha mai cessato d'avere una azione
importantissima su tutti i prodotti dello spirito umano, sull'arte e sulla
filosofia non meno che sulla morale e sulla politica, sui costumi non meno che
sulle industrie e i commerci, sulle scienze non meno che sull'economia. Il
cristianesimo ha agito, perciò, anche sulla formazione del mondo moderno e
della civiltà moderna, infinitamente di più che le dottrine di Kant, di Hegel,
di Spencer, coi piccoli gruppetti di intellettuali che le hanno conosciute e
seguite. Se, dunque, esso è una dottrina falsa, fondata sull'illusoria
affermazione di un Dio trascendente, come si spiega la sua vitalità, estensione
e fecondità? come si spiega la civiltà moderna stessa che in sì gran parte
deriva da lui? È vero che gli avversari rispondono di non aver affatto questa
malvagia intenzione, ma di voler anzi, ammettere e spiegare il cristianesimo e
il cattolicesimo così come qualunque altra dottrina o sistema. Ma è proprio qui
il punto: ammettere il cristianesimo così come qualunque altro sistema
filosofico umano significa, in realtà, non ammettere affatto il cristianesimo,
bensì sostituirgli una deforme immagine di esso, che prescinde precisamente da
ciò che in esso è fondamentale: l'idea di una Rivelazione divina effettuatasi
in esso e realizzantesi nella Chiesa. Il cristianesimo che si pensi solo come
frutto della ragione umana e dei suoi sforzi filosofici, non è più
cristianesimo, esso è, al più, spiritualismo, che già sfuma nell'idealismo. Non
è dunque il cristianesimo ma l’idealismo che, pur con diverse parole, gli
avversari ammettono e giustificano. Ora, non è questo il cristianesimo vivo ed
operante come religione del mondo moderno, la quale tanto poco può allontanarsi
dall'idea d'essere una Rivelazione divina, che ove solo attenua e addomestica
un po', quell'idea, come ad esempio nel protestantesimo, sparisce come
religione cristiana per ridiventare simile a tutte le altre filosofie di “cenacoli”
intellettuali, quasi a darci una riprova della costituzionale incapacità del
pensiero che pur si dice moderno ad afferrare ed assimilarsi il principio
fondamentale del cristianesimo e del cattolicesimo. E dunque la
difficoltà resta, per gli avversari, in tutta la sua estensione. Se il
cattolicesimo è falso, come ha potuto crescere per opera sua quella civiltà che
pur dite buona e vera, anzi come può continuare ad esistere, dato che anche
oggi, nella società, il cattolicesimo ha un'estensione e un'importanza
infinitamente maggiore di qualunque sistema filosofico? Condannare il
cattolicesimo significa davvero ridurre tutta la storia a “storia
d'errori”, ben più che non lo fosse, o potesse parerlo, per la filosofia
scolastica; significa spezzare in due la grande tradizione cristiana della
civiltà moderna; significa ammettere, irragionevolmente, che prima di Kant o di
Hegel tutti i filosofi bamboleggiassero, e l'umanità giacesse nelle tenebre
dell'errore; significa, infine, negare o misconoscere i maggiori bisogni
dell'umanità stessa, che ha sempre cercato, prescindendo anche dal
cristianesimo, di risolvere i suoi problemi, piuttosto che colla filosofia,
soggetta alle discussioni e agli errori di pochi dotti, colle religioni, che
tutte si presentano come rivelate da Dio, qualunque poi sia il modo col quale
concepiscono tale rivelazione. Giacché la differenza fra il pensiero
della scolastica e il pensiero di quella filosofia che s'arroga il titolo di
“moderna” è, si potrebbe dire, tutta qui: nell'ammettere questa e nel non
ammettere quella, la possibilità di una religione; nell'ammettere questa e nel
non ammettere quella, l'esistenza di un Dio trascendente, e il fatto della sua
rivelazione. Spregiudicata e larga come pare a prima vista, la filosofia moderna
parte, in realtà, da una esclusione e da una limitazione aprioristica quanto
mai settaria e piccina. Tutte le audacie e le libertà sono consentite al
pensiero: purché, però, esso non si provi mai ad affermare l'esistenza di Dio e
la possibilità della rivelazione: questo è severamente proibito. E non ci si
accorge che, con tale gretta esclusione la filosofia ha rinunciato, in
sostanza, alla propria, tanto vantata, libertà di critica, e si è rinchiusa
entro un circolo ove non è più possibile alcun reale progresso e sviluppo del
pensiero. Lo hanno osservato anche filosofi non sospetti davvero di eccessiva
simpatia per la scolastica, che il pensiero umano ha in sé una brama
irresistibile di infinito che domanda, come suo adeguato oggetto, un Oggetto
parimente infinito ed assoluto: Dio. La filosofia moderna gli toglie questo
oggetto, e poiché, tolto l'oggetto, la brama dell'Infinito resta egualmente, ad
esso sostituisce una falsa immagine, il mutamento indefinito del pensiero
medesimo, nella sua irrequietezza e insoddisfazione; e chiama Dio lo sviluppo
storico e il divenire di questa insoddisfazione stessa. Senza por mente che
l'Assoluto non può consistere in una negazione o in una privazione, e che il
semplice mutamento non è progresso o sviluppo. In tal modo il pensiero umano,
lungi dal progredire, resta perennemente immobile, nella sua scontentezza,
volubilità e insoddisfazione che è sempre identica; un apparente progredire che
è, in effetti, un ritornare sempre sulle stesse posizioni, come la storia di
certa filosofia malinconicamente c'insegna. Mentre, al contrario, la
scolastica, concludendo col riconoscere, sopra di sé, un Dio e una Rivelazione
apre all'anima umana i vasti domini di una realtà inesaurita e inesauribile,
ove il pensiero può innalzarsi infinitamente su se stesso, senza mai trovare,
per quanto si sprofondi negli abissi della essenza e delle operazioni divine,
niente altro che nuovi, sconfinati orizzonti, e nuovi stimoli ad elevarsi e
progredire: «Estote ergo vos perfecti sicut et pater vester coelestis perfectus
est »: ecco l'unico programma - il programma della santità cristiana - che
consente anche al pensiero filosofico uno sviluppo e un progresso
infinito. Nonostante ogni dichiarazione in contrario, la filosofia
moderna non è affatto disposta ad aprire la scuola a tutte le più diverse e
disparate dottrine. Che, anzi, essa persegue tenacemente la realizzazione di un
suo ideale, e si propone - né potrebbe non proporsi - di conquistare la scuola
alla sua propria fede. Fede intimamente scettica, come abbiamo visto, ma più
intollerante ed esclusiva delle altre, perché non sa di essere una fede e una
dottrina anch'essa, e con tanta maggiore ostilità, è disposta a perseguitare le
altre dottrine quanto più si crede, ingenuamente, essa solo rappresentante
autorizzata della verità e della filosofia. Fede, perciò, oppressiva e
soffocante, affatto inconciliabile colla sana libertà della ricerca
scientifica, e addirittura contraria ad ogni effettivo progresso e svolgimento
dell'anima umana, nella sua educazione e nella scuola. Poiché l'anima del
giovane e del fanciullo, ha, se così si potesse dire, più ancora che non
l'anima dell'adulto, bisogno dell'Infinito, e la scuola che non può darle Dio,
non può darle che vani trastulli e giocattoli intellettuali, destinati ad
essere infranti subito dopo che una curiosità irrequieta ne ha scoperto il
meccanismo. Pedagogia cattolica Credo che a parlare di un'opera come
questa Rinnovamento dell'Educazione (“Vita e Pensiero”, Milano 1921) di Filippo
Crispolti, possa valere quale sufficiente giustificazione non soltanto la ben
intesa libertà che va tenuta nell'occuparsi dei libri recenti, bensì anche un
fatto di più immediato interesse. E, cioè, che le lettere pedagogiche del
Crispolti non hanno finora avuto, nonostante i loro innegabili pregi, il bene
d'una discussione, d'una recensione o d'un cenno fra coloro che pur si occupano
o dovrebbero occuparsi di problemi educativi. Strani effetti della modestia! Il
Crispolti onestamente dichiara nella prefazione di non essere pedagogista e
nemmeno professore; anzi, di non avere in vita sua addirittura frequentato mai
alcuna scuola fuori dell' Università; rassomiglia il proprio stupore, nell'aver
appreso da altri che certi suoi concetti erano pedagogia, a quello del
bourgeois-gentilhomme quando lo persuasero che, senza saperlo, aveva fatto
della prosa e non invoca per sé altro diritto che l'esperienza della vita.
Probabilmente, i pedagogisti di professione hanno preso queste dichiarazioni
alla lettera e hanno creduto, quindi di poter condannare il libro del Crispolti
alla congiura del silenzio! Noi, per conto nostro, diciamo subito di non
credere a quelle dichiarazioni: o, meglio, di credervi quanto basta per
annettere all'opera del Crispolti un pregio anche maggiore. L'esperienza
in materia educativa è certo - chi lo nega?- una bellissima e necessaria cosa;
ma quando è vera esperienza, non filtrata attraverso gli schemi di un miope
professionalismo, quale purtroppo affligge in educazione assai spesso la gente
del mestiere, proclive molto spesso a dimenticare che, se l'opera educativa si
celebra e acquista esplicita consapevolezza di sé nella scuola, essa presuppone
poi tutte le manifestazioni della vita spirituale nel più largo senso intesa,
talché l'esperienza scolastica val meno che nulla quando non sia sorretta da
una intensa partecipazione alla vita dello spirito in tutte le sue molteplici
forme, dalla quotidiana prassi familiare e sociale alla politica, alla scienza,
all'arte, alla religione. Onde accade talvolta che uomini come il Crispolti,
ammaestrati appunto da questa intensa partecipazione alla vita, riescano a
ricostruire idealmente anche l’esperienza scolastica che loro manca e finiscano
col portare nel campo educativo un occhio tanto più acuto e spregiudicato
quanto meno è irretito dai pregiudizi professionali e quanto meno si preoccupa
di abbracciare tutto un “sistema” pedagogico, per trascorrere, invece, con
piena libertà, su quanto un sano senso critico spontaneamente gli scopre. Se
così non fosse, l'agricoltore Pestalozzi o il mineralogista Froebel sarebbero
riusciti inferiori, non pure al filosofo e pedagogista accademico Herbart,
bensì anche ad un qualsiasi mediocre cattedratico autore di manuali pedagogici.
Il segreto di quei grandi educatori sta precisamente nella loro “irregolarità”,
nel loro irrequieto vagare più o meno attraverso tutti i campi della vita,
prima di fermarsi nell'educazione, alla quale portarono così il possente
lievito d'una personalità vivissima, aperta a tutte le voci dello
spirito, sensibile a tutti i problemi, pronta a soddisfare tutte le esigenze
che maturavano nei nuovi tempi. Tanto basta, e ne avanza, a giustificare
il Crispolti di aver raccolto in una serie di lettere le sue dottrine
sull'educazione. Il Crispolti è, del resto, figura così nota, e nel campo
cattolico e nel campo degli studiosi, da non aver certo bisogno d'una
presentazione. Ed era quasi, direi, in tono col suo cattolicesimo, il quale è
manzoniano nel miglior senso della parola, ch'egli dovesse dar questo segno
tangibile d'interesse per le questioni educative, ove si pensi che quel sano
lievito di modernità ond'è reso così giovane il cattolicesimo manzoniano,
risulta proprio dall'aver il Manzoni intensamente vissuto il cattolicesimo
stesso, affiatandolo con tutti i problemi della vita e della storia, quali il
secolo XIX li impose alla coscienza europea, in una forma in cui il problema
morale e il problema - in lato senso - pedagogico tendevano sempre più a
penetrare di sé la letteratura. Salutiamo dunque, anzitutto, la bandiera sotto
la quale il Crispolti entra nel nuovo agone. Del Manzoni pensatore fu detto che
egli, pur riuscendo spesso ragionatore vigoroso, non arriva ad esser compiuto
filosofo per una certa sua incapacità a mettere in questione i “primi principi”
e per una certa sua continua tendenza a presupporre dimostrata la dottrina
religiosa, anche se al fine di far vedere come partendo da essa diventino volta
a volta chiare le singole questioni prese in esame. Il che è inesatto certo, se
con ciò s'intende negare ogni valore di filosofo a chi proceda con siffatto
metodo largamente deduttivo (quale dimostrazione più soddisfacente d'una
dottrina che lo spiegare in base ad essa i singoli concreti problemi della
storia e della filosofia?) ma è esattissimo come caratteristica del
procedimento prediletto in siffatte materie dal Manzoni e - cosa che qui
c'importa soprattutto - anche dal Crispolti. Le sue lettere pedagogiche
s'ispirano infatti, come egli stesso ci dice, al “programma di far toccare con
mano in quale amplissima misura il Cristianesimo debba contribuire alla
formazione dell'intero carattere morale e a certe necessità dello sviluppo
intellettuale dell'uomo”(p. 205), ma non s'ingegnano prima di dimostrarci
perché sia un bene morale e una necessità di ragione che il cristianesimo debba
avere un siffatto influsso, o perché non si possa concepire, poniamo, una
educazione che dal cristianesimo prescinda interamente o al massimo ne tenga
conto solo come uno fra altri fattori, uno fra gli altri prodotti dello spirito
umano, alla stessa stregua, p. es., dell'arte, della scienza, della filosofia,
delle antichità classiche e via discorrendo. Non siamo, insomma, neanche qui
nella sfera dei “primi principi”, delle grandi affermazioni e negazioni: il
Crispolti, benché uomo di vasta cultura e non solamente letteraria, non ha
affrontato in pieno la tormenta del pensiero filosofico moderno nel suo duplice
aspetto immanentistico dell'idealismo e del positivismo. La religione non è
quindi per lui qualcosa che abbia bisogno anzitutto d'essere instaurata contro
e insieme nella scienza moderna: è, piuttosto, un possesso sicuro da far
fruttificare. Onde, il tono fondamentale di tutta la sua indagine, che è
rivolta a quelli di casa prima che quelli di fuori, ai cattolici prima che ai
“laici”, filosofi o pedagogisti, anche se, nello stesso tempo, tiene l'occhio
vigile su tutto il mondo circostante della cultura e della vita. Si
direbbe anzi, più precisamente, che il Crispolti avesse voluto con queste sue
lettere parlare a quelli che trascorrono nell'altro estremo, soffrendo d'una
malattia opposta al filosofismo laico, a quei cattolici cioè che, per eccessiva
sollecitudine di mantener la loro fede, in tutta la sua purezza, salva dalle
concessioni snaturatrici alla mondanità, non annettono, nel campo educativo,
grande importanza a tutto il complesso delle doti spirituali che, pur non
interessando apparentemente la religione, fanno dell'uomo un uomo colto o
rispettabile nel significato mondano della parola, poniamo al coraggio, al
senso della responsabilità sociale, alla cultura dell'intelletto. Frutto di
siffatta timidezza che, per timore di mal fare si appaga del non fare, è,
secondo il Crispolti, un doloroso divorzio fra l'educazione dell'uomo e la
religione, di cui non pur l'uomo ma la religione stessa finisce, in ultima
analisi, con l'essere vittima nella comune estimazione dei buoni. Ecco degli
esempi: quando noi vedremo il probo commerciante tener fede alla sua firma, il
coraggioso nuotatore salvare uno che annegava, la brava popolazione d'un villaggio
distrutto dall'incendio accingersi con virile rassegnazione a ricostruirlo da
sé, noi applaudiremo tutti costoro in quanto coraggiosi, probi, o virilmente
rassegnati in faccia alla sventura: non ci verrà mai fatto di applaudirli in
quanto cristiani, di attribuire, cioè, lo splendore di queste loro qualità ad
una educazione religiosa e, più specificamente, cristiana o cattolica.
Altrettanto avviene nella coscienza del cattolico stesso, il quale, pur
apprezzando certo in cuor suo quegli atti e quelle doti, non osa farne una
conseguenza imprescindibilmente necessaria della propria fede religiosa, ma è
disposto con facilità ad ammettere che si possa restar buoni cattolici anche
senza lavorare a svilupparle eminentemente in sé, specie poi quando si tratta
di doti che, come il coraggio, possono, se coltivate oltre un certo punto,
condurre facilmente alla trasgressione di precetti eticoreligiosi cristiani, ad
esempio di quelli contro la violenza. Effetto del timore che le virtù umane
troppo curate dall'educazione possano ritorcersi contro la fede religiosa o
quanto meno finir col reclamare per sé un'assoluta autonomia, non può non
essere, a lungo andare, proprio lo stesso male che voleva evitarsi. Giacché
così si crea in tutti la persuasione che l'educazione, intesa come sviluppo
delle fondamentali attitudini dell'uomo al vivere e al pensare, trovi nel
cristianesimo, anziché un aiuto, un ostacolo o, nella migliore ipotesi, né
l'uno né l'altro; ch’è quanto dire, pedagogicamente, nulla. Onde si ritorna,
dopo un non lungo giro, se non all'irreligione, almeno al neutralismo e al
laicismo educativo. Contro i quali al Crispolti sembra aperta come unica via
quella che «l'educazione cristiana sia resa così piena, da non esserci nessuna
abitudine o inclinazione deplorevole che non debba venir combattuta a titolo
religioso; nessuna abitudine o inclinazione lodevole a cui la religione non dia
cagione e valore» (p. 14). Ora, in qual modo realizzare siffatto
programma? Il Crispolti, sulle orme del Manzoni e delle Osservazioni sulla
morale cattolica rammenta che il Vangelo contiene qualsiasi ideale di
perfezione umana e che i sentimenti naturali retti non possono mai essere in
contraddizione colla legge di Dio, e tanto gli basta per dimostrare come la
religione cattolica abbia l'attitudine a informare di sé qualsiasi magari
raffinatissimo ed esigentissimo sistema educativo. Che fu, in sostanza, la
grande preoccupazione del romanticismo neocattolico successo all'illuminismo
rivoluzionario, da Chateaubriand in poi il cui famosissimo libro vuol essere
appunto una descrizione di tutti i vantaggi arrecati in ogni suo campo
d'attività allo spirito umano dalla religione cattolica. Ma il Crispolti ha
anche una preoccupazione nuova che certo, direttamente o indirettamente,
consapevolmente o inconsapevolmente, dev'essergli derivata dall'influsso
dell'etica moderna in uno dei suoi fondamentali problemi. “Politica della
virtù” , definì or non è molto il Croce il concetto sostituito dalla più
recente speculazione al vecchio rigorismo kantiano; “politica”, ossia non
impossibile sterminio di tutte le umane passioni e tendenze sulle cui
rovine si erga la legge morale, ma loro sapiente organizzazione a beneficio
della moralità stessa. Sarebbe troppo domandare a un cattolico, per cui la legge
morale deve sempre rimanere, in ultima analisi, trascendente, né può comunque
risolversi nella sintesi delle passioni, il chiedergli di condividere
senz'altro questo concetto. Dal punto di vista cattolico vi ha sempre una
soluzione superiore del problema, la santità che non ha bisogno d'una politica
della virtù poiché «non raggiunge le virtù e la conseguente eliminazione di ciò
che loro contrasta, correndo loro dietro una per una e poi tenendole tra loro
serrate con un'agitazione scrupolosa e a fatica, ma le coglie tutte insieme,
per un ardore che tutte le supera e le fonde» (p. 16). La carità, l'amore di
Dio possono, nelle anime educate alla santità ed elaborate dalla grazia divina
stessa, essere motivo sufficiente dell'azione virtuosa senza che per ciò si richieda
il sussidio di speciali abilità o l'esca di determinate passioni e sentimenti
umani. Ma, giustamente ammonisce il Crispolti, la santità eminente non è da
tutti. «Molti educatori sentono, sia pure talvolta in confuso, questa
complicazione dell'economia della vita cristiana; sanno che l'ardente carità,
dalla quale può venirle la maggiore semplificazione pratica, non è dato ad essi
d'infonderla negli alunni, poiché è un raro e diretto dono di Dio alle creature
chiamate a santità e allora, senza che formulino a sé e agli altri il proprio
timore, temono che il voler trarre dal cristianesimo anche l'addestramento alle
qualità naturali, belle per sé ma che non sono ancora virtù, come il coraggio,
l'amabilità nel convivere, la coltura della mente, e via discorrendo, accresca
la difficoltà dell'educazione cristiana, costringendo gli animi ad accogliere
tante più cose, quindi a tenerle insieme in un equilibrio sempre minore, e a
rischio di più frequenti discordanze» (p. 19). Timore, secondo il Nostro,
ingiustificato e pericoloso, poiché in quanto quella carità vittoriosa venga a
mancare - e impossibile è all'educatore garantire ch'egli saprà infonderla
puntualmente nell'educando - verranno d'un subito a mancare anche tutti gli
altri motivi (che non si sono coltivati in lui) d'ordine umano coi quali di
solito gli uomini si garantiscono pur imperfettamente dal male. «Eppure ogni
metodo di educazione è condannato a prefiggersi di far buoni i mediocri, poiché
i sommi oltrepassano per lo più le sue speranze e i suoi poteri» (ibid.) e
questi mediocri sono la gran maggioranza degli uomini non chiamati a santità,
ma non per questo da abbandonarsi senza difesa ai disordinati impulsi animali.
Prendiamo, secondo l'esempio caro al Crispolti, una figura manzoniana, quella
di Don Abbondio, che per viltà d'animo si lascia trarre dalle minacce di Don
Rodrigo a obliare uno dei più essenziali doveri del sacerdozio. Eccoci nel caso
di un uomo al quale manca quella ardente carità che dovrebbe rendergli facile
l'adempimento di qualsiasi dovere, ma al quale, di più, mancano gli stimoli
umani con cui il “laico” si garantisce dalla paura; manca, cioè, un'adeguata
educazione del coraggio materiale. Poniamo «che Don Abbondio fosse stato un
ragazzo e che i maestri, prevedendo che potesse diventar parroco in tempi in
cui il dovere parrocchiale era esposto a minacce di prepotenti, gli avessero
voluto insegnare l'arte di non farsi vincere da quelle minacce»: che cosa
avrebbero dovuto fare? Sanamente diffidando della possibilità d'infondergli il
calore dell'amor divino, avrebbero dovuto coltivare in lui «una qualità terrena
che poteva in certo grado servire all’uopo e che colla persuasione, cogli
esercizi convenienti, e occorrendo con l'arma del ridicolo, si riesce ben più
facilmente a metter negli animi adolescenti la qualità del non aver paura». E
allora Don Abbondio, sia pur per motivi umani, e senza il merito di quei più
alti motivi che il cardinale Federigo gli ricordava, non avrebbe piegato
innanzi alle minacce di Don Rodrigo, e non avrebbe gravato la propria
coscienza dell'oblio di un dovere così importante per un sacerdote, come quello
di esercitare fino in fondo le sue funzioni parrocchiali, nonostante tutti gli
ostacoli che potessero da altri venir frapposti. Ed ecco rinascere entro l'educazione
cristiana stessa la necessità d'una «politica della virtù». Poiché il Crispolti
rammenta certo che «sta scritto: non tentare il Signore Iddio tuo» e che,
confidare in un dono direttamente divino per dirigersi nelle difficili vie
della virtù, sarebbe pretendere troppo da Dio, onde la illuminata pietà e la
saggezza pedagogica non possono su questo punto non andare d'accordo colla ben
intesa umiltà cristiana nell'accumulare il maggior numero possibile di difese
contro le suggestioni al male. Al chierico non meno che al laico, l'educatore
dovrà dire : “Se l'occasione se ne presenti, voi dovete già esser preparati
perché non vi trattengano né i disagi né i rischi. La strada regale di questa
preparazione sarebbe quella di sentire il valore degli atti meritori, con tanto
ardore da sormontare in grazia sua qualunque ostacolo anche improvviso. Ma v'è
una strada più modesta, e che ad ogni modo deve esser battuta anche perché a
mani educatrici riesce più sicuramente il condurvi in questa che in quella: e
consiste nel rendervi familiare la lotta contro quei rischi e quei disagi,
seppure lì per lì essa non mostri di servire a nulla” (p. 49-50). La «strada
più modesta» è appunto la politica della virtù, sebbene concepita in un senso
diverso da quello consentito nell'economia d'un'etica immanentistica come
quella del Croce. Poiché qui è successa una inversione per cui ciò che là era
fine morale, è diventato mezzo pedagogico nella nuova gradazione di valori
richiesta dall'etica religiosa. Per la quale, le virtù nel significato umano
della parola, comprendendo fra di esse non pur quelle che sorgono sul vero e
proprio terreno praticomorale, come il coraggio o l'abnegazione od altro, ma
altresì quelle che sono immanenti in qualsiasi altra funzione dello spirito,
come poniamo la genialità estetica o il vigore speculativo, debbono
necessariamente avere alcunché di imperfetto, frutto appunto del loro carattere
umano: allegarsi, cioè, con una certa dose di orgoglio, compiacenza di sé,
soddisfazione, che le rende tutte «più o meno passionali» perché presentano
all'uomo, qualunque sia la somma d'ostacoli ch'esse offrono, il loro esercizio
sempre come un allargamento e una esaltazione del proprio io. Di contro ad esse
sta la vera, perfetta, suprema virtù: la santità, l'unica che non si fondi per
sussistere sopra siffatto stimolo, ma sopra una diretta ispirazione di Dio.
Talché, appellarsi alle une per rendere possibile o, comunque, preparare,
facilitare, supplire l'altra, significa da un punto di vista religioso
ricorrere già ad una «politica della virtù»: non perché si sia facilitata la
virtù ricorrendo alla dialettica delle passioni come nell'etica immanentistica,
ma perché, esorbitando la virtù «pura» dai mezzi di educazione umana, si è
ricorso per garantire l'uomo dal male ad un sistema di virtù «umane» e perciò
già in sé stesse «passionali». Conclusione di tutto ciò è dunque per il
Crispolti che l'educazione cristiana, ben lungi dal disinteressarsi delle doti
umane, deve e può servirsene come di mezzi atti a facilitare potentemente
quell'economia delle virtù che solo anime eccezionalmente ispirate da Dio
possono raggiungere d'uno slancio. Deve, cioè, in ultima analisi, prendere
anch'essa in considerazione il curriculum della consueta pedagogia, evitando
due errori egualmente pericolosi come la dissociazione delle attività umane dal
fine religioso e, insieme, la incauta persuasione che l'uomo pio sol perché pio
riesca eccellente in tutti i campi del pensiero e della vita. Incominciamo
dall'educazione fisica, di cui il Nostro si occupa nella lettera su
l'educazione cristiana del coraggio materiale per riprendere acutamente, dal
proprio punto di vista, quel concetto della pedagogia moderna secondo cui
il rinvigorimento del corpo non è già la formazione del «robusto ed agile
animale», bensì quella del robusto ed agile uomo, che ha l'obbligo di preparare
il proprio organismo fisico a tutti gli sforzi necessari all'adempimento dei
propri doveri di essere spirituale. Al qual proposito bene osserva il
Crispolti, parlando delle società cattoliche di educazione fisica, il loro
carattere religioso dover consistere, non tanto nel titolo di cattoliche o nel
compimento, in esse, di funzioni sacre, quanto nel tener sempre presente alle
menti giovanili «lo scopo di far servire le membra fortificate all'adempimento
degli obblighi virtuosi e di ciò che nella virtù sopravanza l'obbligo...
cosicché imparassero con precisione a tenere dentro i giusti limiti la loro
progressiva vigoria» (p. 48). E quindi ai troppo facili satireggiatori della
«ginnastica cattolica», il Nostro può con ragione rispondere che, oltre a una
ginnastica, ben vi può essere anche una «cucina» cattolica, da quando in alcuni
giorni della settimana si preparano nelle case dei cristiani i cibi di magro. E
se la Chiesa non sdegnò di porre il suggello religioso su un'operazione umile
come il mangiare, perché la pedagogia cristiana sdegnerà di porre la stessa
impronta su qualsiasi attività umana? «Non si andrà incontro così ad un
pericolo nuovo, che, sviluppando per mezzo della stessa educazione religiosa il
pieno valore della persona umana, questa diventi superba?» (p. 72). No certo,
se teniamo presente che la pedagogia cristiana ha in mano il più potente dei
mezzi, per combattere quella superbia ingiustificata, nella cultura
dell'opposto sentimento dell'umiltà; cultura che e insieme, ancora, un dovere
religioso ed un ottimo espediente pedagogico. L'opinione che ai giorni nostri
si ha dell'umiltà cristiana, ben osserva il Crispolti, è spesso quella ch'essa
consista soltanto nell'«ansia costante e smaniosa di stornar gli occhi dal
proprio io, per il pericolo di potervi scoprire dei pregi e provarne
compiacenza» (p. 74). È un concetto negativo dell'umiltà ben diverso da quel
concetto positivo che si ritrova nella tradizione cristiana e medioevale (si
ricordi il titolo di donna umile dato a Beatrice), secondo cui invece «l'umiltà
è concepita in forma positiva, come un avanzare non come un fuggire, come una
confidenza, non come un viluppo di precauzioni » (p. 74) e consiste nel
dimenticarsi di sé stesso a tal punto da non aver tempo di starsi a
considerare, ma insieme nel sapere che il proprio valore e la propria bellezza
accrescono il pregio dell'offerta di sé fatta a Dio. Sentimento che, fatta la
solita riserva dell'ardente amor divino il quale assorbe d'un subito in sé la
creatura e le rende disgustoso ogni amor proprio, si può raggiungere
pedagogicamente in grado meno splendido «col solo riverire la verità, quella
verità che ci fa conoscere il nostro nulla verso Iddio e la difficoltà di
misurare sia il valore vero dei fratelli, sia la fragilità di qualsiasi maggior
pregio che ci elevi sopra di essi» (p. 77). Ogni cosa nel mondo dello spirito è
frutto di umiltà, le grandi opere «sorsero sempre in un'ora di umiltà, ossia
d'abbandono, di dimenticanza di noi, verso qualche cosa che era fuori di noi.
Non sarà stata sempre umiltà verso Iddio; sarà stata umiltà verso la scienza,
l'arte, la patria, l'umanità o che so io» (p. 81). La filosofia qui rincalza la
religione, nessun filosofo potrebbe rifiutare di sottoscrivere queste parole.
Il concetto pagano della immortalità come gloria è tramontato irrevocabilmente
appunto dopo il sorgere del concetto cristiano della umiltà. Questa
introduzione dell'umiltà come principio fondamentale nel sistema della pedagogia
cristiana, porta alla benefica conseguenza cui già abbiamo accennato, che,
cioè, l'educatore religioso non meno del laico acquista il dovere di
preoccuparsi della formazione della attività umana in base alle sue immanenti
leggi, senza presumere che la fede religiosa basti per se stessa a rendere
automaticamente l'uomo eccellente in tutti i campi della scienza,
dell'arte, della vita. Prendiamo ad esempio un altro punto del curriculum
pedagogico: la cultura intellettuale. Ecco un caso in cui l'umiltà cristiana
sanamente intesa consiglia l'uomo a irrobustire il proprio intelletto e a
renderlo erudito e agguerrito in ogni sorta di discipline, perché che razza di
fede, sarebbe quella che non comandasse alla creatura di offrire a Dio le
primizie della sua intelligenza e, nello stesso tempo, di rendere questa
offerta sempre maggiore con l'accrescere, mediante lo studio, il valore della
propria intelligenza stessa? La fede del carbonaio è bellissima, ma nel
carbonaio. Il dotto ha altri e più complessi doveri verso Dio: e l'uomo in
genere, pur non mancando di rispetto verso il carbonaio, ha anche l'altro
dovere, implicito della sua natura di essere pensante e razionale, di
avvicinarsi quanto più può alla condizione del dotto e non a quella del
carbonaio. Non fa nulla che ci fossero dei santi poco dotti e delle cose di Dio
e delle discipline umane; al solito, noi non possiamo «tentare Iddio»
pretendendo ch'egli estenda a tutti quel dono della sua diretta ispirazione che
solo in casi eccezionali sopperì, unico, a tutte le umane deficienze. Talché,
tratte le somme, il cattolico non solo ha, come il laico, il dovere di
addottrinare l'intelletto nelle discipline umane, bensì, in più, il dovere di
rivolgere la sua mente allo studio delle cose divine, e di fornirsi d'una cultura
religiosa quanto più estesa può. D'altra parte, osserva col consueto acume il
Crispolti, la cultura può anch'essa recare in più modi soccorsi umani alla
fede, fra l'altro, associando ad essa le compiacenze della vita intellettuale.
«Le quali sono grandissime; innalzano la natura umana, seppure non valgono a
salvarla da tutto il male, come si credeva nei tempi recenti in cui fu di moda
la formula stolta e subito smentita dai fatti "ogni scuola che si apre è
un carcere che si chiude "; ci salvano... dai gusti bassamente viziosi;
moltiplicano i nostri rapporti con le cose, ossia il nostro senso del vivere;
procurano all'uomo una esplicazione dell'attività ed un interessamento che
unico dura oltre la giovinezza e la maturità degli anni » (p. 137). Ch'è, in fondo,
lo stesso principio della cultura come disciplina dello spirito su cui si fonda
la pedagogia moderna, ma opportunamente ristretto con una osservazione che
meriterebbe d'esser discussa da vicino in sede pedagogica. Il sapere è certo un
potentissimo esercizio di superamento dei propri impulsi particolari a
beneficio d'una legge superiore, ma può esso bastare da solo alla formazione
del carattere morale? Il cattolicesimo e la Chiesa hanno da molto tempo
risposto di no, e hanno disposto tutto un sistema di pratiche dirette
precisamente alla disciplina della volontà, per esempio gli esercizi spirituali
di Sant'Ignazio. In ogni modo, chiudendo questa breve parentesi, il Crispolti
ha in materia di cultura religiosa le stesse idee dei grandi pedagogisti che, cattolici
o no, si travagliarono su questo problema, ad esempio, di Froebel o della
Necker de Saussure. Qualunque sia l'importanza d'una elaborazione dottrinale,
filosofica della religione, che insegni all'uomo a credere «secondo spirito e
verità» è certo ch'essa va preceduta dalla conoscenza immediata della religione
stessa in tutto il suo complesso di riti, culti, precetti e loro applicazioni;
così come lo studio della filologia non può nascere se non dalla diretta
conoscenza e dall'uso delle lingue. La religione deve, per usare un'espressione
cara a quei grandi pedagogisti, crescere con l'uomo stesso: essere sentimento,
pratica, culto, prima che filosofia o teologia. Argomento sempre importante per
quanti, come noi, vogliono nella scuola un insegnamento religioso vero e
proprio che cominci col catechismo e credono un assurdo sogno illuministico
quello di assicurare l'educazione religiosa a una vaga religiosità circolante
un pò dappertutto nella vita spirituale. Qualcosa di simile al già detto
per la cultura intellettuale, ripetasi per la cultura estetica ove il principio
dell'umiltà riceve un'altra importante applicazione pedagogica nella lettera su
i pericoli della letteratura apologetica nuova. Ove il Crispolti ha avuto
sott'occhio i gravi pericoli cui può andare incontro oggi una letteratura o una
poesia che dal cattolicesimo voglia trarre, insieme ai propri motivi
d'ispirazione, anche una presunzione della propria superiorità su l'altra
letteratura o poesia non cattolica. Qual è, insomma, la ragione per cui il
cattolicesimo non ha, oggi, poeti suoi da contrapporre, poniamo, a un
D'Annunzio o ad un Pascoli? La ragione è sempre la stessa: pretendono gli
artisti cattolici «di poter ricevere o tradurre nelle opere le ispirazioni
artistiche (della fede), senza nessuno sforzo da parte loro». Tutta la fatica,
secondo loro, dovrebbe farla Iddio. Pretendono quindi che ogni opera di
soggetto religioso, purché lastricata di buone intenzioni, ottenga il favore
della critica a preferenza di opere anche elaboratissime di autori profani od
avversi. Quando poi debbono essi stessi confessare che i Canti di Leopardi così
lontani dal Cristianesimo, valgono più dei canti loro, non sanno come
raccapezzarsi; quasi sembra loro che la fede abbia fatto torto a se stessa. Non
si rassegnano a riconoscere di non aver fatto verso la fede tutti gli sforzi di
dottrina e di meditazione, necessari a rendersi i degni interpreti di lei. Non
si piegano a confessare che non è colpa della luce ma della deficienza o
pigrizia loro, se anche questa volta «i figli delle tenebre» sono stati più
prudenti dei figli della luce ( p. 163). Ciò è quanto dire che, dal punto di
vista pedagogico, anche l'attività estetica ha bisogno d'un apposito tirocinio
dal quale nessuna fede religiosa può dispensarci. Ma la seconda applicazione
dello stesso principio che nel campo estetico fa il Crispolti, viene
esplicitamente incontro a quanto il pensiero moderno in sede filosofica e
pedagogica ha via via elaborato in materia: ove si pensi che la degenerazione
dell'arte in vuota “letteratura” e il conseguente ridurre la cultura estetica a
una artificiosa ricerca di parole e di frasi atte a far colpo sul lettore o di
esempi di “bello scrivere” contro cui la critica moderna ha tanto combattuto, è
sempre frutto, secondo il Crispolti d'un difetto opposto all'umiltà cristiana:
della vanità che ai pensieri veri e alle convinzioni sincere, preferisce i
pensieri nuovi o i sentimenti mirabolanti. Umili perché casti «parchi e lontani
da tutti quegli artifici che, piacendo ad un gusto passeggero, fanno così
facilmente il nido alla vanità» gli scrittori classici: umili tutti coloro che
non pensarono a scriver bene, ma «presi da alti pensieri, da alti affari o da
alti scopi morali, ossia tanto assorbiti dalla gravità del proprio tema che la
parola si facesse umile innanzi a quello» (p. 158) riuscirono, perciò solo,
necessariamente grandi scrittori. E inversamente, grandi scrittori sono non
soltanto quelli che fecero professione di letterati, bensì «uomini in qualunque
campo grandi, cioè tali, che a qualche cosa di superiore la loro parola abbia
dovuto umilmente ubbidire» (ibid.): talché, per esempio, i Francesi bene hanno
fatto a far rientrare fra i classici della loro letteratura anche San Francesco
di Sales e Napoleone. Una siffatta riforma della storia letteraria sulle basi
dell'estetica moderna quale si è affermata dal Croce in poi avrebbe in più per
il Crispolti questo di interessante nel senso cattolico: che giustificherebbe
l'introduzione dei grandi santi a maestri d'espressione letteraria oltrechè di
vita. Ma sopratutto interessante in queste osservazioni che il Crispolti
viene con tanta finezza facendo intorno a questioni educative, si è ch'egli
molto spesso arriva a toccare sul viso i più importanti problemi dibattuti dal
pensiero pedagogico e filosofico moderno, pur senza avere di questo pensiero
una conoscenza diretta ed approfondita (come si vede ad esempio dalla lettera
su Le precauzioni intellettuali contro gli errori religiosi, in cui nel
parlare delle ragioni scientifiche di dubbi intorno alla religione, ricorda il
positivismo e lo scientismo, ma non fa cenno dell'idealismo immanentistico
postkantiano). Ciò riesce una ottima conferma della bontà di quel procedimento
se anche qua e là porta l'autore a qualche inevitabile incertezza. Diamone
degli esempi, scegliendo tra i numerosi argomenti trattati in queste lettere
pedagogiche. Nella lettera quinta, toccando dei rapporti fra la pedagogia e la
morale, il Crispolti afferma che la certezza di quest'ultima la quale determina
il fine della vita non può estendersi alla prima, la quale invece determina i
mezzi per attuare il fine stesso e va perciò soggetta a un'inevitabile
incertezza data dalla infinita varietà dei temperamenti, delle attitudini,
delle situazioni spirituali cui quei mezzi debbono applicarsi. Sta bene. In
linguaggio più propriamente filosofico si direbbe che la pedagogia è sempre
sospesa a una concezione totale della realtà, in base a cui viene determinato
quello che il nostro chiama appunto «il fine». Ma ciò non implica soltanto
superiorità gerarchica dell'etica o di qualsiasi altra scienza sulla pedagogia.
Poiché il legame è reciproco, e se la pedagogia ha da fare i conti con l'etica
e con tutto il sistema delle scienze dello spirito, viceversa anche l'etica e
la filosofia tutta hanno da fare i conti colla pedagogia, hanno da
preoccuparsi, cioè, che il loro concetto della realtà sia tale da rendere
possibile la educazione. Ne fa fede il Crispolti stesso, il quale non potrebbe
mai accettare, poniamo, un concetto giansenistico o falsamente
predestinazionista del cristianesimo, fra altre ragioni perché lo sguardo da
lui dato ai problemi pedagogici gliene chiarirebbe l'assurdità, e infatti da
quel punto di vista non è concesso, se non per una felice incoerenza, parlare
di educazione. È questo proprio il caso in cui una diretta conoscenza delle
questioni recentemente dibattute nel campo filosofico sui rapporti della
pedagogia colle scienze filosofiche, avrebbe giovato al Nostro. Parimente
altrove, nella lettera tredicesima ove, a ragione, combattendo la
falsificazione delle idee intorno al fanciullo che una grossolana psicologia ha
introdotto nei metodi educativi moderni, egli pone la mano su una questione
importantissima, e vi sorvola su senza approfondirla. Si deve sfruttare la
capacità intuitiva e immaginativa del fanciullo per introdurlo al più presto
nel mondo spirituale degli adulti, oppure val meglio cominciare con
l'indugiarsi insieme a lui nel suo mondo fanciullesco? Sia il caso del
linguaggio: «voi vedrete — dice il Nostro — che in tutti i luoghi e in tutti i
tempi, i genitori, invece di valersi immediatamente di questa disposizione
meravigliosa per abituarlo a pronunziare le parole esattamente conversano con
lui ripetendogli le parole storpiate ch'egli incomincia a pronunziare» (p.
132). È il principio del “punto di partenza” da trovare nell'animo dell'alunno.
Ma il Crispolti, con queste sue parole, viene a dubitare che esatta conseguenza
di quel principio sia l'identificazione assoluta del mondo spirituale del fanciullo
con quello dell'adulto, come vorrebbe la pedagogia idealistica moderna, per la
quale il mezzo più sicuro di educare il fanciullo è quello di imporgli
decisamente - sia pur con le debite precauzioni - il mondo spirituale
dell'adulto. Il Crispolti giustifica qui, in certa guisa, l'idea di un mondo
fanciullesco, d'una letteratura per ragazzi e di altre simili cose respinte da
alcune correnti della pedagogia moderna. Valeva la pena che egli approfondisse
questo suo dissenso e ne sviscerasse bene le ragioni. Ma queste
piccolezze sono poi un niente, in confronto alla piacevole urbanità con cui il
Crispolti profonde il suo ingegno intorno ad una quantità di problemi
importanti, che il tirannico spazio ci vieta di discutere, come pur ci
piacerebbe, con lui. Ci sia concesso, prima di finire, di esprimere ancora un
consenso e un dissenso. Un consenso per quanto egli scrive nella sua lettera
ventunesima sulla cultura femminile. La quale, perciò che il pensiero
moderno ha proclamato, dopo il cristianesimo, al di là di tutti i preconcetti
naturalistici, l'eguaglianza spirituale dell'uomo e della donna, non per questo
ha cessato di essere un problema, per il complesso di funzioni e d'abitudini
diverse da quelle maschili che fa della donna un essere, pur pari di natura e
di valore all'uomo, ma che si presenta tuttavia fornito d'una sua specifica
fisionomia di cui l'educatore non può non tener conto. L'aver dimenticato
questo ha portato come effetto nella società moderna una duplice piaga che il
Crispolti ben analizza: quella delle donne ignoranti da un lato, e quella delle
donne pedantescamente saccenti dall'altro. Il che si deve appunto, secondo il
Crispolti stesso, all'aver preteso di istruire, quando si è istruita, la donna,
cogli stessi procedimenti scolastici che si erano mostrati efficaci per l'uomo,
«come se tra i licei femminili e l'ignoranza non ci fosse nessuna via di
mezzo». E invece non si è pensato alla differenza di abitudini mentali per cui
l'uomo, presto distratto nella vita da un tumulto di nuovi interessi è più
spregiudicato, reagisce con un salutare oblio all'eccessivo pedantismo del
sapere scolastico, conservandone solo il nocciolo vitale, mentre la donna, più
docile e più rinchiusa nei doveri domestici, si assimila dalla scuola il sapere
con tutto l'apparato pedantesco con cui fu impartito. A questo inconveniente
c'è, per il nostro un rimedio: dare alla donna nella scuola solo i primi
indispensabili elementi, e lasciare all'educazione familiare e sociale la cura
di fare il resto. «La più elevata e piacevole erudizione delle donne è quella
acquistata involontariamente nella conversazione colla gente eletta. Per un
padre colto che desideri le figlie colte non v'è miglior via; farle partecipare
in modo insensibile e continuo alle sue alte occupazioni, svegliare in loro non
soltanto l'intelligenza delle cose serie, ciò che è agevole; ma l'interesse
verso di esse, ciò che è più difficile» (p. 200). Non importa se per questa via
la donna non otterrà delle idee precise e collegate sistematicamente fra loro:
per chi non debba proprio compiere un lavoro determinato in un certo campo
dello scibile come l'uomo, il beneficio della cultura sta non nelle singole
idee che dà, ma nella elevazione spirituale che procura all'animo; elevazione
per cui la donna «non pretenda di scoprire né di classificare, ma giunga a
compiacersi nella visione delle cose alte; non s'affanni a far camminare il
mondo, ma possa accompagnarlo nel suo cammino, ad ocelli aperti e con amore»
(p. 202). Giacché la difficoltà della cultura femminile è tutta qui, non nel
far assimilare alla donna un certo contenuto, cosa di cui essa è tanto capace
quanto l'uomo, bensì nel suscitare in essa il senso dell'importanza e del
valore di ciò che studia; cosa assai più difficile. Istruire la donna «è una
difficoltà non intellettuale ma morale; è una coltivazione non dell'ingegno ma
dell'animo» (pp. 200 - 201). Osservazioni tutte giustissime e sulle quali con
qualche ben intesa riserva, siamo d'accordo col Crispolti. La riserva, se mai,
sarà questa: che vi sono donne nelle quali una eccezionale formazione interiore
ha suscitato il bisogno di studi più alti, e alle quali perciò non è possibile
rifiutare la stessa cultura dell'uomo, anche se esse siano per far valere in
quella interessi tutti propri diversi da quelli dell'uomo e per occupare, nella
repubblica delle lettere, un posto a sé. La stessa necessità di collaborare con
l'uomo per fondare l'unità spirituale della famiglia, può render talora
necessaria alla donna anche una completa cultura scolastica, giacché pur fra
gli uomini ci sono in tal senso differenze, e ciò che basta magari alla moglie
di un colto professionista avvocato, ingegnere ecc., può non bastare alla
moglie d'un grande poeta, d'un celebre filosofo, d'un illustre scienziato, i
quali di necessità richiedono alle loro donne una più robusta formazione
mentale e una ben più vasta cultura per esserne anche soltanto accompagnati,
seguiti, intesi nell'esercizio delle loro attività. Ed eccoci ora al
dissenso. Parlando della cultura e dell' arte pratica della vita, il Crispolti
torna a proporsi indirettamente, per conto suo, la vexata quaestio dei rapporti
fra teoria e pratica, pensiero e vita. E, naturalmente, vede da par suo la
diversa formazione mentale richiesta agli uomini d'azione e agli uomini di pensiero,
nonché la diversità di funzioni a cui gli uni e gli altri sono chiamati. Ma
appunto questo poi gli suscita un dubbio: non sarebbe, per caso, la troppo
intensa cultura intellettuale un grave ostacolo allo sviluppo del senso
pratico? «Mi sto domandando se il guardarsi attorno intelligentemente senza
posa; l'elevare alle regioni del pensiero tutto ciò che ci ferisce la vista,
ossia il menare una vita intellettuale intensa, che debitamente frenata dalla
ponderazione può darci frutti copiosi, originali e buoni nelle lettere e nelle
scienze, non ci renda più inetti all'alta vita pratica, di quel che facesse la
vecchia abitudine degli studi accademici e degli sfoghi retorici, nei quali la
mente non osservava e si può dire non pensava, ossia non acquistava nessuna
verità intorno al mondo e agli uomini, ma si contentava di baloccarsi colle
parole. Probabilmente questa vuotaggine, funestissima alle scienze e alle
lettere, lasciando in riposo e come da parte la capacità quasi istintiva di
sapersi regolare cogli uomini e di saperli regolare, la conservava intatta»
(pp. 191 - 192). E che ciò possa essere e sia, nel fatto, stato, anzi, che
tutto ciò rappresenti la soluzione più spiccia del problema della cultura
pratica, che nella maggior parte dei casi viene appunto risolto lasciando
inaridire nell'uomo le opposte tendenze alla speculazione, va bene. Ma che
possa diventare, sia pur a titolo d'ipotesi, un ideale pedagogico, no: le
soluzioni più spicce non sono sempre, in educazione, né le più efficaci né le
migliori. Il Crispolti qui si è fatto prender la mano, mi sembra, dalla natura
stessa degli esempi che arreca a conforto della sua tesi: d'un Cavour, d'un
Bismark, d'un Napoleone che, pur forniti di mediocri attitudini alla scienza e
d'un mediocre sapere in materia di dottrine politiche, riuscirono più
vastamente pratici ed efficaci nel governo degli uomini, di altri magari più di
loro valenti nel campo dottrinale, sia pur della cultura politica stessa. Dove
giusta è l'osservazione, ma ingiusta la conseguenza pedagogica che il Crispolti
sospetta se ne possa trarre. Trascuriamo, anzitutto, di far la vecchissima
questione se davvero quegli uomini dovessero dirsi meno colti di altri, o se,
invece, la vera cultura politica non fosse proprio da parte loro e da parte
degli altri soltanto l'apparenza libresca di esso o la morta erudizione.
Limitandoci, invece, solo agli aspetti del problema che possono offrire qualche
maggior interesse di novità, il Crispolti aveva qui proprio nel cattolicesimo
un criterio per scoprire il punto di vista sotto cui la innegabile grandezza di
quegli uomini ci si rivela inadeguata a un ideale educativo. Il secolo XIX
infatti (per restringere solo ad esso il discorso) produsse queste grandi
personalità tutte assorbite dal fuoco dell' azione: ferocemente chiuse o
addirittura diffidenti ed ostili verso ciò che non interessasse la loro opera
pratica (si pensi allo spregio di Napoleone verso gli « ideologues »!). E che
siffatte personalità dovessero nascere e adempissero una necessaria funzione
storica, non è dubbio. Ma, appunto per quella loro unilateralità di cui essi
stessi, prima o poi, rimasero vittime, la loro fu una grandezza direi quasi
barbarica e pagana consumatasi tutta nell'atto stesso dello sforzo, del
dominio, dell'imperio divenuto fine a sé medesimo. Lo sgomento del Manzoni che
innanzi alla morte di Napoleone si domanda: «fu vera gloria?» e non sa
rispondere se non col rappresentarsi l'interna tragedia di quell'anima arbitra
fra due secoli, due volte sbalzata dal trono alla polvere, e pacificata solo in
fine, là, «dove è silenzio e tenebre la gloria che passò»: lo sgomento del
Manzoni temperamento insieme e cristiano e moderno, è molto significativo ove
si pensi che cristianesimo e modernità bene intesa sono in ultima analisi
concordi nel richiedere a chiunque, uomo teoretico o pratico che sia, di
ricordarsi anzitutto d'essere uomo; cioè, azione, sì, ma anche pensiero; sforzo
e volontà di conquista, sì, ma anche contemplazione delle cose divine e
raccoglimento interiore. L'uomo pratico che non frena se stesso con l'esercizio
del pensiero, che disavvezza la mente dal considerare sé e le cose sub specie
aeternitatis, potrà acquistare sì una intensissima facoltà di dominio su sé e
sugli altri, ma finirà fatalmente col perdere ciò che col Crispolti chiamerò il
senso dell'umiltà: il senso della necessaria subordinazione del proprio agire
ad una realtà superiore, la religiosità, senza cui anche le più grandi opere
restano edificate sulla sabbia. Specificazione eccessiva significa sempre
unilateralità e unilateralità significa limite: ora, come educare in base a un
limite, sia pur ragionevole quanto si voglia? Quell'ideale napoleonico di
grandezza è andato, del resto, consumandosi da sé per istrada; e oggi è
consueto lamento, innanzi alle situazioni storiche intricate, che ahimè non
nasca più un Napoleone per districarle; lamento in cui, pur fatta la dovuta
parte all'esagerazione e tenuto presente che ogni secolo ha sempre, prima o
poi, i suoi grandi uomini, c'è questo di vero, che la qualità di grandezza
politica richiesta nel complicatissimo sistema della vita moderna, è una forma
di grandezza più umile, meno appariscente, più cristiana, direi, ma non per
questo meno reale. È grandezza più, nel buon senso della parola, democratica,
che aspetta meno dalle personalità eroiche e più dal quotidiano eroismo di
ciascuno, dalla illuminata dedizione di tutti al proprio dovere. È la necessità
per ciascun uomo di scienza di lasciare quando occorra la sua torre d'avorio
per sobbarcarsi a compiere quei doveri, maggiori o minori, che la vita pratica
gl'impone; è la necessità, per ciascun uomo pratico, di avere delle idee e di
fare gli sforzi richiesti a formarsi un chiaro concetto della realtà entro cui
bisogna operare. Dopo il lungo, tormentoso esperimento di oscillazione fra la
democrazia e l'imperialismo che, dalla rivoluzione francese in poi hanno
attraversato le grandi nazioni europee, le virtù puramente “politiche”, la pura
e semplice capacità di dominio sugli uomini, hanno perso credito; e, in tempi
recentissimi, si è più volte assistito all'istruttivo spettacolo di individui
espertissimi nel maneggio pratico degli uomini e delle cose che non hanno più
saputo orientarsi in mezzo alla nuova situazione creatasi nello spirito
contemporaneo, e hanno dovuto rassegnarsi a clamorosi insuccessi. Dirò al
Crispolti, tornando a parlare in termini più strettamente pedagogici, che non è
affatto dimostrato che il miglior mezzo per coltivare un'attitudine sia quello
di inaridire tutte le altre. E, ad evitare un discorso troppo lungo, gli
ricorderò che le attività spirituali si coltivano sì con l'esercizio, ma anche
con un opportuno riposo e che, d'altra parte, ogni attività presuppone per il
suo normale sviluppo lo sviluppo parimente normale di ogni altra attività, non
essendo qui il caso di trasformare in regola le eccezioni per cui grandi
personalità poterono colla sola forza del loro intenso volere colmare d'un
subito in sé, le deficienze e lacune di tal genere. L'antica abitudine della
retorica accademica sembra al Crispolti il modo con cui gl'italiani protessero
e lasciarono crescere il loro senso pratico: ed è strano che a questo proposito
altri pedagogisti - ad esempio il Gabelli - abbiano attribuito al genio
italiano carattere proprio opposto ed abbiano inteso quella stessa retorica
come eccessivo sfogo dato alla speculazione e all'immaginazione a scapito delle
doti pratiche che si sarebbero cosi inaridite. Ciò dimostra certo come sia
difficile raccogliere in una formula generale i caratteri d'un popolo che si
sono venuti formando attraverso il multiforme sviluppo di parecchi secoli. Ma
ciò dimostra anche, a parer mio, come sia rischioso l'interpretare il fiorir
delle grandi personalità italiane, dalle Signorie in poi, a beneficio d'un
singolare incremento dello spirito pratico in Italia. Quelle grandi
personalità sono spesso (mi si conceda l'espressione) retoricamente
individualiste: la loro attività politica si consuma in sé stessa come un
sogno, o come - fu già notato a proposito del Rinascimento - un'opera d'arte
che non ha risultati fuori della sua bellezza; raramente si inquadrano
nell'armonico insieme d'un sistema che le perpetui e le fecondi. E in quanto
esse ci offrono siffatte deficienze, dimostrano appunto che l'abitudine della
retorica fu, in ogni campo, teoretico e pratico, un difetto dello spirito
europeo e non solo italiano. Giacché v'è una retorica della pratica,
consistente appunto nel fatto ch'essa, esaltata per sé sola, finisce col non
esser più pura pratica, ma col farsi di sé medesima una religione e una filosofia:
filosofia dello sforzo, del dominio dell'eroismo, della Realpolitik,
dell'astratto machiavellismo, che noi moderni ben conosciamo sotto tutte le
possibili forme e ch'è una concezione unilaterale della realtà in servigio dei
puri fini pratici, la quale deforma coi suoi schemi ciò che lo stesso sano
istinto pratico (che non è mai praticistico) ispirerebbe. Significa ciò, forse,
che bisogna trascurare una cultura specifica delle attitudini pratiche? No
certo: significa solamente che l'educazione ha da formar tutto l'uomo, e che
attitudini pratiche e attitudini teoretiche possono essere e sono, distinte, ma
non è possibile, né desiderabile, che diventino opposte. L'INSEGNAMENTO
RELIGIOSO NELLE SCUOLE ELEMENTARI Non è ancora spenta l'eco delle discussioni
suscitate dal discorso di Giovanni Gentile per la inaugurazione dell'Istituto
fascista di cultura napoletano: discussione alla quale organi autorevolissimi
(come l'Osservatore Romano e Il Popolo d'Italia) hanno recato il loro
contributo. Noi non pretendiamo certo partecipare a un dibattito nel quale è
meglio che le competenti autorità politiche e religiose siano lasciate libere
di esporre come meglio credono il loro pensiero, al di fuori di ogni altra
minore e, necessariamente, più limitata polemica. Ma, posto che «I Diritti
della Scuola» hanno creduto opportuno fare qualche osservazione in materia, sia
pur contenendola esclusivamente nel campo che può interessare la scuola, e la
scuola elementare in special modo, non sarà male che anche noi aggiungiamo, sulla
stessa materia, qualche altra osservazione in margine, se così può dirsi, a
quelle fatte, - del resto, giova riconoscerlo, con molto garbo e molta cortesia
- dalla Rivista romana. Notano, dunque, «I Diritti della Scuola» che
l'insegnamento religioso nella scuola elementare attende ancora la sua
definizione precisa. A norma del decreto 1 Ottobre 1923, doveva trattarsi, come
pare ovvio, d'un insegnamento impartito secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica. Ma i programmi didattici, e la circolare dell'on. Gentile del
gennaio 1924 sembrano invece, al redattore de «I Diritti», ispirati a una ben
diversa concezione. Non «arido dottrinarismo» o «meccanico formalismo» ma
«poesia e quasi canto della fede», doveva essere l'insegnamento religioso; e non
più la Chiesa, ma l'opera religiosa del Manzoni e le figure più edificanti del
suo romanzo, erano additati come guida a questo nuovo lavoro del maestro. E il
significato di quelle espressioni è, sempre secondo i «Diritti della Scuola»,
molto chiaro. Ci si permetta di riferirne le testuali parole: «La tendenza era
dunque sempre più verso una educazione religiosa che parlasse al cuore
del fanciullo, che facesse vibrare la sua anima ingenua dei sentimenti più
puri, delle più sante aspirazioni a una vita di bene per sé e per gli altri.
Alla Chiesa, se mai, l'insegnare la dottrina cristiana nella sua veste
letterale, non sempre accessibile al fanciullo; alla scuola il proiettare la
luce e il calore della fede sui fatti umani, sul cammino che il fanciullo dovrà
percorrere nella vita. È avvenuto invece l'opposto. A poco a poco
l'insegnamento religioso si è irrigidito nella teologia, nella liturgia, nei
dogmi e nei misteri; si è schematizzato nell'aridità del dialogo catechistico,
anzitutto nelle scuole dove l'ora di religione viene assunta dal sacerdote; e
poi via via anche nelle altre, perché il sacerdote rimane sempre il giudice del
maestro, accompagnandosi all'ispettore per verificare se e come la religione si
impartisce; ed egli non sa, il più delle volte, deflettere (e forse non deve)
dalla lettera dei sacri testi». Noi non vogliamo rivolgere a «I Diritti
della Scuola» alcun rimprovero: le stesse cose sono state dette tante altre
volte, e con intonazione assai meno cortese, che, quanto alla forma, noi, e con
noi i cattolici tutti, non abbiamo nulla da eccepire. Ma è impossibile
trattenersi dall'osservare che, pur sotto la loro forma deferente e garbata,
quelle parole celano una sostanza ben amara per la religione Cattolica e per i
suoi ministri. L'argomentazione de «I Diritti » si basa tutta su un
presupposto, pacificamente e...tacitamente ammesso come incontrovertibile
verità, della quale nessun uomo, sano di cervello, potrebbe minimamente
dubitare. Ecco il presupposto: la «teologia», la «liturgia», i «dogmi» e i
«misteri» costituiscono, non già la religione ma un suo «irrigidimento»: il
catechismo è, non la formulazione dottrinale precisa della fede cattolica, ma
un «arido dialogo», e l'uno e gli altri sono poi assolutamente incompatibili
con l'«anima ingenua», le «aspirazioni sante», i «sentimenti puri» del
fanciullo e dell'uomo. Il sacerdote e la Chiesa di cui egli è ministro non
possono portare nella scuola che «arido dottrinarismo» o «meccanico
formalismo»: se volete la «poesia» e il «canto» della fede, dovete rivolgervi
altrove. Non c'è, dunque, che prendere o lasciare. Se tenete il decreto Gentile
1 Ottobre 1923, insegnerete la religione secondo la teoria e la prassi della
Chiesa Cattolica, cioè con tutto il bagaglio del Catechismo, della Liturgia,
della Teologia, ecc. - ma avrete l'«arido dottrinarismo» che si voleva evitare.
Se v'appigliate, invece, ai programmi didattici o alla circolare del Gennaio
1924, avrete il canto, la poesia, i sentimenti puri e l'anima ingenua, ma vi
converrà gettare a mare la Chiesa, i sacerdoti, la teoria, la prassi e
l'insegnamento cattolico. Evidentemente, fra due posizioni così diverse ed
avverse, bisogna scegliere. E questo appunto domandano, con molto rispetto ma
con molta fermezza, «I Diritti della scuola». Ripetiamolo ancora: sarebbe
ingiusto addossare a «I Diritti» la responsabilità d'un cuore così largamente
diffuso; tanto più diffuso quanto più corrisponde a un pregiudizio che, duole
il dirlo, si trova talora anche fra gli stessi cattolici. La liturgia, arido
formalismo! La liturgia opposta alla poesia ed al canto! La teologia opposta ai
sentimenti buoni e alle aspirazioni generose! Ma brava gente - verrebbe voglia
di dire - avete mai aperto un messale? Avete mai sfogliato un breviario? Avete
mai assistito a una cerimonia religiosa? Intendo, assistito non come vi
assistono le panche o i pilastri, ma comprendendone davvero, intimamente, tutte
le parole e tutti gli atti? E sapete che il messale è fatto delle sacre
scritture, e così pure il breviario? E che quelle sacre scritture sono i libri
biblici, i profeti, i salmi, i vangeli, gli atti degli apostoli, le epistole di
San Paolo e di altri, gli scritti dei Padri, i più begli inni cristiani e via
discorrendo? E non vi pare che come «poesia» e come «canto» ce ne sia abbastanza
da scegliere, anche per le persone di più difficile contentatura? Non
sarò certo io a dir male del Manzoni e della sua opera; ciò nonostante, mi
sembra che, poniamo, San Paolo, Isaia, o Davide siano a loro modo «poeti» non
certo inferiori al grande nostro italiano: il quale, del resto, appunto da
quegli o da altri simili autori, nonché dalla sua vasta cultura profondamente
cattolica e ortodossa trasse, ad esempio, l'ispirazione dei suoi Inni sacri.
Certo, si osserverà, non tutta la poesia delle sacre scritture è accessibile o
comprensibile al fanciullo: ma, d'altra parte, è evidente che nemmeno siamo
obbligati a spiegargliela tutta o tutta in una volta, o tutta collo stesso
grado di profondità. E poi la liturgia non è solo nelle parole: è nella musica,
nel canto, nell'azione del celebrante e degli assistenti, nel colore dei
paramenti sacri, nella architettura stessa del tempio, elementi organizzati e
concatenati da una sapientissima disciplina che riescono quanto mai plastici,
sensibili ed «intuitivi» e parlano all'animo anche delle persone più
illetterate. E la sapienza colla quale tutti quegli elementi sono
proporzionati, volta per volta, alle circostanze e allo stato d'animo cui si
riferiscono! Le Messe funebri, colla loro solenne mestizia, quelle della
Natività, del periodo Pasquale e, in genere, delle grandi feste, colla loro
trionfale esultanza; quelle dell'Avvento e della Quaresima col loro pensoso
raccoglimento, quelle del periodo dopo Pentecoste colla loro luminosa serenità
costituiscono un vasto poema - il ciclo liturgico - nel quale la natura
medesima ha spesso la parola, e le luci e le ombre, i caldi o i geli, le
stagioni e le opere, le più varie circostanze della vita e i fondamentali
sentimenti dell'anima umana trovano necessariamente un'adeguata espressione.
Poiché la Chiesa ha conosciuto molto prima dei pedagogisti il metodo
«intuitivo» e colla musica, col canto, colle pitture, con l'architettura dei
suoi templi e il suono delle sue campane, ha saputo parlare alle plebi
illetterate quando ispettori, maestri, direttori, leggi scolastiche, letterali
e poeti erano di là da venire! Certo, la conoscenza assidua e amorosa
della liturgia non è, neppure fra i cattolici, oggi diffusa quanto si potrebbe
desiderare. Ma il movimento liturgico, promosso e diretto dall’instancabile
zelo e delle autorità ecclesiastiche e di molte organizzazioni cattoliche va
facendo ogni giorno progressi. E basti qui ricordare l'opera della Società
francese di San Giovanni Evangelista, e, fra noi, quella dell'Abate Emanuele Caronti
per la volgarizzazione e la diffusione della liturgia: per tacere dei molti,
ottimi testi per le scuole elementari, dove la liturgia ha, molto
opportunamente, una parte notevole. Per gli amatori di «curiosità» pedagogiche
ricorderemo gli esperimenti fatti in Ispagna, a tal proposito, col metodo
Montessori; la partecipazione dei fanciulli all'Offertorio della Messa,
mediante un'offerta che risuscitava le più antiche tradizioni della Chiesa: il
grano e la vite coltivati, pure dai fanciulli, come materia delle specie
sacramentali, e via dicendo. Tutti espedienti, senza dubbio, utili e
giovevolissimi, ma che sono ben lungi dal costituire, come forse taluno
potrebbe credere, una novità rispetto alla teoria e alla prassi della Chiesa,
che ha sempre chiamato i fanciulli al servizio degli altari, come si può vedere
persino nelle più remote parrocchie dei più remoti villaggi: anche senza le
panchettine, le pilettine, gli inginocchiatoi minuscoli e tutto l'armamentario
a scala ridotta del metodo montessoriano. E passo all'altro,
apparentemente più scabroso argomento della «teologia» o del «catechismo», che
sarebbe, in fondo, una teologia elementare per fanciulli, come la teologia è un
catechismo degli adulti. Ora, la teologia è il pensiero di cui la liturgia è la
esterna e multiforme espressione, è l'anima di cui la liturgia è il corpo.
Evidentemente, chi ignora l'una non può afferrar bene l'altra, a meno di
non essere un filosofo o uno scienziato così abituato a muoversi fra i concetti
puri, da potervisi collocare stabilmente senza bisogno di altri sussidi; e
anche allora l'ignoranza della liturgia (cioè la negligenza nell'usare quei
mezzi che la Chiesa ha messo a nostra disposizione appunto per comprendere e
praticare la sua dottrina) produrrà sempre i suoi effetti funesti, poiché in
fine l'uomo, anche scienziato, non è una intelligenza pura, ma un composto di
anima e corpo, di senso e intelletto, né può fare a meno in nessun caso di
sorreggere il proprio pensiero con stimoli sensibili. Si capisce, dunque, facilmente,
che presso coloro i quali non sono né filosofi né scienziati, o comunque hanno
trascurato di completare la propria cultura religiosa con una buona cultura
liturgica, il catechismo sia spesso una anima senza corpo, dia, cioè,
quell'impressione di arido formalismo e di dottrinario schematismo che tanto
dispiace, e nella scuola e fuori, e che tanto urta le delicate esigenze
dell'anima infantile. Ma ricostituite quella unità che avete spezzato:
ricongiungete la teologia alla liturgia, secondo, appunto, la teoria e la
prassi della Chiesa Cattolica, e le verità del catechismo, aride in apparenza,
si vestiranno dei più smaglianti colori: diverranno verità, non solo, apprese o
ripetute a parole, ma vissute, sentite, amate, alle quali neppure l'anima del
più rozzo analfabeta saprà rimanere insensibile. È difficile il concetto della
transustanziazione? Eppure anche il fanciullo e la donnicciola cantano e
sentono il Pange lingua. È difficile l'idea della resurrezione della carne?
Eppure nessuno, che non sia un idiota o un deficiente, può ascoltare senza
fremere le parole del vangelo giovanneo, dette dal sacerdote: Ego sum
resurrectio et vita. Questo non vuol dire, d'altra parte, che anche il
catechismo puro e semplice non possa dì per se stesso costituire la base d'un
insegnamento vivo, agile, plastico, "intuitivo" ed "attivo"
condotto secondo i migliori criteri pedagogici. Tutto sta nel modo con cui
viene insegnato. Accusarlo di aridità perché lo si vede, sulla carta,
costituito da tante domande e risposte, sarebbe come accusare di aridità
l'aritmetica perché, nel libro, altro non si trova che l'enunciato dei problemi
o le definizioni nude e crude. Quelle domande e quelle risposte sono l'oggetto
dell'insegnamento, il termine ultimo cui si deve arrivare; non sono il metodo,
la via, o il punto di partenza. E sul metodo appunto la didattica catechistica
odierna ha una quantità di studi notevolissimi, ove, ad esempio, le questioni
inerenti al metodo "intuitivo" e ai suoi sussidi didattici sono state
discusse e trattate esaurientemente. Citiamo, per restare fra i nomi italiani,
le interessanti ricerche dei Monsignori Pavanelli e Vigna. Il movimento circa
la didattica catechistica, da vari anni già, è non meno notevole e non meno
confortante del movimento liturgico. Ora, ignorare tutto questo, e continuare a
parlare del catechismo come se fosse insegnato a memoria, e magari, a suon di
scappellotti, significa precludersi senz'altro la via di discutere con
imparzialità e competenza. Che se, qualche volta, nemmeno l'istruzione
catechistica impartita coi metodi migliori, dà i risultati che se ne potrebbero
attendere, la colpa non è davvero della Chiesa o dei suoi sacri testi. Datemi
una società come quella cristiana primitiva, e io vi dispenso dall'osservanza
di qualsiasi didattica; sicuro che, per quanto schematiche, le parole del
maestro troveranno sempre, nella vita religiosa quotidiana, di che riempirsi in
abbondanza anche per il fanciullo più scafato e testardo del mondo; sicuro che
le massime, gli esempi, le abitudini d'una società e d'una famiglia troppo
spesso indifferenti o ribelli alla parola della Chiesa non mi ridurranno le
definizioni catechistiche allo stato d'una pallida larva. Anche qui, dunque, il
segreto per avere una cultura religiosa, ricca, calda, piena di pathos e di
poesia, e perciò armonica ai fondamentali bisogni dell'animo infantile,
sta non nell’allontanarsi, ma nell'avvicinarsi sempre più all'insegnamento
genuino della Chiesa. Non sapremmo, perciò, vedere alcuna contraddizione
fra il decreto Gentile del 1 Ottobre 1923 e la circolare del Gennaio 1924 dello
stesso ministro, o i programmi didattici, poiché, seguire la teoria e la prassi
della Chiesa Cattolica nell'insegnamento religioso, significa per l'appunto
dare al fanciullo la "poesia", il "canto" e tutte le altre
belle cose annesse e connesse. Né può lasciar adito a equivoco il nome del
Manzoni, il laico così geloso della propria ortodossia, da riuscir più
ortodosso di molti sacerdoti suoi contemporanei, quali, poniamo, il
Lambruschini o il Gioberti. Che se contraddizione c'è stata fra il decreto e la
circolare, o il decreto e i programmi, essa è stata piuttosto nella mente del
loro autore che nella realtà delle cose e appartiene, dunque, alla storia della
cultura o della filosofia italiana e non a quella della legislazione
scolastica. Il cattolicesimo, non è il protestantesimo, e perciò sarà sempre un
osso troppo duro pei denti dei filosofi volenterosi che si proveranno a
maciullarlo e a convertirlo in poltiglia per uso delle loro costruzioni metafisiche.
Sotto questo aspetto, la nota de "I Diritti" è, per noi, molto
significativa e confortante: è il sintomo d'un grandioso insuccesso, da parte
di chi aveva creduto poter introdurre il cattolicesimo nella scuola, come veste
mitologica inferiore d'una verità filosofica che, più tardi, lo avrebbe
superato e divorato. Dal 1923 sono passati cinque anni e il cattolicesimo, ben
lungi dall'essere “superato” è lì, colla sua teologia e la sua liturgia, i suoi
dogmi e i suoi misteri, che minaccia gravemente di "superare" gli
altri e di mangiarsi in due bocconi le stesse filosofie più evolute, alle quali
sta contendendo energicamente il possesso delle scuole medie e superiori che
pure s'erano riservate. Lo scandalo diventa grave: e "I Diritti "
hanno tutte le ragioni d'esserne preoccupati, posto che stia loro a cuore
davvero, la sorte delle filosofie "evolute": il che, sinceramente,
non auguriamo. INDICE 5 Prefazione 9 La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino 65
L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia 125 Filosofia, Religione e
" Filosofie " nelle Scuole Medie 163 Pedagogia cattolica 195
L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Il problema della dialettica
oxoniense suscita una difficoltà. Il chiedere soltanto come è possibile
che il tutore (Socrate) comunichi al tutee (Alcebiade) una determinate
cattitudine psicologica sembra implicare, se non addirittura una
contraddizione, certo un paradosso quasi insormontabile, dato che il termine
"tra-smettere" o "co-municare" o qualsiasi altro termine
consimile che si adoperi a definire l'azione di Socrate su Alcebiade
("conversare") non sembra possa riflettere, se non in maniera molto
imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo
filosofico. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale o corporale, o
fisico, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse
"co-municar-si", "tras-metter-si" o cambiar sede, come una
moneta che passa di mano in mano, ma nella dialettica oxoniense *ciò che* si
"tras-mette" è essenzialmente un valore ideale, immateriale,
non-fisico, spirituale, come la scienza, la cognoscenza, la virtù, un contenuto
proposizionale, un complesso proposizionale non-naturalistico. E questo
complesso proposizionale (in parte sensibile) tanto poco si lascia
«tras-mettere», nel significato explicito dell'espressione (Latino, mettere
trans), poiché il complesso proposizionale ha la sua base percetuale, come
Peacocke nota, in un atto interno della mente del soggetto Socrate. E un atto
di tal genere è tanto impossibile "tras-portarlo" dall'anima del
soggetto Socrate all'anima dell'altro soggetto Alcebiade, quanto è impossibile
che il soggetto Socrate trasmetta ad Alcebiade ciò che costituisce la sua
intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade!
Mario Casotti. Keywords: sì che Socrate si tramuti in Alcibiade! Grice: “And
perhaps Socrates *becomes* Alcibiades!” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Casotti” – The Swimming-Pool Library.
CASTELLI
CASSIODORO BRUZI. (Squillace). Filosofo. Grice: “Cassiodoro was
possibly a genius; I mean, I wrote a logic, and so did he – but he was ‘consul’
on top! My favourite – and indeed, the ONLY tract by him I recommend my tutees
is his “Dialettica” – Strawson prefers his “De anima,” but ‘anima’ is a
confused notion, for Wittgenstein and neo-Wittgensteinians alike – no souly
ascription without behaviour that manifests it! – whereas with ‘dialettica’ you
are safe enough!” –Grice: “I should be pointed out that of the three of the
trivial arts – ‘dialettica’ is the only one that deals with my topic,
conversation or dia-logue – grammatical is almost autistic, and rhetoric is for
lawyers, i. e. sharks! Only ‘dialettica’ represents why those in the Lit. Hum.
programme chose ‘philosophy’!” Grice: “Dialettica INCORPORATES all that
grammatical and rettorica can teach!” -- Cassiodoro
Flavio Cassiodoro Gesta TheodoriciFlaviusMagnus Aurelius Cassiodorus. Cassiodoro,
da un manoscritto su vellum del XII secolo. Magister officiorum del Regno
Ostrogoto Durata mandato523533 MonarcaTeodorico il Grande (fino al 30 agosto
526) Atalarico (fino al 533) PredecessoreSeverino Boezio Prefetto del pretorio
d'Italia Durata mandato533533 MonarcaAtalarico SuccessoreVenanzio Opilione
Durata mandato535537 MonarcaTeodato (fino all'autunno 536) Vitige (fino al
maggio 540) PredecessoreVenanzio Opilione Successore Fidelio Dati generali
Professionefilosofo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore (latino: Flavius
Magnus Aurelius Cassiodorus Senator. Visse
sotto il regno degli ostrogoti. Percorse un'importante carriera politica sotto
il governo di Teodorico ricoprendo ruoli tanto vicini al sovrano, da far
pensare in passato ad un effettivo contributo diretto al progetto del re ostrogoto.
Successore di Boezio, oltre che consigliere, fu cancelliere de Teodorico e il
compilatore delle sue lettere ufficiali e dei provvedimenti di legge. Collabora
anche con i successori di Teodorico. Al termine della guerra si stabilì
in via definitiva presso Squillace, dove fondò la biblioteca di Vivario. La
fonte principale che ci permette di conoscere la famiglia di Cassiodoro è data
dalla sua più vasta e importante opera, le “Variae”. Nacque in una delle più
stimate famiglie dei Bruzi, facente parte del patriziato. L'origine del nome è
da ricercarsi in un luogo di culto dedicato a Giove. Da una lettera scritta da
Cassiodoro per Teodorico abbiamo notizie sui suoi genitori, così come su un
parente di nome Eliodoro. Dall'antica origine della famiglia si può comprendere
la scelta dei Bruzi come nuova patria, essendo questa una zona della Magna
Grecia. Si hanno notizie inoltre del suo bonno, definito “vir illustris” e del
nonno Senatore. Quest'ultimo fu tribuno sotto Valentiniano III, e in qualità di
ambasciatore conobbe il re degli Unni Attila. Odoacre e Teodorico
ritratti nelle Cronache di Norimberga. Al padre furono indirizzate alcune
lettere delle “Variae”, il che ci offre più dati su di lui. Ricoprì il ruolo di
comes rerum privatarum e successivamente di comes sacrarum largitionum nel
governo di Odoacre. Mantenne la propria posizione di funzionario
d'amministrazione anche sotto Teodorico, tanto da diventare governatore
provinciale. Lo si ritrova governatore della Sicilia, e dopo essere entrato
nelle grazie di Teodorico, governatore della Calabria, quando si ritirerà alla sua
villa. Così come per i suoi familiari, ricaviamo notizie sulla vita di
Cassiodoro solo dalle sue opere. La nascita e quella indicata dal Tritemio nel
suo “De scriptoribus” (Basilea 1494). Il menologio lo ricorda il 25 settembre. Per
quelli che, come Theodor Mommsen, non ritengono attendibili i dati del
Tritemio, le date di nascita e morte di Cassiodoro rimangono ipotizzate,
principalmente grazie a quelle note dei suoi incarichi amministrativi;
nonostante ciò molte cronache tendono a confondere alcuni dati della vita di
Cassiodoro con eventi vissuti dal padre, attribuendo una grande longevità al
letterato di Squillace. Proprio per quanto riguarda Squillace, non è certo che
vi nacque. Molto più probabilmente vi passò l'infanzia, ricevendo dalla propria
famiglia una prima educazione e seguendo degli studi. Ancora giovane fu avviato
dal padre alla carriera pubblica, per la quale ricopre anzitutto il ruolo di “consiliarius”,
per poi diventare quaestor sacri palatii, forse perché Teodorico apprezza
particolarmente un panegirico che egli aveva composto. Poco tempo dopo
ricevette il governatorato di Lucania e Bruttii, notizia che si può apprendere
da una lettera inviata al cancellarius Vitaliano. Seguendo differenti
interpretazioni storiche, questa congettura è stata però di recente messa in
dubbio. Risale la designazione a console. Nonostante si trattasse ormai di una
carica onorifica manteneva una certa importanza, permettendolo di ricoprire il
ruolo di eponimo. Dei anni successivi non si conosce salvo la pubblicazione
della Chronica. Successivamente, fu nominato magister officiorum del re,
succedendo nella carica a Boezio. Il ruolo e di grande prestigio, e rappresenta
con esso il capo dell'amministrazione pubblica, degli official e delle scholae palatinae. Alla morte di
Teodorico, si apre una complessa fase di
successione. Divenne ministro della la figlia di Teodorico, succedutagli sul
trono come reggente per il figlio Atalarico. Presumibilmente perdette parte
della sua influenza nei primi anni di tali mutamenti politici, ma seppe poi
riproporsi e, con un lettera di Atalarico, guadagna il titolo di Prefetto del
pretorio per l'Italia. Non ricopre questo ruolo politico per molto tempo.
Atalarico morì e ai consueti problemi di successione si aggiunse la malvolenza
di Giustiniano verso gli ostrogoti, insofferenza che culminò poi con la guerra
gotica. Resse nuovamente la prefettura, sotto i re Teodato e Vitige, per poi
abbandonare definitivamente la carriera pubblica. Nelle Variae si possono
trovare le ultime lettere scritte per conto di Vitige, anche se non viene detto
nulla sul concludersi della sua funzione politica né si sa alcunché dei suoi
successori. Di fronte all'avanzata bizantina rimase dapprima in ritiro a
Ravenna, luogo che offriva ancora una certa sicurezza. Ravenna e conquistata
dalle truppe imperiali, e da quel momento si perdono le sue tracce. Le
alternative vagliate sono una permanenza a Squillace, dove però avrebbe avuto
scarse possibilità di movimento, o una permanenza più lunga a Ravenna. Lo si
ritrova nel seguito di papa Vigilio a Costantinopoli, città nella quale
potrebbe anche aver soggiornato, secondo una terza ipotesi, in un periodo
precedente alla data conosciuta. Rientrò nei Bruttii solo dopo la fine della
guerra, ritiratosi definitivamente dalla scena politica, fondò il monastero di
Vivario presso Squillace. Si hanno anche per questa parte della sua vita
pochissime informazioni, non si conoscono quindi le motivazioni che lo
portarono alla creazione di questa comunità monastica né particolari sulla
contemporanea situazione politica della penisola italica; per quanto riguarda
la sua situazione personale, si può ipotizzare che non ebbe eredi diretti. Al
Vivarium trascorse il resto dei suoi anni, dedicandosi allo studio e alla
scrittura di opere filosofiche. Qui istituì uno scriptorium per la raccolta e
la copiatura di manoscritti, che fu il modello a cui successivamente si
ispirarono i studii. Opera, il De ortographia. IL'obiettivo principale del
progetto politico-culturale di Cassiodoro fu quello di accreditare il regno
teodericiano come una restaurazione del Principato, ossia quella forma di
governo che aveva garantito la collaborazione, formalmente quasi paritaria, tra
l'imperatore e la classe senatoria. Questa autorappresentazione del governo goto
serviva in primo luogo come legittimazione del regno nei confronti dell'Impero
costantinopolitano. Sostanzialmente, essendosi conformato il regime ostrogoto
al modello imperiale, il primato dell'imperatore e fondato esclusivamente su un
piano carismatico (pulcherrimum decus). Al tempo stesso, tale imitazione da
parte di Teoderico poneva l'Amalo in una posizione di superiorità nei confronti
degli altri regni barbarici attraverso un principio politico-carismatico,
basato su una gerarchia di due livelli (l'impero e il regno di Teoderico, gli
altri regni), con un vertice binario e leggermente asimmetrico. Tra tutti gli
altri dominantes, Teoderico era il solo che, per volontà divina, aveva saputo
dare al suo regno gli stessi fondamenti etici e legali dell’imperium: il suo
regno era una replica perfetta del modello imitato e a sua volta un
modello.» (Andrea Giardina[43]) La prospettiva di Cassiodoro, infatti,
non è più l'impero universale, bensì quella nazionale dell'Italia
romano-ostrogota, autonoma ed egemone rispetto agli altri regni occidentali,
sebbene siano state avanzate riserve circa la reale ambizione di Teoderico di
assumere l'eredità del decaduto Impero romano d'Occidente. In particolare, il
fondamento dell'ideologia cassiodoriana ruota intorno al concetto di “civilitas”,
che indica tanto il rispetto delle leggi e dei princìpi della romanità, quanto
la convivenza sociale, giuridica ed economica di romani e stranieri fondata
sulle leggi. Secondo Cassiodoro, il regno goto si sarebbe fatto custode della
civilitas, garantendo così la giustizia e la pace sociale (l’otiosa
tranquillitas, cioè l'obiettivo di ogni buon governo), in accordo con la legge
divina e la migliore tradizione imperiale romana. Il richiamo all'ideologia del
Principato da parte di Teoderico e Atalarico si basa, nella fattispecie,
sull'emulazione della figura di Traiano, così come tratteggiata nel Panegirico
di Plinio il Giovane. Con il regno di Teodato, invece, il principale modello di
riferimento fu quello dell'”imperatore-filosofo” -- un ideale etico-politico
ampiamente imbevuto di caratteri neoplatonici. In seguito, nell'impellenza
della guerra greco-gotica, Vitige si distinse per il recupero di un'ideologia
più specificamente germanica, in cui e messi in risalto le virtù bellica e l'ardore
guerriero. San Benedetto da Norcia. Inoltre esiste la possibilità che un primo
abbozzo di ciò che sarebbe diventato il monastero esistesse già da tempo,
presente nei territori di Squillace da una data sconosciuta e utilizzato come
residenza da Cassiodoro solo al ritorno in patria dopo la guerra gotica. Ad
ogni modo non aiuta nelle varie ipotesi il silenzio delle fonti, poiché le
Variae erano state già pubblicate e nessuna delle opere dell'ormai ex politico
trattò di questa fondazione; nulla si conosce sul parto di questo progetto, né
quando quest'idea fosse stata concepita.[59] Nonostante si intuisca dalle
ultime opere di Cassiodoro un avvicinamento potente alla fede cristiana (si
pensi al De anima e all'Expositio Psalmorum[60]), il monastero di Vivario
nacque con uno scopo differente dal celebre Ora et labora: l'obiettivo
principale del nucleo monastico fu infatti la copiatura, la conservazione,
scrittura e studio dei volumi contenenti testi dei classici e della patristica
occidentale. La caratteristica di Vivarium era quindi la sua forma di
scriptorium, con le annesse problematiche di rifornimento materiali, studio
delle tecniche di scrittura e fatiche economiche. I codici e manoscritti
prodotti nel monastero raggiunsero una certa popolarità e furono molto
richiesti. Le forme entro cui si espresse invece l'organizzazione monastica dal
punto di vista religioso sono ben poco chiare, né aiuta l'assenza di
riferimenti alla vicina esperienza di Benedetto da Norcia; forse Cassiodoro non
ne conobbe neppure l'esistenza, o potrebbe averne parlato in opere non
giunteci. Alcuni storici avanzano l'ipotesi che la Regula magistri, su cui si
basa la Regola benedettina, sia addirittura opera dello stesso Cassiodoro. Questo
presunto rapporto tra i due è però generalmente rigettato dagli studiosi, anche
alla luce di alcune citazioni provenienti dalle Institutiones che chiariscono
le norme monastiche adottate da Vivarium:[64] «Voi tutti che vivete
rinchiusi entro le mura del monastero osservate, pertanto, sia le regole dei
Padri sia gli ordini del vostro superiore e portate a compimento volentieri i
comandi che vi vengono dati per la vostra salvezza... Prima di tutto accogliete
i pellegrini, fate l'elemosina, vestite gli ignudi, spezzate il pane agli
affamati, poiché si può dire veramente consolato colui che consola i
miseri.» (Cassiodoro, Institutiones.[65]) Ritratto del profeta
Esdra nel quale per molto tempo si riconobbe la figura di Cassiodoro, contenuto
nel Codex Amiatinus. Questa citazione mostra come Vivarium seguisse quindi le
più comuni regole monastiche contemporanee, mentre altri passaggi delle
Institutiones ci suggeriscono un ruolo laico per Cassiodoro, forse esterno alla
vita monastica e puramente patronale Il vero centro vitale di Vivarium
era, particolare che segna la differenza con ogni altro centro monastico, la
biblioteca. Cassiodoro distingue inoltre i libri del monastero da quelli
personali, differenza poi scomparsa in un periodo successivo. E la biblioteca,
infatti, come centro di cultura di tutto il monastero, la novità del suo
programma, una biblioteca nata ed accresciuta secondo le intenzioni del
fondatore che dei suoi libri conosceva non solo la sistemazione, perché l'aveva
curata personalmente, ma anche i testi, perché li aveva studiati, annotati,
arricchiti di segni critici, riuniti insieme secondo la materia in essi
trattata e persino abbelliti esteriormente. Il monastero prende nome da una
serie di vivai di pesci fatti preparare dallo stesso Cassiodoro. La loro
presenza rappresentava un forte valore simbolico, legato al concetto di Cristo
come Ichthys. Non lontano dal centro si trovava una zona per anacoreti,
riservata a monaci con pregresse esperienze di vita cenobitica. Vivarium sorgeva,
secondo gli studi ad oggi compiuti, nella contrada San Martino di Copanello,
nei pressi del fiume Alessi. In quella zona fu ritrovato un sarcofago datato VI
secolo, associato a graffiti devozionali e subito considerato la sepoltura originale
di Cassiodoro. Per ciò che riguarda la ripartizione del lavoro, i monaci
inadatti a seguire la biblioteca con annessi oneri intellettuali sono destilla
coltivazioni di orti e campi, mentre i letterati si occupavano dello studio
delle sette arti liberali (dialettica, retorica, grammatica, musica, geometria,
aritmetica, astrologia) questi ultimi erano divisi in notarii, rilegatori e
traduttori. Le opere di carità erano espressamente raccomandate dal fondatore, e
legati a queste fiorivano gli studi di medicina. Cassiodoro fece preparare tre
edizioni differenti della Bibbia e si occupò di copiature e riscritture di
molti altri testi della cristianità, considerando tutto ciò una vera e propria
opera di predicazione. Non mancano però nella biblioteca di Vivarium i testi
profani: tra gli altri furono salvati grazie all'opera di Cassiodoro le
Antiquitates di Flavio Giuseppe e l'Historia tripartita. Le opere di Cassiodoro
del periodo di Teodorico, quelle da noi conosciute, sono tre: le Laudes, la
Chronica e l'Historia Gothorum. Della prima si sono conservati solo due
frammenti, mentre della Gothorum Historia rimane solo un'epitome a opera dello
storico Giordane. La Chronica racconta la saga dei poteri temporali di tutta la
storia, dai sovrani assiri sino ai consoli del tardo Impero, passando
ovviamente per tutta la storia romana. Possediamo un frammento di un'ulteriore
opera, l'Ordo generis Cassiodororum, che ci offre notizie sulla famiglia
dell'autore. Tra la produzione di Cassiodoro occupano un posto speciale le
Variae, raccolta di documenti ufficiali scritti i quali ci offrono quindi
informazioni su differenti periodi della vita dell'autore e sulla storia dei
Goti. A queste si può aggiungere il “De Anima”, opera per la prima volta
lontana da interessi politici e invece basata su temi della filosofia
psicologica. Il terreno religioso è battuto anche dalla successiva Expositio
Psalmorum, commento ai salmi di particolare importanza poiché unico esempio
pervenutoci dal mondo tardo antico. Al periodo di Vivarium appartengono tra le
opere a noi giunte, le Institutiones, le Complexiones in epistolas Beati Pauli
e le Complexiones in epistolas catholicas, le Complexiones actuum apostolorum
et in Apocalypsi e il De ortographia. La prima, senza dubbio l'opera più importante
di Cassiodoro, è datata in un periodo in cui il centro monastico era
sicuramente avviato; rappresenta sostanzialmente una "guida" per gli
studi nel monastero, è ricca di informazioni sulla vita dei monaci e sulle
opere intellettuali da loro compiute. Il De ortographia sarà la sua ultima
opera, scritta attorno ai novant'anni. Uno scritto di chiari intenti
politici è la Chronica, una sorta di storia universale scritta nel 519 su
richiesta per celebrare il consolato di Eutarico Cillica (diviso con
l'Imperatore Giustino), genero di Teodorico e designato al trono. Il sovrano
d'Italia non aveva eredi maschi mentre Eutarico, sposandone la figlia
Amalasunta, era riuscito a donargli un nipote, Atalarico. Alla luce di questa
nuova dinastia, la scelta di offrire il ruolo di console a Eutarico
rappresentava quindi un importante evento politico: si trattava della celebrata
unione tra i romani ed i goti, progetto che poi fallirà tragicamente. L'opera,
che come comprensibile dal titolo ha chiari fini storici, propone una
successione dei grandi poteri politici succedutisi nella storia, passando da
Adamo sino ad approdare al 519 con Eutarico. È basata su numerose fonti che
Cassiodoro spesso cita quali Eusebio, Gerolamo, Livio, Aufidio Basso, Vittorio
Aquitano e Prospero d'Aquitania. Per la trattazione successiva al 496 invece
l'autore è autonomo. L'elemento dell'opera che maggiormente colpisce è il suo
carattere spiccatamente filo-gotico. Cassiodoro arriva a manipolare alcuni
eventi storici o a farne addirittura scomparire altri, al fine di non far
apparire i Goti sotto un'oscura luce. Historia Gothorum Re Davide
vincitore in una miniatura dall'Expositio Psalmorum, presente nell'edizione del
Cassiodoro di Durham. Una delle sue opere più importanti fu il De origine
actibusque Getarum (più noto come Historia Gothorum) in 12 libri, nel quale la
sua ideologia filogotica era tracciata e sviluppata in maniera più
organica.[83] Si considera l'opera contemporanea o poco successiva alla
Chronica, anche se più studiosi tendono a ritenerla più recente, forse composta
tra il 526 e il 533. Certamente la stesura fu caldeggiata da Teoderico, per
essere infine pubblicata sotto Atalarico. Nonostante ciò essa ci è pervenuta
solo nella versione ridotta dello storico Giordane, i Getica. Prima storia
nazionale di un popolo barbarico, la Historia Gothorum era tesa a glorificare
la dinastia degli Amali, la stirpe regnante, attraverso una ricostruzione della
storia dei Goti dalle origini ai tempi presenti. Il tentativo più ardito
dell'opera fucome emerge dal titolo stessol'identificazione dei Goti con i
“geti” -- popolazione già nota a Erodoto e maggiormente conosciuta dal mondo
romano. Il racconto narra eventi storici e come scopo ha inoltre quello di
celebrare l'unione tra goti e romani, qui comprovata dal matrimonio tra il
romano Germano Giustino e l'amala Matasunta. Il fine ultimo dell'opera lo
svelaper bocca di Atalarico Cassiodoro stesso. Questi Cassiodoro ha sottratto i
re dei Goti al lungo oblio in cui li aveva nascosti l'antichità. Questi ha
ridato agli Amali la gloria della loro stirpe, dimostrando chiaramente che noi
siamo stirpe regale da diciassette generazioni. L'origine dei goti egli ha reso
storia romana, quasi raccogliendo in una corona fiori prima sparsi qua e là nel
campo dei libri. Dell’Ordo generis Cassiodororum rimane un solo frammento in
più copie. Il l testo, dalla difficile interpretazione, fu composto negli
anni della carriera pubblica di Cassiodoro ed è dedicato a Rufio Petronio
Nicomaco Cetego. L'opera offre rare notizie sulla famiglia di Cassiodoro, in
particolare sul padre; nelle poche righe centrali vengono nominche Boezio e
Simmaco, il che farebbe pensare ad un qualche grado di parentela tra l'autore e
queste due figure, impossibile attualmente da stabilire. La sua attività di
funzionario al servizio del regno goto è testimoniata dalle Variae, una
raccolta di lettere e documenti, redatti in nome dei sovrani o trasmessi a
firma dell'autore stesso in un arco di tempo che va dall’assunzione della
questura al termine della carica di prefetto al pretorio. Il titolo come
l'autore spiega nella prefazione all'opera è dovuto alla “varietà” degli stili
letterari impiegati nei documenti del corpus, il quale divenne successivamente
un riferimento per lo stile cancelleresco e curiale. Espone nella praefatio
dell'opera il fine di questa raccolta di testi, ovvero la necessità di fornire
nozioni utili a chiunque si dovesse in futuro accostare alla carriera pubblica.
Ulteriore obiettivo dichiarato è quello di far conoscere i propri trascorsi
come membro del ceto dirigente.[85] Le Variae sono assai utili per conoscere le
istituzioni, le condizioni politiche, morali e sociali sia dei Goti sia dei
Romani dell'Italia del tempo.[85] De anima Cominciato poco prima della conclusione
delle Variae, il “De anima” è considerato da Cassiodoro come una sorta di
tredicesimo volume per quest'opera, quasi ne rappresentasse l'appendice. Affronta
temi esterni al mondo della politica, avvicinandosi agli stessi interessi
spirituali che poi toccherà con la Expositio Psalmorum. Il “De anima” si dipana
su dodici questioni, tra le quali l'incorporeità e il destino dell'anima,
legata alla tradizione di Tertulliano, Agostino e Claudiano Mamerto. Anche per
l’Expositio Psalmorum non è possibile dare una datazione certa, anche perché la
sua composizione sembra essere stata portata avanti per un periodo abbastanza
prolungato. Si tratta di un commento completo ai salmi, unico esemplare
rimastoci da tutta la tarda antichità. Per mole è certamente l'opera maggiore
di Cassiodoro, anche se non viene considerata la più matura tra le sue
produzioni. Una più ampia influenza nel Medioevo ebbero le sue Istituzioni, “Institutiones
divinarum et saecularium litterarum”, erudita introduzione alle sette arti
liberali – dialettica, retorica, grammatical – musica, geomtrica, aritmetica. Progettata
dopo che la richiesta di Cassiodoro per la fondazione di un'studi ricevette una
risposta negativa da papa Agapito I, l'opera visse un lungo periodo di
incubazione: basti pensare che al suo interno cita il De orthographia, ultima
opera attestata di Cassiodoro. Il lavoro su questa enciclopedia si suddivide in
varie sezioni: la prima presenta i vari libri della Bibbia, la storia della
Chiesa e degli studi teologici; la seconda si occupa di quelle arti incluse
successivamente nel trivio e quadrivio, con un occhio rivolto alla cultura
pagana e alle norme atte per trascrivere correttamente gli antichi. Altre opere
sono citate direttamente da Cassiodoro nel De orthographia. Complexiones in
Epistolas et Acta apostolorum et Apocalypsin; si tratta di un commento ad
alcuni passi degli Atti degli Apostoli e dell'Apocalisse di Giovanni Expositio
epistolae ad Romanos (Commento alla lettera dei Romani). Liber memorialis;
breve riassunto del contenuto della Sacra Scrittura. Historia ecclesiastica
tripartita, di cui fu autore della sola prefazione. De orthographia; trattato
destinato a fissare norme e regole per la trascrizione di scritti antichi e
moderni. Senator è parte integrante del nome e non già designazione della
carica pubblica (Momigliano, 1978,
494-504; Momigliano, 1980487). Le
ipotesi che vogliono Cassiodoro organizzatore e stratega nascosto dietro
Teodorico sono ad oggi considerate generalmente infondate, superate dalla
tradizione che vede Cassiodoro estraneo alla politica del regno; Cardini,
2009109. Cardini, 200911; Abbate,
Cardini, Momigliano, 1980487. In Siria
si trovano attestati i nomi Κασιόδωρος e Κασσιόδωρος. Cassiodoro, Variae,
I, 3. Noto come Mons Cassius, da questo
deriva Kassiodoros, ovvero "Dono del Monte Cassio". Cardini,
200972. Cassiodoro, Variae, I, 4. Cassiodoro, Variae18. Onore guadagnato forse per la difesa della
Calabria dai Vandali di Genserico nel 404.
Michel Rouche, IV- Il grande scontro (375-435), in Attila, I
protagonisti della storia, traduzione di Marianna Matullo, 14, Pioltello (MI), Salerno Editrice, , 87,
2531-5609 (WC ACNP). Cardini, 200974. Tuttavia non si conosce né la data in cui
ricoprì la carica né il nome della provincia. Cardini, 200975. Il nome stesso di Cassiodoro viene riportato
solo nelle lettere dei papi Gelasio, Giovanni II e Vigilio. In Cardini, 2009, 75-76 ci si sofferma su dizionari e prontuari
la cui affidabilità è considerata generalmente affidabile; in particolare si
cita l'opera Lessico classico di Federico Lübker. Cardini, 2009, 75-76; a novant'anni scriverà ad esempio nel
Vivarium un trattato di ortografia. Franceschini, 200830. Cardini,
200976. Cassiodoro, Ordo generis, 27-32; si tratta di una carica pubblica con
funzioni di consigliere. Cassiodoro, Variae,
IX, 24. Cassiodoro, Variae, IX, 39. Cardini. La congettura si basa
su un passo delle Variae, in cui però Cassiodoro non afferma esplicitamente di
essere stato governatore dei Bruzi. Questa ipotesi è stata rimessa in
discussione da Andrea Giardina e Franco Cardini (Giardina, 2006, 23-24;Cardini, Aveva cioè la possibilità di
dare il proprio nome all'anno, unitamente a quello del collega. Cardini,
200978. Cassiodoro, Variae, IX, 24-25.
Ghisalberti, 200238. Ovvero le
segreterie imperiali (officia memoriae, epistularum, libellorum e
admissionum). Si tratta del corpo
militare speciale incaricato di sorvegliare la corte imperiale. Non si è certi se fosse stato nominato
prefetto del pretorio per la prima o seconda volta. Cardini, Cassiodoro,
Variae, X, 33-34. Cassiodoro, Variae,
XII, 16-24. Momigliano, 1978495;
Cardini, 2009, 79-80. Cardini,
2009, 81. Cardini, 2009, Cardini, 2009, 84.
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sectatus est, appellaretur.. Cassiodoro,
Variae, VIII 3,5: Ecce Traiani vestri clarum saeculis reparamus exemplum., su
bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de 7 luglio )..
Cassiodoro, Variae, VIII 13,3-5: Non sunt imparia tempora nostra
transactis: habemus sequaces aemulosque priscorum. (...) Redde nunc Plinium et
sume Traianum. (...) Bonus princeps ille est, cui licet pro iustitia loqui, et
contra tyrannicae feritatis indicium audire nolle constituta veterum
sanctionum. Renovamus certe dictum illud celeberrimum Traiani: sume
dictationem, si bonus fuero, pro re publica et me, si malus, pro re publica in
me.., su bsbdmgh.bsb.lrz-muenchen.de (archiviato dall'url originale l'8 luglio
).. Reydellet, 1981, 248-250.
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Vitiello, Cardini, Cassiodoro, Expositio Psalmorum, praef 1-5.
Cardini, 2009140. Cardini, Pellegrini,
200523. Cardini, 2009, 141-142. Cassiodoro, Istituzioni, I,
XXXII, 1. Cardini, 20092. Cassiodoro, Istituzioni, I, XXIX. Cardini, 2009142. Cassiodoro, Istituzioni, I, IV, 4. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 14. Cassiodoro, Istituzioni, I, XXXII, 2. Cassiodoro, Istituzioni, II, II, 10. Questo porta gli studiosi a ipotizzare una
maggior partecipazione di Cassiodoro al progetto. Cassiodoro, Istituzioni34. Cardini, 2009143. Cardini, Cardini, 2009145. Coloro che preparavano i testi per la
trascrizione. Cassiodoro, Istituzioni,
I, XXX, 3. Cassiodoro, Istituzioni, I, VIII, 3.
Cardini, 2009146. Cardini, 2009148. Cardini, 200986. Cardini, Cardini, Cardini, 200992.
Cardini, 200993. Altaner, 1944341. Ceserani, 197976. Cardini, Cardini, 200985. Eutarico morirà infatti nel 522. La cronaca è un genere letterario
caratterizzato dall'esposizione di fatti storici in ordine cronologico. Simonetti, 2006101. Moorhead, Cassiodoro, Variae, IX, 25. De origine actibusque Getarum, in sessanta
capitoli. «La Historia Gothorum occupa
un posto di rilievo nella storia della cultura occidentale perché fu la prima
storia nazionale di un popolo barbarico: in tal senso essa introduce veramente
il medioevo». Simonetti, 2006102.
Simonetti, 2006, 101-102. Germano Giustino faceva parte della Gens
Anicia, mentre Matasunta era nipote di Teodorico. Cardini, 200987. ...originem Gothicam historiam fecit esse
Romanam... Cassiodoro, Variae, IX, 25,
5. Cardini, 200988. Il frammento è
noto anche come Anecdoton Holderi; edizione critica e traduzione francese in
Alain Galonnier, "Anecdoton Holderi ou Ordo generis Cassiodororum:
introduction, édition, traduction et commentaire", Antiquité tardive,
Cardini, Cassiodoro, Variae27. Cassiodoro, Variae, XI, 7. Cardini, Momigliano, Istituzioni delle
lettere sacre e profane. Cardini,
200994. Cardini, 200995. Muse,
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A. CCCCXCVIIII. DI. DII. edidit Th. Mommsen. III. Cassiodori orationvm
reliqviae edidit Lvd. Travbe. Sito ufficiale del Premio Cassiodoro, su
premiocassiodoro.eu. Aggiornamenti sul sito di Vivarium (fondazioni monastiche
di Cassiodoro), su centreleonardboyle.com.
l'11 maggio 18 maggio ). La
fontana di Cassiodoro, su centreleonardboyle.com). Beatus Cassiodorus e La fama
sanctitatis di Cassiodoro Sulla fama di santità di Cassiodoro nel Medioevo.
Vivarium in Context Archiviato il 4 giugno
in .. Scheda libro con recensioni dei saggi di S.J. Barnish e L. Cracco
Ruggini citati nella . Le dignità de' Consoli e de gl'Imperadori, e i fatti de'
Romani, e dell'accrescimento dell'Imperio, ridotti a compendio da Sesto Ruffo,
e similmente da Cassiodoro, e da M. L. Dolce tradotti & ampliati, appresso
Gabriel Giolito de' Ferrari, Venezia). Storici romani Antica Roma Antica Roma Biografie Biografie Cristianesimo Cristianesimo Letteratura Letteratura Lingua latina Lingua latina Medioevo Medioevo Categorie: Politici romani del VI
secoloLetterati romaniStorici romaniComites rerum privatarumComites sacrarum
largitionumConsoli medievali romaniCorrectores Lucaniae et BruttiorumMagistri
officiorumPrefetti del pretorio d'ItaliaScrittori. Grice: “The English had
taught Italians that it’s not fair to call Cicero an Italian, or Pythagoras,
for that matter, since this all happened before Garibalid! I’m glad the
Italians never learned the lesson!” -- MAGNI
AURELII CASSIODORI SENATORIS De Artibus ac Diſciplinis Liberalium Litterarum,
PR Æ FATI O. vism lectioni 33. titulis Prov. 8.28. Erionum 7 . tartiem titke
nec men wa/ > nec 716m2To Liberdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam
cubitum unum ? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:. , S | licet divinarum
continet lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus.
hic triginta tribu's titulis noſcitur pondere ;ſicut ait in Proverbiis Salomon
: Ei li . coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum ;
& paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar
fundamenta terra , cum eo eram . mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia
cre- Quapropter opere Dei fingularizato , magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine
fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut;
fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum
omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere
debeamus ; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men
calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera
diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus , uſque ad
totius orbis pondere , nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem
ſemper extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas , juſtitie ſein Defeptenario
Sciendum eft plane , quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut &
tertius deciinus Pſalmus continentur. numero , quid continuam atqueperpetuum
Scriptura fan- meminit , dicens : Contritio , ú infelicitas in viis Pfal. 13.30
quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum , á viam
pacis non cognoverunt : non eſt ia Super cum ficut dicit David : Septies in
dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum . Ifaias quoque dicit :
intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur : Benedicam Domi-
Dereliquerunt Deuin Sabaoth , & ambulaverunt 164 . numin omni tempore :
femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis , & fummè
Et Salomon : Sapientia edificavit fibi domum , ſapiens Deus, qui omnes
creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem . In Exodo quoque dixit
moderatione diſtinxit : ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen :
Facies lucernas ſeptem , & confuſio pollideret . Unde Pater Auguſtinus in
deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum , ut luceant ex adver-
libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4 . fo.
Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat ; qui
tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum
tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus ; * Intentus no-
*Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte
Grammatica , tive Rhetorica , vel MSS. codd. memoratur , ubi perpetuum tempus
oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere ; Arithmetita Sic
Arithmetica diſciplina dotata eſt , quando quarum rerum principia neceffe eft
nos inchoa dotata ,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re ;
dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis , &
menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin
Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon ; Omnia in numero , menfura, lium litterarum.
re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber autein
dictus eſt à libro , id eſt , arboris Liber unde ra ft24 . micro facta
cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante
copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait :Veftri autem & cepilli capitis omnes
nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic
creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit ,
utilitatis ali ſura ; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà
omnium artium extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft
adjicere ad ftaturam Ars verò dicta eft , quòd nos fuis regulisarctet Unie ars
Plal . 33. 2. Prov . 9. 1 , Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n . do creat1471
dieta. Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit . malis voce. our atque
conſtringat. Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel
ſcripturæ , in ctum eſſe vocabuluin , amo tús agerős , id eſt , à culpabili
placere peritia . virtute doctrinæ , quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis
Auctores ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte
Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de
arte Rhetorica , quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut
Palæ rem ac copiain eloquentiæ ſuæ , maxiniè in civi- mon, Phocas , Probus;
& Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono-
men placet in medium Donatum deducere , qui rabilis æſtiinatur. & pueris ſpecialiter
aprus , & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica nuncupa-
accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc , quantùm
Magiſtri ſæ . ulares dicunt, mus, ut ſupra quòd ipfe * planus eſt , fiat
clarior menta in ar diſputatdivina UPERIOR liber, Domino præſtan- fuam cubitum
unum ? Item IſaiasPropheta dicit: 16.40.1:. , S | licet divinarum continet
lectionum manu. Rurſus creatura Dei probatur facta ſub comprebējus. hic
triginta tribu's titulis noſcitur pondere ;ſicut ait in Proverbiis Salomon : Ei
li . coinprehenſus. Qui numerus ætati Dominice brabat fontesaquarum ; &
paulo poft: Quando probatur accommodus, quando mundo peccatis appendebar
fundamenta terra , cum eo eram . mortuo æternam vitam præſtitit, & præmia
cre- Quapropter opere Dei fingularizato , magnifi Hic liber ſce- dentibus ſine
fine concellit. Nunctempus eſt, cæ res neceſſariâ definitioneconcluſæ ſuntut;
fi cularium le- ut aliis ſeptein titulis ſæcularium lectionum præ- cut eum
omnia condidiffe credimus: ita & quem ſentis libritextuin percurrere
debeamus ; qui ta- admodun facta ſunt, aliquatenusdiſcerenus. lis abfolue men
calculus per ſeptiinanas fibimet ſuccedentes Unde datur intelligi mala opera
diaboli nec Opera diabolt tur, & cur in ſe continue revolutus , uſque ad totius
orbis pondere , nec menfura, nec numero cortineri: nec pondere, finem ſemper
extenditur. quoniam quicquid agit iniquitas , juſtitie ſein Defeptenario
Sciendum eft plane , quoniam frequenter quic- per adverſum eſt; ſicut &
tertius deciinus Pſalmus continentur. numero , quid continuam atqueperpetuum
Scriptura fan- meminit , dicens : Contritio , ú infelicitas in viis Pfal. 13.30
quid feript.o. ita vultintelligi, fub iſto numero comprehendit; corum , á viam
pacis non cognoverunt : non eſt ia Super cum ficut dicit David : Septies in
dielaudem dixitibi; timor Dei anteoculos eorum . Ifaias quoque dicit :
intel'iyat. Plal. 118. cùm tamen alibi profiteatur : Benedicam Domi-
Dereliquerunt Deuin Sabaoth , & ambulaverunt 164 . numin omni tempore :
femper lausejus in ore meo. per vias diſtortas. Revera mirabilis , & fummè
Et Salomon : Sapientia edificavit fibi domum , ſapiens Deus, qui omnes
creaturas ſuas ſingulari excidit columnas feptem . In Exodo quoque dixit
moderatione diſtinxit : ne aliquid eorumfæda fingulari Doininus ad Moyſen :
Facies lucernas ſeptem , & confuſio pollideret . Unde Pater Auguſtinus in
deratione dio Exod.05.37. pones easſuper candelabrum , ut luceant ex adver-
libro 4. de Geneli ad litterain minatifinè difpu- ftinxerit? Apocal. 1.4 . fo.
Quem numerum Apocalypfis in diverfis re tavit. bus omnino commeinorat ; qui
tamen calculus Modd jamſecundi voluminis intremus initia, adillud nos æternum
tempus trahit,quod non po- quæ paulò diligentiùs audiamus ; * Intentus no-
*Hicincipiño teſt habere defectú. Meritò ergo ibi femper com- bis elt de arte
Grammatica , tive Rhetorica , vel MSS. codd. memoratur , ubi perpetuum tempus
oftenditur. de diſciplinis aliqua breviter velle confcribere ; Arithmetita Sic
Arithmetica diſciplina dotata eſt , quando quarum rerum principia neceffe eft
nos inchoa dotata ,quan rerum Opifex Deus diſpoſitiones ſuas ſub nume- re ;
dicenduinque prius eft de arte Grammatica; Dei ſub nu xi, ponderis , &
menfuræ quantitate conſtituits quæ eft videlicet origo & fundamentuin
Libera mern, ponle- ſicut ait Salomon ; Omnia in numero , menfura, lium
litterarum. re our menu- c pondere feciſti. Creatura ſiquidem Dei ſic nu Liber
autein dictus eſt à libro , id eſt , arboris Liber unde ra ft24 . micro facta
cognoſcitur, quando ipfe in Evange- cortice dempto atque liberato, ubi ante
copiam dictus. Sap. 11. 21. lio ait :Veftri autem & cepilli capitis omnes
nume- chartarum Antiqui carmina deſcribebant. Scire Matth.10 jo ratifunt. Sic
creatura Dei conſtituta eſt in men- autem debemus, ſicut Varro dicit , utilitatis
ali ſura ; ficut ipfe in Evangelio teſtatur: Quis an- cujus caufà omnium artium
extitiſie principia. Matth.6.27. tem veftrum cogitans poteft adjicere ad
ftaturam Ars verò dicta eft , quòd nos fuis regulisarctet Unie ars Plal . 33.
2. Prov . 9. 1 , Ca Deus on - nes creatsT45 11. 12. n . do creat1471 dieta.
Liberalium Litterarum. 559 rints compoſuit . malis voce. our atque conſtringat.
Alii dicunt à Græcis hoc trà- Finis verò elimatæ locutionis vel ſcripturæ , in
ctum eſſe vocabuluin , amo tús agerős , id eſt , à culpabili placere peritia .
virtute doctrinæ , quam diferti yiri uniuſcujul Sed quamvis Auctores
ſuperioruin temporum QuideGram que bonæ rei ſcienriam vocant. de arte
Grammatica ordine diverſo tractaverint, matica orne tiùs ſcriple Secundò de arte
Rhetorica , quæ propter nito- fuiſque ſæculis honoris decushabuerint,ut Palæ
rem ac copiain eloquentiæ ſuæ , maxiniè in civi- mon, Phocas , Probus; &
Cenſorinus: nobis ta Libus quæſtionibus, neceſſaria niinis, & hono- men
placet in medium Donatum deducere , qui rabilis æſtiinatur. & pueris
ſpecialiter aprus , & tironibus probatur Tertiò de Logica, quæ Dialectica
nuncupa- accomınodus, Cujus gemina coinmenta reliqui-- Gemina com tur. Hæc ,
quantùm Magiſtri ſæ . ulares dicunt, mus, u t ſupra quòd ipfe * planus eſt
, fiat clarior menta in ar diſputationibus ſubtiliffimis ac brevibus vera ſe-
dupliciter explanatus. Sed & ſanctum Augufti- tes Donati queſtrat à fallis.
num propterfimplicitatem fratrum breviter in- Caffiodorus Quarto de
Mathematica, quæ quatuor com- ftruendain , aliqua de codem titulo ſcripſiſſe
re- *MS.Sanger. plectitur diſciplinas, id eſt, Arithmeticam ,Geo- perimus, qux
vobis le titanda reliquimus : ne Lasinus. metricam , Muſicain , &
Aſtronomnicain. Quain quid rudibus deeſſe videatur , qui ad tantæ ſcien Che
Mathe. Mathematicam Latino ferinone doctrinalem diæ culmina præparantur.
maticado tri poffumus appellare ; quo nomine licet omnia doctrinalia dicere
valeamus,quæcumque docent: Donatus igitur in fecundit purte ita diſceptat. hæc
libi tamen commune vocabulum propter ſuam excellentiam propriè vindicavit ; ut
Poeta De Voce Articulata. dictus , intclligitur Virgilius : Orator enuntia De
Littera. tus , advertiturCicero ; quamvis multi & Poëtæ, De Syllaba.
&Oratores in Latina lingua eſſe doceantur;quod De Pedibus. etiam de Homero,
atque Demoſthene Græcia fa De Accentibus. cunda concelebratı Dc Pofituris , ſeu
Diſtinctionibus. Quid fit Ma Mathematica verò eſt ſcientia , quæ abſtra Et
iterum de Partibus Orationis octo thematica ? ctam conſiderat quantitatem .
Abſtracta eniin De Scheinatibus. quantitas dicitur , quam intellectu â materia
fe De Etymologiis. parantes , vel ab aliis accidentibus, folâ ratio De
Orthographia. cinatione tractamus. Sic totius voluminis ordo * Ed . * ado.
quaſi quodam * vade promiffus eſt. Vox articulata , eft aër percuſſus,
fenfibilis au- Quid fit vox Nunc quemadmodum pollicitafunt, per divi- ditu ,
quantum in ipſo eſt. articulati . Duplex dif- fiones definitioneſque ſuas,
Domino juvante, Littera, eſt pars ininima vocis articulatæ. Quid Littera .
cendi genius. reddamus : quia duplex quodammodo diſcendi Syllaba , eft
comprehenſio litterarum , vel unius Qwid Syd genus eſt , quando & lincalis
deſcriptio imbuit vocalis enuntiatio , temporum capax. * Ed. pol. diligenter
aſpectum , & * per aurium præparatum Pes ; eſt ſyllabarúm & temporum
certa dinu- Quid pes. intrat auditum . Nec illud quoque tacebimus, meratio.
quibus auctoribus tain Græcis , quam Latinis, Accentus, eſt vicio carens vocis
artificioſa pro- Quid Accen quæ dicimus , expoſita claruerunt ut; qui ſtudio-
nuntiatio . MSS.Reg . le legere voluerit, quibuſdam * compendiis in Pofitura ,
ſive diſtinctio , eſt moderatæ pronun- Quid pofitu Sang. competentiis.
tiationis apta repauſatio. troductus , lacidiùs Majorum di& ta percipiat,
Partes autem orationis ſunt acto , Nomen, EXPLICIT PRÆFATIO. Pronomen , Verbuin
, Adverbium , Participium, tionis funs Conjunctio , Præpofitio , Interjectio .
Capitula Libris Nomen , eſt pars orationis cum caſu , corpus Quid fis non aut
rem propriècommuniterve fignificans ; pro- men. Caput. I. De Grammatica: priè ,
ut Roma, Tiberis : cominuniter, ut urbs, 2. De Rhetorica. Huvius, 3. De
Dialectica; Pronomen , eſt pars orationis, quæ pro nomi- Quid Pronta 4. De
Arithmetica: ne pofita , tantuindem pene ſignificat , perſo S. De Muſica,
namque interdum recipit. 6. De Geometria. Verbum , eſt pars orationis cum
tempore & Quid verbi . 7. De Aſtronomia: perſona fine caſu . Adverbium ,
eft pars orationis , quæ adjecta Quid Advcr CAPUT PRIMUM verbo , ſignificationem
ejus explanat atque iin- bium . pler ; ut , jam faciam , vel non fáciam .
Inſtitutio de Arte Grammatica . Participium , eſt pars orationis, dicta qudd
par- Quid Parti tem capiat nominis , partemque verbi ; recipit cipium. Unde
Grama maticanomen GKRammatica à litteris nomen accepit , ficuè enim ànomine
genera & cafus , à verbo tempo vocabuli ipfius derivatus fonus oſtendit; ra
& fignificationes , ab utroque numeros & fi acceperit ? quas primus
omnium Cadınus ſexdecim tantum guras. legitur inveniſſe , eaſque Græcis
ſtudioſiſſimis Conjunctio, eſt pars orationis annectens, ordi. Qyid com
tradens, reliquas ipſi vivacitate animi ſuppleve- nanfque ſententiam. junctio.
De quarum formulis atque virtutibus, Præpoſitio , eſt pars orationis , quæ
præpofira Quid Præpo Helenus, atque Priſcianus ſubtiliter Attico ſer- aliis
partibus orationis, fignificationem earum Juio. Quidfit Gra mone locuti ſunt.
Grammatica verò , eſt peritia aut inutat, aut complet, autminuit. * MSS. Au-
pulchrè loquendi ex Poëtis illuſtribus, * Orato Interjectio, eſt pars orationis
ſignificans mentis Quid inter Etoribus, ribuſque collecta. Officium ejus eſt
fine vitio affectuin voce incondità. ječtio. dictionem proſalem metricamque
componere: Scheinata , ſunt transformationes fermonum Quid Sche ba. ra . Partes
ora octo. 5 $ 1 men. runt. marica ? mata . 560 Caffiodorus de Inſtitutione Quid
Ortha les, vel fententiaruin , ornatus cauſâ policæ ; quæ à dis :interdami , ut
folers ,iners. quodam Artigrapho nomine Sacerdote collecta, In plurali quoque ,
excepto genitivo & accuſa fiunt numero nonaginta octo : ita tamen , ut qux
rivo, omnibuscalibus ſimiliter declinantur.Nam à Donado inter vitia polita ſunt
, in ipfo numero quædam in uin genitivo , accuſativo in es exeunt, collecta
claudantur. Quod & mihi quoque du- ut Mars, ars : quædam in ium, ut
fapiens, patiens, ruin videtur vitia dicere,quæ auctorum exemplis, & ob hoc
accuſativi eorum in eis excunt. Plera & maxiinè legis divinæ auctoritate
firmantur. que aurein ex his nomina tribus generibus com Hæc Grammaticis
Oratoribufque cominunia munia funt, & in licreram quam habent, neutra funt:
quæ tamen in utraque parte probabiliter in nominativo plurali dant etiam
genitivis reli reperiuntur aptata. quoruin generuin ,cum quibus coinmunia funt.
Addenduin eſt etiam de Eryinologiis, & Ortho In T littera , neutra tantùm
nomina quædam , graphia , de quibus alius fcripfiffe certiflimum eſt. pauca
finiuntur ; ut git, quod non declinatur ; Quid 'Etymo. Etymologia eſt aut vera
aut veriſimilis deinon- ut caput, ſinciput. Quidam cùm lac dicunt, loysa.
ftratio , declarans ex qua origine verba defcen- adjiciunti, propter quod facit
lactis : ſed Vir dant. gilius. Orthographia eſt rectitudo fcribendi nullo er
Lac mihi non æſtate novum , non frigore defit. graphics. rore vitiata , quæ manum
componit & linguam . quippe cùm nulla apud nos nomina in duas mu Hæc
breviter dicta fufficiant. tas exeant , & ideo veteres lacte in nominativo
Cæterùm qui ea voluerit lariùs pleniùſque co dixerant, gnoſceye , cum
præfarione ſua codicem legat, X littera terminat quædam , in quibus omnia quem
noſtra curiolitate formavimus, id eſt, Ar- communia in iuin cxeunt in genitivo
plurali; ob tem Donati , cui de Orthographia librum , & hoc. accuſativo in
i & s . Plurima verò genitivo alium de Etymologiis inferuimus, quartum quo-
in u & in , non præcurrente i , & ob hoc in e & s que de
Schematibus Sacerdotis adjunximus;qua- accuſativo exeunt ; nam in reliquis
conſentiunt. tenus diligens lector in uno codice reperire pof- Ut pote cùın
ſingulariter omnia nominativa & ſit , quodarti Gramınaticæ deputatum effe
co vocativa habeant genitivum ini & s , agant da gnoſcit. tivum in i
littera : ablativum in e vel i definiant, Nomen da Sed quia continentia magis
artis Grammaticæ adjectáque m accuſativum definiant impleánt verbum tant dicta
eft , curaviinus aliqua denominis verbique que : pluraliter verò dativum
ablativúmque in partes adje regulis pro parte ſubjicere , quas rectè tantùm bus
fyllaba finiunt. muis Ariſtote. Ariſtoteles orationis partes adferuit. Nam de
cæteris , quibus diſident Veteres , qui dam atrocum & ferocum , qua ratione
omnium x DE NOMINIBUS. littera finitorun una ſpecies videbitur. Huic x litreræ
omnes vocales præferuntur ; ut capax , fru Nominis partes ſunt. tex , pernix ,
atrox , redux. Ex iis nominibus quædam in nominativo producuntur , quædain
Qualitas , mocomm . corripiuntur: quædam conſentiunt in noininati Comparatio ,
ouynpisisa vo , in obliquis diſſentiunr. Pax enim , & rapax, Genus , 2005.
item rex & pumex , item nux & lux , etiam pri Numerus, água uo'so mam
poſitionem variant ad nix & nutrix. Item Figura , oxaudio nox & atrox
ſic in prima politioneconſentiunt, Caſus, T @ SIS. urdiſcrepentper obliquos. Et
illud animadvertendum eſt, quædam ex iis x Pronominis partes: litteram in g ,
quædam in c per declinationes compellere. Lex enimlegis , grex gregis facit,
Qualitas ut pix picis, nux nucis. Nain in his quæ non ſunt Genus. monoſyllaba,
nunquam non x littera genitivo i Numerus. c convertitur ; ut frutex fruticis ,
ferox ferocis. Figura. Supellex autem , & ſenex, & nix , privilegio quo
Perſona. dam contra rationem declinantur : quoniam ſu Caſus. pellex duabus
ſyllabis creſcit, quod vetat ratio; & fenex ut in nominativo itein genitivo
diffyllabus G Ræca nomina , quæ apud nos in us ; ut, manet , cùm omnia x litterâ
terminata creſcant. vulgus , pelagus, virus,Lucretiusviri dicit; Et nix nec in
cconvertitur, ut pix : nec in gut quamquam rectiùs inflexum maneat. Secundæ
rex: ſed in u conſonans, in vocalem tranſire non ſpecies funt, quæ per obliquos
caſus creſcunt, & poſſit. genitivo ſingulari in is litteras exeunt ; ut ,
genus, In plurali autem genitivo , ablativus ſingularis nemus: ex quibus quædam
uine mutant ; ut olus formas vertit. Nam in a auto terminatus , in rum oleris,
ulcus ulceris : quædam in o , ut nemus exit; e correpta in um :producta , in
rum : iter neinoris , pecus pecoris. In dubitationem ve- minatus in uin.
Dativus & ablativus pluralis a. niunt fænus & ftercus in e , an in o
inutent : in is exeunt & in bus. Quæ præcepra in ſcholis quoniam quæ in nusſyllabam
finiunt, u in e mu- ſunt tritiora : ſed quotiens in is exeunt , longa tant; ut
, vulnus , ſcelus , funus , & funeratos fyllaba terminantur : quotiesin
bus, brevi. De dicimus. Fænusenim exemplo non debet noce- curlis nominum
regulis, æquuin eſt confequenter re, cùin inter dubia genera ponatur. Item
vete- adjicere canones verborum primæ conjugatio res ſtercoratos agros
dicebant, non ſterceratos. nis. In S littera finita nomina , præcurrentibus n
vel r , omnia ſunt uniusgeneris: nili quæ ante ſe t habent, interdun d
recipiunt, ut ſocors ſocor DE De Grammatica. 561 : Tempus zeovc . DE V ER BIS.
ſyllaba , manente productione terminantur ; ut Commeo , commea , commeavi:
Lanio , lania , Partes verbi funt. laniavi : Satio , fatia , fatiavi. Eodem
modo, codem tempore, fpecie inchoativa,adjectâ ad im Qualitas, perativum modum
in bam fyllaba terininantur; Conjugatio. ut cominea commeabain , lania laniabam
, æſtua Genus. æſtuabain. Prima conjugatione , codem modo, Numerus. eodem
tempore , ſpecie recordativa , adjectis ad Figura. imperativum modum veram
ſyllabis , terminan Tempus. tur partes : ut Commea commeaveram , lania , la
Perfona. 'niaveram , æſtua æſtuaveram . Priina conjuga tione, codem modo ,
tempore futuro , adjecta Qualitas Verbi. ad imperatiuum modun bo fyllaba ,
terminan rur ; ut Cominea commeabo, lania laniabo , æſtua Modi, # ſtuabo.
Indicativi, ogesich. Quæveròindicativo modò , tempore præſen Imperativi ,
προσακτική . tì, ad primam perfonam in o littera , nulla alia Opeativi ,
ευκτική. præcedente vocali terminantur , ea indicativo Conjunctivi, útotaxix .
modo , tempore præterito , ſpecie abſoluta 80 Infinitivi, atrapéu pet exacta ,
quatuor modis proferuntur. Et eſt primus, qui lunilem regulam his babet . Genus
Verbre Qui indicativo modo, tempore præſenti, prima perſona penultiinam vocalem
habet : ut Amo, Adiva, švępyutix .. ama , amavi, amabam , amaveram , amabo,
Pafliva, mee.Jotus amare , Communia, rond. Secundus eft , qui o ini convertit
ultimam in præterito perfecto,penultimam in pluſquàm per fecto e corripit ; ut
Adjuvo , adjuvi, adjuveram . Tertius , qui fimilem quidem regulaın habet
Præſens, évesa's. primi modi, ſed detracta a littera deliungit ; ut Præteritum
; ta zenauges Seco , ſecavi , ſecaveram , ſecabo , ſecare. Facit Futurun ,
uitwr. enim ſpecie abſoluta ſecui, & exacta ſecueram . Imperfcerum ,
megatinad's. Quartus eſt , qui per geininationein fyllabae Perfectum , Tee XÉCU
. profertur; ut Sto , ſtá , kteci , fteterain , itabo Pluſquain perfectam ,
impon TEARO'S. ftare. Huic ſimile Do , da , dedi , dabáin , dede Infinitum ;
mogises. ram , dabo , dare , correpta littera a contra re-, gulain , in eo quod
eſt , dabam , dabo , dare. Proferuntur fecunda conjugationis verba, dente
vocali terminantur, vel præcante quæ indicativo modo, teinpore præſenti, perſo
vocali qualibet , formas habet quatuor. na prima , in eo litteris terminantur ;
ut Video , Secundæ conjugationis correpræ verba verba,, for- vides vides ;
monco monc mones. Secundæ conjugatio mas habent viginti. Sic quæcumque verba
indi- nis verba, indicativomodo, teinpore præſenti, cativo modo , tempore
præfenti, perſona primà, ad ſecundanı perſonam iu e littera producta,ter in o
littera terminantur, forinas habentſex ,quæ ininantur ; ut Video , vide ;
moneo, mone. Se voces forınas habent duas. Quæ nulla præceden- cundæ
conjugationis verba, infinito inodo , ad te vocali in o littera terminantur,
formas habent je & ta ad imperativum modum re fyllaba, manen duodecim . te
productione terminantur ; ut Vide , videre; Tertiæ conjugationis productæ verba
, qua mone, monere. Secundæ conjugationis verba, indicativo modo , tempore
præſenti , perſona indicativo modo, tempore præterito , {pecie ab prima in o
littera terminantur , formas habent ſoluta & exacta , ſeptem modis
declinantur ; & quinque. Quæcumque autem verba cujuſcum- eft primus, qui
forinain regulæ oſtendit.Nam for que conjugationis indicativo modo , temporė
mahæc eſt;cùm fecundæ conjugationis verbum , præſenti, perfona prima, vel nulla
præc dente indicativomodo,temporepræterito quidem per vocali, vel qualibet alia
præcedente , in o littera fecto , adjecta ad iinpecalivun modum vi fyllaba,
*terminantur, corum declinatio hoc numero for- manente produđione. marum
continetur. De quibus fingulis dicam . Primæ conjugationis verba indicativo
modo, CAPUT SECUNDUM. tempore præſenti, perſona prima, aut in o litte : ra
nulla alia præcedente vocali terminantur , ut De Arte Rhetorica . , Canto io ut
lanio , , . Rrium aliæ ſuntpofitæ in Artes in tres Primæ conjugationis verba
iinperativo modo, temporepræſenti ad ſecundam perſonain in a lit- lis eſt
Aſtrologia : nullum exigens actum , ſed ipſo duntur. tera producta terminantur
;ut amo, ama : canto, rei, cujus ſtudium habet, intellectu contenta, canta :
infinito modo ad imperatiuum modum, quæ Geargintzün vocatur. Alia in agendo,
cujus in in re fyllaba,manente productione terminantur ; hoc finis eſt , ut
ipſo actu perficiatur, nihilque ut aina, amare: canta , cantare. Item prima
con- poſt actum operisrelinquat, quæ peakmix dici jugatio, quæindicativo modo ,
tempore præte- tur, qualis ſaltatio eſt.Alia in effectu,quæ operis, rito,
ſpecie abſoluta , adjectâ ad imperatiuun yi quod oculis fubiicitur
confummatione, finein Bbbb V . ib, uclanio,fatio:autuo ,uræſtuo ,continuo A
evognizione peltimatione rerum ,quas partes divina 562 Caffiodorus ea 1 tor.
Etanda , accipiunt, quam nontoxù appellamus, qualis eſt cauſam , locum ,
tempus, inftramentum , occa pictura. fionemnarratione delibabiinus. Multæ ſæpe
in Orationis duo Duo funt Genera orationis : altera pespetua, una cauſa ſunt
narrationes. Non femper co ordi fuigenera. quæ Rhetorica dicitur :
alteraconciſa , quæ Dia- ne narrandum , quo res geſta eſt. Enthumous fit
tectica ; quas quidem Zeno adeo conjunxit , ut ad augmentum vel invidiæ , vel
miſerationis, vel hanc compreſlæ in pugnum manus, illam expli- in adverfis.
Initium narrationis à perſona fier, & catæ fimilean dixerit. ſi noſtra elt
, ornetur : fi aliena , infametur. Et Initiam di Initia dicendidedit natura :
initium artis ob- hæc cum ſuis accidentibus ponitur. Finis narra cendi dedit
fervatio. Homines enim ficur in Medicina , cum tionis fit , cùın eò perducitur
expofitio , unde natura,ini- viderent alia falubrià, alia inſalubria ex
obſerva- quæſtio oriatur. sium artis ob. tione eoruin effccerunt arrein .
feruatio. Facultas orandi confunmatur naturâ , arte , De Egreſionibus Pacultas
orandi tribus exercitatione; cui partein quartam adjiciunt qui cofummatur. dam
imitationem , quam nosarti ſubjicimus. Egreſſus eſt , vel egrelfio , hoc eſt ,
méx6a95, Tria debet Tria funt quæ præltare debet Orator ; ut do- cum intermiffà
parum re propofitâ , quiddain in præftare Ora- ceat, moveat, delecter. Hæc enim
clarior divi- terſeritur delectationis utilitatiſve gratiâ. Sed fio eft , quàm
eorum qui totum opus:in res , & ir hæ ſunt plures, quiæ pertotam cauſam
varios ex affectus partiuntur, curſus habent ; ut laus hoininum locorumque;
Invadendo In fuadendo ac diſſuadendo rrja primùm fpe- ut defcriptio regionum ,
expoſitio quarundam fodiſficaden- ctanda ſunt; quid ſit de quo deliberetur :
qui lint rerum geſtarum , vel etiam fabulofarum . do triape- qui deliberent:
quis ſit quifuadeat rem , dequa Sed indignatio , miſeratio , invidia , convi
elintpar. deliberatur.Omnisdeliberatio de dubiis fit. Par- tium , excuſario ,
conciliatio, maledictorum re "tes fuadendi. tes ſuadendi ſunt honeftum ,
utile , neceſſarium . futatio , & fimilia :omnis amplificatio, minutio,
Quidam , ut Quintilianus, furetor ; hoc eſt,pofli- omnis affectus,
genusdeluxuria, de avaritia, re bile , approbat. ligione, officiis cuin ſuis
argumentis ſubjecta ſi milium rerum , quia cohærent, egredi non viden Ware
Procemiam à Græcis dicitur. tur. Areopagitæ damnaverunt puerum , corni cum
oculos eruentem ; qui putantur nihil aliud Clarè partem hanc ante ingreffum rei
, de qua judicaffe , quàm id lignum effe pernicioſiflima diccndum fit
,oftendunt.Nain livepropterea quod mentis , multiſque malo futuræ li
adoleviſſet. brun cantus elt , & Citharædi pauca illa , quæ an tequam
legitimum certamen inchoent, emerendi De Credibilibus favoris gratia canunt,
Proæmium cognomina runt. Oratores quoque ea , quæ priuſquam cau Credibilium
tria funt genera: ünum Grmiſti- Tria ſunt ore. fain exordiantur, ad
conciliandos libi judicun muni, quia ferè ſemper accidit ; ut , liberos à pa
aninospræloquuntur, Procinii appellationc fi- rentibus amari. gnarunt. Sive
quod 40 Græci viam appellant Alterum velut propenſius, eum qui rectè va id,
quod ante ingrekun reiponitur , fic vocari leat , in craſtinum perventurum .
Dikfit Proa- eft inſtituruin . Caufa Proæmii hæc eſt , ut audiro Tertium tantum
non repugnans; ab eo in dong mii carla. rem , quò fit nobis in cæteris
partibusaccommo- furtum factum , qui domui fuit. datior, præparemus. Id fit
tribus modis , li be nevolum , atrencum , docilemque feceris ; & in
Argumenta unde ducantur. reliquis partibus haud minus, præcipuè tamen in
initiis neceſſe eſt animos judicum præparare. Ducuntur argumenta à perſonis,
cauſis , tem pore ; cujus tres partes ſunt, præcedens, conjun Quid differt
Proæmium ab Epilogo. ctum , inſequens. Si agimus, noſtra confirmana da ſunt
priùs ; tum ea , quæ noftris opponuntur, Quidam putarunt quòd inPræmio
præterita, refutanda. Si reſpondemus; ſæpiùs incipiendum in Epilogo fucura
dicantur. Quintilianus autem à refutatione. Locuples & fpeciofa &imperio
co quod in ingreffu parciùs & modeſtiùs præten- ſa vult eſſe Eloquentia.
tanda ſit judicis miſericordia : in Epilogo verò licear toros effundere
affectus , & ficam oratio De Concluſione nem induere perſonis , &
defunctos excitare, & pignora reorum perducere , quæ minus in Concluſio,quæ
peroratio dicitur, duplicem has concluſodomen proæmiis ſunt uſitata. bet
rationem ; ponitur enim autin rebus, aut in plicem habet affectibus rerum ,
repetitio & congregatio , que rationem . De Narratione. Græcè ávax!IO
HAURIS dicitur , à quibufdam La tinorum renumeratio dicitur , & memoriam au
Narratio aut torà pro nobis eſt , aut cora pro ditoris reficit, & totam
ſimul cauſam ponit an adverſariis , aut mixta ex utriſque. Si erit tota te
oculos ; ut etiam ſi per ſingulos minus vale pro nobis , contenti ſimus his
tribus partibus, bant , turbâ moveantur : ita tamen ut breviret uc judex
intelligat, meminerit , credat, nec quic eorum capita curlimque tangantur . Sed
tunc fita quan reprehenſione dignum putet. ubi inultæ caufæ , vel quæſtionesinferuntur;
nam Notandum , ut quoties exitus rei ſatis oſtendit fi brevis & fimplex
eſt, noneft neceffaria. priora , debemus hoc eſſe contenti , quò reliqua
intelliguntur; fatius eſt narrationi aliquot fuper De Affectibus: eſſe , quàm
deeffe ; nain ſupervacua cum rædio dicuntur: neceſſaria cum periculo
ſubtrahuntur. Affectuum duæ funt ſpecies , quas Græci '90s affectuur Quæ
probacione tractaturi ſumus , perſonain, aj mrásos vocant , hoc eit ,
quafimores & affe- dua ſung species, dibilium gito nera . 1 1 De Rhetoricà.
563 Te . ventio . tio . tio . 114 . us concitatos } & Teses quidem affectus
con- & quæſtionem .Cauſa eft res,quæ habet in ſe con citatos : " Jos
veròmites atque compofiros ; in il- troverſiam in dicendo politam , perſonarum
cer lis vehementesmotus, in his lenes: & resos qui- tarum interpoſitione :
quæſtio autem ,eft res, quæ demimperat, its perſuadet ; hi ad perturbatio-
habet in ſe controverſiam in dicendo polítam , nem , illi ad benevolentiam
prævalent. Et eſt line certarum perfonarum interpofitione. Frágos temporale ,
ndos verò perpetuum ; utra que ex eadem natura : fed illud majus , hoc mi DE
PARTIBUS RHETORICA nus , ut amor esos, charitas » Sus ; tados con citat , isos
fedat. Partes Rhetoricæ funt quinque. In adverſos plus valet invidia ,quàm
convitium: quia invidia adverſarios, convitiuin nos inviſos Inventio . facit.
Nam ſunt quædam , quæfi ab imprudenti Diſpoſitio. bus excidant, ſtulta ſant;
cum ſimulamus, venuſta Elocurio Orator vitio creduntur. Bonus altercator vitio
iracundiæ ca Meinoria, iracundiæ ca- reat ; nullus enim rationi magis obftat
affectus, & Pronuntiatio . reat; & qua- fertextra cauſamplerumque,
& defornia convi tia facere ac mereri cogit, & nonnunquam in ipſos
Inventio eft ex cogitatio rerum verarum aut ve . Quid fitta judices incitatur ;
quoniam ſententiæ, verba, fi- riſinilium ,quæ cauſam probabilem reddunt. guræ ,
coloreſque funt occultiores quæſtiones in Difpofitio eft rerum inventarun in
ordinem Quid Diſposa genio , cura , exercitatione. pulchra diftributio .
Conjectura omnis , aut de re eſt , autde animo. Elocutio eft idoneoruin
verborum ad inventio Onid Eloc14 Utriuſque tria teinpora ſunt , præteritum ,
pre- nein accommodata perceptio . ſens, &futuruin . De re & generales
quæſtiones Memoria eſt firma aniini rerum ac verborum funt, & definitæ ; id
eft, & quæ non continentur, ad inventionem perceptio. Quid Memo perſonis ,
& quæ continentúr. De animo quæri Pronuntiatio eſt ex rerun & verborum
dignita non poteſt, niſi ubi perſona eſt; & de facto , cùm te, vocis
&corporis decora moderatio . Quid Proing nuntiatio . de re agitur , aut
quid factum ſit in dubium venit, aut quid fiat , aut quid futurum ſit , &
reliqua fi De Generibus caufarum . unilia , De Amphibologia. Genera cauſarum
Rhetoricæ ſunt tria princi- General Cares palia. Demonſtrativum , Deliberativum
, Judi- Jarum Rheto Innsetabia Amphibologiæ ſpecies ſunt innumerabiles, ciale:
Ticefunttrica les lient Am. adeò ut Philofophi quidam putent nullum effé
Demonſtrativum & In laude phibologia verbum , quod non plura ſignificet
genera , aut oftentativum species admodum pauca ; aut enim vocibus fingulis ac-
Eyxaurasino's In vituperatione cidiper ópw rupaar aut conjunctis per ainbiguani
Emdeuxtixò , conſtructionem , Quando fiat Vitiofa oratio fit, cùm inter duo
nominamè- Deliberativum & ſua In ſuaſione. vitioſa oratio dium verbum
ponitur. forium dicitur De oppofitio Oppoſitiones & fi contrariæ non ſint ,
ſed dif- EupBBAEUTIKON In diſſualione niben . fimiles : verumtamen li fuain
figuram ſeryant, ſuntnihilomimus antitheta.. r In accuſatione, & de
Naturalis quæitio eſt, quæ eſt temporalis ;fic Judiciale fenſione cut cúm que
ſunt per ordines temporum acta, acercón marrantur. Nunc ad artis Rhetoricæ
diviſiones În præmii penſione, & definitionofque veniamus ; quæ ficut extenſa
at negatione que copiofa cft ; ita à multis &claris ſcriptoribus tractata
dilatatur, Demonſtrativum genus eſt, cùm aliquid de- Quid fit De monſtramus, in
quo eſt laus & vituperatio ,hoc monftrativi Onidfit Rhetorica eſt, quando
per hujuſinodidefcriptionem oſten- genus. dituraliquis, atque cognoſcirur ; ut
pſalınús 28. Rhetorica Rhetorica dicitur à copia deductæ locutio- . & alia
vel loca vel pſalmi plurimi ,ut:Domine unde dicta. 'nis influere. Ars autein
Rhetorica elt , fi- in calo miſericordia tua, &uſque adnubesveria cur
magiſtri tradunt fæculariuin Litterarum, tas tua. Iuſtitia tua ficutmontesDei ,
& reliqua. bene dicendi ſcientia in civilibus quæſtionibus. Deliberativum
genus elt , in quo eſt ſualio de . Quid Delią Quid fit Ora Orator igitur eſt
vir bonus , dicendi peritus, ut diſſualio , hoc eft quid appetere , quid
fugere, berativos . zor, ju offi- dictum eſt in civilibus quæſtionibus.
Oratoris quiddocere, quid prohibere debeamus, citum ,erfinis. autem officium
eſt, appolitè dicere ad perſuaden Judiciale genus elt, in quo eſtaccuſatio
& de Quid Fudia ciale. dum. Finis , perſuadere dictione, quatenus rex
fenſio , vel præmii penſio & negatio. ruin & perſonarum conditio
videtur admittere in civilibus quæſtionibus : unde nunc aliqua bre De Statibus.
viter aſſumemus, ut nonnullis partibus indicatis, penè totiusartis ipſius
ſumınam virtutemque in Status Græcè ça'os. Status cauſarum ſunt año Status
caufae telligere debeamus. rationales , aut legales. Status verò dicitur ea
bacionales, rum åut ſuns Civiles quæſtiones ſunt ſecundum Fortuna viles
quaftio- tianum Artigraphum novelluin , quæ in com ; a Hæ funt quæſtiones an
huic, an cumhoc , an học Quid fit firas ant legales, nes , & quo modo divi
munem animi conceptionem poffunt cadere ; id seinpore , an hac lege,an apud ipſum
. Quidquidpræter van duntur. iſtas quinque partes in oratione dicitur; egreſſio
eſt. eſt, quâ unuſquiſque poteftintelligere, cùm de Hæc nagex aois, quoniam à
reco dicendi itinere defc. æquo quæritur & bono. Dividuntur in cauſam , :
&itur quælibet inſerendo. Bbbb ij Quid fine ci 564 Caffiodorus Quidfit con
Um. res, in qua cauſa conſiſtit. Fit autem ex intentio ne & depulfione ,
vel conftitutione. ab alio objicitur, ab adverſario pernegatur, Statum alii
vocant conftitutionem , alii qua 2. Finitivus ſtatus cſt, cùm id quod
objicitur, jocuralis fia. {tionen , alii quod ex quæſtione appareat. non hoc
efle contendimus : fed quid illud lit, ad hibitis definitionibus approbamus.
Quid fam.si Status rationales ſecun Conje & ura. 3. Qualitas eft , cùm
qualis res lit, quæritur ; dum generales quæſtio Finis. & quia de vi &
genere negotii controverſia elt, nes ſunt quatuor. Qualitas. conſtitutio
generalis vocatur. Tranſlatio . 1. Conjecturalis ſtatus eft , cùın factum ,
quod Imprudentia ( Purgatio Caſus. Concellio Juridicialis Abſoluta Aut caufæ ,
Nixologian Remotio Aur facti. 3 criminis Negotialis aitam Cui juftè in aliocom
generalis Relatio mittitur, quia & ifle in GegyueTiku priva criminis te
fæpius commifin Αντίγκλημα.. Deprecatio Neceflitas. Qualitas Comparatio Squando
melius id Αντίστασης . factum peragitur. 1 ſunt quinque ! с 12. 1 1 in Pſal.
paz . ratio, Juridicialis eft , in qua æqui &re &ti natura , Questas
Ju. ſ Scriptum& voluntas. riuscialis præmii & pænæ ratio quæritur.
Porov ij dienoido Quid Nego Negotialis eſt , in qua, quid juris ex civili mo
Sätus Legales Leges contrariæ , tizivs. re & æquitate lit , confideratur.
Ambiguitas. Αμφιβολία . Quid Abfo luta . Abſoluta eft , quæ ipfo in ſe continet
juris & Collectio , live Raciocinatio . injuriæ quæſtionem . Συλλογισμός
purua Raid Allium . 'Affumptiva eſt, quæ ipfa exſe nihil dat firmi, Definitio
Legalisa . aut recuſationem foris , aut aliquid defenfionis aſſumit. Scriptum
& voluntas eſt, quando verba ipſa quid.fcripti Quid con Conceſſio eſt, cum
reus non id quod factum eſt, videntur cum ſententia ſcriptoris dillidere. &
voluniss. defendit: fed , ut ignofcatur , poftulat; quod nos Legis contrariæ
ſtatus eſt, quando inter fe duz Quid legis Comment. ad pænitentes* probavimus
pertinere. leges, aut pluresdiſcrepare videntur. contrarieta Remotio criminis
eft , cùm id crimen quod in Ambiguitas eſt , cùm id quod fcriptum eſt, tus,
169.1.09103. ferrur ab fe &ab ſua culpa , vi & poteftate in duas auc
plures res ſignificare videtur. Quid Ambi aligin reus dimovere conatur. guitas.
Collectio Quid Remo , quæ & Ratiocinatio nuncupatur, Quid Colle tio
criminis. Relatio criminis eſt , cùm ideo jure factum di- eſt quando ex eo quod
fcriptum eſt, invenitur, ft :0. Quid Relatio citur , quod aliquis ante injuriam
laceſſierit. , Definitio legalis eſt , cum vis verbi quaſi de criminis. erid
Defini Comparatio eft , cùm aliud aliquod alterius finitivâ conſtitutione , in
qua pofita fit , quz- tio legalis. Quil Compa. factum honeſtum aut utile
contenditur , quod, ricur. ut fieret illud quod arguitur , dicitur eſſe com
Status ergo tam rationales quam legales à Statusà qui iniffum . quibuſdam
decein & octo connumerati ſunt. bullam 18. 2 Quid Purga Purgatio cft , cùm
factum quidem conceditur, Cæterum ſecundum Rhetoricos Tullii decem & Tullio
verò bes partenha- fedculparemovetur. Hæc partes habertres,Im- novem
inveniuntur , propterea qudd Tranſlatio- 19.numeran prudentiam , caſum ,
neceſſitatem . Impruden- nem interRationales principaliter adfixit ftatus. tia
eft, cùin fciſfe fe aliquid is qui arguitur,negat. Unde feipfum eciam Cicero (
ſicut ſuperiùs di Caſus eſt , cum demonſtratur aliquam fortune &tum eſt )
reprehendens, Tranſlationem Legalia vim obſtitiffe voluntati. Neceſſitas eſt ,
cùm vi bus ftatibus applicavit. quadam reus id quod fecerit , feciſſe ſe
dixerit. Quid ft De precatio . Deprecatio eſt , cùm & peccaffe , &
conſultò De Controverfia. peccaſſe reus conficetur ; & tamen , ut ignoſca
Quid Trans- tur,poftulat.Quodgenus perraro poteft accidere. Omnis controverſia
, ſicut ait Cicero , aut fim- Controverfis ex Cicerone lario. 4. Tranſlatio
dicitur , cùm caufa ex eo pendet, plex eſt, aut juncta , aut ex comparatione.
triplex eft. cùm non aut is agere videtur , quem oportet: aut Simplex eſt,
quæabſolutam continet unam Quid fit com non cum eo, quioportet : aut non apud
quos, quo quæſtionem , hoc modo: Corinthiis bellum indi- jeftura fim tempore ,
qua lege , quo crimine , qua pæna cenus, án non. plex . oporteat. Tranſlationi
adjicitur Conſtitutio, Juncta, eſt ex pluribus quæſtionibus , in quòd actio
tranſlationis &commutationis indi- plura quæruntur
hocpacto:Carthagodiruatur: Quid juncts . an Carthaginienſibus reddatur , an
eocolonia de Ubi adverſariis omnia conceduntur , & per colas ducatur.
lacrymas lupplices defenditur reus. Ex comparatione, utrum potius, an quod po-
Quid ex com paratione, a Et ſi juncta erit conſiderandum erit , utrum ex plu
ribus quæftionibus juncta fit, an ex aliqua cóparatione. tur. H : gere videtur.
1 De Rhethorica. 565 > Exorarum . rario , t11.0 . tiſſimum quæritur ad hunc
modum : utrum exer Exordium , eft oratio animum auditoris ido Quit fis
cituscontra Philippum in Macedoniam mittatur, neè comparans ad reliquam
dictionem . qui ſociis fit auxilio : an teneatur in Italia ; ut Narratio , eft
reruin geftarum , aut at geſta- Quid Nar quàmmaximæ contra Annibalem copiæ
fint. rum expoſitio. Partitio eft, quæ fi re &tè habita fuerit , illu- Quid
Per , DE GENERIBUS CAUSARUM . ftrem &perfpicaam roram efficit orationem .
Confirmatio eft, per quam argumentando no- Qrid Confir Genera cauſarumfunt
quinque. ftræ caufæ fidem , & authoritatem , & firinamen- mario . tum
adjungit oratio. Honeſtum . Reprehenfio eft per quam argumentando ad- Quid
Repre Admirabile . verſariorum confirmatio diluitur, aut elevarur. henfio.
Humile . Concluſio eſt exitus & determinatio totius exid con Anceps.
orationis , ubi interdum & Epilogorum allegatio cnfio. Obſcurum . flebilis
adhibetur. Hæc licer Cicero Latinæ eloquentiæ Lumen Duos libros Quid honefti
Honeſtum caufæ genus eft , cui ſtatim fine ora- eximium , per varia volumina
copiosè ninis & de Rethorica cauſæ genus. tione noftra favet auditoris
aniinus. Admirabile diligenter effuderit, & in arte Rhetorica duobus
compoſuit ci Admirabile, à quo quod eft pre eft alienatus animus eorum , libris
videatur amplexus ; quorumCoinmenta à cero, quosM. Victorinus ter opinio- qui
audituri ſunt. Mario Victorino compoſita, in Bibliotheca mea commentatus num
hominü Humile eft, quod negligitur ab auditore ', & vobis
reliquiffecognoſcor. eft. conftitutum . nonmagnopere attendendum videtur.
Quintilianus etiain Doctor egregius , qui poſt Quintiliansis Quid Admi. rabile.
Anceps in quo aut judicatio dubia eft , aut Auvios Tullianos fingulariter
valuit implere quæ Doctor egre Quid Humile cauſa &honeſtatis &
turpitudinis particeps , ut docuit , virum bonum dicendi peritum à priinâ gius
in Rhe. Qivid Anceps benevolentiam pariật , &offenfionem . ætate
fuſcipiens, per cunctas artes, ac diſcipli- sorica doceka Puid'obfcs Obſcurum ,
in quo aut tardi auditores funt,aut nas nobiliuin litterarum erudiendum eſſe
mon difficilioribus ad cognoſcendum negotiis cauſam ftravit. Libros autein duos
Ciceronis, de arte implicata eft. Rhetorica , & Quintiliani duodeciin
inſtitutio num ! judicavimus eſſe jungendos ; ut nec codi DE PARTIBUS RHETORICÆ
cis'excrefceret magnitudo , & utrique duin ne ceffarii fuerint , parati
feinper occurrant. Partes orationis Rhetoricæ funt fex . Fortunatianum verò
Doctorem novellum , Fortunatik . qui tribusvoluninibus de hac re ſubtiliter
minu- nustria ro Exordium . tèque tractavit ; in pugillari codice Rhetorica
Narratio . congruenterquc redegimus; ut &faſtidiuin lecto confecis.
Partitio . ri tollat , &quæ ſuntneceffaria competenter in Confirmatio. '
finuet. Hunc legat qui brevitatis amator eft, Reprehenfio . nam cum opus ſuum in
multos libros non teten Concluſio , five derit : plurima tamen acutiffimâ
ratiocinatione Peroratio . diſſeruit.Quos codices cum præfatione ſua in uno
corpore reperietis eſſe collectos. DE RHETORICA ARGUMENTATION E. da. tim lumina
de aptè lorfitan , Rhetorica Argumentatio fit. Illatio quæ r Propoſitio | Aut
per Inductio- ! nem cujusmembra &Affumptio funt hæc. dicitur. | Concluſio
ina tayo Rhetorica Argu mentatio tracta tur. rEvdúcemus.Talo PEYSúumps, eſt
commentum , Convincibili. vel commentio ' , hoc eſt | Oſtentabili. mentis
conceptio. 3 Sententiabili. Exemplabili. Txer Suunne, qui eft imper-
iCollectitio. fectus fyllogylinus , atque Rethoricus , ficut Fortuna tianus
dicit , in generibus i explicatur. azódseçu eſt cer ta quædam argu menti
concluſio vel ex confe quentibus , vel repugnantibus. Aut perRatiocina tionem
de Argu mentis , in quo no mine complectun Atodict. tur , quæ Græci di cunt.
Emxelamud too s Emreignus , eft fententia cum fatione , Latinè dicitur Exe
čutio , vel Approbatio , vel Argumentum 11.apemrbiem uc verò , qui eſt Aut
Tripertitus. Rhetoricus & latior fyllogyf: 3 AutQuadripercitus. Aut
quinquepertitus. | mus eft. 566 Caffiodorus Unde Argu titus. ductio . Mem2. cit
. mêtatiodista. Argumentatio dicta eſt quaſi argutæ mentis rici ſyllogiſmi,
latitudinediſtanz& productione oratio . fermonis à dialecticis fyllogiſmis
, propter quod Quidfit Ar Argumentatio eſt enim oratio ipſa, qua inven-
Rhetoribus datur. gumentatio. tum probabiliter exequimur argumentum .
Tripertitus , epichirematicus fyllogiſmus eſt; Quid Triper Quid fit In Inductio
eft oratio,qua rebusnon dubiis capra- qui conſtat inembris tribus : id eft,
propoſitione, mus aſſenſionein ejus, cum quo inſtituta eſt ,live aſſumptione,
concluſione. inter Philofophos , ſive interRhetores , five inter Quadripertitus
eſt , qui conſtatmembris qua- Quid Quz Seriocinantes. tuor: propoſitione ,
affumptione, & una propo- dripernicus. Quid Probo Propoſitio inductionis
eſt ,quæ fimilitudines fitionis live afſuinptionis conjuncta probatione, fitio.
concedendæ rei unius inducit , aut plurimaruin . & conclufione. Quid
illatio. Illatioinductioniseft, quæ & affumptio dicitur, Quinquepertitus
eſt,qui conſtat membris quin- Que de Marine quæ rem dequa contenditur, &
cujus cauſa ſimi- que:id eft ,propoſitione ,& probatione , aſſum-
quepertiim , litudines adhibitæ ſunt introducit. ptione, & ejus probatione
, & concluſione. Quid con Concluſio inductionis eſt, quæ aut conceſſio .
Hunc Cicero ita facit in arte Rhetorica: Si de clulo. nem illationis confirmat
, aut quid ex ea confi- liberatio & deinonſtratio genera ſunt cauſarum ,
ciatur , oftendit. non poffunt rectè partes alicujus generis cauſa Qwid Ratio
Ratiocinatio eft oratio , quâid de quo eft quæ- putari. Eadem enim res , alii
genus, alii pars effc cinatio. ítio comprobamus. poteft: idem genus , &
pars effe non poteſt, vel Quid Enthy Enthymema igitur eſt, quod Latinè
interpreta- cætera ; quoufque fyllogiſini hujus meinbra clau cur mentis
conceptio , quam imperfectum fyllo- dantur. Sed videro quantum in aliis partibus
giſmum ſolent Artigraphi nuncupare. Nam in lecter ſuum exercere poſſit ingenium
. duabus partibus hæc argumentiforma conſiſtit: Memoratus aurein Fortunatianus
in tertio libro quando id quod ad fidein pertinet faciendam , meminit de
oratoris memoria , de pronuntiatio utitur fyllogiſmorum lege præterita ; ut eſt
illud: ne, & voce , unde tainen Monachus cum aliqua Si tempeſtas vitanda
eſt , non eft igitur navigan- utilitate diſcedit: quando ad ſuas partes non im
dum. Exſola enim propoſitione & conclufione probè videtur attrahere , quod
illi ad exercendas conítat effe perfectum : unde magis oratoribus,
controverſias utiliter aptaverunt. Memoriam { i quàm dialecticis convenire
judicatum eſt. De quidem lectionis divinæ re cognita cautela ſerva dialecticis
autem ſyllogiſinisſuo loco dicemus. bit, cùm in ſupradicto libro ejus vim
qualitatém Quid con Convincibile eft ,quod evidenti ratione * con- que
cognoverit: artem verò pronuntiationis in *AIS.convin .vincitur ;ſicut fecit
Cicero pro Milone. Ejusigi- divinæ legis effatione concipiet. Vocis autem di
tur mortis ſedetis ultores, cujus vitain , li * putetis ligentiam in pſalmodiæ
decantatione cuſtodiet. * Ed . poſetis. per vosreſtitui poſſe, noletis. Sic
inſtructus in opere ſancto redditur, quamvis Quid Ofien Oſtentabile eft , quod
certa reidemonſtratione libris ſæcularibus occupetur. rabile. conſtringit ; ſic
Cicero in Catilinam : Hic ramen Nunc ad Logicam , quæ & Dialectica dicitur,
vivit , imò etiam in Senatuin venit. ſequenti ordine veniamus, quam quidam
diſci Quid Senten tiabile. Sententiale eft , quod ſententia generalis addi-
plinain , quidam artem appellare maluerunt , di cit ; ut apud Terentiun:
Obſequium amicos,ve centes : quando apodicticis ,id eſt , probabili ritas odium
parit. bus diſputationibus aliquid diſſerit , diſciplina Quid Exem plabile .
Exemplabile elt , quod alicujus exempli com- debeat nuncupari: quando verò
aliquid verilimi M. G. ini. paratione eventum fimilem comminatur ; ſicut le
tractat , ut ſunt ſyllogiſini ſophiſtici, nomen Cicero in Philippicisdicit:Temiror,Antoni,quo-
artis accipiat. Ita utrumque vocabulum pro ar *M.G. per- rum facta * imitere ,
eoruin exitus , non * per- gumentionis ſuæ qualitate promeretur. timefcere,
horrefcere. Quid Colle Collectivum eſt, cùm in unum , quæ argumen CAPUT TERTIUM.
tata funt , colliguntur ; ſicut ait Cicero pro Milo ne : Quem igitur cum gratia
noluit, hunc voluit De Dialectica cuin aliquorum querela, quemjure , quem loco,
quem temporemoneftaulus: hunc injuria ,alie- DJalecticam primiPhiloſophi
indi&ionum no cum periculo non dubitavit occidere. runt : non tamch ad
artis redegereperitiam. Poſt Ed. deftris Præterea ſecundum Victorinum
Enthymematis quos Ariſtoteles, ut fuit * diſciplinarum omniun altera eft
definitio. Ex fola propoſitione,ſicutjam diligens inquiſitor , ad regulas
quaſdam hujus Ariffoseler dictum eſt , ita conſtat Enthymema ; ut eft illud :
doctrinæ argumenta perduxit, quæ priùs ſub cer- Dialectice Si tempeſtas vitanda
eſt , non eſt navigatio requi- tis præceptionibus non fuerunt. Hic libros fa- argumenta
ad regulas renda. Ex fola aſſumptione s ut eſt illud : Sunt ciens exquiſitos,
Græcorum ſcholam multiplici quafdamper autem qui munduin dicantfine divina
adminiſtra- laude decoravit ; quem noftri non perferentes duris. tione
diſcurrere. Ex folaconcluſione ; ut eft il- diutiùs alienum , tranſlatum
expofitúmque Ro Dialecticam lud : Vera eſt igitur divina * fententia. Ex pro-
manæ eloquentiæ contulerunt. Dialecticam verò , *MS. fcick poſitione&
affumptione; ut eft illud: Si inimicus &Rhetoricam Varro in nove;n
diſciplinarú libris canin move eſt, occidit. Inimicus autem eſt : & quia
illi deelt tali funilitudine definivit. Dialectica & Rhetori- libris Vaira
.conclufio, Enthymnema vocatur. Sequitur Epi- ca eſt, quod in manu hominis
pugnus adſtrictus, definivit. chirema. & palma diſtenſa : illa brevi
oratione argumenta Quid Epic Epichirema eft , quod fuperiùs diximus, dels
concludens, iſta facundiæ campos copioſo fer chirema. cendens de ratiocinatione
latior excurfio Rheto- mone diſcurrens : illa verba contrahens , ifta di
Itendens. & Argumentum eſt argutæ mentis indicia quod per indagationes
probabiles ,rei dubiæ perficitfidem,per Rhetoricaad illa ,quæ nititurdocenda,
facun- pomaleticom Dialectica fiquidem ad differendas res acutior: Que fic
diffe excmpla confirmans; ut eft : Noliæinulari in malignan tibus : quoniam
tanquain fænum , &c. dior. Illa ad ſcholas nonnumquam venit , iſta ju.
& Rhetori saris. Zivim. n.19167 . & Rhetoria 64m. De Dialectica.. son
quenter. girer procedit in forum : illa requirit rariſſimos & noftræ
diſpoſitionis curràtintentio. Conſue * MSS.fre- ftudiofos , hæc * frequentes
populos. Sed priul- tudo iraque eft doctoribus philoſophiæ , ante quam de
fyllogiſmisdicamus , ubi totius Diale- quam ad Iſagogen veniant exponendam ,
divis dicæ utilitas & virtusoſtenditur, oporter de ejus lionem philoſophiše
paucis attingere :quam nos initiis , quaſi quibuſdam elementis , pauca diffe-
quoque ſervantes; præſenti tempore non immer cere; ut ficut eſt à Majoribus
diſtinctus ordo , ita ritò credimus intiinandain , Philofophiæ divifio. In
Inſpectivam , TIXMT, hæc dividitur in In Naturalem . | Doctrinalem , hæc ( In
Arithmeticam dividitur Muficam . Geometricain. Divinain . Aftronomicain Diviſt
thing Lofophiæ. Philoſophia divi ditur fecundum Ariftotelem . Moralem . |
Sirir. Er Actualeta Ciſpenſativa , Φρακτικών PorxorowyXXV. hæc dividitur in
Civilem . ίπολιτική » ACETA! oixorouexin . weg.Xti xh. νομοθεπκό ., thesxor.
Sewertexn . . φυσική . Definitiò Philos fophiæ. megatoxin. resnio intoxin . 23
Quid 1 3. Dirogoera oroimene Occs Kated to duratór ávöçóórw. plina quæ curſus
cæleftium , fiderumque figuras homophine en Philoſophia eft divinaruin ,
humanarùmque re contemplatur omnes , &habitudines ftellaruni quotuplex. rum
, inquantum homini poſſibile eſt , probabilis circa ſe; & circa terram ,
indagabili ratione per Ycientia: Aliter,Philoſophia eſt ars artiuni, & dif-
currit. Actualis dicitur, quæ res propoſitas ope ciplina diſciplinarum.Rucſus,
Philoſophia eſtme, rationibus ſuis explicare contendit. Moralis di ditatio
mortis,quod magis convenit Chriſtianis, citur , per quam mos vivendihoneſtus
appetitur; 2.Corint. 16. qui ſæculi ambitione calcata , converſatione dif-
& inſtitura ad virtutem tendentia præparantur. ciplinabili , fimilitudine
futuræ patriæ vivunt; Diſpenſativa dicitur , domeſticaruin reruin fa Philip. 3.
20. Sícut dicitApoftolus : In carne enim ambulantes, pienter ordo diſpoſitus.
Civilis dicitur, per quàm non ſecundum carnem militamus ; & alibi: Con-
totius civitatis adminiſtrarur utilitas. Philoſo verſatio noftra in calis eft.
Philofophia eſt affimi- phiæ diviſionibus definitionibúſque tractatis, in lari
Deo ſecundum quod poflibile eft homini. quibus generaliter omnia continentur ,
nunc ad Inſpectiva dicitur,qua ſupergreſſi vilbilia de di- Porphyrii librum ,
qui Iſagoge inſcribitur, acce vinis aliquid & cæleſtibus contemplamur,
eáque damus. mente foluinmodo contuernur , quantum corpo De Iſagoge Porphyrii.
reum ſupergrediuntur aſpectum . Naturalis dici tur,ubiuniuſenjufque rei natura
diſcutitur: quia de Genere. Dávc . nihilcontra'naturain generaturin vita: ſed
unun | de Specie. tidos. quodque hisufibus deputatur , in quibus à Crea-
llagoģe Por de Differentia. Depoeg tore productú eit: nifi fortè cum voluntate
divina phyrii tractat de Proprio. ibor aliquod miraculuin
proveniremonſtrerur.Doctii i de Accidente, συμβεβηκός. *MSS. figni- nalis
dicitur ſcientia , quæ abſtractam * conſiderat ficar. quantitatem . Abſtracta
eniin quantitas dicitur, Genus eft ad fpecies pertinens, quod de diffe- Quid
fit Ge quam intellectu àmateria ſeparantes ,vel ab aliis rentibus fpecie , in
co quod quid ſit, prædicatur; nun accidentibus ; ut eſt , par, impar: vel alia
hujuſce ut animal. Per ſingulas enim fpecies , id eft, modi in ſola
ratiocinatione rractainus. Divinalis hominis , equi, bovis , &
cæterorun,genus anis dicitur, quando aụt ineffabilem naturam divi- mal
prædicarur atque ſignificatur, nam , aut ſpirituales creaturas ex aliqua parte,
Species eſt , quod de pluribus & differentibii's Quid fit Spo profundifſimâ
qualitate differimus. Arithinerican numero, in eo quod quid fit, prædicatur ;
nam cies, eſt diſciplina quantitatis numerabilis ſecundum de Socrate , Platóne
, & Cicerone homo prædi ſe. Muſica, eſt diſciplina quæ de numeris loqui-
catur. tur , quiad aliquid ſunt his , qui inveniuntur in Differentia eſt , quod
de plaribus & differen » Quid fit Dif". ſonis. Geometrica, elt
diſciplina magnitudinis tibus ſpecie ,in eo quod quale ſit,prædicatur; ſicuc
erensia, immobilis,&formarum . Aftronoinia,eſt diſci- rationale &
inortale,in eoquodquale ſit, dc ho- f mine prædicatur, 568 Caffiodorus € lcens
. men . atque bos. Tulum , Quid fit Pro Proprium eſt , quod unaquæque ſpecies ,
vel Hoc opus Ariſtotelis intentè legendum eſt, cur Carego prium. perſona certo
additamento infignitur, &ab om- quando ficut dictum eſt ; quicquid hoino
loqui- rie Ariftotelis ni communione feparatur. tur, inter decem ifta
Prædicamenta inevitabili, intentè les erid fut Ac. gende. Accidens eſt , quod
accidit & recedit præter ter invenitur : proficit etiam ad libros
intelligen ſubjecti corruptionem : vel ea quæ fic accidunt, dos , qui live
Rhetoribus, fivc Dialecticis appli ut penitus non recedant. Hæc qui pleniùs
noſſe cantur. deliderant , Introductionem legant Porphyrii ; * £ d.alicujus
quilicetad utilitatein * alieni operis ſedicatſcri Incipitperi hermenias , id
eft , de inter bere, non tamen ſine propria laude viſus eſt talia pretatione.
dicta futinafle. Sequitur liber peri hermenias ſubtiliſimus rii Categorie
Ariſtotelis. mis , & per varias formas , iterationéfque cautif ſimus, de
quo dictuin eſt : Ariſtoteles, quando Sequuntur Categorix Ariſtotelis, ſive
Prædi- librum peri herinenias ſcriptitabat , calamum in camenta : quibus mirum
in modum per varias fi- mente tingebat. gnificantiasomnis fermo concluſuseſt : quorum
De nomine. organa ſive inftruinenta ſunt tria. De verbo . Inftrumenta Organa
vel inſtrumenta Categoriaruin five In libro peri hermenias; De oratione ,
drogoriarum ( rent tria , /ci Prædicamentorum funtæquivoca , univoca, de- id
eft, de interpretatio De enunciatione. licet. nominativa. ne, prædictus philofo
De affirmatione. Æquivoca. Æquivoca dicuntur, quorú noinen folùm com- phusdehis
tractat. De negatiore. mune eft , fecundùm nomen verò ſubſtantiæ ratio
Decontradictione, diverſa ; ut animal, homo, & quod pingitur. Vniyoca ,
Univoca dicuntur , quorum & noinen com Nomen, elt vox fignificativa
ſecundùm placi- quid fitmoi mune eſt, & ſecunduin nomen diſcrepare eadem
tum, ſinė tempore: cujus nulla pars eſt ſignificati ſubſtantiæ ratio non probatur:
ut animal , homo, va ſeparata: utSocrates. Verbum , eſt quod conſignificat
tempus : cujus Quid forver Deuominati Dena ninativa , id eſt , derivativa ,
dicuntur pars nihil extra ſignificat , & eſt ſemper eorum bum, quæcuinque
ab aliquo ſola differentia caſus ſe- quæ de altero dïcuntur nota ; ut ille
cogitat, dil cundum noinen habent appellationem : ut å putat. grammatica
gramınaticus,& à fortitudine fortis. ' Oratio , eſt vox fignificativa ,
cujus partium Quid ſit örä aliquid * feparatim ſignificativum eſt ; ut Socrates
to Subſtantiaa sola, diſpucat. * MSS.lepa | Quantitas, mosotas. Enuntiativa
otàtio, eſt vox ſignificativadeeo Quid fit Ad aliquid . ney's Fan quod eft
aliquid , vel non eſt ; ut Socrates eſt , So- Enuntiatid. Ariſtotelis
Ariſtotelis Catego Qualitas. TÓTUS. crates non eſt . Categorie riæ, vel
Prædicamen- į Facere. FOREV. Affirinatio , eft enuntiatio alicujas de aliquo:
quid fit Af son decem. ra decem ſunt Pati. PeoMHT. ur Socrates eſt. formatio.
Situs. ευρώς . Negatio , eft alicujus de aliquo negatio : ut So- luid fitNe.
Quando. done. crates non eſt. gatio. Ubi. Contradictio , eſt afficmationis
& negationis euid fitcom | Habere. ( xar. oppoſitio: ut , Socrates diſputat
, Socrates non diſputát. Subſtantia elt , quæ propriè , &t principaliter Hæc
omnia per librum ſuprà memoratum mi. Liber Pero Hermenias & maxiinè dicitur
; quæ neque de ſubjectopræ- nutiſſimè diviſa ; & ſubdiviſa tractantur, quæ
Boetio feprem dicatur, neque in ſubjecto eſt ; ut aliquis homo, breviter
intimnaſſe ſuffciat, quando in ipfo com- libris expoſé vel aliquis equus.
Secundæ autem ſubftantiæ di- petens explanatio reperitur : maximè cùin eum tu .
cuntur, in quibus ſpeciebus , illæ quæ principa- Tex libris àBoëtio viro
magnifico conſtet expoſi liter ſubſtantia primò dicta ſunt, inſunt atque tum ,
qui vobis inter alios codiceseſtrelictus. clauduntur ; ut in homine , Cicero .
Nunc ad fyllogiſticas ſpecies formulaſque vea Quantitas Quantitas aur diſcreta
eſt, & habet partes ab nianus, in quibus nobilium Philofophorum ju aplex,
aiſ alterutrodiſcretas ,nec eominunicantes , ſecun- giter exercetur ingenium ,
dum aliquem communem terminum , velut nu merus, & ſerino quiprofertur; aut
continua eſt, De Formulis ſyllogifmorum. & habet partes quæ ſecundum
aliquem coinmu* nein terininuin adinvicem convertuntur ; velut (in priina
forinula modi no linca, ſuperficies, corpus,locus, motus,tempus. Forinulæ
Categori Ad aliquid verò funt , quæcumque hoc ipſo coruin , id eſt, Præ-, In
ſecunda formula modi Formale ca quod ſunt, aliorum eſſe dicuntur ; velur majus,
dicativorum ſyllo quatuor. duplum ,habitus , difpofitio ,ſcientia, ſeriſus,
gilmorú ſunttres. | In tertia formula modi politio. i ſex. Qualitas , eſt ,
fecundum quam aliqui quales dicimur ; ut bonus, malus. Modiformule prime ſunt
novem . Facere eſt , ut ſecare , vel urere , id eft , ali quid operari. Pati
eſt , ut ſecari , vel uri. Primus modus eſt , quiconcludit , id eft, qui Situs
, eft , ut ftat , ſeder , jacet. Quando colligit ex univerſalibus dedicativis ,
dedicati eft , ut hefterno, vel crás. vum univerſale directum ; ut, omne juſtum
ho Ubi eſt : ut in Aſia , in Europa , in Lybia. neſtum , omne honeftum bonum ,
omne igitur Habere eft : ut calccatum , velarmatum effe. juſtum bonum .
Secundus ött . tradictio, nos creta , con sinna , vem . tegoricum Syllogiſmorum
funt tres. DeDialectica. 569 * Ed, concler dit. per quæ ſubti Secundus
moduscft, qui * conducit ex univer- rivis particulari & univerfali
dedicatvium parti ſalibus dedicativâ & abdicativâ abdicativum uni- culare
directum : ut quoddam juſtam honeſtum , verſale directum : ut oinnejuſtum
honeſtum , nul- omne juſtum bonum , quoddam igitur honeſtuin lum honeſtum turpe
, nullum igitur juſtum bonum . turpe. Tertius modus eſt , quiconducit ex
dedicativis Tertius modus eſt , qui conducir ex dedicativis univerſali &
particulari dedicativum particulare particulari & univerſali,dedicativum
particulare directum : ut , omne juſtum honeftuin , quod directum : ut quoddam
juftum eft honeſtum ,om- dam juſtuin bonum, quoddam igitur honeſtum ne
honeftuin utile, quoddam igirur juftumn utile. bonum . Quartusinodus eſt , qui
conducitex particulari Quartus modus eſt , quiconducit ex univerſa dedicativa,
&univerſali abdicativa, abdicativum libusdedicativa & abdicativa
abdicativum parti particulare directum : ut quoddam juſtum hone- culare
directum : utomne juſtuin honeſtuin , nul Itum , nullum honeftunı turpe ,
quoddam igitur lum juſtum malum , quoddam igitur honeſtum juſtum non eft turpe.
non eſt malum . Quintus modus eſt, qui conducit ex univerſa Quintus modus eſt,
qui conducit ex dedicativa libus dedicativisparticulare dedicativum per re-
particulari & abdicativa univerſali abdicativum Mexionem : ut omne juftum
honeſtum , omne ho- particulare directum : ut , quoddam juſtum , ho neftum
bonum , quoddam igitur bonum juſtum . neſtum , omne honeſtum bonum ,igitur
quoddan Sextus modus eft , qui conducit ex univerſali honeftum non eft malum.
dedicativa, & univerſali abdicativa , abdicativum Sextus modus eſt , qui
conducit ex dedicativa univerſale per reflexionem : ut omne juſtum ho-
univerſali & abdicativa particulari abdicativum neltuin , nulluin honeſtum
turpe, nullum igitur particulare directum : ut,omnejuſtum honeſtum , turpe
juftum . quoddam juſtum non eſt malum , quoddam igi Septimusmodus eſt
,quiconducit ex particulari tur honeſtuin non eſt malum. & univerſali
dedicativis dedicativum particulare Has formulas Categoricorum ſyllogiſmorum
reflexionem : ut quoddamn juftum honeſtum , qui plenè nofſe deſiderat , librum
legat, quiin Liber Apa!e omne honeſtum utile,quoddam igitur utile juſtú.
fcribirur -Peri hermenias Apuleii, & qui inſcribi : Odavus modus eft , qui
conducirex univerfa- lias ſunt tractata , cognoſcet. Nec faſtidium no- tur Peri
her libus abdicativa & dedicativa particulare abdica- bis verba repetita
congeminent ; diftin &ta enin, menias , le tivum per reflexionein : ut
nullum turpe hone- atque conſiderata , ad magnasintelligentiæ vias, gendus.
ftum , omnehoneſtum juſtum , quoddamn igitur præftante Domino,nosutiliter
introducent.Nunc juſtum non eft turpe. ad hypotheticos fyllogiſinos , ordine
currente, Nonas modus eit , qui conducit ex univerſali veniainus abdicativa,
&particulari dedicativa abdicativum particulareper reflexionem:velut
nullumturpe Modi Gyllogiſmorim hypotheticorum ,qui fiunt Modifyllogif morum hyposs
honeſtun , quoddam honeſtum juſtum , quoda cum aliqua conjunctione, Jeptem
funt. dam igitur juſtum non eſt turpe. funt feptem . Primus modus eſt , velut :
Si dies elt, lucer ; eſt Modi formuleſecunda funt quatuor. autein dies ; lucet
igitur. Secundusmodus eft ita : ſi dies eſt, lucet , non Primus modus eſt , qui
conducit ex univerſali- lucet ; non eft igitur dies. bus dedicativa &
abdicativa abdicativum univer- Tertius modus eſt ita : non & dies eſt &
nonlu fale directum : velutomne juſtum honeſtum ,nul- cet , atqui dies eft,
lucèt igitur. lum turpe honeftum ,nullum igitur juſtum turpe. Quartus modus eft
ita : aut nox, aut dies eft, at Secundus modus eſt , quiconducit ex univerſa-
qui dieseſt , non igitur nox eſt. libus abdicativa & dedicativa abdicativum
uni Quintus moduseſt ita : aut dies eſt, aut nox, at-. verſale directuin :
velut nullum turpe honeftum , qui nox non eſt , dies igitur eſt. omne juſtum
honeſtum , nullumigitur turpe Sextus inodus eſt ica : non & dies eſt, &
nonlu juftum cet , dies autem eſt , nox igitur non eſt. Tertius modus eſt ,
quiconducit ex particulari . Septimus modus eſt ita :non & djes eft &
nox , dedicativa & univerfali abdicativa ab licativum atqui nox non eſt ,
dies igitur eſt. particulare directum : veluc quoddam juftum ho Modos autem
hypotheticorum ſyllogiſinorum neſtum , nulluin turpehoneftum , quoddam igi- fi
quis pleniùs noſſe deſiderat, legat librum Marii Marius Vi tur juſtum non eſt
turpe. Victorini , qui inſcribitur de fyllogiſmis hypo- &torinus librá
Quartus r.odus eſt, quiconducit ex particu- thericis. Sciendum quoque , quoniam
Tullius de hypotheti: lari abdicativa & univerfali dedicativa abdicati-
Marcellus Carthaginenſisde categoricis & hy- edidit. vum particulare
directum : velut quoddamn juftum potheticis fyllogiſmis , quodà diverfis
philoſo: TulliusMar non eſt turpe , omne malum turpe , quoddam phislatiſſimè
dictum eft, feptem libris breviter cellus igitur juſtuin non eft malum ,
ſubtilitérque tractavit ; ita ut priino libro de re: thag. de Syl gula, ut ipſe
dicit, colligentiarum artis Dialecticæ logiſmis Modi formula tertiæfunt fex.
diſputaret ; &quod ab Ariſtotele de categoricis compofuit. ſyllogiſmis
multis libris editum eſt , ab ifto fecun Primus modus eſt , qui conducit 'ex
dedicativis do & tertio libro breviter expleretur ; quod aut univerfàlibus
dedicativum particulare , tam dire- tem de hypotheticis ſyllogiſmis à Stoicis
innume Etuin , quàm reflexum : ut omne juſtum hone- ris voluminibus tractatum
eſt , ab iſto quarto & ftum , omne juſtum bonum , quoddam igitur ho- quinto
libro colligeretur. In fexto verò de inix neftum bonum vel quoddamn bonum ho-
tis fyllogiſinis , in ſeptimo autem de compoſitis neftuin . diſpucavit ; quem
codicem vobis legendum re-, Secundus modus eſt , qui conducit ex dedica- liqui.
cccc theticorum Car Jeprem libros > $ 70 Caffiodorus Quid las Depnilio. 1 .1
1 longum viaticum : modò ut laudet , ut adolers De Definitionibus. centia eſt
Aos ætatis . Octava ſpecies definitionis eft , quain Græci Hinc ad pulcherrimas
definitionum ſpecies ac- x7 a paistoin rõ Evertix vocant , Latini per pri
cedamus , quæ tantà dignitate præcellunt , ut pof- vantiam contrarii ejus quod
definitur, dicunt; up ſont dici orationun maxiinuin decus , & quædam bonum
eſt, quod malum noneft: juftuin eſt, quod lumina dictionuin . injuſtum non eft.
Et his fimilia : quod fe ita na Definitio verò , eſt oratio uniuſcujuſque rei
turaliter ligat , ut neceſſariam cognitionem fibi naturam à communione diviſam
, propria ſignifi- unius comprehenſione connectat. Hoc autem catione concludens
: hæc multis modis , præce- genere definitionis uti debemus, cùm contrarium
priſque conficitur. notun eſt ; nam certa ex incertis nemo probat. Definitionum
prima eſt óvoradcas , Latinè ſub- Sub qua ſpecie ſunt hæ definitiones .
Subſtantia ftantialis , quæ propriè & verè dicitur definitio ; eft , quod
neque qualitas eſt, neque quantitas, ne or eſt, homoanimalrationale mortale ,
ſenſus dif- que aliqua accidentia : quo genere definitionis ciplinæque capax
;llæc enim definitio per fpecies Deus definiri poteſt ; etenim cùm quid fit
Deus, & differentiasdeſcendens, venit ad proprium , & nullo modo
comprehendere valeamus : ſublatio deſignat plenillimè quid ſit homo . omniuin
exiſtentium , quæ Græci örta appellant, Sccunda eſt ſpecies definitionis , quæ
Græcè cognitionem Dei nobis circumciſa & ablata no ŽVYOMMA TIx ) dicitur ,
Latinè notio nuncupatur : tarum rerum cognitione ſupponit ; ut li dicamus ,
quam notionem communi,non proprio nomine Deus eſt , quod neque corpus eſt ,
neque ullum poffumus dicere. Hæc iſto modo ſemper effici- elementum , neque
animal , neque mens , neque cur : Homo eſt, quod rationali conceptione &
ſenſus , neque intellectus , neque aliquid , quod exercitio præeſt animalibus
cunctis. Non eniin ex his capipoteſt ; his enim ac talibus ſublatis , dixit,
quid eſt homo , ſed quid agat , quaſi quodam quid fit Deus , non poterit
definiri . figno in notitiam denotato . In iſta enim &in re Nona ſpecies
definitionis eſt , quain Græci liquis notio rei profertur : non ſubſtantialis ,
ut Kåtalnooi , Latini per quamdam imaginatio in illa primariaexplanatione
declaratur ; & quia nem dicunt : ut, Æneas eſt Veneris & Ănchiſæ illa
fubftantialis eſt , definitionum omnium obti- filius. Hæc ſemper in individuis
verſatur , qux ner principatum . Græci aqua appellant. Idem accidie in eo gene
Tertia fpecies definitionis eſt , quæ Græcè redictionis, ubialiquis pudor aut
metus elt no Trolótus dicitur, Latinè qualitativa. Hæc dicendo minare : ut
Cicero , cùm me videlicet ficarii illi quid quale lit , id quod fit , evidenter
oſtendit. deſcribant. Cujus exemplum tale eſt : homo eft , qui ingenio Decima
fpecies definitionis eft , quam Græci valet , artibus poller , & cognitione
rerum : aut as Tót , Latini , veluti , appellant ; ut fi quæ quæ agere debeat
eligit :aut animadverſione quod ratur quid ſit aniinal , refpondearur , homo :
inutile fit contemnit ; his enim qualitatibus ex non enim manifeftè dicitur
animal folum effe preſſus ac definitus homo eſt . hominem , cum fint alia
innumerabilia : ſed cuin Quarta ſpecies definitionis eſt , quæ Græcè dicitur
homo , veluti ipfum hominem animal de soggapixn , Latinè deſcriptionalis
nuncupatur: fignat : cùm tamen huic nomini multa ſubja quæ adhibitâ circuitione
dictorum factorúmque, ceant. Rem enim quæfitam prædictum declata rem , quid fit
deſcriptione declarat ;ut ſi lu- vit exemplum . Hoc eſt autem proprium defini
xuriofum volumus definire , dicimus : Luxurio- tionis , quid fit illud , quod
quæritur , declarare . fus, eſt victus non neceffarii & fumptuoli & one
Undeciina ſpeciesdefinitionis eft , quam Græ rofi appetens,in deliciis
affluens,in libidine pron- ci rece tead the matter , Latini per iudigentiain
ptus ; hæc & talia definiunt luxuriofum . Que pleni ex eodem genere vocant
: ut ſi quæratur ſpecies definitionis , oratoribus magis apta eſt, quid fit
triens, refpondeatur , cui dodrans deeft, quàm dialecticis , quia latitudines
habet ; hæc ut lit aſlis. fimili modo in bonis rebus ponitur , & in
Duodecima ſpecies definitionis eſt, quam Græ malis. ci , Kata imesvov , Latini
per laudem dicunt ; ut Quinta ſpecies definitionis eft , quam Græcè Tullius pro
Cluentio: Lex eſt mens, & animus, AT nikov : Latinè ad verbum dicimus : hæc
vo- & confilium , & fententia civitatis. Et aliter pax cem illam , de
qua requiritur , alio ſermonedeſi- eſt tranquilla libertas. Fit &
pervituperationem , gnat uno ac ſingulari, & quodammodo quid il- quam Græci
tózer vocant : ſervitus eſt poſtre lud ſit in uno verbo pofitum , uno verbo
alio de- mum malorum omnium , non modò bello , ſed clarat ; ut conticefcere eſt
tacere : item cùm ter- morte quoque repellenda. minum dicimus finem , aut
terras populatas inter Tertiadecima eſt ſpecies definitionis , quam pretemur
effe vaſtatas. Greci κατ'αναλογίαν,Latini juxta rationem dicunt: Sexta ſpecies
definitionis eſt , quam Græci x fed hoc contingit , cum majoris ire nomine ,
res Thu nepoege , per differentiam dicimus ; id eft , definitur inferior : ur
eſt illud , homo ininor mun cùm quæritur , quid interſit inter regem & ty-
dus . Cicero hac definitione ſiculus eſt :Edictum , rannum , adjecta
differentia quid uterque fit, de- legem annuam dicunt eſſe . finitur : id eſt ,
rex eſt modeftus & temperans, ty Quartadecima eſt ſpecies definitionis ,
quam rannus verò impius & immitis . Græci sess , Latini ad aliquid vocant :
ur eſt Septima eft fpecies definitionis , quam Græci illud, pater eft , cui eſt
filius :dominus eſt, cui eft el ustápoegr . Latini per tranſlationein dicunt :
fervus: & Cicero in Rhetoricis , genus eſt , quod ut Cicero in Topicis,
Lictus eſt, quà Auctus elu- plures partes amplectitur: item pars eſt , quod lu
dit . Hoc variè tractari poreſt : modò enim ut beſt generi . moveat , ficut
illud , caput eſt arx corporis : modò Quintadecima eſt ſpecies definitionis ,
quam ut vituperet , ut illud , divitiæ ſunt brevis vitæ Græci koste BiTiongear
, Latini fecundum rei fa ! De Dialectica. 571 tionuom . 5 rationem vocant : ut
dies eſtrol fuprà terras:nox, dicativus atque ſubjectus. Terminos autem voco
elſolſubterris. Scire autem debemus prædictas verba &nonina,quibuspropoſitio
nectitur;ut niquifuntper propoſe ſpecies definitionum , Topicis meritò eſſe
ſocia- in ea propoſitione qua dicimus:Homojuſtus eſt : tas , quoniaminter
quædam argumenta funtpoſi- hæc duo nomina, id eſt, homo & juftus, propo tæ
, & nonnullis locis commemoranturin Topi- fitionis partes vocantur. Eoſdem
etiam terminos cis. Nunc ad Topica veniamus, quæ ſunt argu- dicimus : quorum
quidem alter ſubjectuseſt , al mentorum fedes, fontes ſenſuu, origines di- ter
verò prædicativus, Subjectus eſt terminus, &tionum : de quibus breviter
aliqua dicenda ſunt, qui minor eſt: prædicativus verò , qui major: ut ut
&dialecticos locos, & rhetoricos , ſive corum in ea propolitione , qua
dicitur , Homo juſtus, differentias agnofcere debeamus: ac prius dedia- homo
quidem minus eſt , quàm juſtus. Non Iceticis dicendum eft . enim in folo homine
juſtitia eſſe poteft , verùm etiam in corporeis diviníſque ſubſtantiis : atque
De Dialecticis locis. ideo major eſt terminus, juſtus : homo verò , mi nor; quò
fit, ut homo quidem ſubjectus fit ter Quid die Propoſitio, eft oratio verum -
falfúmveſignifi- minus, juſtus verò prædicativus. Propofitio. cans , utſiquis
dicat , cælum eſſe volubile : hæc Quoniam verò hujuſmodi (implices propolis
enuntiatio & proloquiun nuncupatur : quæſtio tiones alterum habentprædicativum
terminum , verò eft, in dubitationem ambiguitatémque ad- alterum verò
ſubje& um, à majoris privilegio par ducta propofitio ; utſiqui quærant, an
fit cælum tis propoſitio prædicativa vocata eft.Sæpe autem Quid Concli-
volubile. Concluſio , eft argumentis approbara evenit, ut hi termini ſibimet
inveniantur æqua 330. propoſitio; ut fi quis exaliis rebus probetcælum les ,
hocinodo , homoriſibilis eſt; homo namque effe volubile.Enuntiatio quippe live
ſui tantum & riſibilis uterque ſibi æquus eſt terminus. Nam caufa
dicitur,five ad alios ad ferturad probandum , ncque riſibile ultra hominem ,
nec ultra riſibile propofitio eft : cùm de ipſa quæritur, quæſtio: homo
porrigitur : ſed in luis hoc evenire neceſſe lipſa eſt approbáta, conclufio.
Idem igitur pro- eſt, utſi quidam inæquales termini ſunt , major politio
,quæſtio , & conclufio, fed differuntinodo, ſemper de ſubjectoprædicetur:
fi verò æquales Quid fit Ar Argumentum eſt oratio rei dubiæ faciens fi=
utrique, converſa de fe prædicatione dicantur. gumentum . dem. Non verò idem
eſt argumentum , quod & Ut verò minor demajore prædicetur, in nulla
arguinentatio. Nam vis ſententiæ ratióque ea, propoſitione contingit. Fieri
autein poteft, ut quæ clauditur oratione , cùm aliquid probatur propoſitionum
partes, quas terminos dicimus, ambiguum , argumentum vocatur: ipfa verò ar- non
ſolum in nominibus, verum etiain in oratio gumenti elocutio, argulhentatio
dicitur ; quò fit, nibus inveniamus. Nam ſæpe oratio deoratione ut argumentum
quidem mens argumentationis prædicatur hoc modo : Socrates cum Placone so Git
atque ſententia : argumentatio verò argument diſcipulis de philoſophiæ ratione
pertractat; hæc per orationem explicatio. quippe oratio , quæ eft , Socratesçum
Platone & Quid fit Locus verò eſt argumenti fedes, vel unde ad diſcipulis ,
ſubjecta eſt: illa verò , quæ eft , de propoſitain quæſtionein conveniens
trahitur ar- philofophiæ ratione petractat , prædicatur. Rur gumentum . Quæ cùm
ita fint, ſingulorum dili- ſus aliquando nomenſubjectum eſt, oratio præ ='
gentiùs nătura tractanda eſt, eorumque per fpe- dicaruin , hocmodo: Socrates de
philoſophiæ ra-. cies ac membra figuraſque facienda diviſio. cione pertractat ;
hic eniin Socrates ſolus ſubje Acpriùsde propoſitione eſt diſſerendum : hanc
ctus eſt:oratio verò, quàm dicimus, de philoſo eſſe diximus orationein ,
veritatem , vel menda- phiæratione pertractat,prædicatur.Evenir etiam ,
Duæſuntpro- cium continentem . Hujus duæ ſunt ſpecies : una ut fupponatur
oratio , & fimplex vocabulum pofitionum affirmatio , altera verò negatio .
Affirmatio eſt, prædicetur hoc inodo : Similicudo cum ſupernis fpecies ſub , ,
fi qui ſic efferat, Caluin volubile eſt :negatio , li diviníſque ſubſtantiis,
juſtitia eſt ; hic enim ora quis ita pronuntiet , cælum volubile non eſt. rio
per quam profertur fimilitudo , cum ſupernis alie. Harumverò aliæ ſunt
univerſales, aliæ ſunt par- diviníſque ſubſtantiis fubjicitur:juſtitia verò pre
ticulares, aliæ indefinicæ , aliæ ſingulares. Uni- dicatur. Sed de
hujuſmodipropoſitionibusin his verſales quidem , ut ſi quis ita proponat : Oin-
commentariis, quos in Peri hermenias Ariſtotelis nis homo juftuseft, nullus
homo juſtus eft. Par- libros ſcripſimus , diligentiùs differuimus. ticulares
verò , fi quis hoc modo :Quidamn homo Arguinentum , eft oratio rei dubiæ
faciens fi- Quid fit an juftus eft , quidam homo juſtus non eſt. Inde- dem
:hanc femper notiorem quæſtione elſe nez gumentum, finitæ fic:Homojuſtus eſt ,
homo juſtusnon eſt. ceſſe eſt. Nain liignora nobis probantur , argu Singulares
verò funt, quæ de individuo aliquid mentum verò rem dubiam probat: neceffe eft,
ut fingularique proponunt:utCato juſtuseſt , Cato quod ad fidem quæſtionis
affertur, fit ipfa notius juſtus non eft ; etenim Cato individuus eſt , ac
quæſtione. Argumentorum verò oinnium alia Multiplicito fingularis.
ſuntprobabilia & neceſſaria :alia veròprobabilia Juris Argan Harum verò
alias prædicativas, alias conditio. quidem , ſed non neceſſaria : alia
neceffaria; ſed nales vocainus. Prædicativæ funt, quæ fimpli- non probabilia
:alia nec probabilia, nec neceffaria. Quid forProm citer proponuntur, id eſt,
quibus nulla vis con- Probabile verò eſt, quod videturvelomnibus, vel bavile
Argu ditionis adjungitur: ut fi quis fimpliciter dicat, pluribus,
velfapientibus, & his vel omnibus, vel mensun . Cælum eſſe volubile. At ,
li huic conditio copu- pluribus , vel maximè notis , atque præcipuis, letur,
fit ex duabus propoſitionibus una condi- vel unicuique artifici fecundum
propriam facul tionalis, hocmodo: Cælum (irotundum ſit , efle càtem ; ut de
medecinamedico , gubernatori de volubile ; hîc enim conditio id efficit, ut ita
de- navibus gubernandis: & præterea quod ei vides mum cælum volubile eſſe
intelligatur, ſit ro- tur cuin quo fermo conſeritur, vel ipſi qui judi tundum .
Quoniam igitur aliæ propofitiones præ- cat . In quo nihil artiner verum
falfùmvelit árgưr dicativæ ſunt , aliæ conditionales : prædicativa- mentum , fi
tantùm veriſimilitudinem tenet. rum partes , terminos appellamus. Hi ſunt præ
Neceffariun vero eft, quod ut dicitar, ita eſt, Quidfor Ne cearium . Сccc ij
Locis. quibus multe mentorum genera . 572 Caffiodorus rium. atque aliter eſſe
non poteft: & probabile quidein, fpeciebusutiturargumentis, quæfunt probabi
ac neceflarium eſt ; ut hoc ſi quid cuilibet rei ſic le ac neceſſarium ,
neceſſariuin ac non probabile. additum , totum majus efficitur. Neque enim
Patet igitur , in quo philoſophus ab oratore, ac quifquam ab hąc propoſitione
diffentiet, & ita ſe dialectico in propria confideratione diſſideat ; in
Quid fit le habere neceſſe eſt. Probabilia verò acnon ne- co ſcilicet, quod
illis probabilitatem , huic veri provabile ac ceffaria, quibus facilè quidem
animus acquief- tatem conſtat elle propofitam . Quarta yerò fpe non neceffa-
cit , fed veritatis non tenet firmitatem ; ut cies argumenti, quain ne
arguinentun quiden học , ſi mater eſt , diligit. Neceſſaria verò funt, rectè
dici ſupràmonſtravimus, fophiftis Tola eſt Quid fit ne cilarium ,ac ac non
probabilia, quæ ita quidein eſſe, ut dicun- attributa. Topicorum verò intentio
eft, verili non probabile tur ſe habere , necefle eft, ſed his facilè non con-
milium argumentorum copiam demonſtrares de ſentit auditor :ut ob objectum
Lunaris corporis, fignatis enim locis,è quibus probabilia arguinen bredamſunt
Solis evenire defectunt. Neque neceſſaria verd ta ducuntur , abundans.&
copiofa neceſſe fiat nec neceffa- peque probabilia funt, quæ neque in opinione
materia differendi. ria ,necpro- hominum , neque in veritate confiftunt, ut
hoc, Sed quoniam , ut fuprà dictum eſt , proba babilia habere quæ non
perdiderit cornua Diogenem , bilium argumentorum alia funt neceffaria , quoniam
habcatid quiſque quod non perdiderit; alia non neceſſaria : cùm loci
probabilium ar quæ quidem nec argumenta dici poſſunt : argu- guntentorum
dicuntur , evenit , ut neceſſario mentaenim rei dubiæ faciunt fidem. Ex his au-
ruin quoque doceantur , quo fit, ut oratoribus tem nulla fides eſt, quæ neque
in opinione , ne- quidem ac dialecticis hæc principaliter facultas que in
veritate ſunt conſtitutą. Dici tamen poo parecur , ſecundo verò loco
philofophis. Nam teſt, ne illa quidem eſſe argumenta , quæ cùm fint in quo
probabilia quidem omnia conquiruntur, neceffaria , minimè tamen audientibus
appro- dialectici atque oratores javanțur: in quibus verò bantur. Nam ſi rei
dubiæ fit fides , cogendus eft probabilia ac neceffaria docentur, philoſophic.e
animus auditoris, per ea quibus ipſe adquieſcit, demonſtrationi miniſtratar
ubertas. Non modò u concluſioni quoque, quam nondum probar, igitur dialecticus
atqueorator , verùm etiam de poſlit accedere. Quod fi quæ tantùm neceffaria
monſtrator , ac veræ argumentationis effector, (unt, ac non probabilia , non
probat ille qui ju- babetquod ex propoſitislocis libi poſſit adſuine
dicat,eltneceſſe, utneillud quidein probet,quod re . Cùm inter argumentorum
probabilium focos, ex hujuſcemodi ratione conficitur. Itaque evenit
neceſſariorum quoque principia traditio mixta ex hujufmodi ratiocinatione , ea
, quæ tantùm contineat. Illa verò argumenta, quæ neceſſaria neceffaria ſunt, ac
non probabilia, non efle ar- quidein ſunt , ſed non probabilia ; atque illud
gumenta. Sed non ita eſt , atque hæc interpreta- ultimum genus ; fcilicet ilec
probabile,nec ne tio non rectæ probabilitatis intelligentiam tenet. ceſſarium
,à propofiti operisconſideratione fem Ea funt enimprobabilia , quibusſponte,
atque jundum eſt. Nili quod interdum quidam ſophi ultrò conſenſus adjungitur;
ſcilicet ut moxaudi- ſtici loci exercendi gratia lectoris abhibentura ta fint,
approbentur. Quocirca Topicorum pariterutilitas intencióque de fint ar Quæ
veròneceffariafunt,ac nonprobabilia,aliis patefacta eft ; his enim &
dicendi facultas, &in gamenta pro babilia . probabilibus ac neceſſariis
argumentisantea de veſtigatio veritatis augetur. monſtrátur,cognitáque
&credita, ad alterius rei, Nam quid dialecticos atque Oratores locorum
locorum ** de qua dubitatur, fidem trahuntur;ut ſuntfpecu- juvát agnitio ?
Orationi per inventionem co micos arque lationes,id cft,cheoremata, quæ in
Geometriacon- piampræftant. Quid verò neceffariorum doctri- Oratoresmus
fiderantut. Nam quæ illic proponuntur, non funt nam locorum philoſophis tradit?
viam quodam- sum juvas. talia, ut in his fponte animusdiſçentis accedar: modo
veritatis illuftrat. Quò magis perveſtis ſed quoniam demonſtrantur aliis
argumentis, illa ganda eft rimandâque ulterius diſciplina ea, quæ quoque ſçita
& cognita ad aliarum fpeculatio- cùm cognitione percepra uſu atque exer
pumargumenta ducuntur.Itaque probabilia non citatione firmanda. Magnum enim
aliquid lo Cunt, ſed ſunt neceſſaria his quidem auditoribus, corum conſideratio
pollicetur, fcilicetinvenien quibus nondum demonſtrata funt: ad aliud ali- di
vias ; quod quidem hi, qui ſunt hujus rationis quid probandum , argumenta effe
non poffunt; expertes,ſoliprorſus ingenio deputantur : neque hi autem qui
peioribus rationibus eorum , qui- intelligunt, quantun hac conſiderationequærat
bus non adquieſcebant, fidem cceperunt, poffunt, cur , quæ in artem redigit vim
poteſtatemque na cas quæ non ambigunt, ad argumentuin vocare. turæ . Sed de his
hactenus : nunc de reliquis ex Sed quia quatuor facultatibus differendi omne
plicemus. artificium continetur, dicendum eſt qux quibus uti noverit
argumentis; ut, cui potiſſimum diſci De Syllogiſmise plinæ locorum atque
argjinentorum paritur u Diale &tice, bertas , evidenterappareat.
Quatuorigitur fa Syllogiſmorum verò aliiſuntprædicativi, qut"
Syllogiſmialii Oratori, Phi- cultatibus,earúmque velutopificibus,differendi
categorici vocantur,aliiconditionales,quos hy- predication Dolopho, so omnis
ratio ſubjecta eft, id eſt, dialectico , ora , potheticos dicimus. Et
prædicativiquidem funt, males, com phifte dife rendiomnis tori, philofopho ,
ſophiſtæ . Quorum quidem qui ex omnibus prædicativis propoſitionibus quid fins.
ratio fobjekta dialecticus atque orator in communi argumen- connectuntur sur is
, quem exempli gratiafupes, torummateria verſautur; uterque enim ,five ne- riùs
adnotavi , omnibus enim propoſitionibus cellaria , kve minimè, probabilia tamen
ſequitur prædicativis texitur.Hypothetici verò funt,quo Quefit diffe ventia
inter argumenta . His igitur illæ duæ fpecies argu- ium propofitiones
conditione nituntur , ut hics Dialecticum, menti famulantur ,quæ funt probabile
ac non si dies eft , lux eſt zett autem dies , lux igitur eſte Oratorent &
neceffarium : philoſophus vero ac demonftrator Propofitia enim prima
conditionem tenet hanc, Philoſuphum . de ſela tantum veritate pertractant:
Asque ideo quoniam ita demum lux eft , fi dies eft. Atque ſive liņt probabilia
, five non fint , nihil referi,' idea fyllagiſmus hic, hypochericus , id eſt
condi modo duin ſine peceſlaria : bic quoque his duabus tiopalis vocatur.
Inductio verò eft oratio , per i i Onid fais duftio. De Dialectica: 573 Tuniwy
. $ niio . 0 10 OS 2712 quam fitàparticularibus ad univerfale progreflio, plumvocamus
:quoniam vero non pluresquibus hoc modo: Siin regendis navibusnan forte, ſed id
efficiat colligit partes , ab inductione diſcedit. arte legitur gubernator : fi
regendis equis auriga Ita igitur duæ quidem ſunt argumentandiſpecies non fortis
eventu , ſed commendatione artis ad- principales: una , quæ dicitur
fyllogiſmus, alte ſumitur : fi in adminiftranda republica non ſorsra que
vocaturinductio ; ſub his aurem , &veluc principem facit ,ſed peritía
moderandi ; & fimi- ex his manantia , enthymema atque exemplum , * Ed.
infe- lia, quæ in pluribus conquiruntur , quibus * im- Quæquidem omnia ex
ſyllogiſmo ducuntur , & pertitur : & in omni quoque re , quam quiſque
ex fyllogifino vires accipiunt: live enim ſit enthy regi atque adminiſtrari
gnaviter volet , qui non 'mena, liveinductio , live etiam exemplum , ex forte
accommodat, ſed arte, rectorem , fyllogiſmo quàm maximè fidem capit ; quod in
Vides igitur quemadmodum per fingulas res prioribus reſolutoriis, quæ ab
Ariſtotele tranftu currat oratio,ur ad univerſale perveniat.Nam cùm linus,
denonſtratumeft. Quocirca fatis eſt de non forte regi, ſed arte navim , currum
, rempubli- fyllogilino differere , quaſi principali, & cæte cam
collegiffet, quali in cæteris ſeſe quoque ita ras argumentandiſpecies continente.
habeat , quod erat univerſale concluſit : in omni Reſtat nunc quid fit locus,
aperiçe. Locus nam- Quid forlocais bus quoque rebus, non ſorte ductum , fed
arte, que eſt , ut* Marco Tullio placet, argumentifea Dialectico . * MSS.Man
præcipuum debere præponi. Sæpe autem multo, des ; cujus definitionis quæ
fitvis, paucis abſol rum collecta particularitas aliud quiddam parti- vam ,
Argunventi enim fedes partin maxinia culare demonſtrat ; ut fi quis fic dicat:
Si neque propoſitio intelligi poteft, partim propofitionis navibus , ncque
curribus, neque agris ſorte præ- inaximè differentia. Nam cùm fint alize
propoli ponuntur ; nec rebus quidein publicis rectores tiones , quæ cùin per ſe
notæ lint, cùm nihil ul eſſe ſorte ducendi funt. Quod argumentationis teriùs habeant,
quo demonftrentur , atque hæ genus maxiinè folet eſſe probabile , etſi non
maxinæ & principales vocentur, funtque aliæ æquam ſyllogyſmi habeat
firinitatem . Syllogif- quarum fidem primæ ac maximæ , fuppleant mus
namqueabuniverfalibus ad particularia de- propofitiones : neceffe eft , ut
omnium quæ curret. Eftque in eo , fi veris propoſitionibus dubitantur , illæ
antiquiſſimam teneant pro+ contexatur , firma atque immutabilis veritas.
bationein ; quæ ira aliis fidem facere poffunt, Ut inductio habet quidem
maximam probabi- ut ipſis nihil queat notius inveniri. Nam li litatem , ſed
interdum veritate deficitur; ut in argumentum eſt , quod rei dubiæ faciat fidem
, hac : Qui fcir canere , cantor eſt : & qui luctari ídque notius ac
probabilius eſſe oportet , quàm luctaror: quique ædificare , ædificator ;
quibus illud quodprobatur : neceſſe eſt, utargumentis multis fimili jatione
collectis , inferri poteſt: omnibus illa maximam fidem tribuant, quæ ita Qui
fcit igitur malum ,malus eſt, quod non pro- per ſe nota ſunt, at alienâ
probationenon egeant: cedit;mali quippe notitia deeſſe non poteſt bonoš Sed
hujulinodi propoſitio aliquotiens quidem virtusenim ſeſe diligit, aſpernatúrque
contraria, intra argumenti ambitum continetur: aliquotiens nec vitare vitium
niſi cognitum queat. yerò extra polita, argumenti vires ſupplet ac per His
igitur duobus velut principiis, &generibus fices, Duo funt alii
argumentandi, duo quidem alii deprehenduntur Cinnes igitur loci , id eft ;
maximarum diffe , Omnes loci à argumentori argumentationis modi: unusquidem
fyllogiſmo, rentiæ propoſitionum , aut ab his ducantur ne quibus ternii modi,
Enthy alter verò inductioni ſuppoſitus. In quibus qui- ceſſe eſt terminis , qui
in quæſtione ſunt propo memaſciet exemplum , ea dempromptumſit conſiderarequod
, ille quidem fiti, prædicato ſcilicețarquefubjeéto : aut extrin qaid (ma à
fyllogiſmo, ille verò ab indu & ione ducat exor- ſecus adfumantur :auc
horum medii acque inter dium : non tamen ,aut hicfyllogiſmum , aut ille
utrofque verſentur. Eorun verò locoruin , qui impleat inductionem ; hæc autem
ſunt enthyine ab hisducuntur terininis , de quibus in quæſtione ma , atque
exemplum , Euthymema quippe eft dubitatur , duplex modus eſt : unus quidem ab
imperfectus fyllogiſmus, id eſt oratio, in qua non corum fubftantia , aker verò
ab his, quæ eoruin omnibus antea propoſitionibus conftitutis,inter ſubſtantiam
conſequuntur shi verò quià ſubftária tur feſtinata conclufiosut fi quis ſic
dicat : homo funt, inſola definitione conliſtunt.Definitio enim animal eſt, ſubſtantiaigicur
eſt ; præterınjſic eniin ſubſtantiammónftrát ; & fubſtaạtiæ integra det
alteram propofitionem , quâ proponitur omne monſtratio , definitio eſt. Sed ,
id quod dicimus, aniinal elle fubftantiam . Ergo cùm enthymema patefaciamus
exemplis;ut omnis vel quæftionum , ab univerſalibus ad particularia probanda
con- vel arguinentationum , vel locoruin ratio con tendit , quali ſimile
Jyllogiſmo eft. Quod vero quieſcat. Age enim quæratur ; an arkores ani non
omnibus, qu:e conveniunt fyllogiſmo,propor malialint , řátque
hujuſmodifyllogiſmus: ani+ ſitionibus utitur , à fyllogiſmi ratione difcet mal
eftfubftantia animata ſenſibilis:non eft arbor dit , atque ideò imperfectus
vocatuseft fyllogif- fubftantia animata fenfibilis; igitur arbor animal mus,
non eft. Hic quæſtio de genere eft ; utrùm enim Exemplum quoque inductioni
fimili ràtionę arboresfub aniinaliumgenere panendæ fint,qux & copulatur,
& ab ea diſcedit. Eft enim exem- ritur: locus qui in univerſali
propofitione con, plum , quod perparticulare propoſitum ,particu- filtit , huic
generis definitio non convenit , id lare quoddam contendit oſtendere , hoc modo
; ejus , cujus ea definitio eft , fpecies non eſt loci Oportet à Tullio conſule
necari Catilinan, cùm fuperioris differentia : qui locus nihilominus à Scipione
Gracchus fueritinteremptus ; appro , nuncupatur à definitione. batum eſt enim
Catilinam à Cicerone debere pe Vides igitur ut çora dubitatio quæftionis fyllo
rimi , quod â Scipione Gracehus fuerit occiſus : giſmi argumentatione* tracta
(it per convenien: * Ed.sracht quæ utraque particularia effe , ac non
univerſalià tes & congruas propoſitiones ,quæ vim ſuam ex "4.
lingularum deſignat interpoſitio perſonarum prima &maxima
propofitionecuftodiunt ; ex ea Quoniamigiturex parte pars approbatur , quafi
{cilicet , quænegat effe fpeciem , cui ñnon conve: inductionis fimilitudinem
tenet id , quodexem- niat generis definitio, Acque ipſa univerſalis pro nis
ducantur : 374 Caſſiodorus ftantia du tem . poſitio à ſubſtantia tracta eſt
unius eorum termi- eſt , hoc modo fæpe quæſtionibus argumenta ni, qui in
quæſtione locati ſunt ; ut animalis ,id fuppeditat ; ut fi fit quæſtio, an
juſtitia utilis fit, eſt, ab ejusdefinitione,quæ eſt ſubſtantia anima- fit
fyllogiſmus: Omnis virtus utilis elt , juſtitia ra ſenſibilis . Igitur in
cæteris quæftionibus ſtri- autem virtus eſt, ergo juſtitia utilis eſt. Quæſtio
ctim ac breviter locorum differentiis coinmemo- de accidenti , id eſt , an
accidat juftitiæ utilitas. fatis, oportet uniuſcujuſque proprietatem vigi-
Locus is , qui in maxima propoſitione conſiſtir. lantis animi alacritate
percipere. Quæ generi adfunt, & fpeciei. Hujus ſuperior Locus ex ſub Hujus
aureinloci , qui ex fuſtſtantia ducitur, locus à toto , id eſt, à genere,
virtute ſcilicet, quæ ftus, duplex duplex modus eſt; partim namquc à
definitione, juſtitiæ genus eſt. Rurſus fit quæſtio , an huma eft. partim à
deſcriptione argumenta ducuntur. næ res providentiâ,regantur. Cùm dicimus, li
Differt autem definitio à deſcriptione , quòd mundus, providentiâ regitur : homines
autem Que fit dif- definitio genus ac differentias affumic : def- pars mundi
funt: humanæ igitur res providen ferentia inter criptio verò ſubjectain
intelligentiam - claudit, tia reguntur. Quæſtio de accidenti, Locus quod
defcriptiq quibuſdam vel accidentibus unam efficientibus toti evenit, id
congruit etiam parti. Supremus proprietatein , vel ſubſtantialibus præter genus
locus à toro , id eſt, ab integro. Quod partibus conveniens aggregatis. Sed
definitiones, quæ ab conftat, id verò eft mundus, qui hominum to accidentibus
fiunt, tamen videntur nullo modo tum eſt . ſubſtantiam demonftrare : tamen
quoniam fæpe A partibus etiain duobus modis argumenta naf- A partibus veræ
definitionesita ponuntur, quæ ſubſtantiam cuntur: aut enim à generis partibus ,
quæ ſunt, duobus modis monſtrant: illæ etiam propofitiones,quæ à deſcri-
fpecies :aut ab integri, id eſt, torius ; quæ par- azamente ptione fumuntur,à
fubftantiæ loco videntur affu- tes tantum proprio vocabulo nuncupantur. Et
Mojcanine. mi. Hujus verò tale fit exemplum ; quæratur de his quidem partibus ,
quæ ſpecies funt , hoc enim , an albedo ſubſtantia fit: hic quæritur, an modo
fit quæſtio , an virtus mentis benè conſti albedo ſubftantiæ , velut generi
ſupponatur. Di- tutæ fic habitus : quæſtio de definitione, id eft, cimus igitur
: ſubſtantia elt , quod omnibusacci- an habitus benè conſtitutæmentis,virtutis
lit de dentibus poſſit eſſe ſubjectum : albedo verò nul- finitio. Facieinus
itaque ab ſpeciebus argumen dis accidentibus fubjacet, albedo igitur fubſtan-
tationem lic : Si juftitia , fortitudo , inoderatio, tia non eſt. Locus, id eſt
, maxima propoſitio, atque prudentia , habitus benè conftituræ mentis eadem quæ
fuperiùs. Cujus enimdefinitio vel funt: hæc autem quatuorunivirtuti velut
generi deſcriptio ei,quod dicitur,ſpecies effe non conve- ſubjiciuntur: virtus
igitur benè conſtitutæ men nit, id ejus quod eſſe ſpecies perhibetur, genus tis
eſt habitus. Maxima propoſitio ; quod enin noneſt. Deſcriptio verò fubftantiæ
albedini non ſingulis partibus ineſt, id toti inefTe neceffe eft.
convenitalbedo : igitur ſubſtantia non eſt. Argumentum verò à partibus , id
eſt, à generis Locus differentia ſuperior à deſcriptione ; quam partibus, quæ
ſpecies nuncupantur ; juſtitia enim, duduin locavimus in ratione ſubſtantiæ .
Sunt fortitudo, modeſtia & prudentia , virtutis fpe etiam definitiones ,
quæ non à rei ſubſtantia, ſed cies ſunt. à nominis ſignificatione ducuntur ,
atque itą rei, Item ab his partibus, quæ integri partes eſſe di de qua quæritur
, applicantur; ut ſi ſît quæicio, cuncur, fit quæſtio , an fit utilismedicina.
Hæc utrumnephiloſophiæ ſtudendum fit , erit argu: in accidentis dubitatione
conftituta eſt. Dicimus mentatio talis : Philofophia ſapientiæ amor eſt, igitur
, ſi depelli morbos , ſalurémque fervari, huic ſtudendum nemo dubitat :
Itudendum igitut mederique vulneribus utile eft : igitur medicina eſt
philofophiæ. Hic enim non definitio rei, ſed eſt utilis. Sæpe autem & una
quælibet pars valer, nominis interpretatio argumentum dedit. Quod ut argumentationis
firmitas conſtet , hoc inodo; etiam Tullius in oſtenſione ejuſdem philofophiæ
ut fi de aliquo dubitetur , an fit liber : ficum vel uſus eſt defenfione ,
& vocatur Græcè quidem cenſu , velteſtamento , vel vindictâ manumiſ
ovouzOtong , Latinè autem nominis definitio. fum eſſe monſtremus , liber
oſtenſus eſt : atque Hæc de his quidem argumentis, quæ ex ſubſtan- aliæ partes
erantdandæ libertatis. Vel rurſus , fi cia terminorum in quæſtione politorun
fumun- dubitetur , an ſir domus quod eminus conſpici tur, claris ,ut
arbitror,patefecimus exemplis: nunc tur : dicimus quoniam non eſt ; nam vel
rečtun de his dicendum eſt , qui terminorum ſubſtana ei, vel parietes, vel
fundamenta defunt , ab una tiam conſequuntur. rurſus parte factum eſt
arguinentum . Divifio loco Horum verò multifaria diviſio eſt ; plura enim
Oportet autem non folùm in ſubſtantiis , ve Tum qui(ubu funt , quæ ſingulis
ſubſtantiis adhæreſcunt : ab růın etiam in modo, temporibus , quantitatibus,
franciam com his igitur, quæcujuſlibet ſubſtantiam comitan- torum , partéfque
reſpicere. Id enim quod dici fequantur. tur , argumenta duci folent, aut ex
toto , aut ex mus aliquando in teinpore , pars': rurſus li fim partibus, aut ex
caufis, vel efficientibus,vel ma- pliciter aliquid proponamus,in modo totum eſt:
teria , vel fine. Er eſt efficiens quidem cauſa, li cum adječtione aliqua ,
pars fit in modo. Item quæ inover atque operatur , ut aliquid explice- fi omnia
dicamusin quantitate, tòrum dicimus : tur: materia verò, ex qua fit aliquid,vel
in quafit: fialiquid quantitatisexcerpimus, quantitatis po , propter quod fit.
Sunt etiam inter eos lo- nimus partem . Eodem modo &in loco : quod cos ,
qui ex his ſumuntur, quæ ſubſtantiain con- ubique eſt , totum eſt : quod
alicubi, pars. How ſequuntur, aut ab effectibus , aut à corruptioni- ruin autem
omnium communiter dentur exem bus' , aut ab uſibus , aut præter hos omnes ex
pla. A toto ad partem fecundum tempus : fi communiter accidentibus. Quæ cùm ita
fint, Deus ſemper eſt , &nunc eſt. A parte ad totum cum priùs locum, qui à
toto fumitur, inſpicia- ſecundum modum:ſi *anima aliquo modo niové» * MSS. amie
tur, & fimpliciter movetur ; movetur autem cum mal. Totum duobus modis dici
folet : aut ut genus, irafcitur ;univerſaliter igitur & fimpliciter mo bus
modisdi- aut ut idquod ex pluribus integrum partibus vetur. Rurfus à toro ad
partes in quantitate: fi conſtat. Er illud quidem quod ut genus , totum finis
mus. Totum duo citur. 1 1 De Dialectica. 3 teria , fi jori. TA A. > verus in
omnibus Apollo vatės eſt; verum erit oppoſitis, vel ex tranffuinptione. Et ille
quidem Pyrrhum Romanos ſuperare. Rurſus in loco , fi locus , qui rei judiciuin
tenet , hujuſmodi eft ; ut Locus à rei Deus ubique eft, & hîc igitur eſt.
id dicamus effe , vel quod omnes judicant , vel judicio. Locusà came
"Sequitur locus, quinuncupaturà cauſis. Sunt plures , & hivel
ſapientes , vel ſecundam unam fis multiplex. verò plures cauſa , id eft , quæ
vel principium quanque artem penitus eruditi.Hujus exempluin præſtantmotusatque
efficiunt: vel ſpecierum for- eft, cælum eſſe volubile: quòd ita fapientes,
atque mas ſubjectæ ſuſcipiunt: vel propter eas aliquid, in Aſtronoinia do &
illimi diſudicaverint. Quæ vel quæ cujuſlibet forma eſt. ſtio de accidente.
Propofitio, quod omnibus,vel Zocus ab effi- Argumentum igitur ab eficiente
cauſa ; ut fi pluribus, veldoctis videtur hominibus,ei contra ciense cauſa.
quis juſtitiam naturalemn velit oſtendere, dicat : dici non poſſe. Locus à rei
judicio . congregatio hominum naturalis eſt : juſtitiam A fimilibus verò hoc
modo , fi dubitetur , an verò congregatio hominum fecit : juſtitia igitur
hominis proprium fit eſſe bipedem , dicimus fi naturalis eſt. Quæſtio de
accidente. Maximapro- militer: ineſt equo quadrupes , & homini bipes;
poſitio: quorum effacientescauſæ naturales ſunt, non eft autem equi quadrupes
proprium ; non eft apſa quoque ſunt naturalia. Locus ab efficienti igitur
hominis propriuin bipes. Quæſtio de pro bus; quodenim uniuſcujuſque cauſa
eſt,id efficit prio. Maxiina propoſitio. Si quod limiliterineſt, can rem , cujus
caufa eft, non eſt proprium, ne id quidem de quo quæritur, Locus à ma Rurſus,
ſi quis Mauros arima non habere con- eſſe propriuin poteſt. tendat, dicit
idcirco eos minimè armis uti , quia Locus à fimilibus : hic verò in gemina
dividitur. Locus àfomi libus duplex. his ferrum deſit. Maximapropoſitio , ubi
materia Hæc enim fimilitudo , aut in qualitate , aut in deeſt , & quod ex
materia efficitur , defit locus à quantitate conſiſtit : ſed in quantitate
paritas mareria : utrumque verò , ideft , ex efficientibus nuncupatur , id
eſtæqualitas. atque materia,uno nomine à cauſa dicitur. Æquè Rurfus ab eo quod
eſt majus , fi an fit animalis Locais à Ma. enim id quod efficit , atque id
quod operantis definitio , quod ex ſe moveri poffit, dicimus , actum ſuſcipit ,
ejus rei , quæ efficitur , cauſæ magis oportet eſſe animalis definitionem ,
quòd funt. naturaliter vivat , quàm quòd ex ſemoveri poffit Locais à fine.
Rurſus à fine fit propofitum , an juftitia bona Non eft autem hæc definitio
animalis, quòd natu fit , fiet argumenratio talis. Si beatum eſſe , bo- raliter
vivat : ne hæc quidem , quæ minùs vide num eſt , & juſtitia bona eſt; hic
eſt enim juſtitiæ tur effe definitio , quod ex ſe inoveripoſſit, ani finis, ut
qui ſecundum juſtitiam vivit , ad beati- malis definitio eſſe paranda eſt.
Quæſtio de defi rudinem perducatur. Maxima propoſitio , cujus nitione.
Propoſitio maxima. Si id quod magis finis bonus eft , ipſum quoque bonum eft.
Locus videbitur ineſſe non ineſt , ne illud quidem à fine. quod minus ineffe
videtur , inerit. Locus ab eo Loctus a for Ab eo verò, quæcujuſque forma
eſt,ità non po- quod eſt inajus. tuiſſe volare Dædalum , quoniam
nullasnaturalis A minoribus verò converſo modo . Nam fi eft locus à formæ
pennas habuiſſet.Maxima propoſitio , tan- hominis definitio , animal grellibile
bipes : cúm- mori. tìm quemque poffe , quantùın formapermiſerit. que id bipes
videatur effe definitio hominis mi Locus à forma, nus. quàm animal rationale
mortalc ; fitque defi Loc tus ab effe , Ab'effectibus verò , & corruptionibus,
&uſibus nitio ea hominis, quæ dicit animal grellibile bi Etibus, corrm- hoc
modo : namn ti bonum eſt ,domus, conſtru- pes , erit definitio hominis , animal
rationale - ptionibus, &io bonum eſt , bonum eſt domus. Rurfus fi mortale.
Quæſtio de definitione. Maxima propo ufibus. , maluin eſt , deſtructio domus :
bona eſt domus,& ficio : Si id quod minus videtur ineffe , ineſt : & fi
bona eſt domus , mala eſt deſtructio domus. id quod magis videtur inefle ,
inerit. Multæ au Item ſi bonum eſt equitare , bonum eſt equus : & tem
diverfitates locorum ſunt , ab eo quod eſſe fi bonum eſt equus , bonum eſt
equitare. Eſt au- magis acminùs , argumenta miniſtrantium : quos tein primum
quidem exemplum à generationi- in expoſitione Topicorum Ariſtotelis diligentius
bus , quodidem ab effectibus vocari poteft. Sea perſequuti fumus. cunduin à
corruptionibus , tertium ab ufibus. Item ex proportione: ut fi quæràtur , an
ſorte Lucus ex pro Omnium autem maximæ propofitiones : cujus fint legendi in
civitatibus magiſtratus , dicamus portione. effectio bonaeſt, ipfum quoque
bonum eſt, & è minimè: quia ne in navibus quidem gubernator converfo: &
cujus corruptio mala eſt, ipſum bo- forte præficitur: eſt eniin proportio ,
nain ut fele nuin eſt , & è converſo : &cujus uſus bonuseſt, habet
gubernatorad navem , itamagiſtratus adci ipfum bonum eft , & è converſo.
vitatem. Hic autem locus diftat ab eo, quod ex ſi Locus à com A coinmuniter
autem accidentibus argumenta milibus ducitur. Ibi enim una res quæ cuilibet
muniteracci- funt , quotiens ea ſumuntur accidentia , quæ re- & alii
comparatur : in proporcione verò non eſt linquere ſubjectum ,vel non poffunt,
vel non ſo . limilitudo rerum , fed quædam habitudinis coin lent ; utſi quis
hoc inodo dicat: ſapiens non pa paratio. Quæſtio de accidenti proportione.Quod
nitebit ; pænitentia enim malum factum comita- in quaquereevenit, id in ejus
proportionali eve tur: quod quia in ſapiente non convenit , ne poe- nire
neceſſe eſt. Locus à proportione. nitentia quidein.Quæſtio de
accidentibus.Propo Ex oppoſitis verò multiplexlocus eft. Quatuor Locus ex op
fitio maxima: cui non ineft aliquid,ei neillud qui- enim libimet opponuntur
modis ; aut enim ut pofo ismulti dein , quod ejus eſt conſequens , ineffe
poteſt. contraria adverfo ſeſe loco conſtituta refpiciunt: plex. Locus à
coinmuniter accidentibus. aut ut privatio , & habitus : aut relatio : aut
affir De lo cis ex Expeditisigitur locis his, qui ab ipſis terminis inatio
&négatio. Quorum diſcretiones in co li srinfecus. in propofitfone poſitis,
affumuntur: nunc de his bro qui de decem prædicamentis fcripruscſt,com dicendum
eft , qui licet extrinfecuspoſiti, argu- meinoratæ ſunt; ab his
hocmodoargumentanaſ menta tamen quæſtionibusfubminiftrant : hi ve ro ſunt vel
ex rei judicio , vel ex ſimilibus , vel à A contrariis fi quæratur , an lit
virtutis pro- Locus à con majore, vel à minore , velà proportione , velex prium
laudari , dicam minimè: quoniam ne vitii trariis . ; D cuntur. 570 Caſſiodorus
Jocentu . habits . sione. Locus ex . ne. quidem vituperari. Quæſtio de proprio.
Maxi- ſecundum proprii nominis fimilitudinem corr ma propoſitio : quoniam
contrariis contraria fequuntur. conveniunt. Locus ab oppoſitis, id eft, ex con
Mixti verò loci appellantur : quoniam ſi de ju- Qui mirtilo. ' trario. ſtitia
quæritur, & à caſu , vel à conjugatis argu Locuus à pri Rurſus ſit in
quæſtione pofitum : An ſit pro- menta ducuntui ; neque ab ipſa propriè atque
vatione prium oculos habentium videre , dicam miniinè: conjunctè, neque ab his
quæ ſunt extrinſecus eos namque qui vident, aliàs etiam cæcos eſſe polica
videntur trahi, fed ex ipſoruin calibus, id contingit. Nain in quibus eſt
habitus ,in eiſdem eſt, quadam ab iplis levi immutatione deductis : poteriteſſe
privatio ; & quod eſt proprium , non Jure igitur hi loci medii inter eos ,
qui ab iplis, poreſt àſubjecto diſcedere. Etquoniam venien- & eosquiſunt
extrinfecus, collocantur. te cæcitate viſus abfcedit:non effe proprium ocu
Reſtat locus à diviſione, qui tractatur hoc mo- Locus è divi. los habentium
videre convincitur. Quæſtio de de. Omnis diviſio vel negatione fit, vel parti-
fione fisvel proprio. Propofitio , ubi privatio adetle poteft tione ; ut ſi
quis ita pronuntiet : omne animal negatione,vel Partitione & habitus,
proprium nonelt. Locus ab oppofi- aut habet pedes, autnon haber. Partitione
verò , tis, ſecunduin habitum ac privationein . velut ſi quis dividat : omnis
hoino aut ſanus , aut Zocus à rela. Rurſus ſit in quxſtione pofitum , an patris
fit æger eft. Fit autem univerfa divifio , vel , ut ge proprium procreatorem
eſſe, dicain rectè videri : neris in ſpecies, vel.totius in partes, vel vocis
in quia filii eſt propriuin procrcatum efle ; ut enim proprias ſignificationes,
vel accidentis in ſubje ſeſe habet pater ad filium , ita procreatus ad pro- cta
, velſubjecti in accidentia , vel accidentis in Creatorem . Quæſtio de proprio.
Propofitiomaxi- accidentia. Quorum omnium rationemin meo ma : ad ſe relatorum
propria, & ipſa ad ſe refe- libro diligentius explicavi , quem de diviſione
Libram dedi runtur. Locus à relativis oppofitis. Locus ab af compoſui:atque
idcircoad horuin cognitionem vifione com pour celſis formatione e Item fit in
quæſtione politum , an lit ani- congrua petantur exempla. Fiunt verò argumen -
dow negatione. malis proprium moveri , negem : quia nec tationes per diviſionem
, tun ea ſegregatione, * Ed. in ani- * inaniinati quidein eſt proprium non
moveri. qux per negationem fit, cum ea quæ per parti mali. Quæſtio de proprio.
Propofitio inaxiina : op- tionem . Sed qui his diviſionibus utuntur , aut di
politorum oppoſitaeſſe propria oportere. Ló- re& tâ ratiocinatione
contendunt : aut in aliquid cus ab ppolitis, ſecundum affirmationem ac
impoſibile atque inconveniens ducunt , atque negationem ; moveri enim & non
moveri, ſe- ita id quod reliquerant, rurſus adſumunt. cundum affirmationem
negationémque fibimmer Quæ faciliùs quiſque cognoſcer, li prioribus opponuntur.
Analiticis operam dederit : horum tamen in præ Ex tranſſumptione verò hoc modo
fit : cùm ex fentitalia præftabunt exempla notitiain . Sit in transJumptio.
histerminis in quibus quæſtio conſtituta eft,ad quæſtionepropoſituin, an
ulaorigo fit temporis: aliud quidem notius dubitatio transfertur; atque quod
qui negare volet, id nimirum ratiocinatio ex ejus probationeea, quse in
quæſtione ſunt po- ne firmabit mallo , modo effe ortum :ídque dire ſita ,
confirmantur; ut Socrates, cùin quid pof- &tâ ratiocinatione monftrabit,
hocmodo: quo ſet in unoquoque juſtitia , quæreret ; omnein niain mundusærernus
eſt ( id enim pauliſper ar tractatum ad reipublicæ tranſtulit inagnitudi-
guinenti gratiâ concedatur ) mundus verò fine nem ; atque ex co quodilla
efficeret infingulis, tempore effe non potuit, teinpus quoque eſt æter etiani
valere fitinavit. Qui locus à roro forſican num : ſed quod æternum eſt ,
carerorigine : tem eſſe videretur : ſed quoniam non inhæret in his, pus igitur
orignem non habet. Atſi per impolli de quibus proponitur terminis, fed extra
poſita bilitatein idem deſideretur oſtendi, dicetur hoc res, hoc tantum
quianotior videtur, affumitur; modo. Sitempus habet origineni,non fuit ſemper
idcirco ex tranſfumptionelocus id convenienti teinpus: fuit igitur , quando non
fuit rempus, ſed vocabulo nuncupatus eft. Fit verò hæc tranſlum- fuiffe
ſignificatio eſt temporis ; fuit igitur tein prio &in nomine, quoties ab
obfcuro vocabulo pus , quando non fuittempus : quod fieri non ad notius
transfertur argumentatio, hoc modo ; poteft ; non igitur eſt ulluin
temporisprincipiuin ut ſi quæratur, an philoſophus invideat , fitque pofitum .
Namque, ut ab ullo principio cæpe ignotum quid philoſophi ſignificet nomen ,
dice- rit , inconveniens quiddam atque impoffibile mus ad vocabulum notius
transferentes, non in- contingit fuiſſe teinpus , quando non fuerit videre qui
ſapiens ſit ; notius enim eſt fapientis tempus. Reditur igitur ad alterain
partein , vocabuluin , quàm philofophi. Ac de his qui- quod origine careat: fed
hæc quæ ex negatio dem locis qui extrinfecus aſſumuntur, idoncè di- ne diviſio
eſt , cùm per eam quælibet argu ctuin eſt : nunc de mediis diſputabitur. menta
ſumuntur , nequit fieri , ut utrumque fit ,, quod affirinatione & negatione
dividi De Mediis. tur : itaque ſublato uno , alterum manet ; pofi tóque altero
reliquum tollitur: vocaturque hic à Ex quibus Medii enim loci ſumuntur vel ex
calu , vel ex diviſione locus , medius inter eos qui ab ipfis conjugatis , vel
ex diviſione naſcentes. Caſus duci folent , atque eos qui extrinſecus adſumun
Sumantur. Quid fit eſt alicujus nominis principalis inflexio in adver- tur. Cùm
enim quæritur, an ulla temporis lit bium : uràjuſtitia inflectitur juſtè ,
cafus igitur origo , ſumit quidem eſſe originem ; & ex eo pet Quid Conju-
eſt juſtitia,id quod dicimus juftè , adverbium . propriamconſequentiam à re
ipſa,quæ quæritur, Conjugata verò dicuntur , qux abeodein diver- htimpoſſibilitatis
& mendacii fyllogiſmus ;quo fo modo ducta Auxerunt :ut à juſtitia , juftum
; concluſo reditur ad prius , quod verum eſſe ne hæc igitur inter ſe & cum
ipſa juſtitia conjugara ceſſe eſt ; fiquidem ad quod eioppofitum eſt, ad
dicuntur, ex quibus omnibus in promptu lunt impoſſibile aliquid inconvenienſque
perducit. argumenta. Namfi id quod juftum eft , bonum Itaque quoniam ex ipfa
re, de qua quæritur, fieri eſt; & id quod juſtè eſt , benè eſt ; & qui
juftus fyllogiſmus folet , & quali ab iplis locus eft du eft, bonus cft,
& juftitia bona eſt ; hæc igitur cus : quoniam verò non in eo permanet, fed
ad locis Medii Calus. gaid. politum De Dialectica. 577 BA tis li 1 . nd 20 je
18 19 100 . TOR: OK parti 17 10.3. pofitam redit, quafi extrinſecus fumitur:
idcirco Quibus ita popofitis inſpiciatRus nunc cos lo: igitur hic à diviſione
locus inter utrumque me cos', quos duduin extrinfecuspronuntiabamus Delocis eta
dius collocatur. affuini ; ea enim , quæ extrinſecus affumuntur, frempris, , of
Loci ex par Ac verò hi qui ex partitione funiuntur, multi- non ſunt ita
ſeparata atquedisjuncta , ut non ali nitione fum- plici funt modo. Aliquotiens
enim quæ divi quandoquali è regione quadam , ca quæ quærun qua dintre
pri,maisiplici duntur , fimul effe poffunt ; ut fi vocem in figni- tar ,
afpiciant. Nam & funilitudines & oppofita frunt modo. ficationes
dividamus, oinnes fimul eſſe poſſunt: ad ea lme dubio referuntur, quibus
ſimilia vel op veluti cum dicimus amplector, aut actionein li polica funt ,
licet jure atqueordine videantur ex gnificat , aut paffionem ; utrumque finul
lignifi trinſecus collocata. Sunt autem hæc, ſimilitudo, care poteft.
Aliquotiens velut in negationis mo- oppoſitio, magis,ac minus, rei judicium .
In ſimi do , quæ dividuntur fimul eſſe non poffunt ; ut litudine enimcum rei
fimilitudo , tum propor fanus eſt , aut æger. Fitautein raciocinatio in tionis
ratio continetur. Omnia enim fimilitudi priore quidem mododivilionis, tum quia
omni- nem tenent. bus adeſt quodquæritur, vel non eft : tum verò Oppolica verò
in concrariis , in privationibus; idcirco alicui adeſſe, vel non adeffe quod
aliis ad in relationibus, in negationibus conſtant. Com ſit , vel minimè.
paratio verò majoris ad minus quædam quali ſi Nec in his explicandis diutiùs
laboramus, fi miliuin diffimilitudo eft ; rerum enim per fe finni
prioresReſolutorii, vel Topica diligentiùs inge- lium in quantitate diſcretio
majus fecit ac minus, nium le& oris inftruxerint. Nam fi quæratur, Quod
enim omni qualitate , omnique ratione utrum canis fubftantia fit , atque hæc
divifio fiar: disjunctum eſt , id nullo modo poterit compara canis vel
latrabilis animalis eſt velmasinx belluæ, ri. Exrei verò judicio quæ ſunt
argumenta, quaſi vel cæleftis lideris nomen e demonftraretque per teſtinionium
præbent , & ſunt inartificiales loci ſingula & canem latrabilem
fubftantiam eflc,ma- atque omnino disjuncti ; nec rem potius , quàm rinam
quoquebelluam , & cælefte fidus ſubſtantiæ opinionem judiciúmque fectantes.
Tranſſum poffe fupponi,nonftravit canem eſſe fubftantiam . ptionis verò locus
nunc quidem in'æqualitate, Acque hic quidem ex ipfis in quæſtione propoſi- nunc
verò in majoris minoriſve.comparatione tis ; videbitur argumenta traxiſſe. At
in talibus conſiſtit ; aut enim adid quod eſt finile , aut ad id fyllogiſmis,
aut fanus eſt aut æger : ſed fanus eft, quod eſt majus aut minus, fit
arguinentorum raa non eft igitur ager : ſed fanus non eft, rgerigi- fionumque
tranſſumptio. cur eſt ; velica : liæger eft, fanus igitur non eſt; Hi verò loci
quos mixtos eſſe prædiximus, aut De locismist velita : fi æger noneft , fanus
igitureſt. Ab his ex caſibus, autex conjugatis, aut ex diviſionenaſ- sis. *
M5$. in- quæ funt* extrinſecusſumptus eſt ſyllogiſmus,id cuntur: in quibus
omnibus conſequentia, & re trinfecu . elt,ab oppoſitis . Idcirco ergo totus
hic àdiviſio- pugnantia cuſtoditur. Sed ea quidem ,quæ ex defi ne locus inter
utrofque medius eſſe perhibetur: nitione , vel genere , vel differentia , vel
caufis quia ſi negatione fit conftitutus , aliquo inodo arguinenta ducuntur ,
demonftratione maxiinè quidem ex ipfis fumitur, aliquo modo ab exte-
fyllogiſinis vires atque ordinem ſubminiſtrant: tioribus venit. Si verò à
particioneargumenta reliqua verò verifimilibus ex dialecticis. Atque ducuntur;
nunc quidem ab ipfis , nunc verò ab hi loci maximè, qui in corum fubftantia
ſunt, de exterioribus copiam præſtant: quibus in quæſtione dubitatur , ad
prædicativos Etca Græci quidem Themiſtii diligentiſſimi ac fimplices:reliqui
verò ad hypotheticos & con ſcriptoris ac lucidi , & omnia ad facultatem
intel- ditionalesreſpiciuntfyllogiſmos. Partitio locou ligentiæ revocantis ,
talis locorum videtur effe Expeditis igitur locis ,& diligenter tam defini
partitio. Quæcùm ita fint, breviter mihi loca- tione, quàm exemplorum etiam
luce parefactis, rum divifio coinmemoranda eſt , ut nihil præte- dicendum
videtur, quomodohiloci maximarum rea relictum eſſe monftretur, quod non intra
cam ſint differentiæ propoſitionum , idque brevi; ne probetur effe inclufum .
De quo enim in quali- que enim longå diſputatione res eget. Omnes bet quæſtione
dubitatur , id ita firınabitur argu- enimmaxiinæ propoſaiones,vel definitiones,
in mentis ; ut ea vel ex his ipfis fumantur , quæ in eo quòd ſunt maximæ , non
differunt : ſed in ed quæſtione ſunt conſtirura, vel extrinfecus ducan- quòd hæ
quidein à definitione, illæ verò à genere, tur vel quaſi in confinio horum
pofita veſtigen- vel aliæ veniant ab aliis locis , & his jure differre;
tur. Ac præter hanc quidem diviſionein nihil ex- hæque earum differentiæ eſſe
dicuntur. tra inveniri poteſt : ſed ſi ab ipſis fumitur argu mentum , aut ab
ipſoruin neceffe eſt ſubſtantia De Topicis. fumatur, aut ab his quæ ea
conſequuntur , aut abhis quæinſeparabiliter accidunt,veleis adhæ- Topica ſunt
argumentorum ſedes, fontes fen- Quid fire ſubſtantia ſeparari ſejungique fuum ,
origines dictionum . Itaque licet definire Topica. vel non poffunt , vel non
folent. Quæ verò ab locum eſſe argumentiſedem : argumentum aucem corum
fubftantiaducuntur , ca aut in deſcriptio- rationem, quæ reidubiæ faciat ħdem.
Et funt ar- Quibus ex aut in definitione ſunt ; & præter hæc, à no- gumenta
aut in ipfo negotio , dequo agitur: aut rebus argi minis interpretatione. Quæ
verò eavelur ſub- ducuntur exhis rebus , quæquodanmodoaffectæ menta ernano
ftantias continentia conſequuntur, alia ſunt, vel ſunt ad id ,de quo quæritur ;
& ex rebus aliis tra ut generis, vel differentiæ , vel integræ formæ,
&tæ nofcuntur : aut certè affumuntur extrinſecus. vel fpecierum ,
velpartiumloco circaca, quæ in- Ergo hærentia loca argumentorum in eo ipfone-
Ex locis han quirantur , alliſtunt. Item , vel caufæ , vel fines, gotio
funttria,id eſt , à toto , à partibus, à nota. rentibus & vel effectus, vel
corruptiones, vel uſus,vel quan A toto eft argumentum etiam ,cùm definitio ad-
ſunt tria. ticas, vel tempus , vel fubliſtendimodus. Quod hibetur adid , quod
quæritur; ſicut ait Cicero, * Ed. exfc. verò propriè inſeparabile , vel
adhærens , acci- Gloria eſt laus rectè fa &torum , magnorúmque in dens
nuncupatur, id in communiter accidentibus rempublicam fama meritorum : * ecce
quia gloria numerabitur. Et præter hæc quid aliud cuiquam totum eſt , per
definitionem oſtendis, quid lis inelle pollit, non poteft invenici. gloria.
Dddd firs 218 - am Timr . 578 Caffiodorus tredecim . Argumentum à partibus ſic
; utputa , ſi oculus A repugnantibus arguinentum eſt , quando videt, non ideo
totuin corpus videt. illud quod objicitur,aliqua contrarietate deftrui A nota
autem fic ducitur argumentuin , quod tur ; ut Cicero dicit:Is igitur non inodò
à te per Græcè Etymologia dicitur : Siconſul eſt,qui con- riculo liberatus ,
ſed etiam honore ampliſſimodi ſulit reipublicæ , quid aliud Tullius fecit,cùm
ad- tatus , arguitur domi ſuæ te interficere voluiffe. fecit fupplicio
conjuratos ? A cauſis argumentum eſt , quando ex conſuetu Exipfis rebus Gex
rebus Nuncducunturargumenta & ex his rebus, quae dine communi res quæ
tractatur , fieri potuiſſe aliis, e junt quodammodo affectæ ſunr adid , de quo
quæri- convincitur ; ut in Terentio : Ego nonnihil veri & ex rebus aliis tra
&tæ nofcuntur: & funt tus ſuin dudum abs te Dave , ne faceres , quod
loca tredecim , id eſt , alia à conjugatis, alia à ge- vulgus fervorum folet,
dolis ut ine deluderes. nere , alia à forma generis, id eft, fpecie , alia à Ab
effectibus ducitur argumentum , cùm ex his Limilitudine , alia à differentia,
alia ex contrario, quæ facta ſunt, aliquid adprobatur ; utin Virgi alia à
conjunctis , alia ab antecedentibus , alia à lio : Degeneres animos timor
arguit; nam timor conſequentibus, alia à repugnantibus, alia à cau- eſt caula,
ut degener ( ic animus, quod ciinoris fis , alia ab effectibus, alia à
comparatione inino- effectum eſt. rumi, majorum , aut parium . A comparatione
argumentuin ducitur, quando Primò ergo à conjugatis argumentum ducatur. per
collationem perfonarum live caufarum , fen Conjugata dicuntur , cùm declinatur
à nomine, tentiæ ratio confirmatur, & à majori ratione hoe & fit verbun
; ut Cicero Verrem dicit everriſſe modo , ut in Virgilio : Tu potes unanimes
arna provinciam : vel nomen à verbo, cùmlatrocinari rein prælia fratres. Ergo
qui hoc in fratribus po dicitur latro : aut nomen à nomine; ut Terentius: teft,
quanto magis in aliis ?'A minorum compa Inceptio eſt amentium , haud amantium ,
ratione ; ſicut Publius Scipio Pontificem maxi A genere argumentum eſt, quando
à re gene- mum Tiberium Gracchum non mediocriter labe rali ad ſpeciem aliquam
deſcendit: ut illud Virgi- factantem ſtatum reipublicæ privatus interfecit. lii
, Varium & mutabile ſemper fumina : potuit A pariuin comparatione;lic
Cicero, in Piſone &Dido , quod eſt ſpecies , varia & mutabilis nihil
intereſſe, utrum ipſe conſul improbis con eſſe. Velillud Ciceronis , quod fecit
argumen- cionibus, perniciofis legibus rempublicam vexer, tum , deſcendens à
genere ad ſpeciem :Nam cùm an alios vexare pațiatur. omnium provinciarum
ſociorúmque rationem Extrinſecus verò affumentur argumenta hæc, De Argu
diligenter habere debeatis , tuin præcipuè Siciliæ , quæ Græci år give vocant ,
id eſt , inartificialia, meniis ex judices. quod teitimonium ab aliqua externa
re fumitur frin'ecus afa fumptis. Aſpecie argumentumducitur , cùmgenerali ad
faciendam fidem ; & prius. quæſtioni fidem fpecies facit; ut illud Virgilii
: A perſona, utnon qualifcuinque lit , ſed illa An non fic Phrygius penetrat
Lacedæmonapa- quæ teitimonii pondus habet adfaciendam fi ftor ? quia Phrygius
paſtorſpecies eſt ; & fi iftud dem , fed & morum probitate debet effe
lauda ille unusfecis , & alii hoc Trojani generaliter fa- bilis. tere
poffunt. A natura auctoritas eſt , quæ maxima virtute A ſimili argumentum eft ,
quando de rebus conſiſtit ; & à tempore funt, quæ afferant aucto aliquibus
fimilia proferuntur ; ut Virgilius. ritatem ; ut ſunt ingenium , opes, ætas ,
fortu Suggere tela inihi, nam nullum dextera fruftra na, ars , uſus, necellitas,
concurſio rerum for Torſerit in Rutulos, fteterintque in corporc tuicaruin.
Grajum A dictis fačtíſque majorum petitur fides: cùm Iliacis campis. priſcorum
dicta factáque memorantur. A differentia argumentum ducitur , quando Et à
tormentis fides probatur, poft quæ neme per differentiam aliquæ res feparantur;
Virgilius: creditur velle mentiri. Non Diomedis equos, nec curruin cernis Achil
lis . De Syllogiſmis. A contrariis argumentum ſumitur , quando res diſcrepantes
fibimet opponuntur ; ut Teren Prima figura modos haber quatuor, qui uni tius:
Nam fi illum objurges, vitæ qui auxilium verfaliter vel particulariter
affirmativam vel ne tulit , quid facies illi qui dederit damnum aut gativam
concludent. malum ? Secunda item quatuor modos , qui ab negativa A conjunctis
autem fides petitur argumenti; concludent , five univerſaliter live
particulariter. cùm quæ lingula infirma ſunt, fi conjungantur Tertia figura
haber ſex modos , qui affirmative vim veritatis affumunt ; ut , quid accedit ur
tenuis vel negativè , ſed particulares facient copclufio ante fuerit, quid fi
ut avarus, quid fi ut audax , nes. quid fi ut ejus, quiocciſus eſt, inimicus ?
Singula Ergo primæ figuræ modus primuseſt , qui con hæc quia non ſufficiunt ,
idcirco congregata po- ficitur ex duabus univerſalibus affirmativis, ha nuntur
, ut ex multis junctis res aliqua confir- bens concluſionem univerfaliter
affirmativain , hoc modo . Ab antecedentibus argumentum eft, quando Omne
bonumeft amabile . aliqua ex his quæ priùs gefta funt, comproban Omne juftum eft
bonum . tur; ut Cicero pro Milone :Cùm non dubitaverit Omne igitur juftum eft
amabile. aperire quid cogitaverit , vos poteſtis dubitare Secundus modus figuræ
primæ conficitur ex quid fecerit ? præceſſit enim prædictio ,ubi eft ar-
univerſali abnegativa , & univerfali affirmativa, gumentum , & fecutuin
eſt factum . habens concluſionem univerſaliter, hoc modo . A confequentibus
verò arguinentum eſt, quan Nullus rifibilis eft irrationalis. do pofitam rem
aliquid inevitabiliter conſequi Omnis homo eft riGbilis. tur ; ut fi mulier
peperit, cum viro concubuit. Nullus igitur homo eſt irrationalise. metur. De
Dialectica. 579 Tertiusmodusprimæ figuræ eſt, qui conficitur gationem
particularem concludit, hoc modo. ex univerſali affirinativa , &
particulari affirma Quidam homo non eſt albus. tiva , particularem affirmativam
concludens, hoc Omnis homo eft animal. modo. Quoddam igitur animal non eſt
albumi Omne animal movetur. Sextus modus tertiæ figuræ eſt , qui ex univer
Quidam homo eſt animal. ſali negativa , & particulari affirmativa particula
Quidam igitur homo movetur. rem negativam concludir , hoc modo.
Quartusmodusprimæ figuræ eſt , qui confi Nallus homo eft lapis. citur ex
univerſali abnegativa, & particulari affir Quidain homo eſt albus. mativa ,
particularem abnegativam concludens, Quoddam igitur album non eſt lapis. hoc
modo . Demonftrati ſunt omnes modi trium figuraru :n Nullum inſenſibile eſt
animatumi categorici fyllogiſmi , licet quidam primæ figuræ Quidam lapis eft
inſenſibilis. aliosquinque modos addiderint. Quidam igitur lapis non eſt
animatus. Secundæ verò figuræprimus inodus eſt, qui ex De Paralogiſmis.
univerſali abnegativa , & univerſali affirmativa Paralogiſmi verò primäe
figuræ ita fiunt,ex prio concludit hoc modo univerſale abnegativum . ri affirmativa
univerſáli, &fecunda negativa uni Nullum maluin eſt bonum . verfali. Omnis
homo eft animal : nullú animal eſt Omne juſtum eſt bonum. lapis : nullus igitur
homo lapis eſt. Et quiamuta Nullum igitur juftum eſt malum . to termino
&univerfale & particulare concludet Secundæ verò figuræ ſecundus modus
eſt , in & negativaļn & affirmativam : ob hoc eſt inutilis quo ex
univerſalipriore affirmativa, & pofteriore approbatus idem
paralogiſmus,quiex duabus ne univerſali abnegativa conficitur univerfalis abne-
gativiş univerſalibus fit hoc , modo. Nullus lapis gativa concluſio , hoc modo.
, animal eft : nullum animal immobile eft : nullus Omne juftum eft æquum .
igitur immobilis eft lapis. Nullum malum eſt æquum , Idem paralogiſmus , qui ex
duabus particulari Nullum igitur malum eſt juſtum . bus affirmativis fit
hocmodo : Quidam equus Tertius ſecundæ figuræ modus , qui ex priore animal eſt:
quoddam animal bipes eſt : quidam univerſali negativa,& pofteriore
particulari affir- igiturequusbipes eſt. Rurſum ex duabus parti inativa ,
negationem colligit particularem , hoc cularibus negativis họcmodo : Quidam
homo al modo. bus non eft : quoddam album non movetur : qui Nullus lapis eſt
animal. dam igitur homo non movetur. Quædam ſubſtantia eſt animal. Dein, fi
prior affirmativa particularis, & ſecun Quædá igitur ſubſtantia non eſt
lapis. da negativa particularis fuerit, hoc modo : Qui Quartus moduseſt ſecundæ
figuræ , qui ex affir- dam equus animal eſt : quoddam animal quadru mativa
priore univerſali, & pofteriore particu- pesnon eſt : quidam igitur equus
quadrupes non lari negativa , particularem negationem conclu- elt. dit , hoc
modo . Idem ,li prior negativa particularis , ſecunda Omne juſtum eſt rectum .
affirmativa fuerit particularis,hoc modo: Quidam Quidam homo non eft rectus.
homo equus non eſt , quidam equus immobilis Quidam igitur homo non eſt juſtus.
eſt ; quidam igitur homo immobilis eſt. Primus modus tertiæ figuræ eſt , qui ex
duabus Idem , fi major propofitio affirmativa fuerit uni
univerſalibusaffirmativis, particularem affirmati- verſalis, & minor
propoſitio negativa fuerit par vam concludit : quia univerſalem affirmativam
ticularis , paralogiſmus erit , hoc modo: Omnis licet in particularem
affirmativam converti , hoc homo animal elt , quoddam animal rationabile modo.
non eít, quidam igitur homo rationabilis non eft: Omnis homo eſt animal. At
verò ſi major fuerit propoſitio univerſalis Omnis homo eſt ſubſtantia.
negativa, & minor particularis fuerit negativa; Quædain igitur ſubſtantia
eſt animal. nullus poterit eſſe fyllogiſmus, hocmodo :Nuli Item ſecundus modus
tertiæ figuræ eft, in quo lus lapis animal eſt , quoddam animal pinnatum ex
univerſalinegatione & univerfali affirmacione eft , nullus igitur lapis
pinnatuseſt. fit particularis negativa concluſio. Rurſus, li primafuerit
particularis , ſecunda Nullus hoino eſt equus. verò univerſalis, & utræque
affirmativæ propofi Omnis homo eſt ſubſtantia. tiones , non erit ſyllogiſmus ,
hoc modo : Qui Quædá igitur fubftantia non eft equus. dam lapis corpus eſt ,
omne corpus menfurabile Tertius modus člttertiæ figuræ , qui ex particu- eſt,
quidam igitur lapis inenfurabilis eſt. lari & univerſali aftırmativis
parcicularem affir Idem ,liprima fuerit particularis propoſitione mativam
concludit , hoc modo. gativa , & fecundauniverſalis negativa, non erit
Quidam hoino eſt albus. fyllogiſmus, hoc modo : Quoddam animal bipes Omnis homo
eſt animal. non eft, nullum bipes hinnibile eſt, quoddam -Quoddam igitur animal
eſt album . igitur animal hinnibile non eſt; Quartus verò modus tertiæ figuræ
eft , qui ex Idem , ſi prior affirmativa particularis, ſecunda univerſali
&particulari affirmativis , particulare negativa univerſalis propolițio
fuerit ; ſyllogif , affirmativum concludit, hoc modo. mum non facit ; hocmodo:
Quidamn lapis inſen Omnis homo eſt animal. farus eſt , nullum inſenſatuin vivit
, quidam igi Quidam homo eſt albus. tur lapis non vivit. Quoddam igitur album
eſt animal. Idem , li prior negativa particularis propoſitio Quintus verò modus
tertiæ figuræ eſt, qui ex faerit, & fecunda attirnativa univerſalis , para
„particulari negativa, & univerſali affirınativa ne- logiſinus erit , hoc
modo : Quoddam nigrunani. Dddd ij M cha 1 ܬ 580 Caffiodorus non
cſt. lis eft. anarum non eſt, omne animatum movetur, quod- Confirmationem ,
Reprehenſionem , Peroratio dam igitur nigrum non movetur. Et de finitis nem .
Quæ partes inſtrumenta ſunt Rhetoricæ fa propolitionibus fyllogiſmus non fit,
quia parti- cultatis: quoniam Rhetorica in omnibusſuisſpe culares fimiles ſunt.
ciebus ineft, & ſpecies eidem inerunt. Nec po tiùs inerunt , quàm eiſdem ea
, quæ peragunt, ad Omnes propofitiones his modis conftant. miniſtrabunt. Itaque
& inJudiciali genere cau faruin neceffarius eft ordo Proemii , & Narra
Id eſt, Simplices, ita. Contraria . tionis , atque cæteroru: n ; & in
Demonſtrativo, Omnis homo juſtuseſt. Nullus homojuſtus eſt. Deliberativóque
neceſſaria ſunt. Opus auté Rhe- o "uis Rhero Quidam homo juſtus Quidam
homo juſtus toricæ facultatis,docere & movere : quod nihilo- rice of move.
eſt . minus iiſdem ferè rex inftrumentis, id eft oratio- re docere,
Contradictoria . nis partibus , adıniniftratur. Partes autem Rho Omnis homo
rationalis Nullus homo rationa- toricæ , quoniam partes ſunt facultatis , ipfæ
quo eſt. que ſunt facultates ; quocirca ipfæ quoque ora Quidam homorationa-
Quidam hoino ratio- tionis partibus, quali inſtrumentis utentur. lis eft .
halis non eft. Atque ut his operentur, eiſdem inerunt. Nam Ex utriſque terminis
infinitis. Omnis non in exordiis niſi quinque ſint ſupradictæ Rhetori homo non
rationalis eſt. Nullus non homo non cæ partes ; utinveniat , eloquatur,
diſponat, me rationalis eſt. Quidam non hoino non rationa- minerit ,
pronuntiet, nihil agit orator. Eoden lis eſt. Quidam non hoino non rationalis
non eſt. quoque modo & reliquæ ferè partes inſtrumenti, Item ex infinito
ſubjecto :Omnis non homo nili habeant omnes Rhetoricæ partes , fruſtra.
Tationalis eft. Nullus non homo rationalis eſt. funt. Hujus autem facultatis
effector, orator eſt : Quidam non homo rationalis eſt. Quidaın non cujus eft
officium dicere appoſitè ad perſuaſio hoino rationalis non cft . nein : finis
tum in ipſo quidem bene dixiſſe, id Item ex infinito prædicato : Omnis homo non
eſt , dixiſſe appolitè ad perſuaſionem : altera rationalis eſt. Nullus hoino
non rationalis eft. verò perſualifie. Neque enim fi qua impediant Quidam homo
non rationalis eſt. Quidam homo oratorem , quominus perfuadear, facto officio,
non rationalis non eſt. finem non elt confequutus :ſed is quidem , qui Item quæ
conveniunt : Omnis homo rationalis officio fuit contiguus & cognatus,
conſequitur, eſt. Nullus hoino non rationaliseſt. Onnis ho- facto officio. Is
verò , qui extrà eſt, ſæpe non mo non rationalis eſt. Nullus homo non ratio-
confequitur: neque tamen Rhetoricam ſuo fine nalis eit. Quidam homorationalis
eſt. Quidam contentam ,honore vacuavit.Hæc quidem ita ſunt homo non
rationalisnon eſt. Quidam homo non mixta , ut Rhetorica infit fpeciebus,
ſpecies verò rationalis eft. Quidam homo non rationalis non infint cauſis. eſt.
Cauſarum verò partes ſtatus effe dicuntur: quos Canlari Item. Omne non animal
non homo eſt. Nul- 'etia : aliis nominibus cum conſtitutiones, tum partes
flares dicuntár, lum non animal non homo eſt. Quiddam non quæftiones nominare
licet :qui quidem dividun animal non homo eſt. Quiddam non animalnon tur ita ,
ut rerum quoque natura diviſa eſt. Sedà fiones. homo non eſt. principio
quæſtionum differentias ordiamur: Item converfæ ex prædicato infinito . Omne
quoniain Rhetoricæ quæſtiones circunſtanciis non animal homo eſt. Nullum non
animal homo involutæ ſunt omnes , aut in fcripti alicujus con eit. Quoddain non
aniinal homo eſt. Quoddamn troverſia verfantur, aut præter fcriprum ex re
ipſa... non animal hoino non eſt. fumunt contentionis exordium , Item converfæ
ex infinitoſubjecto. Omne ani Et illæ quidem quæſtiones,quæ in ſcripro ſunt,
Queflionesia pro quin mal non homo eſt. Nullum animal non homo quinque inodis
fieri poffunt. Unoquidem , cùng eft. Quiddam animal non homo eſt. Quoddam hic
ſcriptoris verba defendit , & ille ſententiains i polliams. aniinalnonhomo
non eft. atque hic appellatur ſcriptum, & voluntas, Item propoſitiones
indefinitæ. Homo juſtus Alio verò , fi inter fe leges quadain contrarieta eſt.
Hoino juſtus non eſt. te diffentiunt, quarum ex adverſa parte aliæ de Indefinitarum
propoſitiones cum ſubje& o in- fendunt , aliæ faciunt controverſiam ; atque
hic finito . Non hono juſtus eſt : Non homo juſtus vocatur ftatus legis
contrariæ . non eſt. Tertio , cùin fcriptum , de quo contenditur, Ex prædicato
infinito. Homo juſtus non eſt. fententiam claudit ambiguam : ambiguitas ex ſuo
Homonon juſtus non eft. nomine nuncupatur. Ex utriſque terminis infinitis. Non
homo Quarto verò, cùm in eo quod ſcriptum eſt,aliud non juſtus eſt. Non homo
non juſtus non eſt. non fcriptum intelligirur ; quodquia per ratioci
Propoſiriones ſingulares vel individuæ. Plato nationein & quamdam
ſyllogiſmiconſequentiam juſtus eſt. Plato juſtus non eſt. veſtigatur ,
ratiocinativus vel fyllogiſmnus di Ex infinito ſubjecto. Non Plato juſtus eſt.
citur. Non Plaro juſtus non eſt. Quinto , cùm ſermo ſcriptuseſt, cujus non fa
Ex infinito prædicato. Plato non juſtus eſt. cilè vis ac natura
clareſcat,niſidefinitione detecta Platonon juſtus non eſt. lit ; hic vocatur
finis in ſcripro ; quos omnes à ſe Ex utriſque terminis infinitis. Non Plato
non differre, non eſt noſtri, operiſve rhetorici demon juftus eſt. Non Plato
non juſtus non eſt. ftrare. Hæcautem ſpeculanda doctis, non rudi bus diſcenda
proponiinus : quamvis de eorum De locis Rhetoricis. differentia in Topicorum
commentis per tranſi- Quationes Rhetorice tum differuerimus. Rhetorica oratio
habet partes ſex , Procinium , Earum autem conſtitutionum , quæ præter fcri-
prin masina plices , fex . quod Exordiumcft, Nacrationein , Partitionem , ptum
in ipfaruin rerum contentione lunt politæ , corum dinzi modis fica præter fcri
habet partes De Dialectica. 581 1 ses . riaicialis ita differentiæ
ſegregantur,ut rerum quoque ip- lem partem vergant, defenfionis copiam non mi
farum natura divila lit. In oinni enim Rhetorica niftrant; ex eiſdem enim locis
accalatio defenſió . quæſtione dubitatur , an ſit, quid ſit, quale fit ; &
que confiftit . propterhæc,an jure, vel more poſſit exerceri judi Si igitur
perſona in judiciam vocatur , neque ciuin . Sed li factum ; velres quæ intenditur
ab facta:n, dictúmve ulluin reprehenditur, cauſa eſte adverſario,negatur,
quæſtio eſt utrùm fit ea ; quæ non poteſt. Nec verò factum , dictúinve aliquod
conjecturalis conſtirutio nominatur. Quod fi in judicium proferri poteſt, li
perſona non exi factum quidem eſſe conſtiterit,ſed quidnain ſit id ftet. Itaque
in his duobus omnis judiciorum ra quod factum eſt , ignoretur: quoniam vis ejus
tioverſatur, in perfona ſcilicet, atque negotia definitione monftranda eſt ,
finitiva dicitur con- Sed , ut dictum eft, perſona eſt , quæ in judicium
ftitutio . Ac fi &effe conftiterit, & de rei defini- vocatur : negotium
, factum , dictúmveperſone, tione conveniat, fed quale fit inquiratur : tunc
propter quod reus ftatuitur. Perſona igitur & ne quia cui generi ſubjici
debet ambigitur , genera- gotiamſuggerere arguinenta non poſſunt;de ipſis lis
qualitas nuncupatur. In hac verò quæſtione enim quæſtio eſt: de quibus autem
dubitatur, ea & qualitatis , & quantitatis , & compatationis
dubitationi fidem facere nequeunt Argumen ratio verſatur. Sed quoniam de gènere
quæſtio tum verò erit ratio rei dubiæfaciens fidem . Fa , eſt , ſecundum
generis formam in plura neceffe ciunt autem negotio fidem ea , quæ ſunt perſo
eſt hujusconſtitutionis membra diſtribui. nis ac negotiis attributa. Ac fi
quando perſona Omniis quito Omnis eniin quæftio generalis, id eſt, cùm de
'negotio faciat fidem ,velutſi credatur contra rem ftio generalis in duas
difiri genere, & qualitate,vel quantitatequæritut facti, publicam fenfifle
Catilinam,quoniam perſona bnisur par in duas tribuitur partes. Nam aut in
præcerito eſt vitiorum turpitudine denotata : tunc non iiz quæritur de
qualitate propoſiti, aut in præſenti, eo quod perſona eſt , & in judicium
vocatur , fia aut in futuro . Si in præterito , juridicialis con dem negorio
facit , ſed in eo quod ex attributis Ititutio nuncupatur : fi præſentis vel
futuri tem- perſonæ quandam ſuſcipit qualitatem . Sed ut re poris teneat
quæſtionem ,negotialis dicitur. rúin ordo clariùs colliquefcat , de
circumſtantiis Quæftio Fun Juridicialis verò , cujus inquiſitio præteritum
arbitror eſſe dicendum. refpicit , duabuspartibus fegregatur. Aut enim De
Circumftantiis. duabus parti. in ipfo facto vis defenfionis ineft , &
abſolurà Circunſtantiæ ſunt, quæ convenientis fubftan . Detircnm . buslegrégie
qualitas nuncupatur : Aut extrinfecus affumitur, tiam quæſtionisefficiunt.
Nifienim fit qui fece Gancias para & affumptiva dicitur conſtitutio. rit ,
& quod fecerit, cauſáque cur fecerit, locus, situr Cicero. Sedhæc in partesquatuor
derivatur: aut enim tempúſque quo fecerit,modus, etiain facultas; conceditur
criinen, aur removetur , aut refertur, que li delint,cauſa non ſtabit. Has
igitur circum aur , quod eſtultimum , comparatur. Conceditur ftantias in
geinina Cicero partitur, ut eam quæ crinen , cùm nulla inducitur facti defenſio
, ſed eſt , quis, circumſtantiam in attributis perſone venia poſtulatur. Id
fieri duobus modis poreſt, ponat : reliquas verò circumſtantias in attributis
circumftan fi depreceris, aut purges. Deprecaris,cùm nihil negotio conititaat.
Et primùın quidem ex cir excufationis attuleris. Purgas , cùım facti culpa
cumftantiis , eam quæ eft , quis , quam perfonæ tia titur , Quispada cicina his
adſcribitur'; quibus obliſti obviarique non attribuit , ſecar in undecim partes.
Nomen, ut in undecim poffit , neque tamen perſona ſint ; id enim in Verres ,
natura ut barbarus , victus utamicusno- partes. aliam conſtitutionem cadit.
Sunt autem hæc, im- biliuin , perſona ut dives , ſtudium ut Geometra, prudentia
, caſus, atque necellitas. cafus ut exul , affectio ut amans , habitus ut ſa
Removeturverd criinen , cùm ab eo , qui in- piens, conſilium , facta , &
orationes. Eáque cellitur, transfertur in alium . Sed remotio cri- extra illud
factum dictúmque ſunt, quæ nunc minis duobus fieri modis poteft : fi aur cauſa
re- in judicium devocantur. Reliquas verò cir fertur, aut factum . Caufa
refertur , cùm aliena cumſtantias , quæ funt, quid , cur, quando,ubi, poteftare
aliquid factum eſſe contenditur: faćtum quomodo , quibus auxiliis, in
attributis negocio verò , cumalius aut potuiffe, aut debuiffe facere ponit.
Quid, &cur, dicenscontinentia cum ipfo demonſtratur. Atque hæc in his
maximè valent, negotio : cur, in cauſa conſtituens ; ea enim cauſa fi ejus
nominis in nos intendatur actio, quòd non eſt uniuſcujuſque fa &ti ,
propter quam factaeſt * MSS.pottat fecerimus id , quod * oportuit fieri.
Refertur cri Quid verò , ſecat in quatuor partes. În ſum- Quidfeceria men ,
cuin jultè in aliquem facinus commiſlum iam tacti , ut parentis occifio. Exhac
maximè quatuorpars * MSS.com- effe * conceditur :quoniam is , in quem commif-
locus fumitur amplificationis ante factum ; ut senditat. fum ſit ,
injuriofusfæpe fucrit, atque id quod in- concitus rapuit gladium : duon fit ;
vehementer tenditur , meruit pati. percuſſit. Poſt factum ; in abdita
fepelivit. Quæ Comparatio eft , cùin propter meliorem utilio- omnia cùın lint
facta , tamen quoniain ad geſtum réinve rem factum , quod adverſarius arguit,
negotiuin , de quo quæritur, pertinent, non ſunt commiffum effe defenditur.
Atque hæchactenus: eafacta , quæ in attributis perſonæ numerara nunc de
inventione tractandum eft. ſunt. Illa enim extra negorium , quòd extra poſi ta
perſonam informantia fidem ei negotio præ De Inventione ſtant, de quo verſatur
intentio : hæc verò facta, quæ continentia ſunt cum ipfo negotio,ad ipſuni
Etenim priùs quidem Diale & icos dedimus, negotium ; de quo queritur,
pertinent. nunc Rhetoricos promimus locos, quos ex attri Poftreinas verò
quatuor circamftantias Cicero In perſona, butis perſonæ ac negotio venire
neceſſeeſt. Per- ponit in geſtione negotii, quæ eſt ſecunda pars & negotio
fona , quæ in judicium vocatur, cujus dictum ali- attributorum negotiis. Et eam
quidem circuin quod factúmve reprehenditur. Negotium ; fa- ſtantiam , quæ eſt
quando, dividit in tempus, ut putCie to Cuando , dia conftitute of. cum
dictumveperfonæ , propter quod in judi- modò fecit; & in occaſionem ,ut
cunctis dormien- in tempus, so cium vocatur. Itaque in his duobus omnis lo-
tibus. Eam verò circunftantiam quæ eſt ubi , lo- in occafionč.. * MSS.excu-
corum ratio conſtituta eſt ; quæ enim habent* re. cum dicit ; ut in cubiculo
fecir : quomodo verò, ſarionis. prehenſionis occaſionem , eadem nili ad
excuſabi ex circuinftantiis inoduin ur clain fecit : omnis loco . tum ratio
> 1 582 Caffiodorus 1 mus. fed de vo 1 quibus auxiliis circumftantiam ,
facultatem ap- ita adhærebant , ut ſeparari non poſſint;ut locus, pellat, ut
cuin multo exercitu. Quorum qui- tempus , & cætera , quæ geſtum negotium
non dem locorum & fiex circumſtantia rerum , natu- relinquunt. tulis
diſcretio clara eft :nos tarnen benevolentiùs Hæc verò , quæ ſunt adjuncta
negotio , non in faciemus, ſi uberiores ad ſe ditferentias oſtenda- kærent ipſi
negotio , ſed accedunt circuinitantiis, & tunc demum argumenta præſtant,
cùm ad com Nam cùm ex circumſtantiis alia M. Tullius parationem venerint :
ſunant verò argumenta propofuerit effe continentia cum ipfo negotio: non ex
contrarietate , fed ex contrario ;& non alia verò in geſtione negorii ,
atque in continen- ex ſimilitudine, ſed ex ſimili, ut appareat ex re tibus cuin
ipſo negotiv : illum adnurneraverit lo- latione ſumi arguinenta in adjunctis
negotio ; & cum quem appellavit, duin fit sex ipſa prolatio- ea eſſe
adjunéta negotio , quæ funt ad ipſum , de nis fignificatione idem videtur elle
locushic,dum quo agitur ,negotium affccta. fit, cum eo , qui eſt in
geſtionenegotii; ſed non Conſecutio verò , quæ pars quarta eft eorum , ita sft
: quia dum fit , illud eft , quod eo tempore quæ negotiis attributa ſunt, neque
in ,iplis ſunt açimiſum eſt , dum facinus perpetratur, ut per- rebus, neque
rerum ſubſtantiam relinquunt,ne ouſſit. Ingetione verò negotii, ca ſunt, quæ
& que ex comparatione reperiuntur: ſed rem geftam ante factum , & dum
fit, & poft factum , quod vel antecedunt , vel etiam conſequuntur. Atque
eſtum eſt continent;in omnibus enim tempus, hic locus extrinſecus eſt. Primum
eniin in eo . locus, occafio ,modus, facultas inquiritur, Rur- quæritur id ,
quod factum eſt, quo nomine ap ſus dum fit, factuin eft, quod adininiftratur,
eft pellari conveniat : in quo non de re , negotium :qux verò funt in geſtione
negotii, non cabulo laboratur. Qui deinde auctores ejus facti ſunt facta, fed
facto adhærent ; in illis enim, teni- &inventores , comprobatores, atque
æinuli, id pus, occaſionem , locum , modum , facultatein, totum ex judicio ,
& quodam teſtimonio extrin facta eſſe conſenſerit : fed , ur dictum eſt ,
qux ſecus políto , ad ſublidium confluit argumenti. cuilibet facto adhærentia
fint , atque in nullo Deinde &quæ ejus rei ſit ex conſueto pactio , ju modo
derelinquant: quia quadam ratione ſubje- dicium , ſcientia , artificium .
Deinde natura cta funt ipſi, quod geſtum eſt , negotio. ejus, quid evenire
vulgò ſoleat: an inſolenter & Item ea quæ funt in geſtione negotii,
finchis, rardhomines id ſuâ auctoritate comprobare, an quæ funtcontinentia cum
ipfoncgotio , eſſe poſ- offendere in his conſueverint; &cætera quæ fas
funt. Poteft eniin & locus , & tempus, &oc- ctum aliquod fimiliter
confeftim , aut intervallo cafio , & modus, & facultas facti cujuſlibet
intel- folent conſequi : quæ neceſſe eſt extrinſecus po ligi , etiamſi nemo
faciat , quod illo loco ; vel fita ad opinionein inagis tendere , quam ad ipfam
, temporc, veloccaſione, vel modo, vel facultate rerum naturam. fieri poſſet.
Itaque ea quæfunt in geſtione nego Itaque in hæcquatuor licet negotiis
attributa, tii, line his quæ ſuntcontinentia cum ipfo nego- dividere ; ut fint
partim continentia cum ipſo ne tio, effe poffunt. Illa verò line his eſſe non
pof- gotio , quæ facta eſſe ſuperiùs dictum eſt : partim ſunt; facèum enim
præter locum , tempus, occa- in geſtionenegotii, quæ non effe facta , fed
factis fionem , modum , facultatémque efle non pote- adhærentia dudum
monſtravimus: partim adjun rir. Atque hæcfunt , quæ in attribucis perſona eta
negotio ; hæc , ut dictum eſt , in relatione ac negotio confiftunt, velut in
Dialecticis locis ponuntur: partim geſtum negotium conſequun ea , quæ in ipfis
cohærent , de quibus quæritur: tur ; horum fides extrinſecus fuinitur. Ac de
reliqua verò quæ vel funt adjuncta negotio , vel Rheroricis quidem locis ſatis
dictum . negotium geſtuin conſequuntur, talia ſunt, qua Nunc illud eſt
explicandum , quæ ſit his ſimi-. Quid fat diain Dialecticis locis ca, quæ
ſecundum Themi- litudocum Dialecticis, quæ veròdiverſitas ;quod hobertura
corean ſtium quidem partim rei ſubſtantiam conſequun- cùm idoneè,
convenientérque monſtravero ,pro- Dialecticisfa tur, partim funt extrinfecus ,
partim verſantur poſiti operis explicetur intentio. Primò adeo ut militudo ,que
in mediis ; ſecundum Ciceronem verò inter affe- in Dialecticis locis , ficut
Themiſtio placet , alii verè diverfi &a numerara ſunt, vel extrinſecus
polita ." funt, qui in ipſis hærent, de quibus quæritur: tab. Sunt enim adjuncta
negotio ipfa etiam quæ fi- alii verò affumuntur extrinſecus , alii verò inedii
quajiilem fa dem faciunt quæſtioni , affecta quodammodo ad inter utroſque
locati ſunt; ſic in Rhetoricis quo cinn gafiio. id , de quo quæritur,
reſpicientia negotium , de que locis , alii in perſona atque negotio conſi quo
agitur , hoc modo. Nam circumſtantix ſtunt, de quibus ex adverſa parte
certatur: alii feprem quæ in attributis perſonæ , vel negotio, verò extrinfecus
, ut hi qui geſtum negotium con numeratæ funt, hæc cum cæperintcomparari,&
fequuntur : alii verò medii. quafi in relationem venire , fi quid ad ſe conti
Quoruin proximi quidem negotio funt hi , qui nens referatur, vel ad id quod
continet , fit aut ex circumſtantiis : reliqui in geſtione negotii ſpecies, aut
genus: fi id referatur,quod ab eo lon- conſiderantur. Illi veròqui in adjunctis
negotio gillime diſtet, contrariun : at ſi ad finem ſuum collocantur, ipſi
quoque intermedios locos pos atque exitum referatur , tum eventuscft. liti
ſunt: quoniam negotium , de quo agitur, qua Eodem quoque modo ad majora , &
minora, dam affectione refpiciunt. Vel fi quis ea quidem & paria
comparantur. Atque omnino tales loci quæ perſonis attributa ſunt, vel quæ
continentia in his quæ funt ad aliquid conſiderantur. Namn ſunt cum ipfo negotio
, vel in geſtione negotii majus,autminus, alit lunile , aut æquèmagnum ,
conſiderantur; his lumilia locis dicat, qui ab ipfis aut diſparatum , accedunt
circumſtantüs, quæ in in Dialectica trahuntur, de quibus in quæſtionc
attributis negotio atque perſonæ numeratæ ſunt ; dubitatur. Conſequentia verò
negotio ponat ex ut dum ipfæ circumftantiæ aliis comparantur, fiat trinſecus.
Adjuncta verò inter utrumque conſti ex iis argumentum facti dictive, quod in
judi- tuat. cium trahitur. Diſtat autem à ſuperioribus, quòd Ciceronis verò
diviſioni hoc modo fic fimilis, ſuperiores loci , vel facta continebant , vel
factis Nam ea quæ continentia ſunt cum ipſo negocio , Sunt adjun Eta ucgorio,
ni, 1 De Dialectica. 583 1 1 ! 1 0 1 1 Dialecticus verò non ita velea quæ in geſtione
negotii conſidecantur, in do aliquid ſpecialiter probant, ad Rhetores,Poë ipſis
hærent, de quibus quæritur. Ea verò , quæ tas, Juriſperitóſque pertinent.
Quando verò ge adjuncta ſunt , inter affecta ponuntur. Sed ea quæ neraliter
diſputant,ad Dialecticosattinere manis geitum negotiuin conſequuntur ,
extrinfecus feſtum eit. collocata ſunt. Vel Gi quis ea quidem , quæ con
Mirabile planè genusoperis, in unum potuiſſe tinentia ſunt cum ipfonegotio , in
ipſis hærere colligi , quicquid mobilitas ac varietas humanæ arbitretur
:affecta verò effe ea,quæ funt in geſtio- mentis in fenlîbus exquirendis per
diverſas cauſas ne negotii , vel adjuncta negotio : extrinfecus porerat
invenire ; concludi liberuin ac volunta verò ea , quæ geftum negotium
conſequuntur. riun intellectum . Nam quocumque ſe verterit, Nam jam illæ
perfpicuæ communitates", quod quaſcumque cogitationes intraverir, in
aliquid quidem ipſi penè in utriſque facultatibus verſan- corum quæ prædicta
ſunt , neceſſe eſt ut huma tur loci, ut genus, ut pars, ut ſimilitudo, ut con-
num cadat ingenium. trarium , ut majus, ac minus. Decommunicati Illud autem
competens judicavimus recapitu bus quidem ſatis dictum . lare breviter , quorum
labore in Latinum elo Differentiæ verò illæ funt , quòd Dialectici quium res
iftæ pervenerint ; ut nec auctoribus etiam thelibus apti funt : Rhetorici
tantùm ad gloria ſua pereat, & nobis pleniffimè reiveritas hypotheſes, id
eft, quæftiones informatas circum- innoteſcat. Iſagogen
tranſtulitPatriciusBoëtius, ftantiis affumuntur. Nain ſicut ipfæ facultates à
commenta ejus gernina derelinquens. Cate femetipfis univerſalitate , &
particularitate di- gorias idem tranſtulit Patricius Boëtius , cujus ſtinctæ
ſunt : ita earum loci ambitu , & contra commenta tribus libris ipfe quoque
formavit. ctione diſcreti ſunt. Nam Dialecticorum loco- . Peri herinenias fuprà
inemoratus Patricius tran rum major eſt ainbitus ; & quoniam præter cir-
ftulit in Latinum : cujus commenta ipſe duplicia cumſtantias funt quæ
fingulares faciunt cauſas, minutillimâ diſputatione tractavit.Apuleius verò non
modò ad theſes utilesſunt, verumetiam ad Madaurenſis ſyllogiſmos categoricos
breviter argumenta, quæ in hypothefibus polita ſunt, eof- enodavit. Suprà
memoratus verò Patricius de que locos qui ex circumftantiis conſtanc,claudunt
fyllogiſmis hypotheticis lucidiflimè pertractavit. atque ambiunt. Itaque fit;
ut ſeinper egeat Rhe- * Topica Ariftotelis,uno libro Cicero tranſtulit in
Hæcdefuitin tor Dialecticis locis? Dialecticus verò fuis poflit Latinum , cujus
commentaprofpe & oratque ama- MSS. effe contentus. tor Latinorum Patricius
Boëtius octo libris expo Semper eget Rherorenim quoniam cauſas ex
circumſtantiis fuit. Nam & prædictus Boëtius Patricius eadem* Rhetor D4-
tractat, ex iifdem circumftantiis argumenta præ- "Topica Ariſtotelis octo
libris in Latinum vertic lecticislocis , fumit, quæ neceſſe eſt ab
univerſalibus, & ſupli- eloquiun. cioribus confirmari, qui ſunt Dialectici.
Diale &ti Confiderandum eft autem , quòd jam ,quia lo cus verò, qui prior
eft, polteriore non eget , nifi cus ſe attulit in Rhetorica parte , libavimus
quid aliquando incideritquæftio perfonæ ; ut cuin fit interſit inter artein
& diſciplinain , ne ſe diver incidensDialectico ad probandam fuam theſim,
fitasnominun permixta confundat. Interartem Que fa diften Cáufam circumſtantiis
inclufam , tunc demum & diſciplinai Plato , & Ariſtoteles , opinabiles
artem dif Rhetoricis utatur locis . Itaque in Dialecticis lo- magiftri
fæcularium litterarum , hanc differen- ciplinam ſee ' cis ( fi ita contingit) à
genere argumenta fumun- tiam eſſe voluerunt , dicentes : Arrem cflc habitu-
cundem Plaa tur ,id eft , ab ipſa generis natura : fedin Rheto- dinem
operatricem contingentium , quæ fe & Sonem ricis ab eo generequod illi
genus eſt, de quo agi- aliter habere poffunt: Diſciplina verò elt , quæ Vide
prefer tur; nec ànatura generis, ſed à re fcilicet ipſa ,quæ de his agit , quæ
aliter evenire non poffunt tionem Nunc ergo ad Mathematicæ veniamus initium .
Sed ut progrediatur ratio , ex eo pendet, quòd natura generis antè præcognita
eſt; ut fi dubite De Mathematica. tur , an fuerit aliquis ebrius, dicitur , fi
tefellere velimus, non fuifle : quoniam in eo nulla luxu- ' Mathematica , quam
Latinè poſſumus dicere luid fitMara ries antecefferit. Idcirco nimirum , quia
cum ku- doctrinalem , ſcientia eſt , qux abſtractam con- in quas para xuries
ebrietaſis quaſi quoddam genus fit , cui fiderat quantirarem . Abſtracta enim
quantitas tes dividalun luxuries nulla fuerit , ne ebrietas quidem fuit :
dicitur, quâ intellectus à materia ſeparátur, vel ſed hoc pender ex altero. Cur
enim fi luxuries ab aliis accidentibus ; ut eſt par, impar , vel alia non fuit
, ebrietas eſſe non potuit , ex natura ge- hujuſcemodi, quæ in ſola
ratiocinatione tracta neris demonftratur , quod Dialectica ratio ſub- mus, hæc
ita dividitur ” miniſtrat. Unde enim genus abeft , inde etiain fpecies abelle
necefle eft:quoniam genus fpecics r Arithmeticain, non relinquit. Ec de
fimilibus quidem , & de contràriis , eo Muſicam . Diviſio Matheina dem modo
, in quibus maxima ſimilitudo eft in ticæ in ter Rhetoricos ac Dialecticos
locos : Dialectica Geometriam . . eniin ex ipſis qualitatibus , Rhetorica ex
quali 1 tatem ſuſcipentibus rebus argumentaveſtigat; ut Aſtronomian .
Dialecticus ex genere , id eft , ex ipfa generis na tura : Rhetor ex ea re ,
quæ genuseft. Dialecti Arithmetica; eſt diſciplina quantitatis numera Quid fit
cus ex ſimilitudine, Rhetor ex funili, id eft , ex bilis fecuuduin ſe .
Aruthinetica. ta re , quæ fimilitudinem cepit. Eodem modo Mufia eſt diſciplina
, quæ de numeris loqui- QuidMufica. ille ex contrarietate , hic ex contrario.
tur , qui ad aliquid ſunt his , qui inveniuntur in Memoriæ quoque condendum
eft, Topica Ora- ſonis. toribus , Dialecticis, Poëtis, & Juriſperitiscom
Gcometria , eſt diſciplina magnitudinis immo- Quid Geomes muniter quidem
argumentapræftare: fed quan- bilis & fornarum . rentia inter genus eſt,
trii 384 Caffiodorus 1 didit. Inns. Quid fis A. Aſtronomia, eft diſciplina
curſus cæleſtiain (i- tergunt, &ad illam inſpectivain contemplatio
fronomia. derum , quæ figuras conteinplatur omnes , & ha- nem , fi tamen
ſanitas mentis arrideat, Domino bitudines ftellaruin circaſe , & circa
terram inda- largiente , perducunt .' gabili ratione percurrit. Quas ſuo loco
paulò la Scire autem debemus Joſephum Hebræorum Abraham ciùs exponemus , ut
commemoratarum rerum doctiſſimum , in libro primo Antiquitatum , ritu- primim
Aris virtus competenter poffit oftendi. Modò de dif- lo nono dicere
,Arichinericain , & Aſtronomiam ihmeticamen ciplinarumnominedifferainus.
Abrahain primùm Ægyptiis tradidiffe ; unde ſe Aftronomien Diſciplina Diſciplinæ
ſunt, qux , licut jam di & um eft, mina ſuſcipientes ( utfunt hoinines
acerrimi in Ægypainte nunquam nunquam opinionibus deceptæ fallunt ; & ideo
genii) cxcoluiffe ſibi reliquas latiùs diſciplinas. opinionibus cali nomine
nuncupantur,quia neceffariò ſuas re- Quasmeritò fan &i Patres noftei
legendas ſtudio deceptæ fal gulas ſervant. Hænec intentione creſcunt,nec
fillinis perſuadent: quoniam ex magna parte per Iubductione minuuntur , nec
aliis varieratibus eas à carnalibus rebus appetitus noſter abſtrahi permutantur
: ſed in vi propria permanentes, re- tur, & faciunt deſiderare , quæ,
præftante Do gulas ſuas inconvertibili firmitate cuſtodiunt. mino , ſolo poſſumus
corde reſpicere. Quocirca Has dum frcquenti meditatione revoluimus, fen- tempus
eſt , ut deeis ſingillatin ac breviter diſſe Cum noftruin acuunt , limúmque
ignorantix de- rere debeamus. CAPUT QUARTUM De Arithmetica C49 Arith metica
inter Scriptores fæculacium litterarum interdiccipli- faru efleformata
;attamennulla corum ,prætet Mathemati cas diſcipli metiiam eſſe
volucrunt:propterea quòd Mufica, Credo trahens hoc initium , ut multi philoſo
mis prima ju . & Geometria, &Aſtronomia , quæ fequuntur, photum fecerunt
, ab illa ſententia prophetali, Sam 11. 21 . indigent Arithmetica , ut virtutes
ſuas valeant ex- quæ dicit : Omnia Deum menſura, numero , & plicare. Verbi
gratia ,ſimplum ad duplum , quod pondere difpofuiſſe habet Muſica , indiget
Arithmetica : Geometria Hæc itaque confiftit ex quantitate diſcreta, čHY Arish
verò , quod habet trigonuin , quadrangulum ,vel quæ parit genera numerorum ,
nullo fibi com- metice conf his funilia, item indiget Arithmeticas Aſtrono-
munitermino ſociata. V. enim ad x. vi. ad iiii . vii. lidt ex quar mia etiam ,
quòd habet in moru liderum nuineros ad iii. per nullam coinmunein terminuin
alteru- titate difcre punctorum , indiget Arithinetica. Arithmetica trâ fibi
focietate nectuntur. Arithmetica vecò di sa. Pithagora verò , urlit, neque
Muſica , neque Geometria, citur, co quòd numeris præeſt Numerus verò, merica
dica Arithmetia neque Aſtronomia egere cognoſcitur. Propterca cft ex inonadibus
multitudo compofita; ut iii. V. tur,& que camlan.c. hisfons, & måter
Arithmetica reperitur ; quam X. xx . & cætera. Intentio Arithmeticæ elt
doce- fit ejusinsects diſciplinam Pythagoras fic laudalle * probatur; re nos
naturam abſtracti numeri, & que ei acci- tio. uromnia ſub numero , &
menfura à Deo creata dunt ; ut verbi gratia, parilitas , impacilitas , &
firatur. fuiſſe incinoret, dicens : Alia in motu , alia in cætera. Cur Arith
vit . * Ed. mon s Paritei pat. Pariter impat. Impariter par Prima diviſio
numera Tvel par , qui eſt Numerus, qui congre gatio monaduneſt, ľ Primus&
ſimplex. vel iinper, qui eſt. Secundus & compoſitus. Tertius mediocris ,
quiquodam modo primus, & incompoſitus, alio verò modo ſecundus , & (
compofitus. Quid fit Par Par numerus eft , qui in duas partes æquales verbi
gratia, xxiiii , in bis xii : xii, in bisyi:ſexo dividi poteft; ut ii. iii.
vi.viii . x. & reliqui. in bis tres , & ampliùs non procedit. Quid
impar. Impar numerus eſt, qui in duas partes æquales Primus & fimplex
numerus eft, qui monadi- Quid primit dividi nullatenus poteft, ut iii. v. vii.
viiii. xi.& c cammenſuram ſolam recipere poteſt ; ut verbi & implex
reliqui. gratia iii . v. vii . xis xiii. xvii. & his finilias Quidpariter
Pariter par numerus eſt, cujus diviſio in dua Secundus & compoſitus numerus
eft , qui non Quid fecur par bus æqualibus partibus fieri poteſtuſque ad mo-
folùm monadicam menſuram , ſed &arithmeti doto come nada ; ut verbi gratia
lxiüi. dividitur in xxxii ; cam recipere poteſt; ut verbi gratia, viiii. xv.
xxi. poftmo xxxii , in xvi : & xvi, in viji : viii in iii :üii, & his
ſimilia . in duo : ïi , verò in i. Mediocris numerus eſt, quiquodam modo fim
Quid pariter Pariter impar numerus eſt , qui fimiliter fo- plex &
incompoſitus efle videtur, alio verò ino- cris impar. lummodo in duas partes
dividi poteft æquales; do fecundus & compoſitus , ut verbi gratia , viiii.
utx , in v : xiiii , in vii : xviii , in viiii.& his fi- ad xxv . dum
comparatus fuerit , primus eft & milia. incompoſitus: quia non habet
communem nu Quid impari. Impariter par nuinerus eſt, qui plures diviſio- merum
, niſi ſolum monadicum : ad xv . verò li nes , ſecundùm æqualitatem partium
dividere comparatus fuerit , ſecundus eft & compofitus: poteft, non tamen
uſque ad allem perveniat; ut quoniam ineſt illi communis numerus præter monadi.
Quid Media ter par De Arithmetica. 383 mõnadicum , id eſt , ternarius'numerus,
qui no- fexta pars, duo :quarta pars ,tria : tertia pars,iii: vein menſurat
terterni , & xv . ter quini. & duodecima pars unum ; qui oinnes
aſſumpti fiunt xvi. Altera divifio , de paribios, do imparibues Indigens nunerus
eſt , qui & ipſe de paribus QuidIndigãs. numeris . deſcendit , quantitatis
fuæ ſummain partiuin in feriorem habet ; ut viii. cujus medietas , iiii : [ aut
ſuperfluus. quarta pars , ii : octava pars , i ; quæ fimul con gregatæ partes
fiunt vii. aut par eſt. < aut indigens. Perfectus numerus eft , qui taten
& ipfe de QuidPerfe Numerus. paribus deſcendit : is dum par ſit, omnes
partes aut impar. į aut perfectus. Taas ſimul aſſumptas , æquales habet ; ut
vj. cu jus medietas , tria : tertia pars, ij : vj. pars únum . Quid Sriper.
Superfluus numerus eſt, qui deſcendit de pari- Qux aſſumptæ partesfaciunt ipſum
ſenariumnus fluis. bus, is dum par ſit , ſuperfluas partes quantitatis merum
fuæ habere videtur ; ut xii , habetmedietatem vie. Cassiodoro. Keywords: dialettica,
Squillace, i geti e i goti – teodorico, eteodorico, virtu bellica, ardore
guerriero, pagenesimo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cassiodoro” – The
Swimming-Pool Library.
CASTRUCCI (Monterosso
al Mare). Filosofo. Grice: “Castrucci is wrong.” Frequenta il liceo classico di
La Spezia, iscrivendosi quindi all'Firenze, dove si è formato negli studi
filosofico-giuridici e storico-giuridici alla scuola di Vallauri e di Grossi,
laureandosi in giurisprudenza. Ha ricoperto in quell'ateneo il ruolo di ricercatore
universitario di filosofia del diritto. A Firenze è entrato in contatto per un
breve periodo, pur senza aderirvi, con l'area di Autonomia Operaia espressa
all'epoca da Negri, con la cui consulenza ha scritto la sua tesi di laurea (Tra
Stato di diritto e pianificazione, Firenze). Insegna a Genova e Siena. I
suoi studi riguardano principalmente la filosofia politica e la storia delle
idee giuridiche, avendo come oggetto alcuni aspetti costitutivi della
dimensione contemporanea, tra i quali si possono ricordare: i presupposti
antropologici del politico; i fondamenti dello jus publicum europaeum, la
critica dell’ideologia dei diritti dell'uomo. La sua ricerca riguarda inoltre
le origini e le forme del pensiero giuridico europeo moderno, la ricostruzione
delle linee fondamentali della teoria dello Stato tedesca del primo XX secolo,
le radici giuridiche e teologiche della tradizione culturale dell'Occidente. Castrucci
ne ha sviluppato autonomamente la concezione del manierismo politico nei propri
scritti sulla filosofia politica convenzionalista del XVII secolo. Nel corso
della sua ricerca ha approfondito in
particolar modo filoni di pensiero riconducibili alla rivoluzione conservatrice
europea, contribuendo inoltre alla diffusione nella giurisprudenza italiana del
nomos della terra, con cura editoriale dello storico della filosofia di Volpi e
di Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi giudiziale. “Convenzione”,
“forma”, “potenza” sono i concetti chiave della riflessione filosofico-politica
europea di cui, nel suo analisi si ritrova tracciato lo sviluppo
storico-genealogico e vengono indagate le implicazioni teoriche. La convenzione,
o per meglio dire l’ordine giuridico convenzionale, è il concetto che
corrisponde al modo in cui la razionalità giuridica affronta il problema di un
ordine giuridico tecnico, artificiale, positivista, svincolato da quelle
premesse di valore di tipo teologico o metafisico o naturale che
avevano caratterizzato il diritto romano. Delinea in questo senso la
storia e la teoria di un ordine convenzionale (o artificiale e non naturale) nel
quadro della modernità matura, che dal Seicento barocco procede fino alla crisi
della cultura del primo Novecento. Accade in questo quadro che il primato
classico dell'idea filosofica di forma venga sostituito da quello, tipicamente
moderno, dell'idea di decisione. La decisione si contrappone così alla forma.
Confrontandosi con i campi diversi della filosofia politica, dell'etica e della
letteratura, l'analisi incontra figure significative di filosofi e scrittori
come Benjamin, Musil, Valéry. Il complesso apparentemente discorde delle loro
voci, che Castrucci analizza, porta all'idea di una forma elaborata su basi
rinnovate rispetto all'impostazione “formalista” e “normativista” di ascendenza
kantiana, a lungo prevalente nel campo dell'estetica e della teoria del
diritto. Nello sviluppo storico e genealogico dell'idea metafisica di
potenza si possono infine riconoscere, secondo Castrucci, le linee di
un'antropologia politica fondata su basi individualistiche (potenza come
acquisizione di spazio, ossia affermazione individuale nella spazialità:
Selbstbehauptung), che però non trascura il serio problemaposto nel corso del
Novecento dalla migliore dottrina costituzionale tedescadel radicamento
materiale e simbolico del singolo individuo nella comunità politica di
appartenenza (potenza come stabilizzazione, ossia radicamento individuale e
comunitario nella spazialità). Risulta evidente in tutto ciò il riferimento
all'idea schmittiana di Ortung, ossia localizzazione o radicamento, elaborata
da Schmitt, ma anche secondo quanto sostiene Castrucci all'idea di potenza già
rinvenibile nell'antropologia filosofica di Spinoza e di Nietzsche.
L'analisi di Castrucci muove più in generale dal proposito di riconsiderare,
seguendo il modello della lotta delle idee proprio della critica della cultura,
una serie di concreti problemi teorici su cui la cultura europea aveva
concentrato l'attenzione in un passato non troppo lontano, per poi distoglierla
"nell'inseguimento di una discutibile attualità". Tra questi problemi
particolare rilievo tematico acquistano, nel discorso filosofico di Castrucci,
la ricerca di un'etica fondata su basi epistemologiche convenzionaliste,
l'approfondimento delle implicazioni politiche presenti nel pensiero di autori
classici della filosofia tedesca come Schopenhauer, Nietzsche, Heidegger e
Cassirer, la critica radicale delle tesi di autori più recenti come Habermas,
nonché infine la questione cruciale delle linee virtuali di costruzione di un
mito politico nell'età del nichilismo compiuto. Hanno suscitato polemiche
alcuni suoi tweet, a partire da uno pubblicato il 30 novembre col quale si riferiva a figure storiche
naziste come Adolf Hitler ritratto col il cane Blondi e il commento di
Castrucci "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere
che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il
mondo" e Corneliu Zelea Codreanu, fondatore della Guardia di Ferro; dopo
la diffusione di questo tweet, ne sono stati portati in evidenza altri,
ritenuti di matrice filonazista, razzista e antisemita,nonché presunti insulti
nei riguardi del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell'ex
Presidente della Camera Laura Boldrini. Replica affermando di aver
semplicemente espresso un giudizio storico personale avvalendosi, al di fuori
della sua attività didattica, del principio di libertà di pensiero e
successivamente, in una memoria difensiva dei suoi avvocati, di non aver mai
aderito ad alcuna ideologia nazista, ma di essere un libero pensatore,
sottolineando inoltre come la propria critica, volutamente provocatoria e
paradossale, andasse piuttosto intesa come indirizzata contro la grande
speculazione finanziaria, con esplicito riferimento alla lotta contro la
finanza speculativa, l'usura e il signoraggio bancario di Pound. Il suo account
è stato chiuso. Il 2 dicembre il rettore dell'Università degli Studi di Siena
Francesco Frati ha preso le distanze da Castrucci, annunciando di aver
"dato mandato agli uffici di attivare i provvedimenti conseguenti alla
gravità del caso" e, successivamente, di aver presentato un esposto in
procura dopo aver ravvisato "un profilo di illegalità" nelle parole
del docente, ipotizzando il reato di odio razziale con l'aggravante di
negazionismo. Dopo la sospensione, Castrucci non si è presentato alla
Commissione disciplinare dell'ateneo dichiarandola non legittimata a giudicare
sul suo caso[33], mentre l'iter procedurale che avrebbe potuto condurre al
licenziamento è stato bloccato in seguito alla richiesta di pensionamento
presentata dal professore stesso. L'inchiesta penale è stata affidata per
motivi di competenza alla procura di La Spezia. Ordine convenzionale e pensiero
decisionista, Milano, Giuffrè); Tra organicismo e "Rechtsidee". Il
pensiero giuridico di Erich Kaufmann, Milano, Giuffrè Editore); La forma e la
decisione, Milano, Giuffrè Editore); Considerazioni epistemologiche sul
conferimento di valore, Firenze, S. Gallo); Introduzione alla filosofia del
diritto pubblico di Carl Schmitt, Torino, G. Giappichelli Editore); Hume e la
proprietà, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di scienze
storiche, giuridiche, politiche e sociali, Convenzione, forma, potenza. Scritti
di storia delle idee e di filosofia giuridico-politica, Milano, Giuffre); Schopenhauer
filosofo del diritto, Siena, Università degli Studi di Siena. Dipartimento di
scienze storiche, giuridiche, politiche e sociali); Ricognizioni. Quattro studi
di critica della cultura, Firenze, S. Gallo); Lezioni di filosofia del diritto,
Roma, Aracne Editrice); Per una critica del potere giudiziario. Sugli articoli
101 e 104/1 della Costituzione, Firenze); Profilo di storia del pensiero
giuridico, Firenze); Per una critica dell'ideologia dei diritti dell'uomo,
Firenze); Nomos e guerra, Napoli, La Scuola di Pitagora); Il regime giuridico
delle situazioni d'eccezione, Firenze); Le radici antropologiche del politico,
Soveria Mannelli, Rubbettino Editore); La teoria indoeuropea delle tre funzioni
in Georges Dumézil e altri saggi, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre); La forma
giuridica: Concetto e contesti. Tre studi di filosofia del diritto, Napoli, La
scuola di Pitagora); Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria
politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), Emanuele Castrucci, Milano,
Giuffrè Editore); Carl Schmitt, Il nomos della terra, Franco Volpi, traduzione
di Emanuele Castrucci, Milano, Adelphi); Il nomos della terra, Franco Volpi;
Milano, Adelphi); Legge e giudizio. Uno studio sul problema della prassi
giudiziale, Emanuele Castrucci, Milano, Giuffre). Le radici antropologiche del
'politico' (Soveria Mannelli, Rubbettino); La ricerca del Nomos, in Il Nomos
della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi,
Milano); Retorica dell'universale: Una critica a Habermas, in Filosofia politica, 15, Il Mulino); Dai diritti individuali ai
diritti umani: un totalitarismo in costruzione. Alcuni spunti in margine ad un
recente scritto di Castrucci, in Il Politico, Università degli studi di Pavia; Itinerari
della forma giuridica. Studi sulla dottrina dello Stato tedesca del primo
Novecento, Milano, Giuffrè); Ordine
convenzionale e pensiero decisionista. Saggio sui presupposti intellettuali
dello Stato moderno nel Seicento francese, Milano, Giuffre); La forma e la
decisione” (Milano, Giuffrè); Ordine convenzionale e pensiero decisionista.
Saggio sui presupposti intellettuali dello Stato moderno; La forma e la
decisione; Convenzione, forma, potenza: storia delle idee e di filosofia giuridico-politica,
Milano, Giuffrè). Emanuele Castrucci. Keywords: il guerriero indo-germanico –
Pound, conferire valore, implicanza pragmatica, l’implicanza di speranza,
l’impieganza di speranza, Apel, prammatica. ; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Castrucci” – The Swimming-Pool Library.
CATALFAMO (Catania).
Filosofo. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is better than
anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on ‘existentialism’!
Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson and I do, the
concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he, along with a
few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a critical
personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to hope. Della corrente
del "personalismo storico o critico".
Si laurea in Pedagogia e in Scienze Politiche. Prima assistente
volontario di Galvano Della Volpe (che definisce unico filosofo a livello di
Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si era formato alla scuola di Gentile,
del quale era stato assistente), e suo collaboratore dal 1946, diviene libero
docente, incaricato di Pedagogia e infine ordinario di Pedagogia. Fonda e
diviene direttore dell'Istituto di Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero si snoda in quattro fasi:
dell'epistemologo, del personalista storico ed antidogmatico, dello scettico,
dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu Assistente di ruolo di
Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi", fondata dai suo maestro
La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico, concepito, e nel tempo
modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione anche didattica. Nel
suo personalismo, che ha come principi critici la storicità, la trascendenza e
la problematicità "egli rintraccia nuovi aspetti... e incomincia a fare i
conti con la storia e le sue fenomenologie", " il personalismo...
lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come «storico»; la persona assume
una significanza fenomenologica di unità... in costruzione", "Catalfamo
collega l'esserci e il farsi della persona al flusso della realtà oggettiva,
nel doppio senso: nell'influenza e stimolazione di questa verso quella e della
trasformazione della realtà oggettiva ad opera della persona".
"L'uomo come soggetto agente impedisce che l'esperienza sia un limite,
cerca di oltrepassarla vedendo in essa quello che non è e quello che
potenzialmente è. La persona, dunque, è una realtà trascendente".
L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa riferimento alla
"posizione stessa della persona, la quale, costituita nell'esperienza, è
radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo per la persona è
sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel mondo". Catalfamo è stato fondatore e direttore della
rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta; fondatore e
direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al 1988. È stato anche Prorettore dell'Messina. Gli è
stata conferita dal Presidente della Repubblica, la Medaglia d'oro al merito
della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la Giunta del Comune di
Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi dell'Università,
all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta una solenne
cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa commemorativa, che
riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato intitolato un Istituto
Comprensivo. Altre opere: Kant, Lezioni
di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e filosofia, "Teoresi",
anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia, "Biblioteca dell'educatore", AVE,
Milano Marxismo e Pedagogia, Avio, Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno
di una pedagogia personalistica, Sessa, Messina Personalismo pedagogico,
(1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea e il personalismo, Armando,
Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I fondamenti del personalismo
pedagogico, Armando, Roma La pedagogia dell'idealismo (corso universitario), Providente,
Messina Elementi di psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso
universitario), Providente, Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica,
Barbera, Firenze Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del
personalismo, Bemporad Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando,
Roma Giuseppe Lombardo Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista
sovietica (in collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto,
Messina La filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia,
Messina Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M.
Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento
(in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo
spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età
evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma
Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS,
Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della
socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella,
Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia
L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione
della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento,
Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" a. IV, 246–248, D.U.E.M.I.L.A., Palermo. Il personalismo
Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Elzeviro Catalfamo. Il
personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: il concetto di
persona, la transubstanziazione dell’umano nella persona, identita personale,
il concetto di persona, pronome personale, la prima persona duale --, il ‘noi’
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo” – The Swimming-Pool Library.
CATENA (Venezia).
Filosofo. Grice: “I love Catena – of course he thought he was being an
Aristotelian – and the confusing title he gave to his philosophising – Universa
loca Aristotelis’ would have you think that – but he is a thorough Platonist –
consider ‘pulcher’ as applied to Alicibiades – but ‘pulcher’ gives ‘pulchrum,’
an universal --!” Precursore della rivoluzione scientifica rinascimentale e
indaga i rapporti tra matematica, logica e filosofia, occupando la stessa
cattedra in seguito occupata da Galilei. Filosofo, eccellente conoscitore del
latino. Lettore pubblico di metafisica a Padova. Gli succedettero Moleti, poi Galilei. Pubblica a Venezia “Universa loca in logica
Aristotelis in mathematicas disciplinas” -- la raccolta dei brani delle opere
aristoteliche che riconoscevano il prevalente carattere speculativo del sapere
matematico, tema a cui dedicò anche un'altra opera. Altre opere: “Super loca
mathematica contenta in Topicis et Elenchis Aristotelis”; “Astrolabii quo primi
mobilis motus deprehenduntur canones” (Impressi Paduae, Giacomo Fabriano);
“Oratio pro idea methodi” Patauij, Grazioso Percacino). Agostino Superbi,
Trionfo glorioso d'heroi illustri, et eminenti dell'inclita, & marauigliosa
città di Venetia, per Euangelista Deuchino. Domus Galilæ Biografia universale
antica e moderna ossia Storia per alfabeto della vita pubblica e privata di
tutte le persone che si distinsero per opere, azioni, talenti, virtù e delitti;
Catalogo breue de gl'illustri et famosi scrittori venetiani, presso gli heredi
di Giouanni Rossi; Le filosofie del Rinascimento, B. Mondadori); Alle radici
della rivoluzione scientifica rinascimentale: sui rapporti tra matematica e
logica. Con riproduzione dei testi originali, Domus Galilæana. On this subject Catena wrote two works , in one of which ,
Universa Loca in Logica Aristotelis in Mathematicas Disciplinas , Venice , 1556
, he tried to supply the lost mathematical basis for Aristotle's theory of demonstration
as explained in the Posteriora Analytica. Pietro, in Dizionario
biografico degli italiani. PETRVS CATHENA ARTIVM ET
THEOLOGIAE DOCTOR , PROFESSOR PVBLI. CVS ARTI VM LIBERALIVM IN GYMNASIO
PATAVINO , SVPER LOCA MATHEMATICA contenta in Topicis & Elenchis
Ariſtotelis nunc & non antea, in lucem ædita. ka CVM PRIVILEGIO ,
LOLOTILLON 0 V EN E TIIS Apud Cominum de Tridinum Montisferrati, M D L XI .
> PETRVS CATHENA DOMINICO MONTE. SORO DOCTORI MEDL song CO EXCBLLBN TISSIMO
OPICORVM libri din Elenchorum Ariſtotelis quædamloca obſcuriuſću la contincbant
qnæ apud Gręcos philofophos erant in primis clara, & per ea co tera loca
maiori difficulta ti inherentia declaraban tur , ob id autem illis con tingit ,
quod veritatis amatores & philoſophiæ principes videri apud exteras
nationes cupiebant, quod & re ipfa tales exiſtimarentur, niſi furto å
Caldeis, egiptijs, & alijs abſtuliſſent, id autem , alįe na ſua feciſſe,
vitio non omni ex parte abeſt, La tini vero quidam auaritiæ fine præſtituto(
latinos hoc loco voco cos qui litteris illisRomanis, vel voce, vel etiam fcriptis
ſuos conceptus explicant) philoſophiæ extremis partibus ita incumbunt A vt
ſemper lutuoli,verlantesin excrementa naturæ appareant, quod quidem laude
dignum effet,fi vt præclară prolem, quemadmodú boni viri faciunt aliqui egros
inuiſerent, quo igiturme uerterem in inuio, non erat conſilium ,ničí Reuerendus
domi nus Laurentius Venetus ex nobis familia foſca . rena Canonicus Veronenſis,
virum Dominicum Monteſorum Gręca ambitione & auaritia immu nem oftenderet,
cui hæc noſtra loca immo Ari ſtotelis declarata dedico, quæ fi Ariſtotelis fco
pum attigerint, vt exiſtimo & tibi fore grata co gnouero ad reliqua
philoſophiæ Ariſtotelis loca declarandanon piger animus noſter erit , quod fi
minus,cenſoriam amicorum virgam nonfugiet hæc noftra expoſitio,interimmegratum
habeas. Vale. IN PRIMO CAPITE PRIMI LIBRI TOPIC ORVV M. I DETV Ř autem hic
modus differre à dictis ſyle logiſmis nequeenim ex veris, &primis ratioci
natur pſeudographus,neque ex probabilibus, nem in deffinitionem non cadit ;
neque enim quæ omni . bus videntur accipit, neque quæ plurimu i ,neque qnæ
fapientibus, & his neque omnibus neque plu . rimum, neque probatiſſimis;
ſed ex proprijs quidem alicuiſcientie fumptis,non tamen veris ſyllogiſmumfacit
,nam vel.eo quod femi circulos deſcribit non vt oportet , vel eo quòd lineas
aliquas dicit non vt ducendæ ſunt paralogiſmum facit. VNC textum declarant
Greci, & Latini vſque ad locum illum quo Ariſtoteles exemplo vtitur Geo.
metrico,ad quem locum pręclari expoſitores cum per uenerint Tantis Tinebris
vinctum loris , & funibus reliquerunt Ariſtotelem , vt ab Alexandri
tempore(vo reor) vſque modo, omnes qui illas preclaras interpretationes legea
rint, illius loci notitia priuati fint, quos prçclaros expoſitores pro prio ſuo
citarem nomine , vt amatores Ariſtotelis eos cauerent vt infames ſcopulos
acróceraunię, fed eos prçtereo vt in hacparte inu liles, line Geometria
logiculos , legantfine liuore & vafricia expo fitores illius lociomnes,
& has noftras declarationes non quidem criſpis naribus, ſubinde iudicent,fi
intellexerint, quanti ingenö fuit , ficut in cæteris ipſe Ariſtoles , hæc citra
in Alatas buccasdixiſſe ve lim , quiſquevt intelligat, fed vt litterarum
aliquando illuſores re primantur pariterque eorum indocta audatia, fufcipiatur
igitur re cta linea, a bquę feccetur quomoçunque contingat in puncto c , &
ſuper vtranearī a ccb, ſemicirculus,non vt primīī petitū docet, facto d centro
vnius & e alterius deſcribatur perperā ſemicirculus a h c,alter chb,
quiſeſe Tangantin puncto h ſuſcipiaturque centrū huius ſemicirculiah cipſum d ,
illius autem ch b ſit centrum e, a punctis igitur d ; & e,ſemicirculorum
centris ducantur duæ lineæ ad h contactum , & intelligatur Triangulus d he
, quoniam autem 3 5 dur'lineædc & dhexeunta centro ad circunferentiam ipfæ
per dif finitionem circuli funt æquales, pariter per eandem definitionem duæ
lineæ ec & ehſunt æquales , duæ igiturdc & ce duabus d h &
eheruntæquales, duæ autem ille dc, ceſuntvnum latus trian guli dhe,ergo vnum
latus d e trianguli d heeft æquale duobus la ceribus eiuſdem triangulidh &
e h ,quod eſt impoſsibile contra vi gefimam primi elemērorum Euclidis,duo enim
latera omnis trian guli quomodocunque ſumpta , ſunt maiora reliquo & non
æqua lia, vtpſeudographo ſyllogiſmo machinabátur proteruus,hocau . cem vitium
non ex coprouenerat qex falfis fyllogiſmus fic con fectus,quia ex veris , &
immediatis, & exeodem ſcientię genere, vt ex definitione 17 primi
elementorum ſyllogiſthus affectus eſt ,ſed error atque peccatum proceſsit ex co
ofemicirculos defcribit non vt oportet, quod notauit nobiliſsimus geometra
Ariſtoteles, fic 1 a 6 etiamhi qui falfo fyllogizant,vnum fatus trigonimaius
eſſe duo bus reliquis trigoni lateribus, no vt oportet femicirculos diſcriben
tes , fic.n.linca a b & puncta in ea ſuſcipiantur cd & circa vtranq ac
, &db , rectam ſemiciruli deſcribantur fe inuicem tangentes in puncto e
alter a ec cuius centrum f,reliquus bed cuius centrum g , &a centro
fprotrahatur recta fe fimiliter a punctog protraliatur gerecta , tunc
triangulusfe g habebit latus f g maius duobus lateribusfe, & ge, quod fic
perſuadetur,lineafc eft æqualis lineæf e cum vtraque exeat,a centro ad
circunferentiam , fimiliter linca g deft æqualis geeadem ratione , fi igitur c
d linea addatur lineis fc, & dg, equalibusfe & gcefficiunt linea fg
latus trigoni fe gma jusduobus lateribus fe, & ge quod eſt impoſsibile per
20 primi clemcntorum ,vel eo q lincas aliquas ducit non vi ducendæ funt d g
paralogiſmum facit, ſi ducatur linea a centro fad centrum g , illa non
tranfibit per contactum e,vtin hac fecunda figura apparet, ve linea abf,in
g,non tranſit per punctum e vt oporteret, per xi tertij clementora Euclidis, fi
duo circuli fe contingunt & acentro ynius ad centrum akerius recta ducatur
linea illa de neceſsitate applicabi tur contractui, ex mala igiturdeſcriptione
attulit Ariſtoteles exem plum de ſyllogiſmo falſigrapho , qui oſtenſiuo
fyllogiſmo oppo . Situs eft . CAPVT CAPY T SEPTIMVM. SIMILITER vero e ſi
cubilali magnitudinepoſita dixe rit, quod ſuppofitum eft cubitalem magnitudinem
ere, eo quid eft dicit, & quantum fignificat. RES duorum generum
propinquorum continuiatas diſcre. ti vnius tamen generis remoti &analogi,
quantitatis videlicet, in vnacubitali magnitudine continetur,obid, duodicit,
qui magnicu dinem cubitalem ,effe magnitudinem duorum cubitorum , &quid ,
quando dicit magnitudinem , et quantum , quando dicit,cubitorum duorum , hinc
manifeftum eft in ynoquod prædicamento reperiri quid,vthoc Ariſtotelis exemplo
patet demagnitudine,aliud eft no tandum , quomodo vnum accidens,vt duorum ,quod
ad Arithme ticam pertinet,accidere magnicudini,quod ad Geometriam attineta
CAPVT DECIMVMTERTIVM, QVAEDAM enim statim &nominibus alia ſunt,vtacu to in
voce contrarium eſt graue, in magnitudine autem , acuto , obtufum contrarium
est. Multiplicita - tem huius vocis # (acutumdemon Itrat Ariſtoteles, quia et
angulum norar, & vocem , # US Angulus accutus rectominor & contrarius
eft obruſo , &voxac cuta graui vociopponitur, et graui contrariatur accutum
in voce, leue in ponderibusgraui oppugnāt. Sed dubitatur,cum quantitati nihil
fit contrarium , quo pacto acuto angulo obtufus contrarius fit ? Dico quod
angulus noneft quantitasfed ex quantitate quan . titati adiuncta proueniens
accidit quãtitati vt fit accata vel obtuſa pariterque pondus &lauitas funt
quidem magnitudiniadiuncta , fed no eſ pondus,et leuitas, quatitas, ſi
contraria fint leue et graue. cantus IPSIvero queà conſiderando eft, quòd
diameter cofta incom menfurabile , nihil. DEincommenfurabilitate coſtæ cum
diametro abunde faris in pofterioribus declaraui,quantum vero adhunc
locumattinet, Art ſtoteles inquit, non effe quippiam oppofitum ipfi
incommenſura bilitaci,vrpura commenfurabilitas, inter coftam atque diametrum
quadrati nihil contrarij eft,dubitatur,cum in præcedenti textu, ſit de
terminatum,& ea quęaddita eránt magnitudini, vt pondus & leui tas
contrariarentur,hæc autem quæ magnitudini coſtę & diainetro,
vtincommenſurabilitas, non contrarietur commenſurabilitati? Reſpondeo, prius
dicta cótraria pondus et leue in naturalibus reppe riebantur,hæcautem incommenſurabilitas
in abſtractis geometria cis; Præterea, nonfuit dictum omnia quæ in
magnitudinibus re periuntur eſſe contraria ,Pręterea & li
opponanturcommenſurabi liincommenſurabile,non tamen contraria ſunt, vel etiam
fi contra ria fint,non tamen ratione ſubſtractorum ,quçſuntquantitates,co fta
& diameter, contraria effe dicuntur , potus enim fitinon eft nifi
quodammodo contrarius, delectatio autem , quæ ex potu prouenit opponitur
contrarie triſtitiæ , quæ prouenit ex fiti, Præterea graue & leweſuntabſoluta
quædam in diuerfis ſubiectis poſita ſeorfim , incommenſurabilitas autem relatio
eft ; quæ indiſcriminatim funda tur in coſta ,ad diametrum & in diainetro
ad coftam . CON SIMILITER autem et acutum ,nam non eodem mo do in omnibus idem
dicitur,nam vox acuta quidem velox ,quemad modum quidem dicunt ſecundum numeros
armonici. NOTA dignnm eft hocloco conſiderandum , a vox hoc lo co non
accipienda eft pro humana voce tantum , ſed pro ſono , qui quidem fita cordulis
inſtrumentorum , nam gratilior corda fitan gatur plures aeris percuſsiones
facit quain crafsior cordula , fiea dem vi moueatur, modo inter percuſsiones
multas aeris cordulæ gratilioris ad percuſsiones cordulæ craſsioris fi
inultitudine repere ris duplam ,diapaffon, fi fefqualteram , diapente , fi vero
epitritam diateſaron, vt aiunt Armonici continentiam inuenies, quia tamen
Ariſtoteles de generatione animalium libro quinto capite feptimo pucat
concinentiam fieri ex alia caufa quam ex proportione illo, rum ſonorum
numeratorum ad alios fonos numeratos,vt pytha . gorici volunt, ideodicit
quemadmodum quidem, vt dicuntarmo nici, quia fententia Ariſtotelis alia atque
diuerfa eft ab illis armoni cis, qui Pythagoræ affentiri videbantur, CAPITE
DECIMO VARTO, ET quòd pun&tusin linea do vnitas in numero , nam vtrun . que
eft principium . PRÍNCIPIV M lineæ punctus , principium autem nu merivnitas
eſt, ſed punctus non componitlineam alős punctis ap pofitus,vtin pofterioribus
demonftraui,vnitas vero cuin alñs vni tatibus numeruin conftituunt atque
componunt, principium tamé lineç atque finis ,punctus eſt ex cuius fluxu linea
fit vt Ariſtoteles in mechanicis & ego in diſcurſu geminico determinaui,
non tamen linea ex punctis conſtat , LIBRO SECVNDO CAPITE SECVNDO. 2 VEL
duplicis & dimidij. AN ſit ne eadein diſciplina duplicis atque dimidă
conſiderare oportet, quod profecto allerere videtur ex capire de relatiuis, cum
nemo ſciat duplum ,niſi cuius ſit duplum ſciueric, quod diinidium eft, fi pro
relatiuis vtrunque ſuſcipiatur. HOC autem non ſemper faciendum , fed quando non
facile pojumus communem in omnibus vnam rationem dicere, quemad modum Geometra
quòd triangulus duobus rectis æquos isabet tres angulos. NVLLI id in
controuerſiam venit, an omnis triangulus ha beat tres angulos duobus rectis
æquales , ſed illud dubium eft,an id quod rectilineumeft,habens angulos duobus
rectis æqualis,trian gulus ſir, velquid horuin in plus fe habeat, & non fit
vtrunque ſe cundum q ipſum, ſed vniuerſalius fit, habereangulos duobus reo Ctis
æquales, atque comunius,an potius triangulum effe, ad quam dübitacionein , dico
quod duobusrectis pates habere angulos, eſt quid communius , quam efſetrigonum
, id autem inanifeſtum eſt de pentagono , cuius quodlibet latus, duo ex
reliquis lateribus fec cat latera , id autem per primam partem 32, primiElementorum
bis fumptam & per fecundam partem eiuſdem zz. ſemel ſum pram, vt in figura
ſubſcripta deduci facile eft, & fi habere tres çqua les duobus rectis
conuertatur cum trigono,non tamen habere om nes angulos equales duobus rectis
,conuertitur cum effe trigonuir . Dico igitur, quod habere omnes angulos
equales duobus rectis,co mune eſt ipſi trigono, & pentagono, cuiusvnum
latus ſeccat duo ex reliquis latera , habet tamen penthagonus quinque equales
tri bus, qui tres duobus rectis pares funt, & fic figuramihabentem B omnes
angulos duobusrectis pares communius eft, quam fit trian gulus, non igitur eſt
affectio trianguli neque angulorum triangu . li, fed quid communius trigono,
vel tribus angulis trigoni, non eft igitur eius proprium ,quod videturfoluere
dubium fuper textu mo tum ,fed affectio trianguli eft habere tantum tres
equales duobus rectis,velęqualitas duobus rectis, conuenit tribus angulis
figuræ triangulari, & non omnes angulos, elle çquales duobus rectis. VEL pt
buius a fecundum lechu ius ſecundum acci dens, vt fecundum Se quidem quòd tri
angulus duobus re b Etis æquales habeat tres angulos, ſecun . dum accidens
autē, quòd æquilaterus, quoniam enim acci dit triangulo,& qui. laterum effe
trian gulum , perhocco gnoſcimusquòdduo bus reétis habeat internos. QVIDAM
interprætes fic perperam exponunt Ariſtotele , quod habere tres duobus rectis
pares,ipfi triangulo per ſe infit,ipfi vero Iſoſcheli cõuenit quidem habere
tres duobus rectis parcs, ſed non per ſe,ſed per accidens , fic vt hæc
predicatio , Iloſcheles habet tres duobusrectispares, ſit accidentalis,hec
quidem ſua interprę. tatio & nulla eſt, &nullo modo ad Ariſtotelis
textum facit, quod nulla fit, & falfa, manifeſtum eſt ex capite de per fe
in poſteriori. bus, quia quod enim ſuperiori per fe ineft &inferiori
pariter per ſe ineſt, ineſt tamen ſuperiori perfe & primo, inferioriautem ,
per ſe fed non primo. Aliter igitur exponendus venit is textus , primo igitur
aduertendum quod circa idem ſubiectum fit prædicatio per fé & per accidens,
vtpura circa triangulum , per fe quidem fic, tri angulus habet tres duobus
rectis pares, per accidens vero ſic, trian gulus eſt Iloſcheles; vbi
aduertendum ,vtin præcedentibus libris declarauit Ariſtoteles,omne inferius ſuo
ſuperiori accidens eſt,cum abeffentia fuperioris omnino fecludatur inferius,
& vt alienum a fui natura ſibi conueniat. LIBRO QVARTO. CAPITE PRIMO SIQVIS
infecabiles ponens lineas , indiviſibile genus earum dicat eſſe , nam linearum
habentium diuifionem non eft quod di Etum eſt genus, cumſint indifferentes ſecundum
ſpecicm , indiffe-, rentes enim ſibi inuicem fecundum fpeciem rectæ lineæ
omnes. TRACTATVS quidem de lineis infecabilibus extat,e greco latinitati
donatus quem Ariſtotelis quidem effe exiſtimant, tametfi Georgii pachimerñ
nonnulli effe dicunt, quod, quia cuiuf cunque fuerit,non facit ad expofitionem
litteræ affequendam , me rito prætermitto auctorem fore inueſtigandum ,vt
Ariſtotelis decla rationi infiftamus, pro quo in memoriam reuocandī eft id,
quod Porphyrius habet, ſuperius genus de inferioribus ſpeciebusneceſe, fario
predicari, quod fi de illis non prædicauerit,neque ad illas, illud eſſe genus
manifeſtum erit, quapropter fiquis inſecabiles poſuerit lineas,atque ad illas
genus id, quod eft indiuifibile,effe dicat,ftatim in contradictionem reducitur,ob
id , quia ,diuiſibile,genus eſſe ad li ncas conſtat,modo lineas omnes eandem
deffinitionem ſuſcipien . tes,eiufdem ſint fpetiei, fieri autem nequit , vt
aliqua eiuſdem ſint ſpeciei, & genere fint diuerfa, quod quidem
contingeret, fi indiuifi bile,ad lineas aliquas, genus effe diceretur,tunc enim
indiuiſibile di ceretur de lineis infecabilibus p hypothefim cũ fic ſupponatur
( fal ſo tamen ) ad illas eſſe genus, & etiam de alñs, quæ per 10. primi
Elementorum ſecabiles ſunt cum etiam adillas ſit genus, quod qui dein efle,
nullo modopoteft, propter contradictionem , CAPITE SECVNDO. ET ſi differentiam
ingenere poſuit tam quimſpeciem ,vt im par quidem numerum , Differentia quidem
numeri, impar, & non ſpeties eſt, neque videtur participare differentia genus,nam
omane quod eft, genus, velfpeties, vel indiuiduum eſt, differentia autem ,
neque fpeties, neque indiuiduum , manifeftum igitur quoniam non participat
genus differentia , quare neque imparopetieserit , fed differentia quoniamnon
participat genus. B ñ 9 tra NVMERV S quieſt ex vnitatibus profuſa
multitudo,paro ; titur in numeruin imparem , &in numerum parem , vel perhas
differentias diuiditur, quę ſunt, paritas, & imparitas, quarum neu includit
numerum, qui genus eſt ad omnes numeri ſpecies,& fi ifta vera fic,rationale
et animal, quando ly rationale accipitur pro Specie, quæ homo eft, & non
pro rationalitate in abſtracto, qux eſt hominis conſtitutiua differentia ,eodem
modo, & numerus prædi catur de pari in concreto & non de abſtracta
paritare, hęcenin & fimiles illi, ſunt ſemper falle, paritas eſt numerus,
vel imparitas eſt numerus,quodquia oinnia manifeſta , & nora Ariſtoteles
cíle vo . luit, exemplo arithmetico declarauit, A 11 PLIVS ſi genus in petie
pofirit, vt contiguitatem id ipſum quod eſt continuitatem , non enim
neceſſariuin contingui. tatem continuitaternelle, led e conuerſo ,
continuitatem contigui tatem non enim omne contiguum continuatur, led quod
cortina tür contigurn eft. CONTINVVM illum effe dico cuius partes copulantur ad
terminuin vnum communem, qui quidem terminus elt tantuin potentia inter illas
partes ipſius continui, nõ etiam actu, &opere, vt linea lineæ continuatur
per punctum , qui non actu exiſtit, ſed tantum potentia inter illas duas lineas
, velinter duas partes linex , quod & de partibus ſuperficiei , quæ per
lineam in potentia copu lantur, &corporis partes, per ſuperficiem in
potentia, Contiguum autein illud effe dico , quod alteri applicatur &
iungitur non per mediuin potentia exiſtens,fed per mediuin quod actu &
opere exi 1tit, vt manifeſtum eſt de cæleſtibus orbibus , concaua eniin ſuperó
ficies ſuperioris orbis augem defferentis, & fuperficies connexa or bis
differentis epy ciclum ſunt due ſuperficies actu exiſtēres inedia , per quas
continguantur adinuicem illi orbes, non tamen continu : antur adinuicem: Cælum
primū continuum quoddam eſt, & con. tiguaru: Cælo nono ſecundum fuperficiem
concauam ipfius pri mi mobilis actu exiſtentem ,non tamen fequitur , primum
mobile eſt contiguum cum nona ſphera , igitur continuum eſt cum nona iphera
,quemadmodī non fequitur, quinque digiti adinuicem funt contigui , igitur
quinque digiti ſunt continui, ſed bene ſequitur , quinque digiti ſunt continui,
igiturquinque illi digiri ſunt conti gui, vt quando clauditur manus, vel manus
aperiatur quinæ digi zi aeri ſunt contigui ,vel aquç contigui, li in anforæ
aquam inanum ponas , vel etiain cirotececontiguantur , & ratio eft, quia
vnum quodque naturale corpus, alteri contiguatur , ne vacuum daretur in natura
, 7 CAPITE TERTIO . CONSIDERAN DV M autem eſt , fi quod translatiue. dictum
eſt, ut genus aſsignauit,vt temperantiam , confonantiam , nam omnegenus proprie
deſpeciebusprædicatur,conſonantia ve. ro detemperantia ,non proprie,fed
translatiue, omnis enim confo Wantia in ſonis eft. CONSONANTIA eſt diſsimilium
vocum acuti gra . uiſque in vnum redacta concordia, quæ fine ſono, quę aeris
percuſ fio eft fieri nullo modo poteſt, illa autem confonantia quæ transla tiue
dicitur, quæ effrenatam libidinem moderat , non quidem a ſo no , quæ eft aeris
percuſsio , fed illa quidem eſt , quæ a concordia diſsimilium dicitur, hæc
autem non neceſſario in Conis reperitur, vt eſt illa ſupercæleſtis Armonia ,
quæ nil aliud eſt , quam coeleſtium motuumdiuerſorum ,in vnam munditotius
conſeruationem apta concordia, quam celebrant quidem illi ſapientes pythagorei,
quos gratis in libris de cælo redarguit Ariſtoteles, quam armoniam di ces illam
effe de quaMarcus Tullius in 6 derepublica, cui de ſoin . no Scipionis nomen
indidit, docte meminit, hanc quidein dico nul lo modo conſtare in fonis, ſed
illam quam libro primo capite deci mumtertio & in hoc capite tetigit
Ariſtoteles , ... CAPITE QVARTO. AVRSV M ji non ad idem dicitur fpecies 2
ſecundum ſe, da fecundumgenus , vt fi duplum dimidiy dicitur duplum o multi
plum dimide oporter dici, li autem non, non erit multiplam genus cupli,
abundansſimiliter cicitnr ſimpliciter ſecundum om . nia fuperiora genera ad
dimidium dicetur. ABVNDANS numerus is eſt, cuius partes omnes fimul additæ in
vnum exuperant totum illud cuius partes erant , vt duo, cenarius eſt abundans ,
quia 6,4, 3 , 1, ſiin vnum aggregentur 16 coinplent maiorem numerum duodenario
, de quo quidem abun . danti, qui eſt fimilis centimanugiganti , non loquitur
Ariſtoteles hoc loco, fed abundansillud eft, quod ſuperius eſt ad multiplum, ad
ſuperparticularem , & ſuperparrienrem , abundans præterea ,vthic accipit
Ariſtoteles,eſt ad aliquid, quod etiam de multiplici, at& lu
perparticulari, & ſuperparrienti, &de omnibus ſub illis contentis,
dicitur ,duplum igitur triplum ,quadruplumque cummultiplun lit & pariter
vnumquodq; abundans erit, fi igitur abundansnon eſt, non eritmultiplum ,neque
etiam duplum , itaque abundans vniuer lale magis quam multiplum eft . 1 era
CAPITE SEXTO, QVONIAM autem muſicum , qua muſicum eftfciens,elle muſica ſcientia
qua eft. MVSICA enim quathenusmuſicũ effe facit , nõ quathenus cantorem ,
qualitas eſt de prima qualitatis fpecie ,quathenus autem ſcientia eft,
&fciens facit, relatiuum quidem eft, vt in capite ad ali quid fuit in
prædicamentis determinatum . NVMERVM diuiſibile,e conuerſo autem non,nam
diuifibi le non omne, numerus, DIVISIBILITAS non modo magnitudini ſed etiam
numero conuenit, non tamen omni numero , ſed numero tantum pari,impari autem ob
vnitatis interuëtum nequaquam , Veletiam melius erit dictu , diuifibilitas in
duo æqualia , numero tantum pari conuenire, diuiſibilitas autem fimpliciter
omni numero conuenire, id quod Ariſtoteles hoc loco velle videturdicere, ſeu in
duo æqua. lia,vel in duo inæqualia numerus ipfe diuidatur , fic vtdiuiſibilitas
in partes integrales cuilibetnumero conueniat , non diuiſibilitas in partes
aliquotas omni numero, ſed tantum numero pari conuenire eft neceffe, aduerte
etiam quod ipfinumero primo conuenit diuili . bilitas in tot partes, quot
vnitates habet;in plus igitur ideft ,quod diuiſibile eft, quam id ,quod numerum
eſſe, quia diuiſibile, eſt com mune ad diſcretum , quod in partes aliquotas
&in partes integran tes diuiditur etiam ad continuum ,ſequitur igitur
recte,numerus eft, igitur diuiſibile, ſi diuiſibile accipiatur commune ad id,
quod in ali quotas & integrantes diuidatur partes, &non econuerſo , vt
diui fibile eft , igitur numerus, LIBRO QVINTO, CAPITE PRIMO. LOGICV M problema
. PROBLEMA apud Euclidem eſt propoſitio ,in qua vnum datur, & aliud (vt in
pluribus) quæritur, vt ſuper datamrectam li neam triangulum collocare, linea
quidem datum eſt, quefitum au tem ef trigonum ipſum conftituendum ſuper lineam
datam , ſem per enim problema verſatur circa praxim ,quapropter, problema
Geometricum ,eftpropofitio practica , Theoremavero Geometri. cum ,eſt
ſpeculatiua propoſitio ,modo Ariſtoteles non ingnarus hu. ius duplicis
fignificationis problematis Geometricc, & logice,pro pofitionem dubiam ad
vtráque partem, dixit problema logicum , &non Geometricum debuifTe
intelligi, inquit enim , logicum au tem eſt problema,ad quod rationes fiunt,
&crebræ quidē, & bong CAPITE SECVNDO . ERIT enim ſecundum hoc bene
poſitum humidiproprium , vt qui,qui dixit humidiproprium , corpus quod in omnem
figuranı ducitur, vnum aßignauit proprium , o non plura ,erit fecundum boc bene
pofitum humidi propriuns. FIGURA hicaccipiatur in corpore locante humidum
,humi. dum enim cum corpus fluxibile atque dilatabile fit , ſuſcipit quan
cunque figuram a re locànte, quæ figura, feu natura, fiue etiamarti ficis opere
introducta fit , in illo vaſe locantehumidum , accipere igitur hocmodo figuram
a re locante , proprium eft ipfius humi di, & non alterius cuiuſque, NON
omne ſenſibile extra ſenſum faftum ,immanifeftum eft, latens enim eft, fi adhuc
ineft, eo quòd fenfu folo cognoſciiur, erit autem verum hoc ,in his, quæ non ex
neceſitate ſemper conſequun tur, vt quia, qui pofuitſolis proprium , aštrum
quod fertur fuper terram lucidiſſimum , tale vſus eſtin proprio ( ſuper terram
in , quamferri) quod ſenſu cognoſcitur, non vtique erit benefolis af fignatum
proprium immanifeſtum enim erit cum occiderit ſol , si adhuc ferratur fuper
terram , eo quòd nos tunc deſeruimus fenfium . CECVS enim huius quod eft, folem
fuper terram ferri,nul. lam habet ſenſationem ,ſed videns, illius ſenſationem
habet quan do folem ſuper terram in die artificiali conſpexerit, quam primum
autem fol occiderit , & fub orizonte conditus fuerit , definit ſenſus
percipere folem fuper terram ferri, fi igitur illud proprium eſſet folis , illo
deficiente, ( quod contingeret nullo conſpiciente ſo lem ferri ſuper terram )
proprio , & Sol , effe defficeret , quod quia abſurdum , non igitur
proprium eft folis eum videri ferri fuper terram , licet femper Sol ſuper
terram fereatur, id etiam , haud folis proprium eft , cum fyderibus omnibus,
Igni, Aeri ſem per conueniat , id autem quod proprium eſt , conuenit omni foli
& femper,inodo fecunda particula, (quod eft foli) non conue nit foli, fed
etiam alijs a ſole, & a fyderibus, & elementis, conuenit; Præterea
folem femper ferri ſuper Terram , & fi proprium ſolis ef fet,illud tamen
non eſt ſenſibile, led immaginatum ,perceptibile,vel intelligibile, particula
tamen illa aftrum lucidiſsimum , ipfi tantum foli conuenit, CONSTRVENTI vero ,
fi tale aßignauerit proprium , quod non ſenſu est manifeſtum , aut cum ſit
ſenſibile ex neceſsitate ineſe manifeftum eft,hoc benepoſitum proprium , vt
quia, qui po fuit fuperficieiproprium quòd primum coloratum eſt, ſenſibili qui
dem aliquo vfus eft (coloratum eſſe inquam) tale quidem quod ma nifeſtum est
ineſſe ſemper, erit fecundum hoc, bene aſsignatum fit perficiei propriim.
IMMEDIATVM ſubiectumn coloris fuperficies eſt , ſub . ftantia enim colorata
eſt, quia corpus coloratum ,etideo corpus co loratum eft, quia ſuum extremum
eft coloratū , extreinum autem, ſeu terminus, ſub quo corpuscontinetur
ſuperficies eft , in qua im mediate color fuſcipitur, iſtud autem proprium ,non
ex natura ſu perficiei profluit , fed extrinſece aduenit color ipſi ſuperficiei
, quæ quantitas quidem eſt, color, autem qualitas , fed cum ſenſibili per
fenfum percipiatur, & fecundum apprehenſionem fiat exiſtimatio, et quia
ſuperficies omnis,affecta ſit colore, ſequitur quod recte pro prium afsignabit
ſuperficiei , fiquis dixerit eain effe coloratam & erit proprium ſuperficiei,
proprium quidem ſenſibile,non tamen ex intrinſeca natura ſuperficiei. CAPVT
TERTIVM. PRIMVMergo deſtruenti quidem, infpiciédum eſt ad vnum quodque eorum
cuius proprium aßignauit, vt ſi nulli ineſt; aut fi non fecundum boc quidem
verificatur, aut fi non eſt proprium c18 iuſ que eorumſecundum illud cuius
proprium aſsignauit; non enim erit proprium ,quod pofitum eſt elle proprium ,
vt quia de Geome tra non verificatur indeceptibilemeſe ab oratione (nam decipi
tur Geometra cum pſeudographiäfacit ) non erit hocſcientis pro prium , non
decipi ab oratione. HIC locus videtur opponi ei quod Ariſtoteles determinauit
de Geometra primo poſteriorum ,vbi ait Geometram non mentiri concipientem 9
concipienten lineam bipedalem, quæ tamenminimebipedalis eſt, fed fiquis recte
inſpiciat,nulla certe oppoſitio apparebit , fed vtera quelocorum mutuo ſeſe
alternatim declarabit, cuinam in dubium illud venit,fępemens ynī interne
concipere, quod falax manus ex trinſece, illud peruertit: hoc quidé
prothagoręfæpe contigiffe reffe runt, vt aprehenfo, ad ſcribendum calamo,id
ſcripfiffe quod men ti fuę opponeretur, & id vitii non ſolum manui, fed
linguæ ſæpe etiam contingit , quis enim id in feipfo non eft expertus . vt quan
doque ynum ex inſperato lingua profferat, Q tamen aliter mente prius
conceperat,id autem etiam cuidam Geometræ, ſi contingar, vt perperam
ſemicirculos deſcribat veltrahat lineas,non vt opor tet ( vt interiusprius
mente concepir) ficut primo topicorum capite primo fuit declaratuin ,non tamen
id proprium eft Geometræ ,cum non ſemper vnicuique Geometræ conueniat , ſed
raſo etiam vni accidat. LIBRO SEX TO . CAPITE TERTIO, SIMPLICITER igiturnotius
, quod prius eſt poſteriore , vt punctum linca, o linea ſuperficie , &
ſuperficiesſolido , quem admodum vnitas numero prius enim &principiã omnis
numeris. VIDETVR hic textus contra determinationem philoſophi primo de phiſico
auditu capite de primo cognito, vbi determinat de circulo p priino cognoſcitur,
quam quod fit figura plana vna linea contenta : pro cuius loci huius &illius
intelligentia , fcire debes deffinicum cum ignotum ſit, per deffinitionem
explicatur,ipſa vero definitio per ea quę nota ſunt, ingnotum definitummanife
ftum facit, quod Euclides,vbilineam rectam deffinit primo Elemē. torum prius
punctum explicuit,quiin deffinitionem lineæ ponere , tur, vt furt declaratum
capite de per ſe,primopofteriorum fubinde lineam per punctum , &
fuperficies per lineam , & tandem libro 11 , corpus per ſuperficiem
deffiniuit , quo autem modo diuerſo ſe ha heat punctus in linea ab eo modo, quo
vnitas in numero,id in na lyticis capite de per ſe fuit manifeſtīt, ſed id in
dubiữ verticur , quo nam modo corpore ſuperficies, & fuperficie linea ,
&linae punétus noctiora fint:'cīí hæc omnia apud Geometrā, &
ftereometram ab ſtracte conſiderentur. Dico quod cum abſtractione in his
omnibus minor & maior fimplicitas repperitur,vt in puncto quam in linea
&fic deinceps, Adid autem de primo phiſicorum de circulo nulla videtur
oppofitio in Ariſtotelis verbis, ibi enim de vniuerfali con fufe aprehenſo hicauté
de ſinipliciori dictincte concepto loquitut C 1 pro no OPORTET autem non latere
quædam fortaſſe aliter deffi niri non poffe, vtduplum , line dimidio. ID
notandum euenit hoc loco , quod Ariſtotiles capite de ad ali quid poft multa
examinara ibidemn determinauit,quodad aliquid non eft, cuius effe fit elle
alterius, fed cuius eile eft ad aliud quodam modo refferri , vt dupli efTe, fic
eft, vt abfque relatione ad illud cu ius eft duplum minimne poflit percipi,
licet non cognoſcat illud fub nomine & natura dimidii,ſed tantum quathenus
duplationen ter minat, quę fundatur in eo, quod illa duplatione duplum eft.
OPORTET autem ad deprehendenda talia fummere mine orationem , vt quod, dies,
eſt ſolis latio fuper terram. QVI deffiniet diem artificialem ( qui incipit ab
emerſu ſolis ſu pra orizontem vſquequo accidat ) ponit in definitione lationem
ſtelle apparentis fuper terram (qui fol dicitur )nam qui die vtitur & ſole
vei neceffe eft , acquiſolem deffinir, ſtellam in die apparentem dicit, in qua
deffenitione alterius,alterum ponit eo modo quo ea , quæ ad aliquid
deffiniuntur, RVRSVS fieo quod e diuerſo diuiditur , id quod e diuerſo di
uiditur diffiniuit, vt impar eſt qui vnitate maror eſt pare , fimul enim
natura, quæ ex eodem genere e diuiſo diuiduntur, impar au. tem &
parediuerſo diuidunt,nam ambonumeri differentia . PRETER eas quas Euclidesin
elementis & Boetius primo Arithmeticæ deffitiones de impari atque,pari
numero dederunt,hęc Vna eít ,qua in comparatione & non abfolute
imparemnumerum in ordinead parem deffinit fic vt neuter abfque altero intelligi
que at , & alter indeffinitione alterius ponatur,vtocto par , vnitatem
imparem feptem ſuperet , & hic fenarium parem eadem vnitate maior euadat.
Duo enim funt quæ diuidunt e diuerſo ipſum nume rum par, & impar, & in
deffinitione alterius alter ponitur,cum ad feinuicem rellatiue conſiderantur
& non abfolure , SIMILITER autem & fi per inferiora ſuperiora
deffiniuit, pt parem numerum quibipartiteſecatur , name bipartite ſuma ptumest
à duobus quæ paria ſunt. HIC textus obfcuriuſculus redditur in littera,ſenſus
tamen fa . cilis eſt , ſuperius enim fi per ſuum inferius deffinitur, vt notius
fia at, fuperius hic eft quod, bipartire ſecatur,inferius autem numerus eſt
par,optime enim fequitur, hic numerus par eft igitur, bipartite fecatur,fed fi
arguas bipartite ſeccatur igitur numerus eft,incõftans eft ifta argumentatio ,
neque y ſquam valida eft, nifi intelligatur 1 numerus in confequente pro numéro
numerato , vt funt etiam ma. gnitudines, quæ nuineri ſunt, vt in pofterioribusdeciaratum
eft per me, ita vtin conſequente accipiatur numerus pro quodam comu. ni ad
numerum numeratū &ad numerum qui eſt ex vnitaubus profuſus aceruus,fic enim
quod bipartitīī par numeruseft, & ficin deffinitione ſuperioris, quod eſt
bipartiri veimur oumero pari,qui inferior eſt ad bipartiri ſimauis, bipartiri,a
binario numero capias qui binarius inferioreſtad numerum parem ,cum
quaternarius, & ali quam plurrimi fint pares numeri,modoqui in deffinitione
nu . meri paris vtitur bipartiri , ille quidem in ſuperioris definitione Vtitur
ſuo inferiore , CAPITE QVARTO . AVT rurſum qui deffinit noĉtum umbram terra .
TERRA eniin cum ſit opacum corpus radë Colaresnon pof. funt illud ingredi &
vltra progredi ( quod in traſparenti aericone tingit ,) ſed impediuntur a parte
terræ , quæ pars ad folem reſpicit, ex alta autem terræ parte,luminis priuatio
contingit, quæ priuatio luminis folaris fuper terram nox appellarur & cft
liquis igitur no Etem definiat, fic inquiens nox eft priuatio luininis folis ob
er iæ opacitatem proueniens , fimiliter terram quis deftiniens dicet, terra eſt
corpus ex cuius opacitace nox fit, vide quo pacto &ter am in deffenitione
noctis, & noctem in deffitione terræ & vtrun que in vtriufque
deffinitione ponitur, fequuntur quædam Ariſtore lis verba in textu de
multiplici & ſubmultiplici, atque de duplo & dimidio , quæ quia alias
declarata ſunt pretereunda duxi , fed id no. tandum eft quod in deffinitione
priuatiui , vtputa noctis , ponitur poftiuum , vtputa terra , quod etiam in
multis eft aduertendum , quia non ſolum ponitur pofitiuum ,fed etiam priuatiuum
, vtly pri uatio lurninis, CAPITE QVINTO, Si autem aliquurum complexorum
aßignetur terminus, con fiderandum eft aufſerendo alterius eorum , quæ comple
& tuntur ora tionem , fi eft & reliqua reliqui, Nam fi non ,manifeftum
quonia, neque tota totius, vtſi quiſpam deffinit lineamfinalem rectam fic nem
plani habentis finis , cuius medium ſuperaditur extremis , ſi finalis linca
ratio est ,finis plani habētis fines recte oportet effe re liqui, cuius medium
fuperadditur extremis,fed infinita,neque me dium neque extrema habet, re
&ta autem est, quare non est relo qua reliqui oratio. ст · AVTEM quain ad
expofitionem textus deueniam primo liç terai Ariſtotelis in tralatione
Argyropili et in textu Auerois cor rigendam puto de mense Ariſtotelis ex
Euclide iuxta cheonem , le gitur enim in vtroque textu cuius medium
ſuperadditur extre mis , vbi legi debet , cuius mediuin ' non reſulta ab
extremis 86 Aueroes in expofitione fic interpretatur,cuius inedium non occu .
lit duo extrema, & videtur afſentiri ipfi Platoni deffinienti rectă , recta
inquit linea eſt, cuius medium non obumbrat extremna , cæ , terīt mens
Ariſtotelis eſt, quo pacto complexum deftiniatur often dere, vt fi homo
gramaticus deffiniatur,hæcenim erit ſua deffini tio , fíue terminus,aninal
rationale mortale recte legens atque ſcri bens, tota quippehec ratio, huic toti
coplexo , nempe, homo gram maticus,conuenit,modo liably homo, ly gramaticus
aufferatur, &ab ly animal rationale mortalely recte legens atque ſcribens,
vt fic dicatur, homo eſt aniinal rationale mortale , &gramaticus eft
recte,legensatque ſcribens, peroptime data erit deffinitio primo ipſius
complexi,homo gramaticus,quod Ariſtoteles in Geometria exemplificat,iminaginans
(de mente aliorum ,) planum efle infini tum ſecundum longitudinem tantum ,
finitum ſecundum latitudi. nem , quod quidein terminatur linea recta, quæ eius
finis ſecundū latitudinem ellet, modo ſiquis definiret lineam finalem rectam
die cens,effe finem planihabentis ( ſecundum latitudinem ) fines ,cuius (
quidein finis) medium non relultat ab extreinis ,hæc particula, fi nes plani
habentis fines , in definitione pofica recte conuenit lineæ finalis, fed hæc
particala , cuius medium non reſultat ab extremis , nonconuenit illi particulæ
pofitæ in complexo, quæ eſt ly recta , velly linea , quia non conuenit niſi
recrę lineç finicę , & non infi nitę, quęinfinita , vt fupponebatur, non
habet medium , neque ex . trema,ideo deffinitio ipſius totiuscomplexi minime
recte data erat quia ficut vna ablata particula in deffinitione conueniebat
ablatę particule deffiniti , non fic reliqna particula deffinitionis conuenit
relique particule complexi deffiniti, $ I autem differentia terminum alignauit
confiderandum , fi eg alicuius numerun comunis est aſſignatus terminus , vt cum
imparem numerum aliusmdium habentcm dixerit , deter minandum est , quo pacto
medium habentem , nam numerus qui dem , comunis in vtrique rationibus eſt ,
imparis autem coaſſum pta eſt oratio , habent autem &linea & corpusmedium
, cum non fintimparia, quare non vtique erit deffinitio hæc imparis. 12 IMPAR
numerusin duoæqua dicendinequit ob vnitatis in teruentum medium indiuilibilis
denumerantis totum numerum cuius illa vnitasıncdium eft , linea autem &
corpus & ſi medium habeat,linca quidem punctum medium , quod per 10
primielemen torum inuenitur fi diuidatur , & fuperficies medium habet diame
trum, illa tamen media ,vt nec punctum lineam ,neque linea ſuperfi ciem
dimittuntur, neque illa componunt ea , quoruin media ſunt, determinatū igitur
eft, quo pacto numerus medium habet, & quo pacto linea atque ſuperficies,
& hoc de numero iinpari intelligas, cuius inedium interduas partes
æquales,vnitas eſt , & non de pari, ficut etiam Ariftoteles ait in textu ,
CAPITE SEXTO . ex eis QV AE DA M enim ſic ſe habent ad inuicem, vt nibil ex
fiant ; vt linea numerus. LINEA in lineam fiducatur vt 45 primielementorum
Eucli dis docet & prima et ſecunda; ſecundi elementorum fuperficies pro
ducitur, pariterque numerus, ſi in numerumduxeris,numerus pro ducetur , vt ex
ſeptimo elementorum manifeftum eſt , non tamen idem prouenit per additionem,
quia linea lineæ addita non facit ſur perficić, &fi hoc
milliesmillienamillia addieris adinuicemlineas, non reſultabit ſuperficies,
neque fi puncta ad fe inuicem addideris linea vnquam reſultabit, vnitas tamê li
vnitatibus, velvnitati,nu. merus (tatim reſultabit, qui acccruus eft ex
vnitatibus protufus, vt etiam in prædicamento quantitatis fuit declaratum.
LIBRO SEPTIMO. CAPITE PRIMO . Avr fi eodem ab vtroque ſublato , quod
relinquitur eſt alte rum, vt ſi duplum dimidi , co multiplum dimidij idem
dixerit elje , fublato enim ab vtroque dimidio , reliquu oporteret indicare,
non indicant autem, nam duplum &multiplum non idem fignificant. VLTRA cà
quæ de duplo & multiplo libro quarto capite quarto ibi dicta ſunt,vnum
illud conſiderandum eſt, quod a nega . tionc dupli ad interremptionem multiplex
fiquis argueret commit teret conſequétis falatiam vniuerſalius enim eft ipfum
multiplum ipfo duplo , vt eft animal equo vtrunque tamen ad aliquid eft, &
duplum ad dimidium , &multiplum ad ſubmultiplum . LIBRO OCTAVO. CAPITE
SECVNDO . . VIDET V R autem &in diſciplinis quædam ob definitionis deffe
&tum , non facile deſcribi, vt quoniam quæ ad latusſeccat planum linea
,fimiliter diuidit &lineam &locum , definitione au tem di&ta ftatim
manifeftum eft quod dicitur,nam eandem ablatio nem babent.loca d linea , eft
autem definitio eius orationis hac. DEFFINITIO ſecunda tertń elementorum
intellectum prebet huius deffinitionis pofitæ ab Ariſtorele , definitū eft ly
linea fec cās planum , definitio eft ly linea fimi a Jiter diuidēs lineam
&lo ct , fic enim Jittera ordi netur , linea quæ ad latus ſeccat pla num ,
eft li. nea diuidens lineam et locuni terminatum ab ipla linea recta , fieri enim
non po teft , vt linea ſecet planum terminatum linea , quin il.. la linea
terminans planum ſeccetur ab eadem feccante linea , id autē manifeſtum g eft ex
fecunda , tertia , & quarta definitione tertń elementorum Euclidis, &
alisexipfo tertio elemen forum , & xi fecundi, ly li. mea quæadlatusfeccat
pla num,vocatAriftoreies orationem in hocloco , vbi ait, oautem : deffinitio
eius orationis, hæc, id etiam dignī notatu cum deffinitio per genus, &
differentiam detur,loco generis in hac definitione, eſt ly linea diuidens
lineam , inodo cum linea prior fit plano, manife , ftum eft,quodde genere
dicendum erat in hac definitione, SIMPLICITER autem prima elementorum , pofitis
qui dem definitionibus ( vt quid linea vel quid circulus) facillimum oftendere,
verum non multis ad vnumquodque eorum eft argumen tari, eo quòd nonſunt multa
media , ſi autem non ponanturprinci piorum definitiones,fortaſſe autem omnino
impoßibile. PRIM A elementorum hoc loco ,non ſunt intelligenda princie pia, quæ
definitiones,petita,& animi conceptiones ſunt, ſed princi, pia ipſa,ſunt
propoſitiones,quæ in probleniata & theoremata diui duntur , quæ prima
elementorum, ideo dicunturcum per ipfa , quæ proponuntur in alís ſcientñs
probentur, vt quid fit linea,videlicet longitudo illatabilis, & quid linea
recta,cuius mediñ ſua ex æquali interiacet figna,tunc ſuper datam lineam rectam
triangulum colo care proponit prima, primi elementorum, & pofita
definitione cir culi per ipſam probatur triangulum ſuper datam lineam colloca.
tum effe æquilaterum , & folum perilla media videlicet definition nem
circuli 17 & primam animi conceptionem primi elemento rum, quæ definitio ,
& animi conceptio fi prius non ponantur diffi cile erit oftendere ,
fortaſſe omnino impoſsibile, quod triangulus conftitutus fuper datam lineam ſit
æquilaterus, 1 SIMILITER autem his & in his quæ funtcirca orationes Je habe
nt ; non igitur latere oportet , quando difficilis argumenta bilis eft poſitio
,quòd eft aliquid eorumquæ di&ta funt. LINE A quidem , atque circulus ſunt
quædam incomplexa quæ diffinibantur ab Euclide deffinitione tertia & 17
primi ele mentorum,fed linea quæ ad latus ſeccat planum , fiue linea ſeccans
planum ad latus , id totum complexum eft,atque compoſitum , & licut fieri
non poterat, vt oftenderetur æqualitas laterum trianguli, abſque definitione
incomplexicirculi, fic etiam fieri non poterit, vt quippiam de quopiam
demonftretur , quando in demonſtratione ingreditur aliquod extremum complexum ,
quia tunc vtimur toto iſto tanquam principio ,ly linea leccans ad latus planum
, nifi prius ipfius complexi atque orationis præierit deffinitio , quę eſt,ly
linea fimiliter diuidens lineam terminantem locum &locum , ita vtpar.
ticula illa circa orationes non intelligatur yt gramatici, & rhetores
intelligunt orationes, fed oratio , pro quodam intelligatur comple xo
indiſtantitamen , hoc eft fine copula, & verbo principali,parti cula illa ,
pofitio, cum inquit Ariſtoteles quãdo difficilis eſt pofitio , non intelligitur
pro petitione, feu petito , quia petitum non eft argu mentabile,hoc eſt per
argumentum probabile,neque difficile, ne facile , cum ſit primum principium
&non probetur , fed petitio in hoc loco accipitur pro ipfa propoſitione,
quæ probanda venit , ſeu fpeculatiua,vel etiain practicafit, feu problema, vel
etiam theore, ma fuerit,et tunc talis propofitio difficile argumérabilis eft,
quando inter probandam ipſam ,contingit aliquod deffiniendī , quod com plexum
fit, quod nifi delfiniatur,difficilis argumentabilis eſt propo ſitio , &
fortaffe omnino inpoſsibile , quando id quod dictum eſt contigerit,videlicet
quod complexum deffiniendum interueniat, ly fortaffe autem omnino impoſsibile
in præcedenti textu non dubi tatiue ſed magis comprobationis particula
accipienda eſt . 1 CAPITE TERTIO . VELV T Zenonis quòd non contingitmoneri,
neque ſtadium pertranfire. PROTERVI Zenonis eft fententia dicentis ftadium ,
quod octaua pars milliaris eft ,pertranfiri non polle, inter genera menſu .
rarum quæ magis notæ ſunt,ftadium numeratur,quod iuxta Ptho. Jamei ſententiã
primo Geographiæ eft milliaris Italici pars octaua. CAPITE QVARTO , OPORT ET
autem eum quibene transfert diale &tice,& non contentioſe transferre,
vt GeometramGeometricæ,fiue falſum fiue verum fit ; quod concludendum eft.
DIALECTIC A trallatio eft,quæ apparens quidem eft,et conuenientiam habet ad
illam remi fecundumquam trallatio facta eft , & non debet effe
dubia,contentiofa , & fophiſtica, ſed magis ad inſtar geometræ, qui nõ
errat aliquo pacto circa ſuam materiam er formam , vt primo poſteriorum
declaraui , vel etiam quitransſeng hanc vocem triangulus, a ternario numero, et
quadratum a nunc ro quaternario propter ternarium, & quaternarium numerum
vel æquicrus a duobusæqualibus tibás, vel gradatus propter tria 1112 - qualia
latera , quæ vt gradus concipiuntur, 2 CAPITE QVINTO. AXT fiquis corum qua
ſequuntur ſeinuicem ex neceſſitateal Strumpetat vt latus incomenſurabile cle
diametrofi oportet dia meter lateri. PRIMO pofteriorum fuit declaratum &
demonſtratū quo pacto diameter quadrati coftę fit incommenſurabilis , quantum
autem ad hunc locum attinet, non ſemper per ca que ſe conſequun tur
immediate,probatio fieri debet, fed medium debet effe aliquo modo idem cū
extremis,&aliquomodo diuerſum , vt in 10 clemë torum de diametro ,
&cofta eftmanifeftū ,Prçterea,non eft proban dumaliquod ingnotum per equc
ignotum, quod fi alterum peta tur in alterius probatione, nil penitus
demonſtratur, IN PRIMO ELENCORVM. CAPITE PRIMO, POSTQVAM enim ipſas per ſe res
in difputationem alla tas vfurpare dicendo non eſt, ſed vocum veluti
nutibus,rerum die ce primur, ſiquid in id incidit vitij,in ipſis eſſe rebus, nõ
in vocibus putamus,quod vfu venire his,qui calculisrationem ineunt, ſolet.
CALCULATORES noſtri temporis characteribus caldaicis vtuntur, per quos, in
numerorī cognitionem trahuntur , ficut per voces in rerum cognitionem ducimur,
IN TERTIO CAPITE, DIVISIONE vero,vt quoniam quinqueſuntduo et tria , fieri vt
paria fint imparia, & maius fit æquale . SI diuiſim ſummas3.& 2.
nunquam , quinque faciunt , ſecue autem fi coniunctim , &ceffatomnisinftantia.
Neque dixit terna fium , & binarium , quia due ſpecies numeri , non
componunt terº tiam fpeciem numerorum ,ſed quinque vnitatcs pro materia quiné
sii accipiuntur. VD ANTVM vt quale,quale vt quantum . IN primo pofteriorum in
de triplici errore circa vniuerfale fuit oftenfum ,proportionem proprie circa
quantum &non circa qua le effe, ita vi ſiquis putet proportionem proprie
eſſc circa quale, is quale pro ipſo vretur quanto vitioſe. IN QVARTO CAPITE.
AVT quod idem eiuſdem duplum , & non duplum , duplum quidem in longuni, non
duplum antem inlatum . CVM dederic eiufdem ad diuerfa : vt duo ad uſum &ad
tria dat deinceps exemplum eiuſdein ad idem fecundâ diuerfa tama, Vt linca a b
quatuoc,ad lineam a cduo actu dupla eft ,no autem dú pla in latū immo quadrupla
elt a badac duo quod eft effe fuũ in potentia , quod manifeſtuin eſt, in
triangulo a bccuius ca b'rectus eft , id autem manifeftum eft ex 46 primi
Elementorum , Eucli dis, vel dicas ab duplam ad a cin longitudine, non autem in
latiu dine, qua caret, eft dupla 1 : 6 CAPITE ÖVINTO. NEQYE ſi triangulusduobus
rečtis tres æquoshabet, & ei . velfigură ,del primum ,vel principium eſſe
dicit;quod velfigura , del primum , vel principium eſt triangulus eft, nam non
quathe nusfigura del primum pel principium , ſed quatbenus triangulus
demonftratio erat . TRIANGVLVS enim rectilineus figurarum rectilinea . sum
prima eſt,ita vt fic & figura , & prima, & principium ,vt qui
buſdam placet omnium figurarum rectilinearum ,non tamen id ve tum eft fecundum
Euclidis fcicum ; vtAs primi clementorum dos cet, &vt Amonius determinat
capite deſpecie ſupra porphirit , ſed hoc loco famoſe loquitur Ariſtoteles,
& determinat quod no con uenit criangulo habere tres duobus rectis æquales
, ratione corum quæ de eo dicta funt, fed ratione ſui ipſius,non aucem
quathenus,fi gura ,vel primī, & principium neque etiam fi ifta fuſius
accipian tur,figura,primüm principium inferunt triangulum efle , arguere. tur
enim ex conſequente ad antecedens, & exmagis vniuerfale ad minus
vniuerfale,ex ſuperiorique ad inferius, figura enim nedum triangulo conuenit,
ſed pentagono &alijs multis,primum nedum figuræ, fed etiamnumero principium
quoque in naturalibus, & his quæ arte fiunt repperitur, nedum in figuris
cöpofitis (vt ais. bant ex triangulo ſape ſumpto , Hoc autem ab accidente
differt, quoniam accidens quidem 1 I 1 in uno ſolo ſummere eft, vt idem ,elle
flauum of melse album ege cygnum ,quod autem propter confequens in
pluribusſemper opora tet,nam quæ vni & eidem funteadem er fibi ipſa
poſtulantur elle eadem propter quodfit ea quæ propter conſequens eft
redargutio, eſt autem non omnino verum , viſifit album ſecundum accidens , nam
&nix cygnusalbedo idem ,autrurſum Melyſji oratio, ide elle poftulat,fa
&tum eſſe , &principium babere', autæqualisfieri Geandem magnitudinem
accipere ,quoniam enim principium ba bet quodfa &tum eft.co quod factum
eſt, babet principium ,fa &tum elle postulatstam quam ambo eadem fint eo
quod principiū fa &tu elle finitumquc habent, ſimiliter auto e in his que
æqualiafa &ta Junt, ſi eandem magnitudinem & vnam ſumendo æqualia
fiunt, et quæ æqualia faéta funt eandem dim onam magnitudinem ſum munt, quare
conſequens ſummit. TRES modos errandiin falatia conſeguentis adducit philofa
phus , primade accidente, ve de albo,aiebant quidam cõſequencia hác valere,
cignus eft ,igitur album eſt, & econuerſo ,album eft ,ige tur cygnus eft
,determinat Ariſtoteles, quod album elle,vniuerſali us fit,quã effe cygnum , a
magis comune ad minus comuneargud do cõinictitur fallacia cõrequêtis,albedo
enim nedum eft in cygno, fed etiã in niue, & alñs reperitur: Secundo vt
Melyflus aiebat, hæc duo videlicet, ly factum efle, & ly principium habere,
vt recte fer quebatur fecundum Melyſſum factum eft, igitur principiñ habet,
principium habet igiturfactum eſt, principium enim habere , vni uerfalius eft
quam factum effe cælum enim principium habet, ma teriain ſuam ſcilicet
&formam , attamen, non eft factum , quia fer cunduin falſam Ariſtotelis
opinionem ſemper fuit, principiữenim .comune eft & ad id quod materiam
&formă haber, & adid quod cæpit efle , in tempore modo a magis comune
ad minus comune arguendo committitur error confequentis , Tertio loco ,
aduertic Ariſtoteles quod eadem magnitudo , &æqualis magnitudonon
couertuntur,in plus eniin eſt æqualia effe,quam cadem effe,fiquis igitur
inferat,magnitudo magnitudini eadem eft,igitur magnitudo
'magnitudiniæqualiselt,recte quidem intulit, vi in probatione ſce cunde partis
quintæ lib. primi Elementorī vna &eadem linea di fit balis in duobus
triangulis eft , fibiipfi æqualis & in quinta & ſexta terti Elementorum
vna &eadé linea a centro exiens ad cor cunferentiam ( quæ duabos lineis ali
comparatur )elt æqualis fibi, fed non omne quod eft æquaļe alteri,elt fibi ipfi
idem , vipatet, in 1 . . tertia primi, Elementorum ,cuin de longiori æqualis
breuiuri ſinex linea feccacur, ob id Euclides, In quinto Elementorum propofitio
, ne 11.propoſuit probandum ,quod quæ vni ſunt cadera &libica: dem
ſunt,quod fi principiuin primafuiſſet, licuti eft, quæ vni ſunt E qualia inter
ſe ſunt equalia , non propoſuillet illud in quinto eile probandum ,quod
Ariſtoteles confiderauit, CAPITE OCTAVO. QVARE manifeftum eft, quodeo
demonſtraționes redargu. tiones funt &veræ quidem ,nam quæcunque
demonftrare licet, ca Gredarguere eū,qui contradi tione veri ponet,licet, vtſicomen
furabilem diametra pofuerit;redarguatquis demonftratione, quod
incomenſurabilis;quare omnium oportet efle , nam alia quidem ea quæ in
Geometriaſunt principia eorumque concluſiones &cæt. SIQ VIS diametrum
commenſurabilem coſtæ ponat redar , guitur ab Euclide lib , 10 elementoruin
propoſitione 115, vel leo cundum campanuin , per illam demonſtrationem , quæ
ibi adduci . tur,quæ demonftratio ,redargutio eft ipfius proteruiafferentis con
. trarium , fic vt pro declaratione huius textus fatis fit , quod ipía de
monſtratio veri,redargutio eft falli allerti,vel afferendi a proteruo, NAM
ſecundum vnamquanque,artem ſyllogiſmus falfus est, vt fecunlum Geometriam
Geometricus , " VIDETVR ex hoc textú quod geometra paralogizet quod
oppoſitum eft ei , quod determinatum eſt in poſterioribus, Geometram videlicet
non paralogizare, Dico Ariſtotelem loqui non de Geometrico fyllogiſmo in
quo,neque circa materiam nec circa formam error contingit , fed de fyllogiſmo
in quo terminus, ſeu vox aliqua repperitur Geometrica, contraria lux fignifica
tioni a Geometra pofita , vt quod triangulus pro circulo accipia tur,vel error
paratur in conſequentia ,vt fi triangulus, igitur dua. bus lineis clauditur ,
& vtroque modorum erit pfeudogeometri cus fyllogifmus , vt fi quis pſeudogeometra
per numerum inipa sem æqualem pari fyllogizer diametrum commenſurabilem effe
ipfi coſtr,hoc ſuo fyllogilino non falſum redarguit, quin potius fal fum
ingerit, de quo fyllogiſmo pſeudogeometrico , hic Ariſtoteles Intelligatur ,
& non de Geometrico , vt in pofterioribus determi, nauit philoſophus, &
per me fuit declararā , quo modo Geometra non paralogizat lad ſyllogizat, &
id, hoc loco in memoriam reuo candum eft , quod in prioribusde prima figura
dictum fuit , quo nam pacto Geometra illa vtatur, IN NONO CAPITE. ET la cuis
viletur plura ſignificare triangulus, deditque, nos, vt cam figuram de qua
concludebat quòd duo re&tis, verum ad in telle &tum illius
difputauit,hic an non? TRIANGVLVS enim eft figura plana tribus rectis li . neis
contenta de qua Euclides ſecīda parte 32.primi elementorum demonſtrat quod
habet tres angulos duobus rectis equales, modo fiquis immaginaretur quod
triãgulus aliquid aliud fit, a tali figura ( qui triangulus eſt ) propter id
quod omnes anguli ipfius figuræ fint etiam duobus rectis æqualcs ,
vtoninesanguli pentagoni,cu . ius vnumquodque lacusſeccat duo ipſius reliqua
latera, talis pro fecto non diſputabit de triãgulo , quiaad intellectuin
triangulinon reſpicit,fed ad aliud, vt ad talem pentagonum , no enim neceffe
eft, vequicquid habet angulos duobus rectis pares, fit triangulus, nes quod
habent tres duobus rectis pares , fed quæ figura habet tan tum tres angulos
duobus rectis pares,ille triangulus eſt. VNITATEs binarijs in
quaternzrijsæquiles efle,at binse rij hic quidemſic infunt illiautemſecus, SIQ
VIS ex illo principio, quæ vni & eidem ſunt æqualia, inferre tentauerit
quod binarij fint quaternarii, hoc medio, omnes vnitates ſunt ęquales
vnitatibus binarë,omnis numeri quaternarij vnitates ſunt æqualesvnitatibus
binarë, iglur omnes vnitates quaternarñ ſunt æquales Vnitatibus binarij,igitur
quacernarius eft binarius,ad maiorem & minorem prime coufequentiæ dicendum,
quod fi vnitates ſingulę & diuiſion accipiantur concedendæ ſunt vtræque
& confequentia prima , fed fecunda confequentia interris matur , fi vero
vnitates in maiori & minori acceruarim ſuſcipian , tur vtraque præmiſſarum
eft falla & fequitur conclufio falfa , & les cundę conſequentiæ
anteccedens eft falluin , & conſequentia fequi tur, & conſequens etiam
falſum eſt . CAPITE DECIMO , NEOVE liquod pſeudographum circa verum eft vt
Hyppo cratis quadratura que per lunulas, ſed qualiter Brifo circulã qua,
drauit,tametficirculus quadretur,tamen quis non ſecundum rem ideo ſophiſticus
est, quare etiam qui de bis apparens ſyllogiſmus cft,oratio plane eſt
contentiola. / ! HYPPOCRAS tentauit circulum quadrareper lunulas et reduxit
lunulam deſcriptam ſuper coſtarn quadrati inſcripti in ciro culo ad figuram
rectilineam &exiſtimauit omnem lunulam redu ci poffe ad rectilineam figuram
, ob id fuppofuit lunulas deſcrip tas fuper latus exagoni circulo
inſcripti,poffe reduci adrectilineam figuram ex quo ſuppoſito non demonftrato,
progreſſus eſt ad cir . culi quadraturam &variauit diagramma,tranfiens à
quadrato ad exagonum , & tranfiens a lunula exiſtente ſuper lacus quadrati
in fcripti circulo ad lunulam deſcriptam fuper lacus exagoni inſcripti in
circulo , & fic preudographus factus eſt , Briſo fimiliter errauit
circunſcribens circulo & infcribens circulo quadratum ,vterque fo phiſtice
proceſsit,et fyllogizarunt contētiofe, fed alter in diagrāma te vt Hyppocras,
reliquus vero in principäs proprös neque in illa rione, reliquus autem in
conſequentia , & quia vtebatur principös coinmunibus, & fi circulus
quadretur fophiftice , tamen non fecun dum rem , vt non per principia propria ,
neque per deſcriptionetti diagramatum ,hoceft per cõſtructionem debitam
figurarum ,nec ex neceffaria cófequutione principiorum ad conclufionem ex illis
principñsneceffario illatam, fyllogiſinus igitur quo Hyppocrates & Briſo
fyllogizabant quadraturam circuli, contentioſa erat al tera ,vt quæ Brilonis,
non contentiofa vero reliqua, vi hyppocra . cis ,vti Ariſtoteles inferius in
hoc capite declarat inquiens, CONTENTIOS A vero quodam modo ſic ſe ad dialetti
cam habet,quemadmodum pleudographa ad Geometriam , namex eiſdem , diferendi
modo,captiose & pſeudographa Geometrice de cipit,fed hæc quidemnon eſt
contentiofa,quia ex principys & con clufionibus quæ funt fub arte
pſeudographa facit ,quæ autem ex his eftquafuntfub diale & tica,circa alia
quide contentiofam efle mani feftum eft,vt quadratura quidem , quæper lunulas
non contentio Sa , Brifonis autem contentiofa eft. ILLA ars quę falſum cöcludit
vel potius artifex ille,an potius pſeudoartifex qui ſyllogizat falium ex
principiis veris vel ex theo rematibus probatis, vt fecit Hyppocras in
quadratura circuli,non contentioſe procedit, quia ex propriis principiis &
theorematibus Geometriæ ,Briſo autem proceſſic ex his, quæ nedum Geometria ,
fed etiam aliis diſciplinis applicari poffunt, vt, quæ vni & eidem funt
æqualia inter fe æquaha effe conftat,quod principium et Geo metriæ Arithmeticæ
ſtereometriæ &ei quæ de ponderibus tractat diſciplinæ applicari poteft,
pariter ratio Antiphontisde quadratu. G 16 ra contentiora eft, qua negat principium
Geometriæ , quod eft fe cundum theorema certii elementorum Euclidis , &
negat etiam li . neain poffe in infinitum diuidi, & dicit rectum eſſe
curuum , & cur uum rectum , & dari duo puncta inmediata in linea
circulari, quæ omnia fequuntur ex conſtitutione hilochilium triangulorum qui
conſumunt lunulam contentam a circunferencia circuli & recta linea , CAPITE
DECIMOTERZO . VT impar numerus ejt medium habens, eſt aut numerus im par, eft
igitur numerus, numerus medium habens. IMPAR numerusa pari differt vnitatis
incremento vel im minutione, vt quinarius a quaternario , & ſenario, in his
igitur vo cibus, ly numerus & ly impar committitur vitium nugationis, quale
committitur in his quæ ad aliquid dicuntur , vt fimitas naſi quidem curuicas
eft,modo fic ordineturfyllogiſmus, Omnis impar eſt numerus habens medium . Sed
numerus eft impar Igitur numerus eſt numerus habens medium Ecce quod bis
numerus reppetitur in concluſionc, inaniter factum . LIBRO SECVNDO. CAPITE
PRIMO , ACCIDIT autem quandoque ficut in mathematicis confia gurationibus , vt
illic quæ foluimus quandoquecomponcre iterum non queamus. OVADRATVM,
penthagonum , & cæteras figuras re . etilineas reſoluimus in triangulos,non
tamen ex triangulis quadra tum fit ſed ex dacta linea recta in fe ducta deſcribitur&,
45primi clementorum Euclidis, & cæteræ figuræ , vt ex quartolibro elemen
torum Euclidis patet,fed per id non videtur factum effe fatis textui
Ariſtotelis,nifi dixeris , quod non ea facilitate idem componimus, qua
facilitate ſoluitur in triangulos, vel etiam dicas quodin Geo metria abſolute
non componitur figura ex triangulis, & fi omnia figura rectilinea in
triangulos refoluatur, fecus autemin Arithmeti ca de mente pythagoræ , tefte
Boetio libro fecundo Arithmetices immo vnaqueque figurarum ſpecies , componitur
ex præcedenu fpecie et triangulo ,vt eo loco demonftratur, vel meliusex tot vni
tatibus, quotpræcedensſpeciesconſtat, & vnitatibus triangulorum , vt illis
declaratur locis, FINIS. VNIVERSA LOCA IN LOGICA M A R то тв LIS IN
MATHBMATICAS DISCIPLINAS HOC NOVVM OPVS DECLARAT. сум PRIVILEGIO. aistas f 4
VBNBTUIS IN OFICINA FRANCISCI ,COLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES .
Primum limen huius ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein
citatum eſſe fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim .
Pretcrca illud aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum
Ioannem Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly
uel,in fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco
numerus denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo
Venetorum Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante
decenniuń , fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio
conceſſo Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori ,
pro feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB
WIEN L MARCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius
ingreſſus eft in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe
fecundum Theonem & fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud
aduertendum eſt quod Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem
Grammaticum , & nume rus alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in
fronte ca pitis denotat partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus
denotatpartitionem commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum
Confilio cautum eft , ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń ,
fubpena Ducatorum centum , áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo
Domino Presbitero Petro Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro
feßorique publicoliberalium artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN
LCOLINI, M D LVI . GROENIGLICHEN AD LECTORES . Primum limen huius ingreſſus eft
in hunc librum ,utintel ligat lector Euclidein citatum eſſe fecundum Theonem
& fecundum Campanuim indiſcriminatim . Pretcrca illud aduertendum eſt quod
Textus Ariſtotelis partiti funt fecundum Ioannem Grammaticum , & nume rus
alius, cui præponitur ly aliàs , aut ly uel,in fronte ca pitis denotat
partitionein Auerois in Paraphraſi, Tertio loco numerus denotatpartitionem
commentationis mas goæ Auerois , Illustriſsimo Venetorum Confilio cautum eft ,
ne quis hoc Opus imprimere audeat ante decenniuń , fubpena Ducatorum centum ,
áammißionis librorum ; ut in Priuilegio conceſſo Domino Presbitero Petro
Cathena artium & facræ Theologie Doétori , pro feßorique publicoliberalium
artium in Gymnaſio Paduano : LASERLICH HOFBIB WIEN LIOTHEK PETRVS CATHENA
VENETÝS PRESBITERORVM OMNIVM MINIMVS REVERENDISSIMO DOMINO MARCO LAVRETANO
EPISCOPO NONENSI, · AC PATRONO S V O COLENDISSIMO . S. P. மரா NTER
munera ,quæ diuiniore calculo benigna humanitatis arti fex natura
nobiscontulit, uirtu tum de litterarum facratiſsime antistes , ad poftremum
haud quaquam adducitur ipſa ratio , nempe ad quamomnia prope quæhumana
addicuntur ſubstan tiæ ad unum adhæferunt, cuius munere ſi quis minime recte
ufus fuerit ipſum naturæ aduerſari , atſi bonis artibus que de periere iam
&deciderunt, quippiamſplendoris &utilitatiscor rogauerit &
farcuerit, illum rationismunereperfunctumeſſe ne mo nefciat , hac de
caufaconſiderans hominum mentes eodem effe quo arua fato , quæ ſi excolantur
bona ſinegligantur mala perfe runt germina,uidiſſem multos , qui philofophi
nominari uolunt prepoſteris imbutos litteris,quorum mentes ſentes alunt Gmon
stra , quibusuellicandisne unus quidem Herculesſatiseffet , uin Etum in
inestricabiles laberinthos quin potius in carcerem te terrimum Aristotelem ut
ciuimilites traxiſſe,qui inutilibus que stionibus &Græcis tenue intincti
literis, bomis artibusnegletis , fimiles factifunt oculo , qui quòd in tenebris
fit lucem flocifecerit Aij decreuiquoingenijuires ,etiam fi exignas( nam
apprime noui quàm fitmihi curtaſuppellex ) expenderem in eruendo Ariſtotele ex
illo obfcuro , id autem tam comode quàm apte fieri putabam ſi Mathematica
exempla ſua expreſsiora redderem , quibus in ex plicandis Logicis ufusfuit ipſe
prefertim hoc tempore qua publi cis lectionibus Mathematicis in PaduanoGimnaſio
incumbebam , ad huius etiam clariſsimi Philofophi elucidationem accedebat hor
tatio iuuamen ReuerendissD.. Ioannis Marie Piſauri Epiſco pi Paphenſis
&mecenatis optimi cuius expenſis opus imprimeba tur , hortabaturque me ille
, ne opus hocpermiterem ex ire in ho minummanus fine duce aliquo cumpreſertim
milta, &fere difi cilima hac tempestate contineret, que aut ab
interpretibus uniuer fis omiffa , autoppoſita his effent que interpretati ſunt
. Te igitur patronum Dominum meum delegi,qui & Ariſtoteleam Philo ſophiam
uniuerſam cales, &qui has liberalesartes Latinis duri bus inuulgauit.
Itaque ea. Aristoteles loca qua potui diligentia il lustraui, & quæ lucem
claritatemque deſiderare uide bantur , curſimebreuis annotamenti lumine perui
afeci , qua in reſi effe cerim quod uoluizesło iudex &cenfor. Has autem
primores inge - ný nostri fæturastuo nomini Reuerendiss. Domine eam ob rem
dicatas uolui,quo plane intelligeres noftri animigratitudinem pro innumeris
quibus me in dies cumulare deſideras beneficijs , eoque quod aliter non datur
temeum reuerear benefactorem ; neque ob aliud ſanete reuerear quàm quòd omni
laude digniſsimum : Vale præfulum decus . ed RE agat , ueletium num in ſemen
uiri, uelmulieris , uel inmatricem , { OTS PORPHYRII DE GENERE PE T R I C Α Τ Η
Ε Ν Α PRESBITERI VENETINOVA IN T E R P R E T ATIO . IcetVR & alio modo
genus uniuſcuiuſque principium or tus , tam ab co, qui genuit , quám a loco in
quo eft quiſ piam ortus . Dicitur quòd locus , os pater cauſe funteffè
&trices genis ti , diuerfimodetamen ,quippe pater aétiua fit caufa , locus
uero conſer uatiua tantum ,que ad cauſam effe's Etricem non immerito reducitur
,aps te magis quàm adquodcunque aliud cauſé genus. Dico tamen quod , &
locusnedum conſeruatiuum prin cipium est , fic ut genitum folummodo conſeruet
poftea quam genitum ipfum acquiſiuerit effe fuum ,ſed etiam adiuuin principium
eſt ipſe locus affe Ausrefpectu geniti accidentiumſententia est ipſius
Ariſtotelis, quòd per acceſjum atque receſſum planetarumſub circulo obliquo
fiunt in hæc inferioragenerationes atquecorruptiones , folis igitur , e
planetarum aliorum lumine, ac motu , affectus locus, aštiue agit hoc pacto
adgenera = tionem , atque parentes , fi fecus quis audiuerit, tunc sol, &
pater non generarenthominem cum Sol non niſiſuis radijs reétis reflexis autfrae
étis alterando aerem agatin ipſum , ca in contentum , quo autem pacto age
quodmodo eidemſimili,quo etiam in uiſcera terre producitmineralia , o interræ
fuperficie plantas . 6 PORPHY RIVS DE SPE. DE SPET I E. VLCR A Fucies , debita
parilitate demiſſa,coloria bus lineamentiſuć luculenter affecta,fpetiesà Pors
phyrio in prima ſpetiei ſignificatione uocatur. , ut Facies priami dignaeſt
imperio , ad cuius fi militudinem , ill . est , quefub aßignato generepoa nitur
, curus pulcritudo , est differentia fpecifica , qua pulcritudine informe genus
contrahitur , atque pulcrumfit. Et Trianguluun , figuræ fpetiem ſimili modo
ſignificat,fie gura rectilinea genus est ad triangulum , non figura in
uniuerſum quamſic fufamfiguram Euclides primo Elementorum partitur in eam , que
una clauditur linea , & in eam quæ pluribus lineis continetur, qui
Triangulus Axties fitfigure reftilinee per hanc ſpecificam différen tiam qua
est , claudi tantum tribus reftis , qua etiam differentia pula crum redditur
figure genus . Indiuidua funt'infinita . Non intela ligas hoc uelim , niſi
potentia ,qua infinitatis affectione etiam numerus ita intelligatur ; ſed modo
quodam diverſo , numerus enim , quicunque fit , aexiſtat , finitus eſt ,
terminatus ,ſic pariter indiuidua on nia , quæ exiſtunt finita funt, ſed que
preceſſerunt omnia,o que futu rafunt ex utraqueparte infinita diceret
Ariſtoteles, numerus uero cum statum ad unitatemhabeat duplici modo finitus
eſt,« actu , o deſcenden do ,uerum indiuidua duobus modis dictis funt infinita
, unico autem modo ut quæ præfentiafunt, finita etiamfunt. IN PREDICAMENTA
ARISTOTELIS DE O V A N TITATE. ENARAI numeri partes , ut quinque, & quinque
. Animaduerſione dignum exemplar hoc in loco pofuitAriſtoteles., cum dixit
quinque,& quin que partes eſe denarij numeri, non enim dixit quis narium ,
oquinarium denarium numerum compone re , quia nulla numerorun fpeties
componitur ex di uerfisſpetiebus,neque etiam ex unis indiuiduis eiufdem
fpetiei,ut diuerfa fpeties fiat, ex unis ternis uel quaternis , ant quinnis
numeris nonfitfe nariusuel oftonarius aut denarius, ex unitatibus tamen quinis
o quinis D DE VⓇANTITATE
* que materia eft. Cuiuslibet numeri, denari fpeties conflutur, eas ſententia
Euclidis , Nichomaci, atque Boetij. Similiter & in cor pore fuimere
aſsignareque lineam fuperficiemuè comu. nem terininun potes, quo partes
corporis copulantur . Punctum eſſe lincæ terminum , or lineam ſuperficiei , e
ſuperficiem corporis nemo neſcit , niſi qui Euclidis doctrina dignus est ,ſed
illud unum maiori egeret indagine , quo nam pa&o lineaſitforſan etiam ima
mediatus corporis terminus ,ne id Ariſtoteles aſſerens , quippiam affe rat
contra Euclidis fcitum, prima enim deffinitione undecimi Elemen torum inquit
ille , corpus ſiue ſolidum est, quod longitudinem latitudia nem ocraßitudinem
habet , folidi uero terminus fuperficies est , uide ergo quod ſolidi
terminusnonſit linea ipfa , ut Ariſtoteles aſſerit. Ves rum quòd linea
terminusfit corporis manifeſtum est , fi idquod Euclides ait deffinitione nona
undecimi elementorum non ignores ,folidus(inquit) angulus est , qui ſub
pluribus duobus planis angulis comprehenditur non exiſtentibus in eodem
plano,ad unum ſignum conſtitutis , plurium linearum igitur contactus ( nulla
ſuperficierum habita conſideratione) qui estfolidus angulus corpus terminat,fub
illis igitur lineis angulusfox Tidus contentus , terminusest illius folidi,
ville lineæ termini ſuntnes dum illarum ſuperficierum corpus ambientium , quin
etiam inmediati terinini funtillius corporis , cum linea continentes illos
angulos in puran Etum unum concurrant. Preterea idipſum Euclides afferit de
angulo, quod fit immediatus terminusfolidi problemate tredecimo, libri tredeci
mi Elementorum , & in fequentibus quatuor problematibus idem uit ,in quibus
docet conſtruere corpora regularia , queſuis angulis tangant ſu perficiem
concauam circumſcribentis pheri , qui quidem uniuerſi angis li ſub tribus ad
minus &pluribus tribus rectis lineis ad unum pun &tum concurrentibus
continentur , &punctus ille , nedum est linearum terris minus, fed etiam
regularis corporis finis ,cum ſit terminus omnium linea rum , quo termino
tangit fphærum ,patet igitur id, quod Ariſtoteles dixit de lineis nedum
ueritatem habere , ſed ut etiam pun tusſit terminus ips fius corporis, ſecundum
Euclidis ſcitum, perinde dicendum eft de ſuper ficie , quòd non tantum lineis ,
ſedetiam ipſis pun tis terminata fit,fide ea, quæ rectis lineis claudatur
fermofiat, øde corpore Iſoperimetro, fiue quod pluribus re&tis
fuperficiebusclauditur , hocquod dictum est in telligatur . Adid uero , quod
Euclides primo Elementorum ait deſuper ficie fiuefigura rectilinea deffinitione
uigefima , refponde , quod uerum 8 DE OVANTITATE. dicit , figura rectilinea ,
inquit, contineturfub lineis reftis , enon die cit contineturfub pun£ tis ,
agequod contineriſub pun &tis diuerfum eſt, ab terminari punctis .
Ariſtoteles hoc uidens , dixit corpus lineis termia narinon tamenfub illis
contineri,quod deſuperficie ſimiliter eft dia cendum . Vel etiam reétè dices ,
fi ita fenferis , quòd figura in uniuer. ſali , linea claudatur , neque
una,neque pluribus, & corpus in uniuer far liambitu ſuperficie claudatur ,
neque itidem una aut pluribus , o neua tra deffinitio fic in uniuerfum accepta
habet exclufiuam particulam ,cum autem ad circulum uel ſpherum defcenderis,unum
linea una clauditur re liquum uero una tantum fuperficie ſcias elſe claufum
,reliquæ uerofigur re rectilineæ non deffiniuntur cum particula exclufiua
abEuclide,vel di cas , quòd in littera Ariſtotelis, eſt fua met interpretatio,
ubi enim dixe rit , in corporefumere aßignarequelineam comunem terminum ,
statim correxit ſe, dicens fuperficiem eſſe comuném terminum corporis & Ex
* clides non dixit quòd punctus , ſed quod angulus tangat fphærum . Rurſus in
pago quidem , multos homines , Athenis au tem paucos dicimus eſſe, qui tamen
funt illis plures , & in domo quidem multos in theatro uero paucos,qui
quidem & ipfi multo funt illis plures .Aduertas Ariſtotelem utroque exi
emplo, o paucos & multos dixiſſe , comparationem faciens hominum ad loca in
quibusfunt , non habens rationens hominum ad homines , ut fimile exemplun
daretur ſiquis dicat pauciaurcifunt in arca , @mule ti in crumena , fi in
crumena eſſent tantum fex , decem in arca , DE HIS QV Æ AD ALIQVID .
VADRATIONIS enim circuli , & fcibilis eſt, ſcientia quidem nondum eſſe
uidetur eft autem fcibilis ipſa. Quadam libertate hoc lo co loquutus eſt
Arift.afferens id quod ignorauit, quia ſi non ignoraſcet eam ,habuiſſet
illiusſcientiam , o non dixiſſet (niſi forſan mendatio) ſcientia quidem now dum
eſſe uidetur,fciens etiam quod nullus adtempus uſqueſuum proprijs principijs
quadraturam inuenerit , nequecitra ad hanc ufq; horam ,quis
oftenderit,nififorſan quibufdamſuppoſitis,quu ,et ipfa non minoriproba tione
egerent quàm ipſa circuli quadratio ,fedquidper iftud exemplum utilitatis
Ariſtot. attulerit , illud effe puto , ut ammoto fcibili, oſcien tia
ARISTOTELIS. tia eiusremoveri neceſſe eſt , ut putacaufa nunquam cauſante
nuſquam effectus erit , quadratio igitur circuli cum non ſit , nequefcientia de
ip . fa quadratura circuließepoteft . Quid nam antiqui de quadratura ſe na
ferint in fractionibus Mathematicis declarabitur . DE QUALI ET QVALITATE.
VARTVM qualitatis gen'us eft figura & ca quæ circa unumquodque eft forma ,
& in fuper rectitudo , & curuitas, & quicquid eſt hiſce fimile . De
figura fcias Ariſtotelem lom qui, non ut de ea Geometrica abſtracte
conſiderata, Jed de figura in re figurata exiſtente ,ueluti in fubie & o,
idem de forma, rectitudine , atque curuitate intelligas. Aduere tendum tamen
ordinem quendam feruaffe hoc loco Ariſtotelem in his que proponit , à
ſimpliciori ad magis compoſitum . Primo enim defi gura ,quæ linea , uel lineis
clauditur , fecundo de his , quæ ſimplici bus lineis , aut ſuperficiebus
uniformibus , nempe uel tantum re tis , aut tantum curuis , uelſolummodo
conuexis ,aut etiain tantum concauis continentur , modus iſte ſecundus à primo
non nihil differt , in hoc differentia est inter utrumque , quia primomodo de
co quod planum eft , ueluti ipſa papyrus , ſecundo modo, de eo quod corpus,
utmons , ficuti uulgus,quodfubtile eſt (ut papyrus) planum uocat , quod autem
eft ualde craſſum , corpus appellat, ut montem, a facilioriperſuadens tya
runculis ea,quæ etiam à uulgo principium cognitionis ſumunt. Triana gulus autem
& quadratum cæteræque figuræ , non uidens tur talem rationem ſubire .
Ariſtoteles parum ante dixit , que: nam ſint et , quæ magis, minufue ſuſcipiunt
, ut puta qualia ipſa, gridus fufcipiunt intenfionis ,modo uides quod neque
trianguliis,nequequadras tum ,qualia ſunt , fed quanta, que intenſione
remißioninonſunt apta. Nam ea, quæ trianguli rationem
circulinefuſcipiunt,trians guli fimiliter , aut circuli ſunt oinnia . Senſus
huius eft , quòd triangulus. quilibet , uel omnia que triangula ſunt, niſi id quod
tribus clauditur lineis ,aliud non eſt, a circuli omnes , nil aliud funtquam
und çlaudi linea , in cuius medio punctus eſt quod centrum dicitur, à quo oma.
nes recte linea uſque ad circunferentiam ductæ inter fefunt cquales.com hoc
nihil aliud quàm circulus eſt,nõ enim triangulus circulus,neque cira B 10 IN
PREDICAMENT A culus triangulus eft , neque utrunque aliquid unum eſt , licet
utrunque figura ſit ,ſed hoc æquiuoce , & non uniuoce eſt. Neque te turbet
hoc quia Ariſtoteles prius de triangulo , « quadrato propoſuit,c finit ſena
tentiam de triangulo , e circulo , & non de triangulo , quadrato , quia de
triangulo o quadrato dicens , ſubiunxit cæteræque figuræ quo uerbo etiam
circulă intellexit, de quo ultimo loco explicite loquitur. Eorum uero , quæ
rationein hanc, non ſuſcipiunt, nihil alio magis minúſie tale dicetur,non enim
quadratum ma gis quàm altera parte longius circulus elt , quippe cum neu trum
circuli fubeat rationem atque fimpliciter. Si non fubeat propoſiti, in quofit
comparatio rationem , alteruin altero magis tale mi nuſueminimèdicetur .
Quadratum neque circulus eſt, nec etiam altera parte longius circulus eſt ,cum
igitur propoſiti circuli rationem neus trum ſuſcipiat , neque quadratum
circulus eft ,nec etiam quadratum mas gis quam altera parte longius circulus
est , idem age de altera partelons giore. Atquefimpliter pro hoc uerbo, ſcito
Ariſtot.ſententiam hanc eſe , o ſi quadratum , &altera parte longius
circulus eſſet, atque in eo conuenirent, quia tamen neutrum eorum , atque
circulus, non eft qualis tas , fed quantitas,ideo à quadrato, o abaltera parte
longiori, lymas gisminúfue,ſecludenda funt.Expoſitio hæc uidetur contra id ,
quòd Aris ſtoteles determinauit in capite de quali oqualitate , quo loco ait
quara tum qualitatis genus eft figura,ad quodfoluendum , dicas figuram capi uno
, atquealtero modo,primo figura conſideratur in ſe abſtracta aſus bie &to
quocunque , cmſic quantumfeu quantitas eft,o non qualitas,nec etiam in
quartoqualitatis genere ,alio autem modo conſideraturfigura in refigurata, cui
largitur tale eſſe, or ſicfigura in fubieéto aliquo,quam. litatis naturam non
refutat . NequeMuſica , cuiuſpiam muſica , niſi generis ratione ad aliquid ,
& ipſa dicatur. De uniuerſali Ariſtoteles,& non para ticularimuſica
loquens , ſiue humant uoce uel inſtrumentis praxis fiat, uel Theorica ipſa
intelligatur , biffariam eam conſiderat, quatenus à fubieéto uel obiecto ſeu
genere ipſo caufetur,et quatenus cauſata in ſubie eo quopiam eſt , primo modo
ad fubie &tum quod genus uocat , tan quàm ad effectricem caufam reffertur ,
ut ad ſonum numeratum , non due tem ad Platonem in quo recepta est , relatiue
dicitur. Vel etiam dicas, quòd refertur rationefuigeneris , ut quatenusfcientia
adfcibile. ARISTOTELIS. IL DE MODIS PRIOR IS. HR N DEMONT SRATIVIS ſcientisprius
eſt nimirum atque pofterius ordine, Elemen ta nanque deſignationibus ordine
priora ſunt . Scito elementa , ut deffinitiones , petita , animi conceptiones
precedere ipfis propoſitiones in ſcientijs , id quod in Euclidis methodo
patet,proa poſitio nem ſubſequitur expoſitio , quam expoſitionem statim
deſigndz tio diagrammatisconſequitur , hancdeſignationem ( que beneficio petia
torum tantun fit) determinatio , determinationem demonſtratio , ſexto loco
epilogus, ſiue propoſitionis repetitio. Vel dicas elementa ,ipſatana tum eſſe
petita reſpectu deſignationis tantummodo. Elementa etiam non tantum principia
,utdeffinitiones,petita , & conceptiones animi, reſpectu propoſitionum ,
que per ea probantur dicuntur, fed ipſa propoſia tiones probatæ , quatenus ad
alias fequentes propoſitiones probandas fumuntur , dicuntur elementa , hac de
caufa , quidam uolunt libros quindecim Euclidis uocari elementa , alij nero non
ob id, quindecim libri dicuntur elementa ,ſed quia fingulis libris fua
affiguntur principia , ut apud Campanum , ſed neuter modus dicendi placet, quin
potius elea menta dicuntur oinnia , quæ in illis quindecim libris continentur,
nedum propter deffinitiones,petita, Oʻanimi conceptiones ,ut iſti ,neque prou
pter hoc , quòd alique prime propoſitiones , que demonſtratæ funt , fint pro
alijs propoſitionibus fequentibus probandis principia , &elea menta ,ut
illi dicunt , quia tunc ultima propoſitio noneſſet elementuin ad. quippiam ,
cum ipſa ultima eſſet, ſed elementa , atque principia omnia illa dicuntur ,
reſpectu omnium propoſitionum per ipfa probandarum infcientijs fubalternatis ad
illos quindecim libros.. Bij 12 IN PREDICA MENTA DESPETIEB.V.S. MOT V S. i bЬ
& CRET 10 ' , alteratio non eft. Hoc perſuaa det Ariſtot. exs * emplo
Geometri co ( quod etiam multis modis in Arithmetica Boetius docet)Gnomon
quidem ,ut in fecundo clementorum deffinitione ſecunda ha betur,figura eſt ſex
laterum ,compoſi ta ex uno quadrato conſiſtente circa diametrum , « ſuplementis
duobus , quefigura ab Euclide primo elemen torum propoſitione tirgeſima quar ta
habetur, quæ est 6 , quam fi huic addideris quadrato a , quadratiſpe ties
minime alteratur, licet fiat acre tio quantitatis , ſic ut in hac figu ra ab ,
quod una diuerfa peties alteri fpetiei addita non uariet fpes tiem ,exempla
plus centum in tabule Pythagora , apud Nicomachum , Boetium ,in numeris
inuenies , ut pu ta ex duobus longilateris altrinfecus ad quadratum pofitis,
bis medio fumpto quadrato , quod fit, quadra = tumest ,licetfacta ſit acretio,
ut ex duobus , fex , vbis quatuor, ut ofto , ſexdecim exoritur ,qui etiam
quadratus eft , pari modo ,ex duo bus quadratis, er bis fumptomedio
longilatero, nempe ex quatuor, e nouem ,bisfumptoſenario longilate ro, uiginti
quinque quadratus ortus alb ARISTOTELIS.i . 13 est , que intelligas uolo ex in
ateria primi quadrati , atque longilateri, ut ex ipſis unitatibus , ego non de
numeris tūlis formaliter fumptis , cum prius corrumpaturſpeties preceden tis
quadrati minoris, atque longilas • teri, in aliam petiem maioris quas drati , qui
ex illis oritur , acretio . igitur ubique facta eſt , nulla intera ueniente
alteratione in fpetie ipſius quadrati , licet e gnomonis atque longilateri
apertiſsime facta fit alte ratio . Aduertas tamen , ad id quòd Ariſtot. ait in
hoc exemplo de addia • tione gnomonis ad quadratum , ſic , utfpetiesquadrati nõ
alteratur.licet • fiat acretio , in Geometria uniuerſali ter ueritatem habet ,
fed non eſt ita planum in Arithmetica, niſi intelles Xeris de fpetie
ſubalternāte ,quòd ip fa non uariatur, uaristur tamen qua dratiſþeties
ſubalternata , oſpetia liſsima,quòd patet ex eo quòdſi nu mero quadratoſexdecim
,addus gno monem uiginti, statim ex pariter paa ri, ut puta ſexdecim , fit
impariter par, uidelicet triginta fex , quorums uterque , o fifit quadratus ,
diucrfarum tamen fpetierum funt , ut ex libris Euclidis de Arithmetica mani
feftum eft ,quod exemplo fubſcripto manifeſtatur fatis, quapropter uni
uerfaliter Ariſtotelem intelligas de quadrati , quatenus quadratum eft ',
Apetie , hoceſt de fpetie quadrati in uniuerfum , non de quadratiſpe= tie
ppetialifsima . vel etiam dicas quòd Ariſtoteles intelligit exemplifia cari in
Geometria uniuerfaliter non autem uniuerfaliter fimpliciter , hoc oft non in
omnibus difciplinis . 11 14 : IN PRIM VM LIB . IN PRIMO PRI O R V M AN T E SEC
V N D V M S E C.TV M. n A M fine uniuerſali nô erit fyllogiſmus aut non ad
pofitum aut quod ex principio pea tetur,ponatur enim mulicam uoluptatem &
c. Sed magis efficitur inanifeſtum in de ſcriptionibus, ut
quòdæquicruriæquales, quiad baſin , ſintadcentruin ductæ a ,b , fi igitur
æqualem accipiata , c , d , angulum , ipſib , d , c ,non omnino exiſtimans
æquales , qui ſemicirculorum , & rur. fus c, ipfi d ,non omnem aſunens eum
qui ſeçti. Amplius ab æquis exiſtentibus , totis Angulis , & ablatorum,
æqua les eflc reliquos e ,f; quod ex principio petet, nifi acceperit ab
æqualibus æqualibus demptis ,æqualia dereli nqui. Plaa num igitur quòdin omni
oportet uniuerſale exiſtere. Si dubitaret quis ,an. ſemicirculi eiuſdem ornnes
anguli ſint equales, ſic perfuaderi uidetur, b omnes diametri eiufdem
circuliſunt æquales per primam deffinitionem tertij elementorum ,peripheria
eiuſ de circuli uniformis eſt per xv. def finitionem primi elementorit, o me
dietas circunferentiæ est æqualis al teri medietati eiufdě circunferentia
cumque omnes recte à centro ad cir cunferentiam du &tæ fint æquales,fe
quitur igitur , quod duo anguli a , c , d ,cb, d , c , ſemicirculorum eiufdem
circuli a , b , c , d , ſint ad inuicem æquales , hæc perfuafio fiat ei, qui
non omnino exiſtimat æquales , qui ſemicirculorum , rurfus inquit c , ipſi d ,
angulus uidelicet uterý; minoris portionis æqualis eft alteri,nonaccepto toto
angulo, ideſt,toto angulo ſemicirculib, d,c, e a cd , quod ſic perſuadetur,
árcus c, d , eiuſdem est peripherie , que unir formis eſt, c , d , eſt unice,
om eadem re&ta ,ſi igitur utrunque angus lorum minoris portionis ab
utriſque ſemicirculorum angulis detraxeris, qui anguli reininent uidelicet e,
of, erunt æquales æquicrurus igitur. PRIORVM ARISTOT. 15 triangulus habet ad
bafim poſitos æquales angulos , quod demonſtratum fuit ,ſumpta iſta uniuerſali,
ſi ab equalibus æqualia aufferantur , reli qua æqualia remanent, IN PRIMO PRIOR
VM ANTE TERTIVM SECT V M. ECVNDVM uero unumquodque entium elia gere , ut de
bono ,aut fcientia,priuate auten fecundum unamquainque , funt plurima quare
principia quidem quæ ſecundum unu quodq; funt,experimenti eſt tradere,dico au
tem ,ut Aſtrologicam experientiain aſtrolo gicæ ſcientiæ , acceptis enim
apparentibus fufficienter, ita inuentæ funtaſtrologicæ demonſtrationes, &c
. Compertum eſt aſtrolabio ſolem plus temporis conſumere à principio Arietis ad
uſas finem Virginis, quam à principio Libre uſque ad Piſcium fines,idquod o
hiſtoria traditum eft , propter hoc etiam Hiſtoria dereli&tum est Solem
tres habere orbes, quorum medius,eccentricus eſt. Quibus habis tis
apparentibus, facile eftdemonſtrationes de Sole concludere,oſimili ter in
unaquaque diſciplina , prima principia hiſtoria data , &dereli Eta ſine
probation funtpofteris , quibus principijs tanquàm uerisſupa poſitis ( hiſtoriæ
enim proprium eft ueritatem narrare) demonſtratio nes fiuntſi autem de
principijs aliquafiat demonſtratio ,illam « impro priain , a poſteriori, feu à
ſigno eſſe , nemoeſt quineſciat . ANTE MVT V AM SYLLOGISMO RVM RESOLVTIONEM .
On oportet autein exiſtimare penes id, quod exponimus , aliquid accidere
abfurdum nis hil cnim utimur eo , quod eft hoc aliquid elle ſed quemadınodum
Geometra , pedalem , & rectam hanc , fine latitudine dicit, quæ non ſunt:
Textushic exponitur primo pofteriorum T. 52 fed hic tantum dubitatur,quo pacto
intellectus ea poſsit ſufficienti appres henſione capere, quenon funt, ut quæ
nunquam , fub fenfu fuerunt ? 16 IN SECVNDVM LI B. Adfecundum refpondeo, quod
animam eſſe , intelligit intellectus , quam tamen nunquam uidit oculus, aut
manus tetigit . Ideo multa intelligit ins telle &tus,quorum nunquamſenfus
ſenſationem habuit. Ad primum dico, quodficut intellectus concipit coclearem
artem abſtraftam , quætamen kon eſt , niſi indeterminatis , ſingularibus
hominibus , fic etiam li ncam ſuperficie?n intelligit , que tamen non ſunt ,
niſi in linea atrd . mento picta , o ſuperficie , in corpore naturali , IN
SECVNDO PRIORVM CAPITE DE PETITIONE PRINCIPII. - o cautem eft quidem fic
facere,utſtatim cens ſeat quod propofitum eſt , contingit uero, & in alia
tranſeuntes apta nata per illud mon ſtrari, per hæc demonftrare quod ex princie
pio,uelutiſi ,a, monftretur per b ,b autein per C, c autem natun efſet
monitrari per a accidit cnim ita ratiocinantes ipſum a ,per ipſuninet a
monſtrare, quod faciunt, qui coalternas putant fcribere latent enim ipſi
ſeipſos talia accipientes, quæ non eſt poſsibile monſtra : re non
exiſtentibuscoalternis, quare accidit ita ratiocinans tibus unumquodque eſſe
dicere, fi eft unumquodque , ſed ita omne erit per feipfum cognoſcibile , quod
impoſsibile eft.Si propoſitum ſit probare , quod e ſit a , &id oftendatur
per mes dium b,c fieret talis fyllogiſmus ( e est b , beſt a , igitur e eſt 4.
Pros batio primæ minoris uidelicet quæ eſt hæc , e eſt b , fit per hoc medium f
, ut in hoc Syllogiſino ( e eftc, c, eſt b, igitur e eſt b) Cuius minor , uis
delicet hæc , & eft c ,fiprobetur . Tunc reſumitur prima concluſio pris mi
Syllogiſmi,quæ à principio probanda erat, ut in hoc Syllogiſmo e eſt 4,4 eſt
c,igitur e eftc) &fic e eft a ,quia e eſt a, Ofic error ijte uerfatur in
probanda minore primi Syllogiſmi per plura media per c, oper a , propoſitio
uero que probanda proponebatur , hæcuidelicet,e eft a, per tria media per b.,
perc , & per a , probatur , ſimiliter errant illi, qui nituntur probare
parallelas effe per hoc, quod Triangulum habent tres æquales duobusreftis ,
quod quidem hoc probaretur modo, ſit triangu = lus a , b , c . cuius latusbc,
ſi protendatur ,caufabitur augulus d, c, d , exterior equalis duobus angulis a
, b , intrinſecis ex oppoſito colla * catis PRIORVM ARISTOT. 19 [ b N catis ,
ut patet ex prima parte tri q geſimæſecunde primi elementorun Euclidis , à
punéto c , parallela dua catur ipſi b , a , quæ fitc, e, patea bit per ſecundam
partem eiufdemn tri geſimæſecundæ primi elementorum , - quòd triangulus a , b ,
c , habebit tres duobus re&tis æquales . Si aus tem fumatur probandum quod
b , a , uc , e , fint parallelæ , per hoc medium , quia triangulus b , a , c ,
habeat tres duobus re&tis æqua . les , ideo ipſe parallelæ ſunt , ſic ,
exterior æqualis eft duobus intrinſe cis ex aduerſo poſitis , qui exterior
angulus a , c , d , in duos pars titur angulos in a , c , e ,we, c , d , , c ,
e æqualis eſt b , a,, ere, c , d , eft æqualis a ,b , c ; quorum utrunque
probatur per lis neas eſſe parallelas,ut per uigeſimamnonam primi elementorum
,feques retur igitur , quod a ,b ,oc, e , parallelæ funt,quia parallelæ ſunt,ut
b , a ,oc, f , parallelæ funt,quia triangulus a , b , c , habet tres duoc bus
rectis equales , fed a , b , c , triangulus habet tres Angulos duos bus reftis
equales , quia a , b , & c,e, parallelæ ſunt,igitur a, b ,a col, parallele
ſunt , ,quia parallelefunt, quod uanum eft , oprobare quipe piam prius per
aliquod pofterius , quod pofterius æget illo priori adſui probationem . Aliter
exponatur Textus,ut fiintentü fit defcriberec, d , queſit parallela ipſi a , b,
per uiges ſimamtertiam primi Elementorum d fiat angulus e , c , d, æqualis
angulo 4,6,6, & argue poſtea ,quod d , 0,4 , ſit æqualis angulo b , a , 6 ,
quod eſſe non poteſt, niſi b , d ,egu c , d ," parallele fupponantur , fic
b connectatur inductio , quia Trian gulus a , b , c , habet duobus reftis
æquales,parallelæ funt a ,b , c,d, &quia paralellæ funt , ideo Triangulus
habet duobus rectis æqualis , igitur paralella funt , quia parallele fit . a :
í с 18.INSECVNDVM LIB. DE EO QUOD NON EST PENES HOC. VONIAM idem utique falſum
per plures fup pofitiones accidere, nihil fortaffe inconue niens ,
ueluticoalternas coincidere, & fimas jor eft extrinſecus intrinſeco , &
fi triangu lus haberet plures rectos duobus . Quod autem parallela a , b , c, d
, coincidunt fic perſuaderiui. detur Angulus extrinfecus e , 8 , 6, maior eft
angulo intrinſeco g, b , d, (quod quidem ſummitur falfum , pe nes quodſequitur
impoſsibile ) ſed 9 4,8,6,6,8, ho per xiij.primi a -b Elementorumſunt æquales
duobus re&tis igitur b, 8,5,64,6,8, erunt d minores duobus reftis per illam
igi tur communem fententiam , ſi una f recta ſuper duas rectas ceciderit at que
ex una parte cadėtis linee duo anguli intrinſeci fuerint minoris duobus reétis,
illas duas reétas ad pars tem illorum angulorum concurrere neceſſe erit, fi
protrahantur . Et fi triangulushaberet plures rectos duobus . Duo Anguli g , h,
k ,68, k , h , ſuntmaiores duo . bus re&tis , multo magis igitur b , h , k
, d , k , h , ſuntmaiores duos, bus rectis,igitur duo a , h , k , k , h , ſunt
minores duobus res a. h b & is , quia omnes quatuor 6 , h , k. a , b , k .
d , k , h . @c , k , h . og ſunt æquales quatuor reftis per des cimamtertiam
primi Elementorum bis fumptam ,igitur b , a , d , c , f adpartem a , c ,
protracte concurs rent, per illam animi conceptionem ,fire &ta ſuper duas
reétas cadensfes cerit duos angulos'ex una parte minores duobus reétis, illa duæ
lineæ ad illam partem protracte neceſſario concurrent . ! Co Cс PRIORVM
ARISTOT. IN DE DECEPTIONE QVÆ FIT SECVN DVM SVSPITIONEM. ELVTI fia , ineft
omnib , buero omni c , a omni c inerit , fi itaque quiſpiam nouit quòda ineſt
omni , cuib, nouit & quòd cui c, fed nihil prohibet ignorare c, quòd eft,
ut ſia duo recti, in quo autem b , triangulus,in quo uero c , ſenſibilis
triangulus , fufpicari nanque poflet aliquis non eſſe c ,fciens quod omnis
trian gulus haberet duosrectos, quare fimulnoſcet,& ignorabit idem . Textum
ſimilem habes in pofterioribus in principio primi,preu ter ea , quæ ibi
dicentur pro nunc ad explanationem huius Textus, prie mo littera exponatur ,
omne b eft a , omne c eſt b , igitur omne ceſta , uel omnis triangulus habet
tres duobus rectisæquales , qui conſtitutus eſt in tabula est triangulus ,
igitur qui conſtitutus eft in tabula habet tres : duobus reétis æquales,ſed
ſimul dicas o charateres terminos,omne, b trigonum eſt habens tres angulos
duobus rectis æquales , omnec fen . fibiletriangulum eſt triangulum , igitur
omne c ſenſibile triangulum habet tres angulos æquales duobus re &tis . Cum
teneret quis hanc uni uerfalem , omnis triangulus habet tres angulos æquales
duobus reétis nondum fciebat , quòd ſenſibile triangulum effet huiuſmodi , quòd
han beret tres , uidelicet duobus re &tis æquales , niſi potentia , non
autem actu ; quàm primum autemfyllogizauit ſubſumptaminore , statim intua. lit
, «cognouit , quod ſenſibilis triangulus , tres duobus rectis pares haberet.
Cum autem ait ſuſpicarinanque poſſet aliquis , non eſſec , non eft
intelligendum , ſic ut Græci , o omnes exponunt , quaſi quod ignos retur an fit
c , fed hoc non uult Ariſtoteles dicere ,ſed cum inquit fufpicari nanque poſſet
aliquis non eſſe c , hoc intelligas modo , quod stante prima uniuerſali,
poterit ignorare anc, habeat tres duobus re &tis equales , licet non
ignorauerit c effe , fed ignorabit c eſſe huiuf modi, utputa , quod habeat tres
duobus rectis æquales ; ſcietigitur po tentia in uniuerſali propofitione , Waétu
ignorabit in particulari ante quàmfiat fyllogiſmus. Syllogiſmo autem fačto ,feu
fa & ainduftione Geos trica de qua inprimo posteriorum Textufecundo)a &
tu ſcit, quòdfenſis bilis triangulus duobus re&tis tres pares habeat,nihil
igitur prohibetfi . Cij 20 IN SECVN. RIO. ARIST. mulſcire , ignorareidem
ſecundum diuerſa , ut ſcire potentia iniſud uniuerſali , & antequam fiat
inductio, oignorare ſimpliciter , ut pus ta in particulari. DE A BDVCTIONE. VT
Rurſus fi pauca ſint media ipſorumb , c , nanque & fic proximius ipfi
cognoſcere uelutiſid eſſet quadrati, in quo autem e ,re etilineum , in quo uero
z circulus , fi ipfius é z ſolum eſſet medium ,hoc , quod eft cum lunulis,
æqualem fieri circulum rectilineo ce ſīpoflet prope ipfum cognofcere . In
predicamento ad ili quid circa quadrare circulum fuit determinatum quantum
fiebat fa tis ad Ariſtotelis intentionem , e de quadratura fuſius in fragmena
tis noftris , fuper Logicis , multa declarabo , quo ad preſentem te - xtum
Ariſtoteles facit fyllogifmum , cuius minor , cumſit dubia e oba ſcura , dicit
unum eſſe medium ad probandam illam , arguit e, rectilis neun , d quadratur ,
ſed z , circulus fit reetilineum , igitur circulum quadrari,poſſet quis eſſe
prope cognoſcere, minorem tentauit Antipho , Hypocrates chiusprobare per id
medium , quod lunulas ad rectilis neas figuras nixi ſunt reducere, diuerſis
tamen medijs , alio enim mos do tentauit Antipho , o aliter Hypocrates chius ,
qux figure reetilis neæ reducebantur poſtea ad quadratum , eo artificio , quo
Euclides docet ultima ſecundi Elementorum , oſyllogiſmus connectatur ſic , ut
fimul dicam characteres , me terminos Ariſtotelis , e , rectilinea figura , d
quadratur , fed z circulus e figura rectilinea facta est, igitur zcirculus, d ,
quadratur . 21 IN PRIMVM LIBRVM POSTERIO RVM ARISTOTELIS, PETRI CATHENÆ NOVA
INTERPRETATIO . TEXTVS SECVNDVS. VPLICITER autem neceffarium eft præ cognofcere
, alia nanque , quia ſunt prius opinarineceffe eft,aliaueroquid eft , quod
dicitur intelligere oportet, quædam autein utraque , ut quoniam omne quidem ,
quod eſt , aut affirmare, aut negare uerumeſt quia eſt , Triangulum autem
quoniam hoc fignificat ; ſed unitatem utraque , & quid ſignificat, eſt quia
eft , non eniin fimiliter horum unumquodque manifeftum eſt nos bis . Græci
omnes , pariter & Latiniuniuerſi confuſione plenum rede dunthoc in loco
Ariſtotelem , nedum qui ſcripſerunt , fed etiam recens tiores , quihac
tempeſtate eum interpretantur , & priuatis colloquijs, epublicis etiam
lectionibus. Anſammultorum errorum pofteris omnis bus prebuit . Ioannes
Grammaticus Cognoinento Philoponus , ſuper hoc Textu in cuius expoſitione
plufquain errorum mille contra Ariſto telis ſententiamfcripſit , qua decaufa ,
ipfa ueritate fretus, &uniuers fæ logicorum utilitati conſulens , lucidum ,
facilein , atque clarum Aris stotelem in hac parte reddere decreui, o inſaniam
ignorantiæ depri = mere, ne etiam in futura tempora amplius à forticulis
doctrina tamclan rißimiPhilofophilabefactetur , ſcito in primis , tres eſſe
modos pres cognofcendi, quos Aristoteles ponit , in hoc Textu , unicuique hos
rum modorum aptißimum ,atquefacilimum exemplum poſuit , feruans exemplorum
ordinem cum ordine modorum precognofcendi, ſic , ut primo precognofcendi modo
primum exemplum aptet ,ſecundo modoſe cundum , atque tertium tertio . Nequete
perturbet , quod Ariſtoteles IN PRIMVM LIB . ait , dupliciter fit neceſſarium
præcognoſcere'. Tripliciter autem dixes rim ego , primo autemmodo , opus eft
præcognoſcere , quia eſt tantum, alio autem modo , quid eft id , quod nomen dat
intelligere folummodo quos duos modos ab inuicem ſeiunctos , in tertio modo in
unum aggregat uerum methodum compoſitiuam ſeruans . Duo igiturfunt modi precos
gnoſcendi, alter quidem in parte oſeparatim , reliquus uero in totum , oin
parte quidem biffariam . Vnus tantum quia eft ,reliquus uero tans tum quid
ſignificet , in toto uero ille eft modus , qui horum utrunque in ſe comple
&titur . Exempla Ariſtotelis multos Geometric ignaros turs batosego
stupidos reliquerunt , qui ab Apoline reprehenfi , &fpreti à Platone ,
uagantes fomniauerunt , hoc in loco , tria attůlliſje Ariſtotes lem exempla ,
in ſcientijs diuerſis . Nempe Methaphiſica ,Geometria , O Arithmetica , quod
chimericum eſt , ex ipſa uunitate magis uanum , fi enim ueftigijs fapientum
Methaphiſices,Geometrie , & Arithmetica, prima limina attigiſſent, non
incidiſſent in hasſuas philoſophicas furias, dicunt enim , quod artificio , id
Ariſt. fecit,ut de demonſtratione agens, que inſtrumentum uniuerſale est , tria
exempla (ſuam oftendensfacuns diam ) in ſcientijs tribus fpeculatiuis ,
&uniuerſalißimis attuliffe , ſic , uttandem concludant in ſua expoſitione
Ariſtotelem uoluiſſe equinam ceruicem humano capiti iungere , &uarias
plumas diuerſarum ſcien tiarum inducere , ut tandem tria formoſa , &pulcru
exempla deſinant in nihil dicere. In una demonſtratione , datum eſſet unitas ,
queſitum triangulus , e principium Methaphiſicum , ualeat pereatque cim ins
terpretibus hæc interpretatio . Non est Ariſtotelis confuetudo , exeine pla
afferre ( aliter effet edire &to contra exemplorum naturam ) niſi ,ut
do&trina , que aliquatenus non innitiatis uidetur obfcura , atque diffi
cilis , fole clarior , atque perfacilis omnibus reddatur , quid rogo cons
fufius, quàm in una re logica explicanda , tria exempla mutila , o tim diuerfa
afferre ? ut in unotantum quia,in alio exemplo,folum quid ,c . in tertio
exemplo , ey quia , &quid , ut tandem in piſcem definat fora mofa
demonſtratio. Dico , omnia tria exempla attulliſſe Ariſtotelem in unica atque
determinata Arte ; uel diſciplina Geometrica , quicquid Niphlus fentiat &
fequaces , ex nulla eſt alia ueritas in hoc Ariſtotelis Textu , neque uerus
fenfus , qui ad Ariftotelem faciat preter hunc , quem fubfcribo , uelint nolint
omnes atque uniuerſi , qui philoponifena tentie initi uidentur, quem nullo modo
ipſemet nec alij recteintelligunt, fcito primum , quod de lineis re&tis a
centro ad circunferentiam du &tis POSTERIORVM ARISTOT. 23 1 Veruin eſt
dicere quod ad inuicem funt æquales, uel non equales, ut etian de quolibet
quidem quod est,aut affirmare,aut negare ucrum est,quia eſt, fimiliter,quòd quæ
uni og eidem funt æqualia interſe funtæqualia ,uel in terſe nonſunt æqualia ,
uerum est dicere quia eſt ,ſed alteram partem hu ius diſiun £ ti fummit
Geometra deffinitione xv. primi Elementorum , cum Similiter alterum alterius
diſiunéti partem prebet prima animi conceptio primi elementorum , &hoc est
uerum , quia est linearum à centro ad circunferentiam protractarum , ut
adinuicem ſintequales , « prima ani mi conceptionis ,utſiab æqualibus equalia
auferantur remanentia æqua lia erunt. Secundo loco exemplum poſitum est ,quid
hæc uox , Triangulus ſignificet,quod etiam fupponit Geometra deffinitione xxi.
primi Elemen torum , ex ſignificatfiguram tribus re &tis lineis contentam
,ſiue illud actu ſit ſiue actu non ſit,Quatenus tamen quæritur,nondü
habetur,poteft tas men eſſe. Tertio loco ponit Ariſt.unitatem ,quæ quidem
unitas , a quid ſignificet , quia eft ,utrunque habet . Hanc ego unitatem
contra oma nes loquentes , « ad Ariſtotelis ſententiam aio , eſſe non eam , qua
unaquaque res una dicitur,ut ea quæ eft principium numeri, ſed eſtres queuna ab
illa unitate , quæ eſt principium numeri dicitur , nempe una linea recta data
ſuper quam triangulum collocare oportet , ſiue ille fit æquilaterus , ut
Euclides proponit , uel iſoſcelesaut gradatus, ut Aris ſtoteles querit in
uniuerſum , quod quidem Proclum diadocum ,& Cam panumfuper primum primi
Elementorum , non latuit, quæ unitas linea feu quæ linea una concluditur in
decimaquarta primi Elementorum , tàm quàm queſitum , in qua quidem decimaquarta
primi Elementorum ni hil de unitate, quæ fit principium numeri, ſed, una linea
concludi tur , quæ linea una eſt datum inprimo problemate primi elementorum
Euclidis , de qua lineæ unitate precognoſcitur , quid , utſit a puncto in
punctum breuiſsima extenſio per diffinitionem tertiam primi elemehtoa rum ,
precognoſcitur etiam , quia est ,cum ipfa detur in prima pros poſitione primi
elementorum . Ab Euclidis igitur methodo non recedens Ariſtoteles facilitat,
declarat exemplis ubique locorumfuam do&tria hæc igitur uera atque germana
Ariſtotelis interpretatio eft , alia , ut dixi nulla , fomnia igitur quæcunque
diluantur , putas ne Arie ftotelem afferre illud Methaphiſice principium ,
nullo modo ad artem ali quam peculiarem contractum, uni Tirunculo in Logica
inſtituendo ? ubi Methodus? que maior ordinis peruerſio ? quis nam in Logicum
eua dere poterit niſi prius Methaphiſicis inniciatus fit? hec omnia uanis 11
nam , 24 IN PRIMVM'LIB. 2 tate plena ſunt, non faciunt niſi ad buccas inflandas
. De unitate aus temdicit Ioannes ſic Ariſtotelem intelligere , ſicut docet
Euclides pros poſitioneſextadecima ſeptimi Elementorum , fi unitas numeret
quemli bet numerum , quoties quilibet tertius aliquein quartum , erit quoque,
pernutatim ,ut quoties unitas numerabit tertium , toties ſecundus quar tum
numerauerit , datum inquit Ioannes , eſt unitas, quæ eft principium numeri, de
qua habetur &quid , & quia eft , o ſi hoc exemplo uidea tur Ioannes
ueritatem quidem dicere , licet non ad mentem Ariſtotelis. Dico tamen quod
Ariſtoteles neq; exponitur, & quòdfalfum eft,id quod Ioannes dicit ,ut quod
unitas,quæ eſt principium numeri , fit datum ,non enim eſt unitas datum in
ſextadecima ſeptimi Elementorum , fed unitas cum refpeétu ad numerum aliquem ,
quem numerat , eſt datum , que = ſitum autem eſt , ut ipfa tertium numerum
numeret , ut ſecundus nus merus numerat quartum , quemadmodum amplius
declarabitur in de tris plici errore circa uniuerſale.Preterea dignitas ſiue
premiſſa in hac loan nis indu &tione eſt duodecinaſeptimi Elementorum , que
probatur per precedentes , onon eſt immediatum principium ,exponitigitur
Ariſtoc telem per unam demonſtrationem , quæ non procedit per immediata prin
cipia , quod non eſt imaginandumin hoc propoſito , preualet igitur ex poſitio
de unitate lineæ , quia ibifit deductio per immediata principia ut per
xv.deffinitionem ,& prima animi conceptionem primi Elementorum Ecce quàm
aliena est loannis expoſitio ſuper Textum Ariſtotelis . Die co igitur datum ,
eſſe unam rectam lineam , quæſitum , ut ſuper ipfarn trigonum conſtituatur ,
&quod , id conſtitutum , ſit trigonum , probas tur per decimamquintam
deffinitionem , vprimam animi conceptionem primi elementorum . TERTIVS TEXT V
S. ST autem cognoſcere alia quidem prius cognofcentem . Aliorum vero , &
fimul notitiam capientem , ut quæcunque , con= tingunt eſſe ſub uniuerſalibus
quorum haa bent cognitionem ; quòd quidem omnis triangulus habet tres Angulos
æquales duobus rectis præfciuit , quòd uero hic , qui in ſemicirculo cft , triangulus
fit , fimul inducens cognouit. Duos modos ſciendi POSTERIORVM A R IST. 25
ſciendi hoc textu tangit Ariſtoteles , primus , qui eft per reminiſcens tiam,de
quo nondubitarunt antiqui . Alter uero, es ſecundus est , quo de nouo aliquid
ſcimus , qui fuit alienus ab antiquorum mentibus, ſur per hocſecundo , ſit
noſtra expoſitio . Ioannes Grammaticushanc para ticulam , fimul inducens
cognouit, interpretatur fic ,ut per inducen tem intelligat eum , qui habens
triangulum in ſemicirculo pićtum , ofub penula abſconſum , oftendat eum
triangulum eſſe , quaſi abijciens penus lam , ey aperiens manum obijciat ipfum
triangulumoculis uidere uolens tium , &Latini omnes fimiliter ,&
Aueroes fequuntur ipſum in hac interpretatione . Non poſſum non mirari hominisiftius
alias doétißimi expoſitionem & omnium fequatium ,que quidem interpretatio,
fi ads mitatur,statim uidetur , quod Ariſtoteles uanus ſophifta effectus , id
do ceat , quod ipſe reprehendit contramale foluentes,ubiinquit in fequenti
textu,Nemoaccipit talem propofitionem ,oinnis triangulus quem tu ſcis eſle
triangulum ,quod utique illi agebant de dualitate abſconfa inmanu,quòd
neſciebant eameffe parem , quouſq;nonuiderent quòd illa eſſet dualitas .
Ioannes &omnes interpretes Ariſtotelis allucis nati ſunt, putantes quod
illa littera Ariſtotelis ſic debeat legi, quod ues ro est in femicirculo
triangulus fit , fimul inducens cognouit ;cognouit quidem quodfit triangulus ,
per induétionem , id eſt per oſtenſionem ad oculum , aperta manuin qua
abfcondebatur , ſic ut illa induétio certificet de eſſe triangul , quod
ridiculum est , o uſque ad hæc tempora , falfum pro uero habitum ,henuga
deſtruunt Ariſtotelis ſententiam ; non enim Ariſtoteles de trigono in
ſemicirculo defcripto dubitat an trigonum ſit , neque igitur estopus, ut dubium
remoueatur per oſtenſionem ad oculum quòd trigonum ſit , quia ut dixi, hoc non
reuocatur in dubium , ſed has bita , hac uniuerſali ,omnis triangulus habet
tres æquales duobus res Etis , dubitatur an qui in ſemicirculo eft triangulus ,
&qui quidein a &tu uideturſit huiufmodi , utputa , quòd habeattres
angulos equales duo bus rečtis , quod quidem manifeftatur non per ſenſitiuum
indu &tio s nem , quia per illam oftenditur tantum quòd fit triangulus , ut
illi mda li interpretes exponunt. Neque id oftenditur per inductioncm Topia cam
, que à particularibus ad uniuerfalem procedit , ocontrariatur huic
poſterioriſtico proceſſui , quifit ab uniuerſali ad particularia , rea ftat
igitur declarare quæ induétio fit illa de qua loquitur Ariſtoteles , quam dicunt
aliqui elle ſenſitiuam , aliter tamen ſenſitiuam quàm loans nes Grammaticus
intelligat , dicunt enim quod talis fenfitiua oftenfio 1 1 D 26 IN PRIM VM LIB
. couptatur in Syllogiſmoſic , omnis triangulus habet tres angulos equat les
duobus rectis, ſed hic qui in ſemicirculo , eſt triangulus, igitur hic qui in
ſemicirculo , habet tres duobus rectis aquales,ecce inquiunt,quos modo minor
eſt ſenſitiua , quia ponitur illud pronomen oftenfiuum , isti funt in errore
maiori forſan quàm precedentes , putant eniin quod illud pronomen ,
&fimilia pronomina ſint oſtenſiua ad fenfum , quid igitur dicendum erit de
hisloquutionibus,hic Apolo eſt cui barbam abraderefe cit Dioniſius, huic
Apolini coronam Papus , iufsit fieri, & iſte Aurifexfædauit aurum ; ueletiam
iſte est Euclides,quem Plato in theetes to commemorat , non ne omnia ifta
pronomina oſtenfiua , funt ad intela lectum , & ſi quandoque per accidens
ad ſenſum ſint oſtenſiua ? ideo pronomen in iủa minori , ſiper accidens
oftendatad ſenſum , oſtenſia uum tamen precipue eft ad intellectum , aliter
cecus non poffet illum Syla logiſmum efficere , quòd manifefte falfum eft ,
ueritas non eis obuiam uenit ſic interpretantibus.Laborant adhuc dicentes ,quod
ila inductio nil aliud est quàmfubfumptio huius minoris , fed hic qui
inſemicirculo est triangulus , fub illa uniuerſali nota , omnis triangulus
habet tres angulos æquales duobus reétis , illam quidem diſpoſitionem
premijarum in figus ra &modo , uocant inductionem , hoc autem non facit
fatis ad Ariſtotea lis litteram ; quia ante quam inferatur concluſio , neſcitur
de triangulo conſtituto inſemicirculo quod tres habeat duobus reftis æquales
niſi po= tentia , poſt quam autem illatafuerit concluſio ,fcitur a &tu, o
noi ama plius potentia, quòd uult Ariſtoteles,ut poſt quàmfactus fuerit ocoma
pletus ſyllogiſmus, fimpliciter ſcitur,quod qui in tabula ,habet tres æqua, les
duobus rectis . Agamus igitur & nos ,o . Ariſtotelis litteram prius
diſponamus , ſubinde ſententiam exponamus.. De triangulo uero in feinicirculo
conſtituto fimul inducens cognouit. Simulcum uniuerſale triangulo ſcit ipſum
particularem trianguluna, quòd habet tres æquales duobus rectis ,
&hoc,inducens, uerbum hoc inducens du asinductiones ſignificat. Alteram
Geometricam ,reliquam ſyllogiſticam , quæ etiam ordine ponuntur in littera
Ariſtotelis dicentis ,antequàm in duétum ſit,uelfactus fuerit fyllogifmus , quæ
duo uerba, non ſunt fynow nima , ita ut und &eadem res per, utrunque uerbum
, inductum ſit , uel fa& usfuerit fyllogiſmus ſignificetur, quia in doctrinis,non
utitur termin nis ſynonymis ,neque Ariſtoteles multiplicat uoces , terminos ean
dem rem ſignificantes . Dicendum igitur, quod aliam rem uox hæc indue dio,
&aliam ifta uox ,fyllogiſmus,ſignificat , non gūteſt indu &tio aliqua
POSTERIORVM ARISTT.. 29 prediétismodisfupra citatis, ut probatum fuit ,
relinquitur igitur, ut inductio per quam ſcimus,quodtreshabeat æquales duobus
reitis is,qui infemicirculo defcriptus est,nulla alia fit,neque excogitari
poſsit quàm Geometrica induétio . Ila autem huiufmodi est , fuppofita
deſcription per trigeſimamprimum primi Elementorum , Angulus c b d eft æquas
lis ang ulo & c b, per primam par tem uigeſimenos lice primi Ele - mentorum
Euclia dis , &Angulus dibe equalis eft ang ulo cab per fecundam partem
uigeſimenone primi elementorum , totus igitu * cbe , eſt æqualis duobus angulis
cøa, fed cbre, cum c b a per xiij. primi Elementorum equiualet duobusrectis ,
igitur angulia , cum eodem c b a , funt equales duobus reétis,quod inducendum
erat, de triangulo ac b in ſemicirculo deſcripto,qui triangulus non erat abſcon
fus immo ante oculos offerebatur, tamen illa oblatio,non erat inductio de qua
Ariſtoteles intelligit , quam inductionem quis unquam utcun queetiam intin
&tus litteris dicet , unum eſſe fyllogifmum ? quofyllogif mounico (it
inferius declarabo) poteratidemfyllogizari , neque enthis meina unum eft, cum
ibi multe ſint conſequentie, Enthimemaautem und tantum conſequentia eft , quòd
neque Topica , inductio , patet ; quia ibi à ſingularibus ad uniuerfalem
progredimur,in hac autem induétioneper decimamtertiam Guigeſimănonam primi
Elementorum ,quæ uniuerſales magis funt quàmſecunda pars trigeſimæfecundæ primi
Elementorum per quam patet intentum de triangulo in tabula conſtituto . Neque
mi reris quod in hacinduétione non fumitur illa maior , omnis triangulus habet
tresangulos æqualesduobus re&tis , quia illa fumiturin inductione
fyllogiftica , in inductione uero Geometrica , fumitur decimatertia,cui
gefimanona primi Elementorum , in utraque induktione cumGeometri ca ,tum etiam
fyllogiſtica fit proceſfusab uniuerſalı ad particulare,uel ad minus uniuerſale,
Syllogiſtica uero induétio,ex duabus premiſsis, illa ta concluſione conſiſtit,
quafyllogiſtica indu &tione fæpeutitur Ariftoteles ut Tex.xciiy.Secundum
partitionem loan.Grammatici,uel Textu trigeſi monono in paraphraſi, in magna ,
pero expoſitione Tex .clxiij.prima Dü IN PRIMVM LI B. poſteriorum , &
alibi, habita o ſcita hac uniuerſali, omnis triangulus habet tres equales
duobus reétis ,fatur modo aliquo idem de conſti tuto in ſemicirculo triangulo ,
ſimpliciter autem non fcitur,ofacta ine duftione ſyllogiſticaſimpliciter ſcitur
, quod qui in femicirculo eft triane gulus , ſit huiuſmodi, ſicut ſcita
decimitertiaeuigeſimanona primi elee mentoruin ſcitur potentia , quod qui in
ſemicirculo eſttriangulus , duo bus rectis tres habeat pares ,licet nefciat, an
qui in ſemicirculo ,fit triana gulus,ut Ariſtot,ait Tex.101. uel 169.a{tu autem
, o ſimpliciter fcitur per Geometricam induétionem , quæ ſemper ex ueris,
primis , caufis ila latiuis conclufionis , ex magis notis procedit, non autem
ex immediaa tis ſemper , nequc ex cauſis quedant eße , fed ex his tantum , quæ
dant propter quid iŪationis , tale inſtrumentum quod induétionemGeomes tricam
uoco,non est una conſequentia , fed plures , ut plurimum , neque per
immediatafemper procedit ,fedalternatim per immediata , oper ea que probatafunt
procedit,inmediata autem , uoco propoſitiones per fe notas , etiam illas
propoſitiones demonſtratas,quæ immediate proz bant fequentes , de hoc quidem
toto inſtrumento non aliter Ariftoteles traftauit , nifi per particulas illas ,
utſupra commemoratas , ut ex ues ris Oc. Tractauit tamen de fuis partibus, ut
de enthymemate , quòd pluries fumitur in tali induétione Geometrica,o de
fyllogiſmo, ad quem reducitur talis inductio,non tamenadunun tantum ,ſed ad
pluresfyllogif mos , neque uelim dicas propter hoc, quod Logica, Geometriam
debeat precedere,utplacet nonnullis niſi deLogica,que natura nobis ſuccurrit.
Quorundam enim hoc modo diſciplina eft, & non per inedium ultimum
cognofcitur , ut quæcunque fingularia jamelle contingit, uec de fubiecto
quoppiam . Hunc locum Ariſtotelis extorquent penė.omnes,uerum quidemdicunt, ſed
in fua ues ritate duo errores continentur , primus eft , quod interpretatio non
est ad propofitum , fecunduserror, quia id quodaiunt contradicit huicloa ÇO
Ariſtotelis , inquiunt enim , quod per medium , ſcitur ultimum , hoc est , quod
ultimum . Nempe maior extremitas concluditur per medium de ipſa extremitate
minori . V.ideas quanta fit horum hominum uanitas, Ariſtoteles negatiue
loquitur . Et non per medium ultiinum cox gnoſcitur. Ipfi autem uani exponunt ,
per medium ultimum cognofcia tur , aduertendum quod medium in propoſito
intelligit Ariſtoteles ,quod non tantum fitu ,medium intelligas, quod bis in
premißis capitur, fed me dium hoc loco,nil penitus aliud est quam , quodquid
eft ipſius rei , ut POSTERIORVM A R IST. 29 fparfim in primo poſteriorum , e in
ſecundo manifeftuin eſt , in pri moenim , Textu 201. Juxta partitionein
philoponi , uel 39. uel Textu 169. iuxta aliain partitionem ; ait Ariſtoteles ,
quod uniuerſale mon ſtratur per medium , &non particulare ; uerbi gratia
,hic non per mea dium ,omnis homoest riſibilis Socrates eft homoigitur Socrates
eſt riſi bilis , ly enim hono , non eft quodquid est , ſed eſt ſubiectum , hic
uero per medium , omne animal rationale eſt riſibile , omnis homoeſt aniinat
rationale, ergo omnishomo eft riſibilis, ibi enim animal rationale eft mes dium
, fi inftes fic ,omne animal rationale eſt riſibile Socrates est animal
rationale ,igitur Socrates est riſibilis . Dico quòd hoc non eft per fe,eta
primo de Socrate , quòd fit animal rationale , nec etiam riſibile per ſe ,
& immediate,argués igitur fic ,omnis triangulus habet tres æquales duo bus
rectis ,fed qui in ſemicirculo , eſt triangulus , igitur qui in ſemicir= culo
habet tresæqualesduobus rectis . Ibi enim triangulus non eft quot quid eſt, ſed
potius ſubie &tum , feu genus , ibi igitur non eſt demonſtras tio , licet
fit fyllogifmus , &fi adhuc inftetur ,quod per decimumtertiam
&uigefimamnonam prini,demonftretur quòd qui in femicirculo , ha beat tres
equales duobus rectis , igitur ei qui in ſemicirculo eſt , non con uenit; quia
triangulus;fed per decimamtertiam euigeſimamnonam pris mi Elementorum . Dico
quod in inductione Geometrica , qua de triana gulo in ſemicirculo cöftituto
oftendebatur,quod habet tres æquales duos bus rectis per decinătertiam (
uigefimamnonam primi, id immediate nõ conuenit triangulo quatenusſit in
femicirculo deſcriptus , fed ut trian . gulus eſt, ut oſtenditur ſecunda parte
trigeſimeſecunde primi Elemen torum ,fecundoautem , &per fe non
immediate,omnibus alijs triangulis. Quorundam igitur ſingularium (quorum
quodque non predicatur de ali quo ſubiecto , quiafingularenon predicatur deſubiecto
aliquo , ut in pre dicamentis determinatum est ab Ariſtotele ) diſciplina est ,
non per medium , ultimum cognofcitur, cognofcitur quidem ultimum nempe mie
iorem extremitatemineſſe minori ,fedhoc non permedium , id est non per quod
quid est . Si vero non eft ita ,quæ in Menone contin . get dubitatio , aut enim
nihiladdiſcet feruus Menonis,aut quæ prius nouit addiſcet non eniin iam ueluti
quidam ni. tuntur foluere dicendum eft particula illa . Si uero non eſt
ita,videlicet fi non eft fcire de nouo,ab uniuerſali ad particulare progre
diendo ; tunc , quæ in Menone eſt, contingit dubitatio , particuld illa : Non
enim iam . Yerbum illud iamfuturi temporis eſt, fic utfit ſens 30 I N P R IM VM
LIB . ſus habita mea doctrina,omodo quo dixi, nos fcire de nouo ,quod id addiſcimus
, quod tamen aliquo modo fcimus, non foluas poſt hac , eo modo , quo illi
nitebantur foluere , fed eo palto ut predocui , it de omni dualitate fciens
quod par ſit , de abfconfa in many dicas, quòd etiam de ea fcis potentia ,
quodſcit par . Veluti quidam nituntur ſoliere dicendum eſt . Exponunt Latini
&Græci,hunc locum fic,quidam Platonici dicentes, nos nihil fcia rede nouo
,fed fcire noſtrum eratreminiſci arguebant illos , qui dices bant quod de nouo
fcimus , &nitebantur Platonici ducere eos in contra dictionem ,hoc
argumento interrogatiuo, aiunt enim Platonici ipſi jos ne omnem dualitatem eſe
parem , nec ne anuunt quidam dicentes nos de nouo ſcire , ita eſſe , ſübinde
atulerunt Platonici dualitatem dicentes , igitur fciebatis etiam hanc dualitatem
, quam manu tegebamus eſſe pas rem , quod tamen effe non poteſt , quia
nefciebatis ipſam eſſe dualitatem ecce contradictio , prius fatebantur ſeſcire
omnemdualitatein eſſe par rem , &tamen neſciebantdualitatem hanc parem eſſe
, quod manifeſtum contradictorium eft , reſpondebant autem illi , qui dicebant
nosfcire de nouo , quod interrogati de omni dualitate, an par effet,
reſponderunt non de omni dualitate abſolute , fed de dualitate quam utique
dualitatem effe ſciebant , modo de illa , quæ abfconfam tenebant , oque non
erat fibi nota , ut eſſe dualitas , non fatebantur illam eſſe parem , quia
neſciebant illam effe dualitatem , ita ut hec expoſitio, eotendat , ut
Ariſtoteles res prehendat illos , qui dicebant nos ſcire de nouo , quia male
foluebant Argumentum Platonicorum , xnihil dicat Ariſtoteles contra Platoni.
Cos. Expoſitio autem mea , e directo opponitur , huic omnium expofie tioni ,
ſic ut Ariſtoteles arguat Platonicos male foluentes argumentum dicentium
nosfcire de nouo , & contra hos dicentes , quòd fcimus deno uo, nihil in
hoc Textu dicit Ariſtoteles . Pro cuiusfententia declaranda, Queritate , est in
primis aduertendum , quod in hoc textu , quoſdam in telligit Ariſtoteles
dicentes , quòd de nouo nos fcire contingit aliquid , quod tamen etiam preſciebamus
in uniuerfali, oiſti inquiſitiuo argu mento probant intentum contra tenentes ,
quòd ron ſcimus quippiam de nouo , quorum negantium de nouofcire reſponſionem
redarguit Ariſtoa teles, einterargüendum , peccant og errant in perſuadendo id
, quod probare nituntur , quem errorem , &peccatum dicentium nos de nouo
ſcire , non redarguit Ariſtoteles propter duas cauſas , altera est , quia eft
adeo manifeftus , ut fine reprehenſione à quolibet cognofcatur pre POSTERIORVM
ARIST. meil , habita intelligentia primi textus huius primi , reliqua caufa
quare: non eos redarguit est , quia primo textu feclufit fuam perſuaſionem ,
dicens omnis doétrina , o diſciplina intellectiua a diſcurſiua , ex præexiftens
ti fit cognitione , ex preexiſtenti non quidem ſenſitiua, quia illa à Singue
laribus ad uniuerſalem , hæc uero poſterioriſtica e contrario, ab uniuer ſali
ad fingulare procedit , ideo eos non reprehendit Ariſtoteles , quia , quifq;
per fe intelle &to primo Tex.cognoſcit; quo modo errabat ilii inter
arguendum . Inquiunt enim arguentes , noftis neomnem dualitatem effe parem
necne ? afferentibus Platonicis attullerunt eis quandam dualitas tem , quam non
exiſtimabant eſſe , quare neque parem , en dicebant iſti arguentes , ſciebatis
in uniuerſali, quod omnis dualitas est par , otas hoc , ideſt paritatem de hac
dualitate , qua manu abſcondebatur neſciebatis , quiaignorabatis quid eſſetin
manu, num dualitas,uel quips piam aliud , autnihil, « nunc uos fcitis iam per
apertionem manus prius eam tegentis , in particulari hanc determinatam , &
particularem dualitatem eſſe parem , ecce quomodo ab uniuerſalicognitione
deuentum fuerit in cognitionem particularis , quod prius dubium apud uos erat .
isti ſic arguentes peccant contra primum textum , utſupra dixi, ocon tra Tex.
112. Neque per ſenſum eft fcire , putabant autem isti ars guentes illam
intuitiuam ſenſationem eſſe doctrinam ſeu diſciplinam . Quia tamen cum
Ariſtotele in intentione , quod de nouo fcimus, & quia etiam error in
perſuadendo manifeſtus eft , ut predocui, de intelle &tiua quidem &
diſcurſiua diſciplina loquitur Ariſtot.ut de uirtute in uniuer ſali etiam in
Menone erat ſermo ideo modo Ariſtoteles dimittit illos ,tam quàm non
concludentes propoſitum , quodfatebantur , & diuertit ſe ad Platonicosmale
foluentes argumentum ,tenentes quod id quodaliquo mo do ſcimus non poſſumus de
nouo addiſcere , uel quòd nostrum ſcire,fit re miniſci, foluunt argumentum ſic,
non enim fatebantur Platonici ornem dualitatem eſſe parem , neque dixerunt
ſeſcire omnem dualitatem eſſe pa rem ,ſed dixeruut dualitatem , quam utique
nouerunt dualitatem effe, mo do cum neſciuerint, an id , quod manu tegebatur
effet dualitas, neque ali quo pacto fciebantipſam eſſe parem uel etiam imparem
,quiaſic aiebant, prius,debemusſcire,an fit dualitas,&poſted ,an parfit,uel
etiam impar, ita ut quandointerrogati fuerant,an omnem dualitatein ſcirent eſſe
parë uel imparem reſponderunt utique de dualitate hoc ſcire , quam quidem
dualitatem eſſe nouerant , uerum eſſe, ſed de dualitate in manu abſconſa, nihil
fciebant , nec quippiam deea aliquo modo fciebant, ideo nefciebant I N P R I
MVM LIB. 3 idem uno modo , ut in uniuerſali de illa dualitate ,quòd effet par ,
u idem ut quod effet par ignorarent in particulari , atqui ſciunt cuius des
monſtrationem habent , & cuills acceperunt. Acceperunt autem non de omni,
de quo utique nouerint; quòd triangulum aut quod numerus ſit , ſed fimpliciter
acceperunt ; illi arguebant deomni numero duali, atque triangulo,&c .
Similiter reſponderunt illi , quod ſciebant omnem dualitatem efle parem . Verba
hæcfunt Ariſtotelis contra tales reſpondentes,nullus enim propo nitſeu
interrogat , aut nulla propoſitio accipitur talis , quòd quem tu . noſti eſſe
numerum dualem , nofti ne eſſe parem ? aut quam noſti rectili neam figuram eſſe
triangulum , quòd habeat tres æquales duobis reétis ? ſed accipit de omni
numero duali, ede omni figura rectilinea trilatera, quis enim proponeretſuo tam
inerudito colloquio fic,nunquid nofti oma nem dualitatem quam eſſe dualitatem
nofti, quòd par fit ,autnon ?ines ptam igitur, contra loquendi modumfolutionem
reprehendit Ariftot. reprehendens quidem Platonicos malefoluentes, cui non
illos de nouo fci re dicentes perperam arguentes ; &modum fciendiquo de
nouo fcimus fimpliciter id , quod potentia ſciebamus epylogando dicit , Sed
nihil (ut opinor) prohibet, quod addiſcit aliquis ſic in particula ri , ante
ſciuiſſe in uniuerſali , & in particulari priusignos raſſe, abfurdum enim
non eft ,fi nouit quodam modo, quod addiſcit , ſed ita eſſet abfurdum , ut
inquantum ads diſcit, co pacto ſciat. Idem diſcurſus &expoſitio fiat ſuper
Textu fecundo priorum , in capitulo de Deceptione ſecundum fufpitionem , qué
etiam Textum perperam interpretātur pſeudo philofophi. De dualitate autemſiquis
nunc interrogaretur, noſti ne omnem dualitatem eſſe parent nec ne ? annuat quod
ſic , o ſi offeratur abfconfa in manus dualitas, dia cat quod etiam ſcit eam in
potentia parem effe, licet neſciat a & u , quod dualitas ſit ,e eft
fententia Ariſtotelis Textu 101.0 in hoc Textuhas bita una atque altera interpretatione,
cui dubium eft fecundam eſſe pres ftantiorem prima ?niſi quis dicat primam eſſe
preſtantiſsimorum philo fophorum tàm ueterum Græcorum quàm Latinorum omnium
prefertim iuniorum mentem Ariſtotelis interpretantium , fecunda uero interpre
tatio noua est , o hominis uniusfolius,quæ nullo modo preualere poteft contra
tam preclariſsimosphilofophos , quihæc uerba , &fimilia proa ferunt ex
Macrologia loquuntur ,non ualentes intelligere nifi ea , que auctoritate
proponuntur , fpreta ueritate ege ratione, quis iam tam inerudit POSTERIORVM
ARIST. 33 ineruditus est , quiputet Platonicos , qui ætatem confumpferunt in
fua opinione de reminiſcentia , argumentari contra Peripateticos , niſi a
Peripateticis prouocati ſint ? &quomodo prouocari poſſunt niſi exci tentur
? quo pa &to excitabuntur , nifi co argumenti modo , quem in ſecunda
interpretatione narrauimus? deinde quare magis redarguit Ari ſtoteles
ſemiperipateticos illos , qui conueniebantfecum in concluſione, quàm illos ,
quie diametro cpinabantur contra ipfum ? depoſitaigitur emulatone iudicet id
quiſque, quodmagisueritatem ſapit , uerum eſſe, O rationi magis conſentaneum ,
& erit ,fifecunde interpretationi be rebit , primafpreta, &neglecta
omni ex parte . TE X T VS NON VS. ER A quidem oportet eſſe ,quoniam non eſt
fcire quod non eft ,ut quòd diameter fit fie meter. De diametro , coſta
pluribus locis Arifto telesſermonemfacit, utinprioribus, & in Methaphy :
ficis , quapropter , hoc loco declarabo eius fententiam , ut poſteafit omnibus
in locis clara , primoſcire debes , quod uera eſſe oportet ea , quæ fciuntur ,
ita ut ueritas ſuſcipiatur pro illa ueritate que est in concluſione , &non
pro ueritate , quæ in prins cipijs est , a hoc probat indire & te , quia fi
falfum ſciremus , utputa quod diameter eſſet commenfurabilis coſte , tunc
imparia æqualia paribus fierent , o e conuerſo , ut ſi paria equalia
imparibusfunt, igitur diame ter eft coftæ commenfurabilis , quod estfalfumſi
igitur hocſciremus,ſci remus utique quippiam ex non ueris , fed pofuit, quòd
fcire ex ueris fit, igiturſciremus ex non ueris &ex ueris, quod eſſe non
poteft per immea diatam contradi tionem .Diametrum igiturincommenfurabilem
cofte ef ſe noſcimus , quia impar pari æqualisnon eſt ,in qua re,talis eſt
demons ftratio ſecundum Euclidis ſcitum in decimo Elementorum , qua ducitur ad
hocincommodum , pofita iſta , quòd diameterſit commenfurabilis co ftæ,fequitur
, quod numerus impar eſſet par , quod eftcontra primum principium ab Euclide
poſitumfeprimo Elementorum ſexta &feptima deffinitionibus,uel etiam nono
Elementorum prima &ſecundafecundum Campanum . In quare demonftranda fit
diameter a b commenfurabis lis lateri a c (li ponatur) erit per quintam decimi
Elementorum ab ad ac, ficut aliquis numerus ad alium numerum , quia illa
communis , mene Б IN : P R I MVM LIB . b Cee ' . fo ... h............. g k....
ei6 fo L. m 64 kıż8 h 81 . a . fura,fehabebit ad illas duas lineds ,
diametrumfilicet , &coſtam a bigo á c , ficut unitas ad unum atque ad alium
numerum ,unitas enim ut duos numeros illos metitur , ſic illa communis menſura
diametrum , o coſtam dimetiretur,cuius rei ſenfus eſt iſte , quòd quoties
continebitur in uno ats que altero numerorum unitas , toties illa communis
menfura , quæ linea eft, continebitur in diametro , atque coſta , fint ergo
numeri e @ f , qui ſint minimi in fua proportione, eritque ob hoc , alter eorum
impar, quod fic probatur , fi enim uterque eorum effet par , non eſſent iammis
nimi in fua proportione , ſi enim par uterqueſit ,uterque biffariam die uidi
poſſet, outraque mediet asunius ad utramque alterius medietatem eandem haberet
rationemficut totum ad totum ,quorumfunt medietates, ut patet de octonario atq;
ſenario, cuius medietates ſunt quatuor, & qut tuor , atque tria etria,eadem
enim fexquitertiaest,octo ad fex, qua tuorad tria, ſic e ofnon eſſentminimi
inſua proportione quod est contra aſſumptum , quia fuæ medietates effent
minores , quadratiigitür illorum minimorum e « f, ſint ge h , ſi ergo e eſſet
impar , a f par , erit quoque per trigeſimam noni Elementorum g impar , fit
itaque k duplus ad h, eritque k par,ex deffinitione prima noni Eleinentorum ,
quia igitur a b ad a c , ut e -ad f, erit per decimamodtauam fexti, ego
decimāprimam octaui Elementorum , quadratum ab ad quadratum ac, ut g ad h , eſt
itaque g duplus ad h , ſic enim est quadratun a b ad quadratum a c per
penultimam primi Elementorum , quia ita k , etiam dupluseft ad h per affumptum
,ſequitur per nonam quinti Elemen torum , ut g numerus impar ,ſit equalis K
numero pari. Quod fi e fit par , f impar , erit proportio f ad dimidium e ,
quod fit L, ficut POSTERIORVM ARIS T. 4 c ad dimidium ab, quod ſit ad , o ideo
erit quadrati a c ad quadratum a d , ficut proportio numeri h , quieſt impar
per trigeſi mamnoni Elementorumadquadratuin numeri L , quifit m, cui K poa natur
effe duplus , eritque K per deffinitionem primam noni Elemento rum par, at quia
quadratum a c est duplum ad quadratum a d per penultimam primi Elementorum ,
erit h duplus ad m . Cumque Kſit etiam duplus ad m , erit per nonam quinti,
impar b , aequalis K nus mero pari , quod impoßibile à principio proponebatur
demonftrandum C f . ........... go!" k ...... A Et ſi diceretur , quòd
uterque eorum , quiſunt in fuaproportione mis nimi, ſit impar , ut quinque ad
tria , ut ſcilicet e ſit quinque, ef tria quadrati illorum fint go b ,
eritigitur utraque eorum quadra= ta inparia per trigeſimam noni Elementorum ,
ſit itaque K duplus ad h , eritque k par ex deffinitioneprimanoni Elementorum
,quia igis . tur a bad a c , ut e ad f, erit per decimamoctauam fextielementorum
vundecimam octaui,quadratum ab ad quadratum a c , ut g ad h , eſt . itaque g
duplus ad h , fic enim est quadratum a b ad quadratum ac, per penultimam primi
elementorum , & quia etiam k duplus est ad h.. per affumptionem fequitur ,
per nonam quinti elementorum , ut g numea rus impar ſit , æqualis k numero pari
, quod est impoſsibile . Illatum , ſeu concluſio habita per hanc induftionem
Geometricam eft ,quod impar par ſit , Ariſtoteles autem dicit , quòd diametrum
effe comenſurabilem coft.e non ſcimus, quia ita non est, ſic ut illud fit
conclufum , wnor af fumptum, ut in predi&ta indutione fa& um est . Vt
autem fiatconcluſio Bij 336 " IN PRIMVM LIB. “, id , quod aſſumptum fuit ,
aduertendum , quod ut Ariftoteles in prima Poſteriorum determinat, Geometra non
parallogizat , fed tota illa Geo metrica inductio est conſequentia formalis,quæ
in omnibustenet, cs.com cludit ,nequeinquit, parallogizat Geometra , ut textus
62 probat Arift. ſubinde aliud etiam eſt aduertendum , ut in Topicis
determinatAri ſtoteles, oſparſim in Logica fua , quod illa formalis eſt
conſequentit , quando ex oppoſito confequentis infertur antecedentis oppoſitum
, mos do cum ex contradiétione poſita , ut diametrum cofte eſſe commenfuram
bilem ,ſequutum fit quòd impar numerus fit par , exoppoſito igitur con
ſequentis , ut per numerus eft æqualis impari , igitur diameter coms
menſurabilis ex coſte , id autem fequitur ex falfo poſito , ut quod ime parſit
æqualis pari,igitur id quodſciretur , non eſſèt ex ueris, ſedpoſie tum fuit
quod ex ueris oportet eſſe , igitur manifeſta eſt contradi&tio ,res
linquitur igitur,quód diameter, nullo modo eſſet coſta commenſurabilis, eft
igiturfalfum , igitur nonſcitur , quia uera effe oportet,quæfcim us TEXTV EODEM
VEL TEX. V. OSITIONIS autem , quæ quidemeſt utram libet partium
enunciationisaccipiens,ut dico aliquid effe,aut no elſe, fuppoſitio eft, quæ ue
ro ſine hoc,deffinitio elt; deffinitio enim pofi tio eft.Ponit enim
Arithmeticus unitatem in diuifibilem effe fecundum quantitatem , lup pofitio
enim non eft. Quid enim eſt unitas, & eſſe unitaté, non idein eſt.
Deffinitio inquit Ariſtot. non ponitur, altero membro contradicéte
reiecto,utfit in fuppoſitione accipienda,fed deffinitionis na tura talis eft,
ut ad hocquod ipfa intelligatur aget docente, eſt tamen & ipfa
deffinitio,poft quam intellecta ſit ,etiam poſitio ,cõmuni uoce diéta,et
legatur textus fic paulatim ,ponitenim Arithmeticus unitatem, utſiArithmeticum
quis interroget, an unitas fit, uel non fit ? annuat quòd ipſaunitas
fit,indiuiſibilem autem fecundum quantitatem ſuppoſia tio noneſt,ſed definitio,
os exponitur àdocente, quia numerus quilibet diuidi poteſt, cumautem ad
unitatem , ex qua numerus cöponitur deuen tum ſit, impartibilis omnifariam
reperitur , ut poſito quocunquenumes ro, ut ternario, ocirca ſe, ex utraque
parteſuper ſe numeri,esſuper illos , alij circumponantur, id toties
fieripoterit,quousq; ad unitate dem POSTERIORVM'ARIST. 37 SH it 13 uentum
fuerit,at ubi ad ill.im deuentum erit ,non fit ultraproceffus,ut cir ca
tres,quatuor,& duo,etfuper hos,quinq; c unum ,medium horū aggre gatorī erit
ternaris, hoc exemplari 1 2 345 ſignü eftigitur unitate eſſe principium
impartibile omnium numerorīt, ut Boetius in Arithmetica, docet,modo,
exſententia Ariſtotelis, non eſt idem ,unitatem fupponere, oipſam deffinire ,
quæ deffinitio eſt, unitas eft qua unumquodque unum effe dicitur, uel eft
principium numeri, uel eſt indiuiſibilis, ex quo tamen indiuifibili,
diuiſibilis numerus componitur, ad differētiam indiuifibilium fecundum
magnitudinem , quæ indiufibilianon componunt diuiſibile ali quod. Age igitur
,ut Ariſtoteli placet, quòd non eſt fatis ad demonſtratio nem procedere ex
fuppofitionibus , etiam immediatis, fed opus eſt etiam ex immediatis
dignitatibus , que etiam dignitates improprie poſitiones funt, ideo in
precedenti declaratione concludebatur ,numerū imparé eſſe parë,quia ex
poſitione,quod diameter.eſſet commenfurabilis coſte, pros cedebatur, &non
ex dignitate &deffinitione intelle &ta ,atque poſita. TEXT. DECIMUS
ALIAS QVINTVS, CH fi re Lisa co UE ofi 18 ар 3 VONIAM autem oportet credere
& ſcire ré, in huiuſinodihabendo fyllogifmum , quē 110 cainus
demonſtrationein . Eft autem fic , eò quod ea ſunt,ex quibus eft
fyllogiſmus,necef ſe eſt , non folumpræcognoſcere prima, aut omnia, aut quædain
ſed etiam magis. Quico gnoſcit quòd Triangulus habeat tres equales duobus
rečtis, prius nes ceſſe eft,ut cognofcat XIII . ey xxIx. primiElementorum actu
, non autem ufqueaddeffinitiones fit refolutio pro illa x xXJI cognos feenda ,
omniaautem prima cognofceremus ,ſiuſque ad deffinitiones ago Elementa, ad que
illius XIII. XXIX . primireſolutio fieret, que &fifitfactibilis, tedio
tamennosafficeret , fi femperfieret ufqueadele mentaiſta reſolutio,
fedfatis,quod hoc fieri poßit ,ideo dicit Ariſtoteles neceffe eft præcognoſcere
prima,aut omnia,aut quçdam, Sed etiam magis aduertendum , ut declarabo fuſius
Tex . 108 . huius primi,quòdquanto notitia eft deſimpliciori, illa, certior
eft, quam que compoſitioriseft.Cum autem principium fit minus compoſităipfa
concluſione, neceffe eft, ut &fua notitia ſit magiscerta , quam conclue
fionis notitia ,ideo XIII, XXIX. per quas probatur fecunda pars IN PRIM VM LIB.
trigeſimeſecunde primi Elementorum , ſunt magis nota , oſcite ,quàng illa
fecunda pars trigeſimæfecundæ primi. TEXTVS XI. ALIAS V. MA 1 AGIs enim neceſſe
eſt credere principiis, aut oinnibus,aut quibuſdam quam cons cluſioni.
Aduertendum quòd magis credere ,fine pluri, nempe faciliorem effe credentiam
aliud eft , à credere per demonſtrationem , & propter quid, fe ptima, atque
octaua propoſitiones quinti Elementos rum , primo intuitu quando inſpiciuntur ,
facilius eis adheremus oafa ſentimur, quàm aſſentiamur deffinitioni fextæ
,atque o &taua eiufdé quins ti. Ecce quod non magis illis principijs
credimus primointuitu , quins conclufionibus per ea principia demonſtựatis ,
ideo Ariſtoteles ait, aut : quibuſdam , non ſemper omnibus primo intuitu.
Debentem autem habere ſcientiam per deinonſtrationé, non ſolum oportet
principia magis cognoſcere, &, magis ipfis credere, quàm ei quod deinonſtratur.
Sed & cete . Ada uertas quod & finotitia principiorü uideatur
diſtantior intellectui quàm notitia concluſionis, tamen non poteſt uniri
intellectui concluſionis notis tia ,niſi per notitiam principiorum ,quæ
uidebatur ab intelle &u remotior, ut in illis concluſionibus ,
&principijs que precedenti comento citaui. TEXT. XVIII. AVT VIII. I ſiin
omnilinea punctum finiliter eſt. Proprie hoc in propoſito de linea recta
intelligas, que atu punéta habet terminantia , ficut homoactu eſt animal, o fi etiam
de circulari intelligi poßit quæ in puncto à linea recta tangitur, fedde
circulas ri expoſitio uideturfuperftitiofa , aliena à nas tura exempli , quia
exempla per magisfaciliadantur , ita quòd, dequoa cunque uerum eſt dicere, quod
fit linea recta , de co uerum eft dicere, quod in co eſt punctus. POSTERIORVM
ARIS T. TEXT. XIX. VEL IX. 5, Elle P feo to oft 45 oné, 2015 Ado quan ER ſe
autem funt, quæcunqueſunt in co, quod quid cft , utTriangulo ineſt linea ,
& : punctum lineę, ſubſtantia enim ipforum ex his eft , &
quæcunqueinſunt in ratione di cente quid eſt. “ Philoponus & parum dicit
ſuper hoc textu , uel étiam id quod dicit non facit ad propo ſitum Ariſtot.
declarandum , uidetur enim quod tex. his contradicat que : determinat
Ariſtoteles contra Platonem , uidelicet quodlinea non compo natur ex punctis,
præcipue ſexto phiſicorum , primo de generatione, tertiometaphiſice ,ubiex
fententia concludit lineam non poſſe ex punétis componi, quid autem ſuper hoc
textu, qui uidetur oppofitus locis ſupras dictis dici poßit notaui in
prædicamétis, capite de quantitate , uerba aus tem illa , quia ſubſtantia corum
ex ipfis eft, intellige terminatiue, ut linea terminat ſuperficiem triangularem
', pun &tum lineam termis nat, o nullo modo intelligendñ eſt compoſitiue,
ſic ut puncta lineam com ponant , nec etiam linea triangulum , tametfi aliter
ab indoctis intelligas tur, quiafi aliter textus hic concipiatur , ftatim
fequitur , utſi linea ex punctis componeretur, quod diameter o coſta eiuſdem
quadrati eſſent comenſurabiles , quod textu nono, eſſe falſum « impoßibile
oſtējumeſt, quia utrumque per comunem menfuram dimetiretur, nempe per pū
&tum , quod eft contra Ariftot.fententiam ,& contra Euclidis ſcitum .
Preterea tot puncta eſſent in coſta,quot in diametro, &ſic pars effet æqualis
toti, ut coſta ipſi diametro , pro cuius indu &tione , ſit quadratum a b cd
, cuius diameter a d , Cofta uero a c , in qua fuſcipiantur duo puncta e , f,
immediata ſi poßibile ſit , ut aduerfarius ueritatis diceret, cum com ponatur
ex punétis,à quibus, e , of, pun &tis duæ lineæ rectæ aufpicens tur innitia
tranfeuntes per diametrū uſque ad aliă coſtum e regione pri me coſte collocatam
,certü eft , quòd hæ duæ lineæſecabunt ipſam diame trum in duobus pun &tis
, quæ etiam puneta in diametro immediata erunt, propter hoc quia lineæ
protracte ex hypotheſiſunt immediate , igitur ſi recte lineæ tot protendantur à
coſta in coſtam oppoſitam ,quot pū &ta fue rint in ipſa coſta, per tot
etiam punéta in diametro poſita tranſibūt eedë linee , nec erit in diametro punétum
aliud per quod non tranſiuerit lined aliqua fic protracta ab immediatis
pun&tis ipſius coſte, in puncta imme motia tunin eſt. Uligas, o achi poßit
rcula à ma eguna dicera 40 IN PRIM VM LIB. diata alterius coſte , ut patet in
hac a. figura ficut f, immediatum eft ipfi e, fic etiam & , ipſih , ſi l ,
fit immedias tum ipſi m , patet propoſitum ,fi au tem interl,om, intercipiatur
pū Aumfitque illud K; ab illo per xxxi. f primi elemétorum excitetur paralles
lus K, o , ipſif , 8 , uel ipſie , he tunc ipſa cadet inter gb , ut in pun Eto,
o , igitur g h , non erant imme diata ,quod eſt contraaſſumptum ,uel extra
utrumqueg ,oh, uerſus b , ueld, & tunc k o , neutri linearū f8 , web, erit
parallelus,quod eſt contra conſtructionem , patet igitur quòd tot eſſent in
diametro quot in coſta pun&ta. De circulari autem linea, quod non
componatur ex pun ftis , fic demonſtratur per tertium petitum primi elementorum
, fuper centrum a, deſcribatur circulus d minor , ocirculus bc, maior ,ficira
cunferentia maioris componatur ex punétis ,duo immediata puneta fi gnentur b @c
, &per primum petitum eiufdem primi ducatur recta alla a ad b, &ab aad
c, hæduæ lineæ tranſibunt per circunferentiam mino ris circuli, ſecabunt igitur
circunferentiam in uno ,uel in duobus pūétis, ſi in duobus, tot punčta erunt in
minori circulo , ficut in maiori, fed ima poßibile eft, duo inequalidcomponi ex
partibus æqualibus numero , ou magnitudine,punctusenim unus non excedit alium
punctum in magnitudi ne,en tot funt in minori peripheria puncta quot ſunt in
maiori, igitur pe ripheria minor eft æqualis maiori peripheric,igitur pars
æqualis eft toa ti,quod pro impoßibile relinquitur, b ſi autem due recte linee
a , b , 4 , C , ſecent minorem circunferens tiam in eodem puncto , fit ille d,
ſu = per illam a c , erigatur linea recta perpendicularis per xi .primi Elea
mentorum ſecansſilicet eam in pun . &to d, quæ fit d e , que erit contina
gens minorem circulum ex corrolda rio x vtertij elementorum , iftad, c.cum
linea 4 b , ex xIII. primi Elemens POSTERIOR V MARIST. 41 2 d IN Elementorum
conftituit duos angulos rectos , aut æquales duobus rectis, @ed cum linea a c
facit duos angulos rectos ex conftru &tione , duo igitur anguli a de , obde
, funt æquales duobus angulis a de , cde per tertiam petitionem prini Elementorum
Euclidis , dempto igis tur communiangulo a d'e , reſidua eruntæqualia, igitur
angulus b.de erit æqualis angulo c d é , &pars toti , quod eftimpoßibile.
Adiſtud diceret aduerfarius , quod db , odc , non includunt ali = b . quem
angulum ; quia poſſet tunc illi angulo bafis ſubtendià puncto bad punétum c ,
quod est oppoſitum po ſiti, quia b c , poſita ſunt ima mediata , quando igitur
diceretur , quod angulus c de , estmaior an gulo b.de negaretur ab aduerſa rio,
quia per angulum b d c, nihil additur in angulo c d e, quia inter bec nihil
mediat , e in concurſu bdoc din d, non est angulus. ifta reſponſio oſi ex ſe
ipſa uideatur ua na , negandoangulum , ubi duæ rectæ line : bd, cd, concurrunt
quæ expanduntur in eadem ſuperficie, oapplicantur non directe , o fit contra
deffinitionem anguli , deffinitione ſexta primi Elementorum , negando etiam à b
inc poffe duci lineam , neget primum petitum primi Elementorum , tamen quia
aduerſarius non putaret iſta inconuenientia , quia ſequuntur ad id , quod ipſe
dicit , ideo contra reſponſionem aliter ar. guo , angulus c d e includit totüm
angulum b de, oaddit ſaltem pun Aum ſuper b de , o ſiproteruias quòd non addat
angulum , & puns Etus per te , eſt pars , igitur c d e addit ſuper 6 d e
partem aliquam , igitur c d e eſt totum adb d e . Aſſumptum patet, uidelicet
quòd c de addat ſuper bd e , quia ſi angulus dicatur fpatium interceptum inter
lineas non includendo lineas,ut Ariſtoteles concipit in queſtionibus meca
nicis, queſtione octaua , tunc pun &tus primus lineæ b d extra circunfes
rentiam minorem nihil erit anguli bde , o eſt aliquid anguli c de , igitur c d
e maior est b de, a probatum fuit , quòd æqualis , igi tur aperta
contradi&tio , fi autem angulus ultra ſpatiuin inter duaslie neas,includat
lineam includentem ,fpatium tunc primus punctus lineæ cd extra circunferentiam
minorem nihil erit anguli b de, e est aliquid ans F ino tis 0 th I N PRIMVM LIB
. guli c d e , addit , igitur utroque modo angulus c d e punctum fuper angulum
b de , patet igitur ex principali demonſtratione & folutionis bus ad
inſtantias , quod linea non componatur ex punétis , neque recta ; neque
circulari , ſubſtantia igitur lineæ ex punétis est terminatiue , o non
compoſitiue, ut in principio expoſui vel dicas quòd Ariſtoteles famoſe , oexemplo
loquitur de cauſa quæ dat eſe , vel etiam dicas, quod punétus,in deffinitione
Geometrica ponitur, onon Methaphyfice conſiderata . TEX. X X. ALIAS I X. T
rectum ineſt lincæ & rotundum . Verbum il lud rotundum legit Aueroes
circulare, o melius, ut ali bi Ariſtoteles rectum ineft linee o circulare, ſic
ut pro uerbo rotundum ,legatur circulare,ratio quia circula re lineæ est
proprium ,quod uult Ariſtoteles in princis pijs mechanicarum queſtionum
inquiens :In primis enim lineæ illi , que circuli orbem amplectitur,nullamhabenti
latitudinem contraris quodam modo ineſſe apparent , concauum
ſilicet,&conuexum . Rotondum uero proprie corpori conuenit , non lineæ , ut
etiam placet Ariſtoteli libro fecundo Cali capite primo, quæ lectio non uidetur
difplicere etiam Ioan ni Grammatico , &quodſit iſta mens Ariſtotelis ,
utfic legatur manife ftum eſt , per ea, quæ textu decimo ait , non enim ,
contingunt non ineſſc aut fimpliciter , aut oppofita,ut lineæ rectum aut
obliquum ,capiens ob liquum pro circulare. TEXT VSvs X. T par & iinpar
numero . Par quidem ille eft , qui ab impari unitate differt cremento uel
diminue tione , ut quinque à quattuor , uel à fex unitate , Vel par eſt , qui
biffariam ſecatur , impar uero, qui ne in duo æqualia diuidatur, impedimento
eft unia tatis interuentus . POSTERIOR VM AREST. Τ Ε Χ. XXV. ALI AS XI.
NIVERSALE autem dico , quòd cum fit de omni , & per ſe eſt, & ſecundum
quod ipfum eſt . Ioannes Grammaticus & fequaces determinant, ut hæc tria
inter ſeſint diſtincta, fic quod id , quodper ſe eſt inſit abſque eo , quod
fecundum , quod ipſum eſt , 1/oſceli quidem per ſe ineſt habere tres æquales
duobus reétis ,non tamen ineſt ei (inquit Ioannes).ſecundum quod ipſum , quia
fecundum quod ipſum ineſt triangulo. Aduertendum quod famoſa doctrina ( qua
etiam fæpe Ariſtoteles utitur ) perſe Iſoſceli inefthabere tres æquales duobus
reftis non tamen ſecundum quod ipſum . Alio autem modo per fe ,id dicitur
alicui conuenire , quod etiam conuenit ſecundum quòd ipfum , ita quod, id quod
non conuenit ſecundum quod ipſum non etiam conueniat perſe , niſi quodam modo,
fic quod perſe non immedia = te , oſecundum quod ipſum , diſtinguntur tanquam
magis &minus uni uerfale per fe autem immediate , &ſecundum quod ipſum
, hec quidem non diſtinguntur,ita ut unumſine alio poßit ineſſe eidem ,
Peccauit igitur Joannes ofequaces determinantes uniuerſaliter id, quod
particulariter uerum est, uniuerfaliter autem falfum , Triangulo igitur
immediate, cu per ſe, o ſecundum quod ipſum conuenit habere
tresduobusre&tis æqua les , quodam autem modo non per ſe ipſi iſoſceli
conuenit habere tres duobus rečtis equalis . Vt Ariſtoteles ſententia, hæc ſit
, quòd per ſe immediate , ſecundum quod ipſum , idem fint , neque ab inuicem in
aliquo diſtinguuntur, per le autem non primum , “ſecundum quod ip fum , hec duo
uere diſtinguuntur , ut Ioannes ſuisexemplis, immo Ari ſtoteles in
Texu,exemplomanifeſtat . HET luben 10a TE X. X X VI . ALIAS XI I. ## ling
PORTET autem non latere , quoniam fæpe numero contingit errare , & non eſſe
quod demonſtratur primum uniuerſale, ſecundum quòd uidetur uniuerſale
demonſtrari primū, aberramus autem hac deceptione, cum aut ni hil ſit accipere
ſuperius,peti fingulare , aut Fij 44 ? IN PR ÍMVM LI B. ſingularia. Aduertendum
Ioannem Grammaticum & uniueros Ario ſtotelis interpretes , ſiue Greci,
Latini , uel Arabes fuerint perperam eſſe interpretatos hunc Ariſtotelis Textum
, &tres ſequentes textus @rita male fenferunt de Ariſtotele , quòd litteram
pariter & fenfum omnem peruertunt &corruinpunt . Circa Ariſtotelis litteram
, an tequim ad eius interpretationem accedam , falſit as loannis , oſequa tium
est hoc loco non pretereunds. Primo circa hunc textum , loans nes adfert
exempla multa quorum neque unum tantum facit pro textus declaratione , ait enim
Ariſtoteles. Cum nihil fit accipere fupes rius. Nihil fit , neque uox quidem ,
utputa nomen aliquod fictitium ,& acceptum ,cui tamen in re nihil
refpondeat ut eſt hoc nomen chimera, cui nomini nihil extra in re conuenit ,fic
tandem, ut neque res ſi aliqua fie ue ens aliquod , ita ut nulla ſit res ,
neque ſit nomen aliquod ſignifi cans illud non ens . ipſe autem loannes
explicat Ariſtot . litteram cirs ca illud , cui eſt accipere fuperius ,
&circa illud , cui nomen impoſitum eſt,ut est, Terra ,' Sol, øMundus ,
&triangulus , horum omnium ex tant nomina , ut manifeftum eft; o ſingulum
ſuperius est ad ſua indiuis dua , nempe ad hancterram , ad hunc Solem , ad hunc
mundum , ad -Scalenonen , perperam igitur interpretatur loannes hunc textum cum
ipfe adferat exemplum de eo , cui ſit accipere fuperius , cui nomer impofitum
eſt , Textus autem Ariſtotelis dicat , cum non fit accipere fuperius. T E X.
XXVII. i VT fi quid eft, fed innominatum fit in difo ferentibus fpetie rebus.
Ioannes Toto errat Cees loo .fequentes ipfum , circa litteram e doctrinam Ari
stetelis ,textusfic habet . Si quid eft ,illud tamen innominatum fit in
differentibus fpetie res bus . Ioannes inquit , non exiſtente commune aliquo de
quo non exiſtente , prebet exempla deexiſtentibus , contra feipſum V etiam de
nominatis in differentibus petie rebus , contra Ariſtotelis textum , ait enim
Ariſtoteles . Sed innominatum ſit in differens tibus fpetie rebus , exempla
adfert Ioannes de Triangulo, qui nominatur , eft in pluribus fpetiebus
differentibus , ut in Iſopleuro Iſoſcele , Scaler.one , o fimiliter de quanto
prebet cxemplum loane nes , quod nedum nomen habet , fed in differentibus
fpetie pluribus est POSTRIO RVM ARIST. 45 par A @ etiam in pluribus
generibusdifferentibus eft , neque mireris uelimſi Joannes ocæteri expoſitores
aliò pedem retullerint, cumfaltus aſperie tatem ſenſerint &iuerit uſque
Gorcie inficias , obfcurans Ariſtotelem Platonicis ſuadelis . TEXTVS VIGESIMVS
OCTAVVS. VT contingat eſſe ficut in parte totum in quomonftratur his enim quę
funt in te , ineft quidem demonſtratio , & erit de omni, ſed tainen non
huius erit primi uni uerfalis demonftratio , dico autem huius primi , ſecundum
quod huius demonſtra tionem , cumfit primi unirerfalis. Bonus Ioannes ofequaces
prefertim Niphus fueſſanus medices Neapolitanus philotheus Augu ftinus
philoſophus, og fequaces multi fimiles ſine nomine , pleni nominis bus, quos in
interglutiendam uniuerſam Ariſtotelis philoſophiam, os ho rum textū ſuffocauit
, cū ad exempla deuenerint,quibus Ariſtoteles cla rum reddit id, quod in tribus
modis errandi circa univerſale dixit, loan nes ( eg peius cæteri) circa finem
comenti huius textus fic ait ,in reliquia trium modorum exempla per bec
exponit, uerū non utitur ordine exem plorum cum ordine modorum errandi,
propofitum enim exemplum ters tij eſt modi, Dico philofophum fummoartificio
ordiri otexere modos errandi cum exemplis , ſicut modo cuique errandi
correſpondeat pros prium &peculiare exemplum , ut quemadmodum tres
numerauerit ers randi modos circa uniuerfale , tria exempla , ipſis correſpondentia
fubiecit, ſic ut primum exemplum primo errandi modo, fecundum exem plum ; ut in
littera Ariſtotelis ponitur fecundo modo errandi correſpon deat, otertium
exemplum ipſi tertio modo errandi apte conueniat, quo ordine confuſionem omni
ex parte inter cxempla os modos errandi fuæ giens, in primis ſuo artificio ,
modum errandi &exemplum fibi corre fpondens notificauit circa id quod debet
effe medium demonſtrationis , ſe cundus errandi modus &exemplum fibi
correſpondens, cõcernitfubies Sum demonſtrationis, tertius modus errandi circa
uniuerfale cum exem plo ſibi coherente, concernit totam demonftrationem , feu
arguendi mo dum qui dicitur permutata proportio , errauit igitur Ioannes v
omnes alij, qui aliter quam ut hucufque dixi extorquent Ariſtotelis textum ,
non intelligentes. 3 I N P R I M VM LIB. · Pro declaratione igitur uigeſimi
fexti textus , fit hæc noftra prima ina ter expoſitores dilucidatio uel ſi
difpliceat , dicas eam eſſe ſecundam ,uel etiam millefimam . Primī modum
errandiexpono ſic, ſcias quòd de duas bus lineis reétis , tanquam de ſubiecto ,
concluditur hec paßio , nempe quod non intercidant; uidelicet quòd parallelæ
ſint ſeu equidiſt antes, per hoc , tanquam per medium , quia linea recta ſuper
duas line as rectas cadēs eſt poſita in omnibus quatuor angulis rectis , ideo
ille due recte parallelæſunt, oetiam per hoc me dium , quod cum linea recta
ſuper duas lineas rectas cadensfecerit an- A. 6 gulos quomodolibet æquales,
utputa alternos acutos ſibi inuicem æqua- c . d les, uel alternos obtufos ſibi
inuicem equales, illæ duæ lineæ funt æquidis ftantes , iterum per hoc medium
quãdo linea recta cadens fuper duas alias rectas lineas fecerit exterio rem
angulum æqualem interiori ex eadem parte, ille duæ lineæ paraller le ſunt ,
&adhuc per iftud medium , ut fi linea recta cadens ſuper duas rectas lineas
, fecerit duos intrinſecos angulos æquales duobus reftis ,ut probant X X VII.
XXVIII. primi elementorum quod adhuc illæ due recte linee parallelæ ſunt. Modo
ſi Geometra putaret demonſtras, tionem factam per ſingulum mediorum di&torü
,eſſe uniuerſalem ,erraret primo errore circa uniuerfale ,quia nullibi medium
eſt uniuerſale et unī; nulla enim natura, nec res aliqua eft cómunisad omnes
quatuor angulos rectos, ad binos acutos, binoſque obtuſos,ad intrinſecum et extrinfecum
ex eadë parteſumptos , et ad duos intrinſecos ex eademparte acceptos, niſi quis
uudeat dicere,quòd quædam cõmunis natura,eſt ad omnes pres nominutos angulos,
utputa æqualitas angulori, quæ quidem angulorum equalitas,ratio eſſet, ut
cõcludas lineas eſſeparallelas, iſtud ſomnium ,ul tra quodfit falfitate plenum
, eft etiam nimis procul ab apparenti mena dacio, non ne etiam in
concurrentibus lineis repperitur æqualitas angu lorum ? ut puta in his angulis
qui ſunt ad uerticem poſiti, cauſati à linea cadenteſuper duas rectus
lineas,illa enim cadens cum utralibet earumf1 . per quas cadit , caufat
uerticales angulos æquales ut ſunt anguli a gd, @ b8f, uel anguli c fe, em gfb,
ſtatim hoc reiciet dicens,quod de al 1 POSTERIORVM ARI'S T. 47 ternis angulis intelligenda
eſt illa equalitas , ut natura illa communis tantum ſit equalitas coalternorum
, hec reſponſio eft uana cũ illa equa a litas ſitequiuoca , uel dicas analo gam
, ad equalitatem retorum , acu torum , obtuforum angulorum , @etiam dico, quod
totã hoc,& qua litas angulorum,non eft und abſolu = ta naturd,una abſoluta
( utputa) eſt unus atq; alter angulorum , reliqua natura eſt reſpectiua et ad
aliquid , ut æqualitas inter utrumq;, ſi diceret quod accipitur pro medio,
tantuin equalitas in omnibus illis fine pluri,dico quòd per æqualitatem non con
cluditur, quod lineæ parallele ſint,niſi per æqualitatě talium angulorī, Et
dico etiam quòd non tantum per equalitatem coalternorīt , ſed etiam per
æqualitatë extrinſeciad intrinfecum, et per duos intrinſecos,quorīt alter
acutus reliquus obtufus,qui equalesfunt duobus re & tis, quæ omnia non
habent unum ſuperiusuniuocum , igitur non eft aliquid accipere ſus perius ad
hæc omnia , igitur petimus tunc ſingularia media in propoſito concludendo,
&ſicerramus , ſi nobis uideatur uniuerſale demonſtrare primū. Error igitur
iſte circa uniuerſale,eſt circa medium demonſtratio nis quod quidem medium
uniuerfale, cum non fit , fingularia media peti mus, ſimile habes huic per
XXVII ( XXVIII primi Elementorū, Euclidis per quas Ariſtoteles manifeſtat
propoſitum . Itidem fimile per quintam , fextam , a ſeptimum fextiElementorum
,quibus probat Eucli des per diuerſa media ſingularia , o non per unum
uniuerſale medium , triangula eſſe equiangula. Aliud etiam in Euclide habes xui
primi Elementorum « in ſexto Elementorum propoſitione xxx, quibus lo cis ſimile
huic probat, quod duæ lineæ ,in dire&tum cõiun&tafunt et lines und,
ohoc per ſingularia odiuerfa media, quibus non eft aliquid unis accipere
fuperius. Vigefimiſeptimitextusſit hec mea declaratio , immo.eft ipſius Ariſto
telis ad unguem , quam Ioannes grammaticus , neque nouus aliquis , ſiue
antiquus etiam interpres, non percepit , hoctextu affert Ariſtoteles les cundum
errandi modum , à primo modo errandi longe dißimilem , atque diuerfum , in
primo modo errandi nulla natura communis accipiebatur 48. IN PRIM VM LI B. 1
fuperior, neque nomen aliquod, ſeu quæpiam uox habebatur, in hoc aue, tem
ſecundoerrandi modo, natura ipſa communis eft, o inſuper nomen . ei impoſitum
eſt. Verum quia natura illa non habet ſub ſe plures fpe= ; cies , ideo illa,
&fi fit, anominata ſit, in pluribus tamen differentibus fpecie rebus,
innominataeſt, ob defficientiam ipſarum ſpecierum , quiail Leſpecies non ſunt,
ut folis , terre , mundi natura , eſt innominatain plu ribus ſpeciebus terre ,
quia plures ſpecies terre nonſunt , fi igitur quiſ piam demonſtrationemde cælo
tentaret, & quodfit dextrum in ipſo com cluderet, &putaret quod eſſet
ſuademonſtratio uniuerſalis , quia no eft aliud primum cælum ,erraret quia non
de hoc cælo , primofitdemöſtra tio , fed de natura coeli , ut eft quid
uniuerfalius ad hoc primum cælum , ſeu de cælo , fine contratione ad hoc
ſingulare cælum, quam doctrinants Ariſtotelesſuis mathematicis exemplis,
&quidem aptißimis , fole cans didiorum reddit ; inquit enim in exemplo
fecundo , quod quidem fecundo errandi modo correſpondet , oſi triangulus non
effet aliud quàm 1f0a) ſceles , ſecundum quod Iſoſceles eſt . Videretur utiqiie
ineſſe primo,has bere tres æquales duobus rectis, cum nullus effet alius
triangulus,uel nul la alia eſſet ſpecies trianguli quam fofceles , &tunc
error ſecundo mos : do contingeret. Explico Ariſtotelis ſententiam . In primis
eft aduerten dum , quòd triangulus re ipſa hubet ſub ſe tres ſpecies
triangulorum , fo pleurum , iſoſcelem oScalenonen , quod ſi tamen per
imaginationem ponamns , quod non haberet ſub ſe ljopleurum, neque Scalenonen ,
per ſecluſionem illarum duarum ſpecierum , tantum haberet ſpeciem unā, ut
iſoſcelem , eſſet tunctriangulu : innominatus in Scalenone atque Iſos: pleuro,
quia fi in illis ſpeciebus triangulus nominaretur , ut fic,Scalenon eft
triangulus, Iſopleurus eft triangulus , iam illæ ſpecies duæ triangu . lorum
effent , quas ſuppofuit Aristoteles, ut non eſſent,ut ſuum oſtendat .
propoſitum . His ſuppoſitis , ſiquis de foſcele concluderet ; quòd tres haberet
æquales duobus reétis ,o putaret quòd uniuerſalis effet bec des monftratio,
quia nullus eft alius triangulus , quam foſceles, crraretſes. cundo errandi
modo , quia Iſoſceles habet fuperius o uniuerſalius fe , nempe triangulum , de
quo primo concluditur talis affectio, & talis era , ror multa diuerſa à
prinoerrandi modo habet,quorum unum eft, ut pri mus modus errandi,ſit
circa.medium , & iſte ſecundus modus errandi fit. circaſubiectum demonſtrationis
. Aliud , ut in primo nonſitfuperius ali quid nec etiam nominatum , In hoc
ſecundo eſte ſuperius og nominas, tum , ut triangulus, Tertio illud
innominatumſit in pluribusmedijs, hoc. autein ? POSTERIORVMARIST. 49 DS
autemfecundo modo innominatumfit in duabusfpeciebus tantum , uideli cet in
Iſopleuro w Scalenone, Ibi ut in omnibus fit innominatum , Hic aue tem
nominatum ſit tantum in una ſpecie, ut triangulus in 1fofcele. Advigeſimum
octauum textum cã acceſſerit philoponus ad orchos in greſſus, non potuit ex
inextricabılı labirintho egredi, ita ut ea, quæ pue rilia ſuntin
interpretatione, perperam ej tortuoſe ſit interpretatus,vt puta uerbum hoc,
aliquando , non temporaliter,inquit,audiendü eſt, ſed quaſi diminutius ut ait
ipfe, non exacte fit audiendum , fimili modo ergo ijtud uerbum , Nunc,haud
,inquit,temporaliter audiendum eſt , quin po tius , exacte, o ſecundum Methodum
demonftratiuam , Pedagogorā mo dum inſequutus, qui quattuorgrecis litteris
intineti temerario aufu, ſi ne quacunquefcientia aut liberaliarte ad
explicandum Ariſtotelem uens toſi cum accefferint ipſi implicati non ut loannes
plicis binis uel ternis terminos exponit, ſed denis centenis atq; millenis
epiſtolis ſuos codiculos imptent promittunt etiam multis nobilibus ſe
expoſituros Ariſt.uocantų; fepe illos nobiles nominatim ut teftes tādem ſint
ſue infanie , et ut uidean tur etiam ipſi aliquid in Ariſtotele ſuo chere
illuſtraſſe, cum nondum pri ma philoſophie elementa fufceperint, Pereant ipſi
cum ſua ignorantia , uelfuis fericis ueftibus addifcere poft multa těpora
incipiant,oſiferico indueti,atque equoinfedentes, o rabini facti addiſcere
uerecundantur. fufcipiant eam quam decet philofophum , ueftem , o Euclidis
honeſtate accedant ad Socratem ; ne fintpoſt hac , fomenta praua difpofitionis
preſtantißimæ iuuentuti in celebratißimis terrarum gymnaſijs . Qui dam alij
interpretes quorum eſſe nefcio, quia ſuum eſſe nihil eft, neq; fuit unquam
abradunt ly nunc, & locofuo,legunt, non, &ly aliquando,fo litarie fine
fenfu relinquunt , quibus expofitionibus uel potius torturis iam iam incipiat
Ariſtotelis lamétatio, Abigatur igitur cum mufcis afta bulòunaatque alteru
interpretatio, feu magis Ariftotelis deprauatio , et legatur textus ut lacet in
greco, quitextus græcus habet has particulas, aliquando, et nunc, que uerba
temporaliter onullo alio modo intelligan tur, neque intelligi aliter poſſunt,
onon legatur , loco de ly nunc , non, ut quidam facit hoc tempore, quenſcies,
ſi tua ſcripta ab ipſo accepta le geris, Pro declaratione igitur uera ,
queunaſola eft, quă inferius fübi ciam , et nulla alia ab ifta uers effe poteft
, ad Arijtotelem redeundo , textum expono . Proportionale, quod commutabiliter
eſt. Aduertendū quod iftud de proportionale, exemplum , eft tertij modi, pro
cutus declaratio 03 of 21 that * MA es G so IN PRIMVM LIB, ne dico Ariſtotelem
proprium quantitatis determinaffe in fine predicar menti quantitatis dicentem ;
Proprium autě quantitati cft maxi. me çqualitas & inequalitas,reliqua uero
queno ſunt quan ta no proprie æqualia ac inęqualia eſſe dicuntur, Velutidiſpo
ſitio ,uel etiam habitus æqualis, inequalisue non omnino propriedicitur, fed
familispotius,atá; dißimilis, & album itidem æqualeinæqualeue non onnino
dicitur, fed fimile dici atque dißimile dicifolet, Proportio ſeu ratio, ut ab
Euclide deffinitur in quintoElemětorum eft duarum quantæcunquefint eiufdem
generis quantitatum alterius ad alte ram habitudo quædam , ex Ariſtotele igitur
habetur , quod proprium eft ipſi quantitati, esſe quale aut inequale. Ex
Euclide uero quòd propora tio eſt quantitatumfolummodo, ex utroqueuero , quod
tantum in quana titate proprie reperitur proportio , quæ quidem eſtæqualitatis
, in equalitatis ; inequalitatis uero proportio biffariamſecatur fecundum
Boetium in primo Arithmeticæ in inequalitatem maiorematque minoa, rem
,equalitatis proportio eſt quandofundamentā et terminusfunt æqua lia, ut duo ad
duo, inequalitatis uero proportio eft quando fundamenti eſt maius , terminus
autē minor , et hæceft maior inequalitas.uerominor eft,quando fundamentum
eftminus terminus uero maior,ut sunr ad 21, maior,et 11 ad 1 1 1 1 minor,
Præter hæc ſcito , quidam modiarguenda quibusmathematici utuntur(de
quibusEuclides in quinto) indifferenter applicatur quantitatibus eiufdem , fiue
etiam alterius generis, dummos do bina ſintuniusgeneris et bine alterius, ut in
equaproportionalitate patet, hic autem modus-arguendi qui dicitur commutata
proportio non niſi quantitatibus, quæ eiufdem generisſunt attribuitur . Quibus
pras intelectis o declaratis , uides Platonem improprie applicuiffe uirtutia
bus in Gorgia cõmutată proportionalitaté, quibus etiã qualitatibus,pro portio
nonconuenit, ex deffinitione proportionis fuperius data,quapro, pter non eſt
propria rerum natura, neque uera e propria Ariſtotelis ſententia ,aliena
docirina perturbanda. Vbienim ait Ariſtotelesloquens de tertio errandimodo,aut
cótingit efle, ficut in parte totūztoti hoc loco,uniuerſale intelligendum eft
,partem uero inferius ad ipfum uni uerfale , Mododico,quòd antiqui philofophi
qui precefferütEuclidem Ariſtotelem ſæpißime errauerunt hoc tertio errandi
modo, putantes de toto, feu uniuerfalemfacere demonftrationem , que tamen erat
in par te demonstratio ,hoc eſt particularis &non univerſalis, ideoait
philoſos plus quemadmodum demonftratum , eft aliquando , uidelicetabantiquis
POSTERIORVM ARIST. philoſophis, qui tempore Ariſtotelem ,atque Euclidem
preceſſerūt,quia ipfi non aduerterunt quod quantum , eſt id (id eſt natura
aliqua) quod fum perius accipitur , nominatum eft in pluribus differentibus
fpecie res büs, differt igitur iſte modus à primo, quia ibi non erat accipere
aliquid ſuperius, o etiam differt àſecundo, quia in fecundo illud fuperiusnon
erat nominatuin in pluribus differentibus ſpecie rebus, hoc autem , quod hic
conſideratur, eft in pluribusſpeciebusnominatum, & comune,atque uniuerſale
onnibus quantis, fiue illa diſcreta , ſeu cötinua ſint, quorun effe fucceßiuuki
, feuetiam permanensſit , ut numeri ſunt,lines , folida, tempora , &alia
huiufmodiſpecie differentia , feorfum ab inuicem ali quando acceperunt antiqui
deſingulis demonſtrationemfacientes. Nunc uero, inquit,philofophus uniuerfale
demonftratur, fenſus, uniuerſali ad hæc omnia,modusiſte arguëdi imediate et
perſe attribuitur, ut ipſi quan titati , quatenus tale . Nunc dico , nedum in
eo Ariſtoteleo quidem tempo të , & à philofophis reéte fapientibus , ſed
etiam oprimo abEuclide; cuius clarißimi philofophi beneficio habetur
demonſtratio uniuerſalis omnibus quantis, ut fuo quinto libro Elementorum
docet, propoſitione fextadecima, Errabant igitur antiqui aliquando , arguendo
permutatim in numeris ſeorſun , in lineis feorfum , cæteris feorfum , nunc au =
tem non contingit iſte error his , qui ſequuntur Euclidis ſcitum , quia nunc,
ideſt poſt Euclidis fcripta uniuerſaliter demonſtratur , hoc eſtmo:. dusiftearguendi
primo per fequantitati conuenit , quægenuseft ergo üniverſale adomnia quanta ,
hæc autem eſt mea interpretatio , uera og germanaipſi Ariſtoteli, ut etiam ipſe
ſuis uerbis manifeftat Text. 93. ubi apertißime declarat propoſitum . Propter
hoc nec fi aliquis monſtret, unumquēque trian ĝulum demonſtrationeaut una , aut
altera quod duos re čtos habet unuſquiſque Iſopleurus feorfum & Scalenon
,& Iſoſceles, nondum cognouit triangulum , quòd duos rectos habet , niſi
ſophiſtico inodo ,rieque uniuerfaliter triangu huum ,ne quidem fi nullus eſt ,
pręterhæc triangulus alter,no enim fecüdum quod trianguluseft cognouit,neque fi
om= nem triangulum ,ſed quatenus ſecundum numerum , ſecun dum autem fpeciem no
omnem , & fi nullus eſt , quem non nouit . Non eſt ſurdaaure pretereundum
artificium fummum , quod in hoc exemplo Ariſtoteles docet, fcias hoc exemplo de
triangulo , com ✓ ple
&ti duos errandi modos, vel facerepro duobus modis, errandi, ſecun Gij sa
IN PRIMVM : LIB . do, atque tertio, cum primum defingulo modo , fecundo
&tertio , fe. paratim exempla aptißima e peculiaria pofuit , ftatim attulit
aliud exemplum utrique, ſecundo uidelicet,atque tertio modo feruiens, Com.
poſitiuam methoduin etiam in exemplis feruauit. Littera autem per particulas,
ſic declaratur ; inquit enim, demonſtratione aut una aut al tera; una enim
demonſtratione numero fieri-non poteft , ut deIſopleuro folcele, C Scalenone ,
concludatur quod tres equales duobus reftis habeat , uia igitur fpecie
demonſtratio erit, qua de his tribus triangu lorum fpeciebus demonſtrabitur ,
quod tres habeat æquales duobusree Atis , ideo dixit Ariſtoteles demonſtratione
aut una aut altera ; ac fi dices ret pluribus numero demonſtrationibus, de
tribus ſpeciebus illis cons cludi, quod tres duobus rectis pares habeat hæc autem
demonftratio , nullo modo intelligi potest , quòd fyllogiſtica ſit , quia
tuncmaior pre. miſſa acciperet de uniuerfalitriangulo , quod haberettres
equales duo bus reftis ,ſic fyllogizando , omnis triangulus habet tres angulos
æquam les duobus rectis , ſed Iſoſceles , uel Iſopleurus , uel Scalenon , eſt
triangulus , igitur foſceles , uel Iſopleurus ,uel Scalenon habet tres, æquales
duobus rectis, Sic igitur fyllogizando uel particulatim abſque illo diſiunto ,
fed uno tantum affumpto triangulo , non ne , ſcio de triangulo uniuerſaliter ,
in maiori aſſumpta quòd triangulus habet tres æquales duobus reftis ? quod e
diametro opponitur ei quod Arift. ait,ut et fi de Iſopleuro, et cæteris
fciuero,quòd habeat tres æquales duo bus,nondūſcio de triãgulo,niſiper accidens,per
accidés dico quatenus in ferius omne, ſuperiori accidit,modus igiturilledicendi
, quein uidentur omnes latini atque greciſequi, non poteſtſtarecum Ariſtotelis
ſentena tia, quia iam priusſciretuniuerſale in maiore fumpta et per uniuerſale
in cognitionem particulariñ deueniretur ,qui error non eſt , ſiquis autem di
ceret, ut fic intelligi debeat demonſtratione,aut una fyllogiſtica , aut alte
ra Geometrica, dico quod nullo modode ſyllogiſtica poteft intelligi, quia
ſequeretur idein incommodum eo modo arguendiſyllogistice,contra dos Arinam ex
litteram Aristotelis , ut fupra dixi, quia tunc per cognitio nem uniuerſalis
deueniremus in cognitionem particularium quod ex ſi id uerum ſit, modusquo ipſe
textu Il docet, quo modo de nouoſci mus,non hoctamen in hoc textu pertractat,
ſed agit,hoc textu ,& in hoc , exemplo, de errore , qui opponitur uero modo
ſciendi,onon de mo: do , quo de nouofcimus quippiam. Niſi quis de ſyllogiſtica
demonſtratio neintelligensafingularibus ad uniuerſale progredereturfic, omnis 1
/ 0 POSTERIO RVM 'ARIS T. ſceles habet tres equales duobus rectis,fed
triangulus iſoſceles est , igis tur triangulus habet tres duobus rectis pares,
&de alijs fpeciebus limie liter, & tunc fciret iste ſecundum numerum i
particulariſubiecto I fofce le ad uniuerfalem triangulum progrediendo,quod no
diſplicet, et ſic una fpecieſyllogiſtica concluderetur de uniuerſali per
particularia , uel etiã altera,nempe Geoinetrica . Pro cuius ellucidatione ,
eft fciendun ; ultra ea , quæ de Geometrica demonſtratione dictum eſt in textu
tertio , quod Euclides ſecunda parte trigeſimeſecunde primi Elementorun
demonſtrat quod triangulus qua. tenus triangulus est, habet tres angulos
æquales duobus-rectis , fi quis modo, utcunque intructus bonis litteris ( non
dico Ariftelis deuoratos, res uel potius carnium «acephalorum ſeptem , unis
bycis uoraces , quiafi uerbauinitateplena habeant non tainen Aristotelis
do& rinam tenent,quam falſo profitentur)iſus fuerit illa. demonftratione
oſtendens de 1fofcele , quòd habeat tres e qualesduobus reftis per
decimamtertiam O vigeſimumnonam primi Elementorum , aut altera numero , eadem
ta menſpetie de Iſopleuro & Scaleno.ne idein oftendat , ita quòd de ſingus
lis trianguloruin þetiebus inducat , quod habeat unaqueque ſpecies triangulorum
tres equales duobus, nonduin cognouit inquit , triangus lum quòd duobus reftis
æquales habet , niſi ſophiſtico modo, neque uni uerſaliter trianguluna effe
huiufmodi , ne quidein fi nullus eft , preter, hec, triangulusalius , non enim
quod triangulus eft huiufmodi cogno uit , nequeſi omnem triangulum , hoc habere
contingut , utputs duobus reftis æquales,ſed quatenusfecundum numerum , ideft
fecundum nume rumfpetierum triangulorum, ſecunduin autein fpetien , in uno
uidelicet uniuerfali, non omnein ca ſi nullus eft fecundum ſpetiem , id eſt ſe
cundumnumerum trium triangulorum petieruin , ſeparatim ,quem non nouit. Erraret
igitur duplici errore ille , qui putaret eße unia uerſale fubie&tum , &
totum , id quod effet particulare fubieétum , parsfubieétiut , quia tunc acciperet
in parte totum , id eft partem , to tum effe exiftimaret . Si autem triangulus
immaginetur faluari in unica tantum fpetie , ut in iſoſcele, tunc exemplum
intelligatur , aptari feo cundo modo errandi tantum , non etiam tertio . Vides
igitur amice, quod Ariſtoteles modos tres attulit errandi circa
uniuerfale,quorum cuique proprium , &peculiare exemplum aptauit . Neque
legas poſt hac lyaliquando , prominus exacte , nequely nunc,pro exacte ita ,ut
neutrum ,tempusſignificet , fed utrunque temporaliterlegatur , neque 1 i 54 IN
P R I M V M L I B. legendum eſt ly nunc pronon , ut quidam , qui nullus homo
est facit . Ad id autem quod Ioannes de Gorgia tetigit , aie quod quantitas ,
natura ipſa , qualitatem precedit , fic ut quantitas , fit prior ipſa qualitate
non dico tempore necetiam natura ſed ordine , oid quod propriumquan titati eſt
prius est proprio qualitatis, fimiliter et modi,quiſunt ipſiquãti tati proprij
, ut eſt proportio, & modus arguendi , qui dicitur permu . tata proportio ,
funt hæc quantitati propria oſibi primo conueniunt, deinde etiam qualitatibus
ſecundario « improprie attribuuntur. Quem admodum etiamSyllogiſmus , qui
omnibus philoſophiæ partibus eft com munis per attributionem , de eo tamen
primo oproprijsſime Logicafa cultas agit , quòd ſi ſubſtantijs quantitate
prioribus , quis tribuat come mutabiliter proportionari, tunc uniuerfaliter
reſponde , quod omnibus entibus poteft attribui commutabiliter proportionari
improprie tamen , oper quandam attributionem fecrındariam , quatenus omnia entia,has
bent quantitatem molis , aut uirtutis in ſe ,o ſic Plato attribuit in Gori gia
commutabiliter proportionari illis qualitatibus improprie , opro ut ille
qualitates includunt quantitatem uirtutis , quæ funtgradus pera feftionis. TE
X. XXIX. ALIAS XIIII. VANDO igitur non nouit uniuerſaliter, & quando nouit
fimpliciter , manifeftum eft utique. Quoniain , li idem erit triangulo eſſe
& Iſopleuro , aut unicuique,aut omnibus fi uero non idem fed alteruin &
cætera. Littera ſic exponatur , fi eadem deffinitio quæ trianguli est , cſJet
ipſius etiam Iſopleuri propria o peculiaris , aut unicuique 1fos pleuro
iſoſceli o Scalenoniſeparatim , aut etiam omnibus fimul in com muni à quanon
ſit alia deffinitio ipſis conueniens , ſi uero non idem , id est finon est
eadem unica deffinitio , quæ bis omnibus æque primo conue ! niat , fed alterum
, id eſt diuerfum nempe deffinitio trianguli est figura tribus lineis rectis
claufa , fed iſopleurus est figura tribus lineis rectis æqualibus claufa ,
iſoſceles est figura tribus lineis duabus nanque æquae libus , una inequali
claufa , gradatus eſt figura tribus lineis inæquae libusclaufa , ecce modo ,
quàm diuerſa ſint deffinitiones , fi ineſt igitur tres habere his omnibus , hoc
quidem eft unicuique , fecundum quod eſt triangulus , uelfecundum quod eft
figura tribus rectis claufa , o non POSTERIORVM ARIST. 55 脚 叶 , 關 洲 加以 如 叫 加 has
pro eta quia illis lireis equalibus , uel inequalibus claudatur. Vtrum autem
fecundum quod eft triangulus , aut fecundum quod Iſoſce les infit, & quãdo
ſecundum hoc, eſt primun, &uniuerfale, cuius eſt demonſtratio,
manifeſtūeſt, quando remotis infit primo,ut Iſoſceli, æneo remoto ,triangulo
infunt duobus rectis pares , fed æncun eſle remoto, &Ifoſceli etiam remo to
infunt tres duobus rectis pares, fed non inſunt tres duo bus rectis pares
figura & termino remotis, quia etiam ipfis inſunt duobus rectis tres
æquales , fed eis non primo, ut fi gura que clauditur termnino uel terminis ,
quo igiturprimo reinoto , cui priino conuenit ; remouetur , & habere tres,
fi itaque triangulus remoueatur, remouebitur & habere tres duobus rectis
pares , & ſecundum hoc igitur , id eft few cundum triangulum ineſt, &
aliis per ipſum & huiuſmodi trianguli uniuerſaliter eſt demonſtratio .
Littera fic ordináta, artificiun Ariſtotelis est conſiderandum , in hac regula
, quam prebet ad cognofcendum , quando erit uniuerfaliter demonſtratio , ego
exem plum eft contraſecundum modum errandicirca uniuerſale,ſic ,utſeruans hanc
regulam ,non errabitſecundo modo errandi circauniuerfale,& pri mo,remotis
accidentibus indiuiduorī ,utremoto ere,non remoueturaf feétio uniuerfalis ut
habere tres duobus reétis pares, as enimfeu aneum effe ,non conuenit fpeciebus
triangulorum , niſi quia indiuiduis triangulis conuenit remota,fubinde fpecie
trianguli , ut Ifofcele remoto , non pro pterea remouetur affectio uniuerſalis,
quæ eft habere tres duobus reétis pares , quia in alijs fpetiebusſaluatur
natura,cui primo conuenit habere tres,ut in ſopleuro,e Scalenone ſaluatur
naturatrianguli,cui prinoco uenit habere tres,tertio remouet genus ad
cuiusremotionem remouetur villa affeétio ,ut remotafigura, &tres habere
duobus re &tis pares remo uetur , Quarto cultimo remota deffinitione
generis, ut remoto termino figura enim eſt , que termino uel terminis clauditur
, remouetur og illa affectio ſed non primo , primo enim conuenit ipſi triangulo
, triangulo igitur remoto, statim remouetur & illa affectio , habere tres
duobusre Atis pares, demonftratio igitur qua concluditur quòd triangulus habet
tres angulos equalesduobus reātis , eft uniuerſaliter . & eft Te i IN
PRIMVM LIB. TEX. XXXVII . ALIAS XX. Pro quo VORVM autein genus alterum eft ,
ficut Arithmeticæ , & Geometriæ ,non eft enim Arithmeticam demonftrationem
accom modare ad inagnitudinum accidentia niſi magnitudines numeri fint. Gnarus
Ari ſtoteles Geometrie & Arithmetica non dubitanz do loquutuseft inquiens
,niſi magnitudines numeri fint , fed fuæ regulæ uniuerfalis exceptionem faciens
, niſi inquit magnitudines numeri ſint. aduertas magnitudines nunquam fieri
numeri nifi numeri nuo merati , o adhuc numeri illi numerati non fit diſcreta
quantitas , ſic ut illinumerati numeri, non copulentur ad aliquem communem
terminum , ſicut numeri, ofillabe, no:1 ad terminum copulantur communem ,fed ad
comunem terminum copulantar ille magnitudines que numeri funt per folum tamen
intellectum à fe inuicem feparatæ intelliguntur ille quidem magnitudines quæ
numerati numeri,Sunt non quod intellectus aliter quã ſint, eas percipiat
oppoſito modo , fed eas tantum conhder atparticunt Latim , no intelligendo eas
niſi priuatiuenon effe coniunctas ,non tamen in telligendo eas negatiue , non
effe coniunétas, ut pro exemplofufcipiatur id ,quod Euclides proponit
propoſitione quinta deci f mi Elementorum commens ar d ſurabiles
magnitudines,ad inuicem rationem habent quam numerusad numeră be cuius
deinonftratio talis est. Sint due inagnitudines a b communicantes, dico quod
earum pro portio eft,ſicut alicuius numeri ad alium numerumfit enim maxima quan
titas c cõmuniter menfurans a ®b, reperta ut docet xiij. Elementorum quæ
inenfuret a fecundum numerum d, o b fecundum numerum e, erita; a ad c, ut d'ad
unit atem eo quod ſicut a eft multiplex Citad eſt multiplex unitatis, at c adi
b, ut unit as ad e , quoniam ſicut c eft ſubmultiplex b, ita unitas eſt ſubmultiplex
e, igitur per aquam propor tionalitatem a adb, ut d ad e quod eft propoſitum ,
Ecce quod f linea fecans a lineam in puncto F, non ſeparatprima partē linet a,
à fecunda parte CH POSTERIORVM ARIST. st n parte linee a, quis, punctus
copulansprimam partem lineæ & cum fes cunda parte , manet idem , immo eſt
communis punétus &ipfi lined a & ipſi f, intelle &tus tamen
intelligit primam , atquefecundam partem li nea 4, abſque quòd conſideret,ut ad
comunem punétum f copulentur. Ecce uides quomodo Euclides utitur medio
Arithmetico,ut puta nume ro in constructione , «æqua proportionalitate ad
probandam affeétio nëdemagnitudinibus, In vis uel 1 x propoſitione decimi
utitur uns decima octaui, tamquam principio Arithmetico in concludenda affe
ftio ne de magnitudinibus , hocfepißimefacit in toto decimo libro Eles mentorum
Magnitudines , numeri funt, quando ille habent communem menfuram qua communiter
dimetiantur , diameter igitur quadrati , Oſuacostanunquam funt, neque dicentur
quod ipfæ numeriſint,de ma gnitudinibus etiä que numeri ſunt trattat Euclides
in ſecundo Elemento rā à prima propoſitione ufq; ad undecimãexclufiue, Ecce quo
pacto utis mur arithmetico principio,circa Genusgeometricã, quod græciala -
tini non aduertentes prætereunt exponentesregulam Ariſtotelis uniuer faliter ,
quãipſe uult intelligi cumparticula exceptiua, In hac parte ex= ponenda
Aueroesimperitißimusfuit, ita utſua littera e directoſit con tra Ariſtotelis
fenfum , inquiens &propterea demonſtratio, quæ eft de queſito computatiuo,
non poteft trăsferri in aliam à computatiua,quem uirum clarißimum non miror,
ſimendacium hoc dixerit in ifta re parut ſed magis ,eum admiror quòd cum
aliàsdiſciplinas mathematicas inuen taspropter ingenij exercitationem ,
&quia etiam philofophus dixerit eas puerost adipiſci, ipſumuero Aueroin
,neque pueritia ,necſuafeneétu te eas fuo ingenio intellexiſſe , niſi dixeris ,
quòd ipſe elleuatus in eſtaſi intelligebat omnia per intellectum in actu , quo
multa peruerſo modo,e ordine intelligebat ſicut quædam fui fequaces Aueroico
uerbo cupientes Aueroiſtas dici , ignorantes tamen que Ariſt. mathematicis
explicanda propofuit, de quo intellectu poßibili, qui nihil eft eorum quæ uere
ſunt ante quam intelligat,utproponit philoſophus,aliquando aperiam ,quòd non de
ſeparato illo chimerico intellectu ex littera cmente Aristotelis, debemus
intelligere,ut quidã Aueroiſta perperăget fequaces peßime in= terpretantur,
pertranfeo tamëhæc inpræfentiarü,et quia non eft hiclo cusdifferendiillud, et
utfic docentes falfo ,reſipiſcăt, et ueritatem Arifto telicăianiam incipiãt et
intelligeret &alios post millenos annos docere. Hoc autem quemadmodum
contingit in quibuſdam , po fterius dicetur. littera fic intelligi debet ,
magnitudines quando ſint 1 1 H S8 IN PRIMVM LIB: 3 numeri in quibufdam ,nempein
temporibus, ideft quádo ipfa tempord, ut numeri concipiuntur, Poſterius
dicetur,ut in libris de philoſophia et de anima.Hoc loco habemus artificium ab
Ariſtotele, quoGræcorumexpo fitorum abufius mille ,o latinorü millies millena
millia errorum cognoſci mus,De interpretibus uero noſtri temporis,ſierrent,non
dico ,fed intelli gas uelim , ut quot uerba proferunt, tot mendacia contra
Ariſtotelis or dinem ýmethodum committunt. Quis enim legit Grecos , Latinos, o
noftri temporis expoſitoresAriſtotelis , non uideret conſiderauerit, illos
ſepe, & fepe fepius adducereloca odoctrinam datamin philofo phia uniuerſá,
in libris de anima, methaphiſicis, pro declaratione lo coruin logices , quis
modus iſte obfcuritatis eſt , per ignotißima declarda re ea , quæ aliquo modo ignota
funt ? eper ea quibus accommodantur principia, ipſaprincipia uelle declarare,
oper poſterior aignota decla rare ipſum prius, ſic utfupponant iſti
declaratores,hominem eſſe philoa fophum , animaſticum , & methaphiſicum
antequàmfiat logicus,utille no Ater bonus homo docebat, quòd Ariftoteles
attulit tria exempla in fecun do textu ,in tribus ſcientijs,ut ibi notaui
ha,ha,pereat modus iſte contra Ariſtotelis doctrinam ,qui poftquàm
exceptuationem uniuerſalis regulæ fue fecit, inquit, hoc autem , quomodo contingit
, posterius dicetur , fic ut id ,quod inphilofophia dicit, nonreuocetin logicis
declarandis , fedt diuerſo,exceptione qua in hoc locofacit,utetur tanquam nota
in philofo phia , ut ex notis ad ignota o utex uniuerfali ad particularia
tēpora procedat,perfuadeturigitur illa exceptio exx . libro Elementorū ut des
claratum eft , & non ex philofophiæ locis , vt procedamus utpúta ex his,
quæ in Geometria notafunt , ad ea declaranda , quæ inlogicis traa & antur ,
ut uera methodo , à notis diſcuramus adignota , fed fi idem in theologos
ſacrosobijcias , qui indiſcriminatim ad declarındas theologia cas queſtiones
loca uniuerſalis philofophiæ adducunt , igitur ipficra rant,refpondeo , In
thcologia cui omnesſcientic &tota uniuerſalis phi lofophia ancilantur tanquam
ſcalares gradus non inconuenit philofoe phic eliberalium artium theoremata
adducere, quia proceditur à nos tis ad ignota declaranda . Ita ut ultra modum
quo intelligimus Sacran do&trinam per reuelationem , ſunt quidam alij modi
intelligendi, ſuppoſia ta tamen reuelatione primo, unus eſt modus deuotionis
fpiritalis, quo particulariter dominusfuisfanétis, licet alias indoctis tribuit
intelligere, ut Petro intelligebat ea,quecontinebantur in epiſtolis fratris
noftri Pau li, quæ indocti deprauant ad fuum fenfum , non intelligentes, Alius
mo POSTERIORVMARIS T.59 0 4 Ac LE FO r dus intelligendi facras litteras
prouenit ex ingenij uiuacitate tantum , qui modusmultas hærefes
attulitfidelibus . Tertius eft modus intelligendi beneficio naturalis
philoſophic , &hic etiam decipit innaniterfideles nis fiunctione
fanétifpiritusmoliaturfua duricies , hoc quidem tertio modo non intelligit
aliquis facras litteras , niſi inſtructus illis difciplinis , que precedunt
ipfam reginam theologiam , valeant igitur, eantuna oma nes ad olas carnium ,
nonadScotia Thome libros, qui, his artibus &philofophia non callent, non
peccant igitur Theologitertio modo di di, copeccato, quo multiGræci, Latini ,
&præfertim noui interpretes in Ariſtotelem peccant,confundentes docendi ordinem
. Videtur hæc ex poſitio, Ariftoteli oppugnare, ubi inquit Ariſt. pofterius
dicetur , ut in libris philofophiæ , dixi tamen ego ex decimo Elementorum .
Dico Arie ftotelem promittere quomodo continuum diſcretum căcipiatur , fed Eye
clides quo modo per principium Arithmeticum de magnitudineaffeflio demonſtretur
atq; concludatur. • Ex codem enim genere cft, extrema & mcdia eſſe, fi
namqucnonfunt per ſe accidentia erunt, propter hoc Geo metrię non eft
demonſtrare, quod contrariorum eadein eſt diſciplina , ſed neque quòd duo cubi
ſunt unus cubus, ſit heclitteræ expofitio, ut media oextrema debeant effe
eiufdemgeneris, media intelligas, feu in conſtructione medium , ſeu medium ad
probadum , quod eft, aut principium, uel etiam propoſitiopredemonftrata,que fus
mitur ad probandam aliam , propofitionem ; extremorum autem nos mine ( ubiait
extrema) intelligende funt ipſa concluſiones , utfitfenfus facilis, premiſſão
concluſiones ex codem genereeſſe debent. Sed ne que quòdduo cubi unus cubus fit
, Quomodounus tantum cus buserit,cum duo fint ?duo prius feparatim erant,quiſi
in unum redigan tur, unum tantum efficiunt ,ut due lincæ etiam una linea tantum
efficis citur, utdocet XIIII primi Elementorum xxx ſexti Elementos rum ,vltra
aduertendum quod cötrariorum cadem eſtdiſciplina,ſed hoc non probat Geometra
ſimilitcr duo cubiunus cubus eft ,quod etiam Geo metra non probat, his habitis
odeclaratis., ſtatim perit declaratio. cus iufdam philoſophi noui qui
maiorigrauitate quàm pondere utitur; dicit enim illa ſua innani interpretatione,
duo cubi in Arithmetica non faciunt ynum cubum , quod eft di&tu , quod duo
cubi numeri nonfaciunt unum cu bum numerum ,ifta interpretatio opponitur
littere Ariſtotelis ; li ttera anim affirmatiuc loquitur, quòd duo cubi
unumfaciuntcubum,oiſte no ни ex 46 in is hi De IN PRIMV M LIB. ) uus
philofophus exemplificat negatiue , quo mododuo eubi non faciunt unum cubum ;
reiciatur igitur ſuainterpretatio , & Philoponi expoſitio ſuſcipiatur , quæ
hoc in loco fatis conſiderata eft , atque docta ;Ratio enim quare non
demonſtrat Geometra,quòd duo cubi unum cubum far ciunt, eſt quia non uerſatur
Geometra circa genus folidorum , ut circa ſuuinſubiectum , fed uerſatur tantun
circa planorum genus , ut circa proprium ſubiectum , Stereometra autem habet
demonſtrare , quod duo cubi adinuicem aditi cubum unum cõficiunt, ut ftatim
explicabo inferius, cum de duplatione are delorum , & in fragmentis logicis
de triplatione, quadruplatione, quincuplatione, fexcuplatione , eptuplatione,
es dein ceps demonſtrationes fecero. In qua re ut Ioannes refert Apolonij peri
gei talis eft demonſtratio ab innumeris mendis purgata , opermepri ſtino
candori redita cum Euclidis propoſitionibus in locis fuis ,utdecet appoſitis,
ac ſiab Apolonij manibus nunc procederet. Pro cuiusdemonſtrationis notitia,
aduertas quòd Art Delio Apoli ni dicata , eſto ſiuis ut trium eſſet pedum ,
quando Apolo imperauit dea lijs peſte laborantibus, eiuſdem Are duplationem ,
qui Geometrie impe riti (ut peneſunt in preſentiarum omnes totius orbis
Gymnaſiste )adide runt alteram tripedalem Aram prime are, etſicturbata ,atý;
corrupta forma cubica are primæ,dederunt are duplate formă trabis, fic ut fex
pedű extendereturlongitudine, latitudineuero & craſitie trium pedum extenſa
eſſet Ara, forma in qua complacebat Apolo deperdita ,fþreti igi tur propter hoc
delij ab-Apoline , & graue peſte adhuc laborantes , ad Platoně
confugerunt,qui eos redarguens, utGeometric imperitos tana dem eos adhuc dubios
reliquit dicens eis , ut duas lineas medias inter exa tremas inuenirentſecundum
eandem proportionem continuam . Et tunc ſcirent duplare Aram , formam habětem
cubicam , In qua re plurimigre corum laborauerunt tandem unus Apolonius
perigeus , duas inuenit lia neasillas medias Oſummo artificio duplarunt Aram
delij ,fubinde ad peſte quieuerunt. Dátis igitur duabus lineis inæqualibus,
quarum altera ſit longitudo Ar & primo fabricatæ triumpedum , fecunda uero
lineaſit ed, que deno tet longitudinem trabis quamcompoſuerunt delij, &eſto
pedum fex,ina ter has duas reperiendæ funt duæ alia medie in continua
proportionam litate,quod in numerisfieri neutiquam eſt poßibile, fint igitur
duæ data , primafit b c , quæ erat longitudo prime Are , e a b.longitudo tras
bis, &ponatur per undecimam primi Elementorum uel per uigeſima POSTERIORVM
ARIST. tertiam eiufdem primi, ut rectumangulum contineant,eum uidelicet qui füb
a b c o compleaturparallelogrammum bd ; per tertiam atque tri geſimamprimam
primi Elementorum ;qg diameter ipſius per primum po ſtulatum primi Elementorum
ducatur a c o circa triangulum ac di per quintam quarti Elementorum deſcribatur
circulus a d.c, os produ catur linee b a ,b c , per fecundum poſtulatum primi
Elementorum in directum ufque ad fe 8,0 per primum poſtulatum coniungan tur f
& , per lineam f g tranſeun b tem per punétum d , ita ut fe , æqualis fit
lineæ e g , hoc enim tan quàm petitum ſummitur indemons Äratum . ( De quo,
forſan poſterius noſtra palade non nihil dicetur) ma nifeſtum utique eſt, quod
ex fe æqualis eft ipfi dg per hipoteſim , @primam animi conceptionem . f a f 6
f 6 6 G gд g fil 6 g ď 6 6 egg f fa d Б6 c 1M14 8 с C f f a d AB Xa -f MC À с a
TE lik mo Ma Quoniam igitur extra circulum a dc punctum fumptum est feab ipſo
dufte linee rette f b , feſecant circulum ad punéta a v d , quod igi tur fit ex
bf in fa , per trigeſimamquintam tertij Elementorum ,æqua le eſt ei , quod fit
ex ef, in fd , ac eadem ratione , &quodfit ex b & in c g æquale est, ei
, quod fit ex dg ing e , aquale autem eft id quod fitex dg in g e , ei quodfit
ex e f in f d , utraque enim utrij que equales funt , e f ſilicet ipſi d 8 , og
f d , ipſi eg, igitur , ego quòd fit , ex bf in fa, æquale eftei, quod fit ex
bg ing c , eſt igitur , 62 IN PRIM VM .; L 1 B. ut fb ad b & perfecundam
partem decimequinteſexti Elementorum , ita g c ad f a ,fed ut fb adb 8, fic es
fa ad ad per iij.fextiEleé mentorum , igitur per xi . quinti Elementorum g c ad
f a ,ut f a ad ad, fimiliter per eandem xi. quinti Elementorum , ut dc adc 8 ,
fic cg ad fa, quia utraqueeft ,ficutea , que est fb ad b 8, altera per fecundam
partem xv. reliquaper quartam fexti ;ut d.c.ad cgpro pter fimilitudinem
triangulorum , est autem dcdqualisipfi ab,04 d , ipſi b c per xxxiij.
primiElementorum , igituraut ab ad cg ita f a ad ad , erat autem , out f bad
bg, ideft ut a bad c g ,fic cg ad fa , igitur out ab adog, fic oipfacg.ad fia ,
o ipſa fid , ad b c , quatuor igitur rectæ linea 46,8c,fa,bc, inuicem prom
portionales funt,o propter hoc erit ; uta bad b c , ita quifit ex 4 b cubus ,
ad cubum , qui ex g cega qui ex g c , ad illum qui fit ex f a, e qui ex fa , ad
illum qui ex b c ex corrolario xxxiij. undecimi Elementorum , igitur ut a b ad
b © , ita cubus quiex f a ad cubum qui ex b c , fed a b dupla fumpta fuità
principio , ipſius b.c, eft igia tur cubus , qui exfa, duplus ad cu bum , qui
ex b c , quod demon - g strandum errat . Berlin . g c.8 F G f 6 f 6 6 a . 6 6 G
8 6 g ggġ Ġ gofa dic figffa d . o ga a 6 2. BВ POSTERIORVM ARIS T. 63 Eleg TEX.
XLI. VEL XXII. F G ta 16 ORVM quæ ſæpe fiuntdemonſtrationes funt & fcientiæ
, ut lunæ deffectus , Quee dam noua queſtio à quodam nouo interprete moues tur
, circa particulas in textu poſitas , unde eft , quòdfæpefiat demonſtratio of
ſcientia de lune men ſtruo? Cumſit, quod luna nonſemper , nequeſe pe
eclypſetur, neque meſtruum patiatur? Queſtio mota fuit ex dus plici ignorantia
queex duplici menſtruoſitate contingit , uidelicet Solis ♡Lune , quia ille , qui eam mouerit , neque
in die , neque nocte uidet , quid uelit Ariftoteles, ſi tamen alta uoce
Ariſtoteles streperet in huius doctoris aures, hoc apponeretforſan miringam ,
ſın ditë, ſurdus ipſeerit ideo ille bonus homo,qui quidam homo erat ,fed nunc
nefcio an aliquis ho mo ipſe ſit, monſtruoſamde lunæ menſtruo folutionem ,uel
potius ligas mina tribuit auditoribus centum . Videas , ſepeenim inquit nofter
nos uus interpres, fit Lune eclipſis , quia quandofit,tunc orientalibus quar ta
hora , occidentalibus autem hora tertia , magis autem occidentalibus hora
ſecunda noctis &alijs etiam ad indos magis tendentibus prima non & is
hora apparet luna menſtrua:a, ecce inquit ille interpres do&tus,quid
ſepefit , ut puta intot horis noftis, utfecunda&tertia atque alijs plu
rimis. Quemirabilis doctrina @ſcientia , in dialogis &fabelis , quas apud
ignem raulieres habentreponenda magis , quàm àuiro quoquo moa do etiam docto
redarguenda eft , uel etiam à quouis audienda . Litteraſic ordinetur , eorum
demonſtrationes & fcientia ſunt , eorum dico , que fæpefiunt . Dico igitur
lunc deffe tusſæpe , atque ſemper fieri in plenie lunio , quum terra
diametraliter ponatur inter Solem Lunam , quod quidemnon in omni plenilunio
contingit , fed cum sol in capite, & Lue na in cauda draconisfuerit , quod
Plato explicans ait linea re& ta eft cu ius medium obumbrat extrema,
quamfententiam non intelligens quidam alius potius paraſcitus quàm doctor,
&ille est , quem ſuperius dixi hae , bere grauitatem maioren , quàm pondus
, redarguebat in quodam cons uiuio deffinitionem quam Paduano Gymnaſio in
primis meis le &tionibus publicis dederam , explicans deffinitionem lineæ
rectæ , que eft , à pun Ao in punctum breuißimaextenſio , aut cuius medium ex
æquofua inter 1 incet ſigna, hoc eft , cuius medium non reſultat ab extremis ,
ſic explis 64 IN PRIM VM LIB. cabam per fenfitiuam & materialem lineam , ut
facilius ipfa Geomes trica linea à tirunculis intelligeretur , linea recta eft
, cuius medium non obumbrat extrema , neque eſt hæc mea explicatio rectæ lineæ
, Contrda ria illi à Platone datæ , cum hæc in Geometria , illa uero Platonis
in Aſtronomia accomodanda ſit, neque in hoc ignofeendum erat, quia igna rus Grecarum
litterarum eſſem , ut ille efuriens greculus non lingua ne que natione , fed
apparentia tantum , Tipto propter tiptis duo agebat dicens mefalfam
le&tionem Latinam vidiffe , qua legeram in Platone, lie nea recta eſt cuius
medium non obumbrat, cum Græcus textus , affira matiue legatur fic cuius medium
obumbrat extrema, mitto hæc in Cora bonam , oad propoſitum à quo uidebar
digredi redeo, Cauſis igitur illis commemoratis concurrentibus, femper &
ſaepe fit Luna defectus , de qua Luna menſtruata habetur ſcientia , per medium
illud , quæ eft ter re interpoſitio inter Solem atque Lunam diametraliter , que
cauſa pro pria, & propinqua eſt ad Eclipfim de Luna concludendam, modo anfe
pe fiat demonſtratio uelfepe habeatur fcientia de Eclipſi Lune , hoc non tangit
Ariſtoteles., quia ly ſæpe eſemper , non determinant ly demon ſtrationes,
olyſcientia ,fed determinantlydeffe &tusLune ; illis igia tur cauſis
contingit Luna deffeétus fæpec ſemper,non autem illis quas commemorauit ille
phantaſticus , ſecunda uel tertia hora noétis . TEXTVS XLII ALIAS XXIII. VONIAM
autem manifeftum eft, quod unữ. quodque demoſtrare non eſt, ſed aut ex uno.
quoque principiorum , fi id quod demonſtra tur, ſit,ſecundum quod eft illud,
non eſt ſcire hoc quidem fi ex ueris & indemõſtrabilibus monſtretur, &
inmediatis , eſt enim ficmon , ſtrare, ficuti Briſon Tetragoniſinum ,per
commune enim demonſtrant rationes huiuſmodi , quod & alí ineſt, unde &
alíjs conueniunt hæ rationes non cognatis, Quicquid anti qui dequadratura
circuli fenferint , dicam quid fenferim ego , habita prius notia littere,
&cognito textusſenſu, li ex ueris premißis, oins demonſtrabilibus ,
immediatis, fiat demonſtratio , non autem fiat ex præmißis proprijs,
opeculiaribus illi generi,de quo fcientia queritur, ex illa demonſtratione per
talia principia primadi&ta non habeturſcien tid POSTERIORVM ARIST. 656
tla,immoneq; illa erit demonftratio, quia per principia fieret talis pros
ceſſus, que non tantum arti Geometrie, fed alijs difciplinis accommo dari
poffunt , quo errore Brifo.crrauit tentans reducere aream circuli ad figuram
rectilineam quadratam , quæ t alia erant principia datur max ius, datur minus ,
igitur datur æquale , quidamſciolus laborat , ut hæc principia uniuerfalia
,propria fiant ipſiGeometric ,dicens,daturquadra tum maius circulo , datur
quadratā minus circulo, igitur datur quadras kun sequale ipſi circulo , et
gloriaturinnani , & hoc fuum chimericâ con tulerit cum yno do&tißimo
huiys noftri Gymnasij, qui non folum perfua fionemualidam , fed et
demonftrationem eam effe affirmauit ; fcito enim , quòd os folidis, e linels ,
o numeris coaptatur iſta dedu &tio , ut datur numerus maior denario eminor
denario , igitur datur equalis nume rus denario, es ſic in alijs plurimis ,
dico tamen quod huius fcioli do&to ris contra tio in propoſito nulla eft ad
oſtendendum intenti , quia ultra quod Briſo errans,proceßit per comunia
principia ,errauit etiam errorç peßimo in conſequentia ,ut ex his
quæfuperquintadecima terty Elemen torī Euclidis demonſtrantur &fuper
trigeſima ciufdem ,Ariſtoteles au tem folum redarguit ipfum in co , quod egit
contra regulam de proprijs principijs ,quicquid de confequentia
fitprætermittens tanquam non res Marguendum , ut oppoſitum ſuedat& regul« .
De quadratura, errore Brifonis , Anthiphontis, Hipocratisc Boetij atque
iuniorum trattabo in fragmentis mathematicis ſuper live bro pofterioruin.
TEXTVS XLV ALIAS XXIII. ED demonftratio non.conucnit in aliud nus, aliter quàm
ut dictum eſt, Geometricæ in mechanicas, aut perſpectiuas, & arithme ticæ
in harınonicas. XXXVII textu determis nauit Ariſtoteles quòd ad Geometram non
pertinet de BRAVAS PRINT monſtrare quod duo cubifaciant unum cubum , ratio , ut
ibi declarani aßignabaturquia Geometra O stereometrauerfantur cir ca
diuerſagenera, alter circa planum , & reliquus circafolidum, hoc au fem
textu dicit, quod geometrice demonftrationes conueniunt in genus mechanicum ,
ait enim geometrice in mechanicas , pro qua apparenti contradictione, eft
aduertendum quòd Stereometrica per principia Gear I 66 IN PRIMVM.LIB . metric probantur
quia in terminis corporis, qui ſunt ſuperficies , ille geometricæ
demonſtrationes attribuuntur , ideodemonftratio Geometri ca hoc modo in
mechanicas,conuenit , o ſinon fint circa idem genus, necfubfe inuicem
diſcipline. TEXTVS XLVI ALIAS XXIIII. VID quidem igitur fignificent, &
prima , & quæ ex his funt, accipiendum eft, quòd au: tem ſint principia
quidem , eft accipere, Alia uero demonftrare, ut unitas, & quid rectum ,
& quid triangulus,effe autem unitate accipe re & magnitudinem ,altera
uero demonftra re. Dedatoibi quid fignificent de dignitatibus ibi & priina.
De que fito ibi, & quæexhisfunt. Exempla omniafunt in boc textu dedato;
primum eft in decimaſextaſeptimi elementorum ubi de unitate,que ſe ba bet ad
aliquemſecüdum numerum , ficut quilibet tertius adaliquem quar tum ,concluditur
q, ipſa unitas, itafe habebit ad tertiã numerum , ſicutfc cãdus numerus ad
quartum ,fecundã exemplum eftde data linea in prima propofitione
primiElementorum ,de qua demonſtratur quàd fit æqualis, welminor cæterisduabus
lineis re&tis continentibus,Iſopleurum , uel ifo feelem , uel Scalenonem
,uel etiam exemplum hoc apparet indecima pri mi Elementorum ubi concluditur de
linea recta , quòd ſit biffariamfe &ta, Tertium exemplum de dato, eſt in
xxx 11 primi Elementorum , ubi de dato Trigono concluditur . habeat tres
angulos duabus re&tis paresnon tantum , quid ſignificentoportet
preaccipere, fed etiam iſta effe , vt tan dem de dato nonfolum quidfignificet,
quod etiam eſt queſiti,preaccipes re, fed eo quidſignificet effe, vtrumque
fupponendum ſit (licet non femper,)ut quid ſit unitas,et unitatem effe
,quemadmodum ſecundo textu predocuit Ariſtoteles , uerbum hoc , magnitudinem ,
intelligendum eſt, rectam lineam ,ut decima primi elementorī ,et triãgulum ,ut
trigeſima ſe cīda primi elemétorum ,quem triangulum ,et reetū, explicite
protulit ab unitate,inquiens alia uero demonſtrare, ut quid unitas , quid
rectiem , Oquid triangulus fignificet, elle autem unitatem accipere &
magnitus dinem , hoc loco aduertendum est Ariſtotelem , ſeiunctam poſuiſſe
unita tem à refto trigono, quæ duo nempe reétum & trigonum amplexi fuifſe
in unico uerbo hoc , magnitudinem , propter hoc ut intelligenda POSTERIORVM
ARIS T. 67 effet unitas de qua hic loquitur principium numeri feu multitudinis
, de. qua quidem unitate alia affe&tio concluditur , quàm de unitate linee
, de qua loquebatur in fecundo textu huiusprimi, wratio interpretationis
apparet exlittera , quia de quolibet dato. feparatim concluditur pro prium
queſitum , ut hoc textu declaraui. TEX. XLVII VEL XX IIII & 24 Allia 721,
pe Court Alle Blato che * with rima alis -life pri eld Side Vntautē quibus
utimur in demonftratiuis ſciētíjs alia quidē propria uniuſcuiufq fcič tiæ ,
alia uero cómnunia, comunia autemfer cundum Analogiă, quoniam utile eft,quá.
túeft in eo (quod eft fub fcientia ) genere, propria quidem , ut lincã elſe
huiufinodi. &rectum , De dignitatibus hoc loco loquens, exempla de
dignitatis bus prèbens ait. Alia quidem propria uniuſcuiuſq & c.Propria
Geometrie ſunt ifta , utlineam elfelongitudinem illatabilem or ſine pro
fonditate ,hacde caufa dixit lineameſſe buiufmodi,id efthabere banc defa
finitione, & reétum , vt puta recta linea est , que ſua ex æquali intera
iacetſigna,uel linea recta eft à punéto in punctum breuißima extenſio, non intelligas
lineam, &rectum , Jolitarie o incomplexe,quia hoc loco de dignitatibus,que
complexa funtloquitur : non de incomplexis utde linea tantă , ca de recto
tantum ſed , dehoc cöplexo linea est longitudo illa tabilis ; ¢ linea recta eſt
,quæ ex æquali ſua interiacet ſigna ,de linea in uniuerfali, fubinde de
contracta uſpecificalinea recta exempla explicăs , Communia autein ut æqualia
ab æqualibus ſi auferas,quòd æqualia reliqua ſunt. Aliqui indoctirelatores
interpretum et inter pretes Arifto, non intelligentes hunc locum ; naturam
Geometrie ſcien tie perdunt, dicentes Geometram per principia communia
procedere, id autem eft contra ueritatem ex parte rei econtra Ariftotelis do
&tria nam . Pro cuiusdifficultatis nodo extricando , aduertendum quod princi
pium iftud,de quolibet ente,uerum eftdicere quodeſt,uel no eſt tale, nun quam
in demonftratione ponitur , nec eo utimur niſicontrate, oquae dam
determinationeadgenus aliquod terminatum, er pro altera diſiuna Eti
parteaccepto ,nulli enim fcientia eft, aut diſciplina , que utatur illo
principio pro utrag; diſiunéti ,fed pro altera tantū parte , Sinile de hoc (
& alijs huiufmodi) principio, fi ab .equalibus æqualia auferas, que re MON
jpes non exti ell I i IN PRIM VM LI'B . Manent,æqualia funt, audiendum eft,
nulla quippe diſciplinaest, que es utatur niſi contracte, fic quòd Geometra
nunquam eo ufus eft præters quam inhisquæ circa planum uerfantur, utfi ab
equalibus lineis,uel fu perficiebus,aut angulis,equates lineæ, uel fuperficies
aut anguli deman tur, quæ remanent lineæ ,uel fuperficies ,aut anguli
funtæquales ,quão primum autem principium hoc contrahitur , non eft amplius
commune Guniuerfale, fed fit proprium illius generis fcientiæ ad quod contrahis
tur, quod uerohæc noftra declaratio fit ad Ariſtotelis mentemmanifes. ſtum eſt
ex predicamento quantitatis ubi de diſcreto econtinuo agens, determinat quod
utrique proprium eft peculiare fecundum eamæqua leuel inæquale dici, ſi
inſtetur ex menteAriſtotelis dicentis, principiunt . - iſtud effe commune,
inquit enim ,cõnunia autē &c. Dico illud prin cipium eſſe commune, ſi non
contrahatur , quàmprimim uero contrahi tur non eftcommune amplius , ftatim enin
fequeretur contradi&tio , quod eſſet commune ono commune, doétrina
hæcmeacoheret his,quæ Aucroes commentationemagna affentiriuideturfuper hoc
textu, o his que Ariſtoteles hoc loco dicitinquiens ;fufficiens eft
autemunumquoda que iftorum quantum in genere eſt,hoc eft quatenusad determinatū
get nus contrahitur, de principijs loquens ,ubi de datis dixerit, & tertio
lo co de queſitis, ibi quodautē ſint demóftrant, o fi adhuc inftes e Theon
&Campanus non contracteinquatuor primis libris Elemento rum , a quod
Euclides affixit illud principium primo libro , dico quod Căpanus
&TheonbreuiloquioStudentes accipiuntipſum principiū fne Contractione ,
femper tamen op ubique uolunt ipſum intelligi contra &te cum determinatone
ad illud genus ad quod-co utimur , aliter. errarent , Euclides autem primo
libro affixit , quid utitur ipfo con tracto in primis quatuor libris, Adhuc fi
fortiuscontra hanc expo fitionem precipue inſtetur quod fiquid ueritatisſaperet
, statim haberea tur circuli quadratura per hæcprincipia contra&ta , datur
quadras tum maius circulo , datur quadratum minus circulo igitur dabitur
quadratum æquale circulo , refpondeo , quò du os errores commiſit Briſo, o
talis argutus doctorolus inter arguendum , primo quia Brie so per principia
comunia , iſte audem do&tor per contra &ta illa princi pra, feduterque
in æquiuocisarguebat, circulus enim et quadratum equi uoce funt figuræ altera
enim curuilinea reliqua uero re&tilinea eft , hunc errorem fecundum non
inuenies in mea hac expoſitione,&contra ipfam inftantianulla est , de
crrore autem Briſonisfuſius in noftris fragmentis POSTERIOR V MARIS T. 3
Logicis . Idem enim faciet & fi non de omnibus accipiat fed in
magnitudinibus folum , Arithmeticæ autein in numeris. Diuinus Philoſophus
quàmprimum explicuerit , quæ namfunt propria per duplex exemplum uniusfeientia
Geometria, linee uidelicet , &lia neæ recte , •fubiunxerit , que nam ſint communia
principia exent plum prebens tale, nquit, ut æqualiaab æqualibusfi auferas quod
æqua lia ſint remanentia , ſubiunxit quomodo hoc principium &fimilia cone
trahantur ad proprium genus ſcientiæ &propriafiant dicens , ſuffia ciens
eſt,unum quodque iſtorum , quantum in genere est , fufficiens quie dem acſi
peculiaribus atqi proprijs principijsuteretur Geometra uteng iſto principio,
æqualia ab æqualibus ſi auferas æqualia remanent , non quidemſi de omnibus
accipiat , non quidem dico demonstrabit Geometra: fi fic de omnibus &
uniuerfaliter ſine contractione utatur , fed demon , ſtrabit quidem , inquit
Philofophus,ſi in magnitudinibus folum , id eſt contracte o determinatim ,eo
ufus fuerit .Vtfic, fi ab æqualibus lineis ſuperficiebus , angulis, Arithmeticus,
fi ab æqualibus numeris æqua les lineas ſuperficies angulos uel numeros auferas
quod æquales linea fuperficies anguli onumeri remanebunt. Tunc uult Ariſtoteles
quód iftud principiumſic contractumreddatur propriumipſi Geometra , og
Arithmetico &unicuique artifici in fua arte , ac fi peculiari epros prißimo
uteretur , non
procedit igiturGeometra per communia prins cipia neque ob id , quia per
cominunia procedit Geometria , ideo non fit dicenda ſcientia ipſa Geometria ,
ut quidam ingeniofus noftri teme poris immaginatur . Sunt autem propria quidem
& quæ acci piuntureſſe , circa quæ , fcientia fpeculatur , quæ ſunt per le
, ut Arithmetica unitates , Geometria autem figna & lineas. Euclides in
Arithmeticis ab oskaud propoſitionenoniElemene torum uſque ad tredeci mam
incluſiue accipit unitates , ſed ſigna id eſt punta accepit in ſecunda
wtrigeſima prima primi Elementorum , lie neas uero in primt, ſecunda,&
tertia primi,atque in undecima undecimi Elementorum . Hæc enim accipiunt eſſe,
& hoc eſſe , idemo dixit in principiofecundi textus,ut de dato
precognoſcatur utrunque &quid &quia est , accipiunt eſſe,id est
deffinitionemſeu deſcriptionem welquid per nomenfignificatur, ex hoceffe
,nempeactueſſe , uel mente oaštu.confideratiuo effe, id quod concipiunt , quod
eſſe potentia ,uel effe aptitudinedicunt . Horum autem pafsiones funtper fe
quid quidem figni 70 IN PRIMVM L'IB. ficet unaquæque accipiunt , ut Arithmetica
quidem quid par , Sicut uigefimaquinta noni Elementorum , aut impar , ut trige
fimanoni Elementorum , Aut quadrangulus,ut xxxvi. noni Ele mentorum ,
&quilibet numerus à duobus duplus,ut xxxv. eiufdem , a eut declaraui ſuper
textu xx. de altera parte longiori, Aut cubus ut quarta noni Elementorum ſic
intelligantur termini exemplorum in Arithmetica;Geometra uero quid
irrationale,ut XI. X. Elementorum , aut inflecti per contactum in unico puncto
ex xij.ex xv.tertij Elemen . aut concurrere, ut xv.xi. Elementorum oprima
Elementorum Geo metrie Vitellionis . Animaduerſione dignum est hoc , quod
Geometra nunquàm hanc affectionem , ut irregularitatem deunica lineafola con =
fiderat , neque etiam de una tantum linea id concludit , quicquid Cama panus
ſentiat , fed id de linea una ad aliam comparata atque relata, cum qua non
habet uliquam communem menſuram , ut est diameter wcofta quadrati . Inflexio
uero in una atque eadem linea circulari eft , quætan gat aliam rectam lineam
uel alium circulum interne , uel etiam exterins, in unopuncto tantum , quia
inflexa non fecat nequere & amlineam , nes que etiam circulum , quorum utrumlibetfaceret
linea recta , eifdem ! recte linee 6 circulo non contingenter neque in directum
applicata . Quod autem fint paſsiones per fe demonſtrant per coin munia &
ex his quæ demonftrata furt & Aftronomia funi liter . De datis
dequibusaccipiebamus quid fignificarent &effe , de monſtrant artifices
Arithmeticus OGeometra per communia , idef per uniuerſalia principia (que tamen
unius generis ſint) v ex his etiam propoſitionibus, quæ prius demonſtrata funt,
affectiones illas predis Etas , ſicut etiam aſtronomus facit , utper ea quæ in
Geometria probas ta ſunt, etiam per propoſitiones probatas in Aſtronomia
concludat etfiEtionesfequentrum Theorematun . TEX . XLVIII. ALIAS X XV. VASDAM
tamen fcientias nihil prohibet quædain hortin defpicere ,'ut genus non ſupponere
effe , & fit manifeftum quoniam eft,non eniin ſimiliter manifeftuin eft,quo
niam numerus fit, & quoniam calidur , & frigidum fit. Natura enim
&per fenfum notum POSTERIO RVM ARIST . 70 $ 200 ill 0 si est, quonian
calidum eft, ideo non eft opus precipere mente o ſuppoi fitione aliqua
intellettuali, «quadamſcrupuloſa indaginefuum quiade calido , quando calidum
eſt ſubiectum ſeu datum uel genus, hoc cafu , quandoeft notum quia est dati ,
deſpicitur præcognoſcere mentis inda gatione de dato , an fit ? Quod
noncontingit ſimiliter de numero, quans donumeruseft datum , de eo enim eft
necefſe mente e intellectuali acte preaccipere quia numeri, Videlicet quod
numerusaétu est mente con: ceptus , ac fiexifteret aétu , uel aptitudinem ad
exiftendum habeat, en hoc quidempropter hoc , quod numerus neque nataraneque
fenfu aetud liter percipiturquòd fit , fed tantun intelleétu dignofcitur , @
hæc duo exempla de dito prebetnobis Ariſtoteles,ſubinde de queſito feu paßione
facit exceptionem dicent , & paſsiones non eft accipere quid fi gnificent
ſi fint manifeltæ , ut puta ſi fit notiſsimum quodtale no men -notifsimam rem
ſignificet . Tunceo cafu non prerequiritur indas gando quid fignificet illud
nomen , quia iam notum eſt. De dignitatibus.au tem idein excipit ab uniuerſaliregula
,qua dixit fecundo textu , alia nana que quia funt prius opinari neceſſe
eſt,utomne quidem quod est ,aut affir mareaut negare uerum eſt , quia eſt , o
textu xlvi.aliud prebet exem plum , utæqualiaab æqualibus fiauferas , quòd
æqualia reliqua ſunt , de his communibus principijs non eft preſuponerequia eft
. Cum ipſorīt ugritas quafi natura nota fint , quaſi natura dico, utputa quia
notis ter minis ipſarum dignitatum , statim notum est, quia est ipſarum
dignitatum fecus autem eft de dignitatibus proprijs cuique arti,quia tunc non
est,fa tis ,quid fimplices terminiſignificent preaccipere,fed opus etiam eſt
pré cognofcere copulationem terminorū effe neceffariam , ueram ,ut quòd
circulus fit figura plana unicalinea contentain cuius medio punctus est à quo
ad circunferentiam omnes recta linea duétæ funtæqualesfecludit , igitur
ariſt.àfubie&to ipſum quia quandoipſum eſſe,manifesti est ,non ſecludit
ipfum quid est , ut exponit loan .Gram . Alexander, A queſito ſecludit aliquádo
quid eft,era comunibus dignitatibus ipſum quia,quando notumeft quid
queſitumfignificet, &quando ueritasdignitatum eſt mani feftifsima quod
autem hæcde datofeuſubiecto expoſitio ſit germanatex. Ariſt.ut uidelicet
excludat àſubiecto ipſum quia ,& non ipſum quid,mani feſtă eſt in littera,ubi
ait ,Genus non fupponere efle fi fitmanife ftūquoniã eſt non dicit Arift.genus
no ſupponere quid ſitexemplü de queſito,quandonon accipiturquidſignificet est
propoſitione xiiij.primi : Elemen.quod est,indiređã linea una,quod quidē quid
ſignificet non tung OI MI deo per da Jet OB um 10 & IN PRIM VM LI B.
preaccipitur,cumfit notum ex deffinitione quarta primi Elementorum , quodnon
queratur , quia eft , quando est notum ,id apertißime dicit philofophus textu
fecundo ſecundi Poſteriorum ,inquit enim ,inuenien tes autem , quia deficit
pauſamus, & fi in principio ſcirc mus, quia deficit ,nó queremus utruin ,
cum autem fcimus ipſum quia ,ipſum propter quid querimus & c. TEXTVS LII
ALIAS XXV. EQYEGeometra falſa ſupponit,ſicut qui dam affirmant dicentes , quòd
non oportet falſo uti , Geometram autem mentiri, dis centem lineam eſſe unius
pedis,quę unius pedis non eft , autrectam lincam , non ree &tam cxiſtentem
, ut in prima propoſitione prin mi elementorumfuper datam rectam lineam
triangulum collocare , etiam in decima primi Elementorum datam lineam rectam ,
eum biffaria diuidere iubet Geometra, os ſiilla linea , que atramento pingitur
, uel penna aut ſtilo protrahitur reta non fit, non ob id tamen dicendum eft,
Geometram errare , quia non ad id intentionem dirigit Geometra quod oculis
fubijcitur , fed ad id potius , quod intus animo concipit , dirigit intentionem
, ideo non contingit Geometram circa aſſumptam materiam errare et mentiri,
Geometra enim nihil concludit fecundum hanc lie neam pitam , quam ftilo pinxerat
, fed fecundum intus conceptam lie neam , demonſtrationem percurrit ,idem habet
Ariſtoteles primo priorã ante mutuamfyllogifmorum reſolutionem non errat etiam
Geometra cir ca formam fyllogiſticam , ut textu 59 62, ait Ariſtoteles, igitur
cer tißimefunt diſciplinegeometria, et non quiafenfatæ fint, ut falfo quis dam
dicunt, Quia intus concipiuntur. TEXTVS LIX ALIAS XXVIII. VONIAM autem ſunt
Geoinetricæ inters rogationes non ne funt & non geometri. cæ ? & in
unaquaque fcientia,fecundü qua lem ingnorantiam funt Geoinetricæ ? & utrum
quiſecundum ingnorantiam fyllo giſmus eft, fit qui ex oppoſitis fyllogifo mus,
POSTERIORVM ARIST. 3 dis 2018 pria vik est 200 gt mus; an paralogiſinus? In
unaquaque fcientia contingunt fieri in terrogationes, ficut in Geometria , In
geometria autembiffariam contin git interrogatiofieri, uno quidem modo,ut nihil
fapiat de illo, quod inter rogat, ut fiquis querat an icoceruus habeat tres
æquales duobus rectis, ignorans omnifariam &quidfit Icoceruus , & quid
ſithabere tres duo bus reétis æquales , hic interrogans habet ignorantiam
fecundum nega. tionem , quia omnis habitus negatur in eo de illa re, quam
querit. Altero autem modo, ut interrogās ſciat quippe partim de illo , quod
querit, par tim uero non, ut adinuicem parallelas concurrere,fciat nanque que
nani lineæ rectæ fint, oſcit quòd in utranque partem protrahuntur , ſcit etiam
, quisnam ſit duarum linearum concurſus , &quatenus iſta nouit et
interrogat,Geometrica queſtio atq; Geometrica interrogatio eft, quate inus
autem opinatur an parallelæ in infinitum protrate concurrant,hac ex parte,non
eft Geometrica quæſtio , et habet hic ignorantium habitus, idest fecundum
habitum, quo fcit lineas rectas , ceas in infinitum pro trahi polle, et
concurſum linearum effe in eadem ſuperficie, cum illo qui dem habitu , ſtat hec
ignorantia , ut ne ſciat quòd etiam ſi in infinitura protrahantur, non
căcurrunt. Errore hoc peßimo in interrogatione er rauit Pſcelus Grecus,
quifuitilla tempeſtate quorundain Grecorum ho minum , qui præter uoces re ipfa
nihil penitusaut parum doctrinæ has bebant, in quam calımitatem credo
plurimosnoſtri temporis Græculos incidiſſe, Tentauit ipfe diuidere tonum, qui
fexquioctaua proportione co ſtat accipiebatô; neruos duos, qui tacti,
interuallum foni haberent, quos rum utrumlibet biffariam diuidebat, fubinde
arguens agebat, totus ners uus maior ad totum neruun minorein habebat toni
ratione, igitur medie tas nerui ad nerui alterius medietate ,ut medietas toni
ad toni medietaté, poyo fic putabat dimidium Toni , hoc eſt ſemitonium uerum
adinueniſſe, ignorans pauper , quod proportio totius nerui ad totum neruum
eadem eft , que dimidij nerui ad dimidium alterius nerui per decimamoctauam
@decimamnonam ſeptimi Elemětorum , erat igitur non Armonica quæa ftio, qua
quærebat, an tonus dividi biffariam poſſet ? Verus autem Geo . metra ille eft ,
qui non habet ignorantiam neque ſecundum negationem , neque fecundum
priuationem , «ille non facitinterrogationes non geo metricas, neque
interrogationes partimgeometricas opartim non geo métricas, ſed
interrogationesfacit omnifarians geometricas, ut, an trian gulus cõſtitutus in
tabula, habeat tres æquales duobus reitis pares, Geo metra non errat , circa
uffumptam materiā,ut tex. 52. determinauit phi lik line et K 74 IN PRIM VM LIB
.. lofophus,non errat circa interrogationes, ut hoc textu patuit, neque era rat
in forma, in ſua induftione, ut demonſtrat Ariſtoteles in textu. 62. nullus
igitur error in Geometria contineri poteſt ex mente Ariſtotelis, hanc
eandemfententia habet Galenus in de erroribuscognoſcendis et cor rigendis, quo
loco innumeras Geometrie utilitates narrat. TEXTVS LXII ALIAS XXIX. ONTINGIT
autem quofdam non fyllogi. ſtice dicere propter id quod accipiunt ad utraque
conſequentia , ut & Ceneus facit, quod ignis in multiplicata analogia fit .
Scito Ariſtotelem Cenei mentē recte intellexiſſe, que quia in formafyllogiſtica
errabat parallogizădome rito eum redarguit, ut Joannes exponit ,ſed aduertendum
eſt in materia parallogiſmi , quo modo id cita creſcat in multiplicata analogia
, quia ut Alexander errauit in hac expoſitione quëadmodum Philoponus ei ima
ponit non minustamen & ipfe etium loannes grammaticus grauiter era rauit
aliter exponens quàm Alexander,oſi fuam expofitionem confir met Procli diadochi
auctoritate, qui Proclus , ſi ita fenferit , ut ioana nes refert, perperam hunc
locum interpretatus eſt,«mentem Cenei nõ intellexit,inquit Ariſtoteles de mente
Cenei, quod in multiplicata analo gia creſcit, id cito creſcit , non autem ait,
quod in multiplicationetermi porum analogia creſcit , id cito creſcit ſicut
ipſe loannes & Proclus terminos analogie multiplicentfic , 1,2,4, 8 , 16,
32, 64, 128, 256 , $ 12 , 1024, 2048. Egouero aliter de mente Ariſtotelis ♡Cenei dico ex doctrina Eucli dis
deffinitione undecima quinti Elementorum , &ex deffinitione primi Geometrie
uitellionis ubi quantitates denominantes ipſas proe portiones multiplicantur
non termini, ut loannes ♡Proclus
facies bant,arguebat ſic Ceneus ,quæcung cito creſcit augentur in multiplicata
Analogia , ſed ignis augetur in multiplicata Analogia , igitur ignis cito
creſcit ,ubi maior &minor in ſecundafigura ſunt affirmatiua. Talis au tem
error parallogizando à Geometra non committitur , igitur certiſie ma, ca in
primo certitudinis gradu Geometria reponitur, POSTERIOR VM ARIST . 75 248 2 3
3.2 ov 4 64 16 1 2 8 16 2 S6 256 S 12, 1 256 65536 4 0 24 2 048 ei ad CI , C.
qué mee erit 4096 8 1 9 z 1.63 8.4 32768 6 ss36 Julia ima 1 eta infor TEXTVS
LXIII ALIAS XXIX. ină Tomi club = 56 wich ro cies ONVERTVNTVR autem magis , quæ
funt in mathematicis, quoniam nullum reci s piunt accidens . Secunda pars
trigeſimaſecunde primi Elementorum eſt , quodomnis triangulus duos bus rectis
paret habeat , id autem probat prima pars trigefimaſecunde ,& ſecunda, o
prima pars uigefi menone, &tertia decima primiElementorum , quæ omnes
propoſitio nes concurrunt ad probandam illam conclufionem , quæ conclufio ſi in
fua principia illatiua reſoluatur,non niſiin illareſolui poteſt, que ſupra
commemoraui, ubi cernis &compoſitiuam methodum , ab illis principijs ad illam
illatam conclufionem , reſolutiuam methodum ab illa conclus fione ad illa
principia regrediendo , quihabitus reſolutiuus altißimus eft, e profecto ſignum
eft re &te fapientis. Cumautem conclufiones in mathematicis fequantur ex
determinatis principijs , tunc ibi facie lior eft reſolutio à concluſione in
principia quàm in Topicis , ubi ex uagis, ofolum apparentibus, quandoque
etiamfufpeftis odiuerſis, cito # Bie Kij 7.6 IN PRIMVM LIB . @non ex unis
principijs concluditur quippiam de hac re , abundantius infragmentis nostris
mathematicis fuper Ariſtotelis loca dicturus fum . TEXTVS LXIIII ALIAS XXIX .
& fit par eſt ers VGENT VR autein , non per media , ſed in aſſamendo, ut a
de b , hoc autem de c , rurfus hoc de d, & hoc in infinitum . Et in Iatus,
ut a de b, & de e, ut eſt numerus quantus , uel infinitus ,hoc autem fit in
quo eſt a, nunerus impar quantus in quo b, numerus imparin quo c,eft ergoade c,
& fit quantus numerus, in quo d par numerus in quo e, go a de e. Exépla duo
attulit primo in poſt ſumendo,ſecüdo in litus ſu mendo, primo exemplī prebet in
numerisin poſtfumendo,ut a numerus , de b numero impari, et b ,de numero c
primodicitur igitur a numerus de c numero primodicitur, In latus ſumendo numero
pariter exemplificat, pro cuius notia, imaginare arborem porphirianam ,cui
fimilē in numeris finge, &numerum quantū ,qui etiam potentia infinitus eſt,
loco ſubſtans tiæ apta ; infinitus ait propterhoc, quia omnes imparis atque
paris nu = meriſpecies,quæ in infiritum crefcunt,potentia continet
,ſicutſubſtan = tia fuas inferiores potentia fpeties continet, his autem
numerus non po teft effe aliquis determinatus quantus , quia quicunque daretur
, aut par effet , aut impar, qui non poteft effe communis pari &impari, fed
talis debet eſſe numerus uniuerſaliter ſumptus, noluit autem uti iſto uer bo,
uniuerfaliter, quia non eſt terminus Arithmeticus,ſedſpectat magis ad
dialecticuin , ideo loco debito ufus eſt proprio uerbo hoc, uidelicet, ins
finitus,quæ uox numero conuenit, ſicut incremento creſcat in infinitum inſuis fpetiebus,
& numerus fic acceptus diuiditur in imparem , atque pa rem , &imparis
numeri diuiſio est , in primum numerum ,ocompofi tum , prinus autem numerus
dicitur in fui natura, &ſine comparation, ne ad alium quemcunque numerum ,o
ille eſt quiſola unitate metitur,ut. 3 , 5, 85" 7, 13. Compoſitus numerus
eft, qui alio numeroaf e ,oo ab unitate diuerſo , dimetitur, ut 9, aut 25 , à
ternario , & à quinario dimetiuntur, is compoſitus diuiditur in parem ,
atque imparem , et par quidem numerus ille eſt ,qui biffariam ſecari poteft,
ohic partitur in pariter parem , qui in duo æqualia fecantur , partes eius,
quoufquc POSTERIORVM ARIST. 77 1 ad unitatem uentum ſit , ut trigeſima. In
pariter imparem qui quidem in duo equalia partitur, partes in duo æqualia non
fufcipiunt ſectios niem ,ut quatuordecim . In impariter partem , qui quidem in
duo æqualia diuiditur partes ſimiliter in duo æqualia , fed hæc partitio ,
uſque ad unitatem non peruenit , ut trigintaſex , de quibus Euclides libris
ſeptia mo o octauo, nono Elementoruin , Nicomacus atque Boetius primo Oſecüdo
Arithmetice, Quo autem ad Ariſtotelis textī attinet, manife ftum erit
exemplumſuum , numerus infinitus fiue quantusſit a numerus autē quantus
&determinatus ſub ipſo ſit b , numerus alius nempe infes rior ad b ſit
cog,par autem numerus quantus ſit d, qui trifaria ſeca tur in e k l, ut dictum
fuit fupra , eft ergo a ded , &etiam de e k lo In latus autem dixit ,quiane
dum per rectam lineam arboris, fed ex utra que partefumptio facta fuit. ES 11
in Exemplum in poſt.fummendo. 5, Exemplum in latus fummendo. 11: 111erus 111 :
11CTUS -is 14 impar primus 13 50 ut impar 6 d par ed S A i primus compofitis .
16 14 pariterper impariterpar pariter impar. 12 is 14 inte Aduertendumquod
exemplum in numeris eſt contractius , quàm prius propofuerit per litteras ,ideo
ne labores in numeris tot numerosfübfea inuicem poſitos, quot litteras,
ibicommemorat, exempla duoin numeris appofui ut alia ipſe in textufecit, ne
alia aliterdefiderentur. mo . 6 8 IN PRIMVM LIB. > TE X. LXIIII. A LIAS X X
X. Iffert autem quia & propter quid fcire primo quidem in eadem ſcientia
& in hac dupliciter uno quidein modo, ſi non per immediata fiat fyllogiſmus
, non enim accipitur prima cau fa , quæ uero fcicntia proprer quid , per pri
mam caufam eft . Hoc quidem primo modo non prebet exemplum aliquod philofophus
, quicquid Aueroes , Philopou nus , fequaces fentiant , fed exemplum profecundo
modo appofuit unicum folummodo pro quia , de ſintillatione planetarum , de
rotons ditate autem Lune dedit etiam exemplum ,pro fecundomodo quia ,quo ta men
exemplo declarat etiam quo pacto fieret propter quid demonſtratio O ob id
imminutus aut ſuperfluus non fuit , quia primo modo textus est clarus ſatis, c
profecundo modo quia ,duo exempla prebetin diuers ſis ſcientijs , utrunque
exemplum est in ſcientijs medijs , alterum est in optica , reliquum est in
Aſtronomia , &quia textus est ſatisclarus in duobus exemplis quantum ad
inductionis modum . Primo declaro prie, mum modum , quo, quia à propter quid
differt de quo primo modo,quo, quia a propter quid differt nullum dat exemplum
,ubi ait uno quidem modo,fi non per immediata fiat fyllogif. ita habet textus
Philo ponio Aucrois Argiropilus autě habet , uno quidē modo fi ratio tinatio
non per ea, quę uacant medio fiat,utloco uerbiſyllogiſ. legatur ratiotinatio,
omelius meo iudicio, cum illud uniuerſalius fit uer bū , fenfus tamen ille est,
utfi fiat deduétio, non per immediata,erit demon ſtratio quia ; ut fide homine
concludatur reſpiratio, eo quod ſitanimal, ſi uero de homine concludatur quòd
reſpirat , eo quòd pulmonem habet , eritdemonſtratio propter quid, oin utroque
modo,concluditur res spiratio follogifmo ut omne animal reſpirat ,cæt.velomne
habens pul: monemreſpirat & c. Si uero lectiofiat ſecundum Argiropilum
,Olegatur ratiotinatio , Tunc exemplum dari poteft pro primo modo, quando non
per immediata fiat inductio, ut prima pars xxxij . primi Elementorum probatur
per uigefimamnonam primi elementorum , & non per immes diata principia ,
fic ut fenfus fit , quod illa que probantur per alias pro poſitiones probatas
prius, talia quidem probatione quia probataſint illa uero queprobanturper
immediata principia propter quid demonftrens POSTERIORVM ARIST. 79 zmo citer
fiat maus prio DOM -cpon cofuit bton uo ta cratio extus iuers mes : FUS IN •
prie quo, dem philo atio ogil uer tur , ut eſt queſitum primi, ſecundi, atque
tertij problematum primi Elea mentorum ,que quæfita per immediata principia
demonſtrantur , facta prius deſcriptione , ut conuenit , neque dicendum est ,
ut quidam exiſtie mant,quod eafit propter quid ,quando
perimmediataspropoſitionesfiat deductio imediationem illam tribuentes adſitum
propoſitionū ut fecundit pars xxvIII. per primam partem illius, oprima pars
uigeſimeoctaua per uigefimumfeptimam primi Elementorum,fed hoc loco , non imme
diata accipit Ariſtoteles, omnes propoſitiones probatas,uel etiam , quæ per
prima probare poſſunt , cum demonftratio fiant ex primis , & im mediatis,
oppungat,ut immediatafint , o non fint primaabſolute . Et in Geometria etiam
alio modo quia eſt , differt à propter quit , ut quando ab effeétu ad caufam
progreffus fit , neinpe quando per æqualitatem an = gulorum concluditur
equalitas laterum ,ut fexta primi Elementorum Eu. clidis proponit.Propter quid
autem eſt,quádo à caufa ad effectum proces ditur , utputa quando ab equalitate
laterum trianguli infertur
æqualitas angulorum illa latera reſpicientium , ut prima pars quintæ
elementorum Euclidis proponit . Atio autemmodo per immediata quidem non auteng
percauſam , ſed per notius eorum que conuertuntur , ut lucidum non
ſcintillare,o prope eſſe , fimiliter, creſcere per rotunda incrementa luz. cida
, ceſſe rotundum æqualiter defe inuicem prædicant,notius tamen eft , non
ſcintillare , quàm prope effe , ¬ius eſt creſcere per increa menta
lucida rotunda, quàm eſſe rotundum , & primum eft per fenfum ♡per induétionem in fingulisplanetis
notummagis , non tamen caufa eft quare planetæ prope ſint, fed
econtrario.Secundum etiam , ut quod incremento creſcere,non eſt caufa
rotunditatis , licetfit notumfolummo do per ſenſum , non autem per inductionem
à pluribus determinatis ſie mul exiftentibus, quia hoc tantum de unico
incremento creſcente certi fumus , *cum per ipfa, fiunt inductiones , quòd
planeta propefint, aut quod Luna rotundit ſit, talis utriuſque inductio eſt
quid, quod fi ccontra riofieret, tunc propter quid, anon quia, erit
demonſtratio , ifti igitur duo modi à fe diuerſi ſunt, eo quod primus, per
priora quidem , non tas men immediata procedit. Alius autem per immediata non
tamen per priora , fed ea quæeſt propter quid colligit utraque, & quod ex
prio ribus fit, atque ex immediatis . Amplius quare planetæ , haud fcina
tillare uideantur fuſius ſuper problemateultimo quintadecimæfectio nis
problematum Ariſtotelis fiet per me declaratio , quæ etiam faciet fatis huic
textui , eft tamen hoc loco aduertendum Ioannem dicere fira MON mal , het, pw
atur non ros illa IN PRIM VM L I B. tillationem prouenire , quod protendentes
uifus ufque ad aſtra fixa de biliores fiunt, quaſi quòd uiſio fieret per
extramißionem radiorum , ut Thimeo &Empedocli placituin erat , quos
Ariſtoteles reprehendit capi te ſexto De Senſu &ſenſili. In hac igitur
parte reiciendus est Philopo nus , niſi exemplo loquatur famoſo . Alterum De
rotunditate Lune fus per problemate oftauo eiufdem feftionis aperietur , ubi
querit Ariftote les unde eſt , quòd Luna uideatur plana, cum fit rotunda.
TEXTVS LXV. ALIAS X XX . MPLIVS in quibus inedium extraponitur etenim in his nó
propter quidſed ipfius, quia demonſtratio eft , non enim dicitur caufa , ut propter
quid non reſpirat paries, quia eſt ani mał . Tertium modum quo quia in eadem
ſcientia à propter quid differt , nunc affert Ariſtoteles inquiens amplius eft,
que quando neque cauſa probat 1,ut primus modus effe&tum infert , neque
est,quando ex effectu caufa infertur , fed quando ex nega: tione pene cauſe
infertur ipſius effe &tus negatio , feu etiam econuerfo , ut quia non funt
parallele, ideo alterni anguli non funt æquales, opdo ri modo , quia
extrinfecus angulus non eft æqualis intrinſeco'ex eadem parte , igitur
parallele non funt ; oeſt hic modus tertius , quo quia à propterquid differt in
eadem ſcientia , dixi quando ex negationepene caufe, oc. Quia parallelas
effe,non eft caufa ut alterni anguli ſintæqua les ,nifi fuper ill. linea recta
ceciderit, que propinqua caufa eft, quod al terni anguli fintæquales,ficut
animal quidem longinqua caufa eft refpira di, propinqua eſt pulmo, totalis
autem eſt animalhabemus pi Imonem me dium enim ad probandă affeétionem in
perſpectiut accipitur extra perſpe fiuã, utputa in Geometria & Mechanica ad
Stereometriam.ld no tißimum erit pariter v iocundum , fi id quod ait
Ariſtoteles in ques ſtionibus mechanicis questione x l'intelligatur ,onera qua
mouentur ſua per ſcytalas facilius mouentur, quam fi ſuper plauftra mouerentur,ultrd
rationes illas Phiſicas quas ibi Ariſtoteles adducit , etiam ratio propter
quidſummitur ex primoſtereometrie Euclidis deffinitione decimao taud uel
undecima ex Theonis littera, Q * tertio Elementorum deffinitione fez cunda,
minus enim offenfant ſeytale, quam plauſtrorum rote , quia ana gulus fcytalarum
longe maior eft, quàmfit angulus rotarum plauftrorit ut angulus POSTERIORVM
ARIST. 81 1 unt 41 utangulus rota a fe, uel etiam a fd longe minor eft quàm
angulus fcytale af c, & ideo minus ad planum af b offenſat ſcytala quam
rota ,quidfcytals,que in uſu noſtro tempore eſt, in questionibus mechaa nicis
declarabo, pro nuncfcito illas eſſe ftangulas ,quibus utuntur lapi cide in
trahendis magnis lapidibus, f & Harmonica ad Aritmetica a -6 Tonum in duo
equalia diuidiſemito nia minime poteſt,quod muſicus dea terminat , ut Boetius
re&te fentit lis bro tertio capite primo muſices, le quicquid Pfelus
Greculus ſentiat , fedfecaturin apothomen eſemi tonium minus, huius autem
propter quid ratio , ab Arithmetico reddia tur, quiafuperparticularis propor
tio non poteſt diuidi in duo equalia , ut Boetius in Arithmeticis docet. Tonus
autem cum in ſeſquioctaua ſonorum proportione conſiſtat in duo equalia
ſemitonia diuidi haud quaquam poteft. & Apparentia ad Aſtronomiam . Apparentia
, ipfa eft phenomena de qua Euclides, e Aratus poeta agunt, atque
VergiliusAgricolas docens tempus quo mila lium feminaredebent , ait in
Georgicis loquens de occafu hellaco , Candi dus auratis aperit cum cornubus
annum Taurus, oaduerfo cedens cda nis occidit aſtro,rationemſiqnis agricola
deſideret , cur eo tempore cda nis, qui et Alabor dicitur, occidat beliace ,id
totum ab aſtronomo petat, qui rationem propter quid redet; Sol enim in orbe
eccentrico à propria intelligentisex occidente in orientem motus , quicquid
fomnietAlpetra gius Fracaſtorius, & fequaces,accedit annud orbita ad illud
fydus, quod eft in geminis &fuo maximofplendore , non finit illud uideri,
id autë fit cum Sol diſcurrës perſignum Tauri , attingit extremam partem Tauri,
tunc enim canis perdit lumen ſuum , non uidetur amplius, propter So lis ad
ipſumſydus uiciniam , quouſque iterum per motum eccentrici ab co fydere
ellongetur Sol, quod iterum oriri heliace incipit ; hi ſunt igitur modi quatuor
, quibuspropter quid , à quia differt , tres quidem funt in eadem ſcientia
fubalternante,oquartus, quando id quoddemon ſtrandum eft inſcientia media ,per
ea quæ in ſubalternante ſcientia nota funt, probatur , in quo quarto modo ,
funt plures demonſtratiomisgraa dus fpeculandi, quos quia Ariſtoteles non
tangit,præterco. L Me hen 1 1 IN PRIMVM LIB . -7. Sunt autem hæc quæcunque
alterum quiddam exiſten tia ſecundum fubftantiam, utuntur fpeciebils, Mathenati
cæ enim ſecundum fpeciein funt, non enim de ſubiecto alia quo,fi cnim & de
fubiecto aliquo Geometrica funt, ſed no quatenus Geometrica,de fubiecto funt.
In præcedenti particu la huius textus dixit de ſcientia quia, quód fenfibilium
eft, inquiens,Hic enim, ipſum quia ſenſibilă eft fcire, de fcicntia uero
propter quid ,quòd uniuerfalium ejt , per caufas habetur,ait ,propter quid
autem mathemde ticorum , hi enim habent caufaruin demor.ſtrationes, ofrequenter
neſci unt ipſum quia, ficut illi uniuerſale conſiderantes , fepe quædam ſingula
rium neſciunt propter id, quod non intendunt; Ecce quantimathematis cos ficiat
philofophus, dicens eos noningnaros illorum, que uulgus tra Etat, fed Socratico
more, ea non intendere quæfumuno ſtudio, amplectun tur uulzures, Differentia
igitur ipſius ,quiu à propter quid,adhuc magis explicans,ait, funt autě ip / e
quidemfcientiæ, quia quecunq;,utuntur ſpe ciebus (fenfibilibusuidelicet, alterã
quiddam fecundum fubjtantiam pecu lantes, alterum quiddam non folum fecundum
ſubſtantium ,fed etiamaltes xum quiddamn in exiſtentia,hoc eft in ſubiecto
materiali exiſtens, Mathem matice enim , nempe quæ propter quid fient, circa
fpccies ſunt , dubita . tur hocloco, cum ſcientia quia utatur fpeciebus, o
ſciétia propter quid circa ſpeciesſit , quo nam puto , in quia , & quo modo
in propter quid fpecies intelligatur. Dico , quod quia ſenſibilium eſt , ut ait
Ariſtoteles, utitur, quia ſpeciebusſenſibilibus,quarum beneficio fenfus ſenſata
perci piunt , fed propterquid,utiturfpeciebus abftractis àſubiecto materiali,
ut ſuperficie , linea, puncto, &ſimilibus, quatenus affectiones aliquas de
ipſis inipſis cognoſcit demonſtrator,non tamē circa hæc uerſatur Geo metra
quatenus in ſubiecto funt ,ſed preciſius abſtractione , ea conſides rat , fi
talia nufquam , ſine fubiecto ſint. Habet autem fead perſpectiuam , ficut hæc
ad Geome triam , & alia ad iftam , ut id quod de, iride eft. Traslatio Ar
giropoli in hac , precedenti particula facilior ,atque candidior eft, quàmfit
textus Philoponi, ne uidear tamen in precedenti particula , e hac preſenti,
litteram ſequi, quam pedagogio neoterici non doctores, ut fe præferunt , fæpe
encruat ; loannis textum in utraque particula ex pono, quo etiam plura uirtute
continentur quam, contineat textus, Are giropoli tum etiam, quia accedit ad hæc
Procli interpretatio , ut teftatur loannes, ſcientiasigitur quas in præfenti
Ariſtoteles cõmemorat,fub ale POSTERIORVM ARIST. 83 terno quodã ordine pofitæ
funt;primo Geometria,cui imediate perſpecti ua,perfpe & iue autē ſpecularia
&huic ſpecularie, ea ſcientia, quæ eft de Iride in qua,
quæponuntur,perfpecularia probantur&, quæ in peculi ria , per ea quæ in
perſpectiua funt notamanifeſtantur , qu : autê in pera fpectiua , per ea quæin
Geometrianoșa, fuerunt , ut quòd iris ſit tricos lor,oquòdnunquamplures duabus
Iridibus appareant ; et quòd denigs Rõ fit nidor femicirculo , per fcientias
ſuperiores, hee omnia probatur. Multæ autein & non fubalternarum ,
ſcienriarun fe has bent fic , ut medicina ad Geometriam , q eniin uulnera , cir
cularia tardius fanentur medici eft fcire quia, propter quid autein Geometræ .
Parum ſupra in anteprecedenti particula dixit philofophus ,qu& namfcientiæ
effentfere uniuoce inquiens, fere autem uniuocefunt hurumſcientiarī alique,ut
aſtrologia ' et mathematicaet na ualis , o harinonica quae mathematica , oque
fecundum auditum , in hac autem particuladeterminat de his fcientijs que nullo
modouniuoce funt. ut Geometria os medicina que etiam fubalternate non funt, he
enim due non ſubalternantur inter ſe, quia ſubiectum Geometrie eſt , id quod
circa planum uerfatur , medicine uero ſubiectum eſt corpus jarabi le ,id , eft,
quod proponit; ut quod in alterafcientia proponitur,probatur per ea,quæ in alia
fciētia nota funt; non tamen hæ fevětiæ funt uniuoce , neque fubalternatæ ,ut
in chierurgia ,que pars eft medicina proponitür uulnusrotundum , difficultate
fanari, ut canumexcoriatoresteftantur. Geometria autem nobilis fcientia reddi
propter quid , primo Elemento * rum deffinitione decimaquinta, quia exomni
parte æqualiter diftat cas * o , ficut ibi acentro ipfa circunferentia. ly tie
20 SMS TEXT VS L XVII ALIAS X X X. 170 ot cs, tro autem modo , differt ipſum
propter quid ab ipfo quia , quodelt , peralia fciené Stianu nrruinqué,
ſpeciilari , Huiuſmodi au Matem funt , quæcunque fic fehabent, utals terum fub
altero fit, ut perſpectina ad Geo metriani. vbi ait, per aliam ſcientiam fic
intellis gatur per altam magis uniuerfalem et fubalternantem in aliam minus
univerfalem . Vtrunquefpeculari, utrunque dixit refferens &propter. quid,
quia, alia enim fcientia fpeculatur propter quid, c alia fpecus Ljj 84 IN
PRIMVM LIB. 1.3 latur ipſum quia, ut Geometria proprer quid , perfpeétiuauero,
quia, inquitenim Ariſtoteles. Hæ enimipſum quia, fenfibiliumest fcire, prom
pter quid autem mathematicorum . Verbi gratia,oculus exiſtens in a uidens cd,
uidet ipfam quantitatens minorem , quamſi idein oculus fiat in b , quia inquit
perfpe&tiuus,uide tur ca ſubmaiori angulo ab oculo exiſtente in b , quam ab
eodem oculo in a exiſtente,& quód angulus dbc ſit maior da c, Geometra id
demon ſtrat primo Element propoſitione xxi. Dubitatur circa hoc , quod di
cebatur de mente Ariſtotelis in dia & o exemplo perſpectiuo , quodne que
percurrendum eſt ſicco pede,ut indoctifaciunt no intelligétes bonas artes ,
quicum ad Mathematica ex empla accedunt,pedem referunt,dia centes non eſſe uim
ponëdum in illis . Ego autem econtrario dico , totum neruiim rei, eſſe in
exempli intelles ione, ubi ait , quod perſpectiuus oftendit maius uideri id ,
quod de prope eft , demonftratione quia , o Geometra , idein propter quid ,
demonſtrat in vigeſimaprima primi Ele mentorum , qua uigefimaprimaprimi
Elemen.non propter quid demon ſtratur , fed demonſtratione quia , ut
demonftratio quia diſtinguitur , a propter quid primo modo, ficut textu 64.
declaratumfuit, quòd illa des monftratio , quæ per mediata a probatas
propoſitiones procedit , eft demonftratio quia , diftinguiturab illa ineadem
ſcientia, quæ proces dit per immediata principia ,quæ demonftratio propter quid
dicitur,mo do ex fexagefimoquarto textu ,determinatur quòd demonftratio uig eſi
miprima primi Elementorum eſt , quia , hoc autem exemplo perſpectis uo dicit ,
quod eft propter quid , contradictio igitur manifeſta uidetur . Dico de mente
Ariſtotelis hoc loco,&eft etiam loannis Grammatici ins tentio fuper textu
fexagefimoquarto ,dicentis . Quodammodo autem in precedéribus dicebamusquod
ipſum quia eſt primomado,permediata mo firare, cum fecundo modo ipſumquia per
immediata,ſimiliter w propter quid , unde aduertendum , quod demonftratio ,
quæfit fuper uigeſimam primam primi Elementorum ,que per uigefimam decimāfextam
primi elementorum procedit, fi ad demonſtrationem prime propoſitionis Elc .
POSTERIORVM ARIST. es mentorum , quæ per immediataprincipia procedit comparetur
demon Atratio quia, merito dicitur, ſi mero comparetur adperſpectiuam demone
ftrationein , tunc propter quid dicetur , quia perſpectiuus pier eam pros bat
intentum , u ſictricic apparentis argumenti explicite funt ,fc cundum
philofophiſcitum . TEX. LXVIII. ALIAS XXXI. IG V R A R v M autem faciens ſcire
maxime pri ma eſt , etenim Mathematicæ fcientiarum per hanc demonſtrationes
ferunt, ut Arith metica , & Geometria , & perſpectiua, & fes re (ut
eſt dicere) quæcunque,quæ ipfius pro pter quid faciunt conſiderationem ,aut
enim omnino ,aut licut frequentius , & in plurimisper hanc fi guram (quieſt
propter quid fyllogifmus) fit, Textus hic uis detur edirecto contra
expoſitionem nouam factam permeſuper iỹ. tex tu de inductione illa Geometrica ,
que tanquam fictitium quoddam , uanißimum , &nullo Greco &
Latinoexpoſitore do&tißimoexcogitatū, inquit enim Ariſtoteles , etenim
Mathematicæ ſcientiarum , per banc primam figuram demonſtrationes ferunt , non
igitur Mathematic & fea runt demonftrationes per illam Geometricam
inductionē , utibifuit des terminatum . Inftantia hæc,eft hominisuaniloqui,qui
ea profert& fcri bit ; quæ nonfunt notæ earum , quæin anima paßionumſunt,
cum non folumanimamtanquàm abraſam tabellam habeant , fed potius tanquam
ficcamcucurbitain , in qua nonniſi uentus reperitur , quia tamen nonfo lummodo
fapientuin habenda eft ratio , stultis etians atque infipientibus pariter
reſpondendum effearbitror , ne in fua ignorantia glorientur ua ne . In hoc
textu Ariſtoteles nil aliud determinat , niſi quod preſtantior est prima, quàm
fecunda & tertis figuræ ,&quód Mathematica hac fepe utuntur , &hoc
quidem quandofyllogiſtica arguunt, ut ait in tex . dicens , oin plurimis per
hancfiguram , que eſt propter quidfyllogif mus fit , modo quid refert , ſi
Geometra, utatur fyllogifmo, non nece ibi in tertio textu fuit declaratum , quo
modofyllogiſmo utitur Geomes tra , &quomodo inductione Geometrica ?fimodo
quis ex hoc textu uca lit inferre , quod illa indu&tio Geometrica non detur
, ipfe faciet mendas cem Ariftotelem , dicentem in tertio textu , quòd nedum
fyllogifmo fed 70 IN PRIMVM LIB. , oinduétione , ſcitur quòd triangulus in
femicir culo conftitutus, habeus tres angulos æquales duobus reitis . TEX .
LXXXVII . ALIAS XXXVI. EMONSTRATTO enim eft ex his , quæcun queipſa quidem
inſunt, fecundum ſeipſa rebus , ſecundum feipſa uero , dupliciter , quæcunque
enim in illis infunt in co quòd quid eft , & in quibus, ipſa in eo quodqınd
eft inſunt ipſis , ut in numero, impar, quod ncit quidem numero , eft autem
ipfe numerus in ratione ipfius , & iteruụn multitudo ,aut diuiſibile in
ratione nua meri , horum autem neutrum contingit infinita eſſe ,nec ut impar
numeri, Secundum fe ipſum bipartitur , ut quando prie mum deffinitio de
deffinito predicatur. uel etiam quädo deffinitum de def finitione , ut numerus
est multitudo ex unitatibus aggreguta , ut Euclia des ait fecundadeffinitione
ſeptimi Elementori,et etiam multitudo ex unii tatibus agregata numerus est :
impar nuſquà inuenitur in deffinitione nu meriupud Arithmeticū , neq; etiä
numerusin deffinitione paris, quid igi tur uelit Arift. hoc exemplo noſatis à
Græcis etLatinis explicatum est, puto tamen egoquod ficut in deffinitionibus,
quædum fecüdum quod ipfa inueniuntur,pariter etiam id in diuiſione fit , ut fi
quippiam , nume rus eſt , id quidem impar uel par statim eſſe dignoſcitur ,oſi
quid ims par uel parfit illud tale numerumeffe patet , ſic ut exempluinprimum
Ariſtotelis , ſit circa diuiſionem , fecundum exemplum de deffinitios ne , quia
tamen addit , aut diuiſibile in rationenumeri, nullibi apud Eus clidem
reperitur quod diuſibile in numeri ratione ponatur , quatenus nu merus eſt , fed
in deffinitione numeri paris ; recteponitur , ut diuidatur in æqualia, ut
primadeffinitione noni Elementorum manifeſtum eſt, par numerus eft , qui in duo
æqualia poteſt diuidi , & quicquid in duo equa lia diuiditur , id numerus
effe patet , fiueboc de numero , quo numerisa mus , feude numero numerato, hoc
intellexeris, ueritatemhabet. Meto dumdiuifiuam , in his exemplis ſeruauit
Ariſtot. primo enim in diuiſione ſubinde in deffinitione,et tertio loco
infpecie contenta, fub deffinito ufus eft exemplo,Numeriigitur primadiuiſio eſt
in imparem atqueparem ; ut Boetius docet capite tertioprimi Arithmetica ,
definitio estſecunda fe-. POSTERIORVM ARIST. 87 ptimi Elementorum , deffinitio
autem paris ; patet ex prima definitione noni Elementorum . Horum autem omnium
nullum contingit infinita eſſe, numerus enim in imparem atque parem , impar in
primum , compoſia tum , compoſitum in quadratun , o non quadratum , igitur
quadratus compoſitus impar numerus eft , onumerus , eſt impar compoſitus qua
dratus, feu numerus eft impar prinus , er prinus , impar numerus eft , ♡ ſicuti status eſt innumero ,ut tandem ſit
ultima particulaque à par te fubieéti ponatur , ſiiniliter ſtatus erit in alijs
particulis , que ponun tur à parte predicati, quando ipfe numerus àparte
ſubiecti pofitus erit neque igitur inſurlum ,ncque igitur in deorſum infinita
pre dicantia contingit eſſe in demonſtratinis fcientís , de quiz bus intentio
eft, in furfum ait deffinitionem refpicientes , neque in deorfum diuiſionein
feu partitionem animaduertit. d ac 38 در ۴ را mi TEX . LXXXVIII ALIAS XXXVII.
for ONSTRATJslautem his , &e . Non te prea terit, quòd habere tres duobus
reétis equales conie nito Joſcelio Scalenoni , neutri tamen per alte,
rumconuenit ,fed utriqueperhoc , quodfigurarea Eilinea trilatera eft , idfæpe
fuit in precedentie bus declaratum exfecunda parte trigeſimeſecunda primi
Elementorum .. other VA 16 . TEXTVS.XCI. ALIAS XXXVIII. M ST autem inuin cuin
iinmediatun fiat & una propoſitio ſinplex eft immediata & queinadınodum
in alís eſt principium fimplex , hocautem non idem ubiqueeſt, fed in graui
quidem untia , in melodia ,alle tem diefis , aliud autein in alio , fic eft in
fyllogitno unum , propofitio immediata, Secundum antiquos rumfcitum , ut
Campanus refert ſuper oriaus xiiij . Elementorum unumquodqueintegrum in
xij.partes æquales per rationen og intelle Etum diuiferunt, ♡ ipſum totuin fic diuifum in partes illas
, aſſem uoc4 = werunt , undecim earum dixerunt deuncem , decem dextantem ,
nchem IN PRIM V M. LIB : dodrantem , o &to beſſem , feptem ſeptuncem , fex
uero partes femiffen , quinque quincuncem , quatuor trientem , tres quadrantem
, duas ſexa tantem , unam autem appellauerunt unciam , quam unciam in minorafra
gmenta nonfecat philoſophus , quia eft ultimum fragmentum integri à quofuum initium
fumit ipfum integrum, tanquàm ab immediato prins cipio ,ex quo,fumiturfimile,
quod in fyllogifmo etiam est ipſa immediata propoſitio, ultra quam nonfit
refolutio in terminos,ſicut etiam ultra un ciam non fecit conſiderationem in
minoresminutias, licet hoc fieripoßit, ficut propoſitio in terminos etiam
quandoquidem refolui poterit. In melodia autem dieſis, Non eſt pretereundum
filentio id,quod hoc loco Ariſtoteles tangit , id autem eſt, quod qui Logicam
ipſiusprofi tetur quiſquis fit ille ,omnibus diſciplinis Mathematicis debetin
primis fſe inſtitutus,aliter enim euenietei , ut in adagio dicitur, operam
fimul ooleum perdet , quid per dieſim intelligat , notum erit fitonum ſimpli
cem , interuallum integrum , nondum ad armoniam pertingens diuidi in duas equus
partes eſe impoßibile quis prius perceperit , ut etiam in tex. Lix.
prædemonftratum eft , duas tamen in partes inæquales diuidi , quarum altera
maior eft , quæ apothomen , ſeu ſemitonium mas ius, reliqua uero eft minor, quæ
minusfemitonium nuncupatur , oip fum minus femitonium in duas partes æquales
diuiditur , quartum utras que dieſis appellatur à uetuftioribus muſicis , ut
Boetio atque Nicomas co primo libro Muſicæ ,capite xxi. placet ,idprincipium
toni eft , quid minimum . Practici uero Muſici dieſim uocant inciſionem duarum
linearumfuper alias duas ſic *quam incifionem fignant ipfi practici Cantores ,
ſuper eam notam , ſub quain deſenſus toni, faciunt defen fum ſemitonij , ſed id
cantoribus relinquatur , prima dieſis acception Ariſtotelis ſententiam explicat
, quia dieſis in illa acceptione , eft minia mum conſideratum à mufico, fiue id
, quodminimum eſt in concinentia conſideratum , ſicut uncia in ponderibus
oimmediata propofitio in de monſtrutione fyllogiſtica , o boc intelligas de
minutijs integri , non de minutiaruin minutijs, de quibus phylolaus apud
Boetium libro tera tio capite octauo agit ,quiabec ad Ariſtotelisfententiam non
faciunt pretermito. MAGIS tur POSTERIOR VM ARIST. 89 TEXTVS XCII. ALIAS XXXIX.
AGIs autein ſeiinus unumquodque , ciim ipfum cognoſcimus ſecundun ipſum, quam
fecundum aliud,utmuficun Coriſcum ,quá do Coriſcus muſicus eſt , quàm quod homo
muſicus fit, Hoc loco tentat Ariſtoteles elencho ar gumento probarequod
particularis demonſtratio ſit uniuerfali potior . Quis nam fit muſicus aperit
Nicomacus atque Boes tius primo libro muſices capite xxx111. ille quidem eft,
quinon ex eo quod manu cytheram pulfat , fed ille qui rationis imperio
cantillenas rum distonice , cromatice,atque enarmonice ratum , atque firmum ſta
tum agnoſcit diiudicat, atque imperat, qua re intellectu ,quærit Ariſto
teles,num illa demonftratio, qua Coriſcus muſicus, an illa, qua homo mu ſicus
co:rcluditur , quod eft , an particularis, uel ipſa uniuerfalis fit pos tior,
Cui rationi reſpondendum; ut Ariſtoteles innuit per interemptios nem , negando
quodCoriſcusſit muficus per fe , fiue quòd ifta cognofca tur per fe, Coriſcus
eft muſicus. BI 74 1 142 ca TEXTVS XCIII. ici ha 10% OTior autem eſt, quæ eſt
de eſſe quain de non eſſe, & propter quam non errabi tur quàin proptcr quam
crrabitur eſt au tem uniuerſalis huiuſmodi, procedentes enim demonſtrant
uniuerſale, quemadmo dum de eo quod eſt proportionale ,ut quo = niam quod
utique fit talc,erit proportionale, quod ncque linea; neque numerus, ncque
ſolidum , neque planum eft, fed præter hæc aliquid. illud idem totum quod text.
xx v di& um fuit, hoc loco repetatur, ubi Ariſtoteles text. xx v dixit hæc
uer ba, nunc uniuerſalemonſtratur,hoc textu , magis aperit dicens , proces
dentes enim demonſtrant uniuerfale, quod neque lined, &cæt. fed pre ter hæc
aliquid , quod quidem eſtipſum quantum , quatenus quátum eft, quod uniuocum eft omnibus quantis , neque
illudeſſe tale immagineris, quod oquanto &quali communefit,ut
immaginabatur,lo4nnes gram M IN PRIMVM LIB. maticus afequaces, quia
illud,analogum eſſet, quod à propoſitoſecludit Ariſtotelesnonagefimo quinto
textu reſpondens ad fecundam difficulta tem . TEXTVS XCIIII. S IGIT VR
triangulus in plus eft, & ratio eadem , & non fecundum æquiuocationem ,
conuenit triangulo & Iſoſceli , & ineſt oinni triangulo duobus rectis
æquales,non utique triangulus ſecundum quod eſt Iſoſceles , led Iſoſceles
ſecundum quod eft triangulus,ha bet huiufmodi angulos. Concludit Ariſtoteles
hoc textu uniuers falem demonſtrationem particulari demonſtratione potiorem
eſſe , o eft quando per rationem uniuocam concluditur affectio de ipſo
uniuerfali, eper eandem uniuocam rationem concluditur eademet affeétio de par .
ticulari aliquo, ut habere tres æqualesduobus reétis, probatur infecun da parte
x x x 11primi Elementorum de triangulo primo , deinde de iſopleuro , ſoſcele,
oScalenone non primo , fed quatenus trianguli ſunt, &hoc idem de illis
concluditur perfyllogifmum , uel etiam per ean dem induétionem trigeſimæ ſecñde
primiElementorum Eft in hoc textu non minima conſideratione dignum , quod etiam
non eft prætereundura immobili calamo, Ratio enimtrianguli uniuoca eſt , quia o
nomine for rede uniuerfali triangulo ode particulari Ifofcele prædicatur ,
utpuu tafigura,quæ tribus reétis lineis clauditur , non tamen per ipfam ratios
nem , cõcluditur de Trigono uel iſoſcele habere tres duobus reftis equa les,
ſed per primam partem trigeſimæ ſecunda , eper uigeſimā nonam Otertiä decimă
primiElementorum , quapropter non uidetur quod exemplumſit ad propoſitum regulæ
Ariſtotelis,de ratione uniuoca ,Di cendum , quod naturaexemplieſt, ut non
conueniat. Cum re in omni mor do,quia tunc non eſſet exemplü rei, ſed eſſet res
ipſa.Dico fecundo quod memoria eſt dignum cum præfertimà nullo fit hucuſque
perpéfum ,quod nulla demonftratio mathematica eſt potißima , & ob
idmathematicæ nul leſunt ſciētie ſiſtetur in doétrina Aristotelisratio,quia in
nulla conclu ditur aliqua affectio deſubie &to per deffinitionem fubie
&ti,quod tamen uo lunt uirigraues de mente Scoti, neque etiam per deffinitionem
paßionis ut alij determinant de mente Thomæ, Modo dicas,quod quando per cane
dem deffinitionem ,fiue uniuocam rationem, demonſtratur affectio aliqua
POSTERIORVM ARIST. 91 ineſſeſubie o uniuerſali , &eadem ineſſeparticulari
per eandem deffini tionem , quòd de uniuerſali , immediate & per fe,de
particulari autem non immediate, neque per ſe, ſed per uniuerſale concluditur,
ideo uniuer. falis ipſa particulari demonſtratione potior, atque præftantior
est , ut fi per rationale mortale, concludatur de homine riſibilitas ,
&deinde per id, de Socrate, quod fit riſibilis , illa in qua de homine ,
quàm illa in qua de Socrate demonftratio, eft potior, ſicuti de triangulo
uerbigratia ,in fecunda parte trigeſime ſecunde primi Elementorum , &etiam
de 1foſce le, probatur habere tresæquales duobus reftis, illa tamen inductio
,que probat de triangu o potioreſt illa industione, quæ de iſoſcele idem cons
cludit, quia primo de triangulo uniuerſali, ſubinde de particulari trian . gulo
concluditur , hoc pacto Ariſtotelis regula o exemplum intel ligendafunt. TEXTVS
XCVII. fed 72 th po 1 MPLIvs uſque ad hoc quæriinus propter quid, & tunc
opinamur ſcire, cum non fit aliquid aliud propter quid fciamus, quàm hoc, aut
quòd fiat, aut quòd fit , & cetera uſque ibi, Cum igitur cognoſcamus quidē,
quod quiſunt extra æquales funt quatuor ſcétis , quoniam æquitibiarum ,adhuc
decft propter quid , quia triangulus , & hoc, quia eft figura rectilinea,
ſi aus. tem hoc , non amplius propter quid aliud , tum maxi mc ſcimus &
uniuerſale, tunc uniuerſalis itaque eft. Hoc tex tu Ariſtoteles determinatquòd
, tunc arbitramurſcire cum ufque ad ul timas cauſas procedit nofter reſolutiuus
diſcurſus , ait enim cum igitur cognoſcamus quidem quod, hi , quiſunt extra
æquales ſunt quatuor rea &tis , o redit rationem , quoniam equitibiarum ,
ſed quia æquitibic figu ræ funt etiam quadrilatere, pentágone , adiecit
proximiorem cau Jam dicens , quia triangulus, quia tamen trianguli diuerfa funt
latera ,ut curua , conuexa, conuexa o curua, curua Qrecta ,conuexa a recta,ut
omnia hæc excludat ait, qui eſt figura re{ tilinea, que cauſa magis udhuc
proxima eft, quæ quidem ultima& propinqua cauſa, cumfucrit inuens
taoaßignuta, non amplius propter quid aliud querimus, pq tunc mas xime fcimus,
uniuerſale, o cæt. Quantum autem ad id , quod exem = plo , Ariſtoteles ait ,
paucis explicetur in fubie&ta figura a bc, cuius 1 1 Mij IN PRIM VM LIB.
mnes extrinfecos angulos , quatuor reétis æquales effe dico, protrahan tur enim
omnis latera a b, br, ca, uſque add, e, f, eritqüe per tertiã decimam primi
elementorum duo anguliad c , pofiti æquales duobusrex & is , eadem ratione
duoilli ad a , o reliqui duo ad b ſimiliter equales duobus re& tis, itaque
omnes fex intrinfeci uidelicet,o extrinfeci,ſunt æquales ſex reftis , fed per
fecundam partem trigefimæ fecunde prie mi Elementorum , tres intrinfecifunt
æquales duobus re&tis , igitur tres reliqui extrinſeciſunt quatuor reftis
equales,quod demonſtrandū erat. Non enim omnis triangulus uni uerfaliter
fumptus , hahet tres an gulos duobus reétis equales , ſed ali quis habet duos
angulos rectos , tertium acută , et quidam triangulus eft qui habet tres
angulos rectos, ut Ptholameus cap. x. ſecüda dictionis magnæ cõſtructionis
theoremate pri G mo, e ſequentibus manifestum faa cit, neque tamen id cötrariatùr
pro poſitioni xyli primi elementorum, Euclidis ut quod duo anguli cuiusli bet
trianguli fint minores duobus rectis , nec etiam eſt contra fecundam partem
xxxl primi Elemen . Euclidis , quòd uidelicet omnis triangulos, habet tres
duobus reftis æquales , ratio , quòdnulla inter hos fapientißia mosſit
contradictio, eſt, quia de rectilineis Euclides , de fphelaribus ues ro
Ptholameus & curuilineis triangulis agit , quod aduertens Ariftotea les
adiecit , quia est figura rectilinea ; ut fit abſolutus fenfus, quod equis
tibia figura trilatera rectilinea , habet extrinſecos angulos quatuor ree Stis
equales. TEXTV S CI. I MPLIV's autein & fic , uniuerſale enim ina . gis
demonſtrare eft, co quòd eſtper medium demonſtrare, cuin propius fit principio
, pro xime autem immediatum eſt , hoc autem eft principium ;fi igitur quæ ex
principio eſt , ea quæ non eft cx principio, quæ magis ex prin POSTERIORVM
ARIST. cipio , ea quæ minus eft, certior eft demonſtratio . Hoc textu
Ariſtoteles apponit extremammanum determinans,quòd uniuerfalis ſit particulari
demonfiratione dignior , in quo quædamnon conſiderata à grecis,neque à latinis.
, difta tamen ohic ab Ariſtotele tertio tex tu , ibi, quorundam enim hoc modo
diſciplina eſt, onon permedium ube timum cognoſcitur , ut quæcunque iam
fingularia eſſe contingit , nec de fubiecto quopiam , ubi aduertit quod
quidammodus est, quo fciuntur af fertiones deſingularibus, onon per medium
,modus etiam est quo affea &tiones fciuntur de particularibus per medium ,
fed non primo de eis , ut declaraui in textů tertio 'nonageſimoquarto huius ,
affectiones uero que de uniuerſali cognofcuntur, he quidem per medium
cognoſcuntur, hac de caufa uniuerfalis demonſtratio , eſt ipſa particulari
potior , quia particularis non per medium , uniuerfalis uero per medium
demonftrat, ut ait, uniuerſale enim magis demonſtrare est ,eo quod eft per
medium de monstrare,id autem Geometrico exemplo-manifeſtat dicens,quod ſi quis
cognouit , quia omnis triangulus habettresduobus rectis æqualesfciuit ,
quodammodo, & quod ifcoſceles duobus reftis tres pares habet,utputa
potentiafcit, quia uniuerfale fciens aetu , potentia etiam fcit. ea, quæfub.
ipfo continentur, &ſi non cognouerit 1fofcelem quòd actu ,oper aper
tionemmanus (ut Philoponus tertio textu ofequaces interpretabane tur)
triangulus ſit, hanc habens propoſitionem ,hæcparticula legenda eft , cum
particula aduerfatiua fic ,hanc autem habens propoſitionem , nempefciens tantum
potentia quod Ifoſceles habet tres duobus rectis pa rés, uniuerſale nullo modo
cognouit, ut quòd triãgulushabeat tres equa les duobus rectis , neque potentia
, neque actu , non quidem potentia, quia Iſoſceles non eſt uniuerfale ad
triangulum ,uniuerſale enim potentia ſua inferiora continet. Accedit ad hoc
etiã, quia ſi non fcitur uniuerſale atu , non ſcitur potentia fuum particulare,
fi igitur particulare non ſcie tur actu, ſed potentia tantī ,quifieripoteft ,ut
propter id ,ſuū uniuerſale potentia fciatur ? non etiam actu fcitur
uniuerfalepropterea,quòd fuum particularefcitur potentia, quia ex ſcibile
potētia , non inferturſcitum actu. Exhoc textuę precedentibus quibus determinat
Ariſtot.uniuerſa lem demonftrationem esſe potiorem demonftratione particulari
habetur de particularibus difciplinam eſſe , particularem eſſe demonſtratioa
nem quæcunquefit illa ,aliter enim nulla effet comparatio Ariſtotelis in ter
uniuerfalem o particularem demonſtrationem . Preterea etiam nos tatu dignum
habetur , contra omnes interpretes , id autem eft, quod ali 94 IN PRIMVM LIB .
quatenus ij. textu ta&tum fuit, ubi determinat quod de nouo quippians
ſcimus, introducit eos , qui tenentes quòd de nouo fciebamus interrogae bant
Platonicos tentantes oſtendere ipſis Platonicis , quod de nouo ſci mus inquiunt
enim , noftis ne quod omnis dualitas par ſit ,nec ne ? Vel etiam , quòd omnis
triangulus tres duobus re & tis æquales habeat, annuen tibus autem
Platonicis attulerunt dualitatem , uel triangulum manu aba fconfum dicentes ,
ecce quomodo uos de nouoſcitis , hanc dualitatem eſſe parem , quia
priusneſciebatis hanc eſſe dualitatem Neotericies antiqui expoſitores inuoluunt
locum , ſic ut nedum ipſi intelligant , fed eshi qui cos audiunt ita
faſcinentur , ut nedum Ariſtotelem fed & feipfos pers dant. Dicunt enim
ſine propoſito , quod prius non poterantfcirede dua litate in manu abfconſa,
ueltriangulo conſtituto in tabula quod eſſet par, uel duobus rectis æquales
haberet , quia neſciebant illam eſſe dualitatem , vel illum effe triangulum ,
putant iſti exponere Ariftotelis"doctrinam fic dicentes , anon aduertunt ,
quòd id dicunt quod Ariſtoteles reprehens, dit , quod illi qui dicebant de nouo
fcire , male tamen perſuadentes per oſtenſionem ad fenfum , egr reſpondentes
perperam , dicebant fe nonſcia re eſſe purem , niſi quam dualitatem eſſe
ſciebant,apertißimehic Aristo. teles dicit , quòd qui ſcit omnem dualitatem
eſſe parem , uel quòd omnis triangulus tres duobus re &tis pares habet ,
fcit quòd dualitas ſitpar , quod Ifofceles , tres duobus reftis æquales habet
potentia , licet neſciat a &tu perſenfum , quòd iſoſceles triangulus ſit,
quem locum à me notae tum inter cetera pulcriora exiftimo animaduerſione dignum
propter fal fos Ariſtotelis interpretes ad hanc ufque noftram etatem . • TEXTVS
CVII. ALIAS XLII . T ca certior quæ non eſt de ſubiecto , ca quæ eſt de
ſubiecto , ut Arithmetica armo nica . Numerus , ſubiectum eſt in ipfa
Arithmetica qui quidem abſtractißimus est , nullum materiale ſubie &tum
concernens , Armonica , uero de nume ro ſonoro , uel magis , de ſono numerato ,
quod magis concernitmateriain , ut fonum ipſum ., qui fonus numeratus, ſub
iectum in armonia eft , ut Boetio placet libro primo muſices , modo Arithmetica
cum circa ſubiectum minus immerfum matericfit , certior POSTERIORVM AR IS T. 95
estquamſit ipſa Armonia , quæfubie£tum conſiderat magis immerſum ipſimateria ,
eftigitur alia certioraltera propterſubiecti maioremabe ſtractionem ? TEXTVS
CVIII. T quæ eft ex minoribus certior eſt , & prior ea , quæ eft ex
appofitione , utArithmetica Geometria . Dico autem ex appoſitione ,ut unitas
fubftantia eft fine poſitione , pun . tum autein fubftantia pofita ,hoc autem
eft ex appoſitione. Hoc in primis conſiderandum eft, quod hoc textu non
loquitur Ariſtoteles de ſubie&to fcientiæ.,ſecundum quòd magis og minus
abſtracteconſideratur, quia id in precedenti tex . determinauit ; una
enimſcientia determinat de abſtracto numero , reli qua uero defono numerato,
unitas enim de qua hoc textu loquitur, non est ſubiectum in Arithmetica,
niſiforfan in aliqua particularidemonftra tione , utin 15 ſeptimi
ElementorumEuclidis ,in quibuſdam alijs des monſtrationibus trium librorum
Arithmeticæ Euclidis . Dico autem ,ut unitas , ſubſtantia eſt, fine
appoſitione, punetum autemfubftantia poſia ta , hoc est ex
appoſitione,Nicomacus ,Boetius, Tonſtallus Anglus,Lu cas Paciolus , in primis
lordanus , o Euclides recte interpretarentur huncAriſtotelis textum ſiadeſſent
, quem locum obſcurant rabini cum * ueſtra excellétia ex appoſitione
nominati,heu me, in manusquorü inter pretum incidifti Ariſtoteles ? quæ hominum
dementia te torquet : erant ne ſimile hominum genus tuo tempore , ita inſipidi
atque macrologia op preßi, qui Platonem , quique te audirent , expoliati
Geometricis, &dis fciplinis orbati?ut funthoc tempore nedum iuuenes non
recte imbuti lite teris , fed magis ſeneſcentes in fua , non tua philoſophia
homines , exurs gant Romani uiri , liberalibus diſciplinis præditi, quorum
bonarum are tium hereditas , negligentia pofteritatis , uerfa eft ad extruneas
nationes o inter Barbaros fruftratim etiam dilaniatur , eo locum hunc inter
pretentur. Non eget unitas ipſa;ut ſit in ſua natura,quod fit puncto affe &
a , uellined , uelalio quoppiam alieno , fed punctus , uel linea', ſeufuæ
perficies , uel etiam corpus ,impoſsibile eft, quod ſit,quin pun &tus unus,
uel una ſuperficies , aut corpusunum , uel plurafint : Plura autem pun & a
, eſſe non poffunt , niſi prius punctum unum ,uel unafuperficies,aut corpus
unumfit, minus igitur eft unitas , quim punétum unum , utetiam 96 IN PRIMVM
LIB. ipfa uocemanifeſtum eſt.Vnitatem Arithmetica conſiderat : non ut fuum fubie
&tum , fed ut id , quod adſuum ſubie tum quodam ordine attribuia tur
tanquàm pars ad ſuum totum . Vnum pun &tum , feu lineam unam , uel etiam
unum corpus Geometra, atque stereometraconſiderans appos nit lineam ,pun &
um &corpus ipſum unitati, uel illis unitatem appos nens , ex pluribusfacit
fuam conſiderationem ,quàm fit illi Arithmetici, qui unitatem conſiderat
abſtractiſsime , nulli reiappoſitam . Ex hac declaratione patet id quod
Ariſtoteles ait primo de anima in principio, quòd fcientia de anima nobiliſsima
, eſt , duabus de cauſis prima ex nobi litate ſubie &ti , ſecunda ex
certitudine , ex certitudine dico , non ut quis dam inueterati in philofophia
craſſa exponunt , uidelicet ex demonſtra tionis certitudine,ſedcertior dico ,
quia exſubiecto ſimpliciori eft, que anima eſt, atque minus compoſito ,
quàmſint ſubiecta librorum ,librum de anima precedentium , ex precedentis
textus , atque huius expoſis tione id totum colligas uelim , ex precedenti, ſi
de anima , ex præfens ti autem ſi de anime particula , loca libri de anima
intelligantur . Claret etiam , ex hac noftra interpretatione,quod Mathematicæ
diſcipline non ideo dicendæfunt non ſcientia , quia non funt circafubftantias ,
ut ans tiquusætate indostus quidam in hac parte , philoſophus non erubes fcitaſſerere',
ofequaces ,quia illas inquit merito dicendasſcientias los quitur , quæ tantum
circa fubftantiasfunt ; non autem que circa accia dentia , ut funt Mathematicæ
, quod apud Ariſtotelem nunquam legitur Dico quòd Mathematice uere e in primis
ſcientie , ſecundum nos & re ipfa funt , ex fententia doétifsimi Boetij in
principiofue Arithmeticæ ,ubi ait , ſcientiæ atque ſapientia uerehe funt ,
quæſunt circa res , quæ nunquàm mutantur , fed fua natura femper funt,utſunt
fubftantia ,a quantitates ; quo nammaiore auctore hec noſtra ſentens tia
corroboratur , quàm ſitipſemet Ariſtot. in hoc præexpoſito textu ! qui in fua
doctrina conftans , punctum ſubſtantiam appellit, itidem unitatem ſubſtantiam
dicit , ſi igitur fole ille ſint ſcientiæ , quæ circa fubftantiasfunt , in
primis Arithmetica atque Geometria merito ( quics quid balbitiant alij)
ſcientiæ appellande nedum nomine, fed natura digna funt. Quia tamen de mente
Ariſtotelis teneo Mathematicas diſciplinas, non eſſe ſcientias , non ob id ,
quia de accidentibus ſint,neque ex eoquod percominunia principia procedunt, ſed
quia affectiones que in ipſis con cluduntur , non perdemonſtrationem ,
quemfyllogifmum ſcientialem Ariſtoteles uocat, concluduntur ut declaratum fuit
textu nonageſia men , mo POSTERIORVM ARIST. moquarto ,merito ſcientia non funt
, ſiſcrupulofa indagine ſcientiæ not men indagari, quis uelit . TEX. CXII .
ALIAS XLIII . 3 EYE per fenfum eft ſcire id , Exemplis duobus. Altero
Geometrico reliquo, Vero Aſtro Nnomico , declarat Ariſtoteles , ſi enim ſenſus
uifus uideret id , quod intellefius percipit fecunda par te
trigeſimæſecundeprimi Elementorum ,quód trian gulus. uidelicet , habet tres
duobus rellis pares, non tamen propterea uidens illud diceretur fciens, fed ut
fciensfieret ad huc demonſtrationem quereret ,o huius rationem reddit dicens,
necef= feenimquidem eſt ſentireſingulariter , ſcientia autem eſt in cognoſcen=
douniuerfale , unde eſi ſupra Lunam eſſentus, utputa inſupremo orbe defferente
augem Lune , uel in orbe defférente caput draconis,uel etiam in cælo Mercurij,
uideremus Lunam ingredi umbram terra, e par timenftruum non propter hoc
diceremur fcientes, quia illud , quod uiá deretur ,effet ſingulare , &cum
ſcientia ſit circa uniuerſale diſcurrene do, o per intellectionem ipſius
uniuerfalis , ſequitur , quod per ſenſum non eft fcire . Aliter etiam
exponaturſic , ut ſi eſſemusſuper planetum , qua Luna est , &in illa parte
planete que terram , & centrum uniuerſi confpicit, &foc'es noſtra
uerſus idem centrum mundi,quod.eſtterre cen trum ſentiremusquidem per ſenſum
uifus, quòd deficeret Lund tunc, fed non propter quidomnino,quiaſenſus non
plures percipit ecclipſes ſimul neque actu ,neque potentia ,fed unam tantum
,necobid tumen ſcientes dice remur , non enim uniuerfalis est ſenfus, fed
particularis ut ait , ex conſi deratione multotiesaccidente univerſale uenantes
demonſtrationem ha bemus , non ſecludit hoc loco Ariſtoteles ſcientiam de
purticularibus, ut Tex. iij. fuit determinatum , fed ita intelligas , quod
ſenſus eft tantum particularium , intellectus autem utriuſque , Sunt tamen
quædam reducta ad fenfus defeétum in propofitis & c . · In hac particula
huius textus , idem perſuadet diuerſo exemplo, quòd . videlicet neque per
ſenſum eſt ſcire , in prima huius textus particulas Exemplum attulit in phænomena
eGeometria , in hac autem particula exemplum est in perſpectiua , eft etiam
quoddam aliud diuerfum , quia precedensexemplumeft,de unica wſingulari eclypſi.
In hac auten pars N IN PRIM VM LIB. ticula exemplum præbet de multis
illuminationibus faétis per uitra pera forata , ſiue foraminailla ſint pori
uitrorum , feu etiam foramina ſint ma gna,artificio quodam facta, que
fenfusuifus in multis uitris confpiciens, compertum haberet , &manifeſtum
eſſet , & propter quid illuminat , id eft,propter ,quid illuminationes
multæ fierent,quoniam , ut inquit,uis deremus quid ſeparatum in unoquoque uitro
, id est foramina multa , per qua radijtranſeuntes illuminationes multe fierent
in pariete e re gione collocato , uel in pauimento domus,quapropterſi plures
eclypſes ſimul perciperet fenfus uifus,quodtamenfierinequit, &uideret etiam
hoc euenire ex obiectu terræ inter Solem of Lunam , illud de Luna ex emplum
nullo modo diuerfum eſſet ab iſto de uitris perforatis , niſi quod alterum in
Phænomena , reliquum eſſet in perſpectiua ; Ne.credas tam men propter multas
irradiationes a uiſu ſimulperſpectas, Q uiſis etiam fingulis foraminibusſimul ,
uel poris in uitris per quos radiationes fica rent, quòd quis ob id diceretur
fciens,ſed ex his fingularibusfenfu pera ceptis unum uniuerfale intellectus
intelligens,deeo.fcientiam generaret qua poftea merito quis diceretur fciens ,
illud autem uniuerfale non cola ligebatur, ab intellectu ex unica tantum
eclypſi uiſa , fed ex pluribus die uerſis temporibusobſeruatis,Ex hoc loco
habetur quod non est ſatisad demonſtrationem habere propter quid., niſi propter
quid habeatur, per difcurfum (fenſus autem non difcurit ) ab uniuerſalibus ad
minus uniuer ſalia , ſenſusenim percipiebat quod multæ illuminationes propter
multa foramina fiebant , nulla tamen erat ibu demonſtratio. TEXTVS CXIIII. IRCA
Textus particulam illam , Aut æquale maius , autminus, Scire eſt , quod primi
Elea mentorum eſt conceptio animi apudEuclidem , ut fi una quantitas comparetur
ad aliam eiufdem genes ris , aut erit ei æqualis , aut eadem maior , uel e46
dem minor , ut quatuor , ad quatuor , uel ad tria , aut ad quinque,ſi
comparentur, fieri nequit , quod eadem quantitas qus tuor,ad quantitatem unam
di &tarum comparata , fit æqualis, a maior minoreadem,statim enim fequitur
contradictio,fedfi ad diuerfas quan titates comparetur , verumquidein poteft
effe, quòd unaſit maior emi nor & equalis,ſi non ad unicam tantum , fedfi
ad plures fit comparata, POSTERIORVM ARIST . 99 P TEX. CX V. ARTIC VI. A huius
Textu , Neque omnium . uerorum principia funt eadem , neque con ueniunt,ut
unitates punétis non conueniūt , læ quidem enim non habent poſitionein ,illa
autem habent, Deappoſitione in punétis , eo pacto intelligas , ut tex.108
declaraui. Exemplo enim loqui tur de principijs ,non quidem ex quibus inferatur
conclufio , fed ex qui dus compoſitumfit , quia ex unitatibus pluribus ſimul
coaceruatis com ponitur numerus , ex pluribusautem punctis non componitur
quippiam ut terminaui tex. xix .huius, ſimpliciores ob idfunt ipſe unitates ,
que funt numerorum principia, quamfint puncta,que lineas terminant, uni tas
enim ,uel etiam unitates non ſupponunt punétum ,uel punéta,punétus 'tamen uel
puncta eſſe non poſſunt , quin uel punctum unum,uel plura pun & ta fint
,non igiturconueniunt inter fe propter appoſitionem unitatis pñ to appoſite ,
wepropter non appoſitionem , puncti ipſi unitati , unitas enim non ideo unitus
est, propter unum punétū,ſicutpunctum unum eſt, propter unitatis appofitionem ,
®ultra ait , quòd diuerſafuntgenere, ille enim in diſcreta , hecuero in
continua conſiderantur quantitate: TEX. CXX. ALIAS XLIIII . VONIA'M autem idein
multipliciter dicitur eft autem , ut non commenfurabilein enim eſſe diametrum
uere opinari inconueniens eſt , ſed quia diameter (circa quam ſunt opi. niones)
idem , fic eiufdem eſt , ſed quod quid erat eſſe unicuique,ſecundum rationem
non eſt idem , Circa eandemdiametrum ſcientia poteſt eſſe, opinio per media
tamen diuerſa , falfam quidem opinionem habet ille qui diametrum
commenſurabilem coſte eſſe ſentiet, ueram autem obtinebit ille qui Eucli dis
demonftrationibus inftrúctus diametrum inconmenſurabilem coſte efje protulerit
in qua re tex : 1x. huius determinatum & demonſtratum fuit, quod ipſe
diameter incommenſurabilis eſt ipſi coſte,aliter enin , par numerus , impar
effet , Circa idem igitur contingit diuerſitas , feu idem multipliciter dicitur
, ut quòd diameter ſit commenfurabilis &inz commenfurabilis cofta . Nij IN
SECVNDVM LIBRVM POSTERIORVM ARISTOTELIS, PRESBITER PETRVS CATHENA : V ENETV S.
** 3 TEX T VS II ALIAS I. TEATRI V M enim utrum hoc infit , aut hoc , quærimus
in nume rumponentes,ut utrum deffi ciat Sol, uel non , ipſuin quia quærimus.
Luna enim defficit in ſe a lumine , a patitur menſtruum , propter interpoſitam
terram diame traliter inter Solem u Lunam , Sol autem non defficit lumine
unquam in ſe, fed tantum non illuminat, quana do in capite uel cauda draconis
res peritur fimul cum Luna hoc quidem prouenit , ex eo quod inter afpes Eum
noſtrum o corpus folare interponitur Lund , quæ cum ſit core pus denfum ,
coppacum magis quàm alia pars fui orbis impedit fo lares radios , enon finit
eos ad afpe&tum nostrum protellari . Dubita tur circa id quod fuit
di&tum paruin ante,o quód fæpißimeait Ariſtote les, præfertim in
ſequentibus,ufque ad textum nonum an Luna defficiat penitus lumine , quando
patitur menftruum , quod eſt querere,an Luna habeat aliquod lumen àfe, uelſi
non àfe, an conſeruet lumen in ſe imbis bitum tamen à Sole, utfomniat Aueroes ,
propterea quod , quandotota eclypfatur uidetur non nihilhabere luminis ,
apparere fubnigra, etiam apparet uideri eius rotunditas extra plenilunium , ad
quod reſõſio abſolutißimafit,quod Luna nullum habet lumen,niſi à Sole
ſecundoquod non imbibit lumen, quemadmodum ſpongia liquorem aquæum, cauſaaus të
apparitionis luminis tempore eclypſis, uelfuæ rotunditatis antequam POSTERIOR V
MARIS T. 102 fit in oppoſitione Solis eft, quă ſtatim declarabo quibuſdam
paucis pres intellectis , cum ipſa ſint corpus denfum &politum quemadmodum
cæte ra fydera , radijſolaresquifortes ſunt, cuin ad ipfam pertingunt non
talentes ultra penetrare propter denſitatem ad terram reuerberantur, Tempore
autem eclypſis, radij ſolares impediti a terre occurſu nõ attın gunt lunam, ſed
tunc radij aliorum fyderum , qui debiliores ſuntſolaribus radijs, pertingunt
corpus lunare , &fua tenui uirtute Lunam illuftrat, ob id Luna uidetur
habere nõ nihil luminis tempore ſuæ eclypſis, et pro pter hanc eandem caufam
dicatur quod eius rotunditas apparet citra ple nilunium . TEXT VS I x . + 1 1 +
VID conſonantia, ratio numerorü ,in acu to & graui, & propter quid
conſonat acue tum graui, propter id, quòd rationem has bent numerorum graue
& acutum , utrum eſt conſonare acutum & graue , utrum ſit in numeris
ratio corum ,accipientes autem quia eſt, quid igitur eſt ratio querimus. inter
ea quæ elucidan da funt in hoc textu , idin primis occurrit , notatu dignum ;
graue enim Cum motum fuerit , citius ad quietem redit quam leue æquali pulſumo
tüm , Aliud etiam eft animaduerſione dignum hic notandum quòd neruus
cumpellitur ininftrumentis non unumfolummodo ſonum efficere ſedmul tos ,
quiquidem multi à feinuicem distinti non percipiuntur , ut diſtins Eti, propter
celeritatein unius poſt alium , Exemplum præberem de Tur bone,uiride, aut rubra
linea lineato,qui propter celerem motumtotus ui deretur uiridis, aut rubcus ,
ſunt igiturmulti foni à grsui corda effceti ad quos, fi foni illi , qui leuiori
neruo procreatifunt ,comparentur has beanto ad illos ratione, ut quatuor ad
tria ,tūc diateſſaron cõfonantiaria minimam efficient, fi ueroeam quæ eſt nouem
adſex diapente, odiapaf fon fi illam efficient , quæ quatuor ad duo , que
concinentie , cum ſint ſimplices; exipſis aliæ que compoſitæ funt
generantur,tanquam ex ſuis proximis elementis, ut eft diapentediapaffon ,o
biſdiapaſſon, quæ ome nia ex Boetio clara habentur , o ſibi do toresqui
Calepino student, in declaratione Ariſtotelis hec gratis prætereant , Alia
exempla à tertio textu uſque ad undecimum ,que Ariſtoteles præbetfua Palade in
mathea 1 1 02 IN SECVNDVM Ľ IB maticis, quæ quiaaliàs in præcedétibus
dilucidata per mefuerunt,nunc conſulto pretereo, fed quæ di&ta funtfuper
hoc textu non plane ſatisfae ciunt nostre menti,ubi enim nonfuerintplures
pulfus ad pa uciores com parati, ut in humand uoce , căcinentia quidem
reperitur inter re , ala licet nõ niſi ſingula,&fingula uox emittatur,non
igitur interfonos paus ciores tantum, eu plures concinentia , ſed primo inter
graue ego acutum reperitur , quæ autein uocum diftantia inter ſe reperiatur ,
ut debita ; fiat concinentia, tum ex hominum ufu ab inſtrumentis accepto ,
cumetiä per ea que Boetius tractat manifeſtum est , ſed'in dubium occurrit
illud, quod muſicifaciunt , quando fuper breuem ſillabam , plus temporis cona
ſummunt, quim par ſit, eſuperfillabam longam, breui temporis notu la festinant,
ita ut ea ,quæ naturaſunt breues, fiant longe , &quæ longe ſuntſillabæ
,breuesfiant, ſic ut'nonmodesta &doctaſit ipfa muſica , fed Barbara o
contra ufum loquendi appareat , Ad quod dico , ſequen tia dubia quæ funt,an
concinentia proueniat ex mouente , ut Aristoteles in libris degeneratione
animalium , uel ex motis rebus , ut in rethoricis, an exnumeratis pulſibus, ut
hoc textů tangit , quòd in nostris fragmens tis logicis hæc omnia clarafient,
fed pro declaratione littera , huius tex tus ,uideturexpoſitio feciſſe fatis.
TEXTVS XIX. ¿ ALIAS II: MPLIvs omnis demonſtratio aliquid de aliquo demonſtrat
, ut quia eſt, aut non eft , in deffinitione autem nihil alterum de altero
prædicatur , ut neque animal de bis pede,neque hoc de animali,neque de plano
figura , non eniin planum figura eſt, neque figura planum eft . Euclides póst
quam deffinitionem plani dederit in primoElementoruin deffinitione quinta ,
ſtatim de angulis planis , e de fiquris planis adiecit deffinitiones, que
figure ideo planæ dicuntur, quia in plano picte ſunt,feu quia in ſuperficie
plana ſunt deſcripte , fi gura plana, hefunt due particulæ deffinitionis ,
quarum altera deals tera non predicatur, quia id quod planum , & id que in
plano figura fit, 11on idem eft, demonſtratio uero cõcludit, quia eft hoc de
hoc, ut de trian gulo, quod tres duobus rectis equales habeat, et q latus
trigoni , quod fubtendien maiori angulo, nõ eft minies lateri fubtenſo minori
angulo. POSTERIORVM ARIST. 107 TEXTVS XLIX ALIAS X I. V ANIFEST VM eft autem
& fic , propter quid rectus eſt, qui in ſemicirculo eft, quo exiftente
rectus eft ,fit igitur rectus in quo a , inediun duorum rectorü in quob, qui
eft in feinicirculo in quo c, eius igitur , quod eſt a rectum inelle c, qui
eſtin ſemi circulo caufa eft b, hic quidem ipfi a æqualis eft, c autem ipſi b,
duorum enim rectorum dimidium eft b, igitur exia ſtente dimidio diiorum
rectorum a, ineſt ipſi c, hoc autem erat in ſemicirculo rectum eſſe . Euclides
xxx tertij uniuerſa lius proponit id, quod Ariſt. hoc loco ait magis contracte
, ut ſecundum Ariſtotelem conſtruatur fic , ſit ſemicirculus a b d cuiuscentrum
c, quo perpendicularis excitetur per undecimā primi Elementorum cd , ſecans
arcum a b in puncto d, à quo, duæ lineæ protrahantur ad ter minos diametri
dia,db, ſequiturper quintam primi angului a dc, bdc effe medietates reéti,quæ
ſimulmedietates additæ faciunt angų lum a d bre&tum ,ficut duæ unitates bi
narium numerum , quia tamē non uide tur quòd philofophus particulariter
proponat id , quod uniuerfaliter Eucli des docet, ut uidelicet quod perpendi
çularis à puncto c excitetur, &quòd folus angulus,qui fit in puncto de
deter minato , ubi perpendicularis ſecat ar cum , re & tus ſit, licet illa
due medietates formaliter ſint unius re &ti, fina gulađ; dimidium refti,
quæ pro materia recti accipiuntur, ficut due uni tates materia numeri binarij,
Ideo aliter declaro & litteræ philoſoa phi magis cohærebit non in figura
præfcripta ,ſit angulus rectus a datus, b autemfit medietas duorum rectorum , c
uero in ſemicirculo conſtitus tus, ſit æqualis b , quæ uero uni veidēfunt
æqualia inter ſe funt æquae lia , cum autem a ſit æqualis b, quia uterqueeſt
medietas duorum res. & orum , or ſimiliter c qui in ſemicirculo eſt ſit
eidem b æqualis, c ipfi a equalis erit, a quippe rectus eſt ex dato igitur c,
in ſemicircula conſtitutus rectus eſt , quod propoſuit Ariſtoteles , quis ſit
angulus rer 104 IN SECVNDVM L I B. Aus patet per deffinitionem octauam primi
Elementorum , quod autem b in quocunque puncto peripherie femicirculi fit
medietas duorum rectos rum , patet per trigeſimam tertij Elementorum ,
quodetiam omnis alius angulus in quocunque puncto arcus ſemicirculi fit æqualis
6 , utputa 0 , patet per uigeſimam tertij Elementorum , qubi in priori
expoſitione di cebatur ,quòd duæ medietates erant materia totius relti anguli,
hic dica's tur,quòd illiduo partiales anguli b , ſunt materia torius anguli
recti, fic ut demonftretur , quod angulus , qui in ſemicirculo conſtitutus ,
eſt re ctus , per materialem caufam , quæ materialis caufa , ſunt iple partes
recti anguli ipſum integrantes . TEX TVS LIII. ONTINGIT autem idein &
gratia alicuius eſſe , & ex neceſsitate , ut propter quid pe netrat
laternam lumen , etenim ex neceſsitas te pertranſit , quod in parua eft
partibilius, per maiores poros fiquidein lumen fit per tranſeundo ,
Minutiſsimæenimſunt; aut potius fub tiliſsime ſpecies uiſibiles ignis ,quæ
propter ſubtilitatem ſuam per poros uiri in quofranguntur exeuntes clarum iter
oſtendunt, ne adlapidem pe: des offendamius , exemplum eſt in optica,inaterialis
caufa eft uitrum , fi nalis,neolfendamus ; fornalis eft illa compago uitrorum
,lignorumq;, effi ciens autem ,eſt ipſe luterne artifex ,quantum ad
matheſimſpectat non eft niſi materialis cauſa in conſideratione, o radios
fractos ipfius ignis in corpus disphinum , per quos illuminationes fiunt .
TEXTVS LVI. ALIAS XII . CLIPSIS Lunæ futura , preſens , atque prete rita ,medio
interpofitionis terre , diametraliter in ter Solem & Lunam ,nunc , olum ,
& in futurum con cluditur , cumfuerit Luna in capite uel cauda dras conis
uelprope , o ſub'nadir Solis . SICVT POSTERIORVM ARIST. 105 TEX.LVII. ALIAS
XIIII. IGVt ergo non funt puncta , adinuicem co pulata , ticque, quæ facta
ſunt, utraque enim indiuifibilia funt. Puncta enim fiadinuicem copula rentur ,
statim haberetur , lineam ex pun &tis componi quod impoßibile effe
demonftratum eft in primo , textu Wdecimo octauo . TEXTVS LX. ALIAS X VII. I co
autein in plus ineſſe quæcúque, infunt quidem unicuique uniuerfaliter ,Atuero
& alij ,ut eft aliquid quod oinni Trinitati , in eft fed & non
Trinitati , ficut ens ineft Trini tati, ſed & non numero, numerum quemlibet
ex materia oforma conſtare nemo eft qui neſciat , aliter cnim numerorumſpecies
noneſſent numerofinitæ , potentia ueroinfis nite per unitatis additionem , fpecies
autemexgenere odifferentia con ftat, genus uero materia differentia autemforma
eft in numero , materia numeriſunt ipfæ unitates, ut in ternario numero, tres
unitates materia eft numeri ternarij,formaautem eft ipfa Trinitas, ens inquit
ineſt Trinita ti népe ternario numero,o hoc prædicatū , ens, extra genus
arithmetică eft, quod quidem ens , alijs multo diuerſis genere à
numeroconuenit. Impar uero & ineft omni Trinitati& in plus eſt . Etenin
ipſi quinario ineft , fed non extragenus , ens quidem alijs ab arithmetico
genere conuenit, imparuero nullis alijs niſi his, quæ infra arithmeticum genus
continentur cõuenire poteſt,utquinariofeptinario &alijs multis.
Huiufmodiigitur accipienda funt uſque ad hoc quouſ: que, tot accipiantur primum
, quorum unumquodque qui dem in plus ſit, omnia autem non in plus. inquit
quouſque tot dccipiantur primum , uerbum hoc, primum intelligatur ex æquo, feu
ad equate , ut tot uenetur quis particulas deffinientes,quòd non fint ſuper
abundantes, neque diminuteparticule, ſed ad idtendat, ad quod ille,qui
tetragonicum latus alicuius figuræ quærit, utin libris de anima iubet phi
bofophus. Duo præterea funt hic notanda precepta ,ut unumquodquefit LO 6 IN
SECVNDVM LIB . cum non in plus , nempeunaqueque particula deffinitionis uniuerſalior
ſitdeffini to, ut animal,rationale,mortale ,capaxbeatitudine, que omnes particu
ie, in hominis deffinitione ſuntpofitæ, cunaqueque uniuerſalior eft ip
sohomine, omnesautem fimul fumpte,nihilaliudnifihomo funt,Dubie tatur , an illa
, quae in Elementorum Euclidis libris deffinitiones poſite funt, utunapromultis
fimilibus excogitetur hæc,triãgulusredilineus, eft figura, plana
,claufa,tribuslineis re&tis,fit conftituta ex omnibus par ticulis
deffinientibus,quarū una ,et altera,atqueſingulaſit uniuerſalior, ipſo
triangulo rectilineo ? Dicendum confequenteradAriftotelem pro pter particulam
illam , tribus lineis reftis , illam non eſſe deffinitionem , fit uniuerſalior
ipſo triangulo rectilineo , quapropter ſunt ma gis dignitates appellande, quàm
deffinitiones ,nifidixeris, quodAriſtote les intelligit de his particulis
definientibus , quæ recto cafu, & non oblis quo explicantur, & fic
proprie dicerentur deffinitiones, que interpreta tio qualiſcunque fit,non
habetur ex Ariſtotelis littert, neque tamen ual de difplicet. Hanc enim neceſſe
eſt fubftantiam rei eſſe, ut trinitati in cft oinni,numerus,impar,
primusutroque modo, & ficut non menfurari numcro, & licut non componi
ex numeris, hæ duæ particulæ ,numerus,impar,nõ patiuntur, difficultaté
,quinipſo. ternario uniuerſaliores ſint , ſed particula iſta primus utroq;
modo,decla ratur ab ipfo Arift. quod fit uniuerſalior ternario numero ,propter
altes rī modorū, quonumerus primus dicatur eſſe ut unitatefola metiri poßit,
multis conuenit numeris, ut quinario, ſeptenario ,atque ternario , et alijs
multis non cõponi ex numeris pariter multis cõuenit, ut ternario , qui ex
binario ounitate conſtat, ſimiliter binario ,qui conſtat non ex pluribus
numeris ,fed ex binis unitatibus, Ex hoc locohabeturnefcio quid contras
Etius,quàm Euclides proponat,in feptimo Elementorü deffinitione x 15, XIII,
quibus ait, quod primus numerus eſt, qui fola unitatemetie tur, Compoſitus
autem eſt, qui dimetitur alio à fe ego ab unitate numero, quo loco uidetur
quòdaliud fit dimetiri numero ; &aliud numeris dia uerſis componi , ut
ſeptenarius , nullo alio número ab unitate dimetina tur eſi componatur ex
diuerfis numeris,ut ex binario o quinario ,c . ex ternario &quaternario ,
primo enim modo aliquis poterit effe pris inus , qui compoſitus erit fecundo modo
ut-XI, 0 X111, atque alij, quos vagu VI, VITI V Componunt nullus tamen eorum
dimetia tur eorum alterum , var vi nullo modo dimetitur XI, VIII pariter
POSTERIO RVM ARIST. 109 to v nullo modo dimetiuntur x1, cum neuter fit alicuius
maioris pars, ut ex prima deffinitione quinti , &tertia deffinitione
feptimiEle.. mentorum Euclidis manifeſtum eſt ,hoc igitur loco dico , quod
Ariſtotea les non loquitur fecundum Euclidis ſcitum ,fed famoſe , ut
philofophoa rum quorundam aliqui, Vbifecundum Ariftotelem tam partes aggregae
tiua, que c irrationales , e integrantes dicuntur , quàm partes ali quote ,qua
rationales, odimetientes, dicuntur numerum compone re, ſed ſecundum Euclidis
fcitum , non niſi partes proprie fumpte , que aliquotæfunt, numerum componunt ;
quod etiam Nicomachus & Boce . tius in arithmeticis aſſentiuntur, niſi
dixeris quod etiam fecüdum Euclia dem ,non omnem numerum ,qui alium componit
compoſitum dimetiri, fed ubi hoc Euclides fomniet non uidi. TEXTVS LXXVIII
ALIAS XXV. ARTICVLA difficultatis ſe offert in hoc textu, quam Grecio Latini
pretereunt , Aueroes tamen magna comentatione tangit nefcioquid , fed fcopum
rei non tetigit iudicio eorü qui Ariſt.et Euclidis inſe quuntur,ueſtigis ,
Textus Ioannis grāmatici etArgi lopili obfcurăt aliquo modo primo intuitu
pulchram Ariſtot.doctrinam , quam aperit textus Aucrois, ſiue Abramum , ſeu Bu,
rinam inſpexeris, ipfius Aucrois interpretes , qua Ariſtotelis doctrina ex
Aueroico textu bahita, illam poſtea ex loanne grammatico , Argi ropilo uidebis
neceſſario effluere , loannis textus ita habetur , fi uero ficut in genere ,
finiliter fe habebit ,ut propter quid con mutabiliter, Analogum eſt. Alia enim
eit cauſa in lineis, & in numeris, & eadem , inquantum quidem lineæ ,
alia eft ,in quantuin nero habens augınentun tale , eadem eſt, fic in omnibus,
Argilopilus ſichabet fi fint ut in genere, medium ha bebunt finiliter ,ueluti
propter quid etiam mutato ordia oc, funilitudinein ſubeunt rationum , eft enim
alia caufa in lincis, & in numeris, atque eadem alia quidem eſt, ut linea
rum rationem fubit ,eadem autem, ut tale habet incremen tum , & codem in
omnibus modo; Aueroes fic habet commentar tionc magna,li autem fuerit fecundum
modum generis,eft eis . affection 108 IN'SECVNDVM LI B. uinum fimilitudine,
uerbi gratia , cur quando permutantur : fint proportionalia, huius cnim caufæ
in lineis & numeris ſunt diuerfæ , qua autem addit , hac ſpecie additionis
, hoci modo eft una per ſe in omnibus,hoc textu nõ minus laboris fum pſi
propter uarietatem textuum , quam etiam ob id , quod interpretes: non ita
interpretari uidentur , ut textui Ariſtotelis cohæreant fue interpretationes
aut nug & potius , præter Aueroin , qui magna come mentatione , confuſo
tamen ordine dicit aliquid , faciens ad Ariſtotex : lis ſententiam , non tamen
aperit uerum fenfum littera Ariſtotelis Pro uera igitur Ariſtotelis ſententia
,in primisſcire debes , quod mas gnitudines ſeu continue quantitates,
&multitudines feu quantitates die ſcrete omnes , uerfantur circa unum genus
quanti, omnes enim quane titates funt , quæ antequàm permutentur ,
proportionalia eſſe debent , ut affeétio hæc,permutata proportionalitas ,ſeu
permutatim proportios nari, concluditur de quantitatibus proportionalibus,
ratio autem qua concluditur hoc ; de lineis, fuperficiebus,temporibus , vt
corporibus, eadem de numeris concluditur , primum demonftratur propoſitione dea
cimafexta quinti Elementorum Euclidis per alia principia , opropos ſitiones
diuerſas ab his propoſitionibus &principijs , quibus de nume ris eadem
permutata proportio concluditur in feptimo Elementorum , propoſitione
decimatertia uel decimaquarta. Ecce igitur alia ratio in li neiseft,quia
diuerſa e uniuerſalior , atque per diuerſa media , à ratio : ne qua idem de
numeris concluditur , huius enim caufæ in lineis &nume ris ſunt diuerfæ ,
cauſas has , eas uoco , quæ folum dant propter quid & de his cauſis , que
etiam dant eſſe, hoc loco minime intelligas uelim , quia tamen dicebam ,quòd
non concludebatur hæc affe &tio,permutata pro portio niſi de
proportionalibus quantitatibus . Si modofieret queſtio, o
cauſainueftigaretur,quare quantitates dicantur proportionales, uel que nam ſint
quantitates proportionales , aut quando proportionales funt , Ariſtoteles dicit
unam eſſe cauſam in omnibus , cum difcretis tum etiam continuis , quæ eft ex
additione fimili utrobique pro cuius notitia mania feſta deffinitio ſexta
quinti Elementorum , minime negligenda eſt, oeft Quantitates quedicuntur eſſe
fecundum proportionem unam , prima ad fecundam vtertia ad quartam ſunt , quarum
prime otertiæ æques multiplices , ſecunde «quarte equemultiplicibus comparat
& , fimiles fuerint uel additione , ueldiminutione,uel æqualitate ,eodem
ordinefum POSTERIORVM ARI T. 10% ple . V'nica eſt héc caufâ, ut quantitates feu
difcrete ſint , feu etiam continuefuerint,héc uidelicet fimilis
additio,ueldiminutio,feu æquatio inter equemultiplicia,hoc autem eſt.quod ait
in textu Ariſtoteles, in quantum uero habens augmentum tale , eadem eft fic in
omnibus,hac igi: tur ſpecie additionis est una pér fe caufa in omnibus. Similem
autem eſſe colorem colori , & figuram figuræ , aliam efſe alñ æquiuocum
enim eft fimile in his . Hic quis dem eſt fortaſsis ſecundum analogiam habere
latera , & æquales angulos. Figuræ rectilinee funtfimiles ex prima
deffinitione fexti Elemen.quæ habent angulos omnesæquales, es latera
illosæquales angulos continentia proportionalia,ſimilitudo igitur,non habet
commus nefiguris ocoloribus, niſi nomenclaturam , non autem rem naturam unam ,
in coloribus enim non concernes , neque latera , neque angulos . Habent autem
fe fic propter conſequentiam ad inuicem caufa, & cuius caufa,& cui eſt
cauſa, unumquodque tamen accipienti , cuius eſt. cauſa, in pluseſt, utquatuor
rectis æquales , qui funt extra plus ſunt, quàm triangulus, aut quadrangulus,
in omnibusautem æqualiter. Quæcunque eniinquatuor rectis equales,qui ſuntextra
,textus hicdeffétis uus eft , & mutilus apud Ioannem Grammaticum &
Argiropilum , ma. gne commentationis textus est clarior , ſed non ad
plenumfacit fatis ,ut mens Ariſtotelis , fatim appareat . Caufe illationis ,
ſeu conſequentie , que mutuæ funt , feinuicem inferunt pro cuius exemplo, ad ea
, quæ pri mo libro tex . xcvij. di &ta fuere inſpiciendum eſt, oultra
aduertas quod uniuerſaliuseft habere omnes angulos extrinfecos æquales quatuor
res Ais ,quàm eſſe triangulum ,uel quadrangulum ,aut pentagonum ,uel exago num
, aut quippiamtale feorfum , fi autem accipiatur fic reétilineum est, igitur
omnes anguli quiſunt extra, funt equales quatuor re& is , oecon uerfo , fic
infertur , omnes anguli quiſunt extra funt æquales quatuor rectis ,igiturid
cuiusfunt anguli extrinſeci accepti, rectilineñ eft,quo uet bo , re
&tilineum , comprehenduntur nedum triangulus, quadrangulus,co penthagonus ,
fed omnes figuræ re& ilinec , hoc igitur uult Ariſtoteles quandoinquit ,
quod habere extrinfecos quatuor re&tis æquales , uniuer Jalius eſt trigono
, otetragono , ſi uero hec omuia accipiantur , ut in hoc uerbo , rectilineum ,
omnes figure rectilineæ comprehenduntur, ajo fic hoc pacto habentſe propter
confequentiam ,ut ad inuicem caufa «cu us caufa , &cui eft caufa . ilo :
CAVSAB IGITVR ILLI SVMMAB SIT ILLS LAVS QY AM LINGVA ET VNIVERSA MENS CONCIPERE
POTEST . FINISI > R E G I S T R V M. . A B C D E F G H I K L M N O. Omnes
ſuntduerni. CORRECTIO OPERIS. 37 Pac. 4. lined s publicis , à publicis.
fac.4.li.6 incumbebam ,abſtinere decreui..li.io laberinthos ,labyrinthos.li.21
literis litteris ubique . Pd.4 li.3 comode, commode .li. 11 prefertim ,
præfertim ubique . li.12cales, calles. li. 16 Ariſtoteles , Ariſtotelis . Facis
li.24 age , aie . Fac . 6.li. 2 pulcra , pulchra ubique. li, z fpetie, fpecie
percubique. li. 32. quinnis, quinis . lin. 3 3 unis,pluribus ubique. Fac. 7
lin.6 neſcit , fcit.Fa.8 li.25 comunem ,communem ubique. F2.13 li. 3
precedentis,precedentis ubique F &c.14 li.9 affumens , afſummens ubique.
li.16 ſempliciter , fimpliciter. li. 12 equales æqualesubique. Fac.15.li.20
probation , probatione. Fa. 26 li. 26 reſumitur , reſummitur ubique. Fd. 19.3 1
Geotrica , Geomes trica . fac.20 li. o quadrati , quadrari. li. 10 e e Spoffet,
effe poffet . li. 20 eeſſ;eſe. Fac.22 li. 10 A poline, A polline. Pac. 23 li.
innitide tus,initatus. Fac.30 li. 12 fcit ,ſit .fac.31.li.12 atulerunt
attulerunt. fa. 3 2.li.27 manus, manu . fac . 34.li.7 ſilicet , ſcilicet ubique
. fuc.36.li.4 Textus , Textu . li.25. aget, & get. fac.41. li:3 2
queſtione, queſtione ubique. fac.4.3 li. 25 texu, textu.fa. 48 li.34 prinus ,
primus. Fac.49 li.16.fue , ſua . fac.49.li.20 induéti , induti . fac. stili .
12recte ,recti. fac.53 li. 11 A'riſtelis , Ariſtotelis .fac .53 li . 12 bucis ,
buccis ubique. li. 6 nltera , altera. fac.54.li.2.ie, git. fac. 57 li. 24
puerost , pueros, li. 25 illeuatus , eleuatus . fac.59 li. 7 olas , ollas . li.
3i ſimilitcr, ſimili ter. li. 3 4.innani,inani ubique. fac. 60 li.z eubi,cubi.
li.25 . apolini, apollini per , , ubique.lin . 28 pret ,
preti.fac.61.li.14.palade,pallade, li.24 filicet, ſcilicet ubique.fac.62 li. 23
rrrat, erat. fac.64. lin . 31 nos tid , notitia.fa.67 li.14
prebens,prebens.li.16.profonditate,profundis tate. fac. 68 li. 20 queſitis,
quæfitis.fa, 9.li.6.nquiinquit. fac.75 li. s. paret, pares . fac. 76 li.16
.notia .notitia . fac. 8 2.li. 13 ingnaros, ignaros.li. 27 preciſiua,
preciſiua. li. 31. preedenti,precedentiubique fac. 83. li . 8.ſcienriarum ,
ſcientiarum . lin . 21.chierurgia , chirurgia . fac. 86 li. 10. neft, ineft.li.
17.angregata , aggregata. fac. 88 lin. 10 pretereundum ,
prætereundum.fac.91.li. 10.triangu o, triangulo. li.28.
redit,reddet.fac.95li,31. eget,eget.fac.96.li.20 fequacea , fequaces. li. 32,
balbitiant,balbutiant.fac. 104.11.18.uirum ,uitrum . ܐܐ ܀ Et fi
qua alia ( que non funt pauca ) pretermiffa funt , diligens le& tor surum
colligat &mufcas abigat .
Petrus
Cathena. Petrus Catena. Pietro Catena. Keywords: logica matematica, logica
aritmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catena” – The Swimming-Pool
Library.
CATTANEO-C (Milano). Filosofo. Grice: “I
like Cattaneo; in fact, I LOVE Cattaneo; he is so much like me! I taught at
Rossall, and he defended the the teaching in what the Italians (and indeed the
‘Dutch’) call the ‘gym’ not just of Grecian and Roman, but Hebrew – He famously
claimed to know Hebrew when he interviewed for a job as a librarian! – From a
semiotic point of view, he saw semiotics as the phenomenon the philosopher must
consider when dealing with communication – he explored semantics, but also
‘sintassi’ in connection with ‘logic,’ and obviously, pragmatics – He was
interested in comparing systems of communication in Homo sapiens sapiens and
other species – and being an Italian, he was especially interested in how Roman
became Latin – he opposed the Tuscany rule!” -- Grice: “Only a philosopher like Cattaneo is
can understand Cattaneo’s contributions to semiotics!”. Figlio di Melchiorre,
un orefice originario della Val Brembana, e di Maria Antonia Sangiorgio, trascorse
gran parte della sua infanzia dividendosi tra la vita cittadina milanese e
lunghi e frequenti soggiorni a Casorate, dove era spesso ospite di parenti. Fu
proprio durante questi soggiorni che, approfittando della biblioteca del pro-zio,
un sacerdote di campagna, si appassioa alla filosofia, soprattutto dei classici
della filosofia romana. Il suo amore per le lettere humanistiche classiche
lo indusse a intraprendere gli studi nei seminari di Lecco prima e Monza poi,
che avrebbero dovuto portarlo alla carriera ecclesiastica, ma già all'età di
diciassette anni, abbandonò il seminario papista per continuare la sua
formazione presso il Sant'Alessandro di Milano e in seguito al ginnasio e liceo
classic di Porta Nuova dove si diploma. La sua formazione filosofica fu
plasmata, durante gli studi superiori, da maestri quali Cristoforis e Gherardini,
i quali gli aprirono le porte del mondo filosofico milanese. Grazie a queste opportunità,
oltre alla passione per gli studi classici, Cattaneo inizia a nutrire interessi
di carattere sstorico. Sempre in questo periodo furono fondamentali per la
sua formazione filosofica le letture presso la Biblioteca di Brera e il
contatto con il cugino paterno, direttore del gabinetto numismatico, era anche
un importante esponente del mondo filosofico milanese. Altro punto chiave per
il percorso formativo degli suoi interessi furono la frequentazione assidua
dell’Ambrosiana, grazie alla sua parentela materna Sangiorgio con il prefetto
Pietro Cighera, e della biblioteca personale dello zio. La Congregazione
Municipale di Milano lo assunse come insegnante di latino e poi di umanita nel
ginnasio comunale di Santa Marta. Approfondizza le sue frequentazioni con gli
filosofi milanesi, entrando a far parte della cerchia di Monti. Di questi
stessi anni sono le sue amicizie con Franscini e Montani. Dopo aver iniziato a
frequentare le lezioni di Romagnosi nella sua villa, ne divenne presto amico e
allievo. Si laurea Pavia con il massimo dei voti. Risale il suo saggio
dato alla stampa e apparso sull’antologia, si tratta di una recensione all'assunto
primo del concetto di “giure naturale”. Saggio sulla Storia della Svizzera
italiana. Convinto sostenitore di richieste di maggiore autonomia del regno
lombardo-veneto dalla corte di Vienna, pensava di puntare su una politica non
violenta per avanzare tali richieste. Il motivo del suo rifiuto nei confronti
della violenza si può comprendere da questa affermazione poco conosciuta del
filosofo milanese che al tempo stesso lascia trasparire cosa egli ne pensasse
di un'annessione al Regno di Sardegna. Siamo i più ricchi dell'impero, non vedo
perché dovremmo uscirne. Ottenne alcune concessioni dal vice-governatore
austriaco, subito annullate dal generale austriaco Radetzky. Purtroppo
l'evoluzione tragica delle Cinque giornate di Milano, degenerate in violenza,
fecero capire a Cattaneo che un dialogo tra la nobiltà lombarda e la corte di
Vienna e effettivamente difficile, stessa impressione che curiosamente ebbe
anche Radetzky che nel periodo del suo governo nel lombardo-veneto punta a
cercare il favore del volgo. Cattaneo e i suoi amici parteciparono quindi e
contribuirono alle cinque giornate di Milano, senza agire con azioni di
violenza gratuita. Ma dopo di esse, rifiuta l'intervento piemontese. Considera
il Piemonte meno sviluppato della Lombardia e lontano dall'essere democratico.
Presidente del Consiglio di guerra di Milano, che governa insieme al Governo
provvisorio fino alla caduta di Milano al ritorno degli austriaci. Dopo una
serie di moti popolari, nel frattempo, viene proclamata la repubblica romana,
guidata da un triumvirato costituito da Mazzini, Saffi ed Armellini. In
seguito alla conclusione dei moti ripara nella ivizzera e si stabilì a
Castagnola, nei pressi di Lugano, nella villa Peri. Qui ebbe modo di stringere
maggiormente la sua amicizia con Franscini, potente filosofo ticinese, e di
partecipare alla vita filosofica del Cantone e della città. Fonda il liceo di
Lugano, che volle fortemente per creare un'istruzione pubblica laica libera dal
giogo del papa, al fine di formare una generazione liberale e laica che era
alla base dello sviluppo economico del resto della Svizzera. Amico di Manara,
anda a Napoli per incontrare Garibaldi, ma poi tornò in Svizzera, perché deluso
dall'impossibilità di formare una confederazione di repubbliche. Pur
essendo più volte eletto in Italia come deputato del Parlamento dell'Italia
unificata, rifiuta sempre di recarsi all'assemblea legislativa per non giurare
fedeltà ai Savoia. Viene ricordato per le sue idee federaliste impostate
su un forte pensiero liberale e laico. Acquista prospettive ideali vicine al
nascente movimento operaio-socialista. Fautore di un sistema politico basato su
una confederazione di stati italiani sullo stile della svizzera. Avendo stretto
amicizia con filosofi ticinesi come Franscini, ammira nei suoi viaggi
l'organizzazione e lo sviluppo economico della Svizzera interna che imputa
proprio a questa forma di governo -- è più pragmatico del romantico Mazzini -- è
un figlio dell'illuminismo, più legato a Verri che a Rousseau, e in lui è forte
la fede nella ragione che si mette al servizio di una vasta opera di
rinnovamento della communità. Pur essendogli state dedicate numerose logge
massoniche e un monumento realizzato a Milano dal massone Ferrari, una sua
lettera a Bozzoni, consente di escludere la sua appartenenza alla massoneria,
per sua esplicita dichiarazione, sovente in quel periodo tenuta segreta e
negata. Per lui scienza e giustizia devono guidare il progresso della
communità, tramite esse l'uomo ha compreso l'assoluto valore della libertà di
pensiero. Il progresso umano non deve essere individuale ma collettivo,
comunitario, attraverso un continuo confronto con l’altro. La partecipazione
alla vita della communita à è un fattore fondamentale nella formazione
dell'individuo. Il progresso può avvenire solo attraverso il confronto
collettivo comunitario. Il progresso non deve avvenire per forza o
autoritarismo, e, se avviene, avverrà compatibilmente con i tempi: sono gli
uomini che scandiscono le tappe del progresso. Nega il concetto di
“contratto” comunitario o sociale. Due uomini si sono associati per istinto. La
comunita, la diada, la società è un fatto naturale, primitivo, necessario,
permanente, universale -- è sempre esistito un federalismo delle intelligenze
umane -- è sorto perché è un elemento necessario di due menti
individuali. Pur riconoscendo il valore della singola intelligenza
monadica, afferma però, che più scambio, conversazione, dialettica, e confronto
ci sono, più la singola intelligenza monadica diventa tollerante dell’altro
nella diada. In questo modo anche la società e la comunita diadica e più
tollerante. Le due sistemi cognitivi dei individui della diada devono essere
sempre aperti, bisogna essere sempre pronti ad analizzare nuove verità.
Così come le due menti si devono federare, lo stesso devono fare gli stati
europei che hanno interessi di fondo comuni. Attraverso il federalismo i popoli,
le comunita, possono gestire meglio la loro partecipazione alla cosa pubblica. La
communita, il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà. La comunita, il
popolo non deve delegare la propria libertà ad un popolo lontano dalle proprie
esigenze. La libertà economica è fondamentale per Cattaneo -- è la
prosecuzione della libertà di fare -- la libertà è una pianta dalle molte
radici. Nessuna di queste radici va tagliata sennò la pianta muore. La libertà
economica necessita di uguaglianza di condizioni. La disparità ci saranno ma
solo dopo che tutti avranno avuto la possibilità di confrontarsi nella
conversazione aperta. E un deciso repubblicano e una volta eletto
addirittura rinuncia ad entrare in parlamento rifiutandosi di giurare dinanzi
all'autorità e la forza del re. Viene richiamato quale iniziatore della
corrente di pensiero federalista in Italia. Fonda il periodico Il Politecnico,
rivista che divenne un punto di riferimento dei filosofi lombardi, avente come
intento principale l'aggiornamento tecnico e scientifico della cultura
nazionale. Guardando all'esempio della Svizzera cantonale (improntata alla
democrazia diretta), define il federalismo come "teorica della
libertà" in grado di coniugare indipendenza e pace, libertà e unità. Nota
al riguardo che abiamo pace vera, quando abiamo gli stati uniti dell’Europa,
alla svizzera. Cattaneo e Mazzini videro negli nella Svizzera l’unico esempio di
vera attuazione dell'ideale repubblicano. Federalista repubblicano laico di
orientamento radicale-anticlericale, fra i padri del Risorgimento, e alieno
dall'impegno politico diretto, e punta piuttosto alla trasformazione culturale
della società. La rivista Il Politecnico fu per lui il vero parlamento
alternativo a quello dei Savoia. In accordo con il Tuveri redattore del
Corriere di Sardegna, intervenne in merito alla questione sarda in chiave
autonomistica locale. In tal senso, denuncia l'incapacità ed incuranza del
governo centrale nel trovare una nuova destinazione d'uso al mezzo milione di
ettari (più di un quinto della superficie dell'isola) che avevano costituito i
soppressi demani feudali, sui quali le popolazioni locali esercitavano il
diritto di ademprivio, per usi civici. A lui è dedicato l'omonimo
istituto di ricerca. Altre opere: “Scritti filosofici”; “Interdizioni
israelitiche”; “Psicologia delle menti associate” – questo saggio –
associazione -- non è stata completata e rimane allo stato di frammenti. Il
tema de saggio sarebbe dovuto consistere nel cercare un'interpretazione sociale
– diadica -- nello sviluppo dell'individuo o monada. La città – cittadino –
cittadinanza -- considerata come principio ideale delle istorie italiane;
Dell'India antica e moderna; Notizie naturali e civili su la Lombardia Vita di
Dante di Cesare Balbo Il Politecnico, Repertorio mensile di studi applicati
alla prosperità e coltura sociale e comunitaria; Dell'Insurrezione di Milano e
della successiva guerra. Rapporto sulla bonificazione del piano di Magaldino a
nome della società promotrice, In Lugano, Tipografia Chiusi. Le cinque giornate
di Milano di Carlo Lizzani -- interpretato da Giannini. Cattaneo e le cinque
giornate di Milano Secondo una tesi, non
comprovata e non accolta dai dizionari biografici, Cattaneo sarebbe nato a
Villastanza, frazione del comune di Parabiago in provincia di Milano. Certamente
più antica è la Villa prospiciente la Chiesa, sulla piazza ed attualmente in
proprietà del signor Luigi Gagliardi, cui è giunta per eredità dagli avi.
Un'insistente tradizione vuole che in questa casa, abbia avuto i natali
nientemeno che Carlo Cattaneo. Ma il Cattaneo deve aver passato qui soltanto
alcuni anni della sua infanzia, ospite nei mesi estivi della famiglia amica ai
propri genitori. Si veda, a tal riguardo, “Storia di Parabiago, vicende e
sviluppi dalle origini ad oggi, Unione Tipografica di Milano. (G. Tortora), da
Filosofico (Diego Fusaro) Arch. Rebecca
Fant Milano Bertone, Camagni, Panara, La
buone società: Milano industria. Almanacco istorico d'Italia, 1, Battezzatti. Carlo Cattaneo genealogy
project, su geni_family_tree. 16 marzo .
Il Famedio, su del Comune di
Milano. Carlo G. Lacaita, Raffaella Gobbo, Alfredo Turiel La biblioteca di
Carlo Cattaneo, Le riforme illuministiche in Lombardia, articolo dal saggio
introduttivo a Notizie naturali e civili della Lombardia, come riportato da
Mario Pazzaglia in Antologia della letteratura italiana, Il monumento milanese che lo raffigura reca
l'iscrizione «A Carlo Cattaneo -- La massoneria italiana» Mola, Aldo A., Storia della Massoneria
italiana dalle origini ai nostri giorni, Milano, Bompiani.
Fonte://manfredipomar.com/ .
l'Enciclopedia, alla voce "Politecnico", in La Biblioteca di
Repubblica, UTET-DeAgostini, C. Petrone, Massoneria e identità, Taranto,
Bucarest, (aD. Fiorentino, Non proprio
un modello: gli Stati Uniti nel movimento risorgimentale italiano, l'8 giugno .
M. Teodori, "Cattaneo, Garibaldi, Cavallotti": i radicale anti-clericali,
anti-papa, in Risorgimento laico. Gli inganni clericali sull'Unità d'Italia,
Rubbettino editore, Dicembre . M.
Politi, D. Messina, G. Pasquino, M. Teodori, Dibattito "Risorgimento
laico". Presentazione del saggio di Teodori, su Radio Radicale, Milano,
Fondazione Corriere della Sera. Tuveri Giovan Battista, in Rassegna storica del
Risorgimento. Luigi Ambrosoli (scelta e introduz. di). Cattaneo e il
federalismo, Roma, Ist.Poligrafico e Zecca dello Stato- Archivi di Stato,
1999, XXXIII,990. Norberto Bobbio, Una
filosofia militante: studi su Carlo Cattaneo, Einaudi, Torino 1971. Michele
Campopiano, "Cattaneo e La città considerata come principio ideale delle
istorie italiane", in "Dialoghi con il Presidente. Allievi ed
ex-allievi delle Scuole d'eccellenza pisane a colloquio con Ciampi", M.
CampopianoL. GoriG. MartinicoE. Stradella, Pisa, Edizioni della Normale. Cattaneo
e Carlo Tenca di fronte alle teorie linguistiche del Manzoni, in «Giornale
storico della letteratura italiana». Arturo Colombo, Carlo Montaleone, Carlo
Cattaneo e il Politecnico, Franco Angeli Edizioni, Milano, Fabrizio Frigerio,dir.
Denis de Rougemont, Bruylant, Bruxelles, Mario Fubini, Gli scritti letterari di Carlo
Cattaneo, in Romanticismo italiano, Laterza, Bari. Carlo Lacaita , L'opera e
l'eredità di Carlo Cattaneo, Feltrinelli, Milano. Umberto Puccio, Introduzione
a Cattaneo, Einaudi, Torino); Cattaneo nel primo centenario della morte,
antologia di scritti, edizioni Casagrande, Bellinzona, Antonio Gili , Pagine
storiche luganesi, Arti grafiche già Veladini & Co SA, Lugano 1984. Carlo
G. Lacaita, Economia e riforme in Carlo Cattaneo, Ibidem, 1984, 169-186. Anna Cotti, Carlo Cattaneo in una
lettera inedita di Lavizzari, Cattaneo: studio biografico dall'Epistolario»;
opera di Vittorio Michelini (Milano, NED), Cattaneo scrittore, in Manzoni e la
via italiana al realismo, Napoli, Liguori, Cattaneo una biografia. Il padre del
Federalismo italiano, Garzanti, Milano); Il ritratto carpito di Carlo Cattaneo,
Edizioni Casagrande, Bellinzona); Cattaneo federalista europeo, in «Il Cantonetto,
Lugano, agosto , Fontana Edizioni SA, Pregassona, L'istruzione educante nel pensiero di
Cattaneo, Carlo Moos, Carlo Cattaneo: il federalismo e la Svizzera, Mariachiara
Fugazza, Una lettera inedita di Cattaneo a De Boni. La Repubblica Romana, Ibidem, 47-49. Carlo Moos, Carlo Cattaneo in Ticino, «Bollettino
della Società Storica Locarnese», numero 14, Tipografia Pedrazzini, Locarno
, 95-110. A. Michelin Salomon, Carlo
Cattaneo. Una pedagogia socialmente impegnata, Messina, Samperi, . Jessie White
Mario: Carlo Cattaneo. Cenni. Cremona. Cantoni Giovanni /Il sistema filosofico
di Carlo Cattaneo /Milano ; Torino : Dumolard, 1887 Carlo Matteucci Gian Domenico Romagnosi
Cinque giornate di Milano Federalismo in Italia Giuseppe Ferrari (filosofo)
Liceo di Lugano Stati Uniti d'Europa Sostrato (linguistica) Università Carlo
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degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Carlo Cattaneo, su
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deputati. Tiziano Raffaelli, Cattaneo,
Carlo, in Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Economia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, . Arturo Colombo, Cattaneo, Carlo, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Opere Scritti di Carlo Cattaneo in versione e-book, su
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di frequenza Indice Carteggi di Carlo Cattaneo. PDF Altro Cronologia della vita
di Carlo Cattaneo, su storiadimilano. Carlo CattaneoIl contemporaneo dei
posteri a cura del Comitato nazionale per le celebrazioni del bicentenario
della nascita (1801-2001 Filosofia Letteratura
Letteratura Politica Politica
Risorgimento Risorgimento Categorie:
Patrioti italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XIX secoloPolitici
italiani Professore1801 1869 15 giugno 6 febbraio Milano LuganoScrittori
italiani del XIX secolo Personalità del Risorgimento Positivisti Insegnanti
italiani del XIX secoloFilosofi della politicaRepubblicanesimoLinguisti
italianiSepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoPolitologi
italianiFederalistiDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati
dell'VIII legislatura del Regno d'Italia Deputati della IX legislatura del
Regno d'Italia. Linguaggio e ideologia: la posizione di Carlo Cattaneo
Pubblicato il 1 novembre 2020 da Comitato di Redazione
matania_edoardo_-_ritratto_giovanile_di_carlo_cattaneo_-_xilografia_-_1887-2_imagefullwide
Edoardo Matania, Ritratto giovanile di Carlo Cattaneo, xilografia, 1887
di Alessandro Prato La centralità della figura di Carlo Cattaneo
(1801-1869) nell’ambito della cultura italiana della prima metà dell’Ottocento
è giustamente ricollegata al suo pensiero liberale e laico, agli studi
giuridici che hanno contrassegnato l’intera sua formazione, all’interesse verso
l’etnografia e la psicologia sociale [1]. La sua personalità di studioso
poliedrico e sfaccettato, fortemente influenzata dalla cultura classicista e
dalla filosofia dell’illuminismo, si è concretizzata in varie forme tutte di
grande rilevanza: il filosofo, l’economista, il critico, lo storico, lo
scrittore politico, il fondatore della rivista Il Politecnico (1839-44) e, non
da ultimo, il linguista. Nel quadro di questa ricerca intellettuale così
ricca e variegata un posto rilevante assumono i suoi studi etnico-linguistici
di impianto storico-positivo e i suoi progetti politici orientati sul concetto
di “nazionalità”. Con questo termine egli si riferiva allo stesso tempo sia
alla più alta e unitaria aggregazione culturale, sia alla diretta
partecipazione popolare allo sviluppo della società civile. Proprio sugli
interessi linguistici di Cattaneo [2] concentreremo la nostra attenzione
mettendo in evidenza l’impulso che egli ha dato alla costruzione
dell’italiano come lingua comune che riflette il nesso tra la vitalità della
lingua e la vitalità culturale della nazione di cui la lingua stessa è «il vincolo
unitario in senso geografico e sociale» (Vitale 1984: 457), perché è da essa
che dipende la possibilità per gli italiani di partecipare al progresso della
cultura del proprio Paese. La forte coscienza del carattere comune della lingua
faceva sì che Cattaneo potesse prescrivere la rinnovabilità della lingua –
rifiutando quindi le angustie del purismo, i grecismi e i particolarismi
provinciali – e sostenere anche un’opposizione recisa, basata su una coerente
visione culturale di impronta europea, sia al neotoscanismo e al fiorentinismo
manzoniano, sia all’accademismo della Crusca, in nome di un principio di unità
di cultura e di vita civile nazionale. Questa impostazione spiega poi la
sua duplice posizione rispetto ai dialetti: da una parte riproponeva in termini
nuovi, non antitetici, i rapporti fra i dialetti e la lingua,
riconoscendo la validità dei dialetti in quanto depositari di un patrimonio
storico da preservare, apprezzando i valori riposti nelle culture popolari e
sottolineando anche il valore della letteratura dialettale; dall’altra però
considerava i dialetti come elementi superabili nel processo dialettico
fondativo della lingua comune, essendo consapevole che il coinvolgimento dei
parlanti nella lingua comune poteva avvenire nella misura in cui essi
riuscivano progressivamente ad abbandonare l’uso esclusivo del dialetto.
Il primo scritto di linguistica di Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e
della lingua Valacca coll’italiana, pubblicato nel 1837 [3], come parte di un
lavoro più generale che riguardava l’influenza delle invasioni barbariche sulla
lingua italiana e che non venne mai condotto a termine. Si tratta di uno studio
sul passaggio dalla società tardo romana a quella feudale e poi comunale,
condotto sulla scia dell’insegnamento di Romagnosi ma con una sostanziale
differenza: mentre Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà in
storia degli istituti giuridici e solo marginalmente si interessava di
questioni linguistiche, Cattaneo già in questo primo scritto – il cui carattere
storico generale è evidente – metteva al centro della sua trattazione il
problema linguistico, considerando la lingua come espressione della nazionalità
e testimonianza delle vicende della storia dei popoli. La funzione
sociale e in senso lato politica della lingua viene così enfatizzata con la
finalità di studiare le interconnessioni tra le cose, cioè gli anelli che
compongono le catene sociali che tengono uniti gli individui in quanto membri
di una comunità: le parole, che sono ricche di sottili significati, possono
essere comprese pienamente solo se situate in un contesto sociale più ampio di
quello del loro svolgersi immediato (Lewis 1987:17). Il nucleo che tiene
insieme le memorie individuali e collettive è insomma costituito dalla lingua e
l’esercizio della lingua rafforza tale nucleo dal quale poi dipende in buona
parte l’identità di un popolo, la sua coscienza storica. In questo caso
Cattaneo non si riferiva alla lingua solo come insieme di regole sintattiche e
di etichette fonologiche, ma anche come modalità socialmente e regionalmente
differenziata, dunque non la lingua come sistema, bensì come norma e
istituzione: «è nelle parole della lingua che si condensano i path, i
“sentieri” della memoria propri di ciascuna comunità» (De Mauro 2008: 67).
poliCattaneo mostrò fin dagli anni giovanili grande interesse per l’opera di
Vico, anche grazie all’influenza che ebbero su di lui le opere di Romagnosi e
Ferrari che la interpretavano alla luce dell’antropologia laica
dell’illuminismo. Proprio dal libro di Ferrari, Vico e l’Italie uscito a Parigi
nel 1839, egli prese spunto per un saggio Sulla scienza nuova che pubblicò sul
Politecnico nello stesso anno [4]. L’interesse per le età primitive e per la
vita collettiva dei popoli, il rapporto tra lingua e nazione [5] denotano la
presenza di motivi vichiani, con i quali Cattaneo corresse certi eccessi del
razionalismo settecentesco, senza mai però rinunciare all’idea di progresso, e
allo stesso tempo senza farsi influenzare dagli aspetti teologici della filosofia
di Vico. La sua formazione illuminista lo portò a non condividere nessun mito
del Risorgimento romantico e spiritualista, a celebrare come maestro Locke
contrapponendolo alle fumosità dell’idealismo, ad avversare le posizioni di
Rosmini, Gioberti e anche Mazzini. L’illuminismo nella sua opera «si
rivela sotto il carattere di una radicale antimitologia» (Alessio 1957: XIX).
Rispetto al Romanticismo la posizione di Cattaneo è contrassegnata da una
sostanziale estraneità: giustamente Timpanaro (1969: 233-34) osserva che
parlare – come spesso si è fatto – di un romanticismo di Cattaneo può essere
giusto se ci riferiamo al romanticismo come una categoria spirituale generale,
definendo romantico ogni forma di interesse per le età primitive, per le tradizioni
popolari e per il nesso lingua\nazione. Ma questo non ci deve far dimenticare
che per il Romanticismo inteso come movimento culturale storicamente definito
Cattaneo – come del resto anche Leopardi – mostrò sempre un atteggiamento
critico e distante motivato dalla sua avversione al medievalismo, a quella
concezione religiosa della vita che i romantici – sia pure con sfumature
diverse – condividevano e al modo ambiguo con cui veniva da loro esaltato lo
spirito popolare, inteso più come attaccamento alle tradizioni locali e forma
di ingenuità, che come aspirazione democratica. Sui rapporti tra romani e
barbari e sulle origini della lingua italiana Cattaneo tornò diverse volte in
altri scritti successivi quel primo saggio del 1837 [6], sostenendo la derivazione
dell’italiano dal latino volgare e limitando al massimo l’influsso delle lingue
dei barbari sulla formazione dell’italiano, tanto più che secondo lui il numero
dei barbari dominatori era stato assai esiguo contrariamente a quanto pensavano
molti storici. Per valutare al meglio questa continuazione dell’italiano dal
latino volgare per Cattaneo era necessario tener conto anche dell’influsso
esercitato dalle antiche lingue dei popoli italici conquistati dai romani
(etrusco, umbro, celtico ecc..). Questa è l’importante teoria del
sostrato senza la quale è difficile ad esempio spiegare la varietà dei dialetti
italiani e che coinvolge soprattutto la fonetica piuttosto che il lessico: non
si tratta quindi di una generale mescolanza di lingue, ma della stessa nuova
lingua pronunciata in modo diverso in base ad abitudini fonetiche precedenti
che rimanevano vive perché radicate dall’uso dei parlanti [7].
Gli studi sull’origine dell’italiano sono importanti anche per spiegare
la posizione che Cattaneo ha assunto nel dibattito sulla questione della
lingua, che ha avuto del resto una grande rilevanza nella cultura italiana del
tempo. Cattaneo, infatti, non vedeva una scissione tra il suo impegno di
linguista militante e i suoi studi di linguistica storica, al contrario
riteneva lo studio storico delle lingue come la base, e dunque il fondamento,
della linguistica normativa [8]. Di fronte al problema di come la lingua
italiana avrebbe dovuto essere formata e regolarizzata, egli sosteneva una
rigorosa battaglia antitoscana, svolta su due fronti essenziali. Il primo era
diretto – riprendendo una polemica che era stata inaugurata dagli illuministi
lombardi del Caffè – contro il modello arcaico e passatista dell’Accademia
della Crusca, che sosteneva una concezione immobilistica della lingua, estranea
a ogni innovazione e fondata sulla netta scissione tra lingua e cultura. Il
secondo fronte riguardava il modello certamente più moderno e funzionale del
Manzoni, ma che ai suoi occhi risultava troppo accentrato e basato su un
concetto di popolarità che egli non condivideva: «la dottrina della
popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che
si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti: ma bensì
che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più
domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. Si intende
un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità
dell’uso e dei frutti» (Cattaneo 1948: I, 8). 2560350164442_0_0_0_696_75In
alternativa, Cattaneo opponeva una forma di lingua che costituisse un punto
d’incontro delle varie tradizioni dialettali italiane in maniera da poter
svolgere veramente una funzione unificatrice della nazione. Una lingua, allo
stesso tempo illustre [9], «insieme austera e moderna» (Timpanaro 1969: 237),
adeguata non solo alla cultura letteraria, ma anche a quella scientifica e
filosofica. Fin da quel primo articolo, cui abbiamo già
fatto riferimento, Cattaneo ha dimostrato inoltre di avere due maggiori
capacità rispetto ad altri autori italiani suoi contemporanei. La prima era
quella di saper andare al di là dei ristretti confini nazionali, interessandosi
ad esempio delle lingue germaniche e del romeno. La seconda consisteva
nell’avere ben presente il principio che la comunanza di origine tra due lingue
è dimostrata dalla somiglianza delle strutture grammaticali, più che dei
vocaboli – principio che ricavava dalla nuova linguistica comparata di Bopp e
dei fratelli Schlegel [10] che, proprio in quegli anni, erano diventati per lui
importanti interlocutori anche polemici e avevano impresso nuovi sviluppi alle
sue idee linguistiche. Nel 1839 Bernardino Biondelli [11] cominciò a pubblicare
sul Politecnico una serie di articoli sulla linguistica indeuropea, recensendo
anche importanti opere dei comparatisti [12], informando così il pubblico
italiano sui risultati scientifici da loro raggiunti. Questi articoli hanno
indotto Cattaneo a prendere una posizione critica di fronte a questa corrente di
studi e a scrivere il saggio Sul principio istorico delle lingue europee
[13]. In questo saggio Cattaneo criticava l’idea che dall’affinità delle
lingue fosse possibile ricavare una comunanza d’origine dei popoli, perché era
invece convinto che non ci fosse una connessione essenziale tra affinità
linguistica e affinità razziale e che la linguistica e l’antropologia andassero
attentamente distinte; inoltre credeva che si fosse troppo insistito sull’unità
dell’indoeuropeo, trascurando le differenze tra le varie lingue dovute al
sostrato. Guardava con sospetto l’esaltazione orientalizzante che costituiva
forse la conseguenza più effimera e fuorviante del comparatismo indoeuropeo
(Marazzini 1988: 406). Per Friedrich Schlegel [14] il sostrato svolgeva
soprattutto una funzione negativa corrompendo la perfetta forma del sanscrito;
per Cattaneo, al contrario, la commistione del sanscrito con le lingue europee
primitive ha dato luogo a un innesto fecondo perché il sostrato «rappresentava
appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione
unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore» (Timpanaro 1969: 266). La
parentela linguistica non è quindi nel sistema di Cattaneo identità di origine,
bensì il risultato di un lento e progressivo avvicinamento delle popolazioni,
dovuto all’istaurarsi fra di esse di rapporti politici, economici e culturali.
Non si tratta, quindi, di un punto di partenza, ma di arrivo: «Le lingue
vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua comune, che
tende alla pluralità e alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua
commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende
all’associazione e all’unità. Se una volta in diverse parti d’Italia e delle
isole si parlò il fenicio, il greco, l’osco, l’umbro, l’etrusco, il celtico, il
carnico, e Dio sa quanti altri strani linguaggi, come tuttora avviene nella
Caucasia, la sovraposizione d’una lingua commune avvicinò tanto tra loro i
nostri vulghi, che ora agevolmente s’intendono tra loro. Il tempo che cangiò le
lingue discordandi in dialetti d’una lingua, corrode ora sempre più le
differenze dei dialetti; e lo sviluppo delle strade e la generale educazione
promovono sempre più l’unificazione dei popoli. Non è che una lingua
madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse,
assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che
l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti e
infine mettono foce commune in lei» (Cattaneo 1957: 450). Sulla base di queste
considerazioni, Cattaneo, nell’ambito dell’acceso dibattito sulla monogenesi o
poligenesi del linguaggio, sosteneva una posizione particolare: rifiutava
evidentemente il primo, ma allo stesso tempo era anche distante da quel
particolare tipo di poligenismo sostenuto da Schlegel, che consisteva nel
separare nettamente pochi tipi linguistici originali dai quali sarebbero
derivate tante lingue cosiddette “figlie”. Per lui invece esistevano tante
lingue primitive originarie che si erano ridotte di numero, via via che le
tribù avevano cominciato a unirsi in aggregati più ampi. Non esistevano quindi
– come per Schlegel – delle lingue perfette fin dall’inizio (le lingue
flessive); tutte le lingue avevano origini umili o, come scriveva lui stesso,
“ferine”. I modelli di questo modo di intendere il poligenismo linguistico sono
Epicuro, Vico e Cesarotti [15]. Sempre contro Schlegel, rivendicava la
giustezza della teoria agglutinante secondo la quale anche le forme flessionali
più perfette e sofisticate derivavano dall’agglutinazione di monosillabi che
all’origine avevano una funzione autonoma. E in quel primo articolo del 1837
osservava infatti che le declinazioni della lingua latina e greca potevano
derivare da semplici nomi con un articolo affisso (Cattaneo 1948: I,
228).
psicologiadellementiassociatecarlocattaneoeditoririuniti_1024x1024-1La polemica
con Schlegel riguardava anche la questione dell’origine del linguaggio: mentre
per il primo la flessione indoeuropea era dovuta sostanzialmente a un
intervento divino, per Cattaneo, l’origine del linguaggio non poteva che essere
umana, e su questo avrebbe mantenuto una posizione coerente anche negli scritti
successivi come le Lezioni di ideologia del 1862, dove, ad esempio, confutava il
sofisma di Bonald che negava all’uomo la facoltà di costruirsi un linguaggio.
Su questo tema come per tanti altri Cattaneo è vicino alla grande tradizione
della linguistica illuminista che con Locke e Herder aveva respinto recisamente
la concezione delle idee innate e l’origine divina del linguaggio (Prato 2012:
17-22) ed è del tutto immune dalla concezione misticheggiante della linguistica
tanto cara ai romantici. Proprio nel Saggio sul principio istorico delle
lingue europee, Cattaneo si proponeva di verificare il rapporto tra fenomeni
linguistici e tradizioni culturali, considerando la ricerca linguistica in
stretta correlazione con una riflessione propriamente filosofica. L’analisi dei
fenomeni linguistici non si riduceva per lui solo a una raccolta estemporanea
di dati ma si traduceva in una vera e propria scienza sociale. Alla filosofia
analitica degli Idèologues – che era rappresentata per gli scrittori italiani
soprattutto da Condillac e Tracy – egli riconosceva senz’altro il merito di
aver esaminato con acume e precisione i problemi del linguaggio, inserendoli in
una prospettiva il più possibile concreta e razionale. Allo stesso tempo era
tuttavia consapevole anche dei suoi limiti, che consistono nell’aver indicato
come proprio oggetto di riflessione una figura di uomo dai caratteri astratti e
indipendente dal rapporto con i suoi simili. Proprio «la famosa ipotesi della
‘statua’ condillachiana gli appariva emblematica di un concetto destorificato
della natura umana» (Gensini 1993: 238). Non a caso alle conferenze tenute a
partire dal 1859 presso l’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, Cattaneo
volle dare il titolo di Psicologia delle menti associate [16], dove il termine
di “psicologia sociale” è inteso appunto in senso antropologico sia come riflessione
sull’uomo a partire dai rapporti che lo legano agli altri suoi simili, sia come
ricostruzione delle mentalità e dei sistemi simbolici quale risultato di
mediazioni sociali. In queste lezioni Cattaneo osservava che il lievito che fa
fermentare le idee non si svolge in una mente sola perché «la corrente del
pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti» (Cattaneo
1957: 277-78). La genesi delle idee, che Locke aveva dimostrato scaturire
dal linguaggio, in questa nuova prospettiva aperta da Cattaneo, non può che
radicarsi nella pratica sociale: «Nel commercio degli intelletti, promosso da
felici condizioni, si svolgono le idee, come nel mondo materiale, al contatto
delli elementi, si svolgono le correnti elettriche e le chimiche affinità»
(Cattaneo 1960: II, 16). Il linguaggio stesso è la società (Cattaneo 1957:
316), ed è proprio su questo terreno che l’ideologia – ovvero l’analisi delle
idee – iincontra la linguistica. Ideologia è del resto il titolo di una parte
del corso di Filosofia che Cattaneo aveva tenuto presso il liceo di
Lugano. Non a caso aveva scelto questo titolo se consideriamo che per la
sua chiara derivazione illuminista, l’ideologia [17] rappresentava la sola
reale forma di opposizione al conformismo della cultura del suo tempo perché
l’ideologia era «un’arma efficace per una filosofia democratica, atta ad
opporsi alla marea montante della filosofia restaurata, allo spiritualismo
eclettico in Francia, all’ontologismo cattolico in Italia» (Formigari 1990:
153). I principi che contrassegnano l’intera ricerca di Cattaneo e che spaziano
dal riconoscimento del valore del pensiero scientifico, alla negazione della
metafisica e alla difesa della laicità, la rendono insomma pienamente aderente
ai problemi e alle esigenze del nostro tempo, oltre che aperta a ulteriori
forme di sviluppo e approfondimento. Dialoghi Mediterranei, n. 46,
novembre 2020 Note [1] Per un ritratto complessivo di Cattaneo e dei
rapporti con i suoi contemporanei rimandiamo a Alessio (1957) e Mazzali (1990).
[2] Studiati in particolare da Timpanaro (1969: 229-83). Si veda anche Gensini
(1993: 237-40), Benincà (1994: 576-80), Geymonat (2018). [3] Negli Annali
universali di statistica, si leggono ora in Cattaneo (1948: I, 209-37). [4] Si
trova in Cattaneo (1957: 39-75). [5] Anche per Giordani la lingua è il
vincolo di una comunità che si identifica con la nazione (Cecioni 1977: 59),
[6] Per esempio nella recensione alla Vita di Dante di Balbo pubblicata sempre
sul Politecnico del 1839 (ora in Cattaneo 1957: 380-395) di cui viene criticato
il contenuto religioso e metafisico e la difesa del neo-guelfismo. [7] Questa
teoria del sostrato come è noto verrà ripresa da Ascoli nei suoi celebri
scritti linguistici. Sul rapporto tra Cattaneo e Ascoli rimandiamo alle dense
pagine di Timpanaro (1969: 284 sgg) e Timpanaro (2005: 237-51). [8] Qui lo
scrittore lombardo riprendeva un’idea ben radicata nella cultura italiana e che
risaliva al De vulgari eloquentia di Dante. [9] Su questo si può cogliere l’eco
della Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca
(1817-1822) del Monti che Cattaneo del resto aveva letto fin da giovanissimo
con passione e interesse. [10] Sulla linguistica dei comparatisti si veda
Morpurgo Davies (1994). [11] Sulla funzione positiva svolta da Biondelli per lo
sviluppo degli studi linguistici in Italia vedi De Mauro (1980: 49-52). [12]
Per esempio la Deutsche Grammatik di Jacob Grimm. [13] Pubblicato sul
Politecnico nel 1841 è certamente il suo scritto linguistico-etnografico più
ampio e originale. [14] Qui Cattaneo fa riferimento al libro: Uber die Sprache
und Weisheit der Indier del 1808. Sulle idee filosofico-linguistiche di
Schlegel vedi Timpanaro (2005: 17-56). [15] In particolare su Cesarotti e sul
suo Saggio sulla filosofia delle lingue (1800) che è stato per Cattaneo una
lettura importante vedi Gensini (2020). [16] Pubblicate postume da Bertani
nella raccolta di Opere edite e inedite in 7 volumi usciti tra il 1881 e il
1892, si leggono ora in Cattaneo (1957: 270-326). [17] Ideologia è del resto il
titolo stesso di una parte del corso di Filosofia che aveva tenuto presso il
liceo di Lugano: si trova ora in Cattaneo (1960: III, 3-204). Riferimenti
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Giovanni Battista Ramusio correttore ed editore delle Navigationi et viaggi,
Roma, Viella. Rusconi M. (1842), Sopra i lai o canti degli anglo-normanni, in
“Giornale dell’I. R. Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti o Biblioteca
italiana”, III, pp. 177-187. Delle Lezioni tenute al Liceo di Lugano tra
anni Cinquanta e Sessanta, si analizzano le versioni preparatorie di un
paragrafo dedicato all’originarsi della poesia da canti e balli popolari (con
particolare attenzione alla cosiddetta ballata). Ciò consente di riconoscere in
Cattaneo, che in quel periodo ha ripreso l’attività di studio e divulgazione,
il perdurare d’interessi terminologici e il legame con dibattiti che avevano
coinvolto suoi maestri, colleghi e amici nella prima metà dell’Ottocento.
Curiosità e passioni di gioventù s’intrecciano con letture nuove, alcune delle
quali avranno eco nella seconda serie de "Il Politecnico", altre
rimarranno limitate alla pratica didattica e si possono in parte scoprire
grazie agli appunti preparatori. Indice del saggio su Cattaneo linguista –
recensione Resurggimento. Carlo Cattaneo. Keywords: cinque giornate, community,
communita, diada, monada, associazione, contratto sociale, conversazione,
psicologia filosofica, psicologia, sociologia filosofica, ego e alter ego,
logica e linguaggio, il latino, l’italiano di lombardia, il natale di Cattaneo
– regione Lombardia – provincia -- – Milano. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.
CATTANEO (Roma).
Filosofo. Grice: “I love Cattaneo, but then you would, wouldn’t you – He
reminds me of H. L. A. Hart, and then *I* am reminded that Cattaneo translated
Hart to Italian as a pastime! What I like about Cattaneo is that instead of
focusing on “Roman law” and Cicero – he focuses on Pinocchio!”. Si
laurea a Milano sotto Treves. Su consiglio di Treves e Bobbio ha soggiornato
al St. Antony's, criticando Hart, professore di Giurisprudenza, di cui su
suggerimento di Bobbio e Entreves ha tradotto “Il concetto di legge”. Insegna a
Ferrara, Milano, Sassari, Treviso. Analizza l'evoluzione storica delle teorie
della pena e le opere dei grandi giuristi italiani. Membro della Società
Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Altre opere: Il concetto di
rivoluzione nella scienza del diritto” (Milano); “Il positivismo giuridico”
(Milano); “Il partito politico nel pensiero dell'Illuminismo e della
Rivoluzione” (Milano); “Le dottrine politiche” (Milano); Illuminismo e
legislazione” (Milano); “Filosofia della Rivoluzione” (Milano); “Diritto
liberale” “Giurisprudenza liberale” (Ferrara); “Filosofia del diritto,
Ferrara); La filosofia della pena” (Ferrara); Delitto e pena” (Milano); Il
problema filosofico della pena, Ferrara); Stato di diritto e stato totalitario,
Ferrara); Dignità umana e pena nella filosofia di Kant, Milano); “Metafisica
del diritto e ragione pura, studi sul platonismo giuridico di Kant” (Milano);
“Goldoni ed Manzoni: illuminismo e diritto penale, Milano); “Carrara e la
filosofia del diritto penale, Torino); “Libertà e Virtù” (Milano); Pena,
diritto e dignità umana” (Torino); Diritto e Stato nella filosofia della
rivoluzione” (Milano); Suggestioni penalistiche”; “Persona e Stato di diritto
Discorsi alla nazione europea, Torino); Critica della giustizia, Pisa); L'umanesimo
giuridico penale” (Pisa); Pena di morte e civiltà del diritto” (Milano); Terrorismo
ed arbitrio, Il problema giuridico del totalitarismo, Padova); Il liberalismo
penale di Montesquieu” (Napoli); Dignità umana e pace perpetua, Kant e la
critica della politica” (Padova); “L’idolatria sociale (Napoli); “L’umanesimo
giuridico, Napoli); Kant e la filosofia del diritto” (Napoli); Diritto e forza.
Un delicato rapporto, Padova); Giusnaturalismo e dignità umana, Napoli); Dotta
ignoranza e umanesimo” (Napoli); La radice dell'Europa: la ragione, uno studio
filosofico-giuridico (Napoli). “Analisi del linguaggio e scienza politica”
(Filosofia del diritto); “Il concetto di rivoluzione nella scienza del diritto,
Milano, Istituto editoriale Cisalpino); “Il positivismo giuridico e la
separazione tra il diritto e la morale” (Istituto Lombardo di Scienze e
Lettere, Milano. Richiamo a istituti di diritto privato per la risoluzione del
problema dell'origine dello stato, in “La norma giuridica: diritto pubblico e
diritto privato, Atti del IV Congresso di Filosofia del diritto, Pavia, Milano,
Giuffre); “Il realismo giuridico” in »Rivista di Diritto Civile”; Alcune
osservazioni sui concetto di giustizia in Hobbes, in Il problema della
giustizia: diritto ed economia, diritto e politica, diritto e logica, Atti del
V Congresso Nazionale di Filosofia del Diritto, Roma (Milano, Giuffre); “Hobbes
e il pensiero democratico nella Rivoluzione inglese e nella Rivoluzione
francese, in »Rivista critica di storia della filosofia”; “Il positivismo
giuridico inglese: Hobbes, Bentham, Austin, Milano, Giuffre); Il partito
politico nel pensiero dell'illuminismo e della Rivoluzione francese, Milano,
Giuffre); Le dottrine politiche di Montesquieu e di Rousseau, Milano, La Goliardica
Stampa); Il positivismo giuridico, in »Rivista Internazionale di Filosofia del
Diritto«, “Il concetto di diritto” (Milano, Einaudi); “Considerazioni sul ‘significato’
della proposizione, ‘I giudice crea diritto«, in »Rivista Internazionale di
Filosofia del Diritto«; Illuminismo e legislazione, Milano, Edizioni di
Comunita); Leggi penali e liberta del cittadino, in »Comunita«, Montesquieu,
Rousseau e la Rivoluzione francese, Milano, La Goliardica); dispense del corso
di Storia delle dottrine politiche, Milano); Quattro Punti, in »Rivista
Internazionale di Filosofia del Diritto«, Liberta e virtu nel pensiero politico
di Robespierre, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino); Considerazioni
sull'idea di repubblica federale nell'illuminismo francese, in »Studi
Sassaresi”,Liberta e virtu nel pensiero politico di Robespierre, Milano, Istituto
Editoriale Cisalpino); Filosofo e giurista liberale, Milano, Edizioni di
Comunita); Filosofia politica e Filosofia della pena, in Tradizione e novita
della filosofia della politica, Atti del Primo Simposio di Filosofia della
Politica, Bari, 11-13 maggio 1970, Bari, Laterza); Pigliaru: La figura e
l'opera, testo della commemorazione tenuta i125 giugno 1969 nell' Aula Magna
dell'U niversita di Sassari, in »Studi sassaresi«, Serie Ill, 11 (1968-1969),
Milano); Le elezioni e il liberalismo. Autonomia dell'Universita e neo-corporativismo,
in »La Rassegna Pugliese«, Anti-Hobbes, ovvero i limiti del potere supremo e il
diritto co-attivo dei cittadini contro il sovrano (Milano, Giuffre);
Anti-Hobbes o il diritto co-attivo dei cittadini --; Considerazioni suI diritto
di resistenza e liberalismo, in »Studi Sassaresi«, Ill, Autonomia e diritto di
resistenza, Milano); La dottrina penale nella filosofia giuridica del
criticismo, in Materiali per una Storia della Cultura Giuridica, ICorso di
filosofia del diritto, Ferrara, Editrice Universitaria); La filosofia della
pena nei secoli XVII e XVII: corso di filosofia del diritto, Ferrara, De
Salvia). Discutendo giurisprudenza con Treves, pone il problema che sarebbe
stato al centro di tutta la sua vita di uomo impegnato nello studio,
nell'insegnamento, nella vita civile. Interrogandosi suI rapporto fra “rivoluzione”
e “ordine giuridico”, vale a dire fra “fatto” (de facto) e “diritto” (de iure),
giunge alIa conclusione che da un punto di vista epistemico-doxastico-giudicativo-conoscitivo-descrittivo
non e possibile distinguere tra ordine giuridico e regime di violenza,
autoritatismo, perche il diritto non e giusto per sua intrinseca natura, ma
soltanto se e concretamente rivolto ad attuare il valore del giusto e rispetto
della persona umana. Il rapporto fra forza autoritaria e la forza della legge,
che da il titolo a uno suo saggio, e la relazione fra diritto o gius come
valore, costituisce infatti la questione su cui non cessa mai di interrogarsi,
nella prospettiva del fondamento metafisico (escatologico, propriamente) del
concetto di ‘giure’ non e riducibile alla volizione o ragione pratica del
legislatore propriamente adgiudicato (alla Aristotele). In questo modo,
Cattaneo indica la ricerca del giusto come compito specifico della filosofia
del diritto e pre-annuncia il suo intero percorso filosofico
caratterizzato da un assunto basilaro. La filosofia, come assere Socrate, ha il
suo carattere precipuo nel porre un problema piuttosto che nel risolverlo o
dissolverlo, e, come nel mito platonico della caverna, l’analisi concettuale si
muove suI piano della trascendenza escatologica, diverso e superiore a quello
della realta empirica o naturale. Anche la filosofia giuridica, in quanto
filosofia, e aperta alla escatologia metafisica e, avendo come base la
conoscenza del codice u ordine del diritto romano-italiano *positivo*, pone il
problema della sua valutazione escatologica alIa luce del valore della dignita kantiana
umana e del concetto di un “stato di diritto”. Compito del filosofo non e dunque
*descrivere* il diritto positive fattico empirico esistente, ma conoscerlo per
condurne una meta-analisi critica al fine del suo adeguamento al modello ideale
platonico socratico di giustizia contro il neo-trasimaco di Hart. Il problema
giuridico della rivoluzione. Il concetto
di rivoluzione nella scienza e nel diritto, Milano-Varese. Neokantismo nella filosofia
del diritto di Treves, in Diritto, cultura e liberta. Diritto e forza. Un
delicato rapporto, Paova. La filosofia del diritto: il problema della sua identita,
in Filosofia del diritto. Identita scientifica e didattica oggi, Cattania. IL
SAGGIO DI MARIO A CATTANEO “CARLO GOLDONI E ALESSANDRO MANZONI
ILLUMINISMO E DIRITTO PENALE IL tema del rapporto tra Diritto e
Letteratura è stato più volte trattato dal Prof. Mario Cattaneo che ha
pubblicato i seguenti saggi: ”Riflessioni sul <De Monarchia> di Dante
Alighieri” del 1978, “L’Illuminismo giuridico di Alessandro Manzoni” pubblicato
nel 1985 nelle Memorie del Seminario della Facoltà di Magistero di Sassari.,
“Carlo Goldoni e Alessandro Manzoni. illuminismo e diritto penale” nel 1987 e
“Suggestioni penalistiche in testi letterari “ del 1992. Nella Introduzione del
volume su Goldoni e Manzoni rileva che i rapporti tra diritto e letteratura e
la discussione di problemi giuridici in opere letterarie non sono stati in
generale molto studiati; non mancano tuttavia alcune ricerche concernenti
soprattutto il diritto nel teatro Sono stati compiuti degli studi sul
significato giuridico di alcune opere di Shakespeare da R. von Jhering
(1818-1892) e J. Kohler (1849-1919) ed è stato esaminato il
pensiero di alcuni poeti tra cui in Italia soprattutto Dante del quale si sono
occupati Francesco Carrara (1805-1888), Vaturi , Giorgio Del
Vecchio (1878-1970), Mossini e lo stesso Cattaneo . Vi
sono importanti opere della letteratura europea che hanno affrontato problemi
giuridici rilevanti come il “Michael Kolhaas” pubblicato nel 1810 da H.
von Kleist (1777-1811) e “Delitto e Castigo” di Dostoevskijj ,l’ Autore
rileva peraltro che la presenza di temi giuridici nella letteratura è
particolarmente rilevante nell’illuminismo data la sensibilità civile di questo
movimento. Il volume è dedicato all’esame degli aspetti giuridici – soprattutto
di diritto penale – di due grandi autori italiani : Carlo Goldoni ed Alessandro
Manzoni. Cattaneo rileva l’accostamento tra i due grandi letterati deriva
da alcuni elementi di contatto : Goldoni passò l’ultima parte della vita in
Francia e vide il declino dell’ancien regime francese e Manzoni trascorse parte
della giovinezza in Francia nel periodo napoleonico. Goldoni visse gli ultimi
anni della sua vita a Parigi nei primi anni della Rivoluzione francese ma non
sappiamo come abbia seguito le fasi della stessa mentre Manzoni li seguì e scrisse
l’ode “Del trionfo della libertà” che manifesta le opinioni del suo Autore e
verso la conclusione della vita scrisse “La rivoluzione francese del 1789 e la
rivoluzione italiana del 1859” un saggio che fu pubblicato postumo e che,
secondo Cattaneo, è ispirato a sentimenti di libertà i due
scrittori hanno un orientamento differente Goldoni, bonario ed
ottimista, esamina gli aspetti gioiosi della vita pur con una punta di
satira e critica della società mentre Manzoni esamina gli aspetti essenziali e
drammatici della esistenza umana, sotto il profilo religioso Goldoni
risulta tiepido ed alquanto indifferente mentre Manzoni nelle sue opere
affronta il problema religioso. Cattaneo evidenzia che l’accostamento tra
i due letterati è già stata istituita da alcuni studiosi e cita l’opinione
espressa da Ferdinando Galanti nel 1973 che evidenzia che Goldoni diede
all’ Italia la nuova commedia, il ritratto della vita sulla scena, Manzoni è
importante per la nuova tragedia ed il romanzo lasciando un popolo di caratteri
originali, vivi e che rimarranno nella memoria di tutti come figure casalinghe,
parlanti, che saranno ereditate di generazione in generazione quale caro tesoro
di famiglia. Galanti ritiene che Manzoni abbia continuato , nel cammino della
verità, l’opera di Goldoni. Questo giudizio è ripreso da Federico
Pellegrini in uno scritto del 1907 che indica come elemento comune <il
rispetto della natura> e ricorda i giudizi favorevoli di Manzoni su Goldoni
in materia di lingua. Pellegrini rileva che nelle Commedie di Goldoni come nei
Promessi Sposi l’esuberanza della fantasia non offende la sobrietà dell’insieme
e vi è una processione di personaggi buoni e cattivi al di sopra dei quali vi è
una idealità: la vittoria del bene sul male, questo è la morale di tutti i
drammi. Pellegrini raffronta ed accosta i personaggi delle opere dei due
letterati e conclude affermando che: i geni si incontrano . Il Mazzoleni ha
istituito un confronto fra “I Promessi Sposi” e “La Putta onorata”
commedia in cui Bettina, fidanzata di Pasqualino, viene rapita dal marchese
Ottavio. Le coincidenze tra le due opere peraltro escludono l’influsso di
Goldoni su Manzoni, per cui vi è affinità non dipendenza. Il Petronio nel
suo libro ”Parini e l ‘illuminismo lombardo” mette in rilievo che. “ben quattro
volte l’Italia ha tentato una letteratura realistica” : “Una prima volta con
l’illuminismo, col Parini e il Goldoni; una seconda con il romanticismo
lombardo, i tentativi generosi del Berchet nel verso e i risultati luminosi del
Manzoni nella prosa; una terza col verismo meridionale e la soluzione geniale
ma singolare, senza seguito, del Verga; una quarta in questo secondo
dopoguerra” Lina Passarella ha associato Goldoni, Manzoni e
Collodi nel suo studio “Goldoni filosofo” ed ha definito i tre letterati “i più
grandi umoristi del mondo” scrivendo che “Mentre il Manzoni narra di lotte
intime di uomini travolti dalla malvagità e Collodi sorride delle cadute e
degli sforzi di quel Pinocchio fatto di legno ed emotivo e vivo di tutti gli
elementi dell’essere umano, sintesi di tutta l’umanità aggrappantesi sulla
ripida china che conduce a essere degni di chiamarsi umani, il sorriso col
quale Goldoni guarda i suoi attori dice che il suo problema è la socialità:
scontri ed incontri, beffe e incomprensioni, cadute e risollevamento nelle
opinioni altrui” Cattaneo evidenzia anche che un breve cenno
comparativo tra Goldoni e Manzoni sotto il profilo giuridico è svolto anche da
A. C. Jemolo il quale scrive a riguardo che Goldoni, che aveva studiato giurisprudenza,
cercò nella commedia “L’Avvocato veneziano” di darci una figurazione di
avvocato virtuoso, per cui la toga è davvero una divisa di soldato: Manzoni nel
mondo del diritto non ci ha lasciato che la immagine imperitura di
Azzecca-garbugli, il ricordo caricaturale delle Gride dei Governatori e quello
del conte-zio, alto burocrate del suo tempo, il quadro atroce dei giudici della
Colonna infame. Padoan ha rilevato in un suo scritto che << anche
oggi, e non senza qualche ragione, potremmo indicare in Goldoni una polemica
contro l’ozio nobiliare, anteriore al Parini; un atteggiamento di interesse
verso il mondo degli umili, che non fu senza influenza sul
Manzoni…>>> Cattaneo conclude l’introduzione al volume
affermando che le citazioni prima esposte sono sufficienti a giustificare la
trattazione dei due autori in un unico volume , la sua analisi prende in
considerazione la visione del problema giuridico dei due scrittori ed analizza
il pensiero giuridico nelle sue premesse di fondo .nelle sue fondazioni
filosofiche , nella misura in cui fare questo è possibile; a tal fine ritiene
che l’elemento unificatore dei due autori in relazione al diritto, indicato
anche nel titolo è l’illuminismo L’autore evidenzia che nel Goldoni
avvocato, difensore della professione forense, che mette in rilievo diversi
problemi giuridici in molte sue commedie, si risente , in modo non marcato,
l’influenza dell’Illuminismo , che è la radice della sua satira sociale, della
sua garbata critica della nobiltà e delle disuguaglianze sociali, come in
Manzoni critico della giustizia umana e della incertezza giuridica, che
satireggia i pubblici funzionari e gli avvocati, raccogliendo l’eredità
del grande nonno Cesare Beccaria (1738-1794) In conclusione Cattaneo
ritiene che, oltre le apparenti differenze,.<< sia rintracciabile, nel
pensiero di Goldoni e di Manzoni, il filo conduttore dato dai principi
fondamentali dell’illuminismo giuridico, principi che si possono individuare
essenzialmente nella certezza del diritto e nella dignità della persona
umana>> Nel primo capitolo del volume l’autore riferisce
degli <Studi su Goldoni avvocato> rilevando che la critica ha tenuto
presente in modo primario del significato letterario delle sue opere un
breve cenno agli studi giuridici di Goldoni era stato fatto da un grande
recensore contemporaneo al commediografo Friedrich Schiller
(1759-1805) nelle due recensioni alla traduzione tedesca dei
“MÉMOIRES.” nella letteratura italiana Zanardelli, importante esponente dell’Italia
risorgimentale, cita Goldoni in alcuni passi del volume “L’Avvocatura”
soffermandosi sulla figura della commedia “L’Avvocato veneziano” delineato come
il tipo ideale dell’avvocato. Gli scritti italiani più importanti
dedicati a Goldoni avvocato, scarsamente ricordati nelle bibliografie
goldoniane, sono opere di due studiosi parenti di Cattaneo. Il primo è
l’articolo “Carlo Goldoni avvocato” di Alessandro Pascolato (1841-1905)
il secondo è di Mario Cevolotto , avvocato di Treviso Il Pascolato
rifiuta la tesi che Goldoni sia stato un dilettante della giurisprudenza ed
afferma la reale e profonda cultura giuridica attestata dall’esercizio
dell’attività forense a Pisa dove vinse persino tre cause in un mese e che
evidenziano il carattere schietto e buono anche in mezzo ai volumi dei dottori
; il Cervolotto esamina gli studi giuridici di Goldoni di tre anni a Pavia, ad
Udine nel 1726, la sua attività di coadiutore del cancelliere criminale a
Chioggia nel 1728 e la sua laurea in legge a Padova del 1731. Un capitolo è dedicato
alla attività professionale a Pisa (1744-1748) dove esercitò più nel criminale
che nel civile. Il penultimo capitolo è dedicato all’esame degli aspetti
giuridici delle commedie goldoniane specie la commedia “L’Avvocato veneziano”
che costituisce una esaltazione del foro veneto e altre note commedie.
Cervolotto ritiene che Goldoni fu senza dubbio giurista, oltre che avvocato di
valore non certo mediocre o comune evidenziando i buoni studi benché saltuari
da lui compiuti e la sua conoscenza di molte questioni giuridiche presenti
nelle sue opere . Cattaneo cita anche gli studi Gaetano Cozzi e di Gianni
Zennaro Il secondo capitolo è intitolato “Goldoni, la procedura criminale
e Il problema penale” e Cattaneo riporta un passo dei “Mémoires” di
Goldoni che tratta il tema della procedura criminale ed è commentato dal
Pascolato che rileva che <<quella procedura criminale, colla continua
ricerca della verità, coll’assiduo studio dei caratteri, lo aveva ammaliato: è
una lezione interessantissima per lo studio dell’uomo. Di verità e di caratteri
Goldoni faceva allora provvisione per i giorni, ancora lontani, della sua
gloria. E intanto voleva diventare cancelliere>> Goldoni
sottolinea la presenza nel diritto vigente di limiti posti all’inquisizione
dell’imputato, a tutela di questi ma non appaiono nelle sue opere chiari
intenti riformatori della procedura criminale. IL terzo capitolo è intitolato
“L’Avvocato veneziano : Goldoni fra diritto civile e diritto naturale” Cattaneo
rileva che Goldoni stesso mette in rilevo i due fondamentali temi della
commedia : la difesa della onorabilità della professione forense mettendo in
scena la figura di un avvocato onesto ed onorato e la contrapposizione di due
sistemi giuridici e giudiziari, quello di diritto comune e quello veneto, dando
a quest’ultimo la preferenza; la commedia come è stato evidenziato da
alcuni studiosi, rompe una tradizione letteraria e teatrale di derisione e
messa in cattiva luce della figura dell’avvocato, dell’uomo di legge che
troveremo invece nella figura completamente negativa del dottor Azzeccagarbugli
ne “I Promessi sposi” Il quarto capitolo si intitola “Il
giusnaturalismo illuministico di Goldoni: <<La Pamela>> e altre
opere” Cattaneo rileva che le radici illuministiche e giusnaturalistiche
del Goldoni si manifestano in rapporto alla procedura penale, al diritto
penale, al problema delle fonti del diritto, ai rapporti fra la funzione del
giudice e le opinioni dei giuristi. Il giusnaturalismo e l’Illuminismo di
Goldoni si manifestano soprattutto nelle opere teatrali aventi come oggetto , o
come sottofondo, il tema fondamentale della uguaglianza fra gli uomini, al di
là delle differenze fra le classi sociali. Tra le opere significative per
questa prospettiva giuridica teatrali emergono “La Pamela”, “Il Cavaliere e la
Dama” , “Il Feudatario” “Le femmine puntigliose” il dramma giocoso per musica
“I portentosi effetti della Madre Natura” e la tragicommedia (così definita
dall’autore stesso) in versi “La bella selvaggia” che trattano il contrasto tra
natura e società, infine la commedia in versi “La peruviana” che vengono
esaminate negli aspetti più essenzialmente rilevanti sotto il profilo
filosofico-giuridico dall’autore che conclude il capitolo
affermando che : “Quando si trattava dei valori supremi, come la pace, anche
Goldoni sapeva essere religioso e invocare la grazia del cielo” La
seconda parte del volume è dedicata all’analisi di Alessandro Manzoni. Il
primo capitolo si intitola “Studi su Manzoni e il diritto” e Cattaneo
passa in rassegna gli studi esistenti dedicati espressamente ed esclusivamente
o all’idea di giustizia nel pensiero di Manzoni, o agli aspetti giuridici della
sua opera. L ‘autore commenta il lungo articolo di Michele Zino del 1916 “Il
diritto privato nei “ Promessi Sposi” , esamina poi l’articolo di Alessandro
Visconti “Il pensiero storico-giuridico di Alessandro Manzoni nelle sue
opere” del 1919. Il più importante e più completo studio sul pensiero
giuridico di Manzoni è il volume di Roberto Lucifredi del 1933 “Alessandro
Manzoni e il diritto” . Tale volume si conclude con alcune considerazioni
generali sulla mentalità giuridica di Manzoni e Lucifredi ritiene che Manzoni
era molto dotato per lo studio del diritto e sarebbe divenuto un ottimo cultore
delle discipline giuridiche, un ottimo magistrato, un ottimo avvocato nel senso
più nobile della parola e della funzione. . Nel 1939 Fortunato Rizzi ha
pubblicato il volume “Alessandro Manzoni. Il Dolore e la Giustizia” di
cui la terza parte è dedicata al problema della giustizia. Nel 1942 è uscito il
saggio di Enrico Opocher “ Il problema della giustizia nei Promessi
Sposi” in cui ribadisce che tutto il capolavoro manzoniano è
essenzialmente un poema sulla giustizia e conclude affermando: ”I Promessi
Sposi non costituiscono soltanto la storia attraverso cui la Provvidenza sana
le sofferenze del giusto, ma anche, e vorrei dire soprattutto, la storia
attraverso cui la Provvidenza feconda queste sofferenze, facendone lo strumento
della redenzione degli oppressori” Nel 1961 il Tanarda ha pubblicato uno
scritto “Il diritto nell’opera di Alessandro Manzoni” in cui ribadisce
che Manzoni era cresciuto in una famiglia coperta da una grande aureola
giuridica, nipote di Cesare Beccaria, familiare dei Verri, amico di Rosmini; per
lo scrittore lombardo l’uso del diritto autentico non può mai contrastare con
la morale. Concludo ricordando la strenna natalizia dell’editore Giuffrè
pubblicata in occasione del bicentenario manzoniano con il titolo “<Se
a minacciare un curato c’è penale>”Il diritto nei Promessi Sposi” con saggi
di noti docenti quali E. Opocher e S. Cotta. (1920-2007) Il secondo capitolo si
intitola “Valori morali, giustizia, diritto naturale” Cattaneo ritiene
opportuno esaminare la concezione manzoniana della giustizia, anche nelle sue
premesse teoriche sulla base sia di alcuni brani, di pensieri inediti e di
scritti di sapore filosofico. Dalla analisi di due postille redatte da Manzoni
e da un brano scritto dallo stesso Cattaneo deduce che il grande scrittore
lombardo esalta la tesi della certezza delle verità morali, tra le quali l’idea
del giusto istituendo un paragone tra verità morali e verità
matematiche. Secondo
Cattaneo questo brano manzoniano è affine alla dottrina platonica delle idee
espressa nel dialogo “Parmenide” , vi è inoltre una affinità con Kant che
afferma che non è cosa assurda pretendere di far derivare il concetto di virtù
dall’esperienza, perché ciò significherebbe fare della virtù qualcosa di
ambiguo e di mutevole secondo le circostanza. In realtà è sulla base
della idea di virtù che si giudicano gli esempi empirici di virtù e di
comportamento morale. L’Autore richiama anche la filosofia di Rosmini ,
il più grande filosofo italiano dell’Ottocento , la cui filosofia si fonda
sull’idea dell’essere e cita un brano del “Nuovo saggio sull’origine delle
idee” .Va anche evidenziato che Manzoni ribadisce una sostanziale e piena
identità fra morale e religione, come si rileva dal capitolo III delle
“Osservazioni sulla morale cattolica “ dedicato alla critica della distinzione
fra filosofia morale e teologica . Cattaneo sottolinea che per Manzoni le leggi
umane non raggiungono mai la giustizia, viceversa, la religione conduce
naturalmente alla giustizia, senza ostacoli, perché si appella alla coscienza,
perché porta a dare volontariamente (in vista di un bene futuro), il che non
provoca opposizioni, ma solo ringraziamenti e benedizioni. Il capitolo
terzo si intitola “Le gride e l’illuminismo giuridico ne < I Promessi
sposi>” . Cattaneo rileva che se il problema morale e religioso della
giustizia pervade tutta l’opera di Manzoni, ed in particolare il suo celebre
romanzo, Stefano Stampa, figliastro dello scrittore lombardo, narra che Manzoni
dichiarò che la prima idea del suo romanzo gli venne dalla lettura della grida
fatta vedere dal dottor Azzeccagarbugli a Renzo, nella quale sono minacciate
pene contro coloro i quali <con tirannide> e con minacce costringono un
prete a non celebrare un matrimonio . Dall’esame dei brani di ”Fermo e
Lucia” e dei “I Promessi sposi” risulta che Manzoni muove una pesante
critica al sistema, in quei tempi diffuso, di consorterie e di caste , inoltre,
descrivendo criticamente la società e la situazione giuridica di Milano sotto
la dominazione spagnola, indica chiaramente il modo in cui le leggi penali non
dovrebbero essere e le caratteristiche che le stesse non dovrebbero avere
Il risultato pratico di quella legislazione è da un lato l’impunità del
colpevole e dall’altro la vessazione degli innocenti e dei privati indifesi da
parte dell’autorità Manzoni raccoglie l’eredità dell’Illuminismo
giuridico nella critica alla proliferazioni delle leggi e dell’incertezza
giuridica, che può sorgere sia dalla mancanza di determinazione precisa delle
fattispecie penali, sia dalla enumerazione eccessivamente prolissa dei delitti,
a questa critica è connessa la denuncia dell’arbitrio degli esecutori della
legge, che possono aumentare a capriccio le pene delle gride ed ai quali è
sottoposta ogni mossa dei cittadini Lo scrittore lombardo critica anche
la comminazione di pene sproporzionate , misura considerata ingiusta ed
inefficace per la prevenzione dei crimini , l’impunità dei colpevoli è indicata
dagli illuministi come il risultato pratico che spesso deriva dalla eccessiva
severità o crudeltà delle pene. Il quarto capitolo si
intitola “La critica dell’utilitarismo e della prevenzione sociale” .
Cattaneo sottolinea che la sfiducia di Manzoni nella giustizia penale umana si
traduce in un atteggiamento critico verso la prevenzione generale come compito
e funzione della pena, che si riscontra in numerosi passi de “I Promessi Sposi”
; l’autore cita a proposito il brano del capitolo V in cui è inserita la
conversazione alla tavola di Don Rodrigo, a cui assiste Padre Cristoforo,
relativa al tema della carestia. Il conte Attilio raccoglie la tesi che la
carestia dipenda dagli intercettatori e dai fornai che nascondono il grano e
ribadisce che bisogna impiccare senza misericordia tali delinquenti senza
processi, in tal modo il grano sarebbe saltato fuori da tutte le parti. .
Questo brano rappresenta la mentalità violenta ed aggressiva che sta alla base
della teoria della pena come <esempio>, cioè una pena esemplare
esorbitante rispetto alla effettiva colpevolezza del reo , mirata
esclusivamente a <dare un esempio> agli altri, per uno scopo sociale ed
utilitaristico; in tal modo viene peraltro giustificata la punizione
dell’innocente. In altri passi del celebre romanzo manzoniano si rileva un
atteggiamento mirato ad indicare non solo l’ingiustizia ma anche l’inefficacia
e l’inutilità della prevenzione generale, unitamene ad una condanna della
moltiplicazione dei supplizi, che finisce per favorire l’impunità, come messo n
evidenza dagli scritti di molti giuristi illuministi. Significativo è a
riguardo la conversione dell’Innominato e le ragioni per cui il potere pubblico
non intende procedere contro lo stesso per i suoi passati delitti, in al modo
viene dimostrata l’inefficacia della punizione nel caso di una persona che ha
cambiato vita perché questa potrebbe avere solo l’effetto opposto a quello
voluto Nel penultimo capitolo il commento di Manzoni sulla situazione del
bando di Renzo dal Ducato di Milano dopo le vicende della giornata di San
Martino denota la tesi dell’impunità come risultato dell’eccessiva
proliferazione di minacce legislative e del carattere esorbitante, situazione
che porta ad una frattura tra il comando legislativo e l’esecuzione della
pena. Cattaneo conclude il capitolo istituendo un parallelo sostanziale
ed oggettivo (se pure a qualcuno potrà apparire sforzato) tra Manzoni e Kant,
dato che: “la visione della morale, nonché del diritto, ed in particolare
del diritto penale è svolta in una prospettiva anti-empiristica e
ani-utilitaristica, ed è caratterizzata da un <liberalismo cristiano >,
vòlto a difendere la persona umana da ogni prevenzione collettivistica e
<sociale>” Il quinto capitolo si intitola“ La storia della
Colonna Infame” L’autore ribadisce che il motivo fondamentale della
critica conto la ragione di stato, contro l’utilitarismo sociale, contro il
prevalere dell’interesse generale e sociale sui diritti individuali sta
alla base dello scritto “Storia della Colonna Infame” del 1842 due anni dopo
l’edizione definitiva de “I Promessi Sposi”. . Di recente tale opera ha sollevato
critiche severe sotto il profilo storiografico e si è accusato il Manzoni di
non essere uno storico , ma di guardare alla storia da moralista, sul modello
del cosiddetto <astrattismo> illuministico settecentesco , e quindi di
non studiare le vicende storiche con partecipazione e simpatia ma di giudicare
i comportamenti umani secondo un codice morale superiore Tale critica è stata
formalizzata da Benedetto Croce . Dopo una lunga ed attenta analisi dello
scritto e di alcuni dei suoi maggiori studiosi Cattaneo conclude che i punti di
vista in relazione ai quali il volume manzoniano ha dato un importante
contributo sono tre: 1) Manzoni ha dato un contributo alla comprensione della
storia, affermandone la non inevitabilità e questo punto ha suscitato le maggiori
discussioni interpretative e le reazioni negative dei seguaci dello storicismo.
2) Tale scritto manzoniano, come ha sottolineato Giuseppe Rovani, <non è per
nulla inferiore alle altre opere del Manzoni , anzi rivela il suo ingegno e la
sua dottrina e la profonda sua acutezza anche nelle materie
giuridiche> Tale scritto è un’opera giuridica, è senza dubbio la più
giuridica del Manzoni. 3) Il significato più importante del libro è quello
morale, come rilevato da Tenca , Rovani e Passerin d’Entreves (1902-1985) e
consiste nella difesa del libero arbitrio , della libertà del volere e nella
rivendicazione della responsabilità morale dell’uomo. Libertà interiore
dell’uomo, responsabilità morale, dignità umana; questo è il trinomio in cui
Manzoni fonda la sua lezione morale o, come potremmo dire, la sua lezione
etico-giuridica Il sesto capitolo si intitola “Manzoni e la
criminologia” L’autore evidenzia che l’analisi della “Storia della
Colonna Infame” ha portato a mettere in rilievo l’idea del libero arbitrio
dell’uomo quale elemento centrale dell’impostazione manzoniana dei problemi
giuridico-penali, della sua condanna dell’operato dei giudici milanesi del
1630. Vi sono studiosi come Graf e Sergi che hanno creduto di vedere in
tale opera di Manzoni ed in alcune figure di criminali de “I Promessi Sposi”
dei precorrimenti delle correnti criminologiche sviluppatesi nell’ambito della
Scuola positiva di diritto penale, che, rileva Cattaneo, ha respinto l’idea del
libero arbitrio dal problema dell’imputabilità penale ed ha seguito la strada
del determinismo . L’autore esamina in particolare lo scritto di C Leggiadri
Laura “Il delinquente ne <Promessi Sposi> rivolto ad interpretare il
pensiero manzoniano in chiave naturalistico-deterministica e lo
scritto del Preve “Manzoni penalista” che segue l’interpretazione del Leggiadri
Laura e delinea nelle figure dei criminali del romanzo i tipi classificati
dalla scienza lombrosiana. Dopo un attento esame critico di numerosi passi
delle opere dei due autori prima citati e di altri studiosi Cattaneo
conclude che non ritiene valida la concezione di Manzoni come precursore del
positivismo penale e criminologico, dato che per i positivisti non è questione
di giustizia e di libertà del volere, bensì di determinismo e di difesa
sociale Il settimo si intitola “Manzoni teorico generale del
diritto ?” Secondo l’autore la forma mentis giuridica di Manzoni appare
evidente anche negli scritti storici e storico-giuridici, in particolare essa
si manifesta in modo tipico nel “Discorso sur alcuni punti della storia
longobardica in Italia” oltre che nello scritto postumo sulla Rivoluzione
francese. Cattaneo mette in evidenza un aspetto meno noto che è peraltro
presente nel libro: le osservazioni concernenti il rapporto tra Romani e Longobardi
e le leggi regolanti la loro convivenza, osservazioni che sono di natura di
<<teoria generale del diritto>. Le osservazioni riguardano in
particolare la concessione data agli Italiani di vivere secondo la legge romana
che fu considerata dal Muratori <un bel tratto di clemenza, e una prova, fra
le mole, della dolcezza e saviezza dei conquistatori longobardi> Manzoni
dimostra una sensibilità moderna perché si preoccupa secondo Cattaneo di
rendersi conto di come fosse strutturato l’ordinamento giuridico sotto i
Longobardi e evidenzia la <struttura a gradi> dell’ordinamento giuridico,
per dirla come Kelsen e definisce alcune norme <leggi
costituzionali>, le leggi così designate sono le <norme di competenza>
di Ross e le <norme secondarie> di Hart , cioè le norme che
conferiscono il potere di emanare, modificare, abrogare le altre norme,
concernenti direttamente il comportamento dei cittadini. Manzoni si preoccupa
di esaminare quali fossero le norme di statuto, di competenza o secondarie,
espressione del potere longobardo, le quali regolavano la permanenza delle
leggi romane, che regolavano il comportamento dei cittadini di origine
romana. L’ottavo capitola si intitola “Manzoni e la Rivoluzione
francese” Il rapporto tra Manzoni e la Rivoluzione francese durò in varie
forme per tutta la vita del letterato lombardo. Questi visse molti anni in
Francia nel periodo napoleonico, nel 1800 a 15 anni scrisse il “Trionfo della
Libertà“ un poemetto di sentimenti giacobini ed anti-monarchici con la
condanna delle spietate repressioni penali. Nel ”5 Maggio” Manzoni fornisce un
giudizio equanime su Napoleone dapprima glorioso e poi rapidamente caduto
e rileva la caducità degli idoli umani Nel dialogo “Dell’Invenzione”
Manzoni esamina la figura di Robespierre ed abbandona il cupo giudizio di
<mostro> del politico francese pur non abbandonando la tesi di una
responsabilità avuta da Robespierre nel Terrore ridimensionata dalle moderne
storiografie Lo studio che esprime nel modo più chiaro il rapporto di Manzoni
con la Rivoluzione francese è il saggio pubblicato postumo a cura di Ruggero
Bonghi “La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del
1859” I motivi su cui si basa La critica di Manzoni alla
Rivoluzione francese sono A) La mancanza di un giusto motivo per la
distruzione del governo di Luigi XVI e di una autorità competente nei deputati
del Terzo Stato che ne furono gli autori B) Questa distruzione avvenne
indirettamente ma effettivamente in conseguenza dei loro atti C) Il nesso
di queste cause con gli effetti indicati Le riforme legittime, sentite dal
popolo francese, avrebbero potuto avvenire per vie pacifiche e legali;
Manzoni peraltro non si rende conto che la sua critica non tiene conto della
situazione dell’ancien régime, in cui il potere trovava la legittimità dal
diritto divino mentre la critica da lui avanzata è accettabile entro i
presupposi giuridico-costituzionali creati dalla Rivoluzione francese Il
letterato lombardo sottolinea l’aumento del dispotismo dal Terrore, al
Direttorio, al bonapartismo come risultato immediato degli atti iniziali della
Rivoluzione francese. Trattando della “Dichiarazione francese dei diritti
dell’uomo” Manzoni discute il suo rapporto con la precedente Dichiarazione
americana sottolineando le differenze. Lo scritto di Manzoni ha senza dubbio il
merito di evidenziare il contrasto fra gli ideali e le realizzazioni pratiche
della Rivoluzione francese, nella sua critica lo scrittore lombardo critica,
come in altre opere, il potere politico umano che riveste in forme giuridiche
la sostanza dell’arbitrio e della prepotenza ed ad esso contrappone il valore
assoluto dell’idea del diritto , che è <una verità> Tale
considerazione induce Cattaneo a proporre un altro parallelo fra la posizione
di Manzoni e quelle di Kant e Robespierre. Kant ha negato il diritto di un
popolo alla rivoluzione ed ha considerato l’esecuzione di Luigi XVI un crimine
inespiabile ma nello stesso tempo è stato un convinto sostenitore della
Rivoluzione francese ; Robespierre <rivoluzionario legalitario, giudicato
non equamente dal Manzoni, fu un uomo dal forte sentimento giuridico e , nel
momento della sua caduta ,pur proscritto e ricercato all’Hotel de la
Ville, benché fosse esortato dagli amici a redigere un appello all’insurrezione
popolare esitò e si chiese <Au nom de qui?> come è attestato
dalla sorella Charlotte Nella lunga ed articolata conclusione
Cattaneo ribadisce che il pensiero giuridico di due letterati ha numerosi
elementi in comune e svolge alcune considerazioni sul metodo seguito. L’autore
evidenzia che il suo saggio ha <un taglio diverso> dagli studi citati
sull’attività forense di Goldoni , sul significato riformatore delle sue
commedie e sulle implicazioni politiche del pensiero di Manzoni. Il punto
di vista seguito nel volume dal docente è quello della considerazione a un lato
del diritto come <categoria autonoma>, dotato delle sue specifiche
caratteristiche e dall’altro del diritto inteso come fondato filosoficamente,
posto in relazione con problemi storici, politici e sociali. Lo studio degli
aspetti giuridici e dei problema del diritto nl pensiero e nell’opera di
Goldoni e Manzoni non è stato disgiunto all’esame dei temi della riforma
sociale e della riflessione politica nella loro attività letteraria. Il punto
di vista seguito sempre dall’autore , come da lui steso dichiarato, è
stato quindi¨<quello dell’ autonomia del diritto , ma non inteso
secondo una prospettiva meramente logico-formale, bensì basato su una
fondazione filosofica, e dotato di rilevanza politica. > . L’angolo visuale
usato come punto di riferimento per i due letterati è l’illuminismo giuridico.
L’illuminismo è coevo di Goldoni, che anticipa Rousseau nella
proclamazione del principio dell’uguaglianza naturale ed è aperto al problema
della riforma sociale ,come è riconosciuto da numerosi interpreti delle sue
opere. I rapporti tra Goldoni e l’illuminismo giuridico sono più evidenti nel
passo dei “Mémoires “ sulla procedura criminale e nelle commedie L’uomo
prudente e L’Avvocato veneziano . Manzoni è posteriore all’illuminismo ma
l’autore ha cercato di indicare la presenza di una eredità Illuministica , con
riferimento ai problemi giuridici, ne “I Promessi sposi” e nella
“Storia della Colonna infame” dove peraltro sono presenti degli elementi di
superamento delle concezioni illuministiche. Il docente ritiene di
rifiutare la tesi diffusa di coloro che interpretano Manzoni esclusivamente
dall’angolo visuale della linea agostiniana-pascaliana con venature
giansenistiche negando il profondo legame con l’illuminismo, in realtà Manzoni
si dimostra erede dell’illuminismo per l’habitus mentale razionalistico del suo
pensiero, per la sua considerazione della ragione e per la sua ricerca delle
radici razionali della fede; in tal modo il grande scrittore lombardo fa
propria l’eredità migliore dell’illuminismo, il filone etico-religioso che si
contrappone al filone ateo e materialistico di alcune correnti.
Ragonese e Caretti hanno bene sottolineato i rapporti
tra Manzoni e l’illuminismo. Cattaneo conclude il suo volume ribadendo
che il motivo comune fondamentale di Goldoni e Manzoni è il principio cristiano
ed illuministico (e kantiano) della dignità umana. In Goldoni questo
principio è meno evidente ma è legato soprattutto all’idea della comune natura
umana, al di là delle differenze sociali, che appare in numerose commedie ed
opere drammatiche, in Manzoni la difesa della dignità umana è svolta ad un
livello di maggior profondità ed è connessa ad una prospettiva religiosa come
traspare chiaramente dal testo recitato dal coro de “Il Conte di
Carmagnola” Nella Appendice viene riproposto lo studio di
Alessandro Pascolato “Carlo Goldoni Avvocato” pubblicato su “Nuova Antologia”
il 15 dicembre 1883 CAPITOLO V IL VOLUME DI MARIO A CATTANEO
“SUGGESTIONI PENALISTICHE IN TESTI LETTERARI” Nel 1992 Cattaneo ha
pubblicato il volume “Suggestioni penalistiche in testi letterari”. Il
libro, che è dedicato alla memoria del Prof. Renato Treves, per molti
anni ordinario di Filosofia del Diritto all’Università degli Studi di Milano,
tratta le opere di numerosi letterati. Il libro , che si articola in 12
capitoli ed una appendice, tratta di scrittori che nelle loro opere
hanno affrontato il tema della pena o problemi di natura giuridica. Il
lavoro , rileva l’Autore, non ha avuto una genesi unitaria Il primo
saggio scritto riguardava Giuseppe Parini (1729-1799), un “poeta civile”
rappresentante di un Illuminismo cristiano ed equilibrato , è seguito il saggio
su Collodi (1826-1890), l’uomo del Risorgimento che ha combattuto a Curtatone e
che mostra nel suo aperto scetticismo nei confronti della legge e dell’autorità
costituita una opinione diffusa di molti uomini dell’Italia post-unitaria tra
cui il grande giurista liberale Francesco Carrara (1805-1888) .Il terzo
saggio è stato dedicato a Foscolo (1778 -1827) che nello scritto <
L’orazione sulla giustizia> ed altri due scritti <La difesa del sergente
Armani> ed <una lettera al “Monitore Italiano”> tratta problemi
relativi alla pena Il primo saggio del volume si intitola “Studi Dante e
il diritto penale” Lo studio riguarda il rapporto tra il grande poeta
Dante (1265-1321) ed il diritto penale. . Cattaneo rileva che gli studi di
storici e filosofi del diritto che hanno trattato il pensiero giuridico di
Dante hanno trascurato l’aspetto penalistico. Dante non si è occupato di
diritto penale ma l’analisi del suo capolavoro mostra un elaborato sistema di
rapporti tra colpa e pena. Numerosi studiosi hanno rilevato che le pene crudeli
descritte nell’Inferno del poema dantesco sono molto lontane dalle prospettive
della legislazione penale moderna anche se occorre distinguere tra la
prospettiva morale e religiosa del poema dantesco e le finalità delle
legislazioni penali attuali Dante peraltro opera una distinzione tra peccati
puniti fuori e dentro la città di Dite che può corrispondere ad una
distinzione tra peccati e delitti, il più rilevante contributo indiretto dato
da Dante al diritto penale è il criterio di graduazione delle gravità delle
colpe e le corrispondenti pene come è stato evidenziato da Giorgio Del
Vecchio. Il maggior contributo diretto di Dante alla cultura
giuridica moderna sono l’affermazione del principio di uguaglianza e di
personalità delle pene e l’affermazione della volontà del volere dell’uomo
quale presupposto della conseguente valutazione del merito o del demerito delle
sue azioni. Cattaneo conclude che :” Certamente , fare apparire Dante
come un grande giurista, un grande penalista, può risultare sforzato e
retorico,…..Ma nello stesso tempo, non è assolutamente possibile e lecito
ignorare il contributo, diretto o indiretto, che Dante ha dato anche al diritto
penale; la Divina Commedia è un costante punto di riferimento per qualunque
problema, religioso, filosofico, umano; ricordo che mio Padre diceva che
nella Commedia <<c’è tutto>>” Nella introduzione ho accennato
a due recenti approfonditi studi su Dante ed il diritto , un tema caro a molti
studiosi Il secondo saggio si intitola “Giuseppe Parini e L’Illuminismo
giuridico”. Cattaneo rileva che Parini, sacerdote non per vocazione
ma uomo profondamente credente, fu sensibile a numerosi ideali illuministici di
riforma civile ed attraverso una delle sue Odi riprende le idee
illuministiche sul diritto penale, che propugnavano il principio umanitario della
doverosità della mitigazione delle pene considerando l’inefficacia di pene
eccessive in determinati contesti sociali. Vi è dunque una continuità di
principi da Parini, cattolico ed illuminista, a Manzoni e Rosmini (1797-1855),
cattolici liberali, una continuità di principi ed ideali umanitari relativi al
problema della pena e nell’ode Il bisogno è presente una concezione penale
cristiana ed illuminista. Cattaneo conclude il suo saggio affermando che
Parini poeta civile e morale interpreta il momento migliore dell’Illuminismo e
si fa portavoce dei suoi più significativi valori . Il terzo saggio si
intitola “Ugo Foscolo e la giustizia come forza”. L’Autore rileva
che notoriamente Foscolo fu un poeta impegnato nelle vicende politiche del suo
tempo segnato dalla rivoluzione francese e dall’epopea napoleonica. Negli
scritti di natura penalistica il poeta accoglie i principi della dottrina
giuridica illuministica, come la difesa della certezza del diritto ed il
rispetto delle garanzie processuali. Foscolo inoltre critica la teoria della
retribuzione morale e quella della prevenzione generale. Il quarto capitolo è
intitolato . “Le <veglie notturne> di Bonaventura e la critica dei
giuristi” un libro tedesco poco conosciuto in Italia, opera uscita anonima
nel 1805 a Penig (Sassonia) presso il poco noto editore F Dienemann , che
l’aveva pubblicata nel suo <Journal von neuen deutschen Original
Romanen>. Cattaneo evidenzia che nelle pagine dedicate a temi giuridici
viene messo in rilievo l’invito a rendere il diritto più umano ed a metterlo al
servizio degli uomini. La descrizione del giudice freddo paragonato ad una
macchina o ad una marionetta , il rimprovero ai giuristi che si assumono il
compito di tormentare i corpi, come i teologhi tormentano le anime, l’uccisione
della giustizia da parte dei tribunali, il richiamo al diritto naturale , che
dovrebbe essere il vero diritto positivo, la critica di una giurisprudenza
svincolata dalla morale sono chiari segnali di una aspirazione ad
umanizzare il diritto, specie quello penale. Il V capitolo è intitolato
“Heinrich Heine e la satira delle teorie della pena” L’Autore
analizza il breve scritto che Heine (1797-1856) aveva aggiunto quale appendice
al suo volume “ Lutezia”, opera scritta tra il 1840 ed il 1843. Lo scritto è
dedicato al problema della riforma delle prigioni ed alla legislazione
penale e porta il titolo <Gefaengnisreform und Strafgesetzgebung> .
Il saggio, pur nella brevità, è un esame attento delle teorie fondamentali
della pena. Cattaneo suggerisce che l’analisi critica del poeta si
traduce in una satira delle dottrine della retribuzione, dell’intimidazione e
dell’emenda e coglie i punti centrali di tali concezioni. Heine sottolinea
l’ingiustizia della teoria dell’intimidazione generale ed evidenzia il carattere
patriarcale e paternalistico delle teoria dell’emenda. Nell’esaminare il
principio di una prevenzione dei delitti commessi con mezzi diversi dalla pena,
Heine ritiene che bisogna agire con durezza , reclusione ed addirittura con la
pena di morte concepite come prospettiva di difesa sociale. Cattaneo rileva che
è sempre più chiara e più facile la parte negativa della filosofia penale ,
cioè la critica delle dottrine sulle pena che la parte costruttiva cioè
l’indicazione di un fine positivo nella funzione penale. Heine critica
inoltre il sistema carcerario filadelfiano e quello auburniano Il
capitolo VI è intitolato “Victor Hugo e la pena come fonte di delitti”
L’Autore rileva che il problema giuridico penale è presente nell’opera
letteraria di Hugo (1802-1885) con una severa critica del sistema penale
dell’epoca e la sua difesa della dignità dell’uomo. Il problema emerge
chiaramente nel celebre romanzo “Les Miserables” e nel suo protagonista
l’ex-forzato Jean Valjean. Il romanzo affronta il problema di una pena
sproporzionata ed inumana, che è causa di nuovi delitti e di una spirale
indefinita di reati e pene successive. Il tema è sviluppato nella figura
centrale di Valjean. Tutte le tragiche vicende del protagonista nascono
da un tentativo di furto dovuto alla miseria ed alla fame; a causa del furto di
un pezzo di pane ,che poi viene gettato via ,Valjean è condannato a 5 anni di
detenzione e, in seguito a tre successive evasioni di breve durata, la sua
detenzione dura ben 19 anni. Vi è una enorme sproporzione tra il
danno causato dal reato e la pena che trasforma ed indurisce Valjean, la cui
psicologia viene analizzata in profondità da Hugo. La pena continua a gravare
su Valjean anche dopo la liberazione per cui questi riesce a lavorare solo per
una giornata data la sua qualità di ex-forzato. Hugo critica sia
l’atteggiamento di diffida e di rifiuto di tutta la popolazione sia la macchia
di infamia stabilita dalla legge . Cattaneo rileva che è ammirabile la
battaglia combattuta da Hugo contro la pena di morte, la sua denuncia
della sproporzione tra la gravità dei delitti e le pene, la critica
dell’assurdo criterio nel valutare la recidiva. Queste battaglie sono
importanti contributi all’evoluzione del diritto penale ed alla difesa della
dignità umana. Il settimo capitolo è intitolato “Dostoevskij la
coscienza e la pena” . L’Autore evidenzia la centralità del tema del
delitto, della colpa e della pena nello scrittore russo, come è stato rilevato
nel profondo scritto di Italo Mancini , che ha evidenziato sia la validità di
una ricerca su Dostoevskij pensatore e filosofo sia che per lo scrittore
russo < la questione penale non rappresenta solo un contenuto ma il
contenuto>. Pietro Gobetti a proposito dei personaggi dello scrittore russo
ha rilevato che <I suoi personaggi non si sforzano mai di arrivare ad una
verità, ma piuttosto di chiarire e capire sé stessi>> Nel volume “I
ricordi della casa dei morti “ lo scrittore russo ricorda l’esperienza
personale della prigionia in Siberia e sottolinea chiaramente
l’incapacità del carcere di procurare l’emenda del reo dato che
Dostoevskij rileva che nel corso di parecchi anni non ha visto tra quella gente
il minimo segno di pentimento, il minimo rimorso per il delitto commesso; lo
scrittore russo indica anche nella solitudine e nella mancanza di
privatezza un elemento di particolare tormento della prigione. Il lavoro
nella prigione, rileva lo scrittore russo, non era faticoso ma era penoso
perché obbligato sotto la minaccia di un bastone. Dostoevskij evidenzia anche
l’ineguaglianza della pena per i medesimi delitti in relazione alla classe
sociale, da cui deriva l’ingiustizia e l’inefficacia della pena. Radicale è la
sua critica svolta nei confronti del regolamento carcerario e del comportamento
ottuso e crudele delle guardie carcerarie , severo è il giudizio sulla prassi
della fustigazione definita una piaga della società> Nel
<L’idiota> lo scrittore russo pone un giudizio duro e severo
sulla pena di morte in bocca al principe Miskin nelle prime pagine del
romanzo. Nel brano Dostoevskij sottolinea la svalutazione del carattere meno
afflittivo della decapitazione rispetto ai supplizi accompagnati da tormenti e
la sofferenza morale generata dalla attesa della esecuzione, che è peggiore
della sofferenza fisica. Nel romanzo “Delitto e castigo” Dostoevskij
evidenzia la tesi della necessità della pena giuridica quale espiazione della
colpa e come risultato del rimorso avvertito dal colpevole. La trama del
romanzo mette in luce la progressiva conversione, il rimorso e la ricerca di
espiazione del colpevole. Cattaneo sottolinea che il Leitmotiv del celebre
romanzo è la ricerca della espiazione sulla base di una spinta interiore e del
rimorso e che tale impostazione pone lo scrittore russo sulla linea del
Platone del Gorgia e di Boezio nel <Consolatio philosophiae>. La
conclusione giuridica processuale del romanzo rileva una sensibilità giuridica
moderna che pende in considerazione le circostanze attenuanti, le cause
sociali, psicologiche e morali del delitto ed il recupero morale e sociale del
colpevole. Il finale giuridico evidenzia la complessità del problema penale e
l’interesse di Dostoevskij , spirito umanitario e riformatore, per la
riforma del procedimento penale, d’altra parte, sul piano morale, rileva
il desiderio di espiazione che conduce all’emenda.
Dostoevskij manifesta l’atteggiamento del cristiano che si sente
corresponsabile delle colpe degli altri e riprende le parole di Cristo “Chi di
voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” Cattaneo ribadisce
che per Dostoevskij il punto che più conta è il rimorso per la colpa commessa e
la auto-condanna da parte del delinquente . La pena giuridica non ha rilevanza,
ciò che conta è il processo di autocondanna, di espiazione e di redenzione che
avviene nella coscienza del colpevole Il capitolo VIII è intitolato
“Tolstoj e la abolizione della pena” . L’Autore ribadisce che lo scrittore
russo postula una radicale abolizione del diritto penale in una prospettiva di
amore cristiano e di non violenza. I temi giuridici vengono affrontati da
Tolstoj un due opere “Resurrezione” e la novella “Il racconto di Koni”.
Il romanzo Resurrezione è fondato su una vicenda processuale , la
condanna ad alcuni anni di deportazione in Siberia della protagonista Ekaterina
Maslova , diventata prostituta a seguito di tristi vicende. Tolstoj analizza il
processo e la successiva pena dei forzati deportati ed evidenzia che negli
istituti di pena gli uomini erano sottoposti ad ogni genere di umiliazioni
inutili, catene, teste rasate , divise infamanti per cui si inculcava l’idea
che qualsiasi violenza, crudeltà e atrocità era autorizzata dal governo per chi
si trovava in prigionia nella sventura. Lo scrittore sottolinea il distacco tra
la condanna e la concreta esecuzione della pena con le sue brutalità. In
Tolstoj il tema fondamentale è l’indicazione dell’ingiustizia dell’intero
sistema repressivo-penale e la sottolineatura delle cause sociali dei delitti
come Victor Hugo. Lo scrittore suggerisce anche la necessità di
abolire la pena e sostituirla con il perdono, un ideale sublime ma difficile da
realizzare in pratica e che indica tutta la complessità del problema, Cattaneo
si chiede se si tratta “del sogno di un visionario , una utopia generosa o di
un ideale verso cui la società deve tendere.” Il nono capitolo è
intitolato “Pinocchio e il diritto” L’Autore rileva che l’opera di
Collodi è stata oggetto di numerose indagini . Le ricerche sulla natura
pedagogica ed educativa sono state sviluppate da Bertacchini , Il testo di
Collodi è stato esaminato sotto il profilo filosofico e teologico nei due
volumi scritti da Vittorio Frosini e Giacomo Biffi . Frosini evidenzia
che: << Il mito di Pinocchio si rivela……come un mito tipicamente
risorgimentale, al tramonto di un’epoca; e anzi proprio di un
risorgimentalismo di stampo repubblicano e mazziniano>> basato su
principi di umanitarismo positivistico. Giacomo Biffi sottolinea che Pinocchio
fu scritto quando l’Italia era unita politicamente ma non era una nazione consapevole
di sé e concorde sui valori che danno senso alla vita. Il Collodi aveva un
cuore più grande delle sue persuasioni, un carisma profetico più alto della sua
militanza politica, così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei
suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo. . La lettura di
Pinocchio evidenzia interessanti problemi e temi di natura giuridica e
filosofico-giuridica e lo scritto di Cattaneo evidenzia soprattutto i temi più
rilevanti dal punto di vista penalistico. Cattaneo sottolinea che Carlo
Lorenzini (1826-1890) (ovvero Carlo Collodi) era un fine umorista che
sapeva cogliere il lato ridicolo ed insieme doloroso della vita umana
(opinione espressa anche da Lina Passarella nel suo scritto prima citato su
Goldoni filosofo), e cita ad esempio l’episodio dei pareri opposti dei
medici al capezzale di Pinocchio in casa della Fata dal Corvo e dalla Civetta e
quello della condanna del burattino derubato degli zecchini dal
giudice-scimmione. Nel terzo capitolo Pinocchio scappa di casa ed è acciuffato
da un carabiniere per il naso (Cattaneo rileva in tal modo la naturale
predisposizione dei cittadini ad essere oggetto delle interferenza da parte del
potere); dopo la riconsegna di Pinocchio a Geppetto e le sue proteste il carabiniere,
a seguito dei commenti della gente, rimette in libertà il burattino e conduce
in prigione Geppetto che piange disperatamente. L’episodio mostra un membro
dell’apparato giudiziario che arresta Geppetto sulla base delle opinioni della
<voce pubblica> compiendo un atto arbitrario senza motivazioni precise e
mostra un innocente debole ed inerme che non riesce a difendersi di fronte
all’atto arbitrario del potere. Un altro episodio interessante è narrato
nel capitolo XXVII, dove si descrive la battaglia con i libri di testo fra
Pinocchio ed i suoi compagni. Un grosso volume scagliato verso Pinocchio
colpisce alla tesa un compagno che cade come morto. Tutti i ragazzi fuggono e
rimane Pinocchio a soccorrere il compagno. Arrivano due carabinieri che ,dopo
un breve colloquio, arrestano Pinocchio malgrado le sue dichiarazioni di
innocenza. Il burattino fugge inseguito dal cane Alidoro al quale salva la vita
mentre stava per annegare. Cattaneo evidenzia a riguardo che la vittima del
potere è l’innocente , l’unico trovato vicino ad Eugenio, che viene arrestato
perché le circostanze sono contro di lui La frase dei carabinieri “Basta così”
è commentata da Biffi che evidenzia che l’invito a ragionare insospettisce
spesso l’autorità, la quale è incline a tagliar corto. In molte vicende
giudiziarie si nota che una concatenazione di indizi sfavorevoli dà l’avvio a
processi indiziari seguiti da condanne di persone innocenti. Un altro
episodio clamoroso di palese ingiustizia è la vicenda che conclude il rapporto
tra Pinocchio ed il due truffatori La Volpe ed il Gatto. Pinocchio
incontra la Volpe ed il Gatto e viene convinto a seminare i 4 zecchini d’oro
nel Campo dei miracoli vicino alla città di Acchiappacitrulli. Tale città
descritta minuziosamente da Collodi è ,secondo Cattaneo, e il
simbolo dell’ingiustizia e di un diritto positivo basato sul puro potere
politico; tale città esprime in modo chiaro il pericolo del prevalere della
politica sulla giustizia nella amministrazione della giustizia, come
dimostra l’episodio giudiziario che riguarda Pinocchio. Pinocchio accortosi di
essere stato derubato delle monete d’oro torna in città e denunzia al giudice i
due malandrini che lo avevano derubato, ma ,invece di ottenere giustizia, è
vittima di una tragica beffa. Il giudice scimmione, al quale Pinocchio si
era rivolto, ordina che il burattino venga messo in prigione.
L’ordine viene eseguito da due mastini che tappano la bocca al burattino , il
quale resta 4 mesi in prigione e viene liberato a seguito di una vittoria
dell’imperatore della città di Acchiappacitrulli. Per ottenere la libertà
Pinocchio dichiara al carceriere di appartenere al numero dei malandrini e così
viene salutato rispettosamente e può scappare. Cattaneo rileva che la figura
dello scimmione sottolinea la miseria della giustizia umana ed il carattere
insoddisfacente dei tribunali umani dove, come scrive Platone, si discute sulle
“ombre della giustizia” Biffi nel suo volume rileva dapprima l’aspetto positivo
della figura del giudice che è descritto come un personaggio rispettabile,
benevolo, attento al racconto del burattino, successivamente Biffi sottolinea
che la figura dello scimmione della razza dei gorilla rappresenta la
caricaturalità della giustizia terrena rispetto a quella vera, per cui il
giudice finisce con applicare la legge umana che con i suoi meccanismi colpisce
il debole anche se innocente. Cattaneo rileva che la situazione proposta da
Collodi ricorda quella descritta da Manzoni ne I Promessi Sposi dove i violenti
erano organizzati e protetti ed i deboli , non sorretti da consorterie, erano
vittime dei soprusi del potere. La lettura di Pinocchio di Collodi
ed in particolare di alcuni brani può dar luogo a considerazioni di natura
filosofico-giuridica e giuridico- penale, come suggerisce acutamente
Cattaneo nel suo volume. Merito indubbio di Collodi è descrivere alcune
situazioni caratterizzate da abuso di potere, oppressione dei deboli e
sfasamento dei corretti rapporti stabiliti dagli ordinamenti giuridici, come
del resto è stato rilevato da numerosi importanti interpreti. E’ opportuno
sottolineare che il capolavoro di Collodi, come molte altre opere letterarie,
affronta importanti problemi giuridici tra i quali va segnalata l’importante e
costante aspirazione perenne che la legge in essere non sia solo la volontà del
gruppo sociale dominante , una forma di controllo sociale, e che inoltre
l’ordinamento giuridico tuteli la dignità e le aspirazioni degli uomini come
attesta la storia del diritto. Il capitolo decimo è intitolato “Oscar Wilde e
le sofferenze del prigione” Wilde (1854-1900) in alcune sue opere ha
descritto la sua penosa esperienza carceraria ed il clima del carcere., lo
scrittore inglese fu condannato a due anni di carcere che scontò
interamente. Cattaneo evidenzia che <Wilde fu il tipico capro
espiatorio dell’ipocrisia della società vittoriana> Lo stesso letterato nel
<De Profundis>, redatto in carcere, attesta di essere passato dalla
gloria all’infamia con un mutamento dell’opinione pubblica dalla esaltazione al
disprezzo. Le osservazioni di Wilde sul problema della pena nel suo celebre
<De Profundis> e nella accorata <The Ballad of Reading Gaol> hanno
fornito un importante contributo alla battaglia per la riforma del sistema
carcerario. Il volume <De profundis> fu redatto da Wilde negli ultimi
anni carcere. L’opera è redatta sotto forma di lettera all’amico Alfred Douglas
<Bosie> e contiene molti rimproveri all’amico per i suoi atteggiamenti
durante il processo ed il successivo carcere. L’opera, dopo molte controversie,
fu pubblicata definitivamente nel 1949 dal figlio di Wilde Vyvyan Holland .
All’inizio dell’opera Wilde rimprovera l’amico Douglas e
soprattutto sé stesso e riflette sul suo stato di persona imprigionata e
rovinata <a disgraced and ruined man> lo angoscia dopo la sentenza
e l’esperienza carceraria e e. Lo scrittore inglese rileva che per chi vive in
carcere la sofferenza che lo domina è la misura stessa del tempo ed il
fondamento del proprio continuare ad esistere Wilde evidenzia che la
terribile esperienza in prigione sia stata per lui più dolorosa che per altri e
si e si lamenta per la perdita della patria potestà sui due figli e rimarca
l’ingiustizia di tale procedimento che incrina il rapporto familiare. Lo
scrittore rileva che per i poveri la prigione è un dramma che tuttavia suscita
peraltro la simpatia delle altre persone mentre per gli uomini del suo ceto la
prigione li rende dei <paria> , per cui i condannati di ceto abbiente non
hanno più diritto all’aria ed al sole ,la loro presenza infetta i piaceri degli
altri e bisogna tagliare i legami con l’esterno dato che l’onore e la
reputazione della persona condannata è leso. Wilde evidenzia anche
che molte persone ,quando escono di prigione, nascondono il fatto di essere
stati in carcere che considerano una sciagura e, rileva lo scrittore inglese,,
è orribile che la società li costringa a tale comportamento. La società ha il
diritto di punire i colpevoli ma non riesce a completare ciò che ha fatto e
lascia l’uomo al termine della pena, quando dovrebbe iniziare la
riabilitazione, sarebbe giusto invece che non ci fosse amarezza o rancore tra
le parti (colpevoli e vittime). Cattaneo evidenzia l’ipocrisia che sta dietro
l’idea della retribuzione morale e cioè che subendo la pena il colpevole
abbia pagato il suo debito verso la società, se si applicasse tale principio ,
dopo la fine della pena tutto dovrebbe cessare e non dovrebbero esservi più né
fedine penali né casellari giudiziari. Nella realtà comune resta una macchia
sulla persona che è stata in carcere, un pregiudizio che la società perpetua e
l’onta non deriva dal delitto commesso ma dalla pena scontata. La società
riconosce implicitamente l’inutilità della pena perché l’onta del colpevole
incarcerato rimane. Analizzando la vita in carcere Wilde sottolinea che le
privazioni e restrizioni del carcere rendono una persona ribelle ed impietrisce
i cuori dei condannati. L’abito dei carcerati li rende grotteschi come clowns,
oggetto di derisione e berlina della gente. Tali sofferenze ed umiliazioni dei
condannati sono contrari al principio della dignità umana che Wilde riafferma
come profonda esigenza morale della società. Lo scrittore afferma anche che
tutti i processi sono processi per la propria vita e tutte le sentenze sono
sentenze di morte; spesso anche una condanna alla prigione genera delle
sofferenze che conducono alla morte e va rilevato che Wilde stesso morì pochi
anni dopo il carcere nel 1900 in Francia . Wilde scrisse anche <The
Ballad of Reading Goal> nel 1897, l’anno del suo rilascio. in questa lunga
ballata il poeta inglese descrive le sofferenze e le crudeltà cui aveva
assistito durante la prigionia e dalle sue considerazioni sulla triste sorte
dei carcerati risulta un grande senso di pietà per i carcerati ed i condannati
a morte. La poesia è pervasa da spirito religioso e Wilde mette in confronto il
vero spirito cristiano, la pietà per i sofferenti ed i peccatori con
l’atteggiamento chiuso, duro ed indifferente delle istituzioni religiose
ufficiali e dei cappellani delle carceri . Cattaneo rileva che la tragica
esperienza personale ha portato Wilde ad affrontare il tema della riforma delle
prigioni e del sistema penale del quale si era occupato nello scritto “The soul
of man under socialism” . Dalle riflessioni dello scrittore inglese
redatte nelle opere dopo il carcere si ricava una denuncia della brutalità del
trattamento carcerario e della inumanità nell’esecuzione della pena con
critiche alla utilità sociale della stessa Il capitolo XI è
intitolato “André Gide e il non giudicare” Il problema giuridico-penale è
stato esaminato anche da un noto scrittore francese contemporaneo André Gide
(1869-1951), che lo ha affrontato in tre stimolanti scritti “Souvenir de la
Cour d’Assise” che racchiude la sua esperienza quale giurato in alcuni processi
penali del 1912, “L’affaire Redureau” e “La sequestrée de Poitiers” che poi
sono stati pubblicati insieme in una raccolta dal titolo ”Ne jugez pas”
Cattaneo rileva che di tale scritto non si sono occupati molto i critici ed i
commentatori, come sempre avviene quando si tratta di problemi giuridici in
veste letteraria . L’analisi del volume di Gide è interessante perché il libro
è molto rilevante per lo studio di rapporti tra diritto penale e
letteratura e costituisce delle precise prese di posizione dirette su temi
giuridico-penali, desunti dalla realtà della vita. Cattaneo mette in luce
l’attenzione, la precisione , la serietà e la preparazione dimostrate dallo
scrittore francese nel trattare i temi giuridici , soprattutto per la
precisione del linguaggio giuridico. Gide dimostra competenza nel trattare
problemi giuridico-penali e probabilmente “l’ indagine di certi casi criminali
lo induce all’analisi di talune zone inesplorate della psiche umana”
L’atteggiamento dominante di Gide è il “favor rei” che si esprime
in due modi o a due livelli: da un lato sul piano processuale lo scrittore
volge l’attenzione al rispetto delle garanzie dell’imputato, ad una equilibrata
ed equa conduzione dell’interrogatorio, alla escussione di tutti i testimoni,
specie quelli della difesa. Lo scrittore francese solleva anche nei suoi
scritti l’esigenza di una riforma del modo di porre le domande ai giurati e di
chiarire il loro contenuto . Gide si mostra sempre umano e compassionevole
verso i colpevoli, mostra l’esigenza che la pena sia in generale ridotta e che
si tenga conto degli elementi che valgono a titolo di difesa, quali motivi di
giustificazioni e scuse. Lo scrittore francese si preoccupa che la pena possa
causare mali peggiori e cerca di evitare risultati negativi della stessa.
Cattaneo evidenzia che in sostanza nel libro di Gide “è primaria l’attenzione
per l’uomo, la sua complessità e la sua imperscrutabilità psicologica , che
porta al dubbio e alla perplessità circa il fatto che alcuni uomini possano
giudicare altri uomini, queste pagine sono dunque dominate dal monito
evangelico, per cui particolarmente adatto risulta il titolo complessivo della
raccolta: Ne jugez pas.” Il capitolo XI è intitolato “Franz Kafka,
la legge e il totalitarismo” Cattaneo ha discusso in molte opere il
problema del totalitarismo che è stato analizzato soprattutto nel suo volume
“Terrorismo ed arbitrio Il problema giuridico del totalitarismo”
Analizzando le opere di Kafka (1883-1924) Cattaneo premette che è
particolarmente rilevante il pericolo di un forte divario fra la letteratura
critica ed interpretativa ed il testo originario dello scrittore per cui
ritiene che siano legittime molte diverse interpretazioni dell’opera di Kafka,
e molte <chiavi di lettura> . , certamente l’interpretazione più
interessante dello scrittore ceco è quella data dall’amico Max Brod, che
evidenzia la religiosità ebraica presente nelle opere di Kafka ed in questa
chiave interpreta i brani relativi al problema della legge, del processo e
della colpa. Una interpretazione giuridica delle opere di Kafka è stata
compiuta da Pernthaler .Cattaneo intende esaminare alcune opere di Kafka dalle
quali il problema della legge emerge anche dal punto di vista
filosofico-giuridico In tali opere di Kafka ricorre il tema del difficile
rapporto dell’uomo con la legge, che è interpretato in chiave religiosa o in
chiave psicologica o psicoanalitica ma che può essere analizzato anche dal
punto di vista filosofico-giuridico. Cattaneo esamina alcuni temi che emergono
da “Il Processo” dall’apologo “Vor dem gesetz”, dallo scritto ”Zur Frage
der Gesetze” e dalla novella “In der Strafkolonie” e dall’analisi complessiva
di tali opere interpreta Kafka come profeta e critico del totalitarismo che fu
instaurato in alcune nazioni dopo la sua morte, lo scrittore ceco delinea
situazioni di angoscia, di incertezza, di impossibilità di comunicazione, di
errore e di ferocia tipiche del totalitarismo . Kafka collega la burocrazia e
l’oppressione del potere sugli uomini caratteristica del nascente totalitarismo
. Pietro Citati rileva che <Nel Processo , l’immenso Dio sconosciuto, di cui
non ascoltiamo mai pronunciare il nome, ha invece una vita così intensa e un
potere così illimitato, come forse non ha ma avuto nei tempi> L’interpretazione
di Citati è più psicanalitica che religiosa ma è priva di prospettiva
giuridico-politica. Di impronta psicoanalitica è l’interpretazione data da
Sgorlon del <Processo> di Kafka ma la prospettiva giuridico
politica, trascurata da questi studiosi, è presente e Cattaneo evidenzia che
proprio nel primo capitolo, in cui è narrato l’improvviso arresto mattutino di
Joseph K esprime in modo preciso proprio la sensazione del passaggio graduale
ed insensibile dallo Stato di diritto allo Stato totalitario .Di seguito
le indicazioni che Joseph K riesce a ricevere da parte di vari personaggi
connessi al Tribunale concernenti il meccanismo, il funzionamento, l’andamento
del processo mettono in luce la totale assenza di garanzie giuridiche e
processuali, di tutela dell’imputato, elementi che costituiscono l’esatta
antitesi dello Stato di diritto Il tema della inconoscibilità e irragiugibilità
delle leggi è ripreso da Kafka nello scritto <Zur Frage der Gesetze> In
tale scritto Kafka delle <nostre leggi> che non sono conosciute da tutti,
ma sono un segreto del piccolo gruppo della nobiltà che ci domina. Kafka
dichiara di non avere in mente tanto gli svantaggi derivanti dalle diverse
possibilità di interpretazione, quando questa è riservata ad alcuni e non
all’intero popolo, questi svantaggi non sono poi molto grandi. Le leggi sono
antiche , secoli hanno lavorato alla loro interpretazione, l’interpretazione è
diventata essa stessa legge, e sussistono sempre, benché limitate, alcune
libertà di scelta dell’interpretazione Il motivo dominane l’intero
scritto è il carattere inconoscibile della legge, dato che la legge è
misteriosa e nessun membro del popolo è in grado di conoscerla per cui è
comprensibile che vi sia qualcuno che arriva a negare l’esistenza delle leggi e
riconosce peraltro il diritto all’esistenza della nobiltà La fredda
descrizione di uno strumento di supplizio , nell’ambito di un sistema
processuale completamente privo delle fondamentali garanzie è il messaggio del
racconto <In der Strafkolonie> ( Nella colonia penale) e la conclusione
della novella di Kafka riflette la logica del totalitarismo per cui quando il
viaggiatore comunica all’ufficiale di essere avversario di questo sistema
punitivo, l’ufficiale si rende conto di essere rimasto il solo difensore di
tale sistema punitivo e libera il soldato dalla macchina del supplizio, si
denuda e si pone lui stesso sul lettino al posto del condannato, la macchina
del supplizio inizia a funzionare e l’ufficiale muore senza aver capito
il senso del supplizio come ogni sistema totalitario si
autodistrugge e divora i propri figli Cattaneo cita la fucilazione dei coniugi
Ceausescu nel 1989 operata nell’ambito del totalitarismo comunista.
L’Appendice del volume è intitolata “Vaclav Havel e la legge come
<<alibi>> nel sistema post-totalitario” Havel (
1936-2011) ,noto scrittore contemporaneo, che è stato Presidente della
repubblica cecoslovacca, è autore di numerose opere letterarie e teatrali.
Cattaneo ritiene che se Kafka rappresenta il tempo del pre-totalitarismo, Havel
rappresenta il post-totalitarismo ,al quale ha dedicato uno scritto bblicato
nel 1978 che l’autore del volume esamina nella traduzione tedesca.
Havel delinea l’opposizione al comunismo, nel suo momento post-totalitario,
come tentativo di vivere nella verità; la verità, intesa come opposizione ad un
sistema che si fonda e si regge sulla menzogna. Lo scritto ha un carattere
etico-politico ma contiene importanti pagine di natura giuridica e di critica
dell’ordinamento giuridico proprio del regime totalitario e post-totalitario.
Tale sistema politico è caratterizzato, secondo
lo scrittore ceco, come una dittatura della burocrazia politica su una
società livellata. Lo scrittore ceco elenca le caratteristiche del
sistema <post-totalitario> che lo distinguono dalla dittatura
tradizionale ed evidenzia che A) tale sistema non è delimitato
territorialmente ma domina in un ampio blocco di forze ed è retto da una
superpotenza B) mentre le dittature classiche non hanno una solida radice
storica, la radice di tale sistema dono i movimenti operai e socialisti del XIX
secolo. C) Tale sistema dispone di una ideologia strutturata ed elastica
che ha i caratteri di una religione secolarizzata ed offre una risposta ad ogni
domanda dell’uomo in una epoca di crisi delle certezze esistenziali D)
Alle dittature tradizionali spettano elementi di improvvisazione per quanto
attiene alla tecnica del potere mentre lo sviluppo di 60 anni nell’Unione
sovietica e di 30 anni nei paesi dell’Est europeo ha dimostrato la creazione di
un meccanismo perfetto , che permette la manipolazione diretta ed indiretta
della società. La forza di tale sistema è incrementata dalla proprietà
statuale e dalla amministrazione centralizzata dei <mezzi di
produzione> E) Nella dittatura classica vi è una atmosfera di
entusiasmo rivoluzionario, di eroismo , di spirito di sacrificio che sono
scomparsi nel blocco sovietico. Tale blocco sovietico, che è un elemento solido
del nostro mondo, è caratterizzato dalla stessa gerarchia di valori presenti
nei paesi occidentali sviluppati e sono una forma di società consumistica
ed industriale. Il sistema sopra descritto è designato da Havel come
<post-totalitario> perché è un sistema totalitario con caratteristiche
diverse dalle dittature classiche e , rispetto al totalitarismo classico, è
caratterizzato da una misura più attenuata di terrore ed arbitrio Havel
considera il sistema post-totalitario come caratterizzato dalla menzogna, ciò è
un effetto del dominio della ideologia; gli uomini non devono credere alle mistificazioni
totalitarie ma tollerarle in silenzio ed accetta, ciò è un vivere nella
menzogna e lo scrittore insiste sul valore e sul significato morale
ed esistenziale della dissidenza. Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico
nel sistema post-totalitario lo scrittore rileva che tale sistema
sente la necessità di regolare tutto con una rete di prescrizioni, norme,
istituzioni e regolamenti per cui gli uomini sono delle piccole viti di un
meccanismo gigantesco. Le professioni, le abitazioni ed i movimenti dei
cittadini e le sue manifestazioni sociali e culturali sono controllate, ogni
deviazione viene considerata un passo falso ed una manifestazione di egoismo ed
anarchia. Havel rileva che non bisogna prendere alla lettera l’ordinamento
giuridico e ciò che conta è< come è la vita> e se le leggi servono alla
vita o la opprimono ¸la battaglia per la <legalità> deve vedere questa
<legalità> sullo sfondo della vita come è realmente. Analizzando il
rapporto tra la società post-totalitaria e la moderna civiltà tecnologica, con
riferimento anche agli scritti di Heidegger, Havel rileva che il sistema
post-totalitario è solo un aspetto della generale incapacità dell’uomo
contemporaneo di divenire <padrone della propria situazione> e la
prospettiva giusta è quella di una <rivoluzione esistenziale>
generalmente comprensiva L’aspetto più interessane di Havel è la
delineazione dei caratteri del sistema post-totalitario come fenomeno sorto
dall’incontro della dittatura con la società industriale e consumistica.
Per quanto riguarda i problemi giuridici, Cattaneo rileva che Havel sottolinea
il significato autentico del diritto, che deve avere coscienza dei propri
limiti naturali, il diritto ha un significato esteriore, deve difendere alcune
esigenze minime (tutela della convivenza civile dalla violenza e dalle
invasioni nei diritti altrui ma non deve pretendere di adempiere a compiti per
cui non è adatto - In tal modo , sottolinea Cattaneo, il letterato ceco
riprende la migliore lezione del liberalismo classico per cui il diritto non è
al servizio del potere , ma può essere un valore solo in quanto esso sia un
mezzo di difesa e la garanzia della libertà e della dignità dell’uomo
Il grande insegnamento del letterato Havel è la tutela del valore più
calpestato dal totalitarismo , la dignità umana che è lo scopo fondamentale ed
essenziale del diritto, dato che diritto e libertà sono collegati ed il
diritto ha valore se garantisce e protegge la libertà. Grice: “Cattaneo’s
philosophical background is much stronger than Hart’s! Hart always doubted his
philosophical abilities – as he kept comparing himself to me! When Cattaneo was
at St. Antony’s, Hart found that he had to play brilliant, since a
‘continental’ was watching! Cattaneo is especially good in the study of
Roman-Italian giurisprudenza, from Cicero, Goldoni, Carrrara, and Manzoni,
onwards! They don’t need no stinking Hart!” -- M. A. Cattaneo. Mario A. Cattaneo.
Mario Alessandro Cattaneo. Mario Cattaneo. Keywords: eidolon, autorita,
autoritarismo, positivismo di H. L. A. Hart, il concetto della legge, filosofia
del linguaggio ordinario, scuola oxoniense di filosofia del linguaggio
ordinario, il gruppo di giocco di Austin, il primo o vecchio gruppo di giocco
di Austin al All Souls, giovedi notte; il nuovo gruppo di giocco di Austin
sabato alla mattina. Hart, Hampshire, Grice. Grice, neo-Trasimaco, giustizia,
fairness, valore legale, valore morale, le legge e la morale, priorita della
moralita sulla legalita, concetti di priorita, priorita evaluativa,
neo-trasimaco, neo-socrate, platonismo giuridico, positivismo pre-Kelsen:
hobbes, bentham, autin. I giuristi italiani. Storia della giurisprudenza
italiana. Goldoni, Carrara, Manzoni, Collodi, Lorenzini, Pinocchio, Foscolo,
Perini, Beccaria, Colonna infame, letteratura italiana, fizione italiana, prosa
italiana, giurisprudenza italiana, avvocatura ed implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Cattaneo” – The Swimming-Pool Library.
CATUCCI (Roma). Grice.
Filosofo. “I love Catucci – Ogden and Richards, whom I’ve read profusely,
expand on Husserl – and Catucci is “our man in Husserlian phenomenology of
intersubjectivity!” – Grice: “As a typical Itaian philosopher, viz. eclectic,
he has philosophised on Luckacs, and Foucault, too!” -- Grice: “Catucci’s approach to Lukacks is via
‘poverty,’ which has little to do with my idea that the poorer the semantics
the richer the pragmatics: ‘His semantics was poor, but it was honest!”. Altre
opere: “La filosofia critica di Husserl, Milano, Guerini & Associati); Beethoven
Opera Omnia. Le Opere. Fabbri Classica); Bach e la musica barocca, Roma, La
Biblioteca); Introduzione a Foucault, Bari-Roma, Laterza); La storia della
musica, Roma, La Biblioteca); Spazi e maschere, Roma, (a cura di, con Umberto
Cao), Meltemi Editore); Per una filosofia povera, Torino, Bollati Boringhieri);
Imparare dalla Luna, Macerata, Quodlibet. Si laurea a
Roma sotto Garroni. Studia a Bologna. Legge Tugendhat e Tertulian. Insegna a
Camerino e Roma. Pubblica il saggio La filosofia critica di Husserl (ed.
Guerini e Associati) la cui preparazione ha richiesto un periodo di ricerca
presso lo "Husserl-Archief” di Leuven, in Belgio. Il lavoro sui
manoscritti di Husserl lo ha portato alla pubblicazione di diversi saggi di
carattere fenomenologico, tra cui “Le cose stesse”; “Note su un’autocritica
trascendentale della fenomenologia di Husserl”, basato sull’analisi di testi
husserliani inediti. Pubblicato per Laterza un saggio su Foucault. Quindi è
stata la volta del saggio “Per una filosofia povera”, uno studio ad ampio
spettro sulla filosofia italiana nella Grande Guerra (ed. Bollati Boringhieri).
Ha inoltre collaborato alla stesura del Dizionario di Estetica curato per
Laterza da Gianni Carchia e Paolo D'Angelo. Ha numerosi saggi su Foucault (La
linea del crimine) sull’estetica, sull’architettura e sulla musica, in
particolare musicisti come Wagner e Stockhausen. Potere e visbilità (ed.
Quodlibet). La sua ricerca Imparare dalla Luna (ed. Quodlibet) ha ottenuto
ampia risonanza anche al di là del campo degli studi filosofici, portandolo fra
l’altro a tenere conferenze al Festival delle Scienze di Roma, al Festival
Wired di Milano, e al Congresso
Nazionale della Società Italiana di Fisica. Membro della Società Italiana di Estetica.
Coordina “I Concerti del Quirinale”. “Tutto Wagner”. Collabora regolarmente con
l’Accademia Nazionale di S. Cecilia, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai,
Teatro dell’Opera di Roma, Teatro Regio di Torino, Festival Mi-To Settembre
Musica) e ha organizzato manifestazioni di tipo filosofico-musicale per la
Biennale Musica di Venezia e per il Festival Play.it di Firenze. 11573/1481990
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Estetica Elementare - (9788891918345) 11573/1546600 - 2021 - L'esperienza
del coro fra etica e tecnica Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione
book: Insieme. Canto, relazione e musica in gruppo - (978-88-590-2554-2)
11573/1411530 - 2020 - La storia dell'estetica come critica e come filosofia
Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro
internazionale studi di estetica) pp. 53-61 - issn: 0393-8522 - wos: (0) -
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teoria Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Cinque temi del moderno
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Aesthetics (JP Službeni glasnik, ) pp. 107-118 - issn: 1402-2842 - wos: (0) -
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Scientifico 11573/1350028 - 2019 - Imparare dalla Luna. Nuova edizione
riveduta e ampliata Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico
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del disastro Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Terre in
movimento - (978-88-229-0306-8) 11573/1083086 - 2018 - The Prison Beyond
its Theory. Between Michel Foucault's Militancy and Thought Catucci, Stefano -
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in rivista paper: AESTHETICA. PRE-PRINT (Centro internazionale studi di
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Disegno di Gio Ponti per Luigi Fontana - (978-88-229-0151-4) 11573/928912
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Francesca; Mattoni, Benedetta; Gugliermetti, Franco; Bisegna, Fabio; Azzaro,
Bartolomeo; Tomei, Francesco; Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume
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Giacomo - (978-88-5753-620-0) 11573/951355 - 2016 - La linea del crimine.
Michel Foucault e la vita degli uomini infami Catucci, Stefano - 01a Articolo
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Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - () 11573/1203758 - 2014 -
Movimento Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Wikitecnica - () 11573/1203775 - 2014 - Sovrastruttura Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Wikitecnica - () 11573/1203777
- 2014 - Strutturalismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
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name of the present Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: DOMUS
(Rozzano Milan Italy: Editoriale Domus) pp. 46-48 - issn: 0012-5377 - wos: (0)
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neoestetica. Studi offerti in onore di Luigi Russo - (9788862504287)
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Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Progetto e Rifiuti. Design and
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impossibile: note su alcuni modelli espositivi dell'opera d'arte. Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il museo contemporaneo. Storie,
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Metamorfosi : un'architettura dopo il postmoderno Catucci, Stefano - 02c
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"Valle Giulia" , universita' la "Sapienza" Direttore) pp. -
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Necessity and Beauty Catucci, Stefano - 02c Prefazione/Postfazione book: Parks
and territory: new perspective in planning and organization -
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without Philosophy Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume
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Grecia - Dipartimento di Architettura dell'Università di Patrasso) book: The
Signifiance of Philosophy in Archtectural Education - (9789607588340)
11573/379086 - 2011 - Estetica della speranza Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Teoria critica del desiderio -
(9788872856659) 11573/411942 - 2011 - "Reimparare a sognare".
Note su sogno, immaginazione e politica in Michel Foucault Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: La coscienza e il sogno. A partire da Paul Valéry
- (9788871865058) 11573/504705 - 2011 - Visione e dispersione. La regia
architettonica di Luigi Moretti Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in
volume conference: Luigi Moretti architetto del Novecento (Facoltà di
Architettura, Università di Roma "Sapienza") book: Luigi Moretti
architetto del Novecento - (8849222009; 9788849222005) 11573/493982 -
2010 - Critica del contesto Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
PIANO PROGETTO CITTÀ (-Avezzano (AQ) : LISt- Laboratorio Internazionale di
Strategie editoriali, 2010 -Avezzano (AQ): Ed'A- Editoriale d'Architettura
-Pescara: Sala Editore Pescara Pescara : Clua, 1984-) pp. 142-149 - issn:
2037-6820 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/495728 - 2010 - Essere giusti
con Marx Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Foucault-Marx:
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dimensione Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: VEDUTE (Roma-Macerata
: Quodlibet, [2009]-) pp. 47-57 - issn: 2239-6462 - wos: (0) - scopus:
(0) 11573/127254 - 2009 - «Eine eigene fremde Welt»: le utopie terrestri
di Karlheinz Stockhausen Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
ATENEO VENETO (Ateneo Veneto:Campo S. Fantin 1897, 30124 Venice Italy:011 39 41
5224459) pp. 129-144 - issn: 0004-6558 - wos: (0) - scopus: (0)
11573/170422 - 2009 - "Des moustiques domestiques”: Notes on the Tautology
of Visual Writing Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume book:
Beyond Media: Visions, catalogo della 9. Edizione dell’International Festival
for Architecture and Media - (9788896531006) 11573/170451 - 2009 -
Prolegomeni a un'architettura della relazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: L'esplosione urbana - (9788888791180) 11573/170452 - 2009
- I generi musicali: una problematizzazione Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: (Enciclopedia Treccani Terzo Millennio), vol. II,
Comunicare e rappresentare - (9788812000388) 11573/170697 - 2009 - Senso
e progetto. Il contributo dell’estetica Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Il progetto di architettura come sintesi di discipline -
() 11573/196017 - 2009 - Il progetto di architettura come sintesi di
discipline Catucci, Stefano; Strappa, Giuseppe - 03a Saggio, Trattato
Scientifico 11573/180207 - 2008 - Il lavoro della dispersione Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: L’idea e la differenza. Noi e gli
altri, ipotesi di inclusione nel dibattito contemporaneo. -
(9788849821468) 11573/180783 - 2008 - Introduzione a Foucault Catucci,
Stefano - 03a Saggio, Trattato Scientifico 11573/353134 - 2008 - Tutto
quello che "la musica può fare". Conversazione con Francesco e Max
Gazzè. Magrelli, Valerio; Moretti, Giampiero; Piperno, Franco; Giuriati,
Giovanni; Catucci, Stefano; Scognamiglio, Renata; Caputo, Simone - 02a Capitolo
o Articolo book: Parlare di musica - (9788883536656) 11573/378907 - 2008
- Costruire, abitare, patire Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Arte, Scienza, Tecnica del Costruire - (9788849214116) 11573/493930 -
2008 - Elogio del parlare obliquo: la musica classica alla radio Catucci,
Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Parlare di musica -
(9788883536656) 11573/127320 - 2007 - La proprietà intellettuale come
problema estetico Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI
VITA (Roma : DeriveApprodi) pp. 36-46 - issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus:
(0) 11573/127321 - 2007 - L’architettura al tempo di Nikolaj Rostov Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma :
Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/127322 - 2007 - Per una critica delle narrazioni urbane
Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: PARAMETRO (Faenza Italy:
Gruppo Editoriale Faenza Editrice) pp. 24-29 - issn: 0031-1731 - wos: (0) -
scopus: (0) 11573/176810 - 2007 - Michel Foucault filosofo dell’urbanismo
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Lo sguardo di Foucault -
(9788883535727) 11573/177011 - 2007 - La cura di scrivere Catucci,
Stefano - 04b Atto di convegno in volume book: Dopo Foucault. Genealogie del
postmoderno - (9788884835246) 11573/207632 - 2007 - La via dialogica
dell’arte: i nuovi linguaggi urbani Catucci, Stefano - 04a Atto di
comunicazione a congresso conference: Nel convivio delle differenze. Il dialogo
nelle società del terzo millennio (Roma - Pontificia Università Urbaniana)
book: Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo
millennio, a cura di E. Scognamiglio e A. Trevisiol - (9788840160139)
11573/496481 - 2007 - Spartacus : i dilemmi della libertà Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Una strana rivista : «Gomorra» 1998-2007 -
(9788883536021) 11573/502875 - 2007 - Dizionario di Estetica Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(9788842058298) 11573/157929 - 2006 - Il colosso senza immaginazione
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Osservatorio Nomade:
immaginare Corviale. Pratiche ed estetiche per la città contemporanea -
(8842491799) 11573/176696 - 2006 - Il visibile e l’invisibile.
Riflessioni sul potere in Michel Foucault Catucci, Stefano - 02a Capitolo o
Articolo book: Conoscenza e potere. Le illusioni della trasparenza -
(9788843039517) 11573/177761 - 2006 - Un passato che non passa. Bachelard
e la fine dell’abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book:
Simbolo, metafora, esistenza. Saggi in onore di Mario Trevi - (9788871863924)
11573/501672 - 2006 - Corridoi Transeuropei Catucci, Stefano - 01a Articolo in
rivista paper: GOMORRA (Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa
& Nolan, 1998-) pp. 22-27 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)
11573/127044 - 2005 - La “natura” della natura umana Catucci, Stefano - 02c
Prefazione/Postfazione book: Della Natura Umana. Invariante biologico e potere
politico. - (8888738703) 11573/166395 - 2005 - Estetica e Architettura
Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Contaminazioni culturali.
Materiali di studio del Dottorato di Ricerca in Riqualificazione e Recupero
Insediativo - () 11573/127045 - 2004 - Criticare l’estetica per criticare
il presente Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA (Roma:
Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp. 8-11 -
issn: - wos: (0) - scopus: (0) 11573/127046 - 2004 - Le Corbusier a
Pessac: un paradigma moderno Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper:
SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI
CAMERINO) pp. 45-51 - issn: - wos: (0) - scopus: (0) 11573/127047 - 2004
- Michel Foucault: dalla novità storica all’estetica dell’esistenza Catucci,
Stefano - 01a Articolo in rivista paper: FORME DI VITA (Roma : DeriveApprodi)
pp. 73-86 - issn: 1973-3607 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/166388 - 2004
- La pensée picturale Catucci, Stefano - 04b Atto di convegno in volume
conference: Colloque de Cerisy - Michel Foucault: La littérature et les arts
(Cerisy - Francia) book: Michel Foucault, la littérature, les arts -
(2841743470) 11573/166394 - 2004 - Attraverso Velázquez: Foucault, Las
Meninas, la filosofia Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Il
classico violato. Per un museo letterario del ‘900 - (8875750041) 11573/127043
- 2003 - Tre versioni del misurare Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista
paper: SPAZIO RICERCA (CAMERINO:DIPARTIMENTO PROCAM DELL'UNIVERSITA' DEGLI
STUDI DI CAMERINO) pp. 92-99 - issn: - wos: (0) - scopus: (0)
11573/180784 - 2003 - Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza,
il senso ; a partire da Lukács Catucci, Stefano - 03a Saggio, Trattato
Scientifico book: Per una filosofia povera: la Grande Guerra, l'esperienza, il
senso ; a partire da Lukács - (9788833914473) 11573/255955 - 2002 -
L'angelo dei rifiuti Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp.
20-28 - issn: - wos: (0) - scopus: (0) 11573/248424 - 2001 - Estetica
dell'abitare Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La nuova Estetica
italiana - () 11573/64920 - 2001 - Spazi e maschere Catucci, Stefano -
06a Curatela 11573/1203503 - 1999 - Ambiguità Catucci, Stefano - 02d Voce
di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203505 - 1999 - Poetica Catucci, Stefano - 02d
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203507 - 1999 - Architettura, teorie della
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203509 - 1999 - Censura Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203511 - 1999 - Distruzione delle opere d'arte
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203513 - 1999 - Fenomenologica,
estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203515 - 1999 -
Fisiognomica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203517 - 1999 -
Fotografia, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203519 - 1999 -
Kitsch Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203521 - 1999 - Marxista,
estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203523 - 1999 -
Musica, teorie della Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario
book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203525 - 1999 -
Opera d'arte Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203527 - 1999 -
Originalità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203529 - 1999 -
Particolarità Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book:
Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203531 - 1999 -
Realismo Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario
di Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203533 - 1999 - Retorica
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203535 - 1999 - Rispecchiamento
Catucci, Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di
Estetica - (978-88-420-5829-7) 11573/1203537 - 1999 - Ritmo Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203539 - 1999 - Scientifica, estetica Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203541 - 1999 - Sociologia dell'arte Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203543 - 1999 - Storicità Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203545 - 1999 - Struttura Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica - (978-88-420-5829-7)
11573/1203547 - 1999 - Strutturalista, estetica Catucci, Stefano - 02d Voce di
Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203549 - 1999 - Terapie artistiche Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203551 - 1999 - Tipico Catucci, Stefano - 02d
Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203553 - 1999 - Autenticità Catucci, Stefano -
02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203555 - 1999 - Oggetto estetico Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/1203557 - 1999 - Estetica e politica Catucci,
Stefano - 02d Voce di Enciclopedia/Dizionario book: Dizionario di Estetica -
(978-88-420-5829-7) 11573/127040 - 1999 - Fra tempo e spazio: rassegna
sul vuoto in musica Catucci, Stefano - 01a Articolo in rivista paper: GOMORRA
(Roma: Meltemi-2001 Roma : Castelvecchi Milano : Costa & Nolan, 1998-) pp.
54-56 - issn: - wos: (0) - scopus: (0) 11573/497947 - 1999 - Estetica
della censura Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: La cortina
invisibile - (888744501X) 11573/166387 - 1997 - Figures de l’art, figures
de la vie. Une idée de philosophie chez le jeune Lukács Catucci, Stefano - 02a
Capitolo o Articolo book: Life - (0792341260) 11573/166393 - 1997 -
L'etica e le forme Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Scritti di
estetica - () 11573/223078 - 1997 - Saggi di Estetica Catucci, Stefano -
06a Curatela 11573/127039 - 1996 - Gli animali di Céline Catucci, Stefano
- 01a Articolo in rivista paper: RIVISTA DI ESTETICA (Rosenberg &
Sellier:via Andrea Doria 14, I 10123 Turin Italy:011 39 011 8127820, EMAIL:
tina.cesaro@rosenbergesellier.it, Fax: 011 39 011 8127808) pp. 87-108 - issn:
0035-6212 - wos: (0) - scopus: (0) 11573/166392 - 1995 - Dall’estetica
all’ontologia. Lukács lettore della «Critica del Giudizio» Catucci, Stefano -
02a Capitolo o Articolo book: Senso e storia dell'estetica - (8873802362)
11573/180788 - 1995 - La filosofia critica di Husserl Catucci, Stefano - 03a
Saggio, Trattato Scientifico book: La filosofia critica di Husserl -
(9788881070053) 11573/162879 - 1994 - La fenomenologia negli Stati Uniti:
metodo e fondazione Catucci, Stefano - 02a Capitolo o Articolo book: Specchi
americani. La filosofia europea nel Nuovo Mondo - () 11573/127038 - 1991
- La fenomenologia come teoria estetica. Note in margine a: Recensione a F.
Fellmann, Phänomenologie als ästhetische Theorie Catucci, Stefano - 01a
Articolo in rivista paper: STUDI DI ESTETICA (Sesto San Giovanni MI: Mimesis,
2014- Bologna: CLUEB) pp. 342-346 - issn: 0585-4733 - wos: (0) - scopus: (0). Stefano
Catucci. Keywords: la via conversazionale, l’originarieta della conversazione;
estetica della conversazione, filosofia dell’eccedenza sensibilie,
rispecchiamento, parlare obliquo, Lukacks, filosofia povera, filosofia ricca,
Husserl, Husserl-Archief, Leuven, Belgio, “la cosa stessa”, “la linea del
crimine”, potere, la luna, musica, estetica della musica, estetica
dell’archittetura, critica fenomenologia, Foucault. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Catucci” – The Swimming-Pool Library.
CAVALCANTI
(Firenze). Filosofo. Grice: “I like Cavalcanti; he thinks he is an
Aristotelian, but he is surely Platonic – therefore, obsessed with ‘eros,’ or
‘amore,’ as the Italians call it – Like Alighieri’s, his philosophy of ‘eros’
is confused, but interesting!” Come del corpo fu bello e leggiadro, come di
sangue gentilissimo, così ne’ suo fiosofare non so che più degli altri bello,
gentile e peregrino rassembra, e nell’invenzione acutissimo, magnifico,
ammirabile, gravissimo nelle sentenze, copioso e rilevato nell’ordine,
composto, saggio e avveduto, le quali tutte sue beate virtù d'un vago, dolce
stile, come di preziosa veste, sono adorne. Lorenzo il Magnifico, Opere).
Alighieri e Virgilio incontrano all'Inferno. Ritratto di Cavalcanti, in Rime.
Figlio di Cavalcante dei Cavalcanti, nacque in una nobile famiglia guelfa di
parte bianca, che ha la sua villa vicina a Orsanmichele e che e tra le più
potenti della regione. Il padre fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta
di Montaperti. In seguito alla disfatta dei ghibellini nella battaglia di
Benevento, padre e figlio riacquistarono la preminente posizione sociale a
Firenze. A lui e promessa in sposa la figlia di Farinata degli Uberti, capo
della fazione ghibellina, dalla quale Guido ha i figli Andrea e Tancia. E tra i
firmatari della pace tra guelfi e ghibellini nel Consiglio generale al Comune
di Firenze insieme a Latini e Compagni. A questo punto avrebbe intrapreso un
pellegrinaggio -- alquanto misterioso, se si considera la sua infamia di ateo e
miscredente! Muscia, comunque, ne dà un'importante testimonianza attraverso un
sonetto. Alighieri, priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio
l'amico, nonché maestro, con i capi delle fazioni bianca e nera in seguito a
nuovi scontri. Si reca allora a Sarzana. “Perch'i' no spero di tornar giammai”
e composto durante l'esilio. La condanna e revocata per l'aggravarsi delle sue
condizioni di salute. Muore a causa della malaria contratta durante l'esilio
forzato d’Alighieri.È ricordato oltre che per i suoi componimentiper essere
stato citato da Dante (del quale fu amico assieme a Gianni) nel celebre nono
sonetto delle Rime Guido, i' vorrei che tu e Lapo ed io (al quale Guido rispose
con un altro, mirabile, ancorché meno conosciuto, sonetto, che ben esprime l'intenso
e difficile rapporto tra i due amici, “S’io fosse quelli che d'amor fu degno”.
Alighieri, remmorso, lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno, canto X e
Purgatorio, canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel
Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron. La sua
personalità, aristocraticamente sdegnosa, emerge dal ricordo che ne hanno
lasciato gli filosofi contemporanei, Compagni, Villani, Boccaccio e Sacchetti.
Il gentile figlio di Cavalcante Cavalcanti, nobile cavaliere e cortese e
ardito, ma sdegnoso e solitario, e intento alla filosofia. La sua personalità è
paragonabile a quella di Alighieri, con la importante differenza del carattere
laico. Noto per il suo ateismo, Alighieri l’incontra nell’Inferno (Inf.
X, 63). Boccaccio (Decameron VI, 9: si dice tralla gente volgare che questa sua
speculazione filosofica sull’amore e solo in cercare se puo trovarse che Iddio
non e. Villani (De civitatis Florentie famosis civibus). La sua eterodossia è
stata tra l'altro rilevata nella grande canzone dottrinale o manifesto “Me
prega” -- certamente il testo più arduo e impegnato, anche sul piano filosofico
-- di tutta la poesia stilnovistica, in cui s i rinvenge il carattere di
correnti radicali dell'aristotelismo. Famoso e significativo l'episodio narrato
dal Boccaccio di una specie di scherzoso assalto al filosofo da parte di due
fiorentini a cavallo, di cui schivava la compagnia. L’episodio e ripreso da
Italo Calvino in una lezione in cui il filosofo con l'agile salto da lui
compiuto, diventa un emblema della leggerezza. L'episodio figura anche
nell'omonimo testo di France ne "Santa Chiara" dove, peraltro, i
fatti risalienti della sua vita vengono riportati sotto una veste quasi
mistica. La opera di Cavalcanti consta di cinquantadue componimenti, di
cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti
composti da una stanza ciascuno. Le forme maggiormente utilizzate sono la
ballata ed il sonetto, seguite dalla canzone. La ballata appare congeniale alla
sua poetica, poiché incarna la musicalità sfumata e il lessico delicato, che si
risolvono poi in una costruzione armoniosa. Peculiare di Cavalcanti è, nei
sonetti, la presenza di rime retrogradate nelle terzine. Temi Quadro di
Johann Heinrich Füssli. Teodoro incontra nella foresta lo spettro del suo
antenato Guido Cavalcanti. I temi della sua opera sono quelli cari al
stilnovista; in particolare la sua canzone manifesto “Me prega” è incentrata
sull’effetto prodotti dall'amato sull’amante. La concezione filosofica su cui
si basa è l'aristotelismo radicale che sostene l’eternità e l'incorruttibilità
dell'anima separata dal corpo e l'anima sensitiva come entelechia o perfezione
del corpo. Va da sé che, avendo le varie parti dell'anima funzioni differenti,
solo collaborando esse potevano raggiungere il sinolo, l’armonia perfetta –
anima/corpo entelechia. Si deduce che, quando l'amore colpisce l’anima, la
squarcia a e la devasta, compromettendo il sinolo e ne risente molto l’anima
inferiore vegetativa – L’amante non mangia o non dorme). Da qui la sofferenza
dell'animo che, destatasi per questa rottura del sinolo, rimane impotente
spettatore della devastazione. È così che l'amante giunge alla morte. L’amato,
avvolto come da un alone mistico, rimane così irraggiungibile. Il dramma si
consuma nell'animo dell'amante. Questa complessissima concezione
filosofica permea la poesia ma senza comprometterne la raffinatezza o
superfizialita letteraria. Uno dei temi fondamentali è l'incontro dell’amante e
l’amato che conduce sempre, ed al contrario che in Guinizzelli, al dolore,
all'angoscia kierkegaardiana, e al desiderio di morire. La opera dell’amore di
Cavalcanti possiede un accento di vivo dolore riferio spesso al corpo
dell’amante. Cavalcanti e un fine filosofo – scrive Boccaccio: lo
miglior loico che il mondo avesse -- ma non ci resta nulla di sue saggistica
filosofica, ammesso che ne abbia effettivamente scritte. Il poetare di
Cavalcanti, dal ritmo soave e leggero è di una grande sapienza retorica.
I versi di Cavalcanti possiedono una fluidità melodica, che nasce dal ritmo
degli accenti, dai tratti fonici del lessico impiegato, dall'assenza di
spezzettature, pause, inversioni sintattiche. Cavalcanti: la poetica e lo
Stilnovo, L’amico di Dante” (Roma-Bari: Laterza). “Species
intelligibilis”, Cavalcanti laico e le origini della poesia italiana,
Alessandria: Edizioni dell'Orso); Cavalcanti auctoritas”; Cavalcanti laico; La
felicità: Nuove prospettive per Cavalcanti (Torino, Einaudi); Cavalcanti (Torino,
Einaudi); Cavalcanti: poesia e filosofia, Alessandria, Edizioni Dell'Orso);
Cavalcanti: uno studio sul lessico lirico, Roma, Nuova Cultura); Per altezza
d'ingegno: saggio su Cavalcanti, Napoli, Liguori); L'ombra di Cavalcanti; Roma,
L'Asino d'Oro, . Guido Cavalcanti, Rime, Firenze, presso Niccolò Carli).
Dizionario biografico degli italiani; Il controverso pellegrinaggio
Cavalcanti”; “La Divina Commedia. Inferno, Mondadori, Milano); La società
letteraria italiana. Dalla Magna Curia al primo Novecento. La fama o, meglio,
l’habitus di filosofo Cavalcanti lo deve essenzialmente ad una sua poesia: la
canzone celeberrima e alquanto complessa, sia per la metrica che per i
contenuti, Donna me prega. In essa il poeta parlerà di “amore” con gli
strumenti della filosofia naturale (“natural dimostramento”), conducendo
un’analisi razionale volta a spiegarne la natura e le cause. Una prima
importante informazione circa l’essere dell’amore Cavalcanti ce l’ha già
fornita nell’incipit della canzone: egli, infatti, ci ha detto che l’amore è un
accidente e che, di conseguenza, non è una sostanza. Questa definizione,
tuttavia, ha un significato tecnico preciso, che il poeta mutua dalla filosofia
di Aristotele. Occorre, pertanto, fare una premessa. La sostanza, secondo il
grande filosofo greco, è ciò che ha vita propria, ciò che cioè esiste
autonomamente, mentre gli accidenti esistono solo come qualità di essa; in
altre parole, l’accidente si aggiunge alla sostanza esprimendone una
caratteristica casuale o fortuita. Ad esempio, un certo uomo è una sostanza,
mentre l’insieme delle qualità che esso può avere (alto, basso, pallido,
paonazzo, ecc…) sono gli accidenti. Tornando dunque a Cavalcanti, egli afferma
che l’amore non è una sostanza poiché non possiede un’esistenza autonoma come,
ad esempio, gli uomini (l’amore, infatti, non ha né corpo né figura); esso
esiste piuttosto come qualità della sostanza, ovvero come sentimento (qualità)
dell’uomo (sostanza). Innanzitutto, Cavalcanti ci dice che l’amore si insedia
nella memoria. Anche qui, però, occorre richiamare per sommi capi la psicologia
di Aristotele, poiché essa è indispensabile per intendere i versi del poeta.
Nel De anima, Aristotele definisce l’anima forma del corpo; egli, tuttavia, per
forma non intende l’aspetto esteriore di una cosa, ma la sua natura propria, la
struttura che rende quella tale cosa ciò che è. L’anima, dunque, vivifica e dà
al corpo la sua struttura essenziale. Essa, inoltre, secondo Aristotele, pur
essendo unica, può essere divisa, a seconda delle funzioni che svolge, in tre
parti: anima vegetativa, anima sensitiva e anima intellettiva. La prima
riguarda le funzioni vitali minime (come, ad esempio, la nutrizione e la
riproduzione) degli esseri viventi a cominciare dalle piante; la seconda,
invece, comprende i sensi e il movimento ed è propria solamente degli animali e
dell’uomo; la terza, infine, riguarda il pensiero, le funzioni intellettuali,
ed propria solo dell’uomo. La memoria, per Aristotele e, quindi, anche per
Cavalcanti, appartiene all’anima sensitiva; essa, cioè, è un prolungamento o
estensione della sensazione. In altre parole, l’anima sensitiva non solo
permette all’uomo di vedere, sentire, gustare gli altri corpi, ma gli permette
anche di avere di questi ultimi delle immagini. La passione amorosa, dunque, è
creata da una sensazione: il diletto per la vista della donna fa si che
l’immagine di essa si imprima nella memoria; l’amore è il nome che si dà ad una
operazione dell’anima sensitiva, poiché ad essa, come abbiamo visto,
appartengono sia la funzione della vista che quella della memoria. Il poeta,
tuttavia, ci dice che questa immagine trova “loco e dimoranza” anche
nell’intelletto possibile. Che cosa intende con questi versi? Bisogna ritornare
brevemente alla psicologia aristotelica. Abbiamo visto che l’anima, a seconda
delle sue funzioni, può essere vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’ultima
delle tre riguarda il pensiero, le operazioni intellettuali proprie dell’uomo.
Secondo Aristotele, dopo che un oggetto è stato percepito dai sensi e che l’immagine
di esso si è impressa nella memoria, esso viene pensato dall’intelletto. In che
modo? Una parte dell’anima sensitiva, che egli chiama intelletto possibile,
riceve l’immagine dell’oggetto percepito dai sensi grazie all’azione di
un’altra componente della stessa anima, che egli chiama intelletto agente. Per
fare un esempio, si potrebbero paragonare l’intelletto possibile ad un quaderno
ancora intonso e l’intelletto agente all’azione dello scrivere. Dunque, mentre
i sensi producono nella memoria l’immagine della donna, l’intelletto agente
imprime nell’intelletto possibile la forma astratta di questa immagine.
Ricapitolando, nell’anima sensitiva si sviluppa la passione amorosa attraverso
la vista della donna e la memoria della sua immagine, mentre niente di tutto
questo avviene nell’anima intellettiva, la quale ha dell’amata soltanto un
concetto astratto e disincarnato. L’amore non è una virtù morale (queste,
infatti, sono un prodotto della ragione, dell’anima intellettiva), ma è una
virtù sensibile, appartiene all’anima sensitiva. Cavalcanti ci dice che non
l’anima intellettiva, ma bensì l’anima sensitiva è perfezione dell’uomo, poiché
essa attua tutte le potenzialità insite nell’individuo umano. Il poeta,
infatti, seguendo l’interpretazione che di Aristotele aveva dato il filosofo
arabo Averroè, ritiene che esista un unico intelletto sempre in atto ed eterno
separato dagli uomini, con il quale le facoltà superiori dell’anima sensitiva
di ciascun essere umano entrano in contatto ogni qual volta si sviluppa il
pensiero. In altre parole, egli, affermando l’esistenza di un intelletto unico
ed eterno, separa l’anima intellettiva, unica ed eterna, dalle anime sensitive
concrete e mortali di ciascun uomo. Questa complessa psicologia che Cavalcanti
mutua da Averroè è la base del suo celebre pessimismo amoroso. La passione
amorosa ottunde la capacità di giudizio poiché l’immagine della donna amata,
ormai insediata nella memoria e desiderata dai sensi, determina il netto
prevalere dell’anima sensitiva su quella intellettiva. Questo non vuol dire,
però, che l’amore ottenebra l’intelletto; come abbiamo poc’anzi visto, infatti,
le facoltà intellettuali sviluppano la conoscenza, non il desiderio; inoltre,
il poeta, seguendo Averroè, ha appena sostenuto che l’anima intellettiva è
separata dalle anime sensitive degli uomini. Quello che Cavalcanti intende,
dunque, è questo: la passione amorosa, “se forte”, impedisce all’uomo, dominato
totalmente dai bisogni dell’anima sensitiva, di stabilire un contatto con
l’intelletto e quindi di avere raziocinio. In questo senso egli parla
dell’amore come di un vizio, che porta chi ne è colpito a non saper più
distinguere il bene dal male (“discerne male”). Ciononostante, Cavalcanti ci
dice che l’amore non è cosa contraria alla natura (“non perché oppost’a
naturale sia”); anzi, al pari degli altri bisogni naturali, la passione amorosa
sviluppa una potenzialità propria dell’anima sensitiva e, pertanto, rinunciarvi
sarebbe deleterio e controproducente. Come interpretare questa affermazione apparentemente
contraddittoria? È necessario, anche in questo caso, richiamare Aristotele.
Nell’Etica Nicomachea, il filosofo greco afferma che ognuno è felice quando
realizza bene il proprio compito (ad esempio, il costruttore sarà felice quando
realizzerà oggetti perfetti). Il compito dell’uomo, però, non potrà certo
essere quello di assecondare l’anima vegetativa o quella sensitiva; egli dovrà
piuttosto vivere secondo ragione; pertanto, secondo il filosofo greco, la
felicità per l’uomo consiste nell’attività razionale, nella vita secondo
ragione. Cavalcanti, dunque, seguendo Aristotele, ci dice che l’amore è
deleterio e mortale solo quando ci allontana violentemente da questo tipo di
vita; poiché una vita vissuta in preda ai bisogni a agli istinti dell’anima
sensitiva è una non-vita, più adatta agli animali che agli uomini. Viceversa,
l’amore che riesce ad essere temperante, e che cioè non allontana l’uomo dalla
vita razionale, è espressione di un naturale bisogno della nostra sensualità.
Guido Cavalcanti. Keywords: lo sviluppo della teoria dell’amore in Aristotele –
amore e morte, amore e anima vegetativa (l’amante non mangia, l’amante non
dorme) – l’animo e il corpo come entelechia, sinolo perfetto – l’amore come
incontro disastroso di due entellechie. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cavalcanti” – The Swimming-Pool Library.
CAVALLO (Napoli). Grice: “I
love Cavallo, and so did most of the members of the Royal Society!” Grice:
“Cavallo wasn’t strictly onto mythology, but the Italians on the whole are: the
Elettridi are a couple of islands off the mouth of the shore where Fetonte fell
– due to … electricity, as Cavallo called it – Cavallo is what at Oxford we
would call a ‘natural philosoophy’ – for which there was once a chair – it’s
very odd that it’s the chair in transnatural or ‘metaphysical’ philosophy that
still sub-sists, as Heidegger would put it! By using ‘elettricita’ in the
feminine abstract, Strawson criticsed Cavallo – but Strawson criticised most!”
-- Autore di trattati di elettricità, magnetismo ed elettricità medicale, compe
anche studi relativi ai gas e all'influenza dell'aria e della luce sulla
biologia. Propone numerosi apparecchi elettrostatici di misura e di ricerca.
Intue la possibilità di volare utilizzando palloni aerostatici. Costrue il primo
elettroscopio. Altre opere: TreccaniEnciclopedie. Figlio
di un medico. Si dedica alla filosofia e al commercio a giudicare da alcuni
suoi studi. Si ritaglia un posto di rilievo come ideatore di esperimenti,
inventore e realizzatore di strumenti di precisione e di apparati sperimentali,
anche su commessa, e autore di trattati sistematici molto valutati per
chiarezza, sistematicità e completezza. Si lo ricorda in particolare per
i suoi studi di aeronautica, legati alla possibilità di usare l’idrogeno come
gas portante. E il primo a effettuare esperimenti sistematici sulle capacità
ascensionali dell’idrogeno, gas che era stato scoperto quindici anni prima da
Cavendish. Inizia con bolle di sapone riempite d’idrogeno, e che per questo
salivano in verticale. Prova poi con involucri di carta, che però si rivelano
inadatti perché permeabili al gas, e infine con vesciche di animali, troppo
pesanti per sollevarsi ma in grado di far misurare una riduzione del peso. Non
riusce a trovare un involucro abbastanza leggero da sollevarsi una volta
riempito di gas. Cavallo, Tiberio. - Fisico (Napoli 1749 - Londra 1809);
recatosi per commercio in Inghilterra nel 1771, ivi si dedicò a ricerche di
fisica e di chimica. Già nel 1777 aveva intuito la possibilità del volo per via
aerostatica, mediante un pallone ripieno di gas leggero; eseguì in proposito
una serie di ingegnose esperienze servendosi di bolle di sapone gonfiate con
idrogeno. Deve considerarsi il vero inventore dell'elettroscopio. Fisico e filosofo naturale italiano. I suoi
interessi includeno l’elettricità , lo sviluppo di strumenti scientifici, la
natura delle "arie" e il volo in mongolfiera. Membro della Royal Academy
of Sciences di Napoli. Presenta tredici volte di seguito la Lezione Bakeriana della
Royal Society di Londra. Nacque a Napoli, Italia, dove suo padre era un medico.
Apporta diversi ingegnosi miglioramenti agli strumenti scientifici. È spesso
citato come l'inventore del “moltiplicatore di Cavallo”. Sviluppa anche un "elettrometro
tascabile" che usa per amplificare piccole cariche elettriche per renderle
osservabili e misurabili con un elettroscopio. Parti dello strumento e protetto
dalle correnti d'aria da un involucro di vetro. Lavorato alla refrigerazione. In
seguito al lavoro di Cullen e Black, fu il primo a condurre esperimenti
sistematici sulla refrigerazione utilizzando l'evaporazione di liquidi
volatile. Si interessa alle proprietà fisiche delle "arie" o dei gas
e condusse esperimenti sull '"aria infiammabile" (idrogeno gassoso).
Nel suo “Trattato sulla natura e le proprietà dell'aria” fece "un esame
giudizioso del lavoro contemporaneo", discutendo sia la teoria del “flogisto”
(citado da Grice in “Actions and events”) di Priestley che le opinioni
contrastanti di Lavoisier. Alla Royal Society venne letto un articolo che
descrive il primo tentativo di sollevare in aria un palloncino pieno di
idrogeno. La sua “Storia e pratica dell'aerostazione” e considerata "una
delle prime e migliori opere sull'aerostazione pubblicate nel diciottesimo
secolo". In esso, discute sia i recenti esperimenti in mongolfiera, sia i
suoi principi fondamentali. Si rivolge a un pubblico più generale in questo
lavoro, evitando il gergo tecnico e le prove matematiche, ed era un efficace
comunicatore scientifico sia per i suoi colleghi che per il pubblico in
generale. Influenza i pionieri dell'aerostato Charles, i fratelli Blanchard .
Storia e pratica dell'aerostazione , Tiberio Cavallo. La piastra I, che
illustra l'apparato chimico e i palloncini utilizzati per la generazione di
idrogeno La piastra II, che illustra l'apparato chimico e i palloncini
utilizzati per la generazione di idrogeno Cavallo pubblicò anche sul
temperamento musicale nel suo trattato “Del temperamento di quegli strumenti
musicali, in cui sono fissati i toni, le chiavi o i tasti, come nel
clavicembalo, nell'organo, nella chitarra, ecc . Il memoriale di Burdett
Coutts, Old St. Pancras. Il nome di Cavallo è verso il basso, ma mancano le
lettere B e C. Secondo quanto riferito, fu sepolto nel cimitero di Old St. Pancras
in una volta vicino a quella di Paoli. La tomba è perduta ma è elencato nel
memoriale di Burdett Coutts alle molte persone importanti sepolte in
essa. Altre opere: Pubblica numerosi lavori su diversi rami della fisic ,
tra cui: “Trattato completo di elettricità in teoria e pratica” (Firenze:
Gaetano Cambiagi); “Teoria e pratica dell'elettricità medica”; “Trattato sulla
natura e le proprietà dell'aria e di altri fluidi permanentemente elastici”; “Trattato
completo sull'elettricità in teoria e pratica”; “Storia e pratica
dell'aerostazione”; “Trattato sul magnetismo”; “Proprietà mediche dell'aria
fittizia”; “Elementi di filosofia naturale e sperimentale”. Per la Cyclopædia
di Rees ha contribuito con articoli su Elettricità, Macchinari e Meccanica, ma
gli argomenti non sono noti. Un resoconto di alcuni nuovi esperimenti elettrici
del Sig. Tiberio Cavallo comunicato dal Sig. Henley, FRS, Transazioni
filosofiche della Royal Society di Londra. TRATTATO COMPLETO D'ELETTRICITÀ
TEORICA E PRATICA CON SPERIMENTI ORIGINALI DEL SIGNORE TIBERIO CAVALLO TRADOTTO
IN ITALIANO DALL'ORIGINALE INGLESE Con addizioni e cangiamenti fatti dall'
Autore , 9 FIRENZE MDCCLXXIX . PER GAETANO CAMBIAGI STAMP. GRANDUCALE CON
LICENZA DE SU PÈRIORI. 1 ' A SUA ALTEZZA I OR D NASSAU CLAVERING PRINCIPE E
CONTE DICO W P E R PRINCIPE DEL S. ROM. IMP. E PARI DELLA GRAN BRETTAGNA ec .
AVoi folo Altezza e non ad altri dovea dedicarſi queſta verſione dall'origi
nale ingleſe che ha l'onore di IV di renderſi pubblica colle preſenti ſtampe e
di compa rire ſotto il Voſtro autore vole patrocinio . Ella è d'uno della
Voſtra Nazione , è ſtata intrapreſa per Voſtro comando , fatta ſotto i
Voſtriocchi, e quafi tutti gli addotti ſperimenti reiterati nel Voſtro copioſo
ed elegante Gabinetto, che avete voluto rendere quaſi pubblico a comune vantag
gio di chi brama profittare delle ſcoperte fiſiche ſperi mentali . Proſeguite
come fate in que queſta Voſtra generoſa in trapreſa ; mentre ſotto i Vo ftri
fortunatiſſimiauſpicjcol più profondo riſpetto mi glorio di poter paſſare a di
chiararmi DI VOSTRA ALTEZZA Di Caſa 26. Marzo 1779. Umiliſſimo Servo > IL
TRADUTTORE VII A VV 1 SO DEL TRADUTTORE. " Mi ſarei facilmente
diſpenſato dal fare veruno avviſo a queſt' opera ſe non mi foffi creduto in
dovere di rendere in teſo l'Autore della medeſima , della ſtampa che meditavo
fare della preſente verſione , anco per ſentire da ello ſe avea niente da
aggiugnere o mutare al ſuo lavoro. Avendogli dunque ſcritto il Sig . Ma gellan
alle richieſte d'un mio amico ſu queſto propoſito, gradì molto queſta parte , e
traſmeſſe alcune addizioni e cambiamenti che deſiderava che foſſerofatti, come
èſtato eſeguito , accompagnati con una corteſe let tera del tenore ſeguente .
Signore . Incluſa in queſta Ella riceverà una nota di alcune poche addizioni e
cam bia 1 a 4 VIII A V VISO biamenti che bramerei foſſero inſeriti nella
traduzione del mio Trattato ſull'E . lettricità . La prego fare intendere al
Traduttore e al di Lei corriſpondente che ſono loro molto obbligato per aver mi
dato parte di queſta intrapreſa , e che ſon pronto a ſervirgli in quel poco che
poſſo . Nov. 30. 1778. Suo Tiberio Cavallo , Sig. Magellan Nevils Court Ferter
Lane . 1 NEL TRATTATO DI CAVALLO SULL' ELETTRICITA' . Pag. 2.8 . v. 6. In vece
di è quaſi tutte le dure pietre prezioſe ſi legga ad alcune altre dure pietre
prezioſe . Pag. 40. Il paragrafo che comincia fiz nalmente concluderemo e
finiſce da un corpo ad un' altro ſi dee totalinente omertere . Pag. DEL
TRADUTTORE } Pag. 99. Il paragrafo che comincia Le caufe e gli effetti ſono
così intimamente, e termina nella pag. 100. colle parole cer tezza epreciſione
fi dee omettere affatto . Pag. 137. Alla nota in cui ſi deſcrive l’Amalgama ſi
poſſono aggiungere i fe guenti verſi : Il Dott. Higgins ha ultima mente
inventato un Amalgama che è molto preferibile a quello di ſtagno , perchè una
piccoliffima quantità di effo non solo fa agire il vetro più potentemente , ma
dura anco più lungo tempo ſullo ſtrofinatore che quello di fagno. Queſt'
amalgama è fatto d'un feſto di zinco e cinque ſefti di mer . curio meſcolati
inſieme. Pag. 279. v. 12. Si dice non ſarà at tratta del ec. ma più toſto
recederà dal punto ſpecialmente ſe l' ago ſi preſenti velociſſimamente verſo
ilmedeſimo: Ora leparole di queſto paſſocheſono interpun tate deono ometterſi ,
cioè dee dir così , non ſarà attratta dal medefino. a 5 Pag. X À VVISO 1 Pag.
335.v.8 . Tra le parole poichè e l'e lettricità ſi dee aggiugnere in parità di
circoſtanze . Pag. 393. v. ult. cioè della nota In ve ce di Vol. XLVIII. e
LXVII. ſi legga Vol. LIV. e LXVII. Del reſto polo aſſicurare il mio Lettore che
la maggior parte degli ſperimenti in queſto Trattato riferiti ſono ſtati
ripetuti Sotto i miei occhi nel ricco e ſcelto Gabi netto di S. A. il Sig.
PRINCIPE COWPER che ne ha dato tutto il comodo, ed ha colla sua autorità
promoſſo queſto lavoro . In tanto vivi felice , e godi di queſta fatica . 1 . 1
i r 1 PRE 2 XI PREFAZIONE DELL'AUTORE. HL diſegno di queſto Trattato è di pre
ſentare al pubblico un proſpetto che comprenda lo ſtato preſente dell'elettri
cità ridotto in quei limiti più riſtretti che la natura della ſcienza può
tollerare . Eſſo è diviſo in quattro parti, in ciaſcuna delle quali ſono
contenute certe particolarità che avevano anche minor conneſſione col
rimanente, e la cui diſtinta veduta ſi è creduto , che poteſſe eſſere un mezzo
da impedire la confuſione dell' idee nella mente di quei lettori che non fi
erano prima refa molto familiare queſta materia . La prima parte tratta
ſolamente delle leggi dell'elettricità ; cioè di quelle leggi naturali relative
all' elettricità che per mezzo d' innumerabili ſperimenti ſi ſono tro ) 1 XII
PREFAZIONE il trovate coſtantemente vere , e che non dipendono da veruna
ipoteſi. In queſta parte l'autore non è diſceſo a veruna par ticolarità , la quale
non foſſe chiaramente ſicura , o la quale foſſe di poca conſeguen za ; ma nel
tempo medeſimo ha procu rato di non omettere coſa alcuna impor tante , o che
ſembraſſe promettere ulte riori: ſcoperte La ſeconda parte è meramente ipote
tica , non per rapporto ai fatti, ma in ri guardo all opinioni. La grande
improba bilità della maggior parte di queſte ipo teſi ha deterininato l'autore
a renderla più breve che foſſe poſſibile . La parte terza contiene la pratica
dell' elettricità . Qui l'autore ha procurato d'in ferire una deſcrizione di
tutti i nuovi mi glioramenti fatti nell'apparato , i quali nel tempo medeſimo
ſervono a minorare la fpefa , e a facilitare l'eſecuzione degli eſperimenti. In
riguardo agli eſperimenti mede 1 DELL' AUTORÉ . XIII medeſimi , egli ha
principalmente inſiſtito ſu quei pochi primari che gli ſon parſi i più
neceſſari a illuſtrare e confermare le leggi dell'elettricità , omettendo un
gran numero d'altri che ha trovato non eflere altro che i primi in qualche coſa
va rjati . Egli niente di meno ha dato un rag guaglio di alcuni altri che
quantunque non affolutamente neceſſari, gli parvero però meritare che ſene
defle notizia . La quarta ed ultima parte contiene un breve ragguaglio dei
principali ſperi menti eſeguiti dall'autore medeſimo in conſeguenza di quanto
gli è accaduto nel corſo dei ſuoi ſtudj in queſta parte di fi loſofia . Quì
egli ha laſciato di far men zione non ſolo di quei tentativi che non hanno
prodotto verun conſiderabile effet to , maancora d'innumerabili congetture che ha
formato intorno a' medeſimi , e intorno ad altri non ancora ridotti alla
ſicurezza dell'attuale oſſervazione . L'au XIV PREPAZIONE · L'autore prende
queſt' opportunità di dimoſtrare la ſua riconoſcenza a varj ſuoi ingegnoſi
amici per diverſe eſperienze comunicategli , e particolarmente al Sig.
Guglielmo Henly il quale ha fatto quel che per lui ſi poteva per informarlo di
ciaſcuna particolarità che ha creduto po teſſe arricchire e abbellire l'opera .
Non è ſembrato neceffario il nominare quei ſoggetti, le di cui eſperienze e of
fervazioni recate in queſt' opera erano avanti ben cognite al mondo ; per lo
che l'autore ſi è riſtretto a far menzione di quelle perſone le cui eſperienze
erano nuo ve , o non comunemente note agli ſcrit tori di queſta materia . Per
rendere il trattato più intelligibile ed utile ſono ſtate aggiunte tre tavole
in rame, e un copioſo indice delle materie che meritano maggiore attenzione .
IN XV 1 INDI CE DEI CAPITOL I. Neroduzione pag. 1 . PARTE PRIMA.. Leggi
fondamentali dell'elettricità . II . CA P. I. Contenente la spiegazione d '
alcuni termi ni che fono principalmente uſati nelle lettricità CA P. II. Degli
elettrici , e dei conduttori .... 15 . CA P. III. Delle due elettricità 24 CA
P. IV . Dei differenti metodi di eccitare gli elet trici . 37 . CAP. I XVI CAP.
V. Dell elettricità comunicata 48. CA P. VI. Dell' elettricità comunicata agli
elettri ci . 63 . CA P. VII. Degli elettrici caricati , ovvero della Boc cia di
Leida ' . 71 . CA P. VIII. Dell elettricità atmosferica go. CA P. IX. Vantaggi
derivati dall elettricità ....96 . CA P. X. Che contiene un proſpetto
compendioſo del le proprietà principali dell elettrici tà . 119. PAR 4 XVII 1
PARTE SECONDA. Teoria dell'elettricità , CA P. I. Ipoteſi dell' elettricità
poſitiva , e negati Va 126. CA P. II. Della natura del fluido elettrico 136 .
CA P. III. Della natura degli elettrici , e dei con duttori... 149 CA P. IV .
Del luogo occupato dal fluido elettrico . 153 . PARTE TERZA. Elettricità
pratica . CA P. J. Dell'apparato elettrico in generale . 101 . CA P. II.
Deſcrizione d' alcune particolari macchine elettriche 387 . CAP. XVIIL ze... CA
P. III. Deſcrizioneparticolare di alcune altreparti neceſſarie dell'apparato
elettrico . 200. CA P. IV. Regole pratiche riguardanti l'uſo dell' ap parato
elettrico , ed il fare l'eſperien 216. CA P. V. Sperimenti relativi
all'attrazione , e re pulſione elettrica 226. CA P. VI. . . Sperimenti ſulla
luce elettrica ... 262 CA P. VII . Sperimenti colla bottiglia di Leida . 289.
CA P. VIII. Sperimenti con altri elettrici caricati. 3 34 . CA P. IX .
Sperimenti ſull' influenza delle punte , e ſull' utilità dei conduttori
metallici ap puntati per difendere gli edifizj dagli effetti del fulmine 345
CAP. 1 1 1 1 XIX са CA P. X. Elettricità medica .... .. 364 CA P. XI.
Sperimenti fatti con la batteria elettri 369. CA P. XII. Sperimenti promiſcui
384. CA P. XIII. Ulteriori proprietà della boccia di Leida ovvero degli
elettrici caricati. 409. PARTE QUARTA. Nuovi ſperimenti dell' elettricità ..
413. CA P. I. . Coſtruzione dell' aquilone elettrico , e di altri ſtrumenti
uſati con ello 421 . CA P. II. Sperimenti fatti con l' aquilone elettri 435. co
CAP. XX CA P. III. . . Sperimenti fatti coll.elettrometro atmosfe rico , e
coll' elettrometro per la prog gia . 405. CA P. IV. Sperimenti fatti coll'
elettroforo comune mente chiamato macchina per eſibire l'elettricità perpetua ·
474 CA P. V. Sperimenti ſu i colori . 487 CA P. VI. Sperimenti promiſcui 494 .
Indice 505. . . . . . . IN 1 INTRODUZIONE L E arti e le ſcienze a guiſa dei re
gni e delle nazioni, anno cia ſcuna alcuni fortunati periodi di gloria e di
fplendore, in cui eſſe mag giormente attirano l'umana attenzione , e fpandendo
una luce più viva che in qualunque altro tempo divengono l'oga getto favorito e
la moda del ſecolo ; ma queſti periodi terminan preſto , e pochi anni di luſtro
e di fama reſtano ſpetto oſcurati da interi ſecoli d'oblivione . Da queſto faro
infelice per altro alcune ſcien ze ſono riſervate ed elenti , le quali in
grazia della vaſta e neceſſaria eilenſione del loro uſo e delle fruttuole
produzioni che da loro ſi ricavano , ſono ſempre flo ride ; e ſebbene una volta
ſiano ſtate in А CO INTRODUZIONE cognite , pure quando la fama ne ha fatto
riionare il lor naſcimento o pubblicato i loro progreſli , giammai dopo declina
no , e benchè divenute languenti per l'età in verun tempo periſcono . Di queſto
ge nere è l’Elettricità la più dilettevole e la più ſorprendente tra tutte le
parti della Filoſofia naturale , che mai ſia ſtata coltivata dall'uomo . Queſta
ſcienza dopo aver fatto conocere l'eſtenſione e la ge neralità della ſua forza
, dopo che ſi è conoſciuto eſſer uno dei più grandi agenti della natura , è
ſtata ſempre in voga , è ſtata col maſſimo profitto coltivata , e ſenza
interruzione alcuna ha fatto tali progreſſi , che ora è ridotta a uno ſtato in
cui in vece di divenire ſterile , ſembra ulteriormente impegnare la generale at
tenzione e ripromettere ai ſuoi ſeguaci le più degne e le più vaſte ricompenſe.
Gli Ottici è vero , moſtrano molte in cantatrici ed utili proprietà , ma ſempre
rela. INTRODUZIONE 3 1 i relative alla ſola viſione : il Magnetiſmo rappreſenta
la forza d'attrazione , re pultione , e direzione verſo le parti po lari di
quella ſoſtanza che ſi chiama ca lamita ; la Chimica tratta delle varie
compoſizioni e riſoluzionidei corpi : ma l ' Elettricità contenendo per così
dire tutte queſte coſe dentro di ſe ſola eſibiſce gli effetti di molte ſcienze
, combina in ſieme le diverſe energie e ferendo i ſenſi in una particolare e
forprendente manie ra , dà piacere ed è di grand'uſo all'igno rante ugualmente
che al Filoſofo , all' opulento ugualmente che al povero . Nell' Elettricità ci
divertiamo contem plando la ſua penetrante luce rappreſen tata in innumerabili
diverſe forme, am. miriamo la ſua attrazione e repulſione che agiſce ſopra
ciaſcun genere di corpi , reſtiamo ſorpreſi dall'urto , atterriti dall'
eſploſione e forza della ſua batteria ; ma quando la conſideriamo ed eſaminiamo
A 2 , CO 4 INTRODUZIONE come cauſa del tuono , del fulmine , dell' aurora
boreale , e di altri fenomeni na turali , i cui terribili effetti poliamo in
parte imitare , ſpiegare , ed anche allon tanare , allora sì che reſtiamo
attoniti per la maraviglia , la quale non ci per mette di contemplare altro che
l'ineſpri mibile e permanente idea dell'aminira zione e della ſorpreſa . Il più
remoto rag guaglio a noi cognito , che abbiamo di qualche effetto elettrico
eſiſte nell ' opere del famoſo antico naturaliſta Teofraſto che fiori circa
trecento anni avanti Cri ſto . Ei ci dice che l'ambra il cui nome greco è
nextpor , e da cui il nome d'E lettricità è derivato , come pure il Lin curio (
1 ) poſſiede la qualità di attrarre i corpi leggieri . Queſto ſolamente era
tutto cio ( 1 ) E ftato in qualche maniera provato cbe il Lin curio di
Teofraſto è la medeſima ſoſtanza che va ſotto il nome di Turmalina, di cui
avremo occae fione di parlare nel corſo di queſto trattato . 1 INTRODUZIONE 5
ciò che ſi conoſceva ſu tal ſoggetto per circa 19. ſecoli dopo Teofraſto , nel
qual lungo periodo non troviamo nell'iſtoria fatta menzione di alcuna perſona
che abbia fatto veruna ſcoperta , e ne pure ſperimento alcuno in queſta parte
di Filoſofia , eſſendo rimaſta queſta ſcienza affatto nell'oſcurità fino al
tempo di Guglielmo Gilbert medico Ingleſe , che viveva ful principio del decimo
fertimo ſecolo ; ed il quale a cagione delle ſue ſcoperte in queſto nuovo e
inculto cam po può giuſtamente chiamarſi il padre della preſente Elettricità .
Offerva egli che la proprietà d'attrarre i corpi leg gieri dopo la
confricazione non è una proprietà particolare dell'ambra o del Lincurio , ma
che molti altri corpi la poſſeggono egualmente . Rammenta un gran numero di
queſti e nel medeſimo tempo varie particolarità , che conſide rando lo ſtato
della ſcienza in quel ſe colo 1 6 INTRODUZIONE colo poſſono ſembrare veramente
grandi ed intereſſanti. Dopo Gilbert la ſcienza avanzando benchè con piccoli
progrefli , paſsò per così dire dall'infanzia alla puerilità , a vendo
intrapreſo alcuni eccellenti filo ſofi ad eſaminare la natura in queſte ope
razioni . Tale fu Franceſco Bacone , Ro berto Boyle , Ottone Guericke , Iſacco
Newton , e più di tutti il Sig. Hawkesbee ſoggetto a cui ſiamo molto obbligati
per alcune importanti ſcoperte e per il reale avanzamento dell'Elettricità . Il
Sig. Hawkesbee fu il primo che oſſervò la gran forza elettrica del vetro ,
ſoſtanza che fin da quel tempo fu generalmente uſata da tutti gli elettriciſti
in preferenza di qualunque altro elettrico . Egli fu il primo che notaſie le
varie apparenze della luce elettrica e il fragore accom pagnato con eſſa ,
inſieme con una varietà di fenomeni relativi all'attrazione e ri pulſione
elettrica . Do INTRODUZIONE 7 Dopo il Sig. Hawkesbee la ſcienza dell'
elettricità per quanto fin lì foſſe avanzata , rimaſe quaſi per venti anni in
uno ſtato di quiete , eſſendo l'attenzione dei Filoſofi in quel tempo occupata
in altri filoſofici ſoggetti, i quali in riguardo alle nuove ſcoperte
dell'incomparabile Iſacco Newton erano allora grandemen. te in reputazione . Il
Sig . Grey fu il pri-, mo dopo queſto periodo d' oblivione a portar la ſcienza
di nuovo alla luce del mondo . Egli mediante le gran ſcoperte che fece la
inſinuò di nuovo alla cogni zion dei Filoſofi e da lui ſi può dire che prenda
la ſua data la vera e florida epoca dell' Elettricità . Il numero degli
elettriciſti che ſi è giornalmente moltiplicato dal tempo del Sig . Grey , le
ſcoperte fatte , e gli uſi che ne ſon derivati fino al tempo preſente , fono
materia realmente degna d'atten zione e meritano l'ammirazione di qua lun 1 1 8
INTRODUZIONE 1 lunqne amatore delle ſcienze ed amico dell'uman genere .
Chiunque vuole informarſi dei parti colari progrelli fatti in queſta ſcienza ,
legga l'elaborata iſtoria dell'Elettricità compilata dall'eccellente D:
Prieſtley , opera che lo può informare di tutto ciò che è ſtato fatto in
rapporto a queſto ſoggetto fino alla ſua pubblicazione . Io per me mi
diſpenſerò dal farre un lungo dettaglio iſtorico ; queſto trattato eſſendo
diretto a dare un ragguaglio dello ſtato preſente dell'Elettricità , e non a
for marne un'iſtoria . Soltanto oſſerverò in generale , che quantunque la
ſcienza ab bia , mediante l'indefella attenzione di molti ingegnoſi foggetti ,
e mediante le ſcoperte che furono giornalmente pro dotte , eccitata la curioſità
dei Filoſofi e impegnata la loro attenzione ; con tut to queſto ſiccome le
cauſe di ciaſcuna cola piccola o grande , cognita o inco gnita , INTRODUZIONE
gnita , di rado ſono oſſervate con at tenzione , ſe i loro effetti non ſono
sfol goranti e ſingolari; così l'Elettricità è ſtata fino all'anno 1746.
ſtudiata da nel fun altro che da Filoſofi . La ſua attra zione può eſſere
rappreſentata in parte dalla calamita , la ſua luce dal fosforo , e in una
parola neſſuna coſa ha contria buito a rendere l'Elettricità il ſoggetto della
pubblica attenzione , e ad eccitare una generale curioſità , fin che non fu .
accidentalmente fatta la primaria ſco gran cumulo della ſua forza , in ciò che
ſi chiama boccia di Leida in ventata dal Sig. Muſchenbroeck nel 1746. Allora lo
ſtudio dell' Elettricità divenne generale , ſorpreſe ciaſcuno oſſervatore , e
invitò alla caſa degli elettriciſti un più gran numero di ſpettatori di quello
che avanti ſi foſſe mai unito inſieme per oſſervare qualunque altro filoſofico
ſpe rimento . Dal perta del 1 5 INTRODUZIONE 1 Dal tempo di queſta ſcoperta il
pro digioſo numero d'elettriciſti , di ſperi menti , e di fatti nuovi che ſono
ſtati giornalmente prodotti da ciaſcun angolo dell'Europa e da altre parti del
mondo , è quafi incredibile . Le ſcoperte ſi cumu larono ſopra altre ſcoperte ,
i megliora menti ſopra altri meglioramenti , e la ſcienza da quel tempo fece un
così ra pido corſo , ed ora ſi eſtende con sì mi rabile velocità , che ſembra
che il fog getto dovrebbe eſſere tutto eſaurito , e gli elettriciſti pervenuti
al fine delle loro ricerche : per altro non è così . Il non plus ultra è con
tutta probabilità ancora molto lontano , e il giovane elettriciſta ha avanti a
ſe un vaſto campo che mé rita altamente la ſua attenzione e che gli promette
ulteriori ſcoperte forſe o d' uguale o di maggiore importanza di quelle che
ſono ſtate già fatte .
Of Natural Philosophy ;—~its Name ;•—its Objeft —its Axioms ; —and
the Rules of Philofophizing . T HE word Philofophy, though ufed by ancient
authors in fenfes fomewhat different, does, however, in its moft ufual
acceptation, mean the love of general knowledge. It is divided into moral and
natural. Moral philofophy treats of the manners, the duties, and the condud of
man, confidered as a rational and focial beings but the bufinefs of natural
philofophy, is to colled the hiftory of the phenomena which take place amongft
natural things, viz. among# the bodies of the Univerfes to inveftigate their
caufes and effeds ; and thence to deduce fuch natural laws, as may afterwards
be applied to a variety of ufeful purpofes*. Natural * The word philofophy is
of Greek origin. Pitagoras, a learned Greek, feems to have been the firfl who
called himfelf philofopher j viz. a lover of knowledge, or of wifvol. r. b dom.
2 Of Philosophy in general. Natural things means all bodies ; and the
aflemblage or fyftem of them all is called the univerfe. The word phenomenon
fignifies an appearance, or, in a more enlarged acceptation, whatever is
perceived by our fenfes*. Thus the fall of a ftone, the evaporation of water,
the folution of fait in water, a tlafh of lightning, and fo on ; are all
phenomena. As all phenomena depend on properties peculiar to different bodies ;
for it is a property of a ftone to fall towards the earth, of the water to be
cvaporable, of the fait to be foluble in water, &c. therefore v/e fay that
the bufinefs of natural philofophy is to examine the properties of the various
bodies of the univerfe, to inveftigate their caufes, and thence to infer ufeful
deductions. Agreeably dom, from the words piaoj, a lover or friend , and
croplxi, of knowledge or wifdom. Moral philofophy is derived from the latin mos
, or its plural mores , fignifying manners or behiyiour. It has been likewife
called ethics, from the Greek r,ccs, mos, manner, behaviour. Natural philofophy
has alfj been called p hylics , phyfology, and experimental phi Ifophy: The
ftrft of thofe names is derived from nature, or gv-T.hr., natural ; the fecond
is derived from pvair, nature , and >. a dijeourfe ; the laft deno nination,
which was introduced not many years ego, is obvioufly derived from the juft
method of experiment. ' inveftigation, which has been univerfally adopted ftnee
the r P.vul of learnin-"- 'n Europe. * Phenomenon, whofe plural is phenomena,
owes its origin to the Greek word pf.-.ai, to appear. and the Rules of
Philofophizing. 3 Agreeably to this, the reader will find in the courfe of this
work, an account of the principal properties of natural bodies, arranged under
diftincft heads, with an explanation of their efFefts, and of the caufes on
which they depend, as far as has been afeertained by means of reafoning and
experience; he will be informed of the principal hypothefes that have been
offered for the explanation of faffs, whofe caufes have not yet been
demonflratively proved; he will find a flatement of the laws of nature, or of
fuch rules as have been deduced from the concurrence of fimilar facts ; and,
laftly, he will be inftrudted in the management of philofophical inflruments,
and in the mode of performing the experiments that may be thought neceffary
either for the llluftration of what has been already afeertained, or for the
farther inveftigation of the properties of natural bodies. We need not fay much
with refpect to the end 01 defign of natural philofophy.—Its application and
its ufes, or the advantages which mankind may deuve therefrom, will be eafily
fuggefted by a very fuperficial examination of whatever takes place about us.
The properties of the air we breathe ; the action and power of our limbs ; the
light, the found, and other perceptions of our fenfes ; the adcions of the
engines that are ufed in hufoandry, navigation, &c. ; the viciffitudes of
the feafons, the movements of the celeflial bodies, and io forth ; do all fall
under the con fideration of b 2 the 4 Of Philosophy in general ; the
philofophcr. Our welfare, our very exiftenee-. depends upon them. A very flight
acquaintance with the political ftate of the world, will be fufficient to fhew,
that the cultivation of the various branches of natural philofophy has actually
placed the Europeans and their colonies above the reft of mankind. Their .
difcoveries and improvements in aftronomy, optics, navigation, chemiftry,
magnetifm, mineralogy, and in the numerous arts which depend on thofe and other
branches of philofophy, have fupplied them with innumerable articles of ufe and
luxury, have multiplied their riches, and have extended their powers to a
degree even beyond the expectations of our predeceffors. The various properties
of matter may be divided into two claffes, viz. the general properties, which
belong to all bodies, and the peculiar properties, or thofe which belong to
certain bodies only, exclufively of others. In the firft part of this work we
fhall examine the general properties of matter. Thofe which belong to certain
bodies only, will be treated of in the l'econd. In the third part we fhall
examine the properties of fuch fubftances as may be called hypothetical ; their
exiftenee having not yet been iatisfadtorily proved. In the fourth we fhall
extend our views beyond the limits of our Earth, and fhall examine the number,
the movements, and other properties of the celeltial bodies. The and the Rules
of Philofophizing. 5 The fifth, or laft part, will contain feveral detached
articles, fuch as the defeription of feveral additional experiments, machines,
&c. which cannot conveniently be inferted in the preceding divilions. The
axioms of philofophy, or the axioms which have been deduced from common and
conftant experience, are fo evident and fo generally known> that it will be
fufficient to mention a few of them only. I. Nothing has no property; hence,
JI. No fubftance, or nothing, can be produced from nothing. III. Matter cannot
be annihilated, or reduced to nothing. Some perfons may perhaps not readily
admit, the propriety of this axiom ; feeing that a great many things appear to
be utterly deftroyed by the action of fire ; alfo that water may be caufed to
difappear by means of evaporation, and fo forth. But it mud be obferved, that
in thofe cafes the lubftances are not annihilated ; but they are only
difperfed, or removed from one place to another, or they are divided into
particles fo minute as to elude our fenfes. Thus when a piece of wood is placed
upon the fire, the greateft part of it difappears, and a few afhes only remain,
the weight and bulk of which does not amount to the hundredth part ot that of
the original piece of wood. Now in this cafe the piece of wood is divided into
b 3 its 6 O/Philosophy in general ; its component fubdances, which the atdion
of the fire drives different ways : the fluid part, for inftance, becomes
fleam, the light coaly part either adheres to the chimney or is difperfed
through the air, &c. And if, after the combuftion, the fcattered materials
were collecded together, (which may in great meafure be done), the fum of their
weights would equal the weight of the original piece of wood. IV. Every effect
has, or is produced by, a caufe, and is proportionate to it. It may in general
be obferved with refpedt to. thofe axioms, that we only mean to affert what has
been conflantly (hewn, and confirmed by experience, and is not cont rad idled
either by reafon, or by any experiment. But we do not mean to affert that they
are as evident as the axioms of geometry; nor do we in the lead prefume to
preferibe limits to the agency of the Almighty Creator of every thing, wvhofe
power and whofe ends are too far re- moved from the reach of our underBandings.
Having dated the principal axioms of philolophy, it is in the next place
neceffary to mention the rules of philofophizing, which have been formed after
mature confideration, for the purpofe of preventing errors as much as poffible,
and in order to lead the dudent of nature along the fhorted and fifed way, to
the attainment of true and ufeful knowledge.—Thofe rules are not more than
four; viz. I. We and the Rules of Philofophizing. 7 I. We are to admit no more
caufes of natural things, than fuch as are both true and fufHcient to e:g in
the appearances. II. Therefore to the fame natural effects we muft, as far as
poffible, affign the fame caufes. III. Such qualities of bodies as are not
capable of increafe or decreafe, and which are found to belong to all bodies
within the reach of our experiments, are to be efteemed the univerfal qualities
ol all bodies whatfoever. IV. In experimental philofophy we are to look upon
propofitions colledted by general induction from phenomena, as accurately or
very nearly true, notwithftanding any contrary hypothefes that may be imagined,
till fuch time as other phenomena occur, by which they either may be corrected,
or may be fhewn to be liable to exceptions With refpeft to the degree of
evidence which ought to be expected in natural philofophy, it is neceifary to
remark, that phyficai matters cannot in general be capable of luch abfolute
certainty as the branches of mathematics.—The propofitions of the latter
fcience are clearly deduced from a fet of axioms fo very fimple and evident, as
to convey perfect convi&ion to the mind ; nor can any of them be denied
without a manifeft: abfurdity. But in natural philofophy we can only fay, that
becaufe lome particular effects have been conflantly produced under certain
circumftances ; therefore they will moft likely continue to bV produced as long
E 4 as 8 Of Philosoph Y in general $ as the lame circumftances exifl ; and
likewife that they do, in all probability, depend upon thofe circumftances. And
this is what vve mean by laias of nature \ as will be more particularly defined
in the next chapter. We may, indeed, affume various phyfical princi[>ies,
and by reafoning upon them, we may ftndtly demontliate the deduction of certain
confequences. But as the demonftration goes no farther than to prove that luch
confequences muft neceflarily follow the principles which have been afl'urned,
the conlequences themfelves can have no greater degree of certainty than the
principles are pofieftedof; fo that they are true, or falfe, or probable,
according as the principles upon which they depend are true, or faife, or
probable. It has been found, for inftance, that a magnet, when left at liberty,
does always direct itfelf to certain parrs of the world ; upon which property
the mariner’s compafs has been conftructed ; and it has been likewife obferved,
that this directive property of a natural or artificial magnet, is not
obftructed by the interpofition or proximity of gold, or filver, or glaft, or,
in fhort, of any other fubftance, as far as has been tried, excepting iron and
ferrugineous bodies. Now afluming this obfervation as a principle, it naturally
follows, that, iron excepted, the box of the mariner’s compafs may be made of
any fubftance that may be moft agreeable to the. workman, or that may beft
anivver other purpofes. Yet it muft be confefted. and the Rules of
Philofophizing. 9 confe fifed, that this proportion is by no means fo certain
as a geometrical one ; and (luctly lpeaking it may only be laid to be highly
probable ; for though all the bodies that have been tried with this view, iron
excepted, have been found not to afifefl the directive property of the magnet
or magnetic needle , yet we are not certain that a body, or fome combination of
bodies, may not. hereafter be difcovered, which may obftrudt that property.
Nqtwithftanding this obfervation, I am far from meaning to encourage fcepticilm
; my only objedt being to fhew that juft and proper degree of conviction which
ought to be annexed tophyfical knowledge ; fo that the ftudent of this fcience
may become neither a blind believer, nor a uielels fceDtic*. Befides a ftriCt
adherence to the abovementioned rules, whoever withes to make any proficiency
in the ftudy of nature, (liould make himfelf acquainted with the various
branches of mathematics , at leaft with the elements of geometry, arithmetic, trigonometry,
and the principal properties of the conic * Scepticifm or fkepticifm is the
do&rine of the fceptics, an ancient let of philofopbers, whofe peculiar
tenet was, that all things are uncertain and incomprehenlible ; and that the
mind is never to afient to any thing, but to remain in an absolute date of
hefitation and. indifference. — The word fceptic is derived from the Greek
anc7flM®~y which fignifies confederate, and inquiftive. 10 A General Idea of
Matter , conic fedions ; for fincc almoft every phyfical effed depends upon
motion, magnitude, and figure, it is impofiible to calculate velocities,
powers, weights, times, &c, without a competent degree of mathematical
knowledge ; which fcience may in truth be called the language of nature.
Tiberius
Cavallo. Tiberio Cavallo. Keywords: filosofia naturale, filosofia
trans-naturale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cavallo” – The Swimming-Pool
Library.
CAZZANIGA
(Torino). Filosofo. Grice: “I like Cazzaniga – he shows that latitdunial unity
is not a myth! He has researched on Cocconato – and he has seriously spoken of
the ‘catene d’unione’ – the handshake – which is crosses the longitudinal and
latitudinal unities – consider Thatcher: “There’s no such thing as societies;
only individuals! The ‘catene d’unione’ is represented most easily by a
handshake, but this is in a catena usually a circle – need it be a close
circle? It should be! Perhaps Austin and the Play Group formed such a circle!”
-- Gian Mario Cazzaniga (Torino), filosofo. Studia a Milano. Si laurea a Pisa
con Massolo. Insegna a Pisa. Quaderno Rosso. Il potere operaio. Funzione e
conflitto. Forme e classi nella teoria marxista dello sviluppo, Napoli,
Liguori); La religione dei moderni, Pisa, ETS); Metamorfosi della sovranità:
fra stati nazionali e ordinamenti giuridici mondiali. Società geografica
italiana, Roma, Pisa, ETS); La democrazia come sistema simbolico
"Belfagor" (LV); Le Muse in loggia. Massoneria e letteratura nel
Settecento (Milano, UNICOPLI); Storia d'Italia. Annali 21: La Massoneria,
Torino, Einaudi) Storia d'Italia. Annali 25: Esoterismo, Torino, Einaudi). Gian
Mario Cazzaniga, “Massoneria e letteratura: Dalla 'République des lettres' alla
lettera- tura nazionale,” in Le muse in Loggia, ed. Gian Mario Cazzaniga et al.
(Milan: Unicopli, 2002), Gian Mario Cazzaniga, “Origine ed evoluzione dei
rituali carbonari italiani,” in Cazzaniga, La Massoneria, Chi anche in
questa fine di millennio continua a nutrire interesse per la storia delle
vicende umane, per la storia delle idee e dei tentativi messi in atto per
concretarle - soprattutto se le idee in questione sono quelle di libertà,
fraternità, uguaglianza - trova in libreria un testo di sicuro interesse: “La
religione dei moderni”. Convinto con Eraclito che per trovare oro è necessario
scavare molta terra, Cazzaniga ha dissodato a fondo un terreno a prima vista
assai ingrato: l'arcipelago multiforme e delirante della massoneria e delle sue
sette. Il risultato è però la dimostrazione di come la nottola di Minerva possa
tornare con un bottino non solo erudito, ma capace anzi di rinnovare la nostra
stessa auto-comprensione spiccando con metodo il suo volo anche sulle strane
isole e penisole culturali in cui vivono illuminati, teofilantropi, filaleti,
U.S.D. (leggasi: Uomini Senza Dio) e come diavolo con nome di rigenerazione si
sono ribattezzati i mille e mille fratelli costruttori decisi ad erigere una carcere
per il vizio e un templi alla virtù. Tra loro spiccano in ogni caso alcuni tra
i massimi intellettuali italiani: e anche Lessing, Herder, Goethe, a Mirabeau,
Condorcet, Fichte, Heine. Chi indotto da recenti vicende italiche rischiasse di
confondere massoneria e piduismo, può finalmente scoprire momenti e figure assai
più nobili e rilevanti di questa istituzione e apprende come nella loggia e
nato praticamente ogni ideologia - liberalismo, democrazia cristiana,
comunismo... - risultati costituitivi della modernità occidentale. A chi si
chiedesse cosa e chi ha spinto allo studio dell'ambiente massonico un
intellettuale lucido, raffinato e dalla ben nota militanza nel movimento operaio
come Cazzaniga, il saggui non manca di rispondere. Da esso emerge netta
l'opzione per una filosofia curiosa dei luoghi storico-sociali capaci di
generare il nuovo e attenta ai valori della differenza, nutrita da quella
passione per le radici culturali del nostro mondo che già aveva indotto
Cazzaniga a esplorare "Fin'amors e cortezia nella poesia trabadorica"
quali matrici dello "spirito laico". Nel caso attuale si aggiunge
un'indicazione di Marx che, in compagnia di Engels, criticava i
"critici-critici" tedeschi alla luce delle esperienze realizzate
della critica pratica del cervello sociale messo in moto dalla Rivoluzione
Francese. Cazzaniga stesso segnala il debito con i dioscuri fondatori del
moderno partito politico di massa. Lo fa con ironica signorilità citando a conclusione
del commento su Nicolas de Bonneville le parole che hanno costituito l'input
decisivo per l'avvio di un'indagine che, partita dal Cercle social indicato
dalle pagine della Sacra Famiglia quale origine del "movimento
rivoluzionario moderno", si è poi allargata all'intero mondo delle logge
rivelatosi uno dei luoghi più fecondi dell'attività mito-poietica alla base
della "invenzione" del legame sociale, soprattutto allorquando i
membri dell'istituzione muratoria si sono fatti "massoneria
pubblica", identificando il luogo di rifondazione del legame sociale nel
terreno dell'attività politica organizzata. Fenomeno che abbraccia l'Europa e le
due Americhe, la massoneria si rivela uno dei più rilevanti tentativi moderni
di fornire risposta alla crisi aperta nel fondamento del legame sociale dalle
guerre di religione del Cinquecento-Seicento. Per molti cittadini della
République des Lettres la massoneria più che società segreta è infatti una
società che tratta segreti, terreno embrionale di una nuova possibile
convivenza inter-umana, progetto e luogo possibile di rifondazione di quel
legame sociale posto in crisi dalla nascita dell'individuo come nuovo
protagonista spirituale della storia europea e dalla distinzione tra religione
naturale e religioni positive. Con le sue radici giusnaturalistiche e
neo-stoiche, dal mondo classico il progetto massonico recupera anzitutto l'idea
di cittadinanza, primo grande esperimento riuscito di costruzione artificiale
di un legame sociale ispirandosene per costruire, nella situazione di crisi
dell'ancien régime, un progetto analogo. Collocandosi da questa prospettiva la
ricerca di Cazzaniga trascende ampiamente la storiografia auto-celebrativa
intra-massonica e illumina di nuova luce origine e natura della politica,
identificata, in sintonia con Giarrizzo, come una “religione”. L'elezione del
mondo delle logge massoniche quale oggetto di analisi avviene cioè in base alla
convinzione storica-teorica circa il loro carattere di "laboratorio"
di nuove forme del vivere associato, anzitutto a proposito del vero opus magnum
ch'esse hanno contribuito ad edificare, ovvero la costruzione di quella forma
politica, sostenuta da partiti di massa, che fu lo stato-nazione d’Italia. Che
poi la nottola filosofica spicchi il suo volo in condizioni oggi hegelianamente
ideali, al tramonto dell'egemonia organizzativa, culturale e morale dei partiti
politici di massa, per oltre un secolo protagonisti della democrazia
rappresentativa e di una vita politica basata sulla cittadinanza, insieme al
tempismo di Cazzaniga è dimostrazione di come la sua fedeltà al marxismo
intelligente non abbia spedito in soffitta neppure quell'Hegel che qui, insieme
a Heine, ottiene il tributo di due splendidi saggi. Oggi la storia ha
cominciato un capitolo nuovo e l'autore non ha dubbi che si stia voltando
pagina. Non condivide però la convinzione che ciò significhi fine della
modernità. Se le crepe nella sovranità degli stati nazionali pongono in crisi
partiti e sindacati, ovvero "i legami sociali artificiali sui cui la
modernità ha costruito la propria storia", la transizione in atto
"lungi dall'essere una negazione dei principi costitutivi della modernità,
è in realtà "un'affermazione radicale di essa". E la prospettiva
indicata da Marx non è affatto radiata in secula seculorum dalla storia. Il
comunismo resta all'ordine del giorno, solo che se ne riprospetti il nucleo
vivo e fondamentale non costituito né dall'eguaglianza, né dalla giustizia
sociale, né tantomeno dal recupero di una dimensione comunitaria solidaristica,
ma dalla capacità progettuale collettiva, dal controllo consapevole del
ricambio con l'ambiente naturale, dalla possibilità storica che si apre per la
società e per i singoli, in rapporto alla rivoluzione scientifica e
tecnologica, di essere finalmente padroni del proprio destino. Nessun dubbio
per noi che qui l'impeccabile storico di questa religione riveli la sua personale cifra ideologica e la
passione per il marxismo. E' l'unico luogo in cui la sua prosa, peraltro sobria,
cede a frasi fatte come la padronanza del destino. Una espressione, questa,
inerente, più che alla politica, a un ambito filosofico-esistenziale, a
tematiche, cioè, con cui questa religione deve forse ancora imparare a
cimentarsi. Mario Cazzaniga. Gian Mario Cazzaniga. Keywords: massoneria,
esoterismo, democrazia come sistema simbolico, sovranita, stato nazionale,
conflitto, liberta, fraternita, iguaglianza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Cazzaniga” – The Swimming-Pool Library.
CECCATO (Montecchio
Maggiore). Filosofo. Grice: “I like Ceccato – like other Italian philosophers,
he has an obsession with geometrical conjunctions and my favoruite of his tracts is “La linea e
la strischia’ – but he has also philosophised on other issues – notably on
‘cybernetics,’ where he purports to give a ‘mechanical explanation’ of language
– he has also talked about the ‘mind,’ – ‘mente’ – an expression Italian
philosophers hardly use as they see it as an Anglicism, preferring ‘anima,’ –
“He has rather boldly philosophised on ‘eudaimonia,’ without taking into
account J. L. Ackrill’s etymological findings – but then the Italians use
‘felicita’! – ‘the ingeneering of happiness’ – and also of the ‘fabrica del
bello’ --. Grice: “How to, and how not to” “Are all ‘how not to’ ironic?
Ceccato thinks not – he has philosophised on sophistry in ‘how NOT to
philosophise’ – and he sees Socrates, who claims to be ‘imperfect,’ (i. e. ever
unfinished), and echoing Shaw on Wagner, as the perfect philosophy – ‘il
perfetto filosofo’!” Filosofo irregolare, dopo aver proposto una definizione
del termine "filosofia" e un'analisi dello sviluppo storico di questa
disciplina ha preferito prenderne le distanze e perseguire la costruzione di
un'opzione alternativa, denominata inizialmente "metodologia
operativa" e in seguito "cibernetica". Filosofo prolifico, ha numerosi
saggi -- rendendosi noto in particolare nella cibernetica. Pur ottenendo
notevole successo di pubblico con i suoi saggi, riscosse scarso successo
nell’ambiene filosofico bolognese. Fu tra i primi in Italia ad interessarsi
alla traduzione automatica di testi, settore in cui ha fornito importanti
contributi. Sperimentò anche la relazione tra cibernetica e arte in
collaborazione con il Gruppo V di Rimini. Studioso della psicologia
filosofica, intesa come l'insieme delle attività che l'uomo svolge per
costituire i significati, memorizzarli ed esprimerli, ne propose un modello in
termini di organo e funzione, scomponendo quest'ultima in fasi provvisoriamente
elementari di un ipotetico organo, e nelle loro combinazioni in sequenze
operazionali, in parte poi designate dalla espressione semplice e della
espression complessa (frastico, frase) e del ‘codice’ utilizzato nel rapport sociale.
Fondò ed animò la "Scuola Operativa Italiana", il cui patrimonio è
tuttora oggetto di studio e ricerca. Studia Giurisprudenza, violoncello e composizione
musicale. Fonda Methodos. Costrue “Adamo II”, un prototipo illustrativo della
successione di attività proposte come costitutive dei costrutti (la lingua
adamica) da lui chiamati "categorie" per analogia e in omaggio a
Immanuele Kant. Insegna a Milano. Diresse il Centro di Cibernetica e di
Attività Linguistiche a Milano. Incontró, durante una cena di gala, il
Professore di Sistemi di controllo, a Pavia, Mella. Successivamente a questo
incontro ispiratore decise di partecipare come attore nel film "32
dicembre" di Crescenzo, interpretandovi il ruolo del folle Cavalier
Sanfilippo che si crede Socrate. Un tecnico tra i filosofi, così intitolò
il saggio apparso nelle Edizioni Marsilio di Padova, con i rispettivi sottotitoli:
"Come filosofare" e "Come non filosofare”. Altre opere: “Il
linguaggio con la Tabella di Ceccatieff”, Actualités Scientifiques et
Industrielles, Éditions Hermann, Paris); Adamo II, Congresso Internazionale
dell'Automatismo, Milano); “Un tecnico fra i filosofi, Marsilio, Padova); “Cibernetica
per tutti, Feltrinelli, Milano); “Corso di linguistica operativa, Longanesi,
Milano); “Il gioco del Teocono, All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano); “L’anima vista
da un cibernetico, ERI, Torino); “La terza cibernetica. Per una anima creativa
e responsabile, Feltrinelli, Milano); “Miroglio, Ed. Priuli&Verlucca,
Ivrea); “Ingegneria della felicità” (Rizzoli, Milano); Il linguista
inverosimile, Mursia, Milano); “Contentezza e intelligenza (Rizzoli); Mille
tipi di bello” (Stampa alternativa, Viterbo); “C'era una volta la filosofia”
(Spirali, Milano); Il maestro inverosimile” (Bompiani, Milano) (CL In Italia la
Società di Cultura Metodologica Operativa a Milano, il Centro Internazionale di
Didattica Operativa. l Gruppo Operazionista di Ricerca Logonica. Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, La cibernetica
italiana della mente nella civiltà delle macchine. Origini e attualità della
logonica attenzionale a partire da Ceccato, Mantova, Universitas Studiorum.
2.00 PRIMI STUDI PER UN ATTEGGIAMENTO ESTETICO NELLE MACCHINE , di Silvio
Ceccato. LA TRADUZIONE NELL'UOMO E NELLO MACCHINA, by Silvio La Mecanizzizione
delle Attivita ... L ' Anatomica methodus , di Andrés Laguna ( 1499 -
1560 ) . Pisa , Giardini , 1968 . Ceccato , Silvio , comp : Corso di
linguistica operativa . A cura di Silvio Ceccato . Centoventotto illustrazioni
nel testo . Milano , Longanesi , 1969 . 321 p . lllus. Language and Behavior (
1946 ) was published in Italian translation in 1949 , thanks to Silvio Ceccato
( cf . Petrilli 1992a ) . Silvio Ceccato , padre della cibernetica italiana ,
che in quegli anni stava mettendo a punto insieme a Enrico Maretti un prototipo
di calcolatore “ intelligente ” , di cui si può leggere in una nota su “ La
grammatica insegnata alle macchine. Studi in memoria di Silvio Ceccato -
Page 5books.google.com › books· Translate this page 1999 · Snippet view FOUND
INSIDE – PAGE 5 In memoria di Silvio Ceccato Felice Accame Nei giorni
immediatamente successivi alla sua morte , i giornali hanno dedicato pochi ,
imbarazzati e , a volte , imbarazzanti articoli alla figura di Silvio Ceccato .
Se qualcuno , tramite questi articoli ... Silvio Ceccato's little volume Corso
di linguistica operativa ( Ceccato 1969 ) sits on a quiet shelf in Lauinger
library , the work of a semantic pioneer. Silvio Ceccato . Silvio Ceccato . (
Civilta delle Macchine , Nos . 1-2 , 1956 ) This monograph presents a
discussion of the problems encountered by members of the Italian Operational
School in their attempts to develop techniques to be used in ...
Foundations of Language - Volumes 1-2 - Page 171books.google.com › books
1965 · Snippet view FOUND INSIDE – PAGE 171 ... with his hand , when he moves
the pieces , he performs a manual , a physical activity . Foundations of
Language 1 ( 1965 ) 171-188. All rights reserved . The two types of activity
can be distinguished in a 171 SILVIO CECCATO CECCATO. I use an operational
approach to mental activity based on Silvio Ceccato ' s " TECNICA
OPERATIVA " ( Ceccato - 1953 , 1961 ) , one of the earliest approaches
implemented on a computer ( University of Milan , 1961 ) . 2 - I look at the. Debbo
la spinta a studiare processi di questo tipo alla ' tecnica operativa ' di
Silvio Ceccato , di cui un primo abbozzo in Language with the Table of
Ceccatieff . Paris : Herman & Cie . 1951 . Die Ceccato si verdano anche
articoli in Methodos ... Silvio Ceccato , the Italian pioneer in the analysis
of mental operations and construction , told me that once , after a public
discussion of his theory , he overheard a philosopher say : " If Ceccato
were right , the rest of us would be fools ! Silvio Ceccato's group exploited
semantic pattern matching using semantic categories and semantic case frames ,
and Ceccato's approach ( 1967 ) also involved the use of world knowled. Grice: “Ceccato
developed a theory very similar to mine – Like myself, he is an unusual
philosopher!” -- Silvio Ceccato. Keywords: logonia – logonico, tabella di
Ceccatieff, Adamo II, lingua adamica, operativismo, Teocono, ingegneria della
felicita, il genitore come ingegnero, tutee di Dingler, tutee di Bridgman,
influenza di Gentile, modelo cibernetico della communicazione, adattazione,
soprevivenza, organo ipotetico – organo e funzione – codice conversazionale,
modello mentale, psicologia filosofica, adamo II, lingua adamica, -- --
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ceccato” – The Swimming-Pool Library.
CELLUCCI (Santa Maria Caputa
Vetere). Filosofo. Grice: “I love Cellucci; for one, he wrote on Cantor’s
paradise, which is an extremely interesting tract and figure! There’s earthly
paradise and heavenly paradise and Cellucci knows it!” – Grice: “Cellucci, like
me, also philosophised on ‘logic,’ in my case because of Strawson; in his,
because of me!” Si laurea a Milano. Insegna a Siena, Calabria, e Roma. Si
occupa soprattutto di logica e teoria della dimostrazione, filosofia della
matematica, filosofia della logica, ed epistemologia. Altre opere: “Breve
storia della logica italiana: dall'Umanesimo al primo Novecento” (Lulu,
Morrisville); “Perché ancora la filosofia” (Laterza, Roma) – perche no? “La
filosofia italiana della matematica del Novecento” (Laterza, Roma); “Filosofia
e matematica” (Laterza, Roma); “Le ragioni della logica, Laterza, Roma); “Teoria
della dimostrazione” (Boringhieri, Torino); “Alcuni momenti salienti della
storia del metodo” La Cultura; “I limiti dello scetticismo, Syzetesis); “La
logica della scoperta, Scienza & Società, Creatività; Conoscenza
scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi. Scienza e senso comune, ed.
A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni, Torino); Razionalità scientifica
e plausibilità. In I modi della razionalità, eds. M. Dell'Utri & A. Rainone.
Mimesis, Milano); Filosofia della matematica, Paradigmi, Il paradiso di Cantor, Bibliopolis, Napoli La
filosofia della matematica, Laterza, Roma); Breve
storia della logica: Dall'Umanesimo al pr imo Novecento [Lulu Press,
Morrisville; Perché ancora la filosofia Laterza, Rome, La filosofia della
matematica del Novecento, Laterza, Rome, Filosofia e matematica, Laterza, Rome,
Le ragioni della logica, Laterza, Roma; Teoria della dimostrazione,
Boringhieri, Turin, “La rinascita della logica in Italia”, in “Momenti di
filosofia italiana, ed. F.Pezzelli & F. Verde. Efesto, Rome – quando e
morta? -- Alcuni momenti salienti della storia del metodo, La Cultura. La
logica della scoperta, Scienza e Societa. Creatività. “Aristotele e il ruolo
del nous nella conoscenza scientifica”, In Il Nous di Aristotele ,
ed. G.Sillitti, F. Stella & F. Fronterotta. Academia Verlag, Sankt
Augustin; Conoscenza scientifica e senso comune. In La guerra dei mondi.
Scienzae senso comune , ed. A. Lavazza & M. Marraffa. Codice Edizioni,
Torino, Razionalità scientifica e plausibilità, In I modi della
razionalità , ed. M. Dell'Utri & A. Rainone.Mimesis, Milano; “La preistoria
della logica polivalente nell'antichità o la storia antica, Bollettino
della Società Filosofica Italiana. Gli approcci di Turing alla computabilità e
all'intelligenza. In Per ilcentenario di Alan Turing fondatore dell'informatica
, Accademia Nazionale dei Lincei, Scienze e Lettere, Roma; Intervista di
Antonio Gnoli, La Repubblica; Breve storia della logica antica; Ripensare la
filosofia. Un colloquio con (e su) Carlo Cellucci; La spiegazione in matematica.
Periodicodi Matematiche (For Grice, unlike Kantotle, mathematics “7 + 5 =
12” has zero-explanatory value; Dialogando con Platone, in Il Platonismo e le
scienze , Carocci, Roma); Logica dell'argomentazione e logica della scoperta”,
in Logica ediritto: argomentazione e scoperta , Lateran University Press,
Vaticano); Ragione, mente e conoscenza, in Fenomenologia della scoperta , Bruno
Mondadori, Milano); Filosofia della matematica top-down e bottom-up. Paradigmi.
L’ideale della purezza dei metodi, I fondamenti della matematica e connessi
sviluppi interdisciplinari Pisa-Tirrenia,
Mathesis, Rome); Per l'insegnamento della logica. Nuova Secondaria. La
logica della macchina, in Le macchine per pensare ,La Nuova Italia, Firenze); Logica
e filosofia della matematica nella seconda metà del secolo, in La filosofia
della scienza in Italia nel ‘900 , Franco Angeli, Milano; Bolzano, Del
metodo matematico, Boringhieri, Torino; Il ruolo delle definizioni esplicite in
matematica; in C. Mangione (Ed.), Scienza e filosofia ,Garzanti, Milano; Storia
della logica, Laterza, Bari, Il fondazionalismo: una filosofia regressiva,
Teoria. La complessità delle dimostrazioni nella logica dei predicati del primo
ordine, Logica Matematica, Siena. Il ruolo del principio di non contraddizione di
Parmenide nelle teorie scientifiche. Verifiche. “È adeguata la teoria dell’
adaequatio?” Scienza e storia , Il Laboratorio, Napoli. Il paradiso di Cantor.
Il dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi. Bibliopolis, Napoli. Proprietà
di coerenza e completezza in L-omega1-omega. Le Matematiche. Proprietà di
uniformità e 1-coerenza dell’aritmetica del primo ordine, Le Matematiche. La
logica come teoria della dimostrazione, in Introduzione alla logica , Editori Riuniti,
Roma. La qualità nella dimostrazione matematica, in La qualità , Bologna (il
Mulino). Teoremi di normalizzazione per alcuni sistemi funzionali, Le Matematiche.
Logica matematica. EditoriRiuniti, Roma. Il problema del significato. Il
Veltro. Una dimostrazione del teorema di uniformità. Le Matematiche. Un
connettivo per la logica intuizionista. Le Matematiche. I limiti del programma
hilbertiano, Società Filosofica Italiana, Roma. L’evoluzione della ricerca sui
fondamenti, Terzo programma. Operazioni di Brouwer e realizzabilità
formalizzata, Pisa, Classe di Scienze. Concezioni di insiemi, Rivista di filosofia.
Qualche problema di filosofia della matematica. Rivista di filosofia. Un’osservazione
sul teorema di Minc-Orevkov, Unione Matematica Italiana. La filosofia della
matematica, Laterza, Bari). La teoria del ragionamento matematico: meccanico o
non meccanico? In L’uomo e la macchina, Edizioni di Filosofia, Torino. Categorie
ricorsive, Bollettino dell’Unione Matematica Italiana. Filosofia della
matematica. Paradigmi. La ricerca logica in Italia. Acme, Cisalpino, Milano. Prospettive
della logica e della filosofia della scienza, ETS, Pisa, Logica e filosofia
della scienza: problemi e prospettive, ETS, Pisa); Temi e prospettive della
logica e della filosofia della scienza contemporanee, CLUEB, Bologna, Logiche
moderne, Istituto dellaEnciclopedia Italiana, Rome, Il paradiso di Cantor. Il
dibattito sui fondamenti della teoria degli insiemi, Bibliopolis, Napoli, La
filosofia della matematica. Laterza, Roma. C . Cellucci ha illustrato gli
scopi della logica matematica di Peano . Anche se con motivazioni diverse ,
tali scopi sono pressoché analoghi in Peano e Frege , e consistono principalmente
nell ' ottenere. Carlo
Cellucci. Keywords: Peano, logico filosofico, philosophical logic, logica
filosofica, il paradiso di Peano, la rinascita della logica in italia, storia
della logica in italia, formalismo, platonismo, teoria dell’adequazione,
calcolo di predicato di primo ordine, regole d’inferenza, spiegazione
matematica, logica antica, la logica nella storia antica, connetivo, connetivo
russelliano, connetivo intuizionista, prova, dimostrazione, Aristotele e la
mente, il nous, l’anima. Concetto di nomero, definizione splicita, implicita,
gradual del numero, peano, frege, logica della scoperta, revivirla? il paradiso
di Rota, il paradiso di Cantor, parmenide, non-contradizzione, il significato,
il problema de significato, il problema del significato in Hintikka, Grice
divergenza connetivo logico e connetivo nella lingua volgare (‘non,’ ‘e,’ ‘o,’
‘si,’ ‘ogni’, ‘alcuno (al meno uno)’, ‘il,’. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cellucci” –
The Swimming-Pool Library.
CENTI – (Segni). Filosofo.
Grice: “I like Centi; he is better than Kenny!” – Grice: “Centi dedicated his
life to Aquinas, o “San Tomasso,” as he called him – first-name basis – But he
also philosophised on other figures notably Savonarola – However, he is deemed
the expert on ‘Aquino,’ as he also called him – as we call Occam Occam! –“
Grice: “According to Centi, Aquino is a Griceian!” Uno dei massimi esperti della
filosofia d’Aquino. Emise la professione solenne. Si addottorò presso l'Angelicum
di Roma sotto Garrigou-Lagrange. Insegna alla Pontificia accademia di San
Tommaso d'Aquino, Maestro in Sacra Teologia dal maestro generale dell'Ordine
domenicano Costa. Collabora con numerose testate cattoliche, tra le quali “Il
Timone”. Noto soprattutto per il suo commento alla filosofia d’Aquino. Curato
per i tipi di Adriano Salani la prima traduzione integrale in italiano della “Somma
Teologica”. Commenta anche la Summa contra Gentiles, il Commento al Vangelo di
san Giovanni ( Città Nuova, Roma), il Compendio di Teologia, diversi opuscoli
(Contra impugnantes Dei cultum et religionem, De perfectione spiritualis vitae
etc.) e varie Questiones Disputatae. Oltre
al commento d’Aquino, si occupa anche di altre importanti figure storiche come Savonarola
e Beato Angelico. È stato membro della commissione storico-teologica incaricata
di revisionare la filosofia di Savonarola e ne ha difeso l'ortodossia,
dimostrando la falsità delle “Lettere ai Principi” a lui attribuite che
avrebbero rivelato le sue intenzioni scismatiche e sostenendo che la scomunica
inflittagli fosse illegittima e che la vera ragione della sua condanna fosse la
sua opposizione alle politiche espansionistiche di papa Alessandro VI. Altre opere: “La omma teologica, testo latino
dell'edizione leonina, commento a cura dei Domenicani italiani, T.S. Centi,
Salani, Firenze, poi ESD, Bologna); “Somma contro i Gentili, UTET, Torino); Catechismo
Tridentino. Catechismo ad Uso dei Parroci Pubblicato dal Papa Pio V per Decreto
del Concilio di Trento, Edizioni Cantagalli, Siena); “Savonarola. Il frate che
sconvolse Firenze, Città Nuova, Roma); “La scomunica di Girolamo Savonarola.
Santo e ribelle? Fatti e documenti per un giudizio, Ares, Milano); “Aquino
Compendio di Teologia e altri scritti); Agostino Selva, UTET, Torino); “Il
Beato Angelico. Fra Giovanni da Fiesole. Biografia critica, Edizioni Studio
Domenicano, Bologna, Inos Biffi); Le altre due Somme teologiche Edizioni Studio
Domenicano. Nel segno del sole. San Tommaso d'Aquino, Ares, Milano. Speranza,
“Grice ed Aquino”. Aquino e un proto-griceiano intenzionalista (grammatico
speculativo) – l’intenzione del segnante. Il problema
del segno (segnante, segnato, segnare, segnazione, segnatura). Un segno e
monosemico. La figura retorica della metaforia permesse interpretare un sengno
de maniera allegorica, ma e rigorosamente referenziale. Un segno che e presente
rinviano ad una segnatura – segnato/segnatura -- un evento che ha la realta come
punto di riferimento. Un segno particolare o particolarizato è quello del sacramento, o
segno efficace, che testi-monia la presenza della grazia divina e fa quel che
dice di fare. Un segno e naturale, ma un segno puo essere ‘ad placitum’ –
‘grammatica speculativa’ – modus significandi – un segno e dal segnante legato
no iconicamente ma arbitrariamente, libremente, ad un concetto. Un segno
naturale o un segno iconico e invece correlato per causalita (efficace) e per
iconicita o similitudine al segnato. I modo di correlazione del segno e del
segnato puo essere meramente causale (consequenza – segno naturale), o
arbitrario -- modo iconico, modo arbitrario non-iconico. Il “De interpretation”
(cf. Grice e Strawson, “De Interpretatione”) è una delle sei opere di logica
contenute nell’Organon aristotelico. Il testo chiarisce la relazione che
intercorre tra logica e linguaggio. Analizza in particolare il rapporto fra le
otto parti del discorso e il giudizio che scaturisce dalla combinazione di
queste parti. Aquino, nella sua “Expositio libri Peryermenias” sviluppa un
commento serrato all’opera aristotelica. L’Expositio tomista è stata
interpretata e commentata durante il corso di Logica tenuto da Gimigliano presso
l’Istituto Filosofico San Pietro di Viterbo aggregato al Pontificio Ateneo
Sant’Anselmo di Roma. Al termine del corso tutee elabora un’interpretazione su
un paragrafo del primo libro dell’opera tomista attraverso la stesura di un
contributo scritto. Non tutti i paragrafi sono stati analizzati e tutti i
contributi sono raccolti all’interno di questo lavoro. Introduzione e conclusione
sono ad opera di Gimigliano. Praemittit
autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in
hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de
principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet
intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit:
primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum.
In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim
demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito
dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de
quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. Si quis
autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae
fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur; ad hoc
dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una
quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum
consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem,
prout sunt partes enunciationis; et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo
traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent
aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad
rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo,
considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic
determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum. Potest
iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine
et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione
determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet,
ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et
verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his;
et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola
nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim
comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen
determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod
consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero
sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad
aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes
navis, sed partium navis coniunctiones. His igitur praemissis quasi
principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem,
dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes:
non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem
enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes
subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem
manifestabitur. Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in
categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de
affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex
pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam
unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non
continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad
quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex
suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur
per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles
praetermisit tractatum de hypotheticis enu nciationibus et syllogismis. Subdit
autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio,
quae est genus enunciationis. Si quis ulterius quaerat, quare non facit
ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde
pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de
anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie
orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales
ad constitutionem artificialium. Videtur autem ordo enunciationis esse
praeposterus: nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est
enunciatio, sicut genus; et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum
quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum.
Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit
affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad
partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum
quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse,
prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat
affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul
natura; unde non refert quod eorum praeponatur. Praemisso prooemio, philosophus
accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum,
sunt voces significativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum
de significatione vocum: et deinde de vocibus significativis determinat de
quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi: nomen ergo est vox
significativa et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat qualis sit
significatio vocum; secundo, ostendit differentiam significationum vocum
complexarum et incomplexarum; ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa
primum duo facit: primo quidem, praemittit ordinem significationis vocum;
secundo, ostendit qualis sit vocum significatio, utrum sit ex natura vel ex
impositione; ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. Est ergo
considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur
quartum. Proponit enim Scripturam, voces et animae passiones, ex quibus
intelliguntur res. Nam passio est ex impressione alicuius agentis; et sic
passiones animae originem habent ab ipsis rebus. Et si quidem homo esset
naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis
rebus conformaretur, ut earum notitiam in se haberet; sed quia homo est animal
naturaliter politicum et sociale, necesse fuit quod conceptiones unius hominis
innotescerent aliis, quod fit per vocem; et ideo necesse fuit esse voces
significativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt
diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo
uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc,
sufficeret sibi ad convivendum aliis vox significativa, sicut et caeteris
animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant:
sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et
nunc; consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et
tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo
conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt
in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus Scripturae. Sed quia
logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, significatio vocum, quae est
immediata ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem
considerationem ipsius; significatio autem litterarum, tanquam magis remota,
non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici.
Et ideo exponens ordinem significationum non incipit a litteris, sed a vocibus:
quarum primo significationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce,
notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi
ex praemissis concludens: quia supra dixerat determinandum esse de nomine et
verbo et aliis praedictis; haec autem sunt voces significativae; ergo oportet
vocum significationem exponere. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat,
ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum
praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi.
Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione
intellectus; alio modo, in prolatione vocis; tertio modo, in conscriptione
litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc.; ac si dicat, nomina et verba
et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes
voces sunt significativae, et earum quaedam sunt significativae naturaliter,
quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium; ut
appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in
voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est
quoddam naturale, nomen autem et verbum significant ex institutione humana,
quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno; ideo ad
designandum nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce,
ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. Circa id autem quod
dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones
animae communiter dici solent appetitus sensibilis affectiones, sicut ira,
gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod
huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus
infirmorum, et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est
de vocibus significativis ex institutione humana; et ideo oportet passiones
animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et
orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim
potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi
apparet: significat enim hoc nomen homo naturam humanam in abstractione a
singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem
singularem; unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam ideam hominis
separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum
sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu; ideo necesse fuit
Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate et
eis mediantibus res. Sed quia non est consuetum quod conceptiones
intellectus Aristoteles nominet passiones; ideo Andronicus posuit hunc librum
non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones
animae vocat omnes animae operationes. Unde et ipsa conceptio intellectus
passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine phantasmate: quod
non est sine corporali passione; unde et imaginativam philosophus in III de
anima vocat passivum intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem
receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis quoddam pati est,
ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam
intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta ex amore vel
odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit: tum
etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum
quod oritur a rebus per modum cuiusdam impressionis vel passionis.
Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de significatione
Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem
sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus: ita ea quae sunt in voce
sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam
manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens
hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces,
significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et
diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae
eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur: quia dicuntur litterae etiam
in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in
Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur
elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur,
sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius
exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem
significationis. Postquam enim dixerat quod nomina et verba, quae sunt in voce,
sunt signa eorum quae sunt in anima, continuatim subdit quod nomina et verba
quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. Deinde
cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum
significantium et significatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum
naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam
signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant.
Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem
litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc
quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras: quarum non solum
ratio significandi est ex impositione, sed etiam ipsarum formatio fit per
artem. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit,
utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine
litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde
manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter
significant, sed ex institutione humana. Voces autem illae, quae naturaliter
significant, sicut gemitus infirmorum et alia huiusmodi, sunt eadem apud
omnes. Secundo, ibi: quorum autem etc., ostendit passiones animae
naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde
dicit: quorum autem; idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum
primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt notae,
idest signa; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad
secundum: voces enim non proferuntur, nisi ad exprimendum interiores animae
passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum
rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est
quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae
similiter; passiones autem animae dicit esse similitudines rerum: et hoc ideo,
quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem
vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces
passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio
institutionis, sicut et in multis aliis signis: ut tuba est signum belli. In
passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas
res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Obiiciunt autem
quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas
significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias
habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones.
Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae
conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius
conceptiones esse apud omnes easdem: quia, si quis a vero discordat, hic non
intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod
componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest
essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices
intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem
apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est homo, quodcunque aliud
aliquid, quam hominem apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem
simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde
dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et
ideo signanter dicit: quorum primorum hae notae sunt, ut scilicet referatur ad
primas conceptiones a vocibus primo significatas. Sed adhuc obiiciunt
aliqui de nominibus aequivocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio,
quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo,
qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem significandam eam refert;
et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur,
se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est
quod intentio Aristotelis non est asserere identitatem conceptionis animae per
comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conceptio: quia voces
sunt diversae apud diversos; sed intendit asserere identitatem conceptionum
animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem.
Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum
consideratione: quia quales sint animae passiones, et quomodo sint rerum
similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum
negocium, sed ad naturale. Postquam philosophus tradidit ordinem significationis
vocum, hic agit de diversa vocum significatione: quarum quaedam significant
verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit
differentiam; secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera.
Quia vero conceptiones intellectus praeambulae sunt ordine naturae vocibus,
quae ad eas exprimendas proferuntur, ideo ex similitudine differentiae, quae
est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa significationes
vocum: ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex
causa quam imitantur effectus. Est ergo considerandum quod, sicut in
principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de
anima; in quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur.
Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et
falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces
significativae formantur ad exprimendas conceptiones intellectus, ideo ad hoc
quod signum conformetur signato, necesse est quod etiam vocum significativarum
similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et
falso. Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod
dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum
ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur
ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est
sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas
et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod
una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum
scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive
essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud
huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi
simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda
operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et
falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur
in III de anima. Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum
divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod
sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed
dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea
quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno
modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt
similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum;
in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si
consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio,
ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc
quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad
rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio
quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens
coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem,
quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et
per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum
coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum
significat rerum separationem. Ulterius autem videtur quod non solum in
compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res
dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam
quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio
intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate.
Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum
sensibilium semper est verus; sensus autem non componvel dividit; non ergo in
sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla
est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa
veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. Ad
huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur
dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente
vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam
in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum,
non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic
patet. Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum
intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per
respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut
signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum
autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo,
sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum
speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod
conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis
non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt
quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod
est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera,
quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res
aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non
essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt
facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum
verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut
mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum.
Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis;
falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Et quia omnia etiam
naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem,
consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam
formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum
aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res
naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I
physicae, formam nominat quoddam divinum. Et sicut res dicitur vera per
comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius
mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam
conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii
sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est
absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima.
Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen
cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis
suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi
habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest
cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas
est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem
praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in
re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non
cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod
quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat
rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a
re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod
veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa
compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia
voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum,
falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res
quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est
vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa.
Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod
pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et
intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est
absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster
intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit
compositionem et divisionem simpliciter. Deinde cum dicit: nomina igitur
ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad
intellectum. Et primo, manifestat propositum; secundo, probat per signum; ibi:
huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum
circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens
est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui
est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil
aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur
esse vel non esse, fit verum vel falsum. Nec est instantia de eo, qui per
unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum
quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur
verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non
significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de
verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his
intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est implicita compositio,
licet non explicita. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum
ex nomine composito, scilicet Hircocervus, quod componitur ex hirco et cervus
et quod in Graeco dicitur Tragelaphos; nam tragos est hircus, et elaphos
cervus. Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus
simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi
quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus.
Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est
esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum
tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum
quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur
exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim
falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel
falsum esse. Postquam philosophus determinavit de ordine significationis
vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus significativis. Et quia
principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri; in
qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti; ideo primo,
determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione; ibi:
enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim,
determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales
ipsius; secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est
enunciationis genus; ibi: oratio autem est vox significativa et cetera. Circa
primum duo facit: primo, determinat de nomine, quod significat rei substantiam;
secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem
procedentem a re; ibi: verbum autem est quod consignificat tempus et cetera.
Circa primum tria facit: primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit;
ibi: in nomine enim quod est equiferus etc.; tertio, excludit quaedam, quae
perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen.
Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia
includit totaliter rem; ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem,
cui scilicet definitio non conveniat; nec aliquid aliud est infra definitionem,
cui scilicet definitio conveniat. Et ideo quinque ponit in definitione
nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab
omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus,
cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima
differentia, scilicet significativa, ad differentiam quarumcumque vocum non
significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut biltris, sive non
litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de
significatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit
quod nomen est vox significativa. Sed cum vox sit quaedam res naturalis,
nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod
non debuit genus nominis ponere vocem, quae est ex natura, sed magis signum,
quod est ex institutione; ut diceretur: nomen est signum vocale; sicut etiam
convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam
si quis diceret quod est lignum formatum in vas. Sed dicendum quod
artificialia sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere
autem accidentium ex parte formae: nam formae artificialium accidentia sunt.
Nomen ergo significat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in
definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si
qua nomina accidens in abstracto significant quod in eorum definitione ponatur
accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia;
ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens
significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum,
quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus
curvus. Si igitur nomina rerum artificialium significant formas accidentales,
ut concretas subiectis naturalibus, convenientius est, ut in eorum definitione
ponatur res naturalis quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum
figuratum, et similiter quod nomen est vox significativa. Secus autem esset, si
nomina artificialium acciperentur, quasi significantia ipsas formas
artificiales in abstracto. Tertio, ponit secundam differentiam cum dicit:
secundum placitum, idest secundum institutionem humanam a beneplacito hominis
procedentem. Et per hoc differt nomen a vocibus significantibus naturaliter,
sicut sunt gemitus infirmorum et voces brutorum animalium. Quarto, ponit
tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo.
Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus.
Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum
tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine,
sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore
mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter
tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum
quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia
autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non
habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod
subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et
participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo,
potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per
adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. Quinto, ponit quartam
differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet
a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in
toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem
pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet
formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars
significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. Deinde cum dicit: in
nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo,
quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero
placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis;
tertia autem particula, scilicet sine temporeit , manifestabitur in
sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat
propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter
nomina simplicia et composita; ibi: at vero non quemadmodum et cetera.
Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina
composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus,
haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae
est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum
unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad
significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a
laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum
conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur
ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis
compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam
conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis
compositae. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc
differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se
habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus
pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum
apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet
significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine
equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut
imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum
ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita
conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. Deinde
cum dicit: secundum placitum etc., manifestat tertiam partem praedictae
definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen significat secundum
placitum, quia nullum nomen est naturaliter. Ex hoc enim est nomen, quod
significat: non autem significat naturaliter, sed ex institutione. Et hoc est
quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id
enim quod naturaliter significat non fit, sed naturaliter est signum. Et hoc
significat cum dicit: illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris
significari non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia
non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias
passiones naturaliter significant: nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo
manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter. Sciendum
tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt
quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine
significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant,
quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod
nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non
est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter
significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec
obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse
multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei
multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum
nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim
quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia
nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. Deinde cum dicit: non homo
vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum;
secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo
primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam
determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque
determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam
naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione
hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest
dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus,
Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur,
equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad
minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non
ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis,
quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in
apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi
dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat
aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est
negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem
affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi
dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis,
ut dictum est. Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit
casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt
nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est
impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur
casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo,
qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos
dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab
interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid
cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno
infigitur. Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter
quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat
nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est
differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper
significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem
inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet
impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur,
poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si
diceretur, poenitentia habet Socratem. Sed contra: si nomen infinitum et
casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio,
quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius
definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a
nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his:
nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis
significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. Postquam
philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria
facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi:
non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad
nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo
facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem
quoniam consignificat et cetera. Est autem considerandum quod
Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt
nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat
in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi:
quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod
consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen
significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur
verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra
significat. Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur
hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum.
Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut
distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum
dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae
componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his
distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest
etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur
oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum
habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est
quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit
iterari. Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non
solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit:
et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia
scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed
verbum semper est ex parte praedicati. Sed hoc videtur habere instantiam
in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum
dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi,
quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari
Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio
est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se
existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem.
Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto,
velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio,
ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est
egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per
verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse
processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et
significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae
significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba,
ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam.
Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando
in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in
tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius
significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam
vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis
partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. Deinde cum
dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et
primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum
ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit:
et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars
extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis.
Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia
videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per
modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro
vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium
est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum
est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore
mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod
potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non
convenit nomini, sed verbo. Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit
aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis
significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum
actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte
praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut
dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero:
tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni
praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua
praedicatum componitur subiecto. Sed dubium videtur quod subditur: ut
eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de
subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto
autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo
verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est
ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur
in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem
pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed
quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare.
Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota
eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi
significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur
magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur,
magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper
est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum
ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive
accidentaliter. Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc.,
excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti
temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo
quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium
verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae
dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam
aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non
proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in
definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat
agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies
tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper
ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: ethoc ideo, quia negatio reducitur
ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel
passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones
significant remotionem actionis vel passionis. Si quis autem obiiciat: si
praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est
quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi
autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi.
Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis
differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt,
deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et
rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo
quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi
privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit
determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis,
quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi
duarum dictionum. Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit
a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita
non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel
currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi.
Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa
vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter
praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens
indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut
passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae
incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae
consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta:
cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie
verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter:
sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid. Dicuntur
etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod
consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per
respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem
quod erit praesens. Cum autem declinatio verbi varietur per modos,
tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non
constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex
parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam
actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel
optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis.
Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque
sint personae vel numeri. Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit
convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et
cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a
quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive
sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi;
ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis,
quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est
quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem
impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est
quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant
agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem,
prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet
potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et
praedicari. Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat
propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina;
secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi:
sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est
quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia
supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde
proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo
audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit
quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad
hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. Sed hoc videtur
esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem
nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est
animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est
eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus
operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se,
constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex
conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat
antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem
constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus
componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad
hoc facit quiescere audientem. Et ideo statim subdit: sed si est, aut non
est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis
et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit.
Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare
veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum
infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum
veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc
generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non
significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum
verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non
sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem
esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem
esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non
esse. Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit:
nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est
quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil
est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse,
assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo
dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de
decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat,
nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est
per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens,
tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius;
unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam,
quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque
hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non
multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod
hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel
sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod
consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere.
Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem,
sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec
praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius
exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et
rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem.
Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod
verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat,
scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi
sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et
verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui
assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. Et ideo ut magis sequamur verba
Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem
esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc
est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime
videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic
videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico
est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut
significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed
ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter
significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde
talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem:
quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi,
nisi secundum quod innectit extrema compositionis. Si vero dicatur, nec
ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum
significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se
dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum
esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse,
potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc
excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non
potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab
extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis,
ut possit in ea esse verum, vel falsum. Ideo autem dicit quod hoc verbum
est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex
consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum
actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et
ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter
significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus
substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare
quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus
illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem
secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex
consequenti hoc verbum est significat compositionem. Postquam philosophus
determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia
enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae
est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc
tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam;
ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio
omnis et cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in
definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et
verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in
definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem
posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in
definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat
tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a
significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem
intellectum, oratio vero significat intellectum compositum. Secundo autem
ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium
aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis
non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex
duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa
aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter
negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid
absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est
significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae
refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi,
secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non
ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio
significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex
nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de
negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars
orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio,
multo minus ut negatio. Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit
quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam
orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol
lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius
quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius
est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur
definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia
in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius
definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et
Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac
definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem
partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae;
sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum
affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit
poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de
ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione
orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis,
et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad
sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles
frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur,
subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio:
quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum
quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes
grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione
perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes
partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta
habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes
partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes
referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra
organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt
partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa
ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi.
Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem
perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes
significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam
imperfectae. Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit
propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo,
excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera.
Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut
hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat
ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico
non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem
fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. Deinde cum
dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc
referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel
negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed
quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id,
quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium
eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur
proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars
partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur
oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae
sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est
significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et
hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se
significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se
significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis
sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim
quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet
simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in
quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem
est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde
syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum
tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem
simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid
significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus,
idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in
compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito
et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se,
prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est.
Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim
aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad
placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis
oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis;
potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt
naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus
interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum,
quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione
humana significans, sed naturaliter. Huic autem rationi, quae dicitur
esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod
omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet
naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et
pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac
articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus
virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva
utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera
artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis
naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res
naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat
ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut
supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et
ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus
virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem
naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut
probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem
motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non
sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest
etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non
naturaliter significent. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis,
hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas:
in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate
enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur;
et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera.
Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in
secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de
oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis;
secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis
speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de
sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidem relinquantur.
Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum
alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut
supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est
usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est
significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt
operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in
alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit
ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa,
sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles
mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non
omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit:
sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio
enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est.
Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus
veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur
in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro
praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa
est. Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc
definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus
imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non
faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non
exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur
praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam,
quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa,
interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen
vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis
significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum
provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est
vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum
autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia
ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel
falsum. Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso
veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum
conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per
enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent
aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia
diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo
quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad
respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad
exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio
imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur
oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per
expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant
ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem
ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum,
sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et
inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub
enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam.
Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad
deprecativam. Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc.,
ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor
orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem
intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae
scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio
est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam
demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum
vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum
finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum
veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod
intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones
audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur
provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et
ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem
audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae,
ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout
consideratur in eis congrua vocum constructio. Postquam philosophus definivit
enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit
divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et
cetera. Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio
duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam
est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt
extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum,
aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et
unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem
aliqualiter esse unam. Alia vero subdivisio enunciationis est quod si
enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem
affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra
posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est
signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa,
quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam
particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae
significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat
divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam
non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex
parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est
negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est
privatione. Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio,
idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde
negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est.
Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam
aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. Ex hoc autem
quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in
affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio
nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis
speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens
esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de
novem generibus accidentium. Sed dicendum quod unum dividentium aliquod
commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias
rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis
illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem
generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam
rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant
rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo
mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem
generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis:
quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet
respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio
secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant
rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio
in qua verum vel falsum est. Deinde cum dicit: necesse est autem etc.,
manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod
enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat
secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel
negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit:
primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum;
secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera.
Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet
constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est
praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in
enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc,
quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam
enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam
est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est,
quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid
huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio
enunciativa. Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex
nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod
tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa
invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine
nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur,
currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est
nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars
enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur
apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a
forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de
parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica
dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel
negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod
affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et
adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel
verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit
tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una
simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod
illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit
per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat
compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum
est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens
intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. Secundo; ibi:
quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem
propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est
definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus.
Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad
metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia
scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam
determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a
materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et
materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. Excludit
autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet
propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest
sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio
locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur
coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed
significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio
morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis
requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione:
quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter
materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem
definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in
his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus
musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta
unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum,
neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio
utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et
similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum
simpliciter. Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad
manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod
dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis
secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa
primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod
ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et
verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis
unitatem manifestat per modos pluralitatis. Dicit ergo primo quod
enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel
una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est
intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant
et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque
coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis.
Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis
refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas
voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine
et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est
etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed
tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale
mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae
quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione
est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen
multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia
plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est
pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in
praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta
si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures
enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam,
Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod
enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex,
sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur
quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua
coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes;
sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione
plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel
quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit
unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Sed haec
expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia
per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum
significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra
dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem
est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et
ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam
enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae
sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum,
sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda
una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura
nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa
significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc,
haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi
coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum
significat. Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit
quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est,
quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem
aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est
sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen
haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius
est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat
quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis.
Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura
significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus
pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod
secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae
non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae
est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et
non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam
quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est
simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in
quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque
significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles
quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia
plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen
multa significans. Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit
ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est,
quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum
significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum
subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non
enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad
significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola
manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid
significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit
duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata
respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister.
Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum
dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum
nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo
interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante,
sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel
verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum
significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel
verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in
interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister,
subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo
non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut
nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra
praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu
verbi. Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat
praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio
est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio
autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et
compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus
dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel
quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet
unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel
verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum
compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex
his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam
composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa,
sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum. Deinde cum dicit:
est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum
videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem
divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem
convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae
divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est
aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad
negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit:
quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis
temporibus sicut et in praesenti. Alexander autem existimavit quod Aristoteles
hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur
ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non
esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in
definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia
scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest
notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum
non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius,
Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis
usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad
notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur
de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Sed
contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine
enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit
quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum
compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per
modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum
significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio
utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo
quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed
ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione,
nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio
enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod
dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio
enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione
enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum
eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione.
Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum
dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem
enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent
poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse
sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis,
melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio,
sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod
enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione
nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem
considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in
species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est
affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est
differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur
differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi
constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio
alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio
alicuius ab aliquo quod significat non esse. Posita divisione enunciationis,
hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et
negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel
falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo,
movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo
quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit
qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una
opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in
duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis
absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex
parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit:
primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso;
secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et
sit hoc contradictio et cetera. Circa primum considerandum est quod ad
ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis:
quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est
quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse,
vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est
per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et
enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum
congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. Sic igitur
quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum
divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re
est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus
Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non
est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est.
Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad
affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum
enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam;
ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora
procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae,
cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non
esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est,
scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae
opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet
in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur
affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non
esse. Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non
est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad
hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae
per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est,
esse, quamvis ipse corvus sit res existens. Et sicut istae quatuor differentiae
enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum
praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus
ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse
est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit:
quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea,
quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt
quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti
et futuri. Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et
omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis.
Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod
trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde
manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia
affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito
contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem
sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset
contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non
posset. Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit
absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per
nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo
quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni
huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod
dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen
contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut
Ammonius dicit. Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit
contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio
affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae
requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita
esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato,
requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint
eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est
contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur,
Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur
quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit
simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non
sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una,
requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae
unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit
identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Sunt autem
et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis
diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset
oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec
autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum
diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est
albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte
praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non
movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est
animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel
temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in
Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex
habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad
domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque
caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus
contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas
oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum.
Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse
contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere
diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera
contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem
enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam;
secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit
autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti.
Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo,
concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera.
Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen
autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est
similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem
rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia.
Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem,
quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero
quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo,
manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem
singulare. Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat
philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens.
Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in
primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum
per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed
omnes sunt singulares. Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod
significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est
autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo
oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in
intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest
distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem
re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est
haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est
considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod
Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando
igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec
res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem
denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi
dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem
aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus
non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad
intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod
pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad
opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de
multis vel de uno solo. Est autem considerandum quod intellectus apprehendit
rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III
de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est.
Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non
repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive
sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus
unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus
tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum
conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis
formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed
quod aptum natum est praedicari de pluribus. Cum autem omnis forma, quae nata
est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis;
dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum
natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum
quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod
significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod
nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod
per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in
materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus
dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit
Plato, essent individua. Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato
est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur
hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse
enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo
intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de
pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus
inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen
Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia.
Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia
materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed
aequivocum. Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit
divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re;
rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod
quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium,
quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et
est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et
cetera. Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor
modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a
singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum
sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest
ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato
aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod
homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim
intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum
quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur
aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu
ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad
esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si
dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae
etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior
est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non
sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc
modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo
attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque
quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod
ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum
dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur
ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid
quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari
autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in
apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno
solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est
animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat.
Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit
affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. Est autem haec tertia divisio
enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum
quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est
divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic
enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum.
Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae
quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam
praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis
enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem
enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia
significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum
differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo
dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur
materiam. Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo
enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa
hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis
enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se
habent ad verum et falsum; ibi: quocirca, has quidem impossibile est et
cetera. Circa primum considerandum est quod cum universale possit
considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis
singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum
est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam
dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod
aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab
omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant,
ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum
modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed
Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas
determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali,
prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra
singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et
similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in
singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt
quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic
accepto. Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur
universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari
de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in
qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa
est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto
universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem
praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod
praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur
sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi
nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo
praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel
removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis
quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod
praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed
quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam
indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In
negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis;
ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur,
non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat,
in quantum excludit universalem affirmationem. Sic igitur tria sunt
genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem
est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur,
omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali
particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua
aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel
particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem
autem sunt negationes oppositae. De singulari autem quamvis aliquid
diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad
singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari
individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum
aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates
est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. Si igitur tribus
praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis
ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis,
indefinitus et particularis. Sic igitur secundum has differentias
Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo,
secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum
differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et
cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum
universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando
autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero
quod et cetera. Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto
universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis,
quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae
enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus.
Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non
enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod
est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum
extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc
enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis
homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum
dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc
remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem,
quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis.
Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. Deinde cum dicit:
quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in
indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum
per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem
manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo
quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen
universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur
contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc.,
manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in
universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de
particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per
exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem
enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem
huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed
tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec
dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis,
prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita
subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur
universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando
in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae. Sed
hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est
expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode
exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et
falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque
has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt
contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam
earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo
non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam
contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia
philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum
etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici. Alii
vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati.
Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod
inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et
sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse
contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si
contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur,
aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel
habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens
potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus
natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae
significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt
contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones
quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est,
quod aliquid non est bonum. Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis
pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de
contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio
Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non
determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret
contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret
contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non
sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque
ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid
universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum
universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae
enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis
homo est animal, nullus homo est animal. Deinde cum dicit: in eo vero
quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam
diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a
parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod
similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod
universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad
hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est
verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse
potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato
secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra
quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est
pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter,
ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae
sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur
secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque
pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum
universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis
subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo
est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus,
quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum
particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus
quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias
completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam.
Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista
specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum
universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit
quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato
universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad
universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet
enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae
sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et
hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum,
neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus
homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi
singularis, quod accipitur sub universali. Nec est instantia si dicatur
quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina
enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem
veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae.
Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius
ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex
parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse
veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est
vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in
quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales
enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae
habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae
aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per
hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit
intelligere omnes consimiles esse improbandas. Postquam philosophus determinavit
de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad
indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales
ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in
his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia
vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero
et cetera. Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non
habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem
subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale
particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate
pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur
vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de
eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum
praemissa. Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat,
scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat
universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit
negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e
converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc
enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde
aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem
significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale
negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis
affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt
contradictoriae. Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola
remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur
per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc
exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per
universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non
proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali
affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari
affirmativae universalis negativa. Deinde cum dicit: contrariae vero
etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis
affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est
iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum
removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in
quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem
contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut
medium inter contraria. Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc.,
ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum.
Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi:
quaecumque igitur contradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur
contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera.
Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt
contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se
expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus
contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus,
quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est
albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi
etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam
simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse:
potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est
pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae,
sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae.
Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter
veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est
quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi
quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est
altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo,
quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad
idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in
plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa
semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et
subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium
universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum,
semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse
simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur
esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse
quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Deinde
cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant
veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et
circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum;
ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset
dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum
considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus
videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non
determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse
de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative
et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper
oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera.
Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et
quod homo est probus, et, homo non est probus. In quo quidem, ut Ammonius
refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa
semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem
tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione
materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod
indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis
affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro
particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt
esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis
corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa
sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et
etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut
dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima,
quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod
enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum
est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia,
non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod
malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de
materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro
peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet
quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis,
universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem
affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa
potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in
genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato
quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio
sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari
affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid
affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit
ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per
signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad
veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis
negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest
aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis.
Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in
his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis
affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus
praedicantur. Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat
propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod
indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera.
Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit
negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio
potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem,
sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus,
idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista
affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per
eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi.
Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad
hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt
simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae,
homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur
secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et
fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in
permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis,
quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam
homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est
vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae
sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. Deinde cum dicit:
videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et
dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod
dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare
cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque
idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis
manifestum est. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in
enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio
opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una
negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi:
una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod
intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio,
epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Dicit ergo
primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc
quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera,
videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic
affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa
opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis
recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola
ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua
aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa
includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in
quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in
quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet
quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis
affirmationis: et idem apparet in aliis. Deinde cum dicit: hoc enim etc.,
manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico
autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est
quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic
accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod
affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid
singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter
sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio
neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi
opponitur una sola negatio. [80425] Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12
n. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per
exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus,
haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si
vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita,
sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae
est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae
est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum
affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi,
omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est
albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando
affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod
huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria
negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non
aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale
indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur
tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. [80426]
Expositio Peryermeneias, lib. 1 l. 12 n. 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod
supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita
affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita
affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc
dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem
refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo,
quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de
eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid
affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur.
Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et
concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio;
et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae
contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de
subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est
etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large
contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in
his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare
autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia
scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul
esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et
ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera,
altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria.
Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel
negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est
enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid
praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub
se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas
enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas
enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali,
cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per
multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et
cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum
significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale
universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale
particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et
exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo
est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet
non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine
autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum
sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola
multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis
propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia
praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se
divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. Deinde cum dicit: si
vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem
enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit;
secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil
enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his
et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex
quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non
fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa
continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen
animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad
invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad
excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis,
sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint
partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus.
Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem
enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum
aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit
tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam,
canis est nomen. Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod
dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et
equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio
una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali
ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur,
tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed
istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures
enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si
significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et
equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae
componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica
est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum
quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et
equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec,
tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera
existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones
ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad
unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est
albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec
cum dicitur, tunica est alba. Deinde cum dicit: quare nec in his etc.,
concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae
utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam,
quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. Postquam
philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt
verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat
esse dubium, utrum scilicet id quod dictum es t similiter inveniatur in
omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit
dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et
cetera. Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis
triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum
unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel
coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio
est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod
enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et
quaedam singularis. Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum
tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro;
et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est
enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu
verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi
sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi
quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur
secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit
subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum
dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se
repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in
materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio
modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet
subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive
contingenti. His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter
se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit,
ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de
praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito,
necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa.
Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in
enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter
praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel
negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra
quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter
praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso
universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed
particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit
vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in
enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra
habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de
universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et
altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum
est. Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de
praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro,
etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus
vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria
omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis
et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e
contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt
verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis
autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel
praeteritis. Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo.
Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum
determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus
quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et
altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam
quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris
singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles
mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia
pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant,
attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur
tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in
materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et
altera falsa. Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat
praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum
ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae
sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum
duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest
determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non
potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero neque quoniam et cetera.
Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam,
scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa
ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia
necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic
quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat
consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat
aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem
ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in
singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam
vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non
autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus
futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet
locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum
dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc
probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet
quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod
manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de
necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate
sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex
necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam
convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex
necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et
e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod
affirmans vel negans mentiatur. Est ergo processus huius rationis talis.
Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit
vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat
verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non
esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est
omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint
ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. Quaedam
enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam
vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem,
quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in
pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si
autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo
dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent
contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter
causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in
paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad
utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata:
quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis
determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel
non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet
forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in
II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet
propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet,
licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad
utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad
alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non
erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa
hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate
sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et
sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet,
similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum
quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic
expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem,
quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum
determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto
contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per
consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est
in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori
parte. Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam
rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si
enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris,
sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo
modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de
aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album,
erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in
propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit
album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta
sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel
de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius
consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid
vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri,
ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti
vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod
non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et
quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri,
ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae
futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque
ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex
necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo
et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit
determinate dicere esse futurum. Ad cuius evidentiam considerandum est
quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est
aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in
seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est
futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem
contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex
ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate
potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet
inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc
determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest,
hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa
pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud;
unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod
sit futurum, sed quod sit vel non sit. Deinde cum dicit: at vero neque
quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris
utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est
verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non
est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit,
neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum
duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum
et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum
quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam
esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit
falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem
affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et
similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta
positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum.
Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est:
si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere
quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut
de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si
ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit,
oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est
ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale
bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod
in praemissis. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non
est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in
singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc
autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc
duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit
quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et
cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur;
secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil
enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata;
ibi: quod si haec possibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex
praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si
ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse
veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus,
quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et
fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia.
Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in
III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed
solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens
est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta
negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si
omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod
intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur
consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt
aliquid aliud, erit alius finis. Deinde cum dicit: nihil enim prohibet
etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et
circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam
possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam
si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non
esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat
praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod
hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc
non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est
quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex
necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex
necessitate eveniunt. Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc.,
ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt,
quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum,
alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum
fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel
negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae
enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter
etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit
affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic
ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum,
ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod
necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri;
consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex
necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si
ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut
supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim
significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur.
Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt,
quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel
praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident,
quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens,
semper verum erat dicere, quoniam erit futurum. Deinde cum dicit: quod si
haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo,
per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis;
secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum
autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod
homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus
existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod
quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et
omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas
persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus
homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota
civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod
homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc
quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non
habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed
quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis.
Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari
vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet
quod omnia ex necessitate eveniant. Deinde cum dicit: et quoniam est
omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in
rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit
esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem
quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non
est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album
permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit
etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est
in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et
non esse. Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit
propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est
quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte
agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile
est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra
probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem
contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam
exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque
possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter
concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in
potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed
eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem
quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in
pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera,
et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Est autem
considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et
necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea
secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam
erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit,
quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora
prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi
quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile
vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur
esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid
est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est
necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori
et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet
impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et
ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur
illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse;
impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod
ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad
alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad
utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est
sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et
contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi,
in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque
oppositorum. Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in
corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et
non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa
ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde
dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur,
non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae
activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit
determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex
necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. Hoc igitur
quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus
naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam
dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione
causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa
autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit,
multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis;
et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Sed hanc rationem
solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum
assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud
quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie
non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse
musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse
musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter
etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum
poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius
effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis
lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Si autem
utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia
ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset
effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus)
reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam,
quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita,
necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad
ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad
bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa,
necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit
utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. Obiiciunt
autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid
per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se.
Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum
accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens
alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est
per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod
per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens
non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum
proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V
methaphysicae dicitur. Quidam vero non attendentes differentiam effectuum
per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius
provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium
corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim
positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus
quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se
et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive
ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut
probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus
seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis
potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum
sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium
corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem
hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum
differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad
intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur
viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non
inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas
concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum.
Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae
per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus
effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id
autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam
virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per
accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est
una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus
dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in
corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia
scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum
se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum,
cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter
agentem. Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab
intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se
non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo
format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per
accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem;
sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis
quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se
intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi
occurrant. Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo
aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem
providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui
stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri,
qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et
velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit
omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem
ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem
cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit
omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso
quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod
est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid
cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per
intellectum agens. Sed si providentia divina sit per se causa
omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex
necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest
eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit
evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non
potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant.
Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et
operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum
tamen multo dissimiliter se habeant. Nam primo quidem ex parte
cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae
secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub
ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra
ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam
secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in
magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si
ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub
ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et
subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad
ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos
eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si
autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa
turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in
via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione
scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum
alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per
se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet
adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius
cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo
praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter
perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non
cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis
suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut
ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic
determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem
modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum
quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile
secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet
per philosophum in IX metaphysicae. Sed Deus est omnino extra ordinem
temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui
subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et
ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et
unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum
quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et
ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque
eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem
sedere in seipso, non in causa sua. Ex hoc autem quod homo videt Socratem
sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad
effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem
sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic
igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae
fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex
necessitate, sed contingenter. Similiter ex parte voluntatis divinae
differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra
ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius
differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo
ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et
distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim,
quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem,
quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest
potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur
vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina,
sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae.
Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia
omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo
oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit
contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non
omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. Similiter autem
aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus
consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in
eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum
voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod
sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei
quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens
semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per
consilium et electionem, ex necessitate provenient. Sed dicendum est quod
similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem
quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia,
quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se
nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate
consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa,
principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum.
Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit
ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex
necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa
principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate
assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem
quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile,
sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex
necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse
felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae
comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum
in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non
posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et
maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere
et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus
humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut
sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut
abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod
bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad
haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in
his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt
ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt
determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem
dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit,
quamvis videantur logici negotii modum excedere. Postquam philosophus ostendit
esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis
impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim
argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam
removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso,
primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se
habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et
cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et
necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa
eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio
est et cetera. Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si
praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant,
oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est
esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et
haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et
non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo
necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod
est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est,
impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem
significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse
quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando
non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non
potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et
omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne
ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex
necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem
necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter
de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex
necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere
id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est
verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum.
Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant
veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit
quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim
illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem,
quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium
absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de
unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub
disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod,
impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est
neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si
divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat
per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non
esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non
est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam;
sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim
pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione. Deinde cum dicit:
quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat
circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate
orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit
veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo
primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut
et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est
vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut
sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum
qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus,
ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio
enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum
contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper
sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed
quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter
se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum,
quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars
contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se
habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit
vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex
hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel
falsa. Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale
intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni
genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram
et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his
quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non
esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in
his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum:
quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur
primus liber. Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione
simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod
diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione
considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in
enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa
compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel
negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec
pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod
aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid
accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel
falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit
quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod
additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est
affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum
vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non
tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo
facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis
infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex
additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa
primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in
quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo,
determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur
non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem
est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit
rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum
distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa
primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte
nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex
parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit:
primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod
dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi:
erit omnis affirmatio et cetera. Resumit ergo illud, quod supra dictum
est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio
significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de
altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat
ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens
subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut
hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen,
scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel
innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non
nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem
formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul
nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet
praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse
unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit
vel nomen, vel nomen infinitum. Deinde cum dicit: nomen autem etc.,
exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid
sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est
infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum.
Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod
nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter
unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut
etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua
negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim
eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens,
non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in
IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem.
Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen
infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet
unum. Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum
scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae
constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine
et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo
affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem
differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit
affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est. Deinde cum
dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest
sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est
affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel
negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in
enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem,
quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae
quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet
ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo
extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis,
sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione
posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam:
quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi
per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum
infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo
variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante
verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in
simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non
diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo,
sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem
considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et
infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo
addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in
primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in
casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et
futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde
si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc
est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et
ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia
huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest
fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur
per respectum ad praesens. Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio
etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen
finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex
differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem;
alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum
universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione
prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem
ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam
affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est.
Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter
ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter
positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus
subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus
nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non
potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare
de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale
subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non
universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae
posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis
temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est
eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. Postquam philosophus
distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex
parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus
nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati.
Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo,
manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero
contraria est et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus
in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in
quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit
autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam
ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus
subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus
subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent
etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem
habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo,
proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit
earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio,
exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo,
proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem
et cetera. Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc
quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum
est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut
cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam
quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi
principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad
connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est
intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat
ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut
adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium
praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum
nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas
partes et non in tres. Secundo, considerandum est quid est hoc, quod
dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur,
dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in
praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti,
secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen
finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo,
non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas
oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati,
quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est
iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo
non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae
particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Deinde cum
dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium
adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet,
scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest
enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est
tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi,
dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit,
vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur
nomen vel verbum. Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit
numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit
earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri
explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia
duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis
oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor
enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto
finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc.,
ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae
dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum
consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco
habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et
obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. Ad cuius
evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in
huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum
quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa,
scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices.
Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae
aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur
infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam
sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae
dicuntur privativae. Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes
earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se
habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum
consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de
praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se
habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum
transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad
affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito
praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito,
huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato,
scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic
scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de
infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo
praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato,
scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa
vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est
iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae,
quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus.
In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de
finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo
praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut
patet in subscripta figura.Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato,
sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae
aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo
non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc
modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad
illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram.
Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato
et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et
cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur
in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in
praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non
loquitur. Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes
quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito
praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam
speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae
affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non
est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem
affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum
privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato.
Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem
affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim,
homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est
simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit
enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt
disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex
his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito
vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. [Ad cuius
evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute
se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere
praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia
illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter
haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum
quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum
loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa
infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici
de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo
iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed
etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo
iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex
est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam
homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est
in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest
dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam
affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum
habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de
aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex
in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest
dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo.
Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam,
quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum
iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici
quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus,
qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae. His
igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum,
scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae,
se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una
est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo
consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet,
sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo
quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam
sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut
simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non
convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam,
quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in
consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum.
Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus,
scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad
infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex
una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa
privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa
simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in
minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se
habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad
infinitas. Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter
exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera
philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu
diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo
habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu
infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est
expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur
similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas.
Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet
affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum
consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam
sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa
infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero,
scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut
scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur
negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut
infinitae. Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam
quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes:
loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum
praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta
secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod
adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum
negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni
autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est.
Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet
duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices
enunciationes. Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra
dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in
supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim
quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo
est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est
iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non
iustus, homo non est non iustus. In qua descriptione apparet quod hoc verbum
est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc
diversificantur quatuor enunciationes. Ultimo autem concludit quod
praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout
dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem,
quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco
homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et
non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae
sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex
parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in
quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro,
quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit
sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut
ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Grice:
“You tell me one of them Italian philosophers is a priest, and I refuse to call
him a philosopher – the same with them Irish Catholics, like Kenny, and even
non-Irish, like Copleston!” Tito Sante Centi. Tito S. Centi. Keywords: gemitus,
Aquino’s cry – natural sign of his illness – gemitus infirmis, gemitando
infirmus signat infirmitas -- tomismo, Aquino, why Aquino is hated at Oxford. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Centi” – The Swimming-Pool Library.
CENTOFANTI (Calci). Filosofo.
Grice: “I love Centofanti; he is a silvestro indeed, born in the rus of Tuscany
– dedicated all his life to the philosophy of Tuscani – notable are his
philosophical explorations on “Inferno’s Dante,” to use the Cole Porter
mannerism; but my favourite are his notes on Plutarch’s “Romolo” – how much he
hated the Etrurians, he made them second-class! – and most importantly, the
Platonic tradition in Italy – as part of a larger exploration on ‘Italian
philosophy,’ as such; at Oxford, Warnock did not give a dedicatee for his
history of English philosophy, but in a typical Italian manner, Centofanti
dedicates his history of Italian philosophy to a member of the nobility! – the
duca de Argento!” – Figlio da Giuseppe e Rosalia Zucchini. Si laurea a Pisa.
Insegna a Pisa. Altre opere: “La prova della realtà esteriore secondo Mamiani”;
“La verità obiettiva della cognizione umana”; “Alighieri. (Galileiana,
Firenze); Pitagora, in Monumenti del giardino Puccini, Pistoia); “Sull'indole e
le vicende della letteratura greca” Società editrice fiorentina, Firenze); “Storia
della filosofia, (Prosperi, Pisa); “Del platonismo in Italia” (Prosperi, Pisa);
“Notizia intorno alla cospirazione e al processo di T. Campanella”; “Alighieri”
(Crescini, Padova); “Storia della filosofia italiana” (Prosperi, Pisa); “Noologia
– noologico – il noologico --. Una formula logica della filosofia della storia”
(Nistri, Pisa); “Del diritto di nazionalità in universale e di quello della
nazionalità italiana in particolare” (Nistri, Pisa); “Sul risorgimento italiano”
(Vannucchi, Pisa); “Il Romolo di Plutarco” (Le Monnier, Firenze); “Averroeismo
in Italia”; “I poeti greci nella traduzione italiana, Preceduti da un discorso
storico sulla letteratura greca (Mazzajoli, Livorno); “Aosta”; Sopra un luogo
diversamente letto nella Divina Commedia” (F. Bencini, Firenze); Al commento di
Buti sopra Alighieri” (Nistri, Pisa); “Galilei” (Nistri, Pisa); “Campanella”. “La
letteratura greca dalle sue origini sino alla caduta di Costantinopoli;
“Pitagora” (Le Monnier, Firenze). Dizionario biografico degli italiani. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e
sede del suo Instituto celebratissimo -- Non prima giunge Pitagora a Crotone
che tosto vi opera un mutamento grande cosi nell’animo come nella cosa
pubblica. I giovani crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell’uomo, e
vinti dall’autorità del sembiante, dalla soavità dell’eloquio, dalla forza
delle ragioni discorse. E Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce
a grande eccellenza. Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde:
a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E
la discordia cessa, e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all’ordine
liberale e giusto. Non soli i lucani, i peucezi, i messapi, ma i romani (pria
di Carneade!) vengono a lui; e Zaleuco e Caronda, e il re Numa escono
legislatori dalla sua scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina.
Gli animali l’obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si
calmano alla sua voce. Taccio il servo Zamolcsi, la coscia d'oro, il telo
d’Abari, il mistico viaggio all’inferno. I giovani crotoniati lo riveggono
stupefatti e lo accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima
dell’invidia e malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil
morte. Quando e come si forma questo mito? Non tutto in un tempo nè con un
intendimento solo, ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al
nuovo pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l’essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l’arcano della società da lui instituita, e il simbolico
linguaggio adoperato fra suoi seguaci dano occasioni e larga materia alle congetture,
alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le passioni e gl’interessi
politici accrebbero la selva di queste varie finzioni. Quando surgeno gli
storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle anime umane, e
specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà potevasi oggi mai separare
il vero dal falso con pienezza di critica. Poi vennero le imposture delle
dottrine apocrife, il sincretismo delle idee filosofiche, il furore di quelle
superstiziose. Onde se il mito primamente nacque, ultimamente fu fatto, e con
intendimento scientifico: e la verità rimase più che mai ricoperta di densi
veli alla posterità che e curiosa d’investigarla. Non dirò delle arti usate da
altri per trarla in luce nè delle cautele per non cadere in errore. Basta
mostrare la natura e le origini di questo mito, senza il cui accompagnamento
mancherebbe alla storia di Pitagora una sua propria caratteristica. La società
pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita. Vi entravano
solamente i maschi. La speculazione scientifica non impede l’azione e la
moralità conduce alla scienza. Ragione ed autorità sono cosi bene contemperate
negli ordini della disciplina che avesse a derivarne il più felice effetto
all’ammaestrato [tutee]. Tutto poi conchiude in una idea religiosa, principio
organico di vita solidaria, e cima di perfezione a quella setta filosofica.
Condizione prima ad entrarvi e l’ottima o buona disposizione dell’animo. Pitagora,
come nota Gellio (Noctes Atticae, I, 9) e uno scorto fisonomista (ipuoloyuwuóvel) osservando
la conformazione ed espressione del volto e da ogni esterna dimostrazione
argomentando l’indole dell’uomo interiore. Ai quali argomenti aggiunge le
fedeli informazioni che avesse avuto. Se il giovinetto presto impara, verso
quale cose ha propensione, se modesto, se veemento, se ambizioso, se liberali,
ecc. E ricevuto, comincia la sua prova; vero noviziato in questo collegio
italico. Voluttà, superbia, avarizia bisogna imparare a vincere con magnanimità
austera e perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche
anco non dure, ti fa freddo al sacrificio generoso, ti fa chiuso alla morale
dolcezza, o ti rende impuro a goderle. Imperocchè il giovinetto voluttuoso è un
egoista codardo, un ignobile schiavo di sè. Un esercizio laborioso conforta il
corpo e lo spirito. Breve il riposo, semplice il vitto; o laute mense imbandite
ma non godute, a meglio esercitar l’astinenza, e corporali gastighi
reprimessero dalla futura trasgressione l’anime ritornante a mollezza. Un altro
egoismo è quello che procede dall’opinione, quando sei arrogante nella stima di
te, sicché gli altri ne restino indegnamente soperchiati, e questa è superbia.
La domande cavillosa, la questione difficile, l’obiezione forte sbaldanza presto
l’ingegno prosuntuoso, e a modestia prudente e vigorosa lo conforma. Il
disprezzo giusto e stimolo a meritare l’estimazione d’altro; accortamente i
ingiusto, a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti doma la compiacenza nell’ornamento vano. Questo accrescimento
del mito é opera di Bruckero (Hist. crit. phil., II, lib. II, c. X, sect. 1,
Lips.). Chi recalcitra ostinato, accusavasi inetto a generosa perfezione.
Finalmente, un terzo egoismo è alimentato dal privato possesso di una cosa
esteriore immoderatamente desiderata. La qual cupidità, molto spesso contraria
alla fratellevole espansione del l’umana socievolezza, vincesi con la comunione
del bene, ordinata a felicità più certa della setta. Quei che appartene ad
un pitagorico e a disposizione del suo consorte. Ecco la verità istorica. Il
resto, esagerazione favolosa. Ma la favola ha conformità col principio
fondamentale della setta pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità
dell’idea -- cosa molto notabile. “Pythagorici”, dice Diodoro Siculo, “si quis
sodalium facultatibus exciderat, bona sua velut cum *fratre* dividebant”
(Excerpt. Val. Wess.). La massima o il precetto “ideón te medėn fysiofai” –
“proprium nihil arbitrandum” -- riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al
principio ideale della setta: e ogni conosce il detto attribuito a Pitagora da
Timeo. Fra due amanti dover esser comuni le cose – “κοινά τα των φίλων”. Anche
la domande cavillosa, le vesti squallide, il corporale gastigo abbiansi pure,
se cosi vuolsi, per cose mitiche. Ma i tre punti cardinali della vera e primitiva
disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di
considerazioni opportune. Cosi i punti centrali donde si dirama la
co-relazione tra l’ordine morale e l’ordine intellettuale, e stato con profondo
senno determinato e valutato, sicchè l’educazione e formazione di ogni procede
al provveduto fine con leggi e con arti di perfettissimo magistero. Ma suprema
legge in questa fondamental disciplina e l’autorità. Nell’età odierna, dissoluta
e pettegola, s'ignora da non pochi l’arte vero dell’*obbedienza* e dell'impero
perchè spesso la libertà è una servilità licenziosa o non conosciuta. Il
fanciullo presume di essere un uomo. E l’uomo che si lascia dominare dal
fanciullo. Nell’Italia pitagorica voleasi dar forma all’uomo e la presunzione
non occupa il luogo della scienza. La solidità della cognizione radica nella
temperata costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha
una nozione sempre scarsa della verità che impara, finchè non ne ha compreso
l’ordine necessario ed intero, e la nozione imparata non basta, chi non v’aggiunga
l’uso e la varia esperienza della cosa, perpetuo e sapientissimo testi-monio
della verità infinita. Poi non ogni verità puo essere intese pienamente da ogni
e puo dover essere praticata. Onde l’autorità di quelche la insegna o che presiede
alla sua debita esecuzione. L’alunno, non per anche iniziato al gran mistero
della sapienza, riceveva la dottrine dal maestro senza discuterla. Il precetto
e giusto, semplice, breve. La forma del discorso e simbolica; e la ragione
assoluta di ogni documento, il nome di Pitagora che così ha detto e insegnato.
“Dutòs ipa” – “Ipse dixit” -- Di questo famoso “ipse dixit” credo di aver
determinato il vero valore. Alcuni filosofi, secondo chè nota Diogene Laerzio,
lo attribuivano a un Pitagora di *Zacinto*! Ma Cicerone, Quintiliano, Clemente
Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., lo attribui ai discepoli del
nostro Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza. “Tantvm
opinio præiudicata poterat ut eliam sine ratione valeret auctoritas” (De Nat.
Deor., 1,5.). Secondo Suida, l’”ipse dixit” l'avrebbe detto Pitagora stesso,
riferendolo a *Dio* maschio, solo sapiente vero e dal quale riceve il suo domma
– “ουκ εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv” -- come, secondo altri (Clem. Aless.,
St., IV, 3 etc.) rifiuta il titolo di *sapiente* e adotta il titolo di
‘filosofo’, perché la sapienza (sofia) vera, che è quella assoluta, a Dio solo
appartiene. Meiners e incerto fra varie congetture, accostandosi anche alla
verità, ma senza distinguerla. Applicasi quel precetto alla vita e dai buoni
effetti ne argomenta il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che
puo venire da questo severo tirocinio, moltissimo dove conferire il silenzio.
Però la TEMPERANZA dalla parola (ix&uubia ) per due, tre, o cinque anni, e
proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del trascorrente eloquio
si dissipa il troppo facile pensiero. E la baldanza dell’espressione spesso
argomenta impotenza all’operazione. Non diffusa nel discorso l’anima, nata all’attività,
si raccoglie tutta e si ripercote dentro se stessa, e prende altissimo vigore,
e genera l’espressione sua propria col quale poi ragiona ed intende il vero, il
bello, il buono, il giusto, ed il santo. Oltrediché le necessità del viver
civile richiede non dirado questa difficile virtù del *tacere*, fedelissima
compagna della prudenza e del senno pratico. Persevera l’alunno nella sua prova
fino al termine stabilito. E allora passa alla classe superiore e divene de’
genuino fratello, amante, discepolo (pvýccol óuenetai). Fa mala prova, o
sentesi impotente a continuarla, ed e rigettato o puo andarsene, riprendendosi
il suo bene. Dura l’esperimento quanto e bisogno alla diversa natura del
candidato: ed all’uscit od espulso ponesi il monumento siccome a uomo
morto. Che questo monumento e posto, non lo nega neppure Meiners. All’abito
del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon governo della
setta, bisogn formare il discepolo. Ma qui ancora il mito dà nel soverchio.
L’impero dell’autorità dove essere religioso e grande. Ma il degno di
rimanere nella setta, e che passa alla classe superiore, comincia e segue una
disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio austero né fede senza
libertà di discussione e d’esame. Alzata la misteriosa cortina, il discepoli
divene college, compagno di giocco, condizionato a non più giurare sulla parola
del maestro, puo francamente ragionare rispondendo – conversazione --, pro-ponendo,
impugnando, e con ogni termine convenevole cercando e conchiudendo la verità.
La aritmetica e la geometria apparecchiano ed elevano la mente alla più alta
idea del mondo intelligibile. Interpretasi la natura, speculasi intorno al
necessario attributi dell’ente parmenideano; trovasi nella ragione del
numero l’essenza del cosmo. E chi giunge all’ardua cima della contemplazione
filosofica ottene il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di
perfetto e di venerabile (“TÉNELOS kai OsBaotixÒS”), ovvero chiamasi per
eccellenza “uomo”. Compiuti il corso di literae humaniores, gli studi, ciascuno
seconda al suo genio coltivando quel genere della dottrine, o esercitando
quell’ufficio che meglio e inclinator. Il più alto intelletto alla filosofia;
gli altri, a governar le città e a dar la leggi al volgo. Della classe de’
pitagorici e detto a suo luogo quello che ci sembri più simile al vero: lascisi
il venerabile, etc . Intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo
doversi intendere. E quanto ai gradi dell’insegnamento, notisi una certa
confusione di una filosofia neoplatonica con l’anticho ordine pitagorico,
probabilmente più semplici (V. Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII,
etc.). Vivesi a social vita e la casa eletta al cenobio dicesi uditorio
comune (õpaxóïov). Prima che sorgesse il sole, ogni pitagorico dove esser
desto, e seco medesimo discorrere nel memore pensiero la cose fatta, lla cosa
parlata, la cosa osservata, omesse nel giorno o ne’ due giorni prossimamente
decorsi, seguitando nel rimembrarle quel medesimo ordine con che prima l’una
all’altra si succede. Poi scossi dal sorgente astro a metter voce armoniosa
come la statua di Memnone, adorava e salutava la luce animatrice a della
natura, cantando o anche danzando. La qual musica li dispone a conformarsi al
concento della vita cosmica ed e eccitamento all’operazione. Passeggiav soletto
a divisar bene nella mente la cose da fare. Poi applica alla dottrine e tene il
con-gresso nel templo. Il maestro insegna, l’alunni impara, ogni piglia
argomento a divenir migliore. E coltivato lo spirito, esercita il corpo -- al
corso, alla lotta, ad altri ludi ginnastici. Dopo il quale esercizio, con pane,
miele ed acqua si ristora e preso il parco e salubre cibo, da opera al civile
negozio. Verso il mancar del giorno, non più solingo come sul mattino, ma a
due, ovvero a tre, dasi compagnevol passeggio ragionando insieme della cosa
imparata e fatta. Indi si reca al bagno. Cosi viene l’ora del comun pasto, al
quale sedeno dieci per mensa. Con una libazione e un sacrificio lo apre: lo
imbanda di vegetabili, ma anche di scelte carni di animali: e religiosamente lo
chiude con altra libazione e con una lezione opportuna. E prima di coricarsi
canta al cadente sole e l’anima già occupata e vagante fra molteplici cure e
diversi oggetti, ricompone con l’accordo musicale alla beata unità della sua
vita interiore. Il maestro rammenta all’alunno il generale precetto e la regola
ferma della setta; e quell’eletto sodalizio, rendutosi all’intimo senso
dell’acquistata perfezione, rianda col pensiero l’ora vivuta, e nella certezza
di altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormenta. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all’uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα.xos ov diVÍTTETA!” “et eam quæ nunc
vocatur ecclesia significat id quod apud ipsum Pythagora est Ouaxoslon (Str.,
1. 15). Questo e l’ordine, questo il vivere della Società Pitagorica
secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia. Ogni facoltà dell’uomo
vi e educata ed abituata ad operare un nobile effetto. La salute del corpo
conduce o sirve a quella dello spirito. E lo spirito forte e contento nella
esplicazione piena e nella feconda disposizione della sua potenza, concordasi di
atti e di letizia col mondo e trova in Dio il principio eterno d'ogni armonia e
contentezza. Così il pitagorico era modello a quel che lo riguarda: il quale
anche con la sua veste di lino bianco mostrasi diviso dalla volgare schiera e
singolare dall’altro. La breve narrazione della cosa che fin qui fu fatta, e necessaria
a conservare alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa e quindi una
sua propria nota ed anche sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo
ora cercare e determinare un criterio onde la verità possa essere separata
dalla favola quanto lo comporta l'antichità e la qualità dell’oggetto che e
materia a questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito,
popolarmente nato, o scientificamente composto, quantunque assurdo o strano puo
parere in alcune sue parti, pur ha una certa attinenza o necessaria conformità
col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alla
varia opinione che altri ne ha; e quando la tradizione rimane ha un fondamento
nel vero primitivo dal quale deriva, o nella costituzione morale e nella
civiltà della setta a cui quel vero storicamente appartiene. Che se nella molta
diversità della sua apparenza mostra un punto fisso e costante a che riducasi
quella varia moltiplicità loro, questo è il termine ove il mito probabilmente
riscontrasi con la storia. Or chi intimamente pensa e ragiona la biografia di
Pitagora vede conchiudersi tutto il valore delle cose che la costituiscono in
due idee principali. Prima in quella di un essere che sovrasta alla comune
condizione dell’uomo per singolarissima partecipazione alla virtù divina.
Seconda in quella di una sapienza anco in diversi luoghi raccolta e ordinata a
rendersi universale nel nome di quest'uomo straordinario. Chi poi risguarda
alla setta pitagorica, ne vede il fondatore cosi confuso con gli ordini e con la
durata di essa che sembri impossibile il separarnelo. Dalla quale conclusione
ultimamente risulta, Pitagora e un filosofo, ed e certissimamente un’idea
storica e scientifica. L’Italia poi senz’ombra pure di dubbio è il paese
dove quest’idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e
fortuna, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce.
Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del
mito e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva, sembra
essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella verità
che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre due che
precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre che Pitagora
(o Grice) sia insieme un filosofo e una filosofia perenne. Nel che volentieri
si adagia quel forte e temperato senno che non lasciandosi andare l’agli
estremi, ne concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria.
Ma porre fin da principio che Pitagora è solamente un filosofo, e alla norma di
questo concetto giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla filosofia,
alle azioni miracolose di colui che ancora non si conosce appieno, e
assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un filosofo, è un
rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per rispetto alla
filosofia. Lo che venne fatto a molti. D'altra parte se la esclusione del
filosofo e assolutamente richiesta alla spiegazione del mito e alla ricupera
della storia e timidezza soverchia il non farlo, o ritrosia irrazionale.
Potendosi conservare Pitagora alla storia della filosofia (unita
longitudinale), e separar questa dalle favole, pecca di scetticismo vano chi
non sa contenersi dentro questo termine razionale. Vediamo ora se a questa
nostra deduzione logica aggiunge forza istorica la autorità positiva di un
autore rispettabile, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge la orgia e la instituzione pitagorica con
quella orfica, dionisiaca, e con le getiche di Zamolcsi, attribuisce
implicitamente al figliuolo di Mnesarco una erudizione che si stende alla cosa
greco-latina ed alla cosa barbarica (Erodoto, II, 81.; IV, 95 — Isocrate
reca a Pitagora la prima introduzione della filosofia -- φιλοσοφίας εκείνων
TTPŪTOS ES tous Ezanvas éxóulge (in Busir., 11). E Cicerone lo fa viaggiare per
la Liguria (De Finibus, V. 29). Ed Eraclito, allegato da Laerzio, parla di
Pitagora come di filosofo diligentissimo più che altri mai a cercare
storicamente la umana cognizione e a farne tesoro e scelta per costituire la
sua enciclopedica disciplina -- Laerzio, VIII , 5. -- la cui allegazione delle
parole di Eraclito è confermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21).
Eraclito reputa a mala arte (“xaxoteXvinv”) l’erudizione di Pitagora; perché, a
suo parere, ogni verità e nella mente, la quale sa trovare la scienza dentro di
sè e basta a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali, confermate dalla
concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e opportuna testimonianza a
quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è raccoglitore e
maestro d’una filosofia che quasi possa dirsi “cosmopolitica” o universale in
senso hegeliano. “Vir erat inter eos quidam praestantia doctus plurima, mentis
opes amplas sub pectore servans cunctaque vestigans sapientum docta reperta, nam
quotiens animi vires intenderat omnes perspexit facile is cunctarum singula
rerum usque decem vel viginti ad mortalia secla. (Empedocle presso Giamblico
nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio, id., 30). A dar fondamento
istorico all’altra conclusione non ci dispiaccia di ascoltare Aristippo, il
quale nota che PITAgora e con questo nome appellato perchè nel dire la verità
non e inferiore ad Apollo pizio (Diog. Laerzio, VIII, 21). E noi qui
alleghiamo Aristippo, non per accettare la convenienza prepostera del valore
etimologico del nome (pizio, pizagora) con quello scientifico del filosofo, ma
per mostrare che prima degli alessandrini il nome di “Pitagora” (pizio,
pizagora) era anche nell’uso dei filosofi quello di un essere umano e di una
più che umana virtù, ala Nietzsche, e che nella sua straordinaria
partecipazione alla divinità (Apollo pizio) fonda l’opinione intorno alla di lui
stupenda eccellenza. Aristotele, allegato da Eliano (Var. Hist., II )
conferma Aristippo, testimoniando che i crotoniati lo appellano “apollo
iperboreo” (Lascio Diodoro Siculo, Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri
filosofi meno antichi, i quali peraltro ripeteno una tradizione primitiva o
molto antica. Ma ciò non basta. Un filosofo, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchina il moderno critico, ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era questo: tre essere le forme o specie
della vita razionale: Dio (pizio Apollo), ľ uomo e Pitagora -- Giamblico nella
Vita di Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam
Aristoteles in libris De pythagorica disciplina (“èv τοίς περί της Πυθαγορικής
φιλοσοφίας”) quod huiusmodi divisio a υiris illis inter praecipua urcana
(“èv toiS TAVT atroppñtois”) servata sit animalium rationalium aliud est Deus,
aliud homo, aliud quale Pythagoras. L'originale non dice “animalium” ma “animantis”
-- zúov; che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali
nella traduzione latina (three rational lifes: God, man, and Pythagoras). sono
obiettivamente divise. Nel greco sono distinte e insieme recate ad un comune
principio. Il Ritter, seguitando altra via da quella da me tenuta, non vide l'idea
filosofica che pure è contenuta in queste parole né la ragione dell'arcano
(Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1). A ciò che dice Aristotele parrebbe
far contro Dicearco, il quale in un luogo conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. ,
19) ci lasciò notato che, fra la cosa pitagorica conosciute da tutti (“γνώριμα
παρά πάσιν”) era anche questa: “και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei
vouiſelv”, vale a dire, che ogni natura animate e omogenea. Ma la cosa arcana
di che parla Aristotele, è principalmente “Pitagora” -- la natura media (demonica)
tra quella puramente umana e quella divina -- idea demonica e fondamento
organico dell’instituto. Poi, l’uno parla di un essere semplicemente animato.
L’altro dell’ordine delle vite razionali; che è cosa molto più álta. Sicchè la
prima sentenza e divulgatissima come quella che risguarda l’oggetto sensate e
la seconda appartenere alla dottrina segreta, per ciò che risguarda all’oggetto
intellettuale. Non ch'ella non puo esser nota nella forma, in che la notiamo in
Giamblico, ma chi che non sa che si e veramente Pitagora, non penetra appieno
nel concetto riposto della setta. Qui si vede come il simbolo (segnante) fa
velo all’idea (segnato), e con qual proporzione quella esoterica e tenuta
occulta, e comunicata quella essotericha, quasi a suscitar desiderio dell’altra.
Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele. Ed Aristotele ci è storico
testimonio che l’ombra dell'arcano pitagorico si stende anche alla filosofica
dottrina. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita e Pitagora e il segno di quella condizione demoniaca
che media tra la condizione puramente divina (pizio Apollo) e la condizione
puramente umana. Ond’egli è nesso fra l’una e l’altra, e tipo di quella più
alta e perfetta ragione di che la nostra natura e capace. Ora la filosofia
anche nell’orgia pitagorica e una dottrina ed un’arte di purgazione (catarsi) e
di perfezionamento, sicchè l’uomo ritrova dentro di sé il dio primitivo e
l'avvera nella forma del vivere. E in Pitagora chiarissimamente scopriamo
l'idea di questa divina perfezione, assunta a principio organico della sua società
religiosa e filosofica e coordinata col magistero che nel di lui nome vi e esercitato.
Onde ottimamente intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata
con quella della setta (cfr. grice, setta griceiana), e possiamo far
distinzione da quello a questo, conservando al primo ciò che si convenga con le
condizioni storiche di un uomo e attribuendo al secondo ciò che
scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a un principio. Quindi
non più ci sembrano strane, anzi rivelano il loro chiuso valore e mirabilmente
confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e simboli de’ pitagorici:
l’uomo esser bipede, uccello, ed una terza cosa, cioè Pitagora. Pitagora esser
simile al nume pizio Apollo, e l'uomo per eccellenza, o quell’istesso che dice
la verità: i suo detto e l’espressione di Dio che da tutte parti risuonano: e
lui aver fatto tradizione alla loro anima della misteriosa tetratti o
quadernario, fonte e radice della natura sempiterna. Alcuni videro in
questa tetratti il tetragramma biblico, il nome sacro ed essenziale di Dio. Altri,
a grado loro, altre cose. Ecco i due versi ripetutamente e con alcuna varietà
allegati da Giamblico (Vita di Pit.. XXVIII, XXIX) e da Porfirio (id., 20) ai
quali riguardavamo toccando della tetratti e che sono la formola del giuramento
pitagorico – “Ου μα τον αμετέρα ψυχά παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα
τ’έχουσαν” – “Non per eum, qui animae nostrae tradidit tetractym fontem perennis
naturae radicemque habentem” (Porph., V. P., 20). Il Moshemio sull’autorità di
Giamblico (in Theol. Arith.) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico
ad Empedocle, e lo spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell’anima.
Poco felicemente! (Ad Cudw. Syst. intell., cap. IV, s. 20). Noi dovevamo
governarci con altre norme -- e altre sentenze di questo genere. Le quali
cose non vogliono esser applicate a Pitagora qua uomo o filosofo, ma a Pitagora
qua persona o idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue
instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto
posteriori a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell’idea primitiva. Il
criterio adunque a potere interpretare il mito, e rifare quanto meglio si
possa la storia parmi che sia trovato e determinato. Pitagora, nel duplice
aspetto in che l'abbiamo considerato è sempre uomo ed idea: un uomo tirreno che
dotato di un animo e di un ingegno altissimi, acceso nel divino desiderio di migliorare
le sorti degli uomini, capace di straordinari divisamenti, e costante nell '
eseguirli viaggia per le greche e per alcune terre barbariche studiando ordini
pubblici e costumi , fa cendo raccolta di dottrine , apparecchiandosi insomma a
compiere una grand' opera ; e il tipo mitico di una sa pienza istorica
universale. Un uomo , che le acquistate cognizioni avendo ordinato a sistema
scientifico con un principio suo proprio o con certi suoi intendimenti, ne fa
la pratica applicazione, e instituisce una società religiosa e filosofica che
opera stupendi effetti ; e il tipo della razio nalità e di una divina filosofia
nella vita umana e nella costituzione della sua scuola . Fra le quali due idee storica
e scientifica dee correre una inevitabile reciprocità di ragioni, quando la
persona sulla cui esistenza vera risplende, a guisa di corona , questo lume
ideale , si rimane nell'uno e nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo
agguagliando Pitagora ad Apollo Pitio rende testimonianza all' opinione mitica
della più che umana eccellenza di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli
fosse in sè e nella sapienza or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello
che fosse per rispetto alle origini storiche di quella sapienza e al ' valore
di essa nella vita ellenica , o per meglio dire italica. Imperocchè il
pitagorismo ebbe intime congiunzioni con la civiltà dorica; e proprie
massimamente di questa civiltà furono le dottrine e le religioni apollinee. Quando
poi avremo conosciuto più addentro la filosofia di Pitagora, troveremo forse un
altro vincolo necessario fra le due idee storica e scientifica, delle quali
abbiamo parlato. Procedendo con altri metodi , non si muove mai da . un
concetto pienamente sintetico , il quale abbia in se tutta la verità che si
vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che ci ponga al di sopra di tutte le
cose che son materia de' nostri studi e considerazioni . Si va per ipotesi più
o meno arbitrarie , più o meno fondate, ma sempre difettive, e però inefficaci.
Il mito , non cosi tosto nasce o è fabbricato e famigerato , che ha carattere e
natura sua propria, alla quale in alcuna guisa debbano conformarsi tutte le
addizioni posteriori. E quando esse vi si discordino , pur danno opportunità ed
argomenti a comparazioni fruttuose. Poi quella sua indole primitiva non potendo
non confrontare , come gia notammo, per alcuni rispetti con la natura delle
cose vere , o talvolta essendo la forma simbolica di queste, indi incontra che
il mito e la storia abbiano sostanzialmente una verità comune, quantunque ella
sia nell'uno e nell'altra diversamente concepita e significata. Però ho creduto
di dovere accettare il mito pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che
dalle sue origini fino alla sua total pienezza importi la varia evoluzione di
un'idea fondamentale; fatto, il quale prima si debba comprendere e. valutare in
sé, poi giudicare e dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo
secondo il suo processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente
determinate e riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse
eseguirsi in questo lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla
comprensione de'sagaci e diligenti leggitori, e avere indicato le cause della
sua progressiva formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le
origini di esso non si vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni
e varii discorsi degli uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a
questa tolgasi ogni intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà
sempre meglio dal nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora,
era organica in quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale,
onde il mito e la storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in
diversa forma attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai
ragionamenti , che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il
fondatore di una setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta
la sua dot trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è
cosa naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti
esempi. Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa
idea si proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò
davvero con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che
parlano Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII;
Porfirio, n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a
non più devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali
accenna all ' indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap.
XXIV.). Riferi scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre
dibili , che furono di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la
necessaria spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò
un'altra cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca
intorno a Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran
lume (non so se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito
pitagorico. Zamolcsi, prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e
sostanze, e ritorna in pa tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la
vita informe de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde ,
valendosi della sua erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana
costumatezza. E che fa egli? Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto
pitagorico (svopsūva): chiama e vi accoglie tutti i principali cittadini (és
tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica
notabilissima: e gli forma a viver comune. Inalza le loro anime col pensiero
dell'immor talità e di una felicità futura al disprezzo dei piaceri , alla
tolleranza delle fatiche , alla costanza della virtù , Sparisce da' loro occhi
in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε κατω ες το κατάγαιον
δικημα") a confermare la sua dottrina col miracolo , ed è creduto
morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente apparisce , è ricevuto qual
nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le sue istituzioni a quel
popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora? Erodoto reputa
anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις Ζαμόλξις
άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo pelasgo -
tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni getiche dalle
pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione e connessione di miti
fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la testimonianza di
Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti , e generalmente
della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti , incominciava
dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e la salute del
corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ; conformemente alla
terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre attenzione il
Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina pitagorica ; e
ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo, favoloso narra tore
della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa all'inferno (Laerzio,
VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito pitagorico ha origini
antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma primitiva : e con criterio
sempre più intero siamo condizionati a scoprire la verità istorica che si vuol
recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali si possa legittimamente fare
uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il Meiners, che fece questa
critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma dalle cose scritte in
questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo lavoro critico, che
vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti i principi, che
valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con legittimo
criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia , secondo la
parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della scuola
pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli greci
generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più chiaro
lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli nascesse in
Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a padre, a
maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo è ciò che
i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi ancora ,
senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette menzogne
tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali per lo meno
accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed instituzioni di lui e
le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le druidiche. Contro queste
corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni cronologiche computate
sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea potè essere
contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec. alla cessazione
della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed altri poterono in
alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo raccogliesse gli elementi
storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui non debbo entrare in
computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e all'opinione di
Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso ,diTito Livio fu
già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che faceano viver Pitagora
sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa (Abideno, nella Cronaca
d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist. rom., 1, p. 220 ed. Bruxel)
Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la somiglianza fra i loro
ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il Bentley indi trasse
argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi di Locri. Alle cui
non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix, e ultimamente anche
il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità italica delle idee
pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di Samo, e la loro
generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese. Quindi nelle parole
di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5 Tois ItalWTAIS, VIII,
3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza di quella nazionalità:
e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi, 13) ch'egli prima .
mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και σταθμά εισηγή oacjal)
, congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal Mazzocchi nelle
Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai popoli in digeni
il sistema dei pesi e delle misure , e quello della confinazione agra ria , e
trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo. (Vedi
Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato
Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi
riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e
limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane.
Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse
Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio
di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu
osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie
che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta
eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti
all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha libertà
sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società federativa
-- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della lega achea
non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér, et de la lé
gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che facesse Li
curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e segg.
-- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita l'avarizia ,
e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ; excepta
Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma vedasi
Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone -- e
l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le leggi
recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla
familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in
essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica
anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città
: tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e
la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono .
Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui
meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti,
studiate: proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il
sindacato ; esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più
ir riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son
comuni i banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava ,
ma franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi
attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto
Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo
di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche.
Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta
ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in
queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale
civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle
instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia
sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno .
Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche
volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella
comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per
eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni .
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea
, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra,
simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di
passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte
lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua
Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una
comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e
dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della
materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia
potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi
due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste
nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della
parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse
potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando
questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi
Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano
: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col
miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà abominevole;
con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza, a serena
quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione
trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel
Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi
fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone....
ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem
dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph
., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte
belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci
circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza
sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai
legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia ,
eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue
contrade , recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel
pensiero letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni
nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle
vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida gioventù
, e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò col
Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri dionisiaci,
o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una rigenerazione di
dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo troverò un modello e
un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica . Veniamo ora all' Italia ;
alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di
tutte le altre ; alla sede di un'antichissima civiltà, fiorente per ar mi, per
dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed altre opere egregie, che gli
studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano anteriore alla greca .
Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono nell'Enotria coi primordi
della civiltà che vi presc forma per le leggi dell'antico Italo : ed Aristo
tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere che alcune di quelle leggi e
quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le altre , duravano tuttavia nel
suo secolo; forse per la con giunzione loro coi posteriori instituti
pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr di questa durata ; ma
se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse avrebbe potuto avvi .
sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla pastorizia volge gli
erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e coi civili consorzi
comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente Cerere che dalla
Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali conservavasi la sacra
tradizione, e per simboliche rappresentazioni si celebrava il passaggio
dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile , le somiglianze tra
questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita gora in Metaponto
appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15; Giamblico, V. P., XXX.
Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone: civitas ... venerati post
mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque illa urbs viguit, et dea in
hominis me moria , et homo in deae religione cultus fuit . VIII , 16. Chi
poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di Saturno, potrebbe con altre
memorie illustrare questa prima forma dell'antichissima civiltà italica
-- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul. Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses.
Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8 -- Le cui origini saturniche dallo
storico alicarnassèo sembrano essere attribuite alla virtù nativa di questa
terra privilegiata; ond'essa, prima di moltissime altre, dovesse agevolare a
prosperità di com pagnevol vita i suoi abitatori. Dionisio d'Alicar., 1.
Le cose accennate nel seguente periodo del testo son cenni fatti a utile
ravvicinamento d'idee, e che però non offen deranno alla severa dignità della
storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .) anche a Pico ed a Fauno, perchè
questi nomi mitici si congiungono con quello di Saturno ; mito principalissimo
della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus et urbes Jam senior longa
placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha genitum Laurente Marica
Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te, Saturne , refert; tu
sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi piacevole a trovare in
queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo col pitagorismo per
mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo rappresenta Euripide , alla
vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma recondit Sedibus, et Nimphae
Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis Italis ignobilis aevum
Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII , 774 seq.) Ippolito,
morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa duplicità di vita posto
a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del pitago. rico Numa ! Ma
Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera dalla sua purità nativa.
Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla tivi dovea parere
ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e Fauno esperti nella
medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e simili ai Dattili Idei ,
il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la congettura del Niebuhr
essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia , il mito che fa Pitagora
figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con nessioni storiche che queste
cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci bastino. La sapienza etrusca
era un sistema arcano di teologia politica , di cui gli occhi del popolo non
vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli conoscessero l'interna so
stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica, astro nomia ed aritmetica
stavansi connesse con la morale e con la politica . Imperocchè gli ordini della
città terrena ave vano il loro tipo nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè
nella costituzione della città celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità
primitiva , dalla quale dipendeva la di stribuzione di queste forze divine; e
il suo vero nome, un arcano: con seimila anni di evoluzione cosmica era giunto
sino alla formazione dell'uomo , e la vita umana per altri seimila anni si
sarebbe continuata . Dodici erano gl'Id dii consenti , e dodici i popoli
dell'Etruria . Pei quali con giungimenti della terra col cielo , la civiltà
divenne una religione ; l ' aruspicina fu l'arte politica per dominare e
governare il vulgo ignorante , e la matematica una scienza principalissima e un
linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide analogie tra le dottrine
tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio , introdotto a parlare da
Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di Pitagora essere volgarmente
noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1. C. , VIII , 7,18. 11 Guarnacci
reputò essere affatto etrusca la filosofia pitagorica . Antichità Ilal., vol .
III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò analogia fra la dottrina etrusca e la
filosofia pitagorica , e credė es servi state comunicazioni fra la Etruria e la
Magna Grecia.E chi potesse far piena comparazione fra i collegi dei nostri
auguri antichi e quelli dei pitagorici , scoprirebbe analogie più inti me e più
copiose. Faccio questa specie di divinazione pensando al nesso storico fra
le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel mio concetto tutto ciò che
possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di me amico delle congetture
, potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e quello di Pitagora a una
radice comune, almeno quello di Pitagora a radici semitiche, e suonerebbe : la
bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa raccolta di ragionamenti e
di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo XXX dei Proverbi. La
tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni di Numa , sembra essere
cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal noverarle tutte: la
nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il tempio rotondo di Vesta
, ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri sepolti , i pro verbi
stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit tadina dell'antica Roma
quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num. Aggiungete la Dea Tacita , e la
dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a cui è vietato cibarsi di fave ;
il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate agli elementi dorici che altri
notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec. Secondo Clemente Alessandrino
Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e quasi a significare questa
degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il monumento di una romana statua.
Chi poi avesse agio a profondamente discorrere tutto il sistema primitivo della
romana civiltà , dalle cose divine ed umane comuni cate nel matrimonio cosi
all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e frugale di tutta quella
cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela , dall'esercizio degli uffici
secondo la dignità personale , dalla suprema indipendenza del ponti ficato ,
simbolo della idea divina che a tutte le altre sovra sta , dagli ordini
conducenti a comune concordia , dalla re ligione del Dio Conso, dall'Asilo, dal
gius feciale , da un concetto di generalità politica che intende fin da
principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec. potrebbe trarre
nuovi lumi a illustrazione storica di questo nostro argomento. Trova
Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella stessa lingua del Lazio , e ne
argomenta nazionalità necessaria . E il Maciucca, che vede nella ferula di
Prome teo uno specchio catottrico , e congiunge questo con l'arte attribuita
alle Vestali di riaccendere il fuoco sacro, ove fosse spento , col mezzo di
concavi arnesi esposti ai raggi del sole , ci aprirebbe la via a trovare
scientifiche relazioni tra gl ' instituti di Numa , e la scuola orfica
apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose volentieri abbandoniamo
agli amici delle facili congetture. L'opera del Maciucca, I Fenici primi
abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal Mazzoldi ( il quale avrebbe
dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse , ec . Delle Origini
italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di congetture e d'ipotesi
fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie , e ribocca di boria
con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ; ma è anche piena
d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre distenderci in questi
cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e nelle ita liche gli
elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione della scuola
pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più esotericamente ordinati
in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni , e più essotericamente
di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ; indizio forse di origini
native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora? Raccolse questi
sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua società ? O fu
inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la cui virtù organica
tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e divenissero altra cosa
in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari fin qui discorsi abbiam
fatto uno storico comentario all'idea della sapienza cosmopolitica di Pitagora
. E se ci siam contenuti entro i termini delle terre elleniche e italiche ,
abbiamo sem pre presupposto anco le possibili derivazioni di quella dalle
asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le sue attinenze con
queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe dire delle
asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia con le
pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del mito che fa
viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI , 5 ;
Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano Marcellino, XV,
10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique magnitudinem et
formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire profilentur.
Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu , aut in
abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus effluit ,
videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram
ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem bracati
sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la Tetratti
pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della musica .
Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il grand'
uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non contentossi a
fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione pratica mancasse
il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a trarne vantaggio.
Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam trovati nella
civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari della Grecia e
dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema tico ordinatore è
quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può vedere nel passato
vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e future. Pitagora
dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia ; ma anche
generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua idea istorica
con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l ' idea
scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia negli
ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la con
clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella quale
abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della prima
parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare la
sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che ,
achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle
terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute ,
repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni
pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi
, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre
fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i
gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione :
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella
Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i
magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente
greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino
concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta
all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei
che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che
presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea
organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i
cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e
processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda
, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la
costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi
vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e
forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare ,
secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E
la musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore
, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti
nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi
cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta
quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili
potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel
l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata
conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed
a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta
, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente
recata in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel cosmico
sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran
colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a
Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone (Vetat
Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le necessarie
ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i provvidi
ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e continuavano
con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda
vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap. Giamblico,
V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo (
Serm. XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila :
ui fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani , che si
formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero
dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle
consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani
, gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non aver senno , repuluvano cosa
da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di
bellezza , e di utilità ; di vanità e di bruttezza , la dismisura e il
disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo , di
ciò che a tutti comunemente fosse con venevole : e però restringendo la
letteraria disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte
e difficili nelle altre età , anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto , che,
per nativa attitudine , potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura.
Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica ,
e conti nua ; e tutte le potenze , secondochè comportasse la natura di ciascuno
, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante
unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino:
Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov
deiv, .... oportere hominem quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin
dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante
armonia , a questa bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad
altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė :
l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del
dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea
corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si
comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con
questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi
necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere
uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon
damento in una dottrina di civiltà , al cui esemplare voglia con arti poderose
conformare la vita di un popolo ; ma deve anche storicamente accettare questo
popolo com' egli : 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi
legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai
doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere
interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare
l'uo mo Spartano , dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo
accettare quelle genti com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose
, e preparò la futura ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti
ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua
scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo , venia facendo una società
potenzialmente cosmo politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi
per tutte le parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era ,
non può negarsi , una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di
elettissimi uomini , e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento
di cose umane , esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la
presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a
poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im
perocchè Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il
nome di legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il
principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e
quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà
personali , desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere
umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe
di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe
implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe
fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione
individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa
trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due
universalità ne presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il
fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora ,
racco glitore storico della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto
alla sua propria filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le
scienze allora note si professava no , e la speculazione era libera , tutte
queste dottrine do . veano dipendere da un supremo principio , che fosse quello
proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella
geometria , nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica ,
nella psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non
a frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto
al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto
giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi
suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il
principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col
pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a
suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea
non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di
Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma
che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una necessità
organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero arbitrio
dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e coordinazione , e
convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma la ragione del
numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con figurazioni si determina
, e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si congiunge con quella
geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e sè con se stessa ,
questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii aso matici
precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’ medesimi ,
onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli della
natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi cina ,
nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e l'aritmetica
pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ; un'apparenza
simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina sostanziale per
eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il sostanziale e necessario
valore del principio , nel quale Pitagora fece fondamento a tutta la sua
filosofia : nè le condizioni sincrone della generale sa pienza ellenica fanno
contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa filosofia , fino dalla sua
origine , fu un ema. natismo teocosmico che si deduce secondo le leggi eterne
del numero . E perocchè questo emanatismo è vita , indi conseguita l ' indole
della psicologia pitagorica, ontologicamente profonda. Prego i sapienti
leggitori a ridursi a mente le cose scritte da Aristotele (Met., 1 , 5) sulla
filosofia pitagorica , comparandole anche con quelle scritte da Sesto Empirico
( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero essere assolutamente contrarie a
questa mia esposizione del fondamentale prin cipio di quella filosofia. In
Aristotele veggiamo il numero essere assunto a principio scientifico dai
pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose che esistono ( των
όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si vuole ascrivere allo
studio che questi uomini principalmente facessero delle matematiche , ma ad un
profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè considerando che ogni
cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi concludevano la necessaria antecedenza
di quella ragione , ontologi camente avverandola. E cosi posta nella monade la
condizione reale ed assoluta , senza la quale niuna cosa può essere , notavano
che percorren dole tutte non se ne troverebbe mai una perfettamente identica a
un'altra , ma che l'unità non si aliena mai da se stessa. Quindi ciò che
eternamente e semplicemente è uno in sè , è mutabilmente e differentemente
molti nella natura: e tutta la moltiplicità delle cose essendo avvinta a
sistema dai vin coli continui del numero , che si deduce ontologicamente fra
tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si risolve da ultimo in una
unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante del mondo ; nome che dicesi
primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse detto ( Stobeo , p. 48) , che
il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al tempo , ma per rispetto al
nostro modo di concepire quel suo ordine , ci avrebbe dato lume a penetrare più
addentro nelle sue idee : γεννητον κατ' επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La
deduzione geometrica delle cose dall'unità primordiale del punto, risguarda
alla loro formazione corporea , e appartiene alla fisica generale dei
pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam dichiarato è quella metafisica del
numero. Aristotele adunque , inteso a combatterli , non valutò bene questa loro
dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia
antica. Or se tutto il mondo scientifico è un sistema di atti
intellettuali , che consuonano coi concenti co smici procedenti dal fecondo
seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee esercitare tutte le potenze del
numero contenuto in lui , e conformarsi all'ordine dell'universo. E tutte le
anime umane essendo sorelle , o raggi di una co mune sostanza eterea , debbono
nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli di questa divina parentela , e fare
delle civiltà un'armonia di opere virtuose . Però come la disciplina di tutto
l'uomo pitagorico necessariamente conduce a una so cietà cosmopolitica, cosi
ogni vita individuale e tutto il vivere consociato hanno il regolatore
principio in una idea filosofica , che ordina tutte le scienze alla ragione
dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte le cose . Da quel che abbiam
detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere la dottrina religiosa di
Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche gli furono miti camente
attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione loro nelle qualità
straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue iniziazioni e linguaggio
arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui . Ch'egli usasse le
maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla sua istituzio ne ,
non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi imposture, non lo
crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli facesse servire le
solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può facilmente credere .
Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners, che recò ogni cosa
allo scopo politico della società pitagorica , molto volentieri concesse , che
a questo fine fossero adoperate le cognizioni mediche, le musicali , gl' in
cantamenti mistici , la religione , e tutte le arti sacerdotali, senza pur so.
spettare se cid importasse una solenne impostura , o non facendone conto .
Parlando poi dell'arcano di questa società , ne restrinse a certo suo arbi .
trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un impostore l ... II, 3. Noi
qui osserveremo che nella valutazione istorica di queste cose da una con
parte bisogna concedere assai alle arti necessarie a quelle aristocrazie in
stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle esagerazioni delle moltitudini
giudicanti. La scuola jonica, contenta, questa loro dottrina ; e i moderni
seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia antica chi generalmente
giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere la pratica delle idee
religiose surse contraria al politeismo volgare , del quale facea sentire la
stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società perfeziona trice ,
dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a opportuni miglioramenti.
Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava quella dello spirito , e
l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il principio e il termine
della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La posizione cosmica dell'uomo
gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè una perfetta forma di vita ,
alla quale non potesse venire se non per mezzo della filosofia . E questa era
la vera e profonda religione del pitagorico; un dovere di miglioramento
continuo , un sacra mento di conformarsi al principio eterno delle armonie
universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo tellurico. Quindi arte
della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi una medesima cosa . I
vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente sole , il maestoso
silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la prodigiosa
diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine, l'acquisto della
virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita gorico era un alito
di divinità presente , un concento dina mico, un consentimento di simpatie , un
desiderio , un do cumento , una commemorazione di vita , una religione d'amo re
. Il quale con benevolo affetto risguardava anche agl'ſirra gionevoli animali ,
e volea rispettato in loro il padre univer sale degli esseri. Pertanto l'idea
religiosa era cima e coro na , come già notammo, a tutto il pitagorico sistema;
e di qui veniva o potea venire al politeismo italico una in terpretazione
razionale ed una purificazione segreta e continua. Pindaro poeta dorico e
pitagorico , insegna , doversi parlare degli iddii in modo conforme alla loro
dignità ; ovvero astenersene , quando cor rano opinioni contrarie alla loro
alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem
hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I, str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα
γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι. Mihi vero absurdum est helluonem
Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe (ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio
Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem, come lo chiama Cicerone, De Fin.,
V, 5), che faceva anch'esso discender Pitagora miticamente all'inferno , dove
vedesse puniti Omero ed Esiodo per le cose sconvenevolmente dette intorno
agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi abbiamo già notato , e anche
ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre parti della sapienza
pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e questa sapienza , che
recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non poteva non applicare
cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè gl'intendimenti
de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori magnanimi . Fugandum
omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique machinis
praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav), a ventre
luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu) , a
cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice
Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in
bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed
egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse ,
riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle
illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni
gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi
dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto
alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e
ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle
tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo
com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire
le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi
maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono
trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis ,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare .
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio
Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i
miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare
l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe
dimostrarlo? Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno
romano. Un solo principio adunque informava la società, la disciplina, la
religione, la filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile
connessione che indi viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo
considerato , è una prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni.
Ma a questa sintesi luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche
dall'egregio Ritter sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una
semplice società privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri
varono alle città della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale
di tutta quella comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose ,
mostrando , quanto fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il
proporzionato impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo
volgare e distinta assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e
la copre di misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o
l'opportunità del mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi
disgregate, in distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il
sistema , le avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo
interrogare i tempi e storicamente comprovare questa loro grandezza. Come
il Meiners pose nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione
pitagorica, così il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio
giusto di tutta questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo
trovato il principio organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo
che risguardinu sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo
i primi legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal
concetto di una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello
dell'umanità che per opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de'
suoi intendimenti, in tali condizioni, da dover procedere con arti molto
segrete e con prudente circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin
ciatore di un nuovo e speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica.
Onde l'arcano e l'uso di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli
bisognavano a sicurezza esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con
profonde ragioni organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici,
essoterici ed esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che
potevano non essere adoperati in principio , ma che accennano sempre a due
ordini di per sone , nei quali , per costante necessità di cause , dovesse
esser partita la Società , e che ce ne chiariranno la costituzione e la forma
essenziale. Erano cause intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o
minore capacità delle menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue
sommità della sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime
ragioni , fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non
minore importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i
cuori e le volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse
i migliori nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa
alla quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose ,
tutte quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per
farsene continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non
è imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e
dissoluzione di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il
tesoro della sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano
tutto il prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato
l'abito di quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo
pitagorico , potevi essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto
il sistema organico e procedimenti della società. La forma adunque , che questa
dovesse prendere, inevitabilmente risultava da quella partizione di persone ,
di discipline , di uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni
desunte dall'ordine scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le
une colle altre sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con
le classi inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o
convenienza nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in
tutte. Tanto in questa società la religione era filosofia; la filosofia,
disciplina a perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo ,
indirizzata a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti
ottimamente unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea
sintetica parmi che molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo
verace lume rendasi manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero
adempimento di uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello ,
la quale se intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e
aspirava ad oc cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa
pubblica , coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso,
promoveva ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto
larga , quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi
erano in essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima
formatasi organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si
debba attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo
gliono esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la
massima forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e
che tutto il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva
appunto in questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e
politica , che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle
città e popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti
arti , e la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e
prosperità, doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de'
suoi ordini organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le
operazioni richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici
avessero senza riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a
che starsi uniti in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli
altri uomini esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la
quale mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica ,
alla loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro
religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le
loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee
religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a
purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a
tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere
convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd.
anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il
Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners
che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di
cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi
dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà
allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo
è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica
. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria
di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea
semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata ,
rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto
passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società
ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone
eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale .
Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe
licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia
filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla :
aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma
divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue
ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto
l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche,
accomodate alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio
era cosi forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico
l'esilio assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ;
esagerazione favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie
occorrenze individuali , fruttasse abito a saper mantenere il segreto.
-- και γάρ ουδ' ή τυχούσα την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et
accuratum inter eos servabatur silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo
averlo conceduto a questa necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche
per altre ragioni più alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo -
pi tagorici , forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se
al Meiners parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento
pensieroso , quel ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno
facevano i pita gorici , e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii
nei sacri boschi e in vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita
contemplativa , come potè esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a
questa più intima vita del pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la
filosofia dalla sua scuola , e non vedesse gli effetti che dovessero uscire da
quel tacito conversare delle profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua
regola è un solenne testimonio con tro queste difettive e false opinioni , le
quali ho voluto forse un po' lungamente combattere a più fondato stabilimento
di quella vera . I ragionamenti più belli e più giusti all ' apparenza talvolta
cadono alla prova di un fatto solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma
tutte le autorità del mondo non hanno forza , quando non si convengono con le
leggi della ragione : e la storia che non abbraccia il pieno ordine dei fatti,
e non sa spiegarli con le loro necessità razionali , ne frantende il valore e
stringe vane ombre credendo di fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo
formarci di nuovo alle arti trascurate della storia delle idee e delle dottrine
; ma gli scrittori tedeschi quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano
alcune volte di senno pratico : infaticabili nello stu dio , non sempre buoni
giudici delle cose. La forma dell'istituto pitagorico fu opera di un
profondo senno per la moltiplicità degli elementi e de'fini che domandavano
ordine e direzioni ; ma a cosiffatte norme si governavano anche le altre Scuole
filosofiche dell'antichi tà , e massimamente i collegi jeratici , fra i quali
ricorderò quello d'Eleusi. Là i piccoli misteri introducevano ai grandi , e i
grandi avevano il vero compimento loro nell'epoptèa o intuizione suprema I
primi con severe astinenze , con lu strazioni sacre , con la giurata religione
del segreto , ec. , celebravansi di primavera , quando un'aura avvivatrice ri
circola per tutti i germi della natura . I secondi , d'autunno; quando la
natura , mesta di melanconici colori, t'invita a meditare l'arcano
dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore , confidando i semi alla terra , ti
fa pensare le origini della provvidenza civile . E il sesto giorno era il più
solenne . Non più silenzio come nel precedente ; ma le festose e ri . petute
grida ad Jacco , figlio e demone di Cerere. E giunta la notte santa , la notte
misteriosa ed augusta , quello era il tempo della grande e seconda iniziazione
, il tempo dell'eеро ptea . Ma se tutti vedevano i simboli sacri ed erano
appellati felici, non credo però che a tutti fosse rivelato il segreto delle
riposte dottrine , e veramente compartita la felicità che proviene dall'
intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di queste cose , acciocchè per
questo esempio storico fosse meglio compreso il valore del famoso ipse dixit
pitagorico , e saputo che cosa veramente impor tasse vedere in volto Pitagora .
Quello era la parola dell'au torità razionale verso la classe non condizionata
alla visione delle verità più alte , nè partecipante al sacramento della
Società ; questo valeva la meritata iniziazione all ' arcano della Società e
della scienza. Di guisa che dalla profonda considerazione di essi ci viene la
necessaria spiegazione di quella parte del mito , secondo la quale Pitagora é
immedesimato coll' organamanto dell' Istituto : e determinando l'indole della
sua disciplina e della sua religiosa filosofia abbiam trovato la misura
dell'idea demonica del . l'umana eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che
era l'ultimo scopo di queste nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora
quasi un avatara miligato e vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi
principalmente abbiamo risguar dato all'idea italica, ma presupponendo sempre
le possibili deriva. zioni orientali. Ma se anche all'altra parte del mito
, la quale concerne gli studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di
quell'uomo divino , indi non venisse lume logicamente necessario , non potrebbe
in una conclusione piena quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste
due parti non potendo essere separabili , ciò che è spiegazione storica
dell'una debba esserlo comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una
Società, i cui membri potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a
civiltà cosmopolitica , ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti
i paesi che potessero essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la
dottrina psicologica di Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza
con l'ontologica ; sicchè torni impossibile intender bene il domma della me
tempsicosi , chi non conosca come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi
periodi della vita cosmica , e quali proporzioni e leggi trovasse tra questa
vita universale e le particolari. Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine
vedeva in tutti gli uomini quasi le sparse membra di un corpo solo, che la
filosofia dovesse artificiosamente unire con vincoli di fra ternità e
d'amicizia , dovea anche amare e studiosamente raccogliere le cognizioni ,
quante per ogni luogo ne ritro vasse, quasi patrimonio comune di tutti i
seguitatori della sapienza . E forse in questi monumenti dello spirito umano
cercava testimonianze storiche , che comprovassero o des sero lume ai suoi
dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato intorno alle sue migrazioni
anteriori nel corpo di Etalide , stimato figlio di Mercurio , e nei corpi
di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore delio , ha la sua probabile
spiegazione in questi nostri concetti. Questo mito , che altri narrano con
alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito sull'autorità dello stesso
Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la storia positiva , è
menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente significata ; perchè qui
Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa filosofia che parla in
persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche una scienza cosmica,
nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere determinate le leggi
della migrazione delle anime coordinandole a quelle della vita del mondo:
TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την ψυχήν , κύκλον
ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI. 12. primumque
hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum necessitatis
immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi fossero
determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse cercato e
in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con questa
psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la morale
de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao , quale
vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di
Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb'
essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè ,
ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al
primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza
avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo
tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita
cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza
maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma
che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare
questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità
difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità
soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate
dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della
civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e
passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti
opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia
dell'incivilimento , i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e
molte comunicazioni segrete dovettero naturalmente correre tra queste
corporazioni jeratiche ; o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne
perde vano al tutto le memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva
con la storia particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei
lavori intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di
ciascun uomo ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune
mente appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di
tutto se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri,
e mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà
pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla
sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino
all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non
iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora
conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi
allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi
sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura ,
fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero
i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh
, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da
Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma
pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε
Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine
storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle
posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da
cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in
tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si
dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza
delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale
certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e
all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle
dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria
di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità
concernenti questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo
nostro lavoro non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di
Pitagora , ma uno stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una
fondamentale no zione di essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti
chissime tradizioni mitiche e anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo
Bruckero , quando la critica avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e
molte cose illu strato , e dopo il quale con argomenti sempre migliori ella
vien servendo alla verità storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da
potersi considerare da sé. Però quello era il termine, a che dovessimo
riguardare siccome a certo segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta
a giudicare le cose e le ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità
sua propria. E allora anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e
davano opera a un nuovo studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più
intime e varie condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero
disputò dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole
storia di Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la
scioltezza di quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini
originali questo argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero,
che a fare davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava
l'ingegno , nė mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a
discorrerle: ma leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e
troppo facile risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della
parola. Separò il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur
sospettare nel mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente
conoscerla. Nè il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque
volesse mostrare in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è
da considerarsi un processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea
cattolica , e con essa dommaticamente e storica mente congiunto. Con più
indipendenza entrò il Sacchi in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti
dell'ingegnoso giovine non fu la maturità degli studi. Col Tiraboschi,
scrittore di storia letteraria, e col Micali , scrittore di una storia generale
dell'Italia antica , le nostre cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non
inferiori a quelle de gli altri popoli civili fino al Meiners , ma con
servilità o con poca originalità di ricerche . Una nuova via liberamente si
volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui fatiche non sono da lasciare senza speciale
riguardo , e che , se la salute non gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche
fatto più frut tuose . Discorre con criterio suo proprio le antichità della
sapienza italica : combatte il classico pregiudizio di quelle greche : non
accetta tutte le conclusioni del Meiners: aspira a una ricomposizione di storia
, non dirò se scevro del tutto neppur ' egli di pregiudizi , o con quanta
preparazione di studj , ma certo con divisamento generoso , e con dimo
strazione di napoletani spiriti . Finirò lodando i bei lavori storici dello
Scina sulla coltura italo - greca, e il bel discorso sul vitto pittagorico ,
che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio Cocchi, scritto con elegante
erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza , che tanto piace nei nobili
investigatori del vero. Più altre cose fatte dagl'Italiani avrei potuto
menzionare ; ma quelle che dissi bastavano all'occorrenza. Fra le anteriori al
termine , dal quale ho incominciato questa menzione , noterò qui di passaggio
i lavori inediti di Carlo Dati, e quelli di Giov. Battista Ricciardi , già
professore di filosofia morale nella Università pisana nel secolo decimosettimo
, le cui lezioni latinamente scritte si conservano in questa biblioteca . Fra
tutti quelli da me menzionati il Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri
spetto alla esposizione delle dottrine, quantunque difetti nella critica delle
autorità istoriche (Vedi Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e
seg.). Nell'Italia adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo
trattato non mancarono storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma
per la maestà superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della
religione , per la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati
, per le rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica
nella storia della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha
avuto costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di
liberi lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori
di queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia
nella cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e
seg. Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico
fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva
sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi
tratti tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non
pei soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti
il vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto
meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi.
Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni
sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una
presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o
doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella
nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io
cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta
salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga
dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove
cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito
e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via
rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche.
Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la
moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo
della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È
desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri
le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi
nella primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici
, e che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo mento .
Forse alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie : forse
nei primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più numerosi e
meno in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di Pitagora
potrebbe venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato
anch' io molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio
Conte Balbo ; quella cioè della consan . guinità semitica dei pelasgbi . Poi
con nuove ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici
esercitarono nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell ' Ercole
greco , che compie la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta , e
poi dalla Spagna e dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato da
Diodoro Siculo (B.6l . Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate
da Timeo , e che ha tutte le apparenze di una magnifica epopca , è da
restituirsi all'Ercole Tiri , come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren ( De
la politique, e du commerce, etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo sortito
dai fati alla futura Roma è notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto
abbatte i tiranni , volge al meglio le istituzioni e le condizioni del suolo ,
e insegna le arti della vita ; simbolo della civiltà che seconda alle
navigazioni, ai commerci , alle colonie , alle idee, agl'influssi
fenicii. Il mito , poi divenuto romano , intorno a Caco , e a Potizio e
Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche della terra , e alla coltura
che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o di altri . E non poche voci
semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio , e a radice semitica
potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei primordi ro mani.
Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello che abbiam detto
de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica per esso
rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra civiltà
primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta nostra
civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre
italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal
clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti
alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle
civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari
stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento
d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo
proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della
Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e
alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella
costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più
ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che
debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori
la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a
che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e
l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più
indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti
rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi
ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda
convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del
bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni
nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria,
là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra
aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il
bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente
giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi
considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola
jonica, e alle condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu
rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre
meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice
conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato,
dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di
universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse,
dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni ,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma quanto
l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico individualmente
piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta grandezza, ma a
distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e fra loro. Nel
secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi stromenti che ora
possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che vuol dire che
umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e bisognava
formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra greci e
barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci fra
genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e
gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere
e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico ,
gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da
altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango
dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo
che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava
il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι
, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo
non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più
volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste
parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva
nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita ,
che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il
nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma
ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew
, ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta ,
indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua
finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli
uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in
forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose :
ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali
condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la
discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es
senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita
gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe
netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel
caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella
sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma
proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva,
che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto
possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia
simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero
senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un
documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti
alla durata dell'Institutopitagorico. Imperocchè , secondo questa testimonianza
mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli altri che
pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe lo spazio
poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe stato
presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la
sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come
realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre
difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general
coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta
dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi
ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi
attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della
scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano pensiero.Altre
cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte le cose mortali
dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a degenerazione e
scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la società corrotta
cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli disprezza o
rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina , professavano
solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo il credulo
volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano corre vano
per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e danzando:
chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio , e
preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e con
pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici , Euripide,
Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè potevano , i
pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro fasto schifiltoso
trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti zione , la virtù in
apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei comici. Le quali
corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei tempi , e all'
impotenza della regola nelle avversità e varie fortune dell'Instituto, cioè non
veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella regola. Degenerazioni
ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo: Ritter, 1.c.; Lobeck, De
pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. – Poi vennero le
contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto rie , e
Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro d'Aspendo
il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo. Timaeus . . .
. scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or natum ,
Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam barbam
habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam , alque
studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam
revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita
utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de' comici
— Diog. , Laert. , VIII , 20. Al capo di questa nobile istituzione
non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di seguaci
indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per eccellenza
di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità di beni
operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga e varia
esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella Magna
Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia , e nei
migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente unito con
quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per tutti i
procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di Socrate e di
Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco : e se stava
nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del popolo
conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in
quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore.
Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come da fonte
inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della
nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna
Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle
imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più altro veggo
restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le basi di tutto
il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma si conchiuse
tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica sapienza
ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie
della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle
dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton .
Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò
Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della
sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero ,
volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia
italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di
Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota
nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle
menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe
mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima
di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda
istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza ,
l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò
principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia
comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere
dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a
tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande
svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà
con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al
risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole
espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e
della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero
pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita
dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a
privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i
meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini
pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca
e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e
silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi
verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è
dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti ,
superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno ,
distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e
frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi
delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell '
eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la
storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto
i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della
spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e
vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice
dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe
memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due
sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν
: dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo
silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu
mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture , dalle
scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa , sacra ai
fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di
accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo
tempio a Pitagora. Italia, teatro delle vere glorie di Pitagora, e sede
del suo Instituto celebratissimo. Non prima giunge a Crotone che tosto vi opera
un mutamento grande cosi negli animi come nella cosa pubblica. I giovani
crotoniati si adunano intorno mossi dalla fama dell'uomo, e vinti dall'autorità
del sembiante, dalla soavità dell'eloquio, dalla forza delle ragioni discorse.
Ed Pitagora vi ordina la sua società, che presto cresce a grande eccellenza.
Per tutto penetra il fuoco divino che per lui si diffonde: a Sibari, a Taranto,
a Reggio, a Catania, a Imera, a Girgentu, e più innanzi. E la discordia cessa,
e il costume ha riforma, e la tirannide fa luogo all'ordine liberale e giusto.
Non soli i Lucani, i Peucezi, i Messapi, ma i Romani (pria di Carneade!)
vengono a lui; e Zaleuco, e Caronda , e il re Numa escono legislatori dalla sua
scuola. In un medesimo giorno è a Metaponto e a Taormina. Gli animali
l'obbediscono. I fiumi lo salutano. Le procelle e le pesti si calmano alla sua
voce. Taccio il servo Zamolcsi , la coscia d'oro, il telo d' Abari, il mistico
viaggio all'inferno. I giovani crotoniati lo riveggono stupefatti e lo
accolgono come un dio. Ma questo iddio finalmente è vittima dell'invidia e
malvagità umane, e chiude una gloriosissima vita con una miserabil morte. Quando
e come si formò questo mito? Non tutto in un tempo nè con un intendimento solo
ma per varie cause e per lungo processo di secoli fino al nuovo
Pitagorismo, o, per dir meglio, fino ai tempi della moderna critica.
L'uomo, come naturalmente desidera di sapere, cosi è facilmente pronto a
parlare anche delle cose che meno intende. Anzi quanto l'oscurità loro è
maggiore, con libertà tanto più sicura si move ad escogitarne l'essenza e le
condizioni. Però l'ingegno straordinario e la sapienza di Pitagora nei tempi ai
quali egli appartiene, l ' arcano della società da lui instituita, e il
simbolico linguaggio adoperato fra' suoi seguaci diedero occasioni e larga
materia alle con getture, alle ipotesi, ed ai fantasticamenti del volgo: e le
passioni e gl'interessi politici accrebbero la selva di queste varie finzioni.
Quando sursero gli storici era già tardi, e il maraviglioso piacque sempre alle
anime umane , e specialmente alle italiane; e non senza gran difficoltà
potevasi oggimai separare il vero dal falso con pienezza di critica. Poi
vennero le imposture dei libri apocrifi, il sincretismo delle idee filosofiche,
il furore di quelle superstiziose. Onde se il mito primamente nacque,
ultimamente fu fatto, e con intendimento scientifico: e la verità rimase più
che mai ricoperta di densi veli alla posterità che fosse curiosa
d'investigarla. Non dirò delle arti usate da altri per trarla in luce, nè delle
cautele per non cadere in errore. Basti aver mostrato la natura e le origini di
questo mito, senza il cui accompagnamento mancherebbe alla storia di Pitagora
una sua propria caratteristica. Diciamo ora dell'Instituto. La società
pitagorica fu ordinata a perfezionamento e a modello di vita . Vi entravano
solamente i maschi. La speculazione scientifica non impediva l'azione , e la
moralità conduceva alla scienza; e ragione ed autorità erano cosi bene
contemperate negli ordini della disciplina, che avesse a derivarne il più
felice effetto agli ammaestrati. Tutto poi conchiudevasi in una idea religiosa,
principio organico di vita comune, e cima di perfezione a quella famiglia
filosofica. Condizione prima ad entrarvi era l' ottima o buona disposizione
dell'animo; e Pitagora, come nota Gellio, era uno scorto fisonomista
(ipuoloyuwuóvel) (Noctes Atticae, 1, 9) osservando la conformazione
ed espressione del volto, e da ogni esterna dimostrazione argomentando l'indole
dell'uomo interiore. Ai quali argomenti aggiungeva le fedeli informazioni che
avesse avuto: se'i giovinetti presto imparassero, verso quali cose avessero
propensione, se modesti, se veementi, se ambiziosi, se liberali ec. E ricevuti,
cominciavano le loro prove; vero noviziato in questo collegio italico. Voluttà,
superbia, avarizia bisognava imparare a vincere con magnanimità austera e
perseveranza forte. Il piacer sensuale ti fa aborrente dalle fatiche anco non
dure, freddo ai sacrifici generosi , chiuso alle morali dolcezze, o ti rende
impuro a goderle. Imperocchè il voluttuoso è un egoista codardo, un ignobile
schiavo di sè. Esercizi laboriosi con fortassero il corpo e lo spirito: breve
il riposo: semplice il vitto; o laute mense imbandite ma non godute, a meglio
esercitar l'astinenza: e corporali gastighi reprimessero dalle future
trasgressioni le anime ritornanti a mollezza. Un altro egoismo è quello che
procede dall'opinione, quando sei arrogante nella stima di te, sicché gli altri
ne restino indegnamente soperchiati: e questa è superbia. Domande cavillose,
questioni difficili, obiezioni forti sbaldanzivano presto gl'ingegni
giovenilmente prosuntuosi, e a modestia prudente e vigorosa li conformavano: il
disprezzo giusto era stimolo a meritare l'estimazione altrui; accortamente i
ingiusto , a cercare sicuro contentamento nella coscienza propria: e le
squallide vesti domavano le puerili compiacenze negli ornamenti vani. Questo
accrescimento del mito é opera del Bruckero. Hist. cril. phil. Par, II , lib.
II, c. X, sect. 1, Lips. Chi recalcitrasse ostinato, accusavasi inetto a
generosa perfezione. Finalmente un terzo egoismo è alimentato dal privato
possesso delle cose esteriori immoderatamente desiderate. La qual cupidità,
molto spesso contraria alla fratellevole espansione del l'umana socievolezza ,
vincevasi con la comunione dei beni ordinata a felicità più certa
dell'instituto. Quei che apparteneva ad un pitagorico era a disposizione
de' suoi consorti. Ecco la verità istorica; il resto , esagerazione favolosa.
Ma la favola ha conformità col principio fondamentale dell'Instituto
pitagorico, perchè è fabbricata secondo la verità dell'idea; cosa molto
notabile. Pythagorici, dice Diodoro Siculo, si quis sodalium facultatibus
exciderat, bona sua velut cum fratre dividebant, etc. (Excerpt. Val. Wess.). La
massima o il precetto "ideóv te undėv fysiofai", "proprium nihil
arbitrandum", riferito da Laerzio (VIII, 21) consuona al principio ideale
della scuola: e tutti co noscono il detto attribuito a Pitagora da Timeo: fra
gli amici dover esser comuni le cose, "κοινά τα των φίλων". Anche le
domande cavillose, le vesti squallide, i corporali gastighi abbiansi pure, se
cosi vuolsi, per cose mitiche: ma i tre punti cardinali della vera e primitiva
disciplina rimangono sempre alla storia. E però ne abbiamo fatto materia di
considerazioni opportune. Cosi i punti centrali, donde si diramano le
molteplici correlazioni tra l'ordine morale e l'intellettuale, erano stati con
profondo senno determinati e valutati, sicchè l'educazione e formazione di
tutto l'uomo procedesse al provve duto fine con leggi e con arti di
perfettissimo magistero. Ma suprema legge in questa fondamental disciplina era
l'autorità. Nell'età odierna, dissoluta e pettegola, s'ignorano da non pochi le
arti vere dell'obbedienza e dell'impero perchè spesso la libertà è una
servilità licenziosa o non conosciuta; fanciulli che presumono di essere
uomini, ed uomini che si lasciano dominare a fanciulli. Nell'Italia
pitagorica voleasi dar forma ad uomini veri: e la presunzione non occupava il
luogo della scienza, e la solidità della cognizione radicavasi nella temperata
costumatezza. Il giovinetto che muta i passi per le vie del sapere ha nozioni
sempre scarse delle verità che impara, finchè non ne abbia compreso l'ordine
necessario ed intero: e le nozioni imparate non bastano, chi non v'aggiunga
l'uso e la varia esperienza delle cose, perpetue e sapientissime testimonie
della verità infinita . Poi non tutte le verità possono essere intese
pienamente da tutti e possono dover essere praticate. Onde l'autorità di coloro
che le insegnano o che presiedono alla loro debita esecuzione. Gli alunni, non
per anche iniziati al gran mistero della sapienza, ricevevano le dottrine dalla
voce del maestro senza discuterle. I precetti erano giusti, semplici, brevi; la
forma del linguaggio, simbolica; e la ragione assoluta di tutti questi
documenti, il nome di Pitagora che così ebbe detto e insegnato ("dutòs
ipa", "ipse dixit". Di questo famoso ipse dixit credo di
aver determinato il vero valore. Alcuni , secondo chè scrive Diogene Laerzio,
lo attribuivano a un Pitagora di Zacinto. Cicerone, Quintiliano , Clemente
Alessandrino, Ermia, Origene, Teodoreto, etc., ai discepoli del nostro
Pitagora. E Cicerone se ne offende come di grave disorbitanza: "tantum
opinio praejudicata poterat , ut eliam sine ralione valeret auctoritas!"
(De Nat. Deor., 1,5.). Secondo Suida , l'avrebbe detto Pitagora stesso, riferendolo
a Dio, solo sapiente vero e dal quale avesse ricevuto i suoi dommi -- "ουκ
εμος, αλλά του Θεού λόγος šotiv" -- come, secondo altri (Clem. Aless.,
St., IV, 3 etc.) avea rifiutato il titolo di *sapiente*, perché la sapienza
vera, che è quella assoluta, a Dio solo appartiene. Il Meiners erra incerto fra
varie congetture, accostandosi anche alla verità, ma senza
distinguerla. Applicassero quei precetti alla vita e dai buoni effetti ne
argo mentassero il pregio. Ma acogliere con più sicurezza il frutto che potesse
venire da questo severo tirocinio, moltissimo dovea conferire il silenzio. Però
la TEMPERANZA dalla parola (ix &uu.bia ) per du , tre o cinque anni era
proporzionevolmente prescritta. Imperocchè nella vanità del
trascorrente eloquio si dissipa il troppo facile pensiero, e la baldanza
delle voci spesso argomenta impotenza all'operazione. Non diffusa nell'esterno
discorso l'anima, nata all'attività, si raccoglie tutta e si ripercote dentro
se stessa, e prende altissimo vigore, e genera il verbo suo proprio col quale
poi ragiona ed intende il vero, il bello, il buono, il giusto ed il santo.
Oltrediché le necessità del viver civile richie dono non di rado questa
difficile virtù del tacere, fedelissima compagna della prudenza e del senno
pratico. Perseveravano gli alunni nelle loro prove fino al termine stabilito? E
allora passavano alla classe superiore e divenivano de' genuini discepoli, o
familiari (pvýccol óuenetai). Facevano mala prova, o sentivansi impotenti a
continuarla? Ed erano rigettati o potevano andarsene, riprendendosi i loro
beni. Durava l'esperimento quanto fosse bisogno alle diverse nature dei
candidati: ed agli usciti od espulsi ponevasi il monumento siccome a uomini
morti. Che questo monumento fosse posto, non lo nega neppure il Meiners.
All'abito del silenzio, necessario al più forte uso della mente, e al buon
governo dell'istituto, bisognava formare i discepoli; ma qui ancora il mito dà
nel soverchio. L'impero dell'autorità doveva essere religioso e grande. Ma
i degni di rimanere, e che passavano alla classe superiore, cominciavano e
seguitavano una disciplina al tutto scientifica. Non più simboli nè silenzio
austero né fede senza libertà di discussione e d'esame. Alzata la misteriosa
cortina, i discepoli, condizionati a non più giurare sulla parola del maestro,
potevano francamente ragionare rispondendo, proponendo, impugnando, e con ogni
termine convenevole cercando e conchiudendo la verità. Le scienze matematiche
apparecchiavano ed elevavano le menti alle più alte idee del mondo intelligibile.
Interpretavasi la natura, speculavasi intorno ai necessari attributi
dell'ente; trovavasi nelle ragioni del numero l'essenza delle cose
cosmiche. E chi giungeva all'ardua cima della contemplazione filosofica
otteneva il titolo dovuto a questa iniziazione epoptica, il titolo di perfetto
e di venerabile (TÉNELOS xal OsBaotixÒS), ovvero chiamavasi per eccellenza
uomo. Compiuti gli studi, ciascuno secondava al suo genio coltivando quel
genere di dottrine, o esercitando quell'ufficio , che meglio fosse inclinato: i
più alti intelletti alle teorie scientifiche ; gli altri, a governar le città e
a dar leggi ai popoli. Delle classi de' pitagorici sarà detto a suo luogo
quello che ci sembri più simile al vero: lascisi il venerabile, etc .;
intendasi la simbolica cortina cosi come poi mostreremo doversi intendere: e
quanto ai gradi dell' in segnamento , notisi una certa confusione d'idee
neoplatoniche con gli antichi ordini pitagorici, probabilmente più semplici.
Vedi Porfirio, V. P., 46 seg. etc.; Giamblico, XVIII , etc.). Vivevasi a
social vita , e la casa eletta al cenobio di cevasi uditorio comune (õp
axóïov). Prima che sorgesse il sole ogni pitagorico doveva esser desto, e seco
medesimo discorrere nel memore pensiero le cose fatte, parlate, osservate, omesse
nel giorno o ne' due giorni prossimamente decorsi, seguitando nel rimembrarle
quel medesimo ordine con che prima l'una all'altra si succedettero. Poi scossi
dal sorgente astro a metter voce armoniosa come la statua di Memnone, adoravano
e salutavano la luce animatrice a della natura, cantando o anche danzando.
La qual musica li disponesse a conformarsi al concento della vita cosmica , e
fosse eccitamento all'operazione. Passeggiavano soletti a divisar bene nella
mente le cose da fare: poi applicavano alle dottrine e teneano i loro congressi
nei templi. I maestri insegnavano , gli alunni imparavano, tutti pigliavano
argomenti a divenir migliori. E coltivato lo spirito, esercitavano il corpo: al
corso , alla lotta , ad altri ludi ginna stici. Dopo i quali esercizi, con
pane, miele ed acqua si ristoravano : e preso il parco e salubre cibo, davano
opera ai civili negozi. Verso il mancar del giorno, non più solin ghi come sul
mattino, ma a due, ovvero a tre, davansi compagnevol passeggio ragionando
insieme delle cose im parate e fatte. Indi si recavano al bagno. Cosi veniva
l'ora del comun pasto, al quale sedevano non più di dieci per mensa. Con
libazioni e sacrificii lo aprivano: lo imbandivano di vegetabili, ma anche di
scelte carni di animali: e religiosa mente lo chiudevano con altre libazioni e
con lezioni op portune. E prima di coricarsi cantavano al cadente sole, e
l'anima già occupata e vagante fra molteplici cure e diversi oggetti,
ricomponevano con gli accordi musicali alla beata unità della sua vita interiore.
Il più anziano rammentava agli altri i generali precetti e le regole ferme
dell'Instituto; e quell'eletto sodalizio, rendutosi all'intimo senso dell'acqui
stata perfezione, riandava col pensiero le ore vivute, e nella certezza di
altre sempre uguali o migliori amorosamente si addormentava. Questa parte
del mito, chi generalmente guardi, è anche storia. Quanto all'Uditorio comune
piacemi di addurre queste parole di Clemente Alessandrino: και την Εκκλησίαν ,
την νύν δυτω καλουμένην, το παρ αυτώ 'Ομα. xos ? ov diVÍTTETA!: et eam , quae
nunc vocatur ecclesia, significat id quod apud ipsum (Pythagoram) est
'Ouaxoslov (Str., 1. 15). Questi erano gli ordini , questo il vivere della
società pitagorica secondo il tipo ideale che via via formossi alla storia.
Tutte le facoltà dell'uomo vi erano educate ed abituate ad operare nobili
effetti: la salute del corpo conduceva o serviva a quella dello spirito: e lo
spirito forte e contento nella esplicazione piena e nella feconda disposizione
delle sue potenze , concordavasi di atti e di letizia col mondo , e trovava in
Dio il principio eterno d'ogni armonia e con tentezza. Così il pitagorico era
modello a coloro che lo ri guardassero: il quale anche con la sua veste di lino
bianco mostravasi diviso dalla volgare schiera e singolare dagli altri. La
breve narrazione delle cose che fin qui fu fatta, era necessaria a conservare
alla storia di Pitagora la sua indole maravigliosa , e quindi una sua propria
nota ed an che sotto un certo aspetto una nativa bellezza. Dobbiamo ora cercare
e determinare un criterio , onde la verità possa essere separata dalle favole
quanto lo comportino l'antichità e la qualità degli oggetti , che son materia a
questo nostro ragionamento. E prima si consideri che il mito , popolarmente
nato , o scientificamente composto , quantunque assurdo o strano possa parere
in alcune sue parti , pur dee avere una certa attinenza o necessaria conformità
col vero. Imperocchè una prima cosa vi è sempre la quale dia origine alle
varie opi. nioni che altri ne abbia ; e quando le tradizioni rimango no , hanno
un fondamento nel vero primitivo dal quale derivano , o nella costituzione
morale e nella civiltà del popolo a cui quel vero storicamente appartenga. Che
se nella molta diversità delle loro apparenze mostrino certi punti fissi e
costanti a che riducasi quella varia moltiplicità loro , questo è il termine
ove il mito probabilmente riscon trasi con la storia . Or chi intimamente pensa
e ragiona la biografia di Pitagora , vede conchiudersi tutto il valore delle
cose che la costituiscono in due idee principali : 1a in quella di un essere
che sovrasta alla comune condizione degli uomini per singolarissima
partecipazione alla virtù divina; 2a in quella di una sapienza anco in diversi
luoghi raccolta e ordinata a rendersi universale nel nome di que st'uomo
straordinario. Chi poi risguarda alla società pitagorica , ne vede il fondatore
cosi confuso con gli ordini e con la durata di essa che sembri impossibile il
separarnelo. Dalle quali conclusioni ultimamente risulta, Pitagora essere o
poter essere stato un personaggio vero, ed essere cer tissimamente un'idea
storica e scientifica. L'Italia poi senz'ombra pure di dubbio, è il paese
dove quest' idea pitagorica doventa una magnifica instituzione, ha incremento e
fortune, si congiunge con la civiltà e vi risplende con una sua vivissima luce.
Pertanto le prime due nostre conclusioni risultando dalla general sostanza del
mito , e riducendone la diversità molteplice a una certa unità primitiva,
sembrano essere il necessario effetto della convertibilità logica di esso nella
verità che implicitamente vi sia contenuta. E deducendosi la terza dalle altre
due che precedono, già per un ordine continuo di ragioni possiamo presupporre
che Pitagora sia insieme un personaggio e un'idea. Nel che volentieri si adagia
quel forte e temperato senno , che , non lasciandosi andare 1 agli estremi, ne
concilia e ne misura il contrario valore in una verità necessaria. Ma porre fin
da principio che Pitagora è solamente un uomo, e alla norma di questo concetto
giudicare tutte le cose favoleggiate intorno alla patria , alla nascita, ai
viaggi , alla sapienza , alle azioni miracolose di colui che ancora non si
conosce appieno, e assolutamente rigettarle perchè non si possono dire di un
uomo, è un rinunziare anticipatamente quello che potrebbe esser vero per'
rispetto all'idea. Lo che venne fatto a molti . D'altra parte se la esclusione
della persona vera fosse assolutamente richiesta alla spiegazione del mito, e
alla ricupera della storia , sarebbe timidezza soverchia il non farlo , o
ritrosia irrazionale : potendosi conservare Pi tagora alla storia, e separar
questa dalle favole , pecche rebbe di scetticismo vano chi non sapesse
contenersi den tro questi termini razionali. Vediamo ora se a queste nostre
deduzioni logiche aggiungessero forza istorica le au torità positive di autori
rispettabili, e primamente parliamo della sapienza universale del nostro
filosofo. Erodoto, il quale congiunge le orgie e le instituzioni pitagoriche ,
con quelle orfiche, dionisiache , egizie e con le getiche di Zamolcsi ,
attribuisce implicitamente al fi gliuolo di Mnesarco una erudizione che si
stende alle cose greche ed alle barbariche (Erodoto, II , 81 .; IV , 95. —
Isocrate reca a Pitagora la prima intro duzione nella Grecia della filosofia
degli Egiziani : φιλοσοφίας ( εκείνων ) TTPŪTOS ES tous "Ezanvas éxóulge (
in Busir. , 11 ) . E Cicerone lo fa viaggiare non pure nell'Egitto ma e nella
Persia. De Finibus, V. 29). Ed Eraclito , allegato da Laer zio , parla di lui
come di uomo diligentissimo più che altri mai a cercare storicamente le umane
cognizioni e a farne tesoro e scelta per costituire la sua enciclopedica
disciplina (Laerzio , VIII , 5. -- la cui allegazione delle parole di Eraclito
è con fermata da Clemente Alessandrino (Strom., I, 21). Eraclito reputa a mala
arte (xaxoteXvinv) la molteplice erudizione di Pitagora ; perché , a suo parere
, tutte le verità sono nella mente , la quale dee saper trovare la scienza
dentro di sè , e bastare a se stessa. Parole sommamente notabili, le quali,
confermate dalla concorde asserzione di Empedocle, rendono bella e op portuna
testimonianza a quella nostra conclusione, onde Pitagora, secondo il mito, è
raccoglitore e maestro d'una filosofia che quasi possa dirsi
cosmopolitica. Vir erat inter eos quidam praestantia doctus Plurima ,
mentis opes amplas sub pectore servans, Cunctaque vestigans sapientum docta
reperta . Nam quotiens animi vires intenderat omnes Perspexit facile is
cunctarum singula rerum Usque decem vel viginti ad mortalia secla . Empedocle
presso Giamblico nella Vita di Pitagora, XV e presso Porfirio , id. ,
30. A dar fondamento istorico all' altra conclusione non ci dispiaccia di
ascoltare Aristippo ; il quale scrisse che Pitagora fu con questo nome
appellato perchè nel dire la verilà non fosse inferiore ad Apollo
Pitio. Diog. Laerzio, VIII, 21. E noi qui alle ghiamo Aristippo , non
per accettare la convenienza prepo stera del valore etimologico del nome con
quello scientifico dell'uomo , ma per mostrare che prima degli Alessandrini il
nome di Pitagora era anche nell'uso dei filosofi quello di un essere umano e di
una più che umana virtù, e che nella sua straordinaria partecipazione alla
divinità fonda vasi l'opinione intorno alla di lui stupenda
eccellenza. Aristotele , allegato da Eliano (Var. Hist., II ) conferma
Aristippo, testimoniando che i Crotoniati lo appellavano Apollo iperboreo.
Lascio Diodoro Siculo (Excer. Val., p. 555 ) e tutti gli altri scrittori meno
antichi, i quali peraltro ripetevano una tradizione primitiva , o molto
antica. Ma ciò non basta. Uno scrittore, innanzi alla cui autorità
volentieri s'inchinano i moderni critici , ci fa sapere che principalissimo fra
gli arcani della setta pitagorica era que sto : tre essere le forme o specie
della vita razionale, Dio, ľ uomo e Pitagora. Giamblico nella Vita di
Pitagora, VI, ed. Kust. Amstel, Vers. Ulr. Obr. Tradit etiam Aristoteles in
libris De pythagorica disciplina (èv τοίς περί της Πυθαγορικής φιλοσοφίας) quod
huiusmodi divisio αυiris illis inter praecipua urcana ( èv toiS TAVT
atroppñtois) servata sit: animalium rationalium aliud est Deus , aliud homo,
aliud quale Pythagoras . L'originale non dice animalium, ma animantis, Súov ;
che è notabile differenza: perchè , laddove le tre vite razionali nella
traduzione latina sono obiettiva mente divise , nel greco sono distinte e
insieme recate ad un comune prin cipio . Il Ritter , seguitando altra via da
quella da me tenuta , non vide l'idea filosofica che pure è contenuta in queste
parole , né la ragione del l'arcano (Hist. de la phil. anc., liv. IV, ch. 1.) A
ciò che dice Aristotele parrebbe far contro Dicearco , il quale in un luogo
conservatoci da Porfirio (Vit. Pit. , 19) ci lasciò scritto , che fra le cose
pitagoriche conosciute da tutti ("γνώριμα παρά πάσιν") era anche
questa : και ότι παντα τα γινόμενα έμψυχα quorevñ dei vouiſelv, vale a dire ,
che tutte le nature animate debbonsi repu tare omogenee. Ma la cosa arcana di
che parla Aristotele, è principalmente Pitagora; la natura media tra quella
puramente umana e quella divina: idea demonica, probabilmente congiunta con
dottrine orientali, e fondamento organico dell'instituto. Poi, l'uno parla di
esseri semplicemente animati: l'altro dell'ordine delle vite razionali; che è
cosa molto più álta. Sicchè la prima sentenza poteva essere divulgatissima ,
come quella che risguardava oggetti sensati ; e la seconda appartenere alla
dottrina segre. ta , per ciò che risguardava agli oggetti intellettuali . Non
ch'ella non po tesse esser nota nella forma, in che la leggiamo in Giamblico;
ma coloro che non sapevano che si fosse veramente Pitagora, non penetravano ap
pieno nel concetto riposto dei Pitagorici. Qui si vede come il simbolo facesse
velo alle idee , e con qual proporzione quelle esoteriche fossero tenute
occulte, e comunicate quelle essoteriche, quasi a suscitar desiderio delle
altre. Dicearco adunque non fa contro ad Aristotele; ed Aristotele ci è storico
testimonio che le ombre dell'arcano pitagorico si stendevano anche alla
filosofica dottrina. Di ciò si ricordi il lettore alla pagina 402 e
seg. Nel che veggiamo la razionalità recata a un solo principio, distinta
per tre condizioni di vita , e Pitagora essere il segno di quella che media tra
la condizione puramente divina e l'umana. Ond' egli è nesso fra l'una e l'altra,
e tipo di quella più alta e perfetta ragione di che la nostra natura possa
esser capace. Ora la filosofia anche nelle orgie pitagoriche era una dottrina
ed un'arte di purgazione e di perfezionamento, sicchè l'uo mo ritrovasse dentro
di sé il dio primitivo e l'avverasse nella forma del vivere. E in Pitagora
chiarissimamente sco priamo l'idea di questa divina perfezione, assunta a
principio organico della sua società religiosa e filosofica , e coordinata col
magistero che nel di lui nome vi fosse esercitato. Onde ottimamente
intendiamo perchè la memoria del fondatore fosse immedesimata con quella
dell'instituto, e possiamo far distinzione da quello a questo, conservando al
primo ciò che si convenga con le condizioni storiche di un uomo , e attribuendo
al secondo ciò che scientificamente e storicamente puossi e dėssi attribuire a
un principio . Quindi non più ci sembrano strane , anzi rivelano il loro chiuso
valore , e mirabilmente confermano il nostro ragionamento quelle sentenze e
simboli de' Pitagorici : l'uomo esser bi pede , uccello , ed una terza cosa ,
cioè Pitagora. Pitagora esser simile ai Numi, e l'uomo per eccellenza, o
quell'istes so che dice la verità : ei suoi detti esser voci di Dio che da
tutte parti risuonano : e lui aver fatto tradizione alla loro anima della
misteriosa tetratti o quadernario, fonte e radice della natura
sempiterna. Parlare di questa Tetratti misteriosa sarebbe troppo lungo
discorso. Alcuni videro in essa il tetragramma biblico , il nome sacro ed
essenziale di Dio ; altri , a grado loro , altre cose . Ecco i due versi
ripetutamente e con alcuna varietà allegati da Giamblico ( Vita di Pit.. XXVIII
, XXIX) e da Porfirio ( id ., 20) ai quali riguardavamo toccando della Tetratti
, e che sono la formola del giuramento pitagorico : Ου μα τον αμετέρα ψυχά
παραδόντα Τετρακτύν Παγαν αεννάου φύσεως ριζώμα τ’έχουσαν. Non per eum, qui
animae nostrae tradidit Tetractym , Fontem perennis naturae radicemque habentem
. (Porph . , V. P. , 20) Il Moshemio sull'autorità di Giamblico ( in Theol. Arith
. ) attribuisce questa forma del giuramento pitagorico ad Empedocle , e lo
spiega secondo la dottrina empedocléa sulla duplicità dell'anima. Poco
felicemente ! ( Ad Cudw. Syst . intell., cap. IV , $ 20, p . 581. ) Noi
dovevamo governarci con al. tre norme -- E altre sentenze di questo
genere. Le quali cose non vogliono esser applicate a Pitagora - uomo , ma a
Pitagora , idea o virtù divina del l'uomo, e negli ordini delle sue
instituzioni. E non importa che appartengano a tempi anche molto posteriori
a Pitagora. Anzi mostrano la costante durata dell'idea primitiva. Il
criterio adunque a potere interpretare il mito , e rifare quanto meglio si
possa la storia parmi che sia tro vato e determinato. Pitagora , nel duplice
aspetto in che l'abbiamo considerato , è sempre uomo ed idea : un pe lasgo -
tirreno , che dotato di un animo e di un ingegno al tissimi , acceso nel divino
desiderio di migliorare le sorti degli uomini , capace di straordinarj
divisamenti , e co stante nell ' eseguirli viaggia per le greche e per alcune
terre barbariche studiando ordini pubblici e costumi , fa cendo raccolta di
dottrine , apparecchiandosi insomma a compiere una grand' opera ; e il tipo
mitico di una sa pienza istorica universale. Un uomo , che le acquistate
cognizioni avendo ordinato a sistema scientifico con un principio suo proprio o
con certi suoi intendimenti, ne fa la pratica applicazione, e instituisce una
società religiosa e filosofica che opera stupendi effetti ; e il tipo della
razio nalità e di una divina filosofia nella vita umana e nella costituzione
della sua scuola . Fra le quali due idee storica e scientifica dee correre una
inevitabile reciprocità di ragioni, quando la persona sulla cui esistenza vera
risplende, a guisa di corona , questo lume ideale , si rimane nell'uno e
nell'altro caso la stessa. Però se Aristippo agguagliando Pitagora ad Apollo
Pitio rende testimonianza all' opinione mitica della più che umana eccellenza
di lui , non solo ci fa argomentare quel ch'egli fosse in sè e nella sapienza
or dinatrice del suo instituto : ma insieme quello che fosse per rispetto alle
origini storiche di quella sapienza e al ' valore di essa nella vita ellenica ,
o per meglio dire italica. Imperocchè il pitagorismo ebbe intime congiunzioni
con la civiltà dorica; e proprie massimamente di questa civiltà furono le
dottrine e le religioni apollinee. Quando poi avremo conosciuto più addentro la
filosofia di Pitagora, troveremo forse un altro vincolo necessario fra le due
idee storica e scientifica, delle quali abbiamo parlato. Procedendo con altri
metodi , non si muove mai da . un concetto pienamente sintetico , il quale
abbia in se tutta la verità che si vuol ritrovare ; non si ha un criterio , che
ci ponga al di sopra di tutte le cose che son materia de' nostri studi e considerazioni
. Si va per ipotesi più o meno arbitrarie , più o meno fondate, ma sempre
difettive, e però inefficaci. Il mito , non cosi tosto nasce o è fabbricato e
famigerato , che ha carattere e natura sua propria, alla quale in alcuna guisa
debbano conformarsi tutte le addizioni posteriori. E quando esse vi si
discordino , pur danno opportunità ed argomenti a comparazioni fruttuose. Poi
quella sua indole primitiva non potendo non confrontare , come gia notammo, per
alcuni rispetti con la natura delle cose vere , o talvolta essendo la forma
simbolica di queste, indi incontra che il mito e la storia abbiano
sostanzialmente una verità comune, quantunque ella sia nell'uno e nell'altra
diversamente concepita e significata. Però ho creduto di dovere accettare il mito
pitagorico siccome un fatto storico anch'esso , che dalle sue origini fino alla
sua total pienezza importi la varia evoluzione di un'idea fondamentale; fatto,
il quale prima si debba comprendere e. valutare in sé, poi giudicare e
dichiarare per la storia che vuol rifarsi. Ma raccontarlo secondo il suo
processo evolutivo, e con le sue varietà cronologicamente determinate e
riferite ai loro diversi autori , non era cosa che potesse eseguirsi in questo
lavoro. Basti averlo sinteticamente proposto alla comprensione de'sagaci e
diligenti leggitori, e avere indicato le cause della sua progressiva
formazione. Peraltro io qui debbo far considerare che le origini di esso non si
vogliono cosi assolutamente attribuire alle supposizioni e varii discorsi degli
uomini non appar tenenti alla società pitagorica, che a questa tolgasi ogni
intendimento suo proprio a generarlo. Anzi, come appa rirà sempre meglio dal
nostro racconto , l'idea divina , im personata in Pitagora, era organica in
quella società. E di. qui procede quella ragione primordiale, onde il mito e la
storia necessariamente in molte parti si riscontrano , e in diversa forma
attestano una verità identica : e qui è il criterio giusto ai ragionamenti ,
che sull'uno e sull' altra sa namente si facciano. Che il fondatore di una
setta , e il principio organico della sua istituzione , e tutta la sua dot
trina siano ridotti ad una comune idea e in questa imme desimati , è cosa
naturalissima a intervenire , e della quale ci offre l'antichità molti esempi.
Cosi l'uomo facilmente spariva, l'idea rimaneva: e alla forma di questa idea si
proporzionavano tutte le susseguenti opinioni. Pitagora uomo non forzò davvero
con giuramento l'orsa daunia , né indusse il bove tarentino , di che parlano
Giamblico e Porfirio (Giamblico, De Vila Pythagoræ, cap. XIII; Porfirio,
n. 23. Edizione di Amsterdam), a non più offender gli uomini , a non più
devastare le campagne : ma questo suo impero mitico sugli animali accenna all '
indole della sua dottrina psicologica (Giamblico, cap. XXIV.). Riferi
scansi i suoi miracoli , tutte le cose apparentemente incre dibili , che furono
di lui raccontate, all'idea , e ne avremo quasi sempre la necessaria
spiegazione, e renderemo il mito alla storia. Qui non ometterò un'altra
cosa. Erodoto, che ci ha conservato la tradizione ellespontiaca intorno a
Zamolcsi , nume e legislatore dei Geti , ci ha dato anche un gran lume (non so
se altri il vedesse) a scoprire le origini antiche di questo mito pitagorico.
Zamolcsi, prima è servo di Pitagora : poi acquista libertà e sostanze, e
ritorna in pa tria , e vede i costumi rozzi , il mal governo, la vita informe
de'Geti in balia de'più stolti ütt' dopoveotépwy ). Onde , valendosi della sua
erudi dà opera ad ammaestrarli a civiltà ed umana costumatezza. E che fa egli?
Apre una scuola pubblica, una specie d'istituto pitagorico (svopsūva): chiama e
vi accoglie tutti i principali cittadini (és tov, stav. doxeúovta Tūv doTÕV
TOÙS ITPŪTOU5 ); idea aristocratica notabilissima: e gli forma a viver comune.
Inalza le loro anime col pensiero dell'immor talità e di una felicità futura al
disprezzo dei piaceri , alla tolleranza delle fatiche , alla costanza della
virtù , Sparisce da' loro occhi in una abitazione sotterranea ("κατάβας δε
κατω ες το κατάγαιον δικημα") a confermare la sua dottrina col
miracolo , ed è creduto morto, e compianto. Dopo tre anni im provvisamente
apparisce , è ricevuto qual nume: e con autorità divina e reli giosa lascia le
sue istituzioni a quel popolo. Chi non vede nelmito di Zamolcsi quello di Pitagora?
Erodoto reputa anteriore il sapiente uomo, o demone tracio (έιτε δε έγένετο τις
Ζαμόλξις άνθρωπος, έιτ'έστι δαίμων τις Γέτησιούτος ÉTTIXÚplos) al divino uomo
pelasgo - tirreno ; ma la tradizione ellenica facea derivate le istituzioni
getiche dalle pitagoriche : e a noi qui basti vedere questa ragione e
connessione di miti fino dai primi tempi della storia greca. Aggiungasi la
testimonianza di Platone; il quale nel Carmide parla dei medici incantamenti ,
e generalmente della sapienza medica di Zamolcsi, che, a curar bene le parti ,
incominciava dal tutto (sicché la dottrina della diatesi pare molto antica) e
la salute del corpo facea dipen dere massimamente da quella dell'anima ;
conformemente alla terapeutica musicale e morale di Pitagora. A ciò dovea porre
attenzione il Meiners ragionando degl'incantamenti mistici , e della medicina
pitagorica ; e ri cordarsi di Erodoto nel rifutare l'autorità di Ermippo,
favoloso narra tore della casa sotterranea di Pitagora e della sua discesa
all'inferno (Laerzio, VIII, 21. ) Da tuttociò si raccoglie non solo che il mito
pitagorico ha origini antichissime , ma anche qual si fosse la sua forma
primitiva : e con criterio sempre più intero siamo condizionati a scoprire la
verità istorica che si vuol recuperare, e ad esaminare le autorità delle quali
si possa legittimamente fare uso a ricomporre questa istoria di Pitagora. Il
Meiners, che fece questa critica , accetta solamente Aristosseno e Dicearco. Ma
dalle cose scritte in questo nostro opuscolo risulta la necessità di un nuovo
lavoro critico, che vorremmo fare, Dio concedente, in altro tempo). Posti
i principi, che valgano non a distruggere con senno volgare il mito , ma con
legittimo criterio, a ' spie. garlo , discorriamo rapidamente la storia ,
secondo la parti . zione che ne abbiamo fatto . Preliminari storici della
scuola pitagorica. Pitagora comparisce sul teatro storico quando fra i popoli
greci generalmente incomincia l'esercizio della ra gione filosofica , e un più
chiaro lume indi sorge a ri schiarare le cose loro e le nostre. Ch'egli
nascesse in Samo , città già occupata dai Tirreni, che avesse Mnesarco a
padre, a maestro Ferecide, visitasse la Grecia e in Egitto viaggiasse : questo
è ciò che i moderni critici più severi reputano similissimo al vero , e che noi
ancora , senza qui muover dubbi, reputeremo. Ma non perciò diremo esser prette
menzogne tutti gli altri viaggi mitici di quest'uomo mara viglioso ; i quali
per lo meno accennano a somiglianze o correlazioni fra le dottrine ed
instituzioni di lui e le feni cie , le ebraiche, le persiche, le indiche, le
druidiche. Contro queste corrispondenze o viaggi ideali non fanno le ra gioni
cronologiche computate sulla vita di una certa persona: e come Pitagora – idea
potè essere contemporaneo di Filolao, di Eurito, di Liside, di Archita, ec.
alla cessazione della sua vecchia scuola ; cosi Caronda , Zaleuco, Numa ed
altri poterono in alcun modo essere pitagorici prima che Pitagora uomo
raccogliesse gli elementi storici della sua sapienza cosmopolitica. Io qui
non debbo entrare in computi cronologici . Di Numa sarà parlato più innanzi; e
all'opinione di Polibio , di Cicerone , di Varrone , di Dionigi di Alicarnasso
,diTito Livio fu già opposta dal Niebuhr quella di alcuni orientali, che
faceano viver Pitagora sotto il regno di Assarhaddon , contemporaneo di Numa
(Abideno, nella Cronaca d' Eusebio, ed. ven. , I , pag. 53; Niebuhr , Hist.
rom., 1, p. 220 ed. Bruxel) Di Caronda e Zaleuco basti il dire tanta essere la
somiglianza fra i loro ordini legisla tivi e le istituzioni pitagoriche che il
Bentley indi trasse argomento a rifiu tare i superstiti frammenti delle leggi
di Locri. Alle cui non valide istanze ben risposero l'Heyne e il Sainte-Croix,
e ultimamente anche il nostro il lustre Gioberti. Qui si scopre la nazionalità
italica delle idee pitagoriche anteriormente all'apparizione del filosofo di
Samo, e la loro generale con giunzione con la vita e la civiltà del paese.
Quindi nelle parole di Laerzio che egli desse leggi agl'Italioti (vóLOUS DĖL5
Tois ItalWTAIS, VIII, 3) io veggo una tradizionale ed eloquente testimonianza
di quella nazionalità: e quando leggo in Aristosseno (allegato da Laerzio, ivi,
13) ch'egli prima . mente introdusse fra i Greci e pesi e misure ( μέτρα και
σταθμά εισηγή oacjal) , congiungo questa notizia con l'altro fatto scoperto dal
Mazzocchi nelle Tavole di Eraclea, cioè che i Greci italioti prendessero dai
popoli in digeni il sistema dei pesi e delle misure , e quello della
confinazione agra ria , e trovo un'altra volta la civiltà italica confusa col pitagorismo.
(Vedi Giamblico , V. P. , VII , XXX ; Porfirio , id . , 21 , dov'è allegato
Aristosseno, che fa andare anche i Romani ad ascoltare Pitagora). Or noi
riserberemo ad altra occasione il pieno discorso di queste cose, e
limiteremo le presenti nostre considerazioni alle contrade greche e italiane.
Dove trovia mo noi questi elementi del pitagorismo prima che sor gesse
Pitagora? Creta non solamente è dorica , ma antichissimo e ve nerando esempio
di civiltà a cui perpetuamente risguardano i sapienti greci : e Creta, come fu
osservato dall' Heeren , è il primo anello alla catena delle colonie fenicie
che man tengono esercitati i commercii fra l'Asia e l'Europa; fatto di molta
eloquenza al curioso cercatore della diffusione storica delle idee appartenenti
all ' incivilimento . In quest' isola delle cento città se ciascun popolo ha
libertà sua propria , tutti sono amicamente uniti coi vincoli di una società
federativa -- Altra fu l'opinione del Sainte-Croix, il quale prima della
lega achea non vede confederazioni fra i popoli greci. Des anc. gouv . fédér,
et de la lé gislation de Crête. E della eguale distribuzione delle terre che
facesse Li curgo dubita assai il Grote , History, ec., tomo II , p . 530 e
segg. -- del comune , i possedimenti : le mense, pubbliche: punita
l'avarizia , e forse l'ingratitudine; -- Seneca , De benef., III, 6 ;
excepta Macedonum gente, non est in ulla data adversus ingratum actio. Ma
vedasi Tacito, XIII ; Valerio Massimo, I , 7 ; Plutarco nella Vita di Solone
-- e l'ordin morale saldamente connesso con quello politico : e tutte le
leggi recate al principio eterno dell'ordine cosmico. Minos , de. gnato alla
familiarità di Giove , vede questa eterna ragione dell ' ordine , e pone in
essa il fondamento a tutta la civiltà cretese , come i familiari di Pitagora
intuivano nella faccia simbolica di lui l'ideale principio della loro società e
della loro sacra filosofia. Omero, Odiss., XIX , 179. Aiós meráhou
bapuotis. Plat. in Min . ec. 3 -- Passiamo alla severa Sparta : dorica
anch' ella , an ch'ella studiata dai sapienti, ed esempio di quella unione
vigorosissima che di tutte le volontà private fa magnanimo sacrifizio
sull'altare della patria e lo presuppone. La scienza è negli ordini della città
: tutta la vita , una disciplina ; la quale prende forma tra la musica e
la ginnastica : e secondo le varie età gli uffici ben distribuiti si compiono .
Pre domina l'aristocrazia , ma fondata anche sul valor personale e sui
meriti civili. La veneranda vecchiezza, in onore : le nature de' giovanetti, studiate:
proporzionati i premi e i gastighi , e in certi tempi pubblico il sindacato ;
esame che la parte più razionale della società eseguisce sulla più ir
riflessiva. E qui ancora il Comune è il gran proprietario vero , e son comuni i
banchetti : e la donna (cosa notabilissima) , non casereccia schiava , ma
franca cittadina a compiere la formazione delle fiere anime spartane . A chi
attribuiva Licurgo i suoi ordini legislativi ? Ad Apollo Pitio . Come appunto
Pitagora, l'uomo - idea che diceva la verità a modo di oracolo , era figliuolo
di questo medesimo Apollo . Non osserviamo più innanzi le repubbliche greche.
Fu già provato dal Gilles e ripetuto anche dal Micali, che le leggi di Sparta
ebbero preparazione ed esempi nelle costu manze de'tempi eroici : onde in
queste società parziali già vedemmo gli essenziali elementi dell'universale
civiltà el lenica per rispetto all'idea pitagorica . Che diremo delle
instituzioni jeratiche ? Una storia delle scuole sacerdotali della Grecia
sarebbe importantissi mo lavoro , ma non richiesto al nostro bisogno .
Contentia moci alle cose che seguono. Le società e dottrine jeratiche
volentieri si ascondono nelle solenni tenebre del mistero: ed Orfeo nella
comune opinione dei Greci era il general maestro dei misteri , il teologo per
eccellenza comeBacco era il nume della Telestica, o delle sacre iniziazioni .
Lo che ci mostra fin da principio un legame intimo fra le religioni dionisiache
e le scuole orfiche. Non seguiremo con piena adesione il Creuzer nell’in dagine
e determinazione storica di queste scuole; il quale pone prima quella apollinea
, fondata sul culto della pura luce e sull'uso della lira e della cetra,
simbolo della equabile armo nia delle cose; poi quella dionisiaca, piena di
passioni e di movimento, e nemica dell'apollinea ; finalmente , dopo molte
lotte, la concordia loro : ed altre cose che possono leggersi nella sua
Simbolica. Queste sette religiose potreb bero essere le contrarie parti di una
comune dottrina jera tica , che in Apollo onorasse il principio dell'ordine e
dell'unità cosmica, in Bacco quello delle perpetue trasfor mazioni della
materia e delle misteriose migrazioni dell'ani ma: e quella loro concordia
potrebbe significare un vincolo primitivo di necessità reciproche fra questi
due principi, fondamento alla costituzione e alla vita del mondo. A queste
nostre considerazioni non solo rende opportuna testimo nianza Plutarco (Della
parola Ei sul tempio di Delfo); ma alla testimonianza di Plutarco forse
potrebbero aggiunger forza ragioni di cose più antiche. Ma lasciando
questo, certa cosa è nella storia , e Platone ce lo attesta , che gli antichi
Orfici quasi viveano una vita pita gorica. Dal cibo degli animali si astenevano
: non sacrifi cavano vittime sugli altari degli Iddii, ma faceano libazioni col
miele; perocchè contaminarsi di sangue riputavano essere una empietà
abominevole; con la lira e col canto disponevano l'animo a temperata costanza,
a serena quiete, a lucida contemplazione della verità, e in questa disposizione
trovavano la felicità suprema. Platone nel Protagora , nel Carmide, nel
Fedro, nel Cratilo, e nel sesto libro delle Leggi. Nel Cratilo trovasi quasi
fatto un cenno alla metem psicosi . Il Lobeck scrive così di Platone....
ejusque ( Orphei ) ' etiam sententias aliquot in transitu affert, non ad fidem
dictorum , sed orationis illustran . dae causa, et nonnunquam irridens. Aglaoph
., p. 339. Prodigiosi effetti della lira orfica furono le mansuefatte
belve, gli ascoltanti alberi , i fiumi fermati, e le città edificate, che ci
circondano i mi racoli di Pitagora. Ma quando egli surse , la sapienza
sacerdotale cedeva il luogo a quella filosofica , e i legislatori divini ai
legisla tori umani. Nell'età di Solone e degli altri sapienti Grecia ,
eccitata da quella luce intellettuale che si diffon deva per tutte le sue
contrade , recavasi a riconoscer me glio se stessa antica, e rinnuovavasi nel
pensiero letterario della sua storia . Quindi nei miti e nelle tradizioni
nazionali cercavasi un valore che avesse proporzione con le nuove idee, e nelle
vecchie dottrine orfiche non potea non pene trare questo spirito di fervida
gioventù , e non disporle opportunamente a tornar feconde. Ond' io non crederò
col Lobeck che ad Onomacrito debba ascriversi l'invenzione dei misteri
dionisiaci, o quelli almeno di Bacco-Zagreo; ma attribuirò ad esso una
rigenerazione di dogmi e poemi antichi: e nel vecchio e nel nuovo orficismo
troverò un modello e un impulso all'ordinamento della scuola pita gorica .
Veniamo ora all' Italia ; alla terra che Dionigi d'Ali carnasso giudicava
essere l'ottima (xPOTLOTYY ) di tutte le altre ; alla sede di un'antichissima
civiltà, fiorente per ar mi, per dottrine , per arti , per moli gigantesche, ed
altre opere egregie, che gli studi recentemente fatti sempre meglio dimostrano
anteriore alla greca . Comunione di beni e sodalizi convivali cominciarono
nell'Enotria coi primordi della civiltà che vi presc forma per le leggi
dell'antico Italo : ed Aristo tele , che testimonia questi fatti , ci fa sapere
che alcune di quelle leggi e quelle sissitie italiche , anteriori a tutte le
altre , duravano tuttavia nel suo secolo; forse per la con giunzione loro coi
posteriori instituti pitagorici. Polit. , V. 10. Si maraviglia il Niebuhr
di questa durata ; ma se avesse pensato alle istituzioni pitagoriche , forse
avrebbe potuto avvi . sarne la causa probabile. Que sto Italo che dalla
pastorizia volge gli erranti Enotri all'agricoltura , e con le stabili dimore e
coi civili consorzi comin cia la vera umanità di que' popoli, ci riduce a mente
Cerere che dalla Sicilia passa nell'Attica, i misteri d'Eleusi, nei quali
conservavasi la sacra tradizione, e per simboliche rappresentazioni si
celebrava il passaggio dallo stato fe rino ed eslege al mansueto viver civile ,
le somiglianze tra questi misteri e le orgie pitagoriche, e la casa di Pita
gora in Metaponto appellata tempio di Gerere. Laerzio, VIII, 15;
Giamblico, V. P., XXX. Valerio Massimo pone quella casa e tempio in Crotone:
civitas ... venerati post mortem domum, Cereris sacrarium fecit : quantumque
illa urbs viguit, et dea in hominis me moria , et homo in deae religione cultus
fuit . VIII , 16. Chi poi col Mazzocchi vedesse in Cono il nome di
Saturno, potrebbe con altre memorie illustrare questa prima forma
dell'antichissima civiltà italica -- Mazzocchi , Comment, in R. Hercul.
Musei aeneas Tabulas Hera. cleenses. Prodr. Par. 1, Cap. 1, Sect. V. 8
-- Le cui origini saturniche dallo storico alicarnassèo sembrano essere
attribuite alla virtù nativa di questa terra privilegiata; ond'essa, prima di
moltissime altre, dovesse agevolare a prosperità di com pagnevol vita i suoi
abitatori. Dionisio d'Alicar., 1. Le cose accennate nel seguente periodo
del testo son cenni fatti a utile ravvicinamento d'idee, e che però non offen
deranno alla severa dignità della storia. E volli accennare ( Plut. , in Num .)
anche a Pico ed a Fauno, perchè questi nomi mitici si congiungono con quello di
Saturno ; mito principalissimo della nostra civiltà primitiva. Rex arva Latinus
et urbes Jam senior longa placidas in pace regebat. Hunc Fauno et Nympha
genitum Laurente Marica Accipimus. Faino, Picus pater ; isque parentem Te,
Saturne , refert; tu sanguinis ultimus auctor (En., VII, 45 seq.) E poi
piacevole a trovare in queste favole antiche congiunto nell'Italia l'orficismo
col pitagorismo per mezzo d'Ippolito , disciplinato , secondo chè ce lo
rappresenta Euripide , alla vita orfica . At Trivia Hippolitum secretis alma
recondit Sedibus, et Nimphae Egeriae nemorique relegat ; Solus ubi in silvis
Italis ignobilis aevum Exigeret, versoque ubi nomine Virbius esset (Æen., VII ,
774 seq.) Ippolito, morto e risuscitato , e col nome derivatogli da questa
duplicità di vita posto a solinga stanza nel misterioso bosco di Egeria e del
pitago. rico Numa ! Ma Virgilio , giudicando romanamente il mito , lo altera
dalla sua purità nativa. Quella vita solitaria e contenta ne'pensieri contempla
tivi dovea parere ignobile ai signori del mondo. Lascio Pico e
Fauno esperti nella medicina e nelle arti magiche , operatori di prodigi e
simili ai Dattili Idei , il culto di Apollo che si ce lebrava in Crotone , la
congettura del Niebuhr essere gl ' Iperborei un popolo pelasgico dell'Italia ,
il mito che fa Pitagora figlio anche di questo Apollo Iperboreo, e le con
nessioni storiche che queste cose hanno con l ' orficismo. L'Etruria e Roma ci
bastino. La sapienza etrusca era un sistema arcano di teologia politica , di
cui gli occhi del popolo non vedessero se non le apparenze , e i sacerdoti soli
conoscessero l'interna so stanza. E in questa teologia esoterica ed essoterica,
astro nomia ed aritmetica stavansi connesse con la morale e con la politica .
Imperocchè gli ordini della città terrena ave vano il loro tipo
nell'ordinamento delle forze uraniche, cioè nella costituzione della città
celeste: il Dio ottimo massimo era l'unità primitiva , dalla quale dipendeva la
di stribuzione di queste forze divine; e il suo vero nome, un arcano: con
seimila anni di evoluzione cosmica era giunto sino alla formazione dell'uomo ,
e la vita umana per altri seimila anni si sarebbe continuata . Dodici erano
gl'Id dii consenti , e dodici i popoli dell'Etruria . Pei quali con giungimenti
della terra col cielo , la civiltà divenne una religione ; l ' aruspicina fu
l'arte politica per dominare e governare il vulgo ignorante , e la matematica
una scienza principalissima e un linguaggio simbolico . Se Placido Lutazio vide
analogie tra le dottrine tagetiche e le pitagori che , l'etrusco Lucio ,
introdotto a parlare da Plutarco ne' suoi Simposiaci , diceva i simboli di
Pitagora essere volgarmente noti e praticati nella Toscana. Plutarco, 1.
C. , VIII , 7,18. 11 Guarnacci reputò essere affatto etrusca la filosofia
pitagorica . Antichità Ilal., vol . III , pag. 26. E anco il Lampredi trovò
analogia fra la dottrina etrusca e la filosofia pitagorica , e credė es servi
state comunicazioni fra la Etruria e la Magna Grecia.E chi potesse far piena
comparazione fra i collegi dei nostri auguri antichi e quelli dei pitagorici ,
scoprirebbe analogie più inti me e più copiose. Faccio questa specie di divinazione
pensando al nesso storico fra le cose etrusche e le romane , e comprendendo nel
mio concetto tutto ciò che possa avere analogia col pitagorismo. Altri , più di
me amico delle congetture , potrebbe , se non recare il nome dell'augurato, e
quello di Pitagora a una radice comune, almeno quello di Pitagora a radici
semitiche, e suonerebbe : la bocca, o il sermone di colui che raccoglie, che fa
raccolta di ragionamenti e di cognizioni. Veggano gli Ebraizanti il capitolo
XXX dei Proverbi. La tradizione , che recava a pitagorismo le instituzioni
di Numa , sembra essere cosi confermata dalle cose , ch'io debbo temperarmi dal
noverarle tutte: la nozione pura della divinità; i sacrifizi incruenti , il
tempio rotondo di Vesta , ia sapienza arcana , le leggi , i precetti , i libri
sepolti , i pro verbi stessi del popolo . Onde niun'altra idea è tanto cit
tadina dell'antica Roma quanto la pitagorica -- Plutarco, in Num.
Aggiungete la Dea Tacita , e la dignità fastosa di Numa ; il Flamine Diale , a
cui è vietato cibarsi di fave ; il vino proibito alle donne , ec. ec.: pensate
agli elementi dorici che altri notò nei primordi della civiltà romana , ec. ec.
Secondo Clemente Alessandrino Numafu pitagorico, e più che pitagorico -- e
quasi a significare questa degna cittadinanza, ben si doveva a Pitagora il
monumento di una romana statua. Chi poi avesse agio a profondamente discorrere
tutto il sistema primitivo della romana civiltà , dalle cose divine ed umane
comuni cate nel matrimonio cosi all'uomo , come alla donna, dalla vita sobria e
frugale di tutta quella cittadinanza, dal patro nato e dalla clientela ,
dall'esercizio degli uffici secondo la dignità personale , dalla suprema
indipendenza del ponti ficato , simbolo della idea divina che a tutte le altre
sovra sta , dagli ordini conducenti a comune concordia , dalla re ligione del
Dio Conso, dall'Asilo, dal gius feciale , da un concetto di generalità politica
che intende fin da principio a consociare ed unire popoli e istituzioni , ec.
potrebbe trarre nuovi lumi a illustrazione storica di questo
nostro argomento. Trova Vincenzo Cuoco la filosofia pitagorica nella
stessa lingua del Lazio , e ne argomenta nazionalità necessaria . E il
Maciucca, che vede nella ferula di Prome teo uno specchio catottrico , e
congiunge questo con l'arte attribuita alle Vestali di riaccendere il fuoco
sacro, ove fosse spento , col mezzo di concavi arnesi esposti ai raggi del sole
, ci aprirebbe la via a trovare scientifiche relazioni tra gl ' instituti di
Numa , e la scuola orfica apollinea, che anche è detta caucasea. Le quali cose
volentieri abbandoniamo agli amici delle facili congetture. L'opera del
Maciucca, I Fenici primi abitatori di Napoli', che non trovo citata mai dal
Mazzoldi ( il quale avrebbe dovuto citarla parlando della navigazione di Ulisse
, ec . Delle Origini italiche, etc., cap., XI ) è scritta male , è piena di
congetture e d'ipotesi fabbricate sul fondamento vano di arbitrarie etimologie
, e ribocca di boria con semplicità veramente nativa in colui che la scrisse ;
ma è anche piena d'ingegno e di erudizione. Il perchè , senza più oltre
distenderci in questi cenni istorici , concluderemo , che nelle terre greche e
nelle ita liche gli elementi del pitagorismo preesistevano alla fon dazione
della scuola pitagorica, e che nelle italiche sem brano essere più
esotericamente ordinati in sistemi interi di civiltà che sono anche religioni ,
e più essotericamente di vulgati e praticati nelle popolari costumanze ;
indizio forse di origini native, o di antichità più remote. Che fece adunque Pitagora?
Raccolse questi sparsi elementi e gli ordinò nella costituzione della sua
società ? O fu inventore di un'idea sistematica tutta sua pro pria , per la cui
virtù organica tutti quegli elementi antichi quasi ringiovenissero , e
divenissero altra cosa in quella sua instituzione ? Certamente coi preliminari
fin qui discorsi abbiam fatto uno storico comentario all'idea della sapienza
cosmopolitica di Pitagora . E se ci siam contenuti entro i termini delle terre
elleniche e italiche , abbiamo sem pre presupposto anco le possibili
derivazioni di quella dalle asiatiche ed egiziane opinioni e religioni , o le
sue attinenze con queste. Delle egiziane già toccammo, e molto si potrebbe
dire delle asiatiche. Quanto alle idee ed istituzioni druidiche, la loro analogia
con le pitagoriche è chiarissima : e questo è il valore istorico del mito che
fa viaggiare Pitagora nelle Gallie . Vedi Cesare, De Bell . Gall. , VI , 5 ;
Diodoro Siculo , VIII , 29; Valerio Massimo, II , 10 ; Ammiano Marcellino, XV,
10. Pomponio Mela cosi parla de ' Druidi : Hi terrae, mundique magnitudinem et
formam , molus coeli et siderum , ac quid Dii velint , scire profilentur.
Docent mulla nobilissimos gentis clam et diu, vicenis annis in specu , aut in
abditis sal tibus. Unum ex iis, quae praecipiunt , in vulgus effluit ,
videlicet ut forent ad bella meliores, aeternas esse animas, vitamque ulteram
ad Manes, III , 1. Appiano chiamolli θανάτου καταφρονητές δι' ελπίδα
αναβιώσεως. Gente, la morte a disprezzare ardita Per isperanza di seconda vita.
Dicerem stullos , scrive Valerio Massimo nel luogo sopra citato , nisi idem
bracati sensissent quod palliatus Pythagoras credidit . Il Röth fa derivare la
Tetratti pitagorica dall'Egitto; e il Wilkinson , la teoria dei numeri e della
musica . Vedi Laurens, Histoire du droit des gens. Vol 1 , pag. 296. Ma il
grand' uomo , del quale ora dobbiam valutare la instituzione famosa, non
contentossi a fare una scelta e un ordinamento d'idee, alla cui applicazione
pratica mancasse il nativo fondamento nella vita de' popoli che avessero a
trarne vantaggio. Questi elementi pitagorici an teriori a Pitagora gli abbiam
trovati nella civiltà , nelle scuole jeratiche , nelle consuetudini volgari
della Grecia e dell' Italia: epperò l'opera di colui che se ne fa il sistema
tico ordinatore è quella di un sapiente , che di tutte le parti buone che può
vedere nel passato vuol far base a un or dine migliore di cose presenti e
future. Pitagora dovea più particolarmente aver l'occhio alla Magna Grecia
; ma anche generalmente alle terre greche e italiane , e congiungere la sua
idea istorica con ciò che meglio si convenisse con la natura umana ; che era l
' idea scientifica . Procedimento pieno di sapienza , e che già ci an nunzia
negli ordini dell'Istituto una proporzionata grandezza. Questa è la
con clusione grande che ci risulta dai preliminari di che toce cammo, e nella
quale abbiamo la misura giusta a determi nare storicamente il valore della
prima parte del mito. Non cercheremo le cause che indussero Pitagora a fer mare
la sua stanza nella Magna Grecia, e ad esercitarvi il suo nobile
magistero. Vedi Giamblico, De V. Pythagorde, c . V. 33. Ma
l'opportunità del luogo non poteva esser maggiore , chi volesse eseguire un
disegno preparato a migliorare la umanità italo-greca . E forse anco
l'appartenere a schiatta tirrena lo mosse . Trovò genti calcidiche , dori che ,
achee , e i nativi misti coi greci o fieri della loro indi pendenza , e nelle
terre opiche i tirreni . Trovò costumi corrotti per voluttà dissolute ,
repubbliche in guerra , go verni abusati ; ma e necessità di rimedi , e ingegni
pronti , e volontà non ritrose , e ammirazione ed entusiasmo. Quanta agitazione
di alti divisamenti , quante fatiche tollerate , pensata preparazione di mezzi
, e lunga moderazione di desiderj ardenti ! Ed ora finalmente potrà trarre
fuori tutto se stesso dalla profonda anima , e dar forma a'suoi pensieri in una
instituzione degna del rispetto dei secoli .... Mal giudicherebbe la sua grand'
opera chi guardasse alle parti , e non sapesse comprenderne l'integrità. L'idea
orfica primitiva , indirizzata a mansuefare i selvaggi uomini e a ridurli a
viver civile , è qui divenuta una sapienza ricca dei por tati di molte genti ed
età , e conveniente alle condizioni di un incivilimento da rinnovellarsi ed
estendersi. Pitagora chiama l'uomo nella società che ordina: non vuole educate
ed esercitate alcune facoltà spiritali e corporee , ma tutte , e secondo i
gradi della loro dignità nativa : non esaurisce la sua idea filosofica
nell'ordinamento dell'Instituto e nella disciplina che vi si dee conservare, ma
comincia una grande scuola ed apre una larghissima via all'umana speculazione :
con giunge l'azione con la scienza, e all'una e all'altra chiama sempre i più
degni , e dai confini del collegio le fa passare là ov'è il moto di tutti gli
interessi nazionali , e il co stante scopo al quale debbano intendere è il
miglioramento della cosa pubblica. Enixco Crotoniatae studio ab eo
pelierunt, ut Senatum ipsorum , qui mille hominum numero constabat, consiliis
suis uti paterelur. Valerio Mas simo , VII, 15 . Non ferma le sue
instituzioni a Cro tone , a Metaponto , nella Magna Grecia e nella
Sicilia, ma volge gli occhi largamente all'intorno , e fa invito a tutti i
magnanimi , e ne estende per mezzo de' suoi seguaci gli effetti nel continente
greco , nell ' Asia Minore, a Cartagine, a Cirene, e vuole che essi diventino
concittadini del mondo. E questa grande idea cosmopolitica bene era dovuta
all'Italia , destinata ad esser la patria della civiltà universale . Non vorrei
che queste istoriche verità sembrassero arti fici retorici a coloro che
presumono di esser sapienti e alcuna volta sono necessariamente retori. L'idea
organica dell'Insti tuto pitagorico potè avere una esplicazione progressiva , i
cui tempi sarebbero iinpossibili a determinare; ma questi suoi svolgimento e
processo erano già contenuti in lei , quasi in fecondo seme : tanto è profonda
, e necessaria, e continua la connessione fra tutti gli elementi che la
costituiscono ! Cominciate , osservando , dall'educazione fisica delle indi
vidue persone ; dalle prescrizioni dietetiche e dalle ginna stiche . La sana e
forte disposizione di tutto il corpo non è fine , ma è mezzo, e dee preparare ,
secondare e servire all ' ottima educazione e forma delle facoltà mentali . E la
musica , onde tutte le parti del corpo son composte a co stante unità di vigore
, è anche un metodo d'igiene intel lettuale e morale , e compie i suoi effetti
nell'anima per fettamente disciplinata di ciascun pitagorico. Lo che ope ravasi
cosi nell'uomo come nella donna individui ; forma primitiva dell'umanità tutta
quanta. La disciplina adunque era universale per rispetto alle educabili
potenze, e procedeva secondo quella progressione che natura segue nel
l'esplicarle , e secondo i gradi della superiorità loro nell'or dinata
conformazione dell'umana persona . La quale , inte ramente abituata a virtù ed
a scienza , era una unità par ziale , che rendeva immagine dell'Unità assoluta
, come quella che la fecondità sua propria e radicale avesse armo niosamente recata
in essere, e con pienezza di effetti oc cupato il luogo , che nel cosmico
sistema delle vite le fosse sortito per leggi eterne, e che senza sua gran
colpa non potesse mai abbandonare. Credo di potere storicamente recare a
Pitagora anche questa idea , non per la sola autorità di Cicerone (Vetat
Pythagoras, ec . , De Senect. , XX ; Tuscul., 1 , 30) , ma e per le necessarie
ragioni delle cose. Quanto alla mi glior formazione dell'uomo , i provvidi
ordinamenti cominciavano dalla generazione , siccome a Sparta , e continuavano
con sapiente magistero educando e governando la vita fino alla veneranda
vecchiezza . Aristosseno ap. Stobeo , Serm . XCIX. – Dicearco , ap. Giamblico,
V. P. , XXX seq.). Era ordine pitagorico, dice Aristosseno presso Stobeo ( Serm.
XLI ) doversi attendere con appropriata cura a tutte le elà della vila : ui
fanciulli, che fos sero disciplinati nelle lettere : ai giovani , che si
formassero alle leggi e costu manze patrie; agli uomini maturi, che sapessero
dare opera alla cosu pubblica; ai vecchi, che avessero mente e criterio nelle
consultazioni. Imperocchè bambo leggiare i fanciulli, funciulleggiare i giovani
, gli uomini giovenilmente vivere , e i vecchi non aver senno , repuluvano cosa
da doversi impedire con ogni argo mento di scienza. L'ordine, esser pieno di
bellezza , e di utilità ; di vanità e di bruttezza , la dismisura e il
disordine. — Parla Aristosseno in genere del l'educazione di tutto l'uomo , di
ciò che a tutti comunemente fosse con venevole : e però restringendo la letteraria
disciplina all'adolescenza non esclude lo studio delle cose più alte e
difficili nelle altre età , anzi lo presuppone, ma in quelli soltanto , che,
per nativa attitudine , potessero e dovessero consacrarvisi con ogni cura.
Tutta la vita adunque era sottoposta alla legge di una educazione sistematica ,
e conti nua ; e tutte le potenze , secondochè comportasse la natura di ciascuno
, venjano sapientemente educate e conformate a bellezza d'ordine e a co stante
unità. Onde addurrò senza tema anche queste parole di Clemente Alessandrino:
Μυστικώς oύν εφ' ημών και το Πυθαγόρειον ελέγετο: ένα révešalxai tòy ävsow tov
deiv, .... oportere hominem quoque fieri unum (Str. , IV , 23.). Imperocchè fin
dalla loro prima istituzione doveano i pita gorici aspirare a questa costante
armonia , a questa bella unità , cioè perfezione dell'uomo intero , più che ad
altri non sia venuto fatto di credere. Laonde si raccoglie che ė :
l'idea religiosa è la suprema che ne risulti da questa piena evoluzione del
dinamismo umano; e che alla parte principale o divina dell'anima dovea
corrispondere la parte più alta della istituzione morale e scientifica. E si
comincia a conoscere qual si dovesse essere la religione di Pitagora. Con
questa universalità o pienezza di educazione indi viduale collegavasi
necessariamente quell'altra, onde alla società pitagorica potessero appartenere
uomini d'ogni nazione e paese. Un legislatore può dommaticamente far fon
damento in una dottrina di civiltà , al cui esemplare voglia con arti poderose
conformare la vita di un popolo ; ma deve anche storicamente accettare questo
popolo com' egli : 0 se pone nella sua città alcune schiatte o classi privi
legiate ed esclude le altre dall' equabile partecipazione ai diritti ed ai
doveri sociali offende a quelle leggi della natura, delle quali dovrebb'essere
interprete giusto e l'oppor tuno promulgatore. Cosi Licurgo, per meglio formare
l'uo mo Spartano , dimenticò talvolta o non conobbe bene l'uomo vero; e dovendo
accettare quelle genti com'elle erano , mise in guerra le sue idee con le cose
, e preparò la futura ipocrisia di Sparta , e le degenerazioni e le impo tenti
ristorazioni de' suoi ordini. Pitagora diede leggi ad un popolo di tutta sua
scelta: e potendolo scegliere da ogni luogo , venia facendo una società potenzialmente
cosmo politica ed universale . Questa società sparsa e da stendersi per tutte
le parti del mondo civile , o di quello almeno italo-greco , era , non può
negarsi , una specie di stato nello Stato ; ma essendo composta di elettissimi
uomini , e con larghi metodi indirizzata a generale perfezionamento di cose
umane , esercitava in ogni terra , o avrebbe dovuto esercitare , con la
presenza e con la virtù dei suoi membri un'azione miglioratrice , e avviava a
poco a poco le civiltà parziali verso l'ottima forma di una civiltà comune . Im
perocchè Pitagora , infondendovi il fuoco divino dell'amore , onde meritossi il
nome di legislatore dell'amicizia , applicava alla vita del corpo sociale il
principio stesso che aveva applicato alla vita de' singoli uomini , e
quell'unità, con la quale sapea ridurre a costante armonia tutte le facoltà
personali , desiderava che fosse recata ad effetto nella società del genere
umano. Adunque chi non gli attribuisse questo sublime intendimento mostrerebbe
di non avere inteso la ragione di tutta la di lui disciplina: negherebbe
implicitamente molti fatti storici o non saprebbe spiegarli bene ; e direbbe
fallace la sapienza d'un grand' uomo il quale fra la pienezza dell'educazione
individuale e l'uni versalità degli effetti che ne risulterebbero a tutte le pa
trie de' suoi seguaci non avesse veduto i vincoli necessari . Ma queste due
universalità ne presuppongono sempre un'altra , nella quale sia anche il
fondamentale principio di tutto il sistema pitagorico. Parlammo di Pitagora ,
racco glitore storico della sapienza altrui : ora lo consideriamo per rispetto
alla sua propria filosofia . E diciamo , che se nella sua scuola tutte le
scienze allora note si professava no , e la speculazione era libera , tutte
queste dottrine do . veano dipendere da un supremo principio , che fosse quello
proprio veramente della filosofia pitagorica. Narrare quel che egli fece nella
geometria , nell'aritmetica , nella musica , nell'astronomia , nella fisica ,
nella psicologia, nella morale , nella politica , ec . , non si potrebbe se non
a frammenti , e per supposizioni e argomentazioni storiche ; nè ciò è richiesto
al presente lavoro. Se Pitagora scrisse, niun suo libro o genuino scritto
giunse fino a noi; e la sua sapienza mal potrebbe separarsi da quella de'suoi
suc cessori . Dal fondatore di una scuola filosofica vuolsi do mandare il
principio da cui tutto il suo sistema dipende. E Pitagora levandosi col
pensiero alla fonte dell ' or dine universale , alla Monade teocosmica , come a
suprema e necessaria radice di ogni esistenza e di tutto lo scibile , non potea
non vedere la convertibilità dell ' Uno coll'Ente. Ammonio maestro di
Plutarco: αλλ' εν είναι δει το όν, ώσπερ ον TÒ Év . De Ei apud
Delphos. Che se l' uno è presupposto sempre dal mol teplice , v'la
una prima unità da cui tutte le altre pro cedono : e se questa prima e
sempiterna unità è insie me l' ente assoluto , indi conseguita che il numero e
il mondo abbiano un comune principio e che le intrinseche ragioni e possibili
combinazioni del numero effettualmente si adempiano nello svolgimento e
costituzione del mondo, e di questo svolgimento e costituzione siano le forme
ideali in quelle ragioni e possibilità di combinazioni. Perché la Monade
esplicandosi con queste leggi per tutti gli ordini genesiaci della natura e
insieme rimanendo eterna nel sistema mondiale , non solamente fa si che le cose
abbiano nascimento ed essenza e luogo e tempo secondo ragioni numeriche , ma
che ciascuna sia anco effettual mente un numero e quanto alle sue proprietà
individue, e quanto al processo universale della vita cosmica. Cosi una
necessità organica avvince e governa e rinnova tutte le cose ; e il libero
arbitrio dell'uomo , anziché esser di strutto , ha preparazione , e
coordinazione , e convenienti fini in questo fato armonioso dell'universo. Ma
la ragione del numero dovendo scorrere nella materia , nelle cui con
figurazioni si determina , e si divide , e si somma , e si moltiplica , e si
congiunge con quella geometrica , e misura tutte le cose tra loro e con sè , e
sè con se stessa , questa eterna ragione ci fa comprendere , che se i principii
aso matici precedono e governano tutto il mondo corporeo , sono ancora que’
medesimi , onde gli ordini della scienza intrinsecamente concordano con quelli
della natura. Però il numero vale nella musica , nella ginnastica , nella medi
cina , nella morale , nella politica , in tutta quanta la scienza: e
l'aritmetica pitagorica è il vincolo e la logica universale dello scibile ;
un'apparenza simbolica ai profani , e una sublime cosmologia e la dottrina
sostanziale per eccellenza agl' iniziati . Questo io credo essere il
sostanziale e necessario valore del principio , nel quale Pitagora fece
fondamento a tutta la sua filosofia : nè le condizioni sincrone della generale
sa pienza ellenica fanno contro essenzialmente a cosiffatta opi nione. Questa
filosofia , fino dalla sua origine , fu un ema. natismo teocosmico che si
deduce secondo le leggi eterne del numero . E perocchè questo emanatismo è vita
, indi conseguita l ' indole della psicologia pitagorica, ontologicamente
profonda. Prego i sapienti leggitori a ridursi a mente le cose scritte da
Aristotele (Met., 1 , 5) sulla filosofia pitagorica , comparandole anche con
quelle scritte da Sesto Empirico ( Pyrrh. Hyp. , III , 18) , se mai potessero
essere assolutamente contrarie a questa mia esposizione del fondamentale prin
cipio di quella filosofia. In Aristotele veggiamo il numero essere assunto a
principio scientifico dai pitagorici antichi per la sua anteriorità a tutte le cose
che esistono ( των όντων ... οι αριθμοί φύσει πρώτοι) . Lo che non para si
vuole ascrivere allo studio che questi uomini principalmente facessero delle
matematiche , ma ad un profondo concetto della ragione del numero. Imperocchè
considerando che ogni cosa , se non fosse una , sarebbe nulla , indi
concludevano la necessaria antecedenza di quella ragione , ontologi camente
avverandola. E cosi posta nella monade la condizione reale ed assoluta , senza
la quale niuna cosa può essere , notavano che percorren dole tutte non se ne
troverebbe mai una perfettamente identica a un'altra , ma che l'unità non si
aliena mai da se stessa. Quindi ciò che eternamente e semplicemente è uno in sè
, è mutabilmente e differentemente molti nella natura: e tutta la moltiplicità
delle cose essendo avvinta a sistema dai vin coli continui del numero , che si
deduce ontologicamente fra tutte con dar loro ed essenza e procedimenti , si
risolve da ultimo in una unità sintetica , che è l'ordine ( xóquos) costante
del mondo ; nome che dicesi primamente usato da Pitagora . Il quale se avesse
detto ( Stobeo , p. 48) , che il mondo non fu ſatto o generato per rispetto al
tempo , ma per rispetto al nostro modo di concepire quel suo ordine , ci
avrebbe dato lume a penetrare più addentro nelle sue idee : γεννητον κατ'
επίνοιαν τον κόσμον, ου κατά χρόνον. La deduzione geometrica delle cose
dall'unità primordiale del punto, risguarda alla loro formazione corporea , e
appartiene alla fisica generale dei pitagorici . Ma la dottrina che qui abbiam
dichiarato è quella metafisica del numero. Aristotele adunque , inteso a
combatterli , non valutò bene questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di
Aristotele ripetono l'ingiustizia antica. Or se tutto il mondo scientifico
è un sistema di atti intellettuali , che consuonano coi concenti co smici
procedenti dal fecondo seno della Monade sempiterna , anche l'uomo dee
esercitare tutte le potenze del numero contenuto in lui , e conformarsi
all'ordine dell'universo. E tutte le anime umane essendo sorelle , o raggi di
una co mune sostanza eterea , debbono nei sociali consorzi riunirsi coi vincoli
di questa divina parentela , e fare delle civiltà un'armonia di opere virtuose
. Però come la disciplina di tutto l'uomo pitagorico necessariamente conduce a
una so cietà cosmopolitica, cosi ogni vita individuale e tutto il vivere
consociato hanno il regolatore principio in una idea filosofica , che ordina
tutte le scienze alla ragione dell'Uni tà , la quale è l'ordinatrice di tutte
le cose . Da quel che abbiam detto agevolmente si deduce qual si dovesse essere
la dottrina religiosa di Pitagora. Molte superstizioni e virtù taumaturgiche
gli furono miti camente attribuite, le quali hanno la ragione e spiegazione
loro nelle qualità straordinarie dell'Uomo , ne'suoi viaggi, nelle sue
iniziazioni e linguaggio arcano, e nelle fantasie ed intendimenti altrui .
Ch'egli usasse le maravigliose ap parenze ad accrescere autorità ed onore alla
sua istituzio ne , non ci renderemmo difficili a dire : che amasse le grandi
imposture, non lo crederemo. Isocrate (in Busir., 11) ci dice ch' egli
facesse servire le solennità religiose ad acquistare riputazione ; e si può
facilmente credere . Veggasi anche Plutarco , in Numa , ec . – Ma il Meiners,
che recò ogni cosa allo scopo politico della società pitagorica , molto
volentieri concesse , che a questo fine fossero adoperate le cognizioni
mediche, le musicali , gl' in cantamenti mistici , la religione , e tutte le
arti sacerdotali, senza pur so. spettare se cid importasse una solenne impostura
, o non facendone conto . Parlando poi dell'arcano di questa società , ne
restrinse a certo suo arbi . trio la ragione , per non cangiare Pitagora in un
impostore l ... II, 3. Noi qui osserveremo che nella valutazione istorica di
queste cose da una con parte bisogna concedere assai alle arti necessarie
a quelle aristocrazie in stitutrici ; dall'altra detrarre non poco dalle
esagerazioni delle moltitudini giudicanti. La scuola jonica, contenta,
questa loro dottrina ; e i moderni seguaci di Aristotele ripetono l'ingiustizia
antica chi generalmente giudichi, nelle speculazioni , anziché pro muovere
la pratica delle idee religiose surse contraria al politeismo volgare , del
quale facea sentire la stoltezza ; ma la pitagorica, che era anche una società
perfeziona trice , dovea rispettare le religioni popolari , e disporle a
opportuni miglioramenti. Qui l'educazione del cuore corroborava e perfezionava
quella dello spirito , e l'af fetto concordandosi coll'idea richiedeva che il
principio e il termine della scienza fosse insieme un oggetto di culto. La
posizione cosmica dell'uomo gli facea precetto di raggiungere un fine , cioè
una perfetta forma di vita , alla quale non potesse venire se non per mezzo
della filosofia . E questa era la vera e profonda religione del pitagorico; un
dovere di miglioramento continuo , un sacra mento di conformarsi al principio
eterno delle armonie universali , un'esecuzione dell'idea divina nel mondo
tellurico. Quindi arte della vita , filosofia , religione suonavano a lui quasi
una medesima cosa . I vivi e i languidi raggi del nascente e dell'occidente
sole , il maestoso silenzio delle notti stellate , il giro delle stagioni , la
prodigiosa diversità dei fenomeni, e le leggi immutabili dell'ordine,
l'acquisto della virtù , e il culto della sapienza, tutto all'anima del pita
gorico era un alito di divinità presente , un concento dina mico, un
consentimento di simpatie , un desiderio , un do cumento , una commemorazione
di vita , una religione d'amo re . Il quale con benevolo affetto risguardava
anche agl'ſirra gionevoli animali , e volea rispettato in loro il padre univer
sale degli esseri. Pertanto l'idea religiosa era cima e coro na , come già
notammo, a tutto il pitagorico sistema; e di qui veniva o potea venire al
politeismo italico una in terpretazione razionale ed una purificazione segreta
e continua. Pindaro poeta dorico e pitagorico , insegna , doversi parlare
degli iddii in modo conforme alla loro dignità ; ovvero astenersene , quando
cor rano opinioni contrarie alla loro alta natura : έστι δ ' ανδρί φάμεν εικός
αμφί δαιμόνων κα -λά Decel autem hominem dicere de diis honesta . (Olimp., I,
str. 2, ver. 4 seg. έμοι δ ' άπορα γαστρίμαργον μακάρων τιν' ειπείν. αφίσταμαι.
Mihi vero absurdum est helluonem Deorum aliquem appellare. Abstineo ab hoe
(ivi, epodo 2, v.1 seg.). Lascio Geronimo di Rudi ( doctum hominem et suavem,
come lo chiama Cicerone, De Fin., V, 5), che faceva anch'esso discender
Pitagora miticamente all'inferno , dove vedesse puniti Omero ed Esiodo per le
cose sconvenevolmente dette intorno agl'iddii (Diog. Laer., VIII, 19). Ma noi
abbiamo già notato , e anche ripeteremo , che fra le idee religiose e le altre
parti della sapienza pitagorica dovea essere una necessaria con nessione; e
questa sapienza , che recava tutto all ' Unità , alla Monade teocosmica , non
poteva non applicare cotal suo principio al politeismo volgare . Imperocchè
gl'intendimenti de'pitagorici fossero quelli di educatori e di riformatori
magnanimi . Fugandum omni conatu, et igni atque ferro, et qui buscumque denique
machinis praecidendum a corpore quidem morbum, ab anima ignorantiam (ápasiav),
a ventre luxuriam , a civitate seditionem , a fumilia discordiam dixooposúvnu)
, a cunclis denique rebus excessum láustpiav): Queste parole forti, dice
Aristosseno , allegato da Porfirio ( V. P. , 22 ) , suo . navano spesso in
bocca a Pitagora ; cioè , questo era il grande scopo della sua istituzione. Ed
egli , come ci attesta forse lo stesso Aristosseno , tirannie distrusse ,
riordinò repubbliche sconrolle , rivend.cò in libertà popoli schiavi, alle
illegalità pose fine , le soverchianze e i prepotenti spense , e fucile e beni
gno duce si diede ugli uomini giusti e mansueti (Giamb., V. P. , XXXII). Or chi
dirà che questi intendimenti riformativi non dovessero aver vigore per rispetto
alle religioni? Ma il savio leggitore congiunga storicamente questi propositi e
ulici pitagorici con le azioni della gente dorica, distrug . gitrice delle
tirannidi. Ma questa dottrina sacra , chi l'avesse così rivelata al popolo
com'ella era in se stessa , sarebbe sembrata cosa empia, e fatta a sovvertire
le antiche basi della morale e dell'ordine pubblico . Il perchè non mi
maraviglio che se veramente nella tomba di Numa, o in altro luogo , furono
trovati libri pitagorici di questo genere , fossero creduti più presto efficaci
a dissolvere le religioni popolari che ad edificarle, e dal romano senno
politicamente giudicati de gni del fuoco. Nè trovo difficoltà in ciò che dicea
Cicerone de'misteri di Samotracia, di Lenno e di Eleusi, ove le volgari
opinioni teologiche interpretate secondo la fisica ra gione trasmutavansi in
iscienza della natura -- ... quibus explicatis ad rationemque revocalis ,
rerum magis natura cognoscitur, quam deorum. De Nat. Deor., 1 , 42. La teologia
fisica era altra cosa da quella politica ; di che non occorre qui ragionare .
Quanto ai libri pitagorici trovati nel sepolcro di Numa , la cosa con alcuna
varietà è concordemente attestata da Cassio Emina , da Pisone , da Valerio
Anziate, da Sempronio Tuditano , da Varrone , da Tito Livio , da Valerio
Massimo , ( L. 1 , c . 1 , 4 , 12) e da Plinio il vecchio ; al quale rimando i
miei leggito ri ; XIII , 13. Sicché difficilmente potrebbesi impugnare
l'esistenza del fatto . Se poi il fatto fosse genuino in sé, chi potrebbe dimostrarlo?
Contentiamoci a tassare di severità soverchia il senno romano. Un solo
principio adunque informava la società, la disciplina, la religione, la
filosofia di Pitagora : e la necessa ria e indissolubile connessione che indi
viene a tutte que ste cose , che sostanzialmente abbiamo considerato , è una
prova certa della verità istorica delle nostre conclusioni. Ma a questa sintesi
luminosa non posero mente gli studiosi; e duolmi che anche dall'egregio Ritter
sia stata negletta. Egli non vede nel collegio se non una semplice società
privata : e pur dee confessare i pubblici effetti che ne deri varono alle città
della Magna Grecia. Trova nella religione il punto centrale di tutta quella
comunità ; ma non la segue per tutti gli ordini delle cose , mostrando , quanto
fosse possibile , la proporzionata dipendenza di queste e il proporzionato
impero di quella. La fa vicina o non contraria al politeismo volgare e distinta
assai o non sostanzialmente unita con l'idea filosofica , e la copre di
misteriose ombre e solamente ad essa reca la necessità o l'opportunità del
mistero. Insomma , guarda sparsamente le cose , che cosi disgregate, in
distanza di tempo, rimpiccoliscono. Che se ne avesse cercato il sistema , le
avrebbe trovate più grandi , e tosto avrebbe saputo interrogare i tempi e
storicamente comprovare questa loro grandezza. Come il Meiners pose
nell'idea politica il principio e il fine del. l'istituzione pitagorica, così
il Ritter massimamente nell'idea religiosa. Ma il criterio giusto di tutta
questa istoria è nell'idea' sintetica nella quale abbiamo trovato il principio
organico del pitagorico sistema, e alla quale desideriamo che risguardinu
sempre gli studiosi di queste cose. Pitagora, venuto dopo i primi
legislatori divini e non per ordinare una civiltà parziale , ma dal concetto di
una piena educazione dell'uomo essendosi inalzato a quello dell'umanità che per
opra sua cominciasse , si vide posto , per la natura de' suoi intendimenti, in
tali condizioni, da dover procedere con arti molto segrete e con prudente
circospezione. Imperocchè dappertutto egli era il comin ciatore di un nuovo e
speciale ordine di vita in mezzo alla comune ed antica. Onde l'arcano e l'uso
di un linguaggio sim bolico, che generalmente gli bisognavano a sicurezza
esterna dell'Istituto, egli doveva anche combinarli con profonde ragioni
organiche nell'ordinamento interiore. Acusmatici e matematici, essoterici ed
esoterici , pitagorici e pitagorèi , son diversi nomi che potevano non essere
adoperati in principio , ma che accennano sempre a due ordini di per sone , nei
quali , per costante necessità di cause , dovesse esser partita la Società , e
che ce ne chiariranno la costituzione e la forma essenziale. Erano cause
intrinseche , e sono e saranno sempre, la maggiore o minore capacità delle
menti ; alcune delle quali possono attingere le più ardue sommità della
sapienza, altre si rimangono nei gradi inferiori. Ma queste prime ragioni ,
fondate nella natura delle cose, Pitagora congiunse con altre di non minore
importanza. Perché lo sperimento degl' ingegni gli pro vava anche i cuori e le
volontà : e mentre durava la disciplina inferiore , che introducesse i migliori
nel santuario delle recondite dottrine , quell'autorità imperiosa alla
quale tutti obbedivano , quel silenzio , quelle pratiche religiose , tutte
quelle regole di un vivere ordinato ch'essi aveano saputo osservare per farsene
continuo profitto, gli formava al degno uso della libertà , che, se non è
imparata ed esercitata dentro i termini della legge, è licenza di schiavi e dissoluzione
di forze. Cosi coloro, ai quali potesse es sere confidato tutto il tesoro della
sapienza pitagorica, aveano meritato di possederla, e ne sentivano tutto il
prezzo , e come cosa propria l'accrescevano. E dopo avere acquistato l'abito di
quella virtù morale che costi tuiva l'eccellenza dell'uomo pitagorico , potevi
essere am messo al segreto dei fini, dei mezzi , e di tutto il sistema organico
e procedimenti della società. La forma adunque , che questa dovesse prendere,
inevitabilmente risultava da quella partizione di persone , di discipline , di
uffici, della quale abbiam trovato il fondamento in ragioni desunte dall'ordine
scientifico e in altre procedenti dall'ordine pratico , le une colle altre
sapientemente contemperate : e l'ar cano , che mantenevasi con le classi
inferiori e con tutti i profani, non aveva la sua necessità o convenienza
nell'idea religiosa o in alcuna altra cosa particolare , ma in tutte. Tanto in
questa società la religione era filosofia; la filosofia, disciplina a
perfezionamento dell' uomo ; e la perfezione dell'uomo individuo , indirizzata
a miglioramento ge nerale della vita ; vale a dire , tutte le parti ottimamente
unite in bellissimo e costantissimo corpo . Con questa idea sintetica parmi che
molte difficoltà si vincano , e che ciascuna cosa nel suo verace lume rendasi
manifesta. L'istituto pitagorico era forse ordinato a mero adempimento di
uffici politici? No , per fermo ! ma era una società - modello , la quale se
intendeva a miglio rare le condizioni della civiltà comune e aspirava ad oc
cupare una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa pubblica ,
coltivava ancora le scienze , aveva uno scopo morale e religioso, promoveva
ogni buona arte a perfezio namento del vivere secondo una idea tanto larga ,
quanta è la virtualità della umana natura . Or tutti questi elementi erano in
essa , come già mostrammo, ordinati sistema : erano lei medesima formatasi
organicamente a corpo mo rale . E quantunque a ciascuno si possa e si debba
attri buire un valore distinto e suo proprio , pur tutti insieme vo gliono
esser compresi in quella loro sintesi organica. Certo è poi che la massima
forza dovea provenirle dalla sapienza e dalla virtù de'suoi membri, e che tutto
il vantaggio ch'ella potesse avere sulla società generale consisteva appunto in
questa superiorità di cognizioni , di capacità , di bontà morale e politica ,
che in lei si trovasse. Che se ora la consideriamo in mezzo alle città e
popoli, fra i quali ebbe esistenza , non sentiamo noi che le prudenti arti , e
la politica che potesse adoperare a suo maggiore incremento e prosperità,
doveano avere una conformità opportuna , non con una parte sola de' suoi ordini
organici , ma con l'integrità del suo corpo morale, e con tutte le operazioni
richieste a raggiun gere i fini della sua vita? Ove i pitagorici avessero senza
riserva fatto copia a tutti della scienza che possede vano , a che starsi uniti
in quella loro consorteria? qual differenza fra essi , e gli altri uomini
esterni? O come avrebbero conservato quella superiorità , senza la quale
mancava ogni legittimo fondamento ai loro intendimenti, alla politica , alla
loro consociazione ? Sarebbe stato un ri nunziare se stesso. E se la loro
religione mostravasi non discordante da quella popolare, diremo noi che fra le
loro dottrine, filosofiche, che fra tutta la loro scienza e le loro idee
religiose non corresse una proporzione necessaria? Che non mirassero a
purificare anche le idee volgari , quando aprivano le porte della loro scuola a
tutti che fossero degni di entrarle ? Indi la necessità di estendere
convenevolmente l'arcano a tutta la sostanza della loro interna vita , e perd.
anche alle più alte e più pure dottrine filosofiche , e religiose. S'inganna il
Ritter quando limita il segreto alla religione; ma ingannossi anche il Meiners
che a questa lo credette inutile affatto , e necessarissimo alla politica , di
cui egli ebbe un concetto difettivo non comprendendovi tutti gl'interessi
dell'Istituto . Nè l'esempio di Senofane ch'egli adduce a provare la libertà
allora concessa intorno alle opinioni religiose , ha valore . Imperocchè troppo
è lon tana la condizione di questo filosofo da quella della società pitagorica
. E che poteva temere il popolo per le patrie istituzioni dalla voce solitaria
di un uomo ? da pochi motti satirici ? da una poesia filosofica ? L'idea
semplicemente proposta all' apprensione degl ' intelletti è approvata ,
rigettata , internamente usata , e ciascuno l'intende a suo grado , e presto
passa dimenticata dal maggior numero . Ma Pitagora aveva ordinato una società
ad effettuare le idee , ad avverarle in opere pubbliche, in istituzioni buone
eserci tando un'azione continua e miglioratrice sulla società ge nerale .
Quindi , ancorchè non potessero tornargli cagione di danno , non si sarebbe
licenziato a divulgarle. Questa era una cara proprietà della sua famiglia
filosofica ; la quale dovea con circospetta e diligente cura custodirla :
aspettare i tempi opportuni , e prepararli: parteciparla ed usarla con
discernimento e prudenza. Perchè non voleva restarsi una pura idea ; ma
divenire un fatto. L'arcano adunque , gioya ripeterlo , dovea coprire delle sue
ombre tutti i più vitali procedimenti , tutto il patrimonio migliore , tutto
l'interior sistema della società pitagorica. E per queste ragioni politiche, accomodate
alla sintetica pienezza della istituzione, la necessità del silenzio era cosi
forte , che se ne volesse far materia di severa disciplina . Non dico l'esilio
assoluto della voce , come chiamollo Apuleio , per cinque anni ; esagerazione
favolosa : parlo di quel silenzio , che secondo le varie occorrenze individuali
, fruttasse abito a saper mantenere il segreto. -- και γάρ ουδ' ή τυχούσα
την παρ' αυτούς ή σιωπή, Magnum enim et accuratum inter eos servabatur
silentium. Porfirio, V. P. , 19. E dopo averlo conceduto a questa
necessità poli tica , non lo negherò prescritto anche per altre ragioni più
alte . Che se Pitagora non ebbe gl'intendimenti de' neo - pi tagorici ,
forseché non volle il perfezionamento dell'uomo interiore ? E se al Meiners
parve essere utilissima arte mne monica quel raccoglimento pensieroso , quel
ripetere men talmente le passate cose che ogni giorno facevano i pita gorici ,
e non gli dispiacquero que' loro passeggi solitarii nei sacri boschi e in
vicinanza de'templi , che pur somigliano tanto a vita contemplativa , come potè
esser nemico di quel silenzio che fosse ordinato a questa più intima vita del
pensiero ? Quasiché Pitagora avesse escluso la filosofia dalla sua scuola , e
non vedesse gli effetti che dovessero uscire da quel tacito conversare delle
profonde anime con seco stesse . Ma tutta la sua regola è un solenne testimonio
con tro queste difettive e false opinioni , le quali ho voluto forse un po'
lungamente combattere a più fondato stabilimento di quella vera . I ragionamenti
più belli e più giusti all ' apparenza talvolta cadono alla prova di un fatto
solo , che ne scopre la falsità nascosta . Ma tutte le autorità del mondo non
hanno forza , quando non si convengono con le leggi della ragione : e la storia
che non abbraccia il pieno ordine dei fatti, e non sa spiegarli con le loro
necessità razionali , ne frantende il valore e stringe vane ombre credendo di
fondarsi in verità reali . Noi italiani dobbiamo formarci di nuovo alle arti
trascurate della storia delle idee e delle dottrine ; ma gli scrittori tedeschi
quanto abbondano di cognizioni tanto di fettano alcune volte di senno pratico :
infaticabili nello stu dio , non sempre buoni giudici delle cose. La forma
dell'istituto pitagorico fu opera di un profondo senno per la moltiplicità
degli elementi e de'fini che domandavano ordine e direzioni ; ma a cosiffatte
norme si governavano anche le altre Scuole filosofiche dell'antichi tà , e
massimamente i collegi jeratici , fra i quali ricorderò quello d'Eleusi. Là i
piccoli misteri introducevano ai grandi , e i grandi avevano il vero compimento
loro nell'epoptèa o intuizione suprema I primi con severe astinenze , con lu
strazioni sacre , con la giurata religione del segreto , ec. , celebravansi di
primavera , quando un'aura avvivatrice ri circola per tutti i germi della
natura . I secondi , d'autunno; quando la natura , mesta di melanconici colori,
t'invita a meditare l'arcano dell'esistenza , e l'arte dell'agricoltore ,
confidando i semi alla terra , ti fa pensare le origini della provvidenza
civile . E il sesto giorno era il più solenne . Non più silenzio come nel
precedente ; ma le festose e ri . petute grida ad Jacco , figlio e demone di
Cerere. E giunta la notte santa , la notte misteriosa ed augusta , quello era
il tempo della grande e seconda iniziazione , il tempo dell'eеро ptea . Ma se
tutti vedevano i simboli sacri ed erano appellati felici, non credo però che a
tutti fosse rivelato il segreto delle riposte dottrine , e veramente compartita
la felicità che proviene dall' intelletto del vero supremo . Abbiam toccato di
queste cose , acciocchè per questo esempio storico fosse meglio compreso il
valore del famoso ipse dixit pitagorico , e saputo che cosa veramente impor
tasse vedere in volto Pitagora . Quello era la parola dell'au torità razionale
verso la classe non condizionata alla visione delle verità più alte , nè
partecipante al sacramento della Società ; questo valeva la meritata
iniziazione all ' arcano della Società e della scienza. Di guisa che dalla
profonda considerazione di essi ci viene la necessaria spiegazione di quella
parte del mito , secondo la quale Pitagora é immedesimato coll' organamanto
dell' Istituto : e determinando l'indole della sua disciplina e della sua
religiosa filosofia abbiam trovato la misura dell'idea demonica del . l'umana
eccellenza , che fu in lui simboleggiata . Che era l'ultimo scopo di queste
nostre ricerche. Il Gioberti vede in Pitagora quasi un avatara miligato e
vestito alla greca. Del Buono, IV, p. 151. Noi principalmente abbiamo risguar
dato all'idea italica, ma presupponendo sempre le possibili deriva. zioni
orientali. Ma se anche all'altra parte del mito , la quale concerne gli
studiosi viaggi e l'erudizione enciclopedica di quell'uomo divino , indi non
venisse lume logicamente necessario , non potrebbe in una conclusione piena
quietare il nostro intelletto. Conciossia chè, queste due parti non potendo
essere separabili , ciò che è spiegazione storica dell'una debba esserlo
comunemente dell'altra. Or tutti sentono che ad una Società, i cui membri
potevano essere d'ogni nazione , e che fu ordinata a civiltà cosmopolitica ,
ben si conveniva una sapienza storica raccolta da tutti i paesi che potessero
essere conosciuti. Ma ciò non basta . Già vedemmo , la dottrina psicologica di
Pitagora con cordarsi molto o anche avere medesimezza con l'ontologica ; sicchè
torni impossibile intender bene il domma della me tempsicosi , chi non conosca
come Pitagora spiegasse le sorti delle anime coi periodi della vita cosmica , e
quali proporzioni e leggi trovasse tra questa vita universale e le particolari.
Ma s'egli per l'indole di cosiffatte dottrine vedeva in tutti gli uomini quasi
le sparse membra di un corpo solo, che la filosofia dovesse artificiosamente
unire con vincoli di fra ternità e d'amicizia , dovea anche amare e
studiosamente raccogliere le cognizioni , quante per ogni luogo ne ritro vasse,
quasi patrimonio comune di tutti i seguitatori della sapienza . E forse in
questi monumenti dello spirito umano cercava testimonianze storiche , che comprovassero
o des sero lume ai suoi dommi psicologici; forse quello che fu favoleggiato
intorno alle sue migrazioni anteriori nel corpo di Etalide , stimato
figlio di Mercurio , e nei corpi di Euforbo , di Ermotimo e di Pirro pescatore
delio , ha la sua probabile spiegazione in questi nostri concetti. Questo
mito , che altri narrano con alcune varietà, da Eraclide pon tico é riferito
sull'autorità dello stesso Pitagora (Laerzio, VIII , 4) ; il che , secondo la
storia positiva , è menzogna. Ma nella storia ideale è verità miticamente
significata ; perchè qui Pitagora non è l'uomo , ma l'idea , cioè la sua stessa
filosofia che parla in persona di lui. La psicologia pitagorica essendo anche
una scienza cosmica, nella dottrina segreta deila metempsicosi doveano essere
determinate le leggi della migrazione delle anime coordinandole a quelle della
vita del mondo: TepūTOV TË QATL , scrive Diogene Laerzio, τούτον απoφήναι , την
ψυχήν , κύκλον ανάγκης αμείβου . oav , äraore än2015 évseifar C60! 5 , VIJI.
12. primumque hunc (parla di Pitagora) sensisse aiunt, animam, vinculum
necessitatis immutantem , aliis alias alligari animantibus. Che queste leggi
fossero determinate bene , non si vuol credere ; ma che realmente se ne fosse
cercato e in alcun modo spie . gato il sistema , non vuol dubitarsene . E con
questa psicologia ontologica dovea essere ed era fin da principio congiunta la
morale de'pitagorici. Or io non vorro qui dimostrare che le idee di Filolao ,
quale vedeva nel corpo umano il sepolcro dell'anima , fossero appunto quelle di
Pitagora : ma a storicamente giudicare l'antichità di queste opinioni, debb'
essere criterio grande la dottrina della metempsicosi , non considerata da sè ,
ma nell'ordine di tutte le altre che possono con buone ragioni attribuirsi al
primo maestro. L'anima secondo queste dottrine essendo l'eterna sostanza
avvivatrice del mondo, e non potendo avere stanza ferma in nessun corpo
tellurico , come quella che perpetuamente dee compiere gli uffici della vita
cosmica , dovea mostrarsi a coloro , che le professassero come una forza
maravigliosa che tutto avesse in sè , che tutto potesse per se medesima , ma
che molto perdesse della sua purezza, libertà , e vigore primigenio nelle sue
congiunzioni corporee , etc. Queste idee son tanto connesse , che ricusare
questa inevitabile connessione loro per fon . dare la storia sopra autorità
difettive o criticamente abusate, parmi essere semplicità
soverchia. Finalmente , a meglio intendere l'esistenza di queste adunate
dottrine, giovi il considerare , che se nell'uomo sono i germinativi della
civiltà , essi domandano circo. stanze propizie a fiorire e fruttificare, e
passano poi di terra in terra per propaggini industri o trapiantamenti
opportuni . Laonde se la tradizione è grandissima cosa nella storia dell'incivilimento
, i sacerdoti antichi ne furono principa lissimi organi : e molte comunicazioni
segrete dovettero naturalmente correre tra queste corporazioni jeratiche ;
o quelli che separavansi dal centro nativo , non ne perde vano al tutto le
memorie tradizionali . Questo deposito poi si accresceva con la storia
particolare dell'ordine, che ne fosse il proprietario , e pei lavori
intellettuali de' più cospi cui suoi membri . La gloria privata di ciascun uomo
ecclis savasi nello splendore della Società, a cui tutti comune mente
appartenevano; ed ella compensava largamente l'uomo che le facea dono di tutto
se stesso , esercitando col di lui ministero molta parte de'suoi poteri, e
mostrando in esso la sua dignità . Anco per queste cagioni nella So. cietà
pitagorica doveva esser il deposito di molte memorie e dottrine anteriori alla
sua istituzione , cumulato con tutte quelle che fossero le sue proprie : e fino
all'età di Filolao , quando il domma della scuola non fu più un arcano ai non
iniziati , tutto fu recato sempre al fondatore di essa , e nel nome di Pitagora
conservato , aumentato , e legittimamente comunicato. Essendomi
allontanato dalle opinioni del Meiners intorno all'arcano pitagorico, non mi vi
sono aderito neppure facendo questa , che è molto probabile congettura ,
fondata nella tradizione che Filolao e i pitagorici suoi contemporanei fossero
i primi a pubblicare scritti sulla loro filosofia, e accettata anche dal Boeckh
, e dal Ritter. Il domma pitagorico, dice Laerzio, VIII , 15 , confermato da
Giamblico, V. P. , XXXI , 199, da Porfirio , da Plutarco, e da altri , il domma
pitagorico si restò al tutlo ignoto fino ai tempi di Filolao , μέχρι δε
Φιλολάου ουχ ήν τι γνώναι Πυθαγόρειον δόγμα. Qui adunque abbiamo un termine
storico , che ci sia avvertimento a distin guere le autorità anteriori dalle
posteriori intorno alle cose pitagoriche , e a farne sapientemente uso. - Nė da
cid si argomenti che la filosofia pi tagorica non avesse processo evolutivo in
tutto questo corso di tempi , o che tutti coloro che la professavano si
dovessero assolutamente trovar concordi in ogni loro opinione. La sostanza
delle dottrine , i principali intendimenti , il principio fondamentale
certamente doveano conservarsi : le altre parti erano lasciate al giudizio e
all'uso libero degl'ingegni. Ma qui osserveremo , che il deposito delle
dottrine e di tutte le cognizioni istoriche essendo raccomandato alla memoria
di questi uomini pi tagorici , indi cresceva la necessità di formarli e
avvalorarli col silenzioso raccoglimento alle arti mnemoniche, e di usare
insieme quelle simboliche . Le quali se da una parte erano richieste dalla
politica; dall'altra doveano servire a questi ed altri bisogni intellettuali. E
così abbiamo il criterio opportuno a valutare storicamente le autorità concernenti
questo simbolismo della scuola e società pitagorica. Questo nostro lavoro
non è certamente, nè poteva es sere , una intera storia di Pitagora , ma uno
stradamento, una preparazione critica a rifarla, e una fondamentale no zione di
essa. Stringemmo nella narrazione nostra le anti chissime tradizioni mitiche e
anche le opinioni moderne fino ai tempi d’Jacopo Bruckero , quando la critica
avea già molte falsità laboriosamente dileguato, e molte cose illu strato , e
dopo il quale con argomenti sempre migliori ella vien servendo alla verità
storica fino a ' giorni nostri ; or dine di lavori da potersi considerare da
sé. Però quello era il termine, a che dovessimo riguardare siccome a certo
segno, che finalmente una nuova ragione fosse sorta a giudicare le cose e le
ragioni antiche con piena indipen denza e con autorità sua propria. E allora
anche nell'Italia valorosi uomini aveano già dato e davano opera a un nuovo
studio dell'antichità, quanto si convenisse con le più intime e varie
condizioni della cultura e civiltà nazionali. Contro il Bruckero disputò
dottamente il Gerdil e mostrò non im possibile a fare un'accettevole storia di
Pitagora, quasi temperando con la gravità del senno cattolico la scioltezza di
quello protestante. E il Buonafede non illustrò con indagini originali questo
argomento; inteso com'egli era piuttosto a rifare il Bruckero, che a fare
davvero una sua storia della filosofia: uomo al quale abbondava l'ingegno , nė
mancava consuetudine con le dottrine filosofiche, nè elo quio a discorrerle: ma
leggero sotto le apparenze di una superiorità affettata, e troppo facile
risolutore anche delle difficili questioni con le arguzie della parola. Separò
il romanzo dalla storia di Pitagora con pronto spirito senza pur sospettare nel
mito uno storico valore, e narrò la storia senza profondamente conoscerla. Nè
il Del Mare seppe farla con più felice successo , quantunque volesse mostrare
in gegno a investigar le dottrine . In tutti questi lavori è da considerarsi un
processo d'italico pensiero signoreggiato dall'idea cattolica , e con essa
dommaticamente e storica mente congiunto. Con più indipendenza entrò il Sacchi
in questo arringo; ma uguale agl’intendimenti dell'ingegnoso giovine non fu la
maturità degli studi. Col Tiraboschi, scrittore di storia letteraria, e col
Micali , scrittore di una storia generale dell'Italia antica , le nostre
cognizioni in torno a Pitagora si mantengono non inferiori a quelle de gli
altri popoli civili fino al Meiners , ma con servilità o con poca originalità
di ricerche . Una nuova via liberamente si volle aprire Vincenzo Cuoco, le cui
fatiche non sono da lasciare senza speciale riguardo , e che , se la salute non
gli fosse fallita alla mente, avrebbe anche fatto più frut tuose . Discorre con
criterio suo proprio le antichità della sapienza italica : combatte il classico
pregiudizio di quelle greche : non accetta tutte le conclusioni del Meiners:
aspira a una ricomposizione di storia , non dirò se scevro del tutto neppur '
egli di pregiudizi , o con quanta preparazione di studj , ma certo con
divisamento generoso , e con dimo strazione di napoletani spiriti . Finirò
lodando i bei lavori storici dello Scina sulla coltura italo - greca, e il bel
discorso sul vitto pittagorico , che è l'ottavo di quelli toscani di Antonio
Cocchi, scritto con elegante erudizione, e con quella sobria e pacata sapienza
, che tanto piace nei nobili investigatori del vero. Più altre cose fatte
dagl'Italiani avrei potuto menzionare ; ma quelle che dissi bastavano
all'occorrenza. Fra le anteriori al termine , dal quale ho incominciato
questa menzione , noterò qui di passaggio i lavori inediti di Carlo Dati, e
quelli di Giov. Battista Ricciardi , già professore di filosofia morale nella
Università pisana nel secolo decimosettimo , le cui lezioni latinamente scritte
si conservano in questa biblioteca . Fra tutti quelli da me menzionati il
Gerdil occupa certamente il primo luogo per ri spetto alla esposizione delle
dottrine, quantunque difetti nella critica delle autorità istoriche (Vedi
Introd . allo studio della Relig. lib. II , SS 1 e seg.). Nell'Italia
adunque alla illustrazione dell' argomento che abbiamo trattato non mancarono
storie generali , nè speciali , nè dotte monografie: ma per la maestà
superstite del mondo antico , per la conservatrice virtù della religione , per
la mirabile diversità degl' ingegni , per la spezzatura degli stati , per le
rivoluzioni e il pestifero regno delle idee forestiere la critica nella storia
della filosofia, e conseguentemente in quella di Pitagora , non ha avuto
costante procedimento, nè intero carattere nazionale , nè pienezza di liberi
lavori. Ma non per questo abbiamo dormito : e fra i viventi coltivatori di
queste discipline il solo Gioberti basta a mantenere l'onore dell'Italia nella
cognizione delle cose pitagoriche. Del Buono; IV , pag . 147 e
seg. Invitato dall'egregio Niccolò Puccini a dettare sull'an tico
fondatore dell'italiana filosofia una sufficiente notizia , nè io voleva
sterilmente ripetere le cose scritte da altri , nè poteva esporre in pochi tratti
tutto l'ordine delle mie investigazioni ed idee. lo faceva un lavoro non pei
soli sa pienti , ma per ogni qualità di leggitori , i quali non hanno tutti il
vero senso storico di questi oggetti lontanissimi , e troppo spesso , quanto
meno lo posseggono , tanto più son pronti ai giudizi parziali e difettivi.
Pensai di scriver cosa , che stesse quasi in mezzo alle volgari cognizioni
sopra Pi tagora e a quella più intima che se ne vorrebbe avere ; che fosse una
presupposizione degli studi fatti, e un comincia mento di quelli da potersi o
doversi fare tra noi . E peroc chè tutti , che mi avevano preceduto nella
nostra Italia, erano rimasti contenti alla storica negazione del mito io
cominciai dalla razionale necessità di spiegarlo , e poste alcune fondamenta
salde , di qui mossi a rifare la storia . Per quanto io naturalmente rifugga
dalla distruzione di nessuna , e però degnamente ami la creazione delle nuove
cose, non voglio dissimulare che dopo aver provato potersi interpretare il mito
e conservare Pitagora - uomo alla storia , riman sempre alcun dubbio , via via
rampol lante nell'anima dalla profonda considerazione di queste cose antiche.
Ma laddove non è dato vedere , senz'ombra nè lacune, la verità , ivi la
moderazione è sapienza necessa ria , e la probabilità dee potere stare in luogo
della certezza . Di che forse potrò meglio ragionare in altra occasione . È
desiderabile che alcun diligente cercatore delle antichità ita liche consacri
le sue fatiche a raccogliere tutti gli elementi semitici che possono trovarsi nella
primitiva formazione del nostro viver civile non separandoli dai pelasgici , e
che faccia un lavoro pieno, quanto possa , intorno a questo argo mento . Forse
alcune tradizioni che poi divennero greche erano prima fenicie : forse nei
primordi di Roma , anche pelasgica , quegli elementi sono più numerosi e meno
in frequenti , che altri non creda : forse alla storia di Pitagora potrebbe
venir nuovo lume da questa via di ricerche. Ho sempre reputato anch' io
molto simile al vero l'opinione ulti mamente mantenuta dall'egregio Conte Balbo
; quella cioè della consan . guinità semitica dei pelasgbi . Poi con nuove
ricerche vuolsi illustrare l'azione e l'influsso che i Fenici esercitarono
nella nostra civiltà antica . Il corso trionfale dell ' Ercole greco , che compie
la sua decima fatica mo vendo con le sue forze da Creta , e poi dalla Spagna e
dalle Gallie pas . sando in Italia ; corso narrato da Diodoro Siculo (B.6l .
Hist. , IV, 17 seqq. Wess.) sulle tradizioni conservate da Timeo , e che ha
tutte le apparenze di una magnifica epopca , è da restituirsi all'Ercole Tiri ,
come fu a buon dritto giudicato dall'Heeren ( De la politique, e du commerce,
etc. II , sect . I , ch . 2) . E il luogo sortito dai fati alla futura Roma è
notabile scena alle azioni dell'eroe che per tutto abbatte i tiranni , volge al
meglio le istituzioni e le condizioni del suolo , e insegna le arti della vita
; simbolo della civiltà che seconda alle navigazioni, ai commerci , alle
colonie , alle idee, agl'influssi fenicii. Il mito , poi divenuto romano ,
intorno a Caco , e a Potizio e Pinario, forse allude alle condizioni vulcaniche
della terra , e alla coltura che indi vi s' inducesse per opera dei semiti, o
di altri . E non poche voci semitiche tuttavia restano nella lingua del Lazio ,
e a radice semitica potrebbersi recare molti nomi che hanno valore istorico nei
primordi ro mani. Quanto a Pitagora , non vorremo qui aggiungere altro a quello
che abbiam detto de ' suoi viaggi orientali Qui ricorderemo che l'idea sto rica
per esso rappresentata ha gran medesimezza con quella di tutta la no stra
civiltà primitiva ; e quanti elementi semitici dovessero essere in que sta
nostra civiltà antichissima può argomentarsi anche da queste nostre indicazioni
quantunque molto imperfette. Ma è osservazione da non potersi
pretermettere , che la filosofia non prima ha stabilimento nelle terre
italiane, che non si contenta alle speculazioni sole , ma quasi inspi rata dal
clima par conformarsi alla natura di questi nostri uomini, e volge le sue arti
alla pratica. Per altro non sia chi dimentichi che i primi ordinatori delle
civiltà furono anch'essi sapienti : furono sapienti i fondatori delle ari
stocrazie jeratiche, e usarono il sapere a disciplina so ciale e a stromento
d'impero. L'idea , di qualunque natura ella siasi , tende sempre per impeto suo
proprio a estrin secarsi in un fatto ; la quale non solo è figlia divina della
Mente, ma è piena del valore di tutte le esterne cose , che la fanno nascere, e
alle quali spontaneamente ritorna. Ma quando la sapienza, posta nella
costituzione delle città, o professata nei recessi sacerdotali , non basta più
ai bisogni del secolo , e il secolo produce alcuni privilegiati ingegni che
debbano darle gagliardo moto ed accresci mento , allora questi nuovi pensatori
la fanno unico scopo a tutti i loro studi , e cosi compiono il grande ufficio a
che nacquero destinati. Le cose pubbliche sono oggimai ordi nate, e
l'amministrazione loro è nelle mani di tali che troppo spesso sarebbero i più
indegni di esercitarla; e i popoli, i cui mali richiedono pronti e forti
rimedi, in quelli pazzamente si compiacciono ed imperversano , da questi
ciecamente aborriscono. E la crescente copia delle cose umane domanda
convenevole partizione di lavori. Onde al magnanimo amico della verità e del
bene non altro resta se non l'asilo della mente profonda , l' immensità luni
nosa , la libertà , la pace del mondo ideale: e là egli cerca la verace patria,
là eseguisce i suoi civili uffici ; e a riformare il mondo, dal quale sembra
aver preso un volontario esiglio, manda l'onnipotente verità, e ci opera il
bene e ci ottiene il regno con la virtù dell'idea. Però a storicamente
giudicare gl'intendimenti pratici della filosofia pitagorica, vuolsi
considerarla per rispetto allo indirizzo al tutto speculativo della scuola
jonica, e alle condizioni generali della vita , onde questa scuola non fu
rivolta all'operazione. Lo che facendo, un'altra volta si scopre e sempre
meglio s'intende che le instituzioni di Pitagora non hanno una semplice
conformità col presente stato del loro secolo, ma profonde basi nel passato,
dalle quali tendono a infu turarsi in un'epoca migliore con quel principio di
universalità storica, scientifica e sociale, che abbiamo, quanto bastasse,
dichiarato. Se poi vogliamo perfezionare i nostri concetti intorno
all'opportunità di questo italico Instituto, guardiamo anche ai tempi moderni ,
nei quali tutto è pubblicità, diffusione e comunicazione di cose; onde il
sapere e l'istruzione dalle sommità sociali discorrono scendendo fino alle
estremità più umili, e col far dono di sè cercano fruttificazione nuova dalle
vive radici e robusto ceppo del grand'albero sociale. Non credo nè che tutti
gl'ingegni si ridurranno mai ad una misura comune, nè che l'altezza né la
pienezza dello scibile potrà mai essere accessibile e godevole parimente a
ciascuno. L'educazione dell'umanità in questa mirabile èra che per lei
incomincia, sarà universale per questo, che ciascuno secondo le sue facoltà,
potrà e dovrà dar loro la forma convenevole, e sapere quello che gli sia
bisogno, e fare quello che gli si compela e che meglio il sodisfaccia. Ma
quanto l'umanità sarà grande, tanto gli uomini saranno, non dico
individualmente piccoli , i quali anzi parteciper ranno in comune a tanta
grandezza, ma a distanze degna mente proporzionate diseguali verso di essa, e
fra loro. Nel secolo di Pitagora il genere umano non aveva né i prodi giosi
stromenti che ora possiede , nè la coscienza delle sue forze consociate: lo che
vuol dire che umanità verace e grande non vi era , o non sapeva di essere , e
bisognava formarla . Il perchè una società , che introducesse fratellanza fra
greci e barbari, unioni intime fra molti stati tal volta microscopici, commerci
fra genti lontane , grandezza fra idee limitate e passioni anguste, lume di
discorso fra consuetudini cieche e forti, l'umanità insomma nell'uomo e nel
cittadino delle cittadinanze divise, era opportunissima ai tempi. Una
disciplina comunicantesi a tutti avevano que piccole cittadinanze greche ed
italiche (e però le antiche repubbliche furono anche sistemi di educazione) ma
misurata dalle leggi fondamentali, non avviata con norme re golari a sempre
nuovo perfezionamento, dominata dagl'in teressi, esposta a mille abusi e
corruzioni, e sempre circo scritta ad un luogo A superare tutti questi
limiti bisognava , lasciando le moltitudini, intender l'occhio ai migliori di
tutti i paesi, e consociarli a consorterie , che avessero la loro esistenza
propria, e formassero uomini nuovi a bene delle antiche patrie. Cosi Archita
seppe essere nobilissimo Pitagorico, e governare Taranto con senno pratico, e
con durre sette volte i suoi concittadini a bella vittoria combat. tendo contro
i Messapi. E il pitagorico Epaminonda fu il più grande o uno dei più grandi
uomini della Grecia. Prima che le cose umane cospirassero tutte a cattolicità
per impeto necessario , doveano passare molti secoli , e molte arti essere
variamente sperimentate dall'uomo. Roma pagana facea servir le colonie a più
concorde universalità d'impero, e Roma cristiana gli ordini monastici. Ma
queste arti ed instituti sono buoni finché hanno convenienza coi tempi. Quando
l'umanità si muove a scienza, a educazione , a generale congiunzione di forze e
d'interessi, le comunità parziali o debbono conformarsi a questa legge
universale, o riconoscersi cadaveri e lasciarsi seppellire ai vivi . L'indole e
gli spiriti aristocratici , che per le condi zioni di quella età dove assumere
e mantenere il pitagorico Instituto, furono (e parrà contradizione a chi poco
pensa) principalissima causa della sua ruina. Che se nelle repubbliche della
Magna Grecia il reggimento degli ottimati pre valeva degenerando spesso ad
oligarchia, tanto peggio. Perchè un'aristocrazia graduata su meriti personali,
e forte in un sistema di consorterie filosofiche e per superiorità di scienza e
di virtù, stava fronte di un'altra fondata sui privilegi ereditarii delle
famiglie e sulle ricchezze, e forte negli ordini della vita comune : quella,
disposta ad usare i dritti della natura signoreggiando col valore e col senno;
questa , intesa a conservare i dritti civili con gelosia dispet tosa e
riluttante. La patria comune, le ragioni del sangue , il vantaggio pubblico ,
gli effetti della buona educazione , la prudenza, la bontà, la moltiplicità dei
pitagorici potevano impedire il male o temperarlo. Ma i giustamente esclusi
dall'ordine, cordialmente l'odiavano: grande era la depravazione de' costumi:
frequenti le mutazioni politiche: e popolani ed aristocratici facilmente si
trovavano d'accordo a perseguitare nei collegi la virtù contraria a quelle loro
depravazioni o interessi . E principalmente il furore de mocratico e quello
tirannico stoltamente irruppero a di struggerli. Pitagora, come
Ercole, le istituzioni pitagoriche, come le doriche costantemente avversano
alle tirannidi monarchiche e popolari, e le distrug gono ; concordanza
notabilissima. Indi le tirannidi popolari e monarchiche dovevano essere
naturalmente avverse al pitagorismo che dalle prime fu miseramente
distrutto. Gl' Italiani possono veder narrata la sua caduta dal Micali , e da
altri ; ond'io , non potendo qui entrare in discussioni critiche , mi rimango
dal ragionarne. Proporrò invece una osservazione op . portuna sopra un luogo
che leggesi in Diogene Laerzio , e che fin qui passo trascurato perchè mancava
il criterio a fare uso storicamente del mito : αλλά και αυτός εν τη γραφή φησι
, δι' επτά διακοσίων ετέων έξ αϊδέω παρα yeyevñsal és ávspútous ; ipse quoque
(Pythagoras) scribens ait, per ducentos et septem annos ex inferis apud homines
ailfuisse (VIII. 1.) Che vuol dir cið? È egli una assurdità contennenda ? lo
non lo credo. Quando ci parla Pitagora stesso , e miticamente , cið le più
volte è argomento , non dell'uomo, ma dell'idea . Or chi cercasse in queste
parole un valore fisiologico secondo l'antica sentenza , che poneva
nell'inferno (in Aide) nei seni occulti della gran madre i germi della vita ,
che poi ne uscissero in luce , in luminis auras , qui troverebbe indicato il
nascimento e il troppo lungo vivere di Pitagora-uomo; favola inaccettevole . Ma
ragionandosi qui dell'idea impersonata nell'uomo , quella espressione tę didew
, ex inferis, non vale una provenienza , che , recata ad effetto una volta ,
indi sia asso . lutamente consumata ; ma una provenienza , che si continua
finchè duri la presenza della mitica persona , di che si parla , fra gli
uomini. Onde , finchè Pitagora per dugento sett'anni è cosi presente , lo è in
forma acco. modata alle sue condizioni aidiche , cioè recondite e misteriose :
ex inferis o più conformemente al greco , è tenebris inferorum adest. Le quali
condi zioni convenevolmente s'intenderanno, se ci ridurremoa memoria , che la
discesa all'inferno, l'occultamento nelle sotterranee dimore è parte es
senzialissima così nel mito di Orfeo e di Zamolcsi , come in quello di Pita
gora , che hanno medesimezza fra loro. Ed ella significa o la mente che pe
netra nelle cose sensibili per sottoporle al suo impero , ovvero , come nel
caso nostro , quasi la incarnazione dell'idea puramente scientifica nella
sensibilità del simbolo , dal quale si offre poi anche ai profani in forma
proporzionata alla loro capacità , o passa invisibile fra loro come Minerva,
che abbia in testa l'elmo di Plutone, o di Aide. Ma acciocchè con pieno effetto
possa esser presente , è mestieri che altri sappia trarla fuori dell'in voglia
simbolica , ég aidéw. Adunque , se queste nostre dichiarazioni non fossero
senza alcun fondamento nel vero , noi avremmo ricuperato alla storia un
documento cronologico , da valutarsi criticamente con gli altri risguardanti
alla durata dell'Instituto pitagorico. Imperocchè , secondo questa
testimonianza mitica , dalla fondazione di esso alla età di Filolao , e degli
altri che pubblicarono le prime opere intorno alla loro filosofia , correrebbe
lo spazio poco più di due secoli . E per tutto questo tempo Pitagora sarebbe
stato presente agli uomini dall' inferno , d'infra le ombre di Ai de; cioè la
sapienza da lui , e nel suo nome insegnata , avrebbe sempre parlato , come
realmente fece, con un arcano linguaggio . – A rimover poi altre
difficoltà procedenti da preoccupazioni istoriche, distinguasi la general
coltura degli antichissimi uomini dalla scienza contemporaneamente posseduta
dai collegi sacerdotali. Quello che sarebbe anacronismo intellet . tuale , chi
ne facesse riferimento ai molti , talvolta è fatto istorico che vuolsi
attribuire ai pochi , cioè all'aristocrazia dei pensanti. Nè io qui parlo della
scienza della natura esterna ; ma dell'uso filosofico dell'umano
pensiero. Altre cause di male procedevano da quel fato antico onde tutte
le cose mortali dall'ottima o buona condizione loro rivolgonsi a
degenerazione e scadimento. Nè solo per vizio intrinseco ; ma ancora perchè la
società corrotta cor rompe poi coloro che voleano migliorarla , e depravati gli
disprezza o rifiuta. I nuovi Orfici, degeneri dalla primitiva disciplina ,
professavano solenni ipocrisie, e con imposture invereconde pigliavano a gabbo
il credulo volgo. Coronati di finocchio e di pioppo e con serpentelli in mano
corre vano per le vie nelle feste Sabazie , gridando come uomini inspirati , e
danzando: chi divoto fosse purificavano : inse gnavano ogni spirituale rimedio
, e preparavano a felicità sicura . E intanto seducevano le mogli altrui , e
con pie frodi insidiavano alle tasche de' semplici ; testimoni sto rici ,
Euripide, Demostene e Teofrasto. A queste disorbi tanze non vennero mai , nè
potevano , i pitagorici antichi. Ma la severità filosofica o anche il loro
fasto schifiltoso trasmutossi in cinismo squallido , la religione in supersti
zione , la virtù in apparenze vane ; sicchè furono bersaglio ai motti dei
comici. Le quali corruzioni sono massima mente da recare alla malvagità dei
tempi , e all' impotenza della regola nelle avversità e varie fortune
dell'Instituto, cioè non veramente ad esso ma si ai falsi esecutori di quella
regola. Degenerazioni ed abusi sono anche notati nel vecchio pitagorismo:
Ritter, 1.c.; Lobeck, De pythagoreorum sententiis mysticis, diss. II , ec. –
Poi vennero le contraffazioni affettate ; e Timeo nel libro nono delle sue isto
rie , e Sosicrate nel terzo della Successione dei filosofi recavano a Diodoro
d'Aspendo il cangiamento primo nell' abito , e nel culto esterno del corpo.
Timaeus . . . . scriptum reliquit .... Diodoro ...diversum introducente or
natum , Pythagoricisque rebus adhaerere simulante .. Sosicrales .... magnam
barbam habuisse Diodorum narrat , palliumque gestasse , et tulisse comam ,
alque studium ipsorum Pythagoricorum , qui eum antecesserunt , for ma quadam
revocasse, qui vestibus splendidis , lavacris , unguentis , lonsura que solita
utebantur. Ateneo, Dipnos. IV , 19 , ove si posson leggere anche i motti de'
comici — Diog. , Laert. , VIII , 20. Al capo di questa nobile
istituzione non viene per fermo diminuzione di gloria per turpezze o follie di
seguaci indegni , o per infelicità di tempi . Fu illustre il pitagorismo per
eccellenza di virtù rare , per altezza e copia di dottrine , per moltiplicità
di beni operati all'umana ge nerazione , per grandezza di sventure , per lunga
e varia esistenza . Prima che un pelasgo-tirreno gli desse ordini e forma nella
Magna Grecia , già sparsamente stava , come di cemmo, nell'Egitto e nell'Asia ,
e nei migliori elementi della civiltà ellenica e dell'italica . Intimamente
unito con quella dorica penetrò per tutta la vita degl'italioti e si diffuse per
tutti i procedimenti della loro sapienza : fu ispiratore e maestro di Socrate e
di Platone, e con essi diede la sua filosofia al con tinente greco : e se stava
nelle prime istituzioni di Roma , poi ritornovvi coi trionfi del popolo
conquistatore , e nella romana consociazione delle genti quasi lo trovate in
quegli effetti cosmopolitici a che miravano i concetti primi del suo fondatore.
Dal seno della unitrice e legislatrice Roma usciva più tardi , come da fonte
inesausta , quell'incivili mento che or fa la forza e il nobile orgoglio della
nostra vita . Che s' io a tutte le nazioni, che più risplendono nella moderna
Europa , tolgo col pensiero questa prima face di ci viltà che ricevettero dalle
imperiose mani di Roma cosi pagana come cristiana , poco più altro veggo
restare ad esse antiche che la notte della nativa barbarie . Le basi di tutto
il mondo moderno sono e rimarranno sempre latine , perchè in Roma si conchiuse
tutto l'antico ; e il pitagorismo , che noi con tutta la classica sapienza
ridonammo ai moderni , lo troviamo congiunto con tutte le più belle glorie
della nostra scienza comune , e quasi preludere , vaticinando , alle
dottrine di Copernico, di Galileo , di Keplero, del Leibnitz e del Newton .
Bello adunque di sapienza e di carità civile fu il consi . glio di Niccolò
Puccini , il quale , tra le pitture , le statue ed altri ornamenti , che della
sua villa di Scornio fanno un santuario aperto alla religione del pensiero ,
volle che sorgesse un tempio al tirreno fondatore dell'antichissima filosofia
italica . Chè dove i nomi di Dante , di Michelan giolo , del Macchiavelli , di
Galileo , del Vico , del Ferruccio , di Napoleone concordano con diversa nota
nel concento delle nazionali glorie , e insegnano riverenza e grandezza alle
menti degne di pensarli, a queste armonie monumentali della nostra vita sarebbe
mancato un suono eloquentissimo se il nome di Pitagora non parlasse all'anima
di chi vi ri. sguardi . E se Pitagora nel concetto organico della sua stu penda
istituzione comprese il passato e l'avvenire , la ci viltà e la scienza ,
l'umanità ed i suoi destini e se ad esecuzione del suo altissimo disegno chiamò
principalmente, come la più degna di tutti i paesi , l ' Italia ; qui l'Italia
comparisce creatrice e maestra di arti , di dottrine , di popoli ; e dopo avere
dall'incivilimento antico tratto il moderno , con Napoleone Bonaparte grida a
tutte le na zioni , grida ai suoi magnanimi figliuoli, che al più grande
svolgimento degli umani fati ella massimamente sa inau gurare le vie e vorrà
con generose geste celebrarle. Cosi io scrissi in tempo di preparazione al
risorgimento italiano. E qui una filantropia educatrice movendo a convenevole
espli cazione nello spirito dei fanciulli poveri i nativi germi del sapere e
della virtù , mostra la differenza fra i tempi op portuni al magistero
pitagorico , e i nostri : mostra le moltitudini chiamate a rinnovare la vita
dalle fondamenta , e l ' aristocrazia non più immola in ordini artificiali a
privilegiare l'infeconda inerzia , ma sorgente da natura ed estimata secondo i
meriti dell'attività perso nale : e accenna alla forma nuova degli ordini
pubblici , destinati a rappresentare, tutelare, promuovere questa forte e ricca
e armoniosa esplicazione di umanità . — Quando l'ora vespertina vien serena e
silenziosa a invogliarti alle gravi e profittevoli meditazioni , e tu movi
verso il tem pio a Pitagora inalzato in mezzo del lago . L'architettura è
dorica antica , come domandava la ragione delle cose : le esterne parti ,
superiore e inferiore , sono coperte : quella che guarda a mezzogiorno ,
distrutta : e per tutto l'edera abbarbicata serpeggiando il ricopre , e varie e
frondose piante gli fanno ombra misteriosa all'intorno. Al continuo succedersi
delle solcate e lente acque avrai immaginato la fuga dei tempi già nell '
eternità consumati , i quali dee ri tentare il pensiero a raccoglierne la
storia ; e in quella ruina , in quell'edera, in quelle folte ombre avrai veduto
i segni della forza che agita e distrugge tutte le cose mortali , e che della
spenta vita non lascia ai pietosi investigatori se non dissipati avanzi e
vastità deserta . Ma sull'oceano delle età vola immortale la parola narratrice
dei corsi e de' naufragi umani , e conserva anco in brevi indizi lunghe
memorie. E se tu levi gli occhi a quel frontone del tempio , leggerai in due
sole voci tutta la sapienza dell'Italia pitago rica : Αληθευειν και ευεργετείν
: dir sempre il vero , e operar ciò che è bene . Hai mente che in questo
silenzio arcano in tenda l'eloquenza di quelle voci ? Congiungi questo docu
mento con gli altri , che altamente suonano dalle statue , dalle pitture ,
dalle scuole , da tutte le opere della natura e dell'arte in questa Villa ,
sacra ai fasti e alle speranze della patria , e renditi degno di avverarle e di
accrescerli. A tanta dignità volea suscitarti Niccolò Puccini alzando questo
tempio a Pitagora. Dacier non determina l'anno della nascita di Romolo, e pone la
fondazione di Roma nel primo anno della VII Olimpiade, 3198 del mondo, 750
avanti G.C. Riferisce la morte di Romolo al primo anno della XVI Olimpiade ,
3235 del mondo , 38 di Roma , 713 avanti G. C. Gli editori di Amyot rinchiudono
lo spazio di tutta la vita di Romolo dal l'anno 769 all'anno 715 av. G. C., 39
di Roma . I. Intorno al gran nome di Roma , la gloria del quale è già distesa
per tutti gli uomini, non s'accordano gli scrittori in asserire chi e per qual
cagione dato lo abbia a quella città. " * Fra le varie cagioni , alle
quali si attribuisce dagli scrittori l'oscurità della prima storia romana ,
deve annoverarsi prima l'incendio de' Galli , nel quale fu rono distrutti
monumenti d'ogni maniera. Spesso già dopo il Beaufort, e a' di nostri più che
mai , s'è disputato , se l'origini di Roma , quali le narrano Livio e Dionigi ,
sieno verità storica o favola poetica . Quello che può dirsi in generale si è ,
nè tutto nelle tradizioni da lor raccolte esser favoloso né lutto vero. Cice
rone in più luoghi ci attesta che nei conviti era uso cantare le antiche
memorie e le antiche imprese. Un carme epico , però , su questo argomento prima
di quel d'Ennio non si conosce ; e che un solo carme sia stato fonte di tutte
le storie di Roma sotto i re non è possibile a credersi . Plutarco stesso ci
mostra d'aver avuto alle mani molti e fra lor dissenzienti che scrissero
intorno ad esse . Vi banno certo , e ognun se n'avvede , nelle lor narrazioni
delle cose poetiche , ma ve d’ha di semplicissime e schiette , come quelle che
riguardano l'antica forma di governo, la religione , i sacerdozj ; tratle , non
possiam dire , se da’ libri dei pontefici, o da' pubblici annali , i quali , al
dir di Cicerone , risalivano almeno al tempo de' re . Uoa delle guide scelte da
Plutarco è Diocle di Pepareto, autorevole tanto, che Fabio Pittore anch'egli in
molti luoghi il prese a guida. Diocle però scrisse non tutta la storia , ma le
origini solo , ossia la fondazione di Roma, e non pare sia sceso più in giù di
Romolo. Plutarco per alcun poco lo segue solo , indi con allri ch'ei nomina in
diversi luoghi . Il primo tra essi è il re Giubba , che avea PLUTARCO . - 1. 5
50 ROMOLO . Ma altri dicono che i Pelasgi, dopo di essere andati va gando per
la maggior parte del mondo, ed aver soggiogata la maggior parte degli uomini ,
si misero poi ad abitare ivi , e che dal lor valore nell'armi diedero il nome
alla città. ? Altri vogliono 3 che essendo presa Troia , alcuni , che sen
fuggirono, trovate a caso delle navi, sospinti fossero daʼventi in Etruria ed
approdassero alle foci del Tevere , dove , es sendo le donne loro già
costernate e perplesse , e mal tolle rar potendo più il mare , una di esse ,
che chiamavasi Roma, e che di nobiltà e di prudenza sembrava di gran lunga su
perar tutte le altre , abbia suggerito alle sue compagne di abbruciare le navi.
Ciò fatto, dicono che gli uomini da prima se ne crucciassero : ma poi ,
essendosi per necessità collocati d'intorno al Pallanzio , e riuscendo loro in
breve tempo la cosa meglio assai che non avevano sperato , esperimentata avendo
la fertilità del luogo , e bene accolti ritrovandosi dai vicini , oltre gli
altri onori che fecero a Roma , denominarono la citlå pure da lei , ch' era
stata cagione che si edificasse. E vogliono che fin da quel tempo siasi
conservato il costu me che hanno le donne , di baciar nella bocca i loro con
sanguinei ed attenenti ; poichè anche quelle , quand' ebbero abbruciate le navi
, questi baciari e queste amorevolezze usa ron cogli uomini, pregandoli, e
cercando di mitigarne la collera. Altri poi affermano , Roma, figliuola d'Italo
e di scritta la storia di Roma dalla sua origine , e ch'egli chiama
diligentissimo . Non cita Dionigi che una volta e per dissentirne ; ma in
troppi luoghi, ove bol no mina , s'accorda con lui . Costoro invasero la
Tessaglia in tempi antichissimi, ed è certo che almen 1800 anni prima dell'era
nostra erano sparsi in tutta la Grecia ed anche in Italia . a Poichè fafen
significa valentia o fortezza. 3 Così Eraclide sovrannomato Lembo ,
contemporaneo di Polibio . 4 Invece d'Etruria e Tevere l'originale ha Tirrenia
e Tebro. 5 Strabone racconta d'un caso consimile accaduto intorno a Crotone ,
presso il fiume Neeto ( 1. VI ) . Ma il fatto che alla fondazione di Roma
appartiene , e narrato da Aristotele presso Dionigi d'Alicarnasso ( St. , l . I
) . Sennonchè egli dice che le navi erano greche , e le donne che le
abbruciarono , prigioniere troiane . Specie di fortezza sul monte Palatino
fabbricata dagli Aborigeni o primi abitanti del paese . ? Nondimeno Antioco
siracusano , vissuto un secolo prima d’Aristotele , af. ferma che lungo tempo
prima della guerra troiana eravi in Italia una città nomi nata Roma. 6 ROMOLO .
51 Leucaria , ' altri la figliuola di Telefo d'Ercole , ad Enea spo sata , ed
altri quella di Ascanio , figliuolo di Enea , aver po sto il nome alla città ;
altri aver la città fondata Romano , figliuolo di Ulisse e di Circe ; altri
Romo di Ematione , da Diomede lå mandato da Troia; altri quel Romo signor dei
Latini , il quale aveva scacciati i Tirreni venuli da Tessaglia in Lidia , da
Lidia in Italia. Nè già coloro che con più giu sta ragione sostengono che fu
alla città questa denomina zione data da Romolo , concordi sono intorno alla di
lui ori gine. Conciossiachè alcuni dicono ch'egli figliuoio fu di Enea e di
Dessitea di Forbante , ed ancora bambino fu portato in Italia insieme con Romo
fratello suo , e che , periti essendo . gli altri schifi per l'escrescenza del
fiume, piegatosi placida mente sulla morbida riva quello , in cui erano i
fanciulli, essi , fuor di speranza , restaron salvi , e da essi fu poi la città
appellata Roma. Alcuni pretendono che Roma , figliuola di quella Troiana
sposata a Latino di Telemaco , partorito abbia Romolo ; ed alcuni che ne sia
stata madre Emilia , fi gliuola di Enea e di Lavinia , congiuntasi con Marte ;
" e al cuni finalmente raccontano cose favolosissime intorno alla di lui
generazione , dicendo che in casa di Tarchezio re degli Albani , uomo
scelleratissimo e crudelissimo, si mostrasse un portento divino. “ Imperciocchè
narrano che , sollevandosi un membro genitale dal focolare , continuasse a
farsi vedere per molti giorni , e , ch'essendovi in Etruria l'oracolo di
Tetidė, fosse da questo recata risposta a Tarchezio , che una vergine si
dovesse congiunger con quel fantasma, dalla quale nasce rebbe un figliuolo per
virtù chiarissimo , ed insigne per for tuna e per gagliardia. Avendo pertanto
Tarchezio dello que sto vaticinio ad una delle sue figliuole , e comandatole di
usar Seguendo l'ottima lezione , meglio Leucania. Meglio: la moglie di Ascanio
figliuolo d'Enea . 3 Della venuta di questi Lidj in Italia parla Erodolo nel
primo. 4 Con più diligenza Dionigi d'Alicarnasso , nel primo delle sue Storie ,
reca i nomi de' greci e de' romani autori , i quali tennero queste sentenze
diverse in. torno all'origine di Roma. E son essi Cefalone, Damaste ,
Aristotele , Calia , Senagora , Dionisio calcidese , Antioco siracusano , ed
altri. 5 Simili apparizioni sono frequentissime nella storia de' secoli oscuri
. 6 Forse di Temide , chiamata da' Romani Carmente , a cagione appunto de '
suoi oracoli. D'un oracolo di Telide mai non s'intese parlare. 6 2 ROMOLO. con
quel mostro, dicono ch'essa non degnò di cið fare, ma in sua vece mandovvi una
fante ; che Tarchezio , come seppe la cosa , gravemente crucciatosi , le fece
prender ambedue per farle morire ; ma che poi egli , avendo in sogno veduta
Vesta , 4 che gliene vietò l'uccisione , diede a tessere alle fanciulle
imprigionate una certa tela, con questa condizione di dar loro marito , quando
avesser finito di tesserla ; che quelle però andavano tessendo di giorno , ma
che altre per ordine di Tarchezio ne disfacevano il lavoro di notte ; che ,
avendo la fante partoriti due gemelli , Tarchezio li diede ad un certo Terazio
, comandandogli di toglier loro la vita ; che co stui, avendogli deposti vicino
al fiume, una lupa andava poi frequentemente a porger loro le poppe , ed
augelli d'ogni sorta , portando minuti cibi , ne imboccayano i bambini , fin
tanto che cið veggendo un bifolco, e meravigliandosene, prese ardire di
avvicinarsi , e ne levo i fanciulletti; e che finalmente essi , in tal maniera
salvati e allevati, attaccarono Tarchezio e lo vinsero. Queste cose sono state
scritte da un certo Promatione , che compild la Storia Italiana. II. Ma il
racconto , che merita totalmente credenza e che ha moltissimi testimonj , è
quello , le di cui particolarità principali furono la prima volta pubblicate
fra'Greci da Dio cle Peparetio , seguito in moltissimi luoghi anche da Fabio
Pittore. Vi sono pure su queste varj dispareri ; ma , per ispe dir la cosa in
poche parole , il racconto è in questa maniera.“ De’re , che nacquero in Alba
discendenti da Epea , il regno " Vesta , perchè il portento erasi fallo
vedere nel focolare . ? Storico sconosciuto . 3 Storico anteriore alla guerra
di Annibale, ai tempi della quale visse Fabio Pittore, che scrisse gli Annali
di Roma , e , come già si accenno , ed è pur detto qui appresso , in moltissimi
luoghi lo prese a guida. 4 Fabio , che segui Diocle in moltissimi luoghi, qui
l'abbandona, e Livio dice che Proca lasciò l'impero al primogenito Numitore ,
aggiugnendo plus ta men vis poluit quam voluntas palris aut reverentia ætatis ;
pulso fralre , Amulius regnat. Due cose combattono adunque l'opinione da
Plutarco adottata , cioè la testimonianza contraria degli altri storici , e il
diritto incontrastabile che il primogenito aveva fra gli Albani alla paterna
corona. 5 Da Enea fino a Numitore ed Amulio, nello spazio di 353 anni, vi
furono tredici re d'Alba . Toltine i quarantadue anni regnati da Amulio , sono
311 , seb bene Virgilio ne conti soli 300. Alba era una città del Lazio presso
Roma. ROMOLO. 53 pervenne per successione a due fratelli, Numitore ed Amulio.
Essendosi da Amulio divisa tutta la facoltà loro in due parti , e contrapposto
al regno le ricchezze e l'oro trasportato da Troia, Numitore scelse il regno.
Avendo Amulio dunque le ricchez ze, e quindi maggior possanza che non aveva
Numitore, usurpó facilmente il regno ; e, temendo che nascessero figliuoli
dalla figliuola di questo , la creò sacerdotessa di Vesta , onde viver dovesse
mai sempre senza marito e serbando verginità.3 Al tri chiamano costei Ilia ,
altri Rea ed altri Silvia. Non molto tempo dopo fu trovata gravida contro la
legge alle Vestali costituita ; e perch'ella non ne sostenesse l ' estremo
suppli zio , Anto , figliuola del re , intercedette per lei , pregando il padre.
Fu però chiusa in prigione a condur vita affatto sepa rata da ogni altra
persona , acciocch'ella non potesse nascon dere il suo parto ad Amulio. Partori
poi due bambini grandi e belli oltre misura ; onde , anche per questo vie più
intimo ritosi Amulio , comandò ad un servo che li prendesse e get tasseli via.
Alcuni dicono che questo servo nominavasi Fau stolo , ed alcuni , che non già
costui , ma quegli , che da poi li raccolse , avea questo nome. Posti adunque i
bambini in una culla , discese egli al fiume per gettarveli dentro , ma ,
veggendolo venir giù con gran piena e fiolloso, ebbe timor d'inoltrarsi, e
depostili presso la riva , andò via. Quindi , crescendo il fiume, sollevossi
dolcemente dall'inondazione la culla , e fu giù portata in un luogo assai molle
, il quale ora chiaman Cermano, ma una volta , com'è probabile , chiamavan
Germano , poichè chiamavan Germani i fratelli . III. Era quivi poco discosto un
fico selvatico , il quale appellavano Ruminale , o dal nome di Romolo, come
pensa la maggior parte , o perchè vi stessero all'ombra sul mez * Nomitore
scrive sempre Plutarco. • Aveva prima Amulio fatto uccidere insidiosamente il
figlio di Numitore per nome Egesto ( Dione , 1. 1 ) . 3 Trent'anni a quelle
fanciulle sacre conveniva esser caste e senza marito. 4 Varrone chiama Germalus
il luogo, e Cermalus il dice Festo . Da Var rone prese Plutarco ciò che
leggiamo in questa vita dell'anno lla fondazione di Roma e della nascita di
Romolo , il quale calcolò l'uno e l'altro ( anzi calcolo fino il giorno e l'ora
in cui Romolo fu concetto ) coll'aiuto di certo Tacozio matema lico greco e suo
amico. 5 Tito Livio l'afferma assolutamente . 5* 54 ROMOLO. zogiorno bestiami
che ruminano , o piuttosto per essersi ivi al lattati i fanciulli, perciocchè
la poppa dagli antichi fu chia mata ruma, e Rumilia ' chiamano una certa Dea,
che si crede abbia cura del nutrimento degl'infanti, alla quale sacrificano
senza vino , º facendo libamenti di latte. A'due bambini, che quivi giacevano ,
scrivon gli storici , che stava a canto una lupa che gli allattava , ed un
picchio , che unitamente ad essa era di loro nudritore e custode. Credesi che
questi animali sieno sacri a Marte, e i Latini hanno distintamente in grande
onore e ve nerazione il picchio; onde a colei , che quei bambini avea parto
riti , fu prestata non poca fede mentr’ella affermava d'averli par toriti da
Marte : quantunque dicano che ciò ella credesse per inganno fattole , stata
essendo violata da Amulio 5 datosele a vedere armato. Sonovi poi di quelli che
vogliono che il nome della nutrice , per essere un vocabolo ambiguo , abbia
dato motivo alla fama di degenerare in un racconto favoloso. Im perciocchè i
Latini ehiamavano lupe non solamente le fiere di tale specie , ma le femmine
ancora che si prostituiscono : e vo gliono che di tal carattere fosse la moglie
di quel Faustolo , che allevó que’bambini, la qual per altro chiamavasi Acca
Larenzia. A costei sacrificano ancora i Romani, e nel mese di aprile il
sacerdote di Marte le reca i libamenti, e chiamano quella festa Larenziale.
Onorano pur anche un'altra Laren • Lo stesso Plutarco la chiama Dea Rumina
nelle sue Quistioni Roma пе . n . 57. ? Ciò viene attestato anche da Varrone.
Come poi di Ruma erasi fatta la Dea Rumina , cosi di Cuna si era fatta Cunina ,
divinità che proteggeva i fan ciulli in culla . 13 La conservazione prodigiosa
e l'agnizione del fanciullo Romolo ne ram mentano i casi di Ciro fondatore d'un
altro impero. E non è questa la sola favola straniera , con cui i Romani
tentarono di nobilitare i primordi delle loro istorie . 4 Sono molti gli esempj
di donzelle che abusando la credulità di que' primi tempi copersero col velo
della religione i loro errori . 5 Coloro che accagionano Amulio di questo fatto
, dicono ch’ebbe in ciò intenzione di perdere la vipote, perchè le Vestali
pagavano colla morle simili errori. 6 Due feste di questo nome si celebravano a
Roma : l'una nell'ultimo d’apri le , l'altra ai 23 di dicembre. Plutarco ,
nelle sue Quest. Rom. , pretende che in aprile si festeggiasse la nutrice di Romolo
, e in dicembre la favorita di Ercole, Ma Ovidio afferma invece il contrario ,
e in ciò vuolsi credere ad uno scrittor romano piuttosto che ad un greco.
ROMOLO . 55NN zia , e, per tal cagione, il custode del tempio di Ercole, es
sendo , com'è probabile, scioperato, propose al Nume di giuo care a’dadi con
patto di ottenere , se egli vincesse , qualche buon presente dal Nume; e , se
per contrario restasse vinto, d'imbandire al Nume stesso una lauta mensa , e di
condurre una bella donna a giacere con lui. Dopo ciò , geltati i dadi prima pel
Nume, indi per se medesimo , vide egli vinto. Ora volendo mantenere i patti , e
pensando cosa ben giusta lo starsene alla convenzione , allesti al Nume una
cena , e tolta a prezzo Larenzia , ch'era giovane e bella , ma non per anche
pubblica , l'accolse a convilo nel tempio , ove disteso avea il letto : e dopo
cena ve la rinserrò , come se il Nume fosse per aversela . Dicesi per verità
che il Nume fu insieme colla donna , e che le impose di andarsene sull'alba
alla piaz za , e , abbracciando il primo che ella avesse incontrato , sel
facesse amico. S'abbattè però in lei un cittadino avanzato in età e di molte
ricchezze , che aveva nome Tarruzio il qual era senza figliuoli, siccome quegli
, ch'era senza moglie vis suto. Costui usò con Larenzia e le volle bene , e
morendo la sciolla erede di molle e belle facoltà , la maggior parte delle
quali essa lasciò in testamento al popolo. Raccontasi poi che, essendo ella già
molto celebre , e tenuta come persona cara ad un Nume , disparve in quel
medesimo luogo , dove quella prima Larenzia seppellita era. Quel luogo si
chiama ora Ve labro , perché , traboccando spesse volte il fiume, traghetta
vano co' barchetti per quel sito alla piazza ; e questa maniera di trasporto
chiamano velalura. ?. Alcuni vogliono che sia detto cosi , perchè coloro che
davano qualche spettacolo , coprir facevano con tele quella strada che porta
dalla piazza al cir co , incominciando di là ; 3 e la tela distesa a questa
foggia nel linguaggio romano si chiama vela. Per queste cagioni è ono rata la
seconda Larenzia appo i Romani. * Le frodi del sacerdozio politeistico son
descritte estesamente da Daniele pel сар. XIV. Son pur messe più volte in
derisione da Aristofane. a Velabrum dicitur a vehendo : velaturam facere etiam
nunc dicuntur qui id mercede faciunt. Varrone, De L. Lat. I. IV. 3 Vi era il
nome di Velabro molto prima che si pensase a coprir con tele la strada di cui
qui si parla, usanza introdotta la prima volta da Quinto Catulo nella
dedicazione del Campidoglio. Plin . , 1. XIX, c . 1 . 56 ROMOLO. IV. Faustolo
pertanto , il quale era custode de'porci di Amulio , raccolse i bambini ,
senzachè persona se n'avvedes se: ma per quello che“ più probabilmente ne
dicono alcuni , ciò si fece con saputa di Numitore , ' il quale di nascosto som
ministrava il nutrimento a coloro che gli allevavano. Nar rasi pure che questi
fanciulli , condotti a Gabio , apprendes sero le lettere e tutte l'altre cose
che convengonsi alle persone ben nate : e scrivesi che furono chiamati Romolo e
Remo 3 dalla poppa , poichè furon veduti poppare la fiera. La nobiltà che
scorgevasi nelle fattezze de’loro corpi , fin dall'infanzia diede subito a
divedere nella grandezza e nell'aria , qual fosse la di loro indole. Crescendo
poscia in età divenivano amendue animosi e virili , ed aveano un coraggio e un
ardire affatto intrepido ne' rischi più gravi . Romolo però mostrava d'essere
più assennato e di aver discernimento politico nelle conferenze che intorno
a’pascoli ed alle cacciagioni ei te neva co’vicini , facendo nascere in altrui
una grande estima zione di se , che già manifestavasi nato per comandare, assai
più che per ubbidire. Per le quali cose si rendevano essi amabili e cari agli
eguali ed agl’inferiori; ma conto alcuno non facevano de' soprantendenti ed
inspectori regj, e de'go vernatori de’bestiami , considerandoli come uomini ,
che punto in virtù non erano più di loro eccellenti; né delle minacce loro
curavano , nè del loro sdegno. Frequentavano gli eser cizj e i trattenimenti
liberali , non pensando già cosa degna di un uomo libero l'ozio ed il sottrarsi
alle fatiche, ma bensi i ginnasj, le cacce , i corsi , lo scacciar gli
assassini , l'ucci dere i ladri , il diſendere dalla violenza coloro che
ingiuriati vengano. Per queste cose eran essi già decantati in ogni parte. V.
Essendo nata una certa controversia fra i pastori di · Egli fondava le sue
speranze di ricuperare il trono in questi fanciulli; ciò che diminuisce in gran
parte l'interesse di questa favola. * Dionigi d'Alicarnasso dice che i due
fanciulli vennero istituiti nelle gre che lettere , nella musica , e nelle
belle arti . Furono poi spediti a Gabio , città dei Latini e colonia d’Alba ,
distante circa dodici miglia da Roma , siccome a luogo di maggior sicurezza. 3
Il greco usa sempre il nome Romo, che ricorda il più antico, e s ' appressa più
a quello di Romolo . ROMOLO . 57 Amulio e que’di Numitore , e questi conducendo
via de’be stiami agli altri rapiti , ciò non comportando i due garzoni ,
diedero loro delle percosse , li volsero in fuga e li privarono di una gran
parte della preda , curando poco l ' indegnazione di Numitore; e ragunavano ed
accoglievano molti mendici e molti servi, dando cosi adito a principj di
sediziosa arditez za. Ora , essendo Romolo intento ad un certo sacrifizio (im
perciocchè egli era dedito a’sacrifizj e versato ne’vaticinj ) , i pastori di
Numitore, incontratisi con Remo , che se n'an dava accompagnato da pochi,
attaccaron battaglia. Riporta tesi percosse e ferite dall' una parte e
dall'altra , restarono finalmente vittoriosi quelli di Numitore , e Remo
presero vi vo. Quindi fu condotto ed accusato da loro innanzi a Numi tore : ma
questi non lo puni per tema del fratello , ch'era uómo severo ; al quale però,
andatosene egli stesso , chiedeva di ottenere soddisfazione , essendo stato
ingiuriato da’servi di lui che regnava , egli che pur gli era fratello ; e
sdegnando sene insieme anche gli Albani, persuasi che Numitore fosse
ingiustamente oltraggiato , Amulio s’indusse a rilasciargli Remo , perchè ad arbitrio
suo lo punisse. Avendolo Numitore ottenuto , se ne tornò a casa , e guardando
con istupore il gio vanetto per la di lui corporatura , che di grandezza e di
ga gliardia superava tutti , e veggendo nel di lui aspetto il co raggio e la
franchezza dell'animo, che non lasciavasi vincere , e si mostrava in sensibile
nelle presenti sciagure ; in oltre sentendo che i fatti e le imprese di lui ben
corrispondevano a quanto egli mirava , e soprattutto , com'è probabile , coope-
· randogli un qualche Nume , e dando unitamente direzione a principj di cose
grandi , egli , locco per ispirazione od a caso da desiderio di sapere la
verità , interrogollo chi fosse, e in torno alle condizioni della sua nascita ,
aggiungendogli fiducia e speranza , con voce mansueta e con amorevoli sguardi e
benigni ; onde quegli vie più rinfrancatosi prese a dire : « Io » non ti
nasconderò cosa alcuna ; imperciocchè mi sembri più » re tu , che Amulio ;
mentre tu ascolti e disamini avanti di » punire , e quegli rilascia al
supplicio le persone non ancora » disaminate. Noi credevamo da prima
esserefigliuoli di Fau » stolo e di Larenzia , servi del re ; e siamo due
fratelli nati 58 ROMOLO. » ad un parto ; ma da che ci troviamo accusati e
calunniati » appresso di te , ed in repentaglio della vita , gran cose dir »
sentiamo di noi medesimi , le quali , se sien degne di ſede » sembra che abbia
da farne giudizio l'esito del presente pe » ricolo. Il nostro concepimento ,
per quel che si dice , è un » arcano : il nostro nutrimento poi e la maniera onde
fummo » allattati , sono cose stravagantissime ed affatto disconve » nienti
a'bambini. Da quegli uccelli e da quelle fiere , alle » quali fummo gittati ,
siamo noi stati nudriti , da una lupa » col latte , e da un picchio con altri
cibi minuti , mentre gia » cevamo in una certa culla presso il gran fiume.
Esiste an » cora la culla e si conserva con cinte di rame , dove sono » incisi
caratteri che appena più si rilevano , i quali un giorno » forse potrebbono
essere aʼnostri genitori contrassegni inu » tili di riconoscimento , quando noi
morti fossimo. » Numi tore , udilo questo discorso , e veggendo che bene
corrispon deva il tempo all'aspetto del giovane , non iscacciò più da se quella
speranza che il lusingava; ma andaya pensando come potesse nascosamente
abboccarsi intorno a queste cose colla figliuola , che leneasi ancora
strettamente rinchiusa. VI. Faustolo intanto , avendo sentito ch'era preso Re
mo e consegnato a Numitore , esortava Romolo ad arrecargli soccorso , e gli
diede allora una piena informazione intorno alla loro nascita , della quale per
lo addietro favellato non avea che in enigma , e fattone intender loro sol
quanto basta va , perchè , badando essi a ciò ch'ei diceva, non pensassero
bassamente. Quindi egli , portando la culla , incamminavasi a Numitore , di
sollecitudine pieno e di tema , per quella pres sante circostanza. Dando però
sospetto alle guardie del re, ch'erano alle porte , ed osservato essendo da
loro , e confon dendosi sulle ricerche a lui fatte, non potè far si , che
quelle non si accorgessero della culla , che al d'intorno ei cuopria colla
clamide. Erayi fra di esse per avventura uno di coloro, che avevano ricevuto i
bambini da gittar via , e che furon * Non costumavasi in que' tempi il tener
guardie alle porte della città ; però Dionisio di Alicarnasso nota , che ,
temendosi allora in Alba qualche sorpresa , facevansi dal re custodire le
porte. ROMOLO . 59 presenti quando vennero esposti. Costui , veduta allora la
culla , e ravvisatala dalla forma e da' caratteri, s'insospetti di quello
ch'era, nè trascurò punto la cosa: ma subito, fattala sapere al re , gli
presentò Faustolo perchè fosse esaminato , il quale , essendo costretto in
molte e valide maniere a ren der conto dell'affare , nè si tenne affatto saldo
e costante , nė affatto si lasciò vincere : e confessò bensi ch'erano salvi i
fanciulli, ma disse ch'erano lontani da Alba a pascere ar menti ; e che egli
portava quella culla ad Ilia , che desiderato avea spesse volte di vederla e di
toccarla , per aver più si cura speranza intorno a' suoi figliuoli. Ciò che
suole addi venire agli uomini conturbati, e a quelli, che con timore o per
collera operano alcuna cosa, addivenne allora ad Amulio : conciossiachè egli
mandò sollecitamente un uom dabbene, è di più anche amico di Numitore , con
commissione d’inten dere da Numitore medesimo, se gli era pervenuta novella al
cuna de'fanciulli, come ancor vivi. ” Andatosi dunque costui e veduto Remo poco
men che fra gli amorevoli amplessi, diede ferma sicurezza alla di lui speranza,
ed esortò a dar subito mano all' opere, e già egli stesso era con loro e
unitamente cooperava. Nè già le circostanze di quell'occasione davano comodità
di poter indugiare neppure se avesser voluto: im perciocchè Romolo era omai
presso , e non pochi cittadini correvano a lui fuori della città , per odio che
portavano ad Amulio , e per timore che ne aveano. Inoltre egli conduceva pur
seco una quantità grande di armati distribuiti in centu rie , ad ognuna delle
quali precedeva un uomo , che portava legata d' intorno alla cima di un'asta
una brancata di erba é di frondi, le quali brancate da’Latini sono dette
manipuli; donde avvenne che anche presentemente dura negli eserciti loro il
nome di questi manipularj. Ma Remo avendo solle vati già que' di dentro, e
Romolo avanzandosi al di fuori, 3 * Plutarco oblia d'aver detto poco avanti ,
che ad un solo era stato com messo l'esporre i bambini. Dionisio dice a molti .
È egli verosimile ( chi qualche critico non contento della spiegazion di
Plutarco ) che un tiranno si accorto come Amulio dia una tal commissione ad un
uomo dabbene é amico di Numitore ? Non è almeno più verosimile quel che narra
Dionigi, che Amulio cioè spedisse a tutt'altr' uopo a Numitore un messo , e
questi mosso da pietà gli scoprisse ciò che sapeva aver Amulio deliberato ? 60
ROMOLO . sorpreso il tiranno , che scarso di partiti e confuso, non s'ap
pigliava nè ad operazione , nè a cosiglio veruno per sua sal vezza , perdè la
vita. La maggior parte delle quali cose , quan tunque asserite e da Fabio e da
Diocle Peparetio ( che , per quello che appare , fu il primo che scrisse della
fondazione di Roma) è tenuta da alcuni in sospetto di favolosa e finta per
rappresentazioni drammatiche : ma in ciò non debbon esser punto increduli
" coloro , che osservino di quai cose ar tefice sia la fortuna, e che
considerino come il Romano Im pero non sarebbe giammai a tal grado di possanza
arrivato , se avuto non avesse un qualche principio divino , e da non essere
riputato mai troppo grande e incredibile. VII. Morto Amulio , e tranquillate le
cose , non vollero i due fratelli nè abitare in Alba , senza aver essi il regno
, nè averlo durante la vita dell'avo. A lui però lasciato il go verno , e
renduti i convenienti onori alla madre , delibera rono di abitare da se
medesimi , edificando una città in quei luoghi , dove da prima furon essi
nudriti , essendo questo un motivo decorosissimo del loro dispartirsi ;? e ,
poichè unita erási a loro una quantità grande di servi e di fuggitivi, era pur
forse di necessità che o restassero privi intieramente d'ogni potere ,
sbandandosi questi, o separatamente se n'an dassero ad abitare con essi.
Imperciocchè , che quelli che abitavano in Alba , non degnassero di ricevere in
loro -com pagnia que’ fuggitivi e di accoglierli quai cittadini , manife
stamente si mostra , principalmente da ciò che questi fecero per procacciarsi
le donne , prendendo cosi ardita risoluzione per necessità e loro malgrado ,
mentre non potean far mari taggi in altra maniera , e non già per intenzione di
recar onta , poich'eglino onorarono poi sommamente le donne ra pite. In
appresso , gettati i primi fondamenti della città , avendo essi instituito a'
fuggiaschi un certo sacro luogo di franchigia, chiamato da loro del Nume Asileo
,• vi ricevevano * Ma e in ciò e in altro avrebbe Plutarco dovuto mostrarsi un
po' meno credulo. Quel dispartirsi inutilmente s'aggiunge dal traduttore. Fu
motivo deco rosissimo ad edificar la città la memoria dell'educazione loro in
que' luoghi. 3 Non è ben cerlo qual fosse la divinità con tal nome adorata ,
poichè fra ROMOLO. 61 ogni persona , ' senza restituire né il servo a' padroni
, né il debitore a' creditori, nè l'omicida a'magistrati , affermando che quel
luogo, per oracolo d'Apollo , esser doveva inviola bile e di sicurezza ad
ognuno , sicchè in questo modo fu ben tosto la città piena di uomini :
imperciocchè dicono che ivi dapprincipio le abitazioni non fossero più di
mille. Ma già queste cose addivennero dopo. Vogliendo essi l'animo alla
edificazione della città, vennero subitamente in discordia per la scelta del
luogo. Romolo aveva fabbricato un luogo , che chiamavasi Roma quadrata per
esser quadrangolare, e però volea ridur quello stesso a città : e Remo voleva
che si edi ficasse in un certo sito assai forte dell'Aventino , il qual sito per
cagion di lui fu chiamato Remonio , e Rignario presente mente si chiama. Quindi
commettendo essi d'accordo la de cision della contesa al fausto augurio degli
uccelli , e po stisi a sedere separatamente , dicesi che mostraronsi a Remo sei
avoltoj, e dodici a Romolo: alcuni però vogliono che Remo gli abbia veramente
veduti , ma che Romolo abbia mentito , e compariti non gli sien questi dodici,
se non quando a lui venne Remo. Questa è poi la cagione che i Ro mani servonsi
ancora negli augurj specialmente degli avoltoj. E scrive Erodoro Pontico , che
anche Ercole solea rallegrarsi veggendo un avoltoio , quando mettevasi a
qualche impresa , conciossiache quest'uccello è innocentissimo fra tutti gli
altri animali , non guastando egli punto né i seminati, né le piante, né i
pascoli che sono ad uso degli uomini ; ma si nutrisce di corpi' morti soltanto
, nè uccide od offende animale alcuno che viva ; e si astiene da'volatili anche
morti per l'attenenza ch'egli ha con loro , quando le aquile e le civette e gli
spar vieri offendono pur vivi ed uccidono quelli della medesima specie ; e
però, secondo Eschilo , Come fia mondo augel che mangia augello ? gli antichi
il solo che ne parli è Plutarco : sembra però potersi congetturare che fosse
Apollo. · Dionigi d'Alicarnasso dice invece che v'erano ricevuti i soli uomini
li beri ; ma di ciò può dubitarsi assai ragionevolmente. Fortezza fabbricata da
Romolo sul monte Palatino in luogo di un'altra più antica che v'era prima.
Plutarco , usando il presente , ne induce a credere che questa a'suoi tempi
ancor sussistesse. PLUTARCO , -1. 6 62 ROMOLO . Di più gli altri ci si volgono
, per cosi dire , negli occhi , e continuamente si fanno sentire ; ma
l'avoltoio veder si lascia di rado , e difficilmente ritrovar ne sappiamo i
pulcini : ed ebbero alcuni molivo di stranamente pensare che essi qua
discendano da una qualche altra terra fuor della nostra, dal l'essere appunto
rari ed insoliti ; ' siccome vogliono gl'indo vini che sia ciò che apparisce ,
non secondo l'ordine della natura e da se , ma per ispedizione divina.
Accortosi Remo della frode , n'era molto crucciato ; e mentre Romolo sca vava
la fossa per alzarvi in giro le mura, egli e derideva il lavoro e ne
frastornava i progressi : finalmente , saltandola per dispregio, º restò ivi
ucciso o sotto i colpi di Romolo stesso , 3 come dicono alcuni, o , come altri
vogliono , sotto quelli di un certo Celere , ch'era un de' compagni di Ro molo.
In quella rissa caddero pur morti Faustolo e Plistino suo fratello , il quale
raccontano che aiutò Faustolo ad alle var Romolo. Celere intanto passò in
Etruria ; e i Romani per cagion sua chiamano celeri * le persone pronte e
veloci : e Celere chiamarono Quinto Metello , perchè dopo la morte del padre in
pochi giorni mise in pronto un combattimento di gla diatori, ammirandone essi
la prestezza in far quell'apparato. VIII. Dopoché Romolo seppellito ebbe Remo
co' suoi balj in Remonia , si diede a fabbricar la città , avendo fatti chiamar
dall'Etruria uomini, che con certi sacri riti e ca ratteri gli dichiaravano ed
insegnavano ogni cosa , come in una sacra ceremonia. Imperciocchè fu scavata
una foss cir colare intorno a quel luogo , che ora si appella Comizio , e
riposte vi furono le primizie ? di tutte quelle cose , le quali per legge erano
usale come buone, e per natura come ne cessarie ; e alla fine, portando ognuno
una picciola quantità i Nidificano sulle cime scoscese dei monti.
L’Alicarnasseo dice che Remo salto il muro e non la fossa. 3 Alcunisostengono
che Remo fu ucciso nella mischia contro l'espresso di vieto di Romolo. 4
Vocabolo greco che significa cavallo veloce . 5 Sul monte Aventino . 6 Gli
Etruschi erano versatissimi nell'arle degli augurj e nelle cerimonie re ligiose
, state loro insegnate , dicevasi , da Targete discepolo di Mercurio . 7 Come
presagio che l'abbondanza regnerebbe nella eiltà . ROMOLO. 63 di terra dal
paese d'ond' era venuto , ve la gittarono dentro e mescolarono insieme ogni
cosa ? ( chiamano questa fossa col nome stesso , col quale chiaman anche l’
Olimpo , cioè mondo) : indi al dintorno di questo centro disegnarono la città
in guisa di cerchio. Il fondatore , inserito avendo nel l'aratro un vomero di
rame ed aggiogati un bue ed una vacca , tira egli stesso , facendoli andar in
giro , un solco profondo su'disegnati confini; e in questo mentre coloro che
gli vanno dietro , s'adoperano a rivoltar al di dentro le zolle, che solleva
l'aratro , non trascurandone alcuna rovesciata al di fuori. Separano pertanto
il muro con una linea , chiamata per sincope pomerio , quasi volendo dire :
dopo o dietro il muro. Dove poi divisano di far porta , estraendo il vomero e
alzando l'aratro , vi lasciano un intervallo non tocco : onde re putano sacro
tutto il muro, eccetto le porte ; poichè se credes sero sacre anche queste ,
non potrebbero senza scrupolo nė ricever dentro, nè mandar fuori le cose
necessarie e le impure. IX. Già da tutti comunemente si accorda che questa
fondazione sia stata ai ventuno d'aprile :: e i Romani festeg giano questo
giorno , chiamandolo il natal della patria. Da principio ( per quel che se ne
dice ) non sacrificavano in tal giorno cosa alcuna animata : ma pensavano che
d'uopo fosse conservar pura ed incruenta una festa consecrata alla na scita
della lor patria. Nientedimeno anche innanzi la fonda zione essi celebravano
nel medesimo giorno una certa festa pastorale , che chiamavan Palilia : ma ora
i principj dei mesi romani non hanno punto di certezza nella corrispon denza
co’greci . Dicono ciò nulla ostante per cosa indubitata, che quel giorno , in
cui gettò Romolo le fondamenta della * Ovidio dice invece dal paese vicino ( et
de vicino terra pelita solo ) , a significare che Roma soggiogando i paesi
vicini , diverrebbe all'ultimo padrona di tutto il mondo. » Inutili e
imbarazzanti queste parole. Meglio sarebbe : mescolarono le va rie quantità di
terra . 3 Il testo dice : l’undecimo giorno delle calende di maggio, secondo
l'an lica maniera di numerare i giorni. Del resto , dopo Dionigi d'Alicarnasso
, Euse bio e Solino , i moderni cronologi s'accordano a dire che Roma venne
fondata 754 anni prima di G. C. * I lavoratori ed i pastori rendevano grazie
agli Dei per la figliazione dei quadrupedi ( Dion . I. 1. ) 64 ROMOLO. . città
, fu appresso i Greci il trentesimo del mese , e che fuvvi una congiunzione di
luna , che ecclissò il sole , la quale cre dono essere stata veduta anche da
Antimaco poeta da Teo, accaduta essendo nell'anno terzo della sesta olimpiade.
? Ne' tempi di Varrone filosofo , uomo fra tutti i Romani ver salissimo nella
storia , eravi Tarruzio ? suo compagno , filo sofo anch'egli e matematico , il
quale a motivo di specula zione applicavasi pure a quella scienza che spetta
alla tavola astronomica , nella quale riputato era eccellente. A costui fu
proposto da Varrone l'investigar la nascita di Romolo e de terminarne il giorno
e l'ora , facendo intorno ad esso dagli effetti che si dicono cagionati dalle
costellazioni, il suo ra ziocinio , siccome dichiarano le risoluzioni de'
problemi geo metrici; conciossiache sia ufficio della speculazione medesima
tanto il predire la maniera della vita di alcuna persona, da tone il tempo
della nascita , quanto l'indagar questo tempo , datane la maniera della vita.
Esegui dunque Tarruzio ciò che gli fu ordinato : e avendo considerate le
inclinazioni e le opere di quel personaggio , e lo spazio della vita e la
qualità della morte , e tutte conferite insieme si fatte cose , tutto pieno di
sicurezza e fermamente profferi, che Romolo fu conceputo nella madre il primo
anno della seconda olimpia de , nel mese dagli Egizi chiamato Cheac , il giorno
vigesimo terzo , nell'ora terza , nella quale il sole restò intieramente
ecclissato , e ch'egli poi fu partorito nel mese Thoth, il giorno vigesimo
primo , circa il levar del sole , e che da lui gittate furono le fondamenta di
Roma il nono giorno del mese Farmuihi, fra la seconda e la terza ora :
imperciocchè stimano che anche la fortuna delle città , come quella degli
uomini , abbia il suo proprio tempo che la prescriva , il qual si considera
dalla prima origine , relativamente alla situa zione delle stelle. Queste e
simili cose pertanto più altrar ranno forse i leggitori per la novità e
curiosità , di quello che * Delle varie opinioni sull'epoca della edificazione
di Roma tratta Dionisio, il quale merita fede sovra gli altri per avere veramente,
com' egli afferma , svollo con molto studio i volumi de' Greci e de' Romani . •
Era egli pure amico di Cicerone , che parlandone nel II de Divinat. si esprime
così : Lucius quidem Tarutius Firmanus, familiaris noster , in primis
chaldaicis rationibus eruditus elc . ROMOLO . 63 possano riuscir loro moleste
per ciò che v'ha in esse di fa voloso, X. Fabbricata la città , prima divise
tutta la gioventù in ordini militari : ed ogni ordine era di tremila fanti e di
trecento cavalli , ed era chiamato legione dall'essere questi bellicosi
trascelti fra tutti gli altri . In altri officj poi distribui il restante della
gente , e la moltitudine fu chia mata popolo. Creò consiglieri cento personaggi
i più cospi cui e ragguardevoli, chiamandoli patrizj , e senato chiamando la di
loro assemblea. Il senato adunque significa veramente un collegio di vecchi.
Dicono poi che que' consiglieri ſu rono chiamati patrizj, perchè , come
vogliono alcuni , padri erano di figliuoli legittimi , o piuttosto , secondo
altri , per ch'eglino stessi mostrar potevano i loro padri , la qual cosa non
poteva già farsi da molti di quei primi , che concorsi erano alla città ; o ,
secondo altri ancora , cosi chiamati fu rono dal patrocinio , col qual nome
chiamavano e chiamano anche presentemente la protezione e difesa degl'
inſeriori, credendo che fra coloro che vennero con Evandro , vi fosse un certo
Patrone, il quale prendevasi cura delle persone più bisognose e le soccorreva ,
e che dal suo proprio abbia egli la sciato il nome a questa maniera di operare.
Ma certo si ap porrebbe molto più al verisimile chi si credesse , che Romolo
cosi gli abbia appellati , pensando esser cosa ben giusta e conveniente , che i
principali e più potenti cura si prendano de’più deboli con sollecitudine ed
amorevolezza paterna , ed insieme ammaestrar volendo gli altri a non temere i
più grandi , e a non comportarne mal volentieri gli onori , ma anzi a portar
loro affezione e a riputarli e chiamarli padri. Imperciocchè fino a' nostri
tempi ancora que’ cittadini, che son nel senato , chiamati son principi dagli
stranieri , e padri coscritti dagli stessi Romani , usando questo nome di somma
dignità e di sommo onore fra quant'altri ve ne ha mai , e lontanissimo dal
poter muover invidia. Da principio adunque furono detti solamente padri , ma
poi , essendosene aggiunti a quell'ordine molti di più , detti furono padri
coscritti : e cosi di questo nome si rispettabile servissi Romolo per di
slinguer l'ordine senatorio dal popolare. Separò pure dalla 66 ROMOLO.
moltitudine de' plebei gli altri uomini , che poderosi erano, chiamando questi
patroni , cioè protettori , quelli clienti , cioè persone aderenti ; e insieme
nascer fece reciprocamente fra loro una mirabile benevolenza , che per produr
fosse grandi e scambievoli obbligazioni : perocché gli uni impiegavano se
medesimi in favor de' suoi clienti , esponendone i diritti e pa trocinandoli
ne' litigj, ed essendo loro consiglieri e procura tori in tuite le cose : gli
altri poi coltivavano quei loro patroni, non solamente onorandoli , ma
aiutandoli altresi , quando fos sero in povertà , a maritar le figliuole ed a
pagare i loro debiti ; nė eravi legge o magistrato alcuno , che costringer
potesse o i patroni a testimoniar contro i clienti , o i clienti contro i
patroni. In progresso poi di tempo , durando tuttavia gli altri obblighi , fu
riputata cosa vituperevole e vile , che i magnati ricevessero danari da uomini
di più bassa condizione. XI. Ma di queste cose basti quanto abbiam detto. Il
quar to mese dopo l'edificazione , come scrive Fabio , fu fatta l'animosa
impresa del ratto delle donne. Dicono alcuni che Romolo stesso , essendo per
natura bellicoso , ed inoltre per suaso da certi oracoli , esser determinato
da’ fati , che Roma, nudrita e cresciuta fra le guerre , divenir dovesse
grandis sima , siasi mosso ad usar violenza contro i Sabini, non avendo già
egli rapite loro molte fanciulle , ma trenta sole , siccome quegli , cui era
d'uopo incontrar piuttosto guerra , che ma ritaggi . Questa però non è cosa
probabile : ma il fatto si è , che veggendo la città piena in brevissimo tempo
di forestieri, pochi dei quali avean mogli , ed i più , essendo un mescuglio di
persone povere ed oscure , venivano spregiati , nè sembra va che dovesse esser
ferma la di loro unione , e sperando egli che l'ingiuria , ch'era per fare ,
fosse poi per dar in certo modo qualche principio di alleanza e di
comunicazione coi Sabini, placate che avesser le donne , diede mano all'opera
in questa maniera. Primieramente fu sparsa voce da lui , che ritrovato avesse nascosto
sotterra un altare di un certo Nume, che chiamavano Conso , o si fosse il Nume
del consiglio (poi Sellio scrive con maggior verisimiglianza , essere ciò
accaduto nel quarto anno . In fatti , come mai una città , per così dire ,
nascente , avrebbe fatta im. presa cotanto ardita , che doveva eccitarle contro
un si pericoloso nemico ? ROMOLO . 67 chè i Romani anche presentemente chiamano
consiglio il luogo dove si consulta , e consoli quelli che hanno la maggior
dignità , quasi dir vogliano consultori ) , o si fosse Nettuno equestre :
conciossiachè questo altare , ch'è nel Circo Massi mo, in ogni altro tempo
tiensi coperto e solamente scuopresi ne' giuochi equestri. Alcuni poi dicono
che, dovendo essere il consiglio cosa arcana ed occulta , è ben ragionevole che
l'altar sacro a questo Nume tengasi coperto sotterra. Ora , poichè fu scoperto
, fece divulgare ch'egli era per farvi uno splendido sacrificio , un giuoco di
combattimenti ed un so lenne universale spettacolo. Vi concorse però molta
gente : ed egli sedevasi innanzi agli altri , insieme cogli ottimati , in toga
purpurea. Il segno , che indicato avrebbe il tempo del l'assalto , si era ,
quand'egli levatosi ripiegasse la toga , e poi se la gittasse novamente
d'intorno. Molti pertanlo armati di spada intenti erano a lui ; e subito che fu
dato il segno , sguainando le spade e con gridi e con impeto facendosi ad dosso
a’ Sabini, ne rapiron le loro figliuole , lasciando andar liberi i Sabini
stessi che sen fuggivano. Vogliono alcuni che trenta solamente ne siano state
rapite , dalle quali state sieno denominate le tribù ; ma Valerio Anziate dice
, che furono cinquecento ventisette , e Giubba seicento ottantatrė vergini , la
qual cosa era una somma giustificazione per Romolo; con cioşsiachè dal non
essere stata presa altra donna maritata , che Ersilia sola , la quale servi poi
loro per mediatrice di pace , si vedea ch'essi non erano venuti a quella rapina
per far ingiuria o villania , ma con intenzione soltanto di ridurre in un sol
corpo le genti , ed unirle insieme con saldissimi vin coli di una necessaria
corrispondenza. Alcuni poi narrano che Ersilia si maritò con Ostilio , uomo
fra’ Romani sommamente cospicuo , ed altri con Romolo stesso , e ch'egli n'ebbe
anche prole , una figliuola chiamata Prima , dall'essere stata appunto la prima
per ordine di nascita , ed un figliuolo unico, ch'egli nominò Aollio, '
alludendo alla raunanza de'cittadini sotto di ni , e i posteri lo nominarono
Abilio. Ma Zenodoto da Trezene in queste cose ch'egli racconta , ha molti contradditori.
XII. Dicesi che fra i rapitori di quelle giovani fossero Quasi volesse dire
aggregamento, dal verbo 6027.i6w , che significa raunare. 68 ROM OLO . alcuni
di bassa condizione, ai quali avvenne di condurne via una , che per beltà e
grandezza di persona era molto distinta e che in essi incontratisi poi alcuni
altri de' maggiorenti si sforzassero di toglierla loro di mano , ma che quelli
che la conducevano , gridassero che la conducevano essi a Talasio, giovane
insigne e dabbene; e che però gli altri, sentendo ciò , prorompessero in fauste
acclamazioni , in applausi ed in lodi , e taluni ritornando addietro andassero
ad accompa gnarla , per la benevolenza e propensione, che avevano verso Talasio
, di cui ad alta voce ripetevano il nome ; onde venne che da'Romani fino al di
d'oggi nelle loro nozze si canta ed invoca Talasio , come da'Greci Imeneo :
conciossiaché dicono che Talasio se la passò poi felicemente con quella sua
moglie. Ma Seslio Silla il Cartaginese , uomo alle Muse accetto e alle Grazie ,
diceаmi che Romolo diede questo vocabolo per segno pattuito del rapimento ; e
che quindi tutti , portando via le fanciulle , gridavan Talasio , e per questo
mantengasi nelle nozze una tal costumanza. Moltissimi poi credono , fra ' quali
è anche Giubba , che ciò sia un'esortazione ed incitamento ad attendere ed al
lavoro ed al lanificio , detto da'Greci talasia, non essendo per anche in
allora confusi i vocaboli greci cogl' italiani . Intorno alla qual cosa ,
quando falsa non sia , ma veramente si servissero allora i Romani del nome di
la lasia , come i Greci , potrebbesi addurre qualche altra cagion più
probabile. Imperciocchè, quando i Sabini dopo la guerra si pacificarono coi
Romani , si pattui circa le donne che non dovesser elleno impiegarsi per gli uomini
in nessun altro lavoro , che nel lanificio . Ond'è che durasse poi l'uso ne'ma
trimonj che andavansi novamente facendo; che tanto quelli che davano a marito ,
quanto quelli che accompagnavan le spose ed intervenivano alle nozze ,
gridassero per ischerzo Tulasio , testificando con ciò , che la moglie non era
condotta ad altro lavoro , che al lanificio. Ed ai nostri di costumasi pure di
non lasciar che la sposa , passando da se medesima sopra la soglia , vadasi
nella casa dov'è condotta , ma ve la portano sollevandola , poichè anche quelle
vi furono allora portate per forza, nè v ' entrarono spontaneamente. Aggiungono
alcuni , che anche la consuetudine di separar la chioma alla sposa ROMOLO . 69
con punta di asta indica essere state fatte le prime nozze con contrasto e
bellicosamente , delle quali cose abbiamo diffusa mente ragionato nei Problemi.
Fecesi questo ratto il giorno decimo ottavo , all'incirca , del mese detto
allora Sestilio , e presentemente Agosto , nel qual giorno celebrano la festa
de' Consuali. XIIĮ. Erano i Sabini e numerosi e guerrieri, ed abita vano in
luoghi senza mura , siccome persone , alle quali con veniva essere di gran
coraggio, e privi di ogni timore, essendo essi colonia de' Lacedemonj: ma non
pertanto , veggendosi eglino astretti per si grandi ostaggi , e temendo per le
loro figliuole , inviarono ambasciadori , che facessero a Romolo mansuete
istanze e moderate , esortandolo a restituir loro le fanciulle , e ritrattarsi
da quell'atto di violenza , ed a voler poi stringer amicizia e famigliarità fra
l'una e l'altra gente col mezzo della persuasione e legittimamente. Mentre
Romolo però non rilasciava le fanciulle , e confortava pur i Sabini ad approvar
quella società , andavano gli altri procrastinando nel consultare e nell'allestirsi.
Ma Acrone, re de'Ceninesi, uomo animoso e pien di valore nelle cose della
guerra, guar dando già con sospetto le prime ardite imprese di Romolo , e
pensando che dovess’essere a tutti omai di spavento per quello che fu da lui
fatto intorno alle donne , e che non si potrebbe più tollerarlo , se non ne
venisse punito, si levo pri ma di ogni altro a far guerra , e mosse con un
poderoso eser cito contro di Romolo , e Romolo contro di lui . Come giunti
furono a vista l'uno dell'altro, rimirandosi scambievolmente, si sfidarono l'un
l'altro a combattere , stando fermi intanto su l'armi gli eserciti. Ed avendo
Romolo fatto voto , se vin cesse ed uccidesse il nemico , di appendere l'armi a
Giove egli stesso , il vince in effetto e l'uccide, e , attaccata la bat taglia
, ne mette in fuga l’armata e prende pur la città. Non fece però oltraggio
veruno a quelli che vi sorprese ; ma li obbligó solo ad atterrare le case ed a
seguirlo in Roma , dove stali sarebbero alle medesime condizioni dei cittadini
; nè vi fu altra maniera , che più di questa facesse poi crescer Roma, la
quale, a misura che andava soggiogando , aggiungeva sempre a se stessa , e
divenir faceva del suo corpo medesimo 70 ROMOLO. i soggiogati. Romolo intanto ,
per rendere il voto somma mente gradevole a Giove , e per farne pure un
giocondo spet tacolo a'cittadini , veduta nel campo una quercia grande oltre
modo, la recise e la ridusse a forma di trofeo, e v'acconcið con ordine e tutte
vi sospese l’armi di Acrone. Quindi egli cintasi la veste , e inghirlandatosi
lo zazzeruto capo di alloro, e sottentrato colla destra spalla al trofeo tenuto
fermo e di ritto , camminava cantando un inno di vittoria , seguendolo tutto
l'esercito in arme , ed accogliendolo con gioia ed am mirazione i cittadini .
Una tal pompa diede principio e norma ai trionfi che si son falti in appresso.
E questo trofeo chia mato fu col nome di voto appeso a Giove Feretrio, dal
verbo ferire usato da'Romani : imperciocchè avea egli fatto pre ghiera di
ferire e di atterrare quell'uomo : e quelle spoglie chiamate sono opime da
Varrone , siccome chiamano essi opem le sostanze : ma sarebbe più probabile il
dire che cosi sieno appellate per cagion del fatto eseguitosi ; perché
appellano opus l'operazione. L'offrire poi e il consacra r queste opime non
permettesi che al capitan dell'esercito , quando valoro samente di sua propria
mano abbia ucciso il capitan de' ne mici ; 4 la qual sorte è occata a tre soli
condottieri romani , il primo dei quali ſu Romolo , che uccise Acrone il
Ceninese; il secondo Cornelio Cosso, che uocise Tolunnio Etrusco ; e dopo
questi Claudio Marcello , che uccisé Britomarte re dei Galli. Cosso e Marcello
però , portando essi i trofei, entrarono condotti in quadriga ; ma Dionisio va
errato in dir che Romolo si servisse di cocchio : imperciocchè si racconta che
Tarqui nio , figliuolo di Demarato , fu il primo fra i re ad innalzare in
questa forma e con tal fasto i trionfi; quantunque altri vogliono che il primo
, che trionfasse in cocchio , fosse Pu blicola : e si possono già vedere in
Roma le immagini di Romolo, che il rappresentano in alto di portare il trofeo
tutte a piedi. " Plutarco s'inganna , poichè anche un semplice soldato
poteva guadagnare queste spoglie . Marcus Varro ait , dice Festo , opima spolia
esse , etiamsi manipularis miles delraxerit , dummodo duci hostium. E l'esempio
stesso di Cosso , recato qui appresso , è a Plutarco patentemente contrario ,
essendo pro vato che Cosso , quando uccise Tolunnio , era appena tribuno
militare , ed Emi. lio il generale. ROMOLO. XIV. Dopoche furono soggiogati i
Ceninesi , stando tuttavia gli altri Sabini occupati in far i preparamenti,
quelli di Fidena, di Crustumerio e di Antenna insorsero unitamente contro i
Romani; e restando similmente superati in battaglia , furono costretli a lasciar
depredare le città loro da Romolo , a tra sportarsi eglino ad abitare in Roma,
ed a vedere diviso il loro paese , del quale distribui Romolo a'cittadini tutto
il re sto , eccetto quella parte, ch'era posseduta da'padri delle fan ciulle
rapite , lasciando che se l'avessero questi' medesimi. Quindi mal sopportando
la cosa gli altri Sabini , creato con dottiero Tazio, mossero l'esercito contro
Roma ; ma era dif ficile l'inoltrarsi alla città a motivo del forte, ch'era in
quel luogo , dov'è ora il Campidoglio , ed eravicollocata una guar nigione , di
cui era capo Tarpeio , non la vergine Tarpeia , come dicono alcuni , mostrando
cosi Romolo di poco senno. Ma fu bensi Tarpeia , figliuola di questo comandante
, che in vaghitasi dell'auree smaniglie , di cui vedeva ornati i Sabini,
propose di dar loro in mano per tradimento quel luogo , chie dendo in
ricompensa di un tal tradimento ciò ch'essi porta vano alle mani sinistre. Il
che da Tazio accordatosi , aprendo ella di notte una porta , li accolse dentro.
Non fu pertanto Antigono solo ( come si può quindi vedere ) che disse di amar
que' che tradivano , ma di odiarli dopo che avesser tradito ; nè il solo Cesare
, che disse pure , sopra Rimitalca Trace , di amare il tradimento e di odiare
il traditore : ma questo ė verso gli scellerati un, sentimento comune a tutti
quelli che abbisognan dell'opera loro , come bisogno avessero e del veleno e
del fiele di alcune fiere: imperciocchè aven done caro l'uso nel mentre che se
ne servono , n'abbomi nano poi la malvagità , quando ottenuto abbian l'intento
. Avendo questi sentimenti anche Tazio verso Tarpeia, co mando che i Sabini,
ricordevoli delle convenzioni, non ne gassero a lei nulla di ciò , ch'aveano
alle mani sinistre , e trattasi egli il primo la smaniglia , l'avventò ad essa
, e le av ventò pur anche lo scudo , e , facendo tutti lo stesso , ella per
cossa dall'oro, e seppellita sotto gli scudi , dalla quantità op pressa e dal
peso, se ne mori. Anche Tarpeio, inseguito poscia da Romolo, fu preso e
condannato di tradimento, siccome 72 ROMOLO. afferma Giubba raccontarsi da
Galba Sulpizio. Fra quanti poi fanno menzione di Tarpeia , men degni d'esser
creduti sono certamente coloro , i quali scrivono , ch' essendo ella figliuola
di Tazio condottier de' Sabini, e presa per forza in consorte da Romolo , operò
quelle cose , e n'ebbe quel gastigo dal pa dre ; ed è pur Antigono uno di
questi. Ma il poeta Simulo farnetica affatto , pensando che Tarpeia abbia dato
per tradi mento il Campidoglio a' Galli , e non a'Sabini, innamoratasi del re
loro; e ne parla in questa maniera : Tarpeia è quella da vicin che in velta
Stava del Campidoglio , e già di Roma Fea le mura crollar : poichè bramando Co'
Galli aver letto nuzial , de' suoi Padri sceltrati non guardò gli alberghi. E
poco dopo sopra la sua morte : Non però ad essa i Boj , non le cotante Genti
de' Galli diedero sepolcro Di là dal Po ; ma da le mani , avvezze A infuriar ne
le battaglie , l'armi Gittaro contro l'odiosa giovane , E poser sovra lei fregi
di morte. Sepolta quivi Tarpeia, quel colle nominato fu Tarpeio dal nome di lei
, finchè consecrandosi dal re Tarquinio un tal luogo a Giove , ne furono
trasportate le reliquie , e manco ad un tempo il nome di Tarpeia ; se non che
appellano ancora Tarpeia quella rupe nel Campidoglio , giù dalla quale preci
pitavano i malfattori. Occupatasi quella cima da' Sabini, Ro-. molo irritato li
provocava a battaglia; e Tazio era pien d'ar dimento , veggendo che , se anche
venisse costretto a cedere, era già in pronto pe'suoi una ritirata sicura. Imperciocchè
sembrava che il luogo tramezzo , nel quale doveasi venire alle mani , essendo
circondato da molti colli , avrebbe ren duto per la cattiva situazione il
combattimento ad ambedue le parti aspro e difficile, e che in quello stretto
breve sarebbe stato e l'inseguire e il fuggire. Avendo per avventura il fiume
non molti giorni prima fatta inondazione, avvenne che ri masta era una melma
cieca e profonda ne'siti piani , verso là , doye ora è la piazza ; la qual cosa
ne si manifestava allo ROMOLO. 75 sguardo, nè poteva essere facilmente
schivata, affatto peri colosa e ingannevole, verso la quale , portandosi
inavveduta mente i Sabini, accadde loro una buona avventura. Concios siachè
Curzio , uomo illustre , e tutto pieno di coraggio e di brio , cavalcando
veniva innanzi agli altri di molto , ed , en tratogli in quel profondo il
cavallo , sforzossi per qualche tempo di cacciarnelo fuori, colle percosse
incitandolo e colla voce ; ma, come vide che ciò non era possibile , abbandono
il cavallo , e salvò se medesimo : e per cagione sua chiamasi ancora quel luogo
il Lago Curzio. Allora i Sabini , schivato il pericolo , combatterono
validamente; ma quel combatti mento non fu decisivo , quantunque molti
restassero uccisi, fra'quali anche Ostilio. Costui dicono che fu marito di Ersi
lia , ed avo di quell'Ostilio , che regnò dopo Numa. XV. Attaccatesi poi di bel
nuovo in breve tempo mol l' altre battaglie , com'è probabile , fanno
principalmente menzione di una , che fu l'ultima, nella quale , essendo Ro molo
percosso da un sasso nel capo , e poco men che ucciso, ritiratosi dal resistere
a'Sabini, i Romani volsero il tergo , e via cacciati dalle pianure se
n'andavano fuggendo al Pal lanzio. Romolo però , riavutosi alquanto dalla
percossa, voleva opporsi coll’armi a quelli che sen fuggivano, e , ad alta voce
gridando che si fermassero , li confortava a combattere : ma, veggendosi
tuttavia la gente al d’intorno data ad una fuga precipitosa , e non essendovi
persona che ardisse di rivol gersi contro il nemico , alzando egli le mani al
cielo , prego Giove di arrestare l'esercito e di non trascurar le cose dei
Romani cadute in desolazione, ma di raddrizzarle . Com'ebbe fatta la preghiera
, molti presi furono da vergogna di loro medesimi in riguardo al re , e il
timore di quelli che fuggi vano , cangiossi in coraggio. Primieramente durique
ferma ronsi dove ora è il tempio di Giove Statore , che potrebbe interpretarsi
di Giove che arresta. Poi si unirono a combat tere di bel nuovo , e
risospinsero i Sabini fino al luogo, dove ora è la reggia, e fino al tempio di
Vesta. Quivi, preparan dosi essi a rinnovar la battaglia , rattenuti furono da
uno spettacolo sorprendente e maggiore d'ogni racconto . Concios siachè le
figliuole rapite de'Sabini furono vedute portarsi da PLUTARCO . - 1 . 74 ROMOLO
. diverse bande fra l'armi e fra i cadaveri , con alte voci e con urli , come
fanatiche, a'loro padri e a'mariti ; altre con in braccio i piccioli infanti,
altre colla chioma disciolta , e tutte co’più cari e teneri nomi ad invocar
facendosi quando i Sa bini e quando i Romani. Si commossero pertanto non meno
gli uni che gli altri , e diedero loro luogo in mezzo agli eser citi . Già i
loro singulti venivano uditi da tutti , e molta com passione destavasi alla
vista e alle parole di esse , e vie più allora che dalle giuste ragioni, ch'
esposte aveano liberamen te , passarono in fine alle preghiere e alle
suppliche. « Qual » mai cosa , diceano , fu da noi fatta di vostro danno o di
vo » stra molestia , per la quale si infelici mali abbiamo noi già » sofferti e
ne soffriam tuttavia ? Fummo rapite a viva forza, » e contro ogni diritto , da
quelli che presentemente ci ten » gono ; e , dopo di essere state rapite ,
trascurate fummo dai » fratelli , da’ genitori e da'parenti per tanto tempo ,
quanto » è quello ch'essendoci finalmente unite con saldissimi vincoli » a
persone che ci erano affatto nemiche , ci fa ora timorose » sopra que' medesimi
rapitori e trasgressori delle leggi , i » quali combattono , e ci fa sparger
lagrime sopra quei che » periscono. Conciossiaché non siete voi già venuti a
vendi » car noi ancor vergini contro chi ingiuriare ci voglia ; ma » ora voi
strappate da’mariti le mogli e da'figliuoli le madri, » recando a noi misere un
soccorso assai più calamitoso di » quella non curanza e di quel tradimento. In
tal maniera » amate fummo da questi : in tal maniera compassionate siamo » da
voi . Che se poi guerreggiaste per altra cagione , dovre » ste pure in grazia
nostra acchetarvi , renduti essendo per » noi suoceri ed avoli , ed avendo contratta
già parentela ; ma » se già per cagion nostra si fa questa guerra , menateci
pure » via insieme co'generi e co'figliuoli, e rendeteci i genitori » e i
parenti , nè vogliate rapirci la prole e i mariti , ve ne » preghiamo,
acciocchè un'altra volta non divenghiamo noi » prigioniere di guerra. » Avendo
Ersilia dette molte di si fatte cose , e mettendo suppliche pur anche l'altre ,
fecesi tregua, e vennero i capitani ad abboccarsi fra loro . In que sto mentre
le donne conduceano i mariti e i figliuoli ai padri e a' fratelli, e da
mangiare e da bere arrecavano a chi ne ROMOLO. 75 abbisognava, e medicavano i
feriti, portandoli a casa , e fa cevan loro vedere com'elleno avevan della casa
il governo , come attenti erano ad esse i mariti , e come trattavanle con
amorevolezza e con ogni sorta di onore. Quindi fu pattuito che quelle donne che
ciò voleano , se ne stessero pure co'loro mariti , da ogni altra servitů libere
e da ogni altro lavoro , ( siccome si è detto) fuorchè del lanificio : che la
città fosse di abitazione comune a'Romani e a' Sabini : ch'essa fosse bensi
appellata Roma dal nome di Romolo, ma tutti i Romani Qui riti dalla patria di
Tazio , e che regnassero amendue e go . vernasser la milizia unitamente. Il
luogo , dove si fecero que ste convenzioni , si chiama sino al di d'oggi
Comizio , poiché coire chiamasi da' Romani l'unirsi insieme. XVI. Raddoppiatasi
la città , furono aggiunti cento patri zj, scelti dal numerº de'Sabini ; e le
legioni fatte furono di seimila fanti : e di seicento cavalli. Avendo poi
divisa la gente in tre tribù , altri furono chiamati della tribů Ramnense da
Romolo ; altri della Taziense da Tazio ; e quelli ch'erano nella terza ,
chiamati furono della Lucernese per cagion del bosco che fu d'asilo a molti che
vi si ricovrarono , i quali furono poi a parte della cittadinanza , chiamando
eglino lucos i boschi . Che poi tre appunto fossero quelle divisioni , il nome
stesso lo prova , dette essendo anche presentemente tribú e tribuni quelli che
ne son capi. Ogni tribù aveva dieci compa gnie , le quali dicono alcuni che
aveano il medesimo nome di quelle donne ; il che però sembra esser falso ,
imperciocchè molte denominate sono da’luoghi. Ma molti altri onori bensi furono
a queste donne conceduti , fra'quali sono anche que sti : il dar loro la strada
, quando camminavano , il non dir nulla di turpe in presenza di alcuna di esse
, il non mostrar * Dionigi dice : « ciascun cittadino dovea chiamarsi in
particolare Romano , » e tutti insieme Quirili . » Ma la formola Ollus Quiris
lætho datus est mostra che anche in privato si chiamavan Quiriti . Intorno
all'uso e all'origine di tal nome e a mille altre questioni di romana istoria
vedi oggi l'eccellente opera del Niebhur. - Ma una tal denominazione gli fu
data molto tempo dopo Romolo . 3 Sono stati qui dotati due errori di Plutarco :
a lempo di Romolo la legione non fu mai di 6000 ſanti, nè di 600 cavalli , come
potrebbesi agevolmente dimo. strare . 76 ROMOLO , sele ignudo , il non poter
essere chiamate ! dinanzi a coloro che soprantendevano a’delitti capitali , e
l'esser permesso anche aʼloro figliuoli il portar la pretesta e la bolla ,
ch'era un ornamento appeso d'intorno al collo , cosi detto dalla figura simile
a quelle che si forman nell'acqua. I due re non consultavano già subito unitamente
intorno agli affari, ma ognuno di loro consultava prima separatamente co'suoi
cen to , e cosi poscia li univano tutti insieme. Abitava Tazio 2 dove ora è il
tempio di Moneta , 3 e Romolo presso il luogo , dove sono que' che si chiamano
Gradi di bella riviera , e sono là , dove si discende dal Pallanzio al Circo
Massimo ; e dicevano ch'era in quel sito medesimo il corniolo sacro ,
favoleggiandosi che Romolo , per far prova di se , gittata avesse dall'
Aventino una lancia che aveva il legno di corniolo , la punta della quale si
profondo talmente, che non fuvvi alcuno che potesse più svellerla , quantunque
molti il tentassero ; e quella terra ben acconcia a produr piante , coprendo
quel legno , pullular fece e crescere ad una bella e grande altezza un tronco
di corniolo. Quelli poi che vennero dopo Romolo, il custodirono e venerarono ,
come la cosa più sacrosanta che avessero , e lo cinser di muro : e se ad alcuno
che vi si ap pressasse , paruto fosse non esser morbido e verde , ma in .
tristire , quasi mancassegli il nutrimento , e venir meno, co stui con gran
clamore il dicea subitamente a quanti incontrava, e questi non altrimenti che
se arrecar soccorso volessero per un qualche incendio, gridavano acqua ; e
insiemecorrevano da ogni parte , portandone colå vasi ripieni. Ma, nel mentre
che Caio Cesare ( per quello che se ne dice ) faceva fare scalee , gli
artefici, scavando al d’intorno e da presso , ne maltratta rono senz'
avvedersene le radici , e la pianta secco. I Sabini accettarono i mesi
de'Romani ; e quanto fossevi su questo proposito che tornasse bene , l'abbiamo
noi scritto nella Vita di Numa. Romolo poi usò gli scudi de’Sabini e mutò l'ar
. * Una Sabina accusata di omicidio non poteva esser giudicata dai soliti ma
gistrati , ma si unicamente da' commissarj del senato . · Teneva Tazio i monti
Capitolino e Quirinale ; Romolo il Palatino ed il Celio . 3 Cioè Giunone
Moneta. ROMOLO. 77 matura sua propria e quella de' Romani , che portavano prima
scudi all'argolica. XVII. Facevano in comune i loro sacrifizj e le lor feste ,
non avendone levata alcuna di quelle che proprie erano dell’una o dell'altra
nazione , ma anzi avendone aggiunte altre di nuovo , siccome quelle delle
Matronali , 4 data alle donne in grazia dell’aver esse disciolta la guerra , e
quella delle Carmentali. ” Alcuni pensano che Carmenta sia la Parca destinata a
presiedere alla generazione degli uomini , e perciò onorata ella sia dalle
madri. Altri dicono ch'ella fu moglie di Evandro d’Arcadia , indovina ed
inspirata da Febo , la quale sia stata denominata Carmenta , perchè dava gli
oracoli in versi , mentre i versi da loro chiamati vengono carmina ; ma il suo
vero nome era Nicostrata : e questa è l'opinione più comune. Sonovi nondimeno
di quelli che più probabil mente interpretano Carmenta , quasi priva di senno ,
per mo strarsi fuori di se negli entusiasmi ; poich'essi appellano carere
l'esser privo , e mentem il senno. Intorno poi alle Palilie si è già favellato
di sopra. E in quanto alla festa de'Lupercali, 3 potrebbe parere dal tempo in
cui si celebra , che ordinata fosse per cagion di purificazione, perocchè si fa
ne' di nefasti del mese di febbraio , il qual mese potrebbesi interpretar
purgativo; e quel giorno era chiamato anticamente Febbruato. Il nome poi
de'Lupercali significa lo stesso che nell'idioma greco Licei : e quindi appare
esser quella solennità molto antica , portata dagli Arcadi , che vennero con
Evandro. Ma, comune essendo quel nome tanto al maschio quanto alla fem mina ,
potrebb’essere che una tale appellazione dedotta fosse dalla lupa ; poichè noi
veggiamo che i Luperci di lå comin ciano il giro del loro corso , dove si dice
che fu Romolo esposto. Difficilmente poi render si può ragion delle cose * In
tali feste , che si celebravano il primo giorno d'aprile , le matrone sa
grificavano a Marte ed a Giunone , e riceveano doni dai loro amici. * Feste
solennissime, cha celebravansi agli 11 ed ai 15 di gennaio a pie del
Campidoglio vicino alla porta Carmentale. Carmenta , madre e non moglie di
Evandro , come osserva Plutarco stesso nella 56 Quest. Rom. , veniva adorata
auche sotto il nome di Temi. 3 Celebravasi ai 15 di febbraio in onore del Dio
Pane delto Lupercus , per che teneva lontani i lupi . 78 ROMOLO . che in
quest'occasione si fanno ; conciossiache essi scannano delle capre; poi ,
condottivi due giovanetti di nobile schiatta alcuni toccano loro la fronte con
un coltello insanguinato, ed altri ne li forbiscono subitamente con lana
bagnata nel latte : ed i giovanetti dopo che forbiti sono , convien che ridano.
Tagliate quindi le pelli delle capre in correggie , discorrono ignudi , se non
in quanto hanno una cinta intorno a’lombi, dando scorreggiate ad ognuno che
incontrino. Le donne adulte non ne schivano già le percosse , credendo che
conferiscano ad ingravidare , e a partorire felicemente; ed è proprio di quella
festa il sacrificarsi da’Luperci anche un cane. Un certo Buta , che espone
nelle sue Elegie le cagioni favolose circa le cose operate da'Romani , dice che
avendo quelli , ch'erano con Romolo, superato Amulio , corsero con allegrezza a
quel luogo , dove la lupa avea data la poppa a' bambini, e che que sta festa è
un'imitazione di quel corso , e che vi corrono i nobili Dando perrosse a chi
s'incontra in loro , Come in quel tempo con le spade in mano Fuor d'Alba vi correan
Romolo e Remo : e dice che il mettere il coltello insanguinato sulla fronte é
un simbolo dell'uccisione e del pericolo d'allora , e che il terger poi col
latte si fa in memoria del loro nutricamento . Ma Caio Acilio2 scrive ,. che
prima della fondazione di Roma si smarrirono i bestiami guardati da Romolo , e
che , avendo egli fatte suppliche a Fauno , ne corse in traccia ignudo per non
venir molestato dal sudore , e che per questo corrono d'intorno ignudi i
Luperci. In quanto al carie , se quel sa crifizio fosse una purificazione,
potrebbesi dire che lo sacri ficassero , servendosi di un tal animale come atto
ad uso di purificare ; imperciocchè anche i Greci nelle purificazioni si
servono de'cagnuoli , e sovente usano quelle cerimonie che chiamate sono
periscilacismi. Ma se fanno tali cose in gra * Poeta greco che scrisse Delle
origini, o Delle cagioni. · Caio Acilio Glabrione , tribuno del popolo
nell'anno di Roma 556, avea scritta in lingua greca una storia citata da
Cicerone e da Tito Livio , il secondo dei quali afferma, ch'era stata voltata
in latino da Claudio . 3 Vedi Plutarco , Quest. Rom. , n . 68. ROMOLO. 79 ? zia
della lupa e in ricompensa dell'aver essa nodrito e salvato Romolo , non fuor
di ragione si sacrifica il cane , perchè egli è nemico dei lupi , quando per
verità quest'animale non sia piuttosto punito per esser di molestia a' Luperci
nel mentre che vanno scorrendo. XVIII. Dicesi poi che Romolo fu il primo ad
instituire la consacrazione del fuoco ,“ avendo egli elette le vergini sacre, appellate
Vestali ; la qual cosa alcuni riferiscono a Numa. Ma per altro narran gli
storici, che Romolo fosse distinta mente dedito al culto degli Dei , e
raccontan di più , ch' egli fosse anche indovino , e che per cagion del
vaticinare por tasse il lituo , ch'è una verga incurvata , ad uso di disegnarsi
gli spazj del cielo da coloro che seggono per osservare gli augurj: ed
asseriscono che questa verga , la quale custodi vasi nel Pallanzio, si smarri
quando la città presa da’Galli ; e che poscia , dopochè i Barbari furon
discacciati , trovata fu illesa dal fuoco in mezzo ad una gran quantità di
cenere, dove ogni altra cosa perita era e distrutta . Stabili pure al cune
leggi, fra le quali ben rigida è quella che non permette alla moglie di poter
mai lasciare il marito , ma permette bensi che sia scacciata la moglie in caso
di avere avvelenati i figliuoli, o in caso di parto supposto , e di aver
commesso adulterio : e se taluno per qualche altro motivo ripudiata l'avesse,
ordinava quella legge che parte delle di lui so stanze fosse data alla donna e
parte consecrata a Cerere ; e che quegli medesimo che ripudiata l'avea ,
sacrificasse agli Dei sotterranei , Cosa è poi particolare , ch'egli , il qual
non avea determinato verun gastigo contro quelli che avessero ucciso il padre,
desse il nome di parricidio a qualunque omicidio , ' come fosse questo cosa
veramente esecranda , e quello impossibile. E ben per molte età parve ch'egli a
ra gione non avesse riconosciuta possibile una tale iniquità , " S'intende
in Roma , poichè già in Alba eranvi e questo fuoco sacro e le Vestali , da una
delle quali dicesi nato lo stesso Romolo. · Cicerone dice che questa verga fu
trovata in un tempietto de' Salii , sul monte Palatino , 3 Plutarco ha qui
probabilmente in mira la celebre legge, Si quis homi nem dolo sciens morti
ducil , parricida esto; la qual legge però viene da alcuni attribuita a Numa.
80 ROMOLO. 1 ed conciossiachè quasi pel corso di seicent'anni non fu com messo
in Roma verun delitto si fatto ; ma narrasi che dopo la guerra di Annibale ,
Lucio Ostio fu il primo che ucci desse il padre. Intorno a queste cose però
basti quanto si è detto sin qui . XIX. L'anno quinto del regno di Tazio ,
incontratisi alcuni di lui famigliari e parenti negli ambasciadori, che da
Laurento venivano a Roma, si sforzarono di rapir violente mente i danari ; e ,
poichè essi resistenza faceano e difesa , gli uccisero, Fatta un'azione cosi
temeraria , Romolo era di parere che convenisse punir subito gli oltraggiatori
; ma Tazio si andava scansando dall' aderire a ciò , e sorpassava la cosa ; e
questo fu ad essi il solo motivo di un'aperta dissensione , portati essendosi
con bella maniera in tutt' altre cose , affatto operando , per quanto mai è
possibile , di comune con senso. Quindi gli attenenti agli uccisi , non potendo
per cagion di Tazio in alcun modo ottenere che coloro puniti fossero a norma
delle leggi , assalitolo in Lavinio , dov'egli sacrificava insieme con Romolo ,
gli tolser la vita , e si diedero ad ac compågnar Romolo , siccome uomo giusto
, con fauste accla mazioni. Egli , trasportato il corpo di Tazio ,
onorevolmente lo seppelli nell'Aventino , presso al luogo chiamato Armilu strio
: nė punto si curò poi di punire quell' uccisione. Scrivono però alcuni storici
, che la città di Laurento intimorita gli consegnò gli uccisori di Tazio , e
che Romolo gli lasciò an dare , dicendo che stata era scontata uccisione con
uccisione : il che diede qualche ragione di sospettare , ch'egli volentieri si
vedesse liberato da chi gli era compagno nel regno. Nulladi meno non insorse
quindi sconvolgimento veruno , nè si mos sero punto i Sabini a sedizione : ma
altri per la benivoglienza che gli portavano , altri per la tema che aveano del
di lui potere , ed altri perché il tenean come un nume, persevera vano con
tutto l'affetto ad ossequiarlo. L'ossequiavano pur * Scrive Dionigi
d’Alicarnasso che i re di Roma erano obbligati a trasferirsi ogni anno a
Lavinio per sagrificare agli Dei della patria ; cioè ai Penati di Troia che
v'erano rimasti . • Luogo dell'Aventino , dove le milizie andavano a
purificarsi nel giorno 19 di ottobre. ROMOLO. 81 anche molt'altre genti
straniere ; e gli antichi Latini , man datigli ambasciadori , fecero amicizia e
lega con esso lui . Prese poi Fidena , città vicina a Roma , avendovi , come
vogliono alcuni, repentinamente mandata la cavalleria , con ordine di recidere
i cardini delle porte , ed essendovi soprag giunto poscia egli stesso
all'improvviso : ma altri dicono che furono primi i Fidenati? ad invadere, a
depredare e a dan neggiar in molte guise il territorio romano ed i borghi mede
simi ; e che. Romolo , avendo loro teso un agguato , e uccisi avendone assai ,
s' impadroni della città. Non volle demolirla però , nè spianarla , ma la
rendette colonia de' Romani , man dati avendovi duemila cinquecento abitatori,
il terzodecimo giorno di aprile. XX. Insorse quindi una pestilenza , che perir
facea gli uomini di morti repentine senza veruna malattia , e rendeva anche
sterile la terra , ed infecondi i bestiami. Oltre ciò fu la città bagnata da
pioggia di sangue ;: cosicchè s'aggiunse a quelle inevitabili sciagure una
grande superstizione. Ma , da che le medesime cose avvenivano aạche a que' di
Lau rento , già pareva ad ognuno , che , per essere stata violata la giustizia
, tanto sopra la morte di Tazio , quanto sopra quella degli ambasciadori ,
l'ira divina malmenasse l'una e l ' altra città. Dall'una e dall'altra però
dati reciprocamente e puniti gli uccisori , si videro manifestamente cessar
quei malanni : e Romolo purificò poi la città con que' sacrifizj, i quali
dicesi che si celebran anche oggidi alla porta Ferentina. Prima che cessata
fosse la pestilenza , vennero i Camerj ad assalire i Romani e fecero scorrerie
nel paese di questi, con siderati già come impotenti a difendersi per cagione
di quella calamită. Romolo adunque mosse tosto l'esercito contro di loro , e ,
superalili in battaglia , ne uccise seimila. Presane poi la città , trasporto
ad abitare in Roma la metà di quelli * Cosi anche Livio ; ma Dionigi
d'Alicarnasso incolpali d'aver rubate le vettovaglie che i Romani traevano da
Crustomerio . dice soltanto 300 ; da quel che segue in Plutarco apparisce che
questo numero è minore del vero. Queste pioggie di sangue , tanto terribili
agli anticbi , compongonsi molto naturalmente da insetti o da esalazioni tinte
in rosso ; ed anche ne' tempimoderni se n'ebbero esempj. 2 3 82 ROMOLO.
ch'erano restati vivi ; e da Roma passar fece un numero di gente , il doppio
maggiore, ad abitar in Cameria il giorno primo di agosto , coll'altra metà che
vi aveva lasciata . Di cosi fatta maniera gli soprabbondavano i cittadini ,
sedici anni circa dopo la fondazione di Roma. Fra le altre spoglie trasporto da
Cameria anche una quadriga di rame : questa fu appesa da lui al tempio di
Vulcano col simulacro di se medesimo , che veniva incoronato dalla Vittoria.
Rinfrancalesi in questo modo le cose , i vicini più deboli si sottomisero alla
di lui si gnoria , e , trovandosi in sicurezza , se ne stavano paghi e
contenti. Ma quelli che aveano possanza , da timore presi ad un tempo e da
invidia , non pensavano che convenisse ri maner più neghittosi e trascurati ;
ma bensi opporsi a' pro gressi di Romolo , e cercar di reprimerlo. I Vei ^
pertanto , i quali possedevano un vasto paese , ed abitavano in una grande città
, furono i primi fra ' Toscani ad incominciare la guerra, con pretender Fidena
, siccome cosa di loro ragione : il che però non pure era ingiusto , ma ben
anche ridicolo ; perocchè , non avendo essi dato soccorso veruno a' Fidenati,
mentre in pericolo ed oppressi erano dalla guerra , ma aven doli lasciati
perire , ne pretendevano poi le abitazioni e 'l terreno , mentr' era già in
mano d' altri . Essi adunque aven do riportate da Romolo risposte ingiuriose e
sprezzanti , si divisero in due parti : coll’una assalirono l'esercito dei Fide
nati , coll'altra se n'andarono contro di Romolo. A Fidena , rimasti superiori
, uccisero duemila Romani , ma dall'altro canto superati da Romolo , vi
perdettero sopra ottomila dei loro. Combatterono poi di bel nuovo intorno a
Fidena : e si confessa da tutti , che la massima parte di quell'impresa fu
opera di Romolo stesso , avendo ivi fatto mostra di tutta l'arte, unita
all'ardire , e sembrato essendo gagliardo e veloce assai più che all' umana
condizion non conviensi. Ciò per altro che vien riferito da alcuni , è del
tutto favoloso e interamen te incredibile , che di quattordicimila che morirono
in quella battaglia , più della metà ne fosse morta per man di Romodo ; +
Abitanti di Veio capitale della Toscana. Esagerazione presa per avventura da
qualche inno di vittoria . Cosi anche ROMOLO . 83 come sembra che per fastosa
millanteria dicano anche i Messenj intorno ad Aristomene , che tre volte
sacrificatè egli avesse cento vittime per altrettanti Lacedemonj da lui me
desimo uccisi. Romolo fuggir lasciando quelli ch'erano re stati vivi , e avean
già date le spalle , s' inviava alla di loro città. Ma quelli che v'eran dentro
, per una tale calamità , non fecero più resistenza , anzi divenuti
supplichevoli stabi lirono concordia ed amicizia per anni cento , rilasciata a
Ro molo molta quantità del loro paese , da essi chiamato Sette magio , cioè la
settima parte ; e cedutegli le saline presso al fiume; ed inoltre datigli in
mano per ostaggi cinquanta dei loro oltimati. Anche per la vittoria avuta sopra
costoro egli trionfo a' quindici di ottobre, avendo fra molti altri prigioni il
capitano stesso de' Vei , uomo vecchio , ma che sembrava che in quelle faccende
portato si fosse senza quel senno e quella sperienza che si convenivano all'
età sua. Per la qual cosa anche al presente , quando sacrificano per avere otte
nuta vittoria , conducono un vecchio colla pretesta per la piazza del
Campidoglio, attaccandoli una bolla da fanciullo; e il banditore va gridando:
Sardi messi all' incanto ;? imper ciocchè dicesi che i Toscani sieno colonia
de' Sardi , e la città de' Vei è in Toscana. XXI. Questa fu l'ultima guerra
fatta da Romolo . In ap presso schivar egli non seppe ciò che a molti , o
piuttosto quasi a tutti, suole avvenire , quando dal favore di grandi e
straordinarie fortune sieno in possanza ed in sublime stato eleyati. Pieno però
di baldanza per le cose da lui operate , e portandosi con più grave fasto , già
si toglieva da quella sua affabilità popolare , e la cangiava in un molesto contegno
di monarchia, cominciando a recar noia e dispiacere dalla foggia dell'abito col
quale si vestiva ; conciossiachè egli mettevasi in le donne d'Israele ,
precedendo a Davide , che ritornava dalla vittoria dei Fili stei , cantavano :
Saulle uccise mille , e Davidde diecimila . Settemagio o Seltempagio spiegasi
comunemente per Cantone di sette borghi. a Siccome i Sardi non procedono dai
Lidii , cosi erra Plutarco nell'assegnar l'origine della costumanza qui parrata
; la quale , per testimonio di Sinnio Capi. tone, s'introdusse soltanto dopo
che il console Tiberio Gracco ebbe conquistata la Sardegoa. 84 ROMOLO. dosso
tonaca di porpora, e portava toga pretesta , e teneva ra gione standosi
agiatamente a sedere sopra una sedia ripiegata all'indietro. Erangli poi sempre
d’intorno que' giovani chia mati Celeri, dalla prestezza che usavano ne'
ministerj. Ed avea altri che , quando andava in pubblico, lo precedevano
risospingendo con verghe la calca , e portavan cinture di cuoio , onde legar
prontamente quelli ch'egli avesse loro or dinato. Perchè poi il legare , che
ora da’ Latini dicesi alli gare , anticamente era detto ligare, Liclores sono
da essi chiamati coloro che portan le verghe; e queste verghe chia mate son
baculi , dal servirsene che facevano allora , come di bastoncelli. Pure è
probabile che questi ora nominati Liclores, insertavi la lettera c , fossero
nominati prima Lito res , essendo quelli che in greco si direbbero Liturgi: 2
im perciocchè i Greci chiamano ancora añitov il popolo , e lady la plebe. Morto
che fu in Alba l'avolo suo Numitore , quan tunque a lui toccasse regnare , ciò
nullostante , per far cosa gradevole al popolo, vi pose una maniera di governo
libero, e d'anno in anno creava un governatore agli Albani. Ma in questo modo
ammaestrò anche quelli, che poderosi erano in Roma, a cercare una repubblica
senza re ed arbitra di se medesima, dove scambievolmente governassero e fossero
governati. Conciossiachė neppur quelli ch'erano chiamati patrizj, aveano già
più parte alcuna negli affari, ma sola mente nome e figura onorifica ; i quali
, raunandosi in consi glio , piuttosto per costume che per esporvi il loro
parere , stavano tacitamente ascoltando ciò ch'egli ordinasse, e se ne
partivano poi col non aver alcun altro vantaggio sopra la gente volgare , che
d'essere stati essi i primi ad inten dere quello che si era fatto . Ogni altra
cosa però era di mi nor importanza , rispetto all'aver egli da per se stesso
divisa a' soldati la parte di terra acquistata coll'armi , e restituiti gli
ostaggi a' Vei , senzachè que' patrizj il volessero o per * Erano la guardia
presa da Romolo per la propria persona. * Cioè ministri pubblici. 3 Nel testo
leggesi ai Sabini , e il Dacier non ammette il cambiamento fatto dall'Amyot e
seguito dal Pompei. Egli considera qui due atti diversi di Ro. molo ; uno che
si riferiva agli Albani, l'altro ai Sabini. ROMOLO. 85 suasi ne fossero : nel
che sembrò ch' ei recasse grande con tumelia al senato , il quale per questo fu
poi tenuto in sospetto , e diede luogo alle calunnie , quando poco tempo dopo
fu d'improvviso levato Romolo dalla vista degli uomini ; la qual
cosa segui a' sette del mese ora chiamato luglio , ed allora Quintile ,
non avendo egli lasciato intorno al suo fine nulla di certo e d'incontrastabile
, fnorchè il tempo già detto : imperciocchè anche presentemente si fanno in
quel giorno assai cose che ci rappresentano il doloroso avvenimento di allora .
XXII. Nè apportar ci dee meraviglia quest ' incertezza , quando , morto essendo
Scipione Affricano ? dopo cena , in casa propria , non v'ha modo onde poter
credere o provare qual fosse la maniera della sua morte : 3 ma alcuni dicono
che , essendo egli per natura cagionevole , si morisse da per se stesso ; altri
ch'egli medesimo si avvelenasse ; ed altri che i suoi nemici , avendolo
assalito di notte , lo soffocassero : eppure Scipione , quando fu morto ,
giaceva esposto alla vista di tutti , ed il suo corpo , da tutti essendo
osservato , potea dar motivo di formar qualche sospetto e conghiettura intorno
alla sua morte . Ma, essendo Romolo mancato in un subito , non fu vista più
parte alcuna del di lui corpo , nè reliquia del di lui vestimento. Onde alcuni
s'immaginavano che i senatori , assalito e trucidato avendolo nel tempio di
Vulca no , smembrato n'avessero il corpo , e ripostasene ognuno una parte in
seno , portato l'avesser via. Altri pensano che non già nel tempio di Vulcano ,
nè dove fossero i soli sena tori , foss' egli svanito , ma ch' essendo per
avventura fuori in un'assemblea presso la palude chiamata di Capra , o sia di
Cavriola , si fecero subitamente meravigliosi e ineffabili sconvolgimenti
nell'aria e mutazioni incredibili, oscurandosi il lume del sole , e venendo una
notte non già placida e quieta , * Il Calendario romano segna in questo
Populifugium , None Caprolineæ , e Festum ancillarum , cose tutte , che possono
aver relazione al fatto , come si vedrà in seguito * Cioè Scipione figliuolo di
Paolo Emilio adottato da Scipione Affricano. 3 Si sospettò per alcuni che lo
avvelenasse la moglie. Non si fece per altro nessuna indagine per conoscerne il
vero , onde Valerio Massimo disse : Raptorem spiritus domi invenit , mortis
punitorem in foro non reperit. PLUTARCO , 1 . 8 86 ROMOLO . ma con tuoni
spaventevoli e con venti impetuosi, che da per tulto menavan tempesta ; onde la
turba volgare qua e là di spersa fuggi, e i primati si raccolsero insieme.
Cessato es sendo poi lo sconvolgimento e ritornata a risplender la luce, e di
bel nuovo andatasi a ragunar la moltitudine in quel luogo medesimo , dicono che
fu allora cercato e desiderato il re ; e che i primati non permisero che se ne
facesse più esatta ricerca , nè che venisse presa gran cura ; ma che esor
tarono tutti ad onorarlo ed averlo in venerazione, come sol levato fra gli Dei,
e come , da re buono ch'egli era, fosse per esser loro un Nume benigno.
Affermano però che la mol titudine , udendo questo , se n'andava allegra , è lo
adorava piena di buone speranze : ma che vi furono pur anche laluni, i quali ,
aspramente e con mal animo biasimando il fatto, metteano costernazion ne'
patrizj, e li calunniavano , come cercassero di dar ad intendere al popolo cose
vane e ridicole, quando eglino stessi stati erano gli uccisori del re. XXIII.
Essendo adunque essi cosi costernati , si racconta che Giulio Procolo ( uomo fra'
patrizj principale per nobiltà , e tenuto in somma estimazione pe' suoi buoni
costumi , fido amico e famigliare di Romolo, e già con esso lui venuto da Alba
) andatosi nella piazza , e facendo giuramento sopra quanto v’ha di più
sacrosanto , disse alla presenza di tutti , che , camminando egli per via ,
apparso eragli Romolo , che gli si era fatto incontro in sembianza bella e
grande assai più che per lo addietro , adornato d'armi lucide e sfavillanti ; e
ch'ei però sorpreso ad una tal vista : « O re gli aveva » detto , per qual mai
offesa da noi riportata , o per qual tuo » pensamento , hai tu lasciati noi
esposti ad ingiuste accuse » e malvagie , e la città tutta orfana, e in preda
ad un im » menso dolore ? » E che quegli risposto aveagli : « È piaciuto, o »
Procolo , agli Dei , che essendo io per cosi lungo tempo rima » sto fra gli
uomini , e fondata avendo città di gloria e d'im » pero grandissima, vada
novamente ad abitare su in cielo , » donde io era venuto. Tu pertanto sta di
buon animo , e » fa sapere a' Romani che colla temperanza e colla fortezza *
Per opera , dicevasi , del Dio Marte padre dello stesso Romolo. ROMOLO . 87 »
arriveranno eglino al sommo dell'umano polere : ed io » sarò il Nume Quirino a
voi sempre benevolo. » Queste cose parvero' a' Romani degne di fede, si pe'
buoni costumi di chi le narrava , come pel giuramento che fatto egli aveva : ed
in oltre cooperava a farle credere un certo affetto divino, simile ad
entusiasmo, dal quale si sentivano tocchi: onde non fuvvi alcuno che contraddicesse
, ma lasciato ogni so spetto ed ogni calunnia , si diedero a far voti a Quirino
e ad invocarlo qual Nume. Un tale racconto ha della somiglianza con ciò che
vien favoleggiato dai Greci intorno Aristeo Proconnesio , ' e Cleomede
d’Aslipalea . Imperciocchè dicono che Aristeo morto sia in una certa officina
da tintore , e che, andati essendo gli amici suoi per dar sepoltura al di lui
cor po , fosse svanito ; e che alcuni, i quali tornavano da un loro viaggio ,
dicessero di averlo incontrato che camminava per quella strada che porta a
Crotone. Di Cleomede poi dicono , che essendo grande e gagliardo di corpo oltre
misura , ma stolido in quanto alle sue maniere e furioso , facesse molte
violenze , e che finalmente in una certa scuola di fanciulli , percossa colla
mano una colonna che sosteneva la volta , la rompesse nel mezzo , precipitar
facendone il tetto. Periti in questo modo i fanciulli, raccontano che , venendo
egli inse guito , se ne fuggisse in una grand’arca, e , avendola chiusa, ne
tenesse il coperchio cosi fermo al di dentro, che non fu possibile alzarlo ,
quantunque molti unitamente di far ciò si sforzassero; e che , spezzata poscia
quell' arca , non ve lo ritrovassero nè vivo , nè morto ; onde stupefatti
mandassero a consultar l'oracolo a Dello , e risposto fosse dalla Pitia :
L'ullimo degli eroi è Cleomede D'Astipalea. 4 Dicesi pure esser anche svanito
il corpo di Alcmena , mentre portavasi a seppellire, ed essersi in iscambio
veduta giacer nel cataletto una pietra. E moll' altre in somma raccontano *
Aristeo dell'isola di Proconneso nella Propontide , storico , poeta e grau
ciarlatano , visse ai tempi di Creso. » Isola al di sopra di Creta . 3 Nel
tempio di Minerva ove Cleomede si riparó . 4 Plutarco cita una sola parte della
risposta , la quale cosi Gniva : Onoratelo coi vostri sagrifiaj, perchè più non
appartiene ai mortali. 88 ROMOLO . d' di tali favole lontane dal verisimile ,
divinizzando le persone che son di natura mortali , e mettendolé insieme co'
Numi. XXIV. E per vero dire il non riconosere nelle virtù sorte alcuna di
divinità , ell ' è cosa empia e villana ; ma ell'è altresi cosa stolta il voler
mescolare la terra col cielo. Sono dunque da lasciarsi queste opinioni, quando
, secondo Pin daro , si ha già sicurezza , Ch'è della morte al gran poter
soggetto Bensi il corpo ognun , ma resta salvo Lo spirto ancor , d'eternitade
immago . Conciossiaché questo solo è quello che abbiam dagli Dei , e che di
lassú viene e lassù pur sen ritorna , non già in com pagnia del corpo , ma
quando sia più che mai dal corpo al lontanato e diviso , sgombralo della carne
, e mondo e puro del tutto. Imperciocchè l'anima , quando è secca ed inaridita
, secondo il parere di Eraclito , ” è allora nella sua maggiore eccellenza ,
volando fuori del corpo, come baleno fuor di una nuvola ; dove quella , ch'è
mista col corpo e dal corpo cir condata , è come un vapore grave ed oscuro ,
che difficilmente si accende e s ' inalza. Non si deggion dunque far salire al
cielo contro natura i corpi degli uomini dabbene insieme cogli spiriti , ma
tener per fermo che le virtù e l'anime per loro natura e per giusto decreto
divino sieno sollevate a can giarsi di uomini in eroi , di eroi in Genj , e se
perfettamente, come nelle sacre espiazioni , purificate e santificate sieno ,
schive da quanto v ' ha di mortale e soggetto alle passioni , tener si vuole
non per legge di città , ma per verità e secondo una ben conveniente ragione,
che cangiate vengano di Genj in Numi , ottenendo cosi un bellissimo e
beatissimo fine .? .XXV. In quanto poi al soprannome di Quirino dato a Romolo ,
altri vogliono che significhi Marte ; altri dicono che cosi fu egli chiamato ,
perchè anche i cittadini nominati eran Quiriti ; ed altri pretendono che ciò
sia , perchè gli antichi appellavano Quirinum la punta o l ' asta ; e il
simulacro di * Eraclito d'Efeso , vissuto poco dopo Pittagora , riguardava il
fuoco sic come principio universale delle cose. Esiodo fu il primo che distinse
quesle quattro nature, gli uomini, gli eroi , i genj, e gli Dei. ROMOLO. 89
Giunone , messo in cima d'una punta , detto era di Giunone Quirilide; e Marte
chiamavano l'asta collocata nella reggia : ed onorayan quelli che valorosamente
portati si fossero in guerra , col donar loro un'asta : onde affermano essere
stato Romolo appellato Quirino , per dinotarlo un certo Nume bel licoso e
marziale. Gli fu pertanto edificato un tempio nel colle detto Quirino dal nome
di lui . Il giorno , in cui egli svani , si chiama fuga di volgo , e None
capraline: perché in quel giorno , discesi dalla città , sacrificano alla
palude della Capra. Usciti fuori al sacrifizio pronunciano ad alta voce molti
nomi usati nel loro paese, come Marco e Caio , imitando la fuga ed il chiamarsi
vicendevolmente di allora con timore ed isconvolgimento. Alcuni però dicono che
questa non è già imitazione di fuga , ma bensi di fretta e di sollecitudine,
riferendone la ragione ad un altro si fatto motivo. Quando i Galli, che avevano
occupata Roma, ne furono scacciati da Camillo , e la città , spossata ed
indebolita , mal potea per anche riaversi , mossero l'arme contro di essa molti
de' La tini , avendo per lor capitano Livio Postumio. Accampatosi costui poco
lontano da Roma , inviò un araldo , il quale dicesse ai Romani che i Latini
suscitar volean di bel nuovo la già mancata antica famigliarità e parentela ,
coll' unire ancora insieme le nazioni per mezzo di maritaggi novelli: e che
però , se eglino mandassero loro una quantità nume rosa di fanciulle e di donne
senza marito , pace n'avrebbero ed amicizia , siccome da prima per un egual
modo l'ebbero pur co’ Sabini. Udite avendo queste cose i Romani , temeano in
parte la guerra e in parte consideravano, che il dare a quelli in mano le donne
era lo stesso che il porle in ischia vitů. Mentre stavano eglino cosi perplessi
, una serva nomi nata Filotide , oppur Tutola , come altri vogliono , li consi
gliava di non fare nè l'una cosa nè l'altra , ma di schivare per via di frode
tanto l'incontrar guerra , quanto il concedere ostaggi. Era la frode', che
Filotide medesima , e con lei altre serve avvenenti e ben adornate , fossero ,
come persone li bere , mandate a' nemici ; e ch'ella alzerebbe di notte tempo
una fiaccola , ed allora i Romani far si dovessero addosso a' nemici stessi già
sepolti nel sonno , e li trucidassero, Cosi 8* 90 ROMOLO. per appunto
addivenne, essendosi fidati i Latini. Alzó Filotide la fiaccola da un certo
fico salvatico , tenendola al di dietro ben riparata e coperta con tappeti e
cortine , acciocchè lo splendore non fosse da' nemici veduto , e chiaro si
mostrasse a' Romani , i quali , come il videro , subitamente uscirono fuori
affrettandosi, e per una tal fretta chiamandosi spesse volte l'un l'altro nel
sortir dalle porte ; ed essendosi avven tati allora improvvisamente sopra i
nemici , e superati aven doli , celebrano una tal festa in grazia di quella
vittoria ; ed un tal giorno è chiamato le None capraline , per cagion del fico
salvatico , detto da’ Romani caprificus. Fanno poi un convito alle donne fuori
della citta all'ombra de' rami di fico ; e si portano quivi le serve con
ostentazione , raggiran dosi intorno , e facendo giuochi ; e poscia
reciprocamente si battono e si percuotono con pietre , come allora che diedero
soccorso a’ Romani , e combatterono insieme con essi in quel conflitto . Queste
cose sono ammesse da pochi storici : ma intorno all'uso di chiamarsi a nome in
quel giorno , e intorno all'andare alla palude della Capra , come ad un sa
crifizio , sembra conveniente l' appigliarsi piuttosto alla prima ragione , se
per verità non fosse accaduto in diversi tempi bensi, ma però nel giorno
medesimo , l'uno e l'altro acci dente. Dicesi poi che Romolo fu levato dalla
vista degli uo mini di anni cinquantaquattro, avendone avuli trentotto di
regno. · Toglie qui Plutarco un anno dalla vita di Romolo , e ne aggiugne uno
al suo regno. Secondo Dionisio egli mori d' anni 55, dopo averne regnati 37.
Silvestro
Centofanti. Keywords: platonismo in Italia, Pitagora, Galilei, il Romolo di
Plutarco, la prova della relata steriore e la oggettivita della cognizione,
storia della filosofia romana, Campanella, Alighieri, il noologico, filosofia
della storia, formula logica. Il concetto di nazione italiana, Aosta. Refs.:
“Grice e Centofanti” – The Swimming-Pool Library.
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