evola: Italian philosopher – Giulio Cesare Andrea Evola, meglio conosciuto
come Julius Evola (n. Roma), è stato un filosofo. Fu personalità poliedrica nel
panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici
interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume,
studi sulla razza. Le sue posizioni si inquadrano nell'ambito di una cultura
di tipo aristocratico-tradizionale e di tendenze ideologiche in gran parte
presenti anche nel fascismo e nel nazionalsocialismo, pur esprimendosi talvolta
in chiave critica nei confronti dei due regimi. Mussolini ne apprezza alcune
impostazioni: in particolare il ritorno alla romanità e una teoria della razza
in chiave spirituale. Da parte sua il filosofo nutre una pacata ammirazione nei
confronti del Duce. Evola ha una sua influenza, anche se difficilmente
quantificabile, nel variegato mondo della cultura fascista: con lo scopo di
indirizzarne l'impostazione culturale ed ideologica verso posizioni più affini
al suo pensiero, scrive numerosi saggi, collabora intensamente con riviste e
giornali di grande tiratura e partecipa alla vita accademica del suo tempo in
veste di conferenziere, sia presso alcune prestigiose università italiane e
straniere che nell'ambito dei corsi di mistica fascista. Ma è lo stesso
Evola, nel primo numero della rivista da lui diretta, La Torre, quando espone
il suo pensiero sul mondo della tradizione, a sintetizzare la sua posizione
verso il fascismo: «Nella misura che il fascismo segua e difenda tali principi,
in questa stessa misura noi possiamo considerarci fascisti. E questo è
tutto».[1] C'è anche chi ritiene che in sede diplomatica Evola svolgesse
missioni ad altissimi livelli per conto dello stesso governo italiano.[2]
Nonostante ciò, le sue idee eterodosse non sempre sono ben accette dalla classe
dirigente italiana del tempo e gli valgono la sospensione di alcune pubblicazioni
da parte dello stesso PNF e in Germania il sospetto delle gerarchie naziste.[3]
Evola contribuisce alla divulgazione in Italia di importanti autori europei del
XIX e del XX secolo: Bachofen, Guénon, Jünger, Ortega y Gasset, Spengler,
Weininger, traducendo alcune loro opere e pubblicando saggi critici. La
complessità del suo pensiero gli procura, anche dopo la fine della guerra, un
grande seguito negli ambienti conservatori italiani ed europei, da quelli più
tradizionalisti del neofascismo (Pino Rauti ed Enzo Erra del Centro Studi
Ordine Nuovo) fino a quelli rappresentati da esponenti della destra più
moderata (Giano Accame, Marcello Veneziani). Le sue opere vengono tradotte e
pubblicate in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Belgio, Grecia, Svizzera,
Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Messico, Canada, Romania, Argentina,
Brasile, Ungheria, Polonia, Turchia.[4] Giulio Cesare Evola nacque a
Roma[5]. I genitori di Giulio Cesare Evola furono Vincenzo Evola, nato il 4
maggio 1854[6] e Concetta Mangiapane, nata il 15 agosto 1865[7]. Entrambi i
genitori erano siciliani, nati a Cinisi, un comune della Provincia di Palermo.
I nonni paterni di Giulio Cesare Evola erano Giuseppe Evola e Maria Cusumano.
Giuseppe Evola è riportato come falegname nell'atto di nascita di Vincenzo. I
nonni materni di Giulio Cesare Evola erano Cesare Mangiapane e Caterina Munacó.
Cesare Mangiapane è riportato come bottegaio nel registro delle nascite di
Concetta. Vincenzo Evola e Concetta Mangiapane si sposarono a Cinisi il 25
novembre 1892[8]. Nell'atto di matrimonio Vincenzo Evola è riportato come capo
meccanico telegrafico e già residente a Roma, mentre Concetta Mangiapane è
riportata come possidente. Giulio Cesare Evola aveva un fratello maggiore,
Giuseppe Gaspare Dinamo Evola, nato a Roma il 7 Agosto 1895[9], per cui,
essendo il secondo figlio maschio, seguendo la convenzione di denominazione
siciliana dell'epoca, seppur con una leggera variazione, Giulio Cesare Evola fu
in parte denominato in onore al nonno materno. Benché non lo fosse,
Giulio Cesare Evola è stato spesso riportato come barone[10], in riferimento a
un presunto distante rapporto di discendenza con una famiglia aristocratica
siciliana di antica origine normanna (gli Evoli, baroni di Castropignano in
Molise, nel Tardo Medioevo[11], poi passati in Sicilia) del Regno di
Sicilia. Formazione Giulio Cesare Evola studiò all'Istituto Tecnico
"Leonardo da Vinci" di Roma. Le poche notizie sui suoi anni di
formazione si possono ricavare dall'autobiografia intitolata Il cammino del
cinabro, pubblicata nel 1963 dall'editore Scheiwiller e che, nelle intenzioni
dell'autore, sarebbe dovuta uscire postuma:[12] «Nella prima adolescenza,
mentre seguivo studi tecnici e matematici, si sviluppò in me un interesse
naturale e vivo per le esperienze del pensiero e dell'arte. Da giovinetto,
sùbito dopo il periodo dei romanzi d'avventure, mi ero messo in mente di
compilare, insieme ad un amico, una storia della filosofia, a base di sunti.
D'altra parte, se mi ero già sentito attratto da scrittori, come Wilde e
D'Annunzio, presto il mio interesse si estese, da essi, a tutta la letteratura
e l'arte più recenti. Passavo intere giornate in biblioteca, in un regime
serrato ma libero di letture. In particolare, per me ebbe importanza l'incontro
con pensatori, come Nietzsche, Michelstaedter e Weininger. Esso valse ad
alimentare una tendenza di base, anche se, a tutta prima, in forme confuse e in
parte distorte, quindi con una mescolanza del positivo col negativo»
(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 5.) La lettura delle opere
degli autori su citati (in particolare Nietzsche), ha sul giovane Evola alcune
dirette conseguenze: in primo luogo un'opposizione al Cristianesimo,
soprattutto in riferimento alla teoria del peccato e della redenzione, del
sacrificio divino e della grazia. In secondo luogo una sorta di insofferenza
verso il mondo borghese, la sua piccola morale e il suo conformismo.[13]
Decide dunque di svincolarsi dalla routine borghese, soprattutto nei suoi
aspetti più concreti e quotidiani: famiglia, lavoro, amicizie. Si iscrive alla
facoltà di ingegneria, ma rifiuta di discutere la tesi per disprezzo dei titoli
accademici[14], poiché «l'apparire come un "dottore" o un
"professore" in veste autorizzata e per scopi pratici, mi sembrò cosa
intollerabile, benché in seguito dovessi vedermi continuamente applicati titoli
che non ho».[15] Prosegue nello studio dell'arte e della filosofia:
«A parte gli autori accennati, va menzionata l'influenza che su me adolescente
esercitò anche il movimento che alla vigilia della prima guerra mondiale e
durante la prima parte di essa ebbe per centro Giovanni Papini con le riviste
Leonardo e Lacerba, in seguito in parte anche con La Voce. Fu il periodo
dell'unico vero Sturm und Drang che la nostra nazione abbia conosciuto,
dell'urgere di forze insofferenti del clima soffocante dell'Italietta borghese
del primo novecento […] A lui e al suo gruppo si deve il nostro venire a
contatto con le correnti straniere più varie e interessanti del pensiero e
dell'arte d'avanguardia, con l'effetto di un rinnovamento e di un ampliamento
di orizzonti» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 5.)
Successivamente si distacca anche da Papini, soprattutto per la sua conversione
al cattolicesimo ed a seguito della pubblicazione del libro Storia di Cristo
(1921). Inizia giovane l'attività in campo artistico: i primi quadri
risalgono al 1915, le prime poesie al 1916. Attraverso Giovanni Papini
entra in contatto con alcuni esponenti del Futurismo quali Giacomo Balla e
Filippo Tommaso Marinetti. Nel 1919 partecipa alla "Grande Esposizione
Nazionale Futurista" di Palazzo Cova a Milano.[16] Ben presto si stacca da
questo movimento per ragioni che lui stesso espone: «Non tardai però a
riconoscere che, a parte il lato rivoluzionario, l'orientamento del futurismo
si accordava assai poco con le mie inclinazioni. In esso mi infastidiva il
sensualismo, la mancanza di interiorità, tutto il lato chiassoso e
esibizionistico, una grezza esaltazione della vita e dell'istinto curiosamente
mescolata con quella del macchinismo e di una specie di americanismo, mentre,
per un altro verso, ci si dava a forme sciovinistiche di nazionalismo. A
quest'ultimo riguardo la divergenza mi apparve netta allo scoppio della prima
guerra mondiale, a causa della violenta campagna interventista svolta sia dai
futuristi che dal gruppo di Lacerba. Per me era inconcepibile che tutti
costoro, con alla testa l'iconoclasta Papini, sposassero a cuor leggero i più
vieti luoghi comuni patriottardi della propaganda antigermanica, credendo sul
serio che si trattasse di una guerra per la difesa della civiltà e della
libertà contro il barbaro e l'aggressore» (Julius Evola, Il cammino del
cinabro, op. cit., p. 8.) A questa prima fase, definita dallo stesso Evola
idealismo sensoriale,[17] appartengono le opere: Fucina, studio di rumori (1917
circa), Five o'clock tea (1918 circa) e Mazzo di fiori (1917-18). Gli
anni della Prima guerra mondiale Monte Cimone di Tonezza, 1917 Frequenta
a Torino un corso per allievi ufficiali e partecipa alla Prima guerra mondiale
come ufficiale di artiglieria sull'altopiano di Asiago dal 1917 al 1918.
Rientra a Roma dopo il conflitto ed attraversa una profonda crisi esistenziale
che lo porta al bordo del suicidio, come egli stesso riporta ne Il cammino del
cinabro: «Questa soluzione [...] fu evitata grazie a qualcosa di simile ad una
illuminazione, che io ebbi nel leggere un testo del buddhismo delle origini. Fu
per me una luce improvvisa: in quel momento deve essersi prodotto in me un mutamento,
e il sorgere di una fermezza capace di resistere a qualsiasi crisi»
(Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., p. 10.) Il passo cui si
riferisce Evola è il seguente: «Chi prende l'estinzione come estinzione e,
presa l'estinzione come estinzione, pensa all'estinzione, pensa
sull'estinzione, pensa "Mia è l'estinzione" e si rallegra
dell'estinzione, costui, io dico, non conosce l'estinzione».[18] Si tratta di
una traduzione e rielaborazione di una frase del Buddha contenuta nel discorso
del Mulapariyâya Sutta (Canone pāli, Majjhima Nikaya, I).[19] Il secondo
periodo artistico: l'astrattismo mistico Nel 1920 aderisce al Dadaismo ed entra
in contatto epistolare con Tristan Tzara.[20] Come pittore diviene uno dei
massimi esponenti del Dadaismo in Italia.[21] Questa seconda fase viene
definita, sempre da Evola, astrattismo mistico[22][23][24] ovvero una
reinterpretazione dada in chiave di spiritualismo e di idealismo. A questa fase
appartengono alcune importanti opere: Paesaggio interiore 10,30 (1918-20) e
Astrazione (1918-20). Questo periodo vede Evola impegnato in due mostre
personali: quella del gennaio 1920 alla casa d'arte Bragaglia di Roma, e quella
del gennaio 1921 alla galleria Der Sturm di Berlino in cui presenta sessanta
dipinti.[25] Pubblica nel 1920, per la Collection Dada, l'opuscolo Arte
astratta. Sempre nello stesso anno fonda con Gino Cantarelli la rivista Bleu e
pubblica a Zurigo il poema dada La parole obscure du paysage intérieur.
Collabora inoltre con Cronache d'attualità di Anton Giulio Bragaglia e con Noi
di Enrico Prampolini. Nel 1923 cessa l'attività pittorica e fino al 1925 fa uso
di sostanze stupefacenti con il fine di raggiungere stati alterati di
coscienza: «In questo contesto, vi è anche da accennare all'effetto di alcune esperienze
interiori da me affrontate a tutta prima senza una precisa tecnica e coscienza
del fine, con l'aiuto di certe sostanze che non sono gli stupefacenti più in
uso [...] Mi portai, per tal via, verso forme di coscienza in parte staccate
dai sensi fisici».[26] Il mancato suicidio è per Evola il momento di
passaggio più significativo: fine del periodo artistico e inizio del periodo
filosofico. Esce nel 1925 il primo libro di filosofia: Saggi sull'idealismo
magico. Coerentemente con le posizioni teoriche della sua seconda fase
artistica (astrattismo mistico) Evola si distacca dall'idealismo hegeliano in
favore di una libertà interiore assoluta. Il pensiero deve prefiggersi il
compito di superare i limiti dell'umano per andare verso l'oltre-uomo teorizzato
da Nietzsche. L'attualismo gentiliano diventa dunque il punto di partenza:
dall'Io come principio attivo della realtà su un piano logico-astratto, all'Io
come criterio di potenza capace di affermare l'individuo assoluto.[30]
Secondo Evola l'individuo assoluto è immediatamente sé nelle infinite
affermazioni individuali ed in ciascuna di esse si fruisce come libertà, come
incondizionata agilità ed arbitrio assoluto.[31] Termina nel 1924 la Teoria e
fenomenologia dell'individuo assoluto che inizia a scrivere già in trincea (nel
1917) e che viene pubblicata in due volumi (nel 1927 e nel 1930) dall'editore
Bocca. In questo testo Evola si interessa delle dottrine riguardanti il
sovrarazionale, il sacro e la gnosi, con l'obiettivo di tentare il superamento
della dualità io/non-io. Il suo interesse verso le tradizioni orientali si
manifesta in L'uomo come potenza, pubblicato nel 1926, dove compare una
concezione dell'io ispirata ai dettami del tantrismo e del taoismo.
Queste ultime opere segnano un'ulteriore svolta: passaggio da una posizione
filosofica di tipo teoretico ad una di tipo pragmatico. Evola cerca infatti di
individuare strumenti concreti per mezzo dei quali calare nella vita quotidiana
la teoria dell'Individuo assoluto. A partire dal 1924 inizia un'intensa
esperienza giornalistica: partecipa alla redazione di Lo Stato democratico, una
rivista contemporaneamente antifascista ed antidemocratica, e tra il 1924 e il
1926 collabora a riviste come Ultra, Bilychnis, Ignis, Atanor e Il mondo. In
questo periodo Evola frequenta i circoli esoterici romani e partecipa alla vita
notturna della capitale intrattenendo un tempestoso rapporto sentimentale con
Sibilla Aleramo, come lei stessa riporta nel libro Amo dunque sono del
1927: «Disumano qual è, gelido architetto di teorie funambolesche,
vanitoso, perverso, s'è trovato dinanzi a me come a cosa tutta viva, tutta
schietta, mentre aveva fantasticato chissà... quale avventura necrofila. E
questa cosa tutta schietta l'ha turbato, l'ha commosso, segretamente […]»
(Sibilla Aleramo, Amo dunque sono, Milano, Mondadori, 1927, p. 104.) La
versione tedesca di Imperialismo pagano Tra il 1927 e il 1929 coordina il
Gruppo di Ur, che si occupa di esoterismo e di ricerche sulle tradizioni extra
europee: un'antologia dei fascicoli editi viene più tardi pubblicata in tre
volumi (tra il 1955 e il 1956) con il titolo Introduzione alla magia quale
scienza dell'Io. Conosce Arturo Reghini e legge i suoi scritti. Anche sulla
scorta di esperienze condivise con il noto esoterista, nel 1928 pubblica un
libro che gli procura grande fama: Imperialismo pagano. In questo pamphlet (poi
tradotto in tedesco nel 1933[32]) Evola attacca violentemente il Cristianesimo
ed esorta il Fascismo a ritrovare l'antica grandezza della civiltà
romana: «Oserà dunque il fascismo assumere qui, qui donde già le aquile
imperiali partirono per il dominio del mondo sotto la potenza augustea, solare,
regale […] oserà qui riprendere la fiaccola della tradizione
mediterranea?» (Julius Evola, Imperialismo pagano, Padova, Edizioni di
Ar, 1996, p. 24.) Influenzato dalla lettura delle opere di René Guénon
abbandona in seguito le tesi estremiste di Imperialismo pagano a favore del
concetto di "tradizione" e fonda con Emilio Servadio la rivista La
Torre (uscita in soli dieci numeri tra febbraio e giugno del 1930), destinata a
difendere principi sovrapolitici, in realtà «una tribuna di intellettuali che
si battevano per un fascismo più radicale e più intrepido».[33] Critiche mosse
ad alcuni personaggi del Regime dalle pagine de La Torre, provocano
l'intervento di Starace che prima diffida Evola dal continuare la
pubblicazione, poi proibisce a tutte le tipografie romane di stampare la
rivista la cui pubblicazione, alla fine, viene sospesa. Evola viene
sorvegliato dal regime in quanto accusato di affiliazione all'Ordo Templi
Orientis ed è costretto ad assumere alcune guardie del corpo (come testimoniato
da Massimo Scaligero) .[14] Inizia un periodo dedicato interamente
all'alpinismo. Nel 1930, con la guida alpina Eugenio David, affronta la scalata
della parete settentrionale del Lyskamm Orientale.[34] Di questa e di altre
esperienze viene poi redatto un libro nel 1973: Meditazioni delle vette.[35]
Evola intende l'alpinismo come pratica ascetica e meditazione spirituale:
superamento dei limiti della condizione umana attraverso l'azione e la
contemplazione, che divengono due elementi inseparabili, «un'ascesa che si
trasforma in ascesi».[36] Successivamente pubblica due opere: La
tradizione ermetica (1931) e Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo
(1932). La prima è una disamina dell'aspetto magico, esoterico e simbolico
dell'alchimia. La seconda è un saggio critico su quelle correnti di pensiero
che, secondo Evola, «invece di elevare l'uomo dal razionalismo moderno e dal materialismo,
lo portano ancora più in basso: spiritismo, teosofia, antroposofia e
psicoanalisi».[37] Nel 1934 appare la sua opera fondamentale, Rivolta contro il
mondo moderno, nella quale traccia un affresco della storia letta secondo lo
schema ciclico tradizionale delle quattro età: oro, argento, bronzo e ferro
nella tradizione occidentale e satya, treta, dvapara e Kali Yuga in quella
induista. In Rivolta Evola oppone il mondo tradizionale al mondo moderno.
Nella prima parte analizza le categorie qualificanti l'uomo della tradizione e
le antiche "razze divine"; nella seconda analizza la genesi del mondo
moderno ed i processi a causa dei quali la civiltà tradizionale è crollata (dal
dominio dell'autorità spirituale al dominio del "quarto stato").
Partendo da questi presupposti, tre anni dopo, esamina a fondo Il mistero del
Graal (1937) e le sue implicazioni dottrinarie nelle visioni dei diversi
periodi storici, impostando tutta la sua disamina sul concetto di
"tradizione ghibellina dell'impero", cercando di svincolare il Graal
e la sua portata simbolica dalla tradizione cristiana. A partire dal 1934
Evola collabora attivamente con la Scuola di mistica fascista, fondata da
Niccolò Giani nel 1930, tenendo alcune conferenze e figurando nel comitato di
redazione della rivista Dottrina fascista. La maggior parte degli interventi di
Evola in conferenze e scritti, riguardano principalmente il tema del razzismo,
argomento che trova appoggio sia da parte di Giani che da parte dello stesso
Mussolini. Secondo Evola, tuttavia, l'espressione mistica fascista rappresenta
un'incongruenza potendo parlare, al più, di etica fascista. Questo perché in
realtà il fascismo, secondo Evola, «non affronta il problema dei valori
superiori, i valori del sacro, solo in relazione ai quali si può parlare di
mistica».[38] Jean-Paul Lippi – giurista e saggista francese, tra i più
importanti studiosi d'oltralpe del pensatore tradizionale – rileva di come
Evola ravveda nella mistica «un elemento rilevatore di una spiritualità lunare
e del polo femminile dello spirito».[39] E infatti il sottotitolo di Diorama
filosofico – la pagina prima mensile e poi quindicinale curata da Evola nel
quotidiano Il Regime Fascista di Cremona tra il 1934 e il 1943 – è: Problemi
dello spirito nell'etica fascista. Nel 2009 una serie di scritti di Evola
relativi alla scuola di mistica fascista, sono stati pubblicati dall'editore
Controcorrente di Napoli,[40] e aiutano in parte a chiarire le posizioni
assunte dal filosofo all'interno della suddetta corrente. Le tesi sulla
razza «Sia razzialmente, sia in fatto di ideali, esiste una grande opposizione
fra l'uomo ariano e tradizionale europeo e il giudeo. Fin dalle origini il
giudeo ci è apparso come un essere diviso in se stesso. A differenza
dell’ariano egli fu sempre incapace di concepire e di realizzare un'armonia fra
spirito e corpo. Il corpo significò per lui la carne, cioè una crassa e
peccaminosa materialità, da cui deve redimersi per raggiungere lo spirito che
per lui sta in una sfera astratta, fuori della vita. Ma nel giudeo questo
impulso alla liberazione fallisce ed allora le prospettive si invertono: colui
che era tormentato dal pungolo della redenzione si precipita disperatamente
nella materia, si abbandona ad una brama illimitata per la materia, per la
potenza materiale e per il piacere. Voi così vedete un uomo che si sente
schiavo della carne e per questo vuol vedere intorno a sé solo degli schiavi
come lui. Perciò egli gode dovunque egli scopra l’illusorietà dei valori
superiori, dovunque torbidi retroscena si palesino dietro la facciata della
spiritualità, della sacralità, della giustizia e dell’innocenza.» (Julius
Evola, La civiltà occidentale e l’intelligenza ebraica) A metà degli anni
trenta Evola inizia ad orientare i propri studi su aspetti più propriamente
politici, legati in particolar modo alla "questione della razza".
Riprende l'attività giornalistica scrivendo su quotidiani: Il Regime Fascista,
Corriere Padano, Il Giornale della Domenica, Roma, Il Popolo d'Italia, La
Stampa e Il Mattino; su stampe e periodici: Logos, Educazione Fascista, La
Rivista del Club Alpino Italiano, Politica, Nuova Antologia, '900, Il progresso
religioso, La difesa della razza, Augustea, Carattere, Insegnare e Scuola e
cultura.[56] Nel 1937 pubblica Il Mito del Sangue (poi riedito nel 1942)
dove ricostruisce le concezioni sulla razza dalle civiltà antiche fino alle
teorie del XVIII secolo (de Gobineau, Woltmann, de Lapouge, Chamberlain),
contrapponendole alla versione moderna del razzismo biologico di stampo
nazionalsocialista. Segue nel 1941 Sintesi di dottrina della razza. In questi
testi esprime le sue concezioni antisemite non basate su un razzismo biologico,
ma spirituale. Gli ebrei, per Evola, non possono essere considerati una razza:
«Già la Bibbia parla di 7 popoli che avrebbero concorso a formare il sangue
ebraico [...] Come da questo composto etnico abbia potuto sorgere un sentimento
così vivo di solidarietà e di fedeltà al sangue [...] tale da far pensare che
il popolo ebraico praticamente sia stato fra i popoli più razzisti della storia
- questo è un mistero [...] La formula, in ogni modo, è che gli ebrei non sono
una razza ma solo una Nazione».[57] Edizione russa dei Protocolli
del 1912 Egli oppone a livello tradizionale "Giudei" ed "Ariani"
(da "Arya") nel nome di una differenza di spirito. Nel 1937 pubblica
la Introduzione alla quinta edizione italiana dei Protocolli dei savi di Sion,
manifestando adesione al feroce e maniacale antisemitismo di Giovanni Preziosi,
traduttore ed editore del pamphlet. In questa Introduzione afferma che non
avrebbe importanza la non autenticità storica dell'opuscolo, visto che comunque
lo stesso manifesta veridicità secondo lui attendibile nel descrivere i maneggi
ebraici per il controllo della società (banche, stampa, mercato, politica).
L'ebraismo è per Evola una colpa senza redenzione: «nemmeno il battesimo e la
crocefissione cambia la natura ebraica».[58] Si esprime negativamente sul
colonialismo giudicando l'Etiopia conquistata dall'Italia nient'altro che una
«contraffazione degenerescente di un organismo tradizionale».[59] Sempre in
quegli anni tiene un ciclo di conferenze presso le Università di Firenze e di
Milano su richiesta del Ministro dell'Educazione Nazionale Bottai. Benché non
ve ne sia traccia nella biografia dell'autore, il saggista Franco Cuomo scrive
che Evola, nel 1938, è tra i firmatari del cosiddetto Manifesto della
razza.[60] Tutt'oggi la "questione razziale" di Evola rimane un tema
molto dibattuto tra gli studiosi[senza fonte]. A partire dagli anni sessanta,
Evola, a più riprese, cerca di ribadire – in alcuni casi rivedendo certe
posizioni giovanili – la sua concezione sulla razza. Già ne Il mito del
sangue (1937) Evola, in riferimento alla concezione biologica che i tedeschi
fanno del razzismo, espone le sue perplessità: «È ben possibile che in questo
stato il razzismo avrebbe potuto aver la possibilità di sviluppare più
proficuamente gli elementi valevoli che esso può comprendere in sé. Invece, con
l'assurgere a ideologia ufficiale di una rivoluzione [quella nazionalsocialista
germanica], il razzismo ha finito con il pregiudicare siffatti elementi»[61]
facendo riferimenti espliciti alla figura di Hitler: «[...] l'idea razzista da
parte dello Hitler [...] quanto a idee nuove rispetto a quel che finora abbiamo
conosciuto, non ve ne è quasi nessuna».[62] Dedica un intero capitolo (Il
problema della razza) della sua autobiografia a questo tema in cui ribadisce la
necessità di interpretare il concetto di razza da un punto di vista spirituale
e non biologico, contestando ad Alfred Rosenberg (il principale esponente del
razzismo nazionalsocialista) la strada del razzismo materialistico intrapresa a
suo tempo dalla Germania, definendola «materialismo zoologico»[63] e
condannando apertamente il «fanatismo antisemita».[18] Fanatismo verso il
quale, nel 1963, dichiara: «né io, né i miei amici in Germania sapevamo degli
eccessi nazisti contro gli ebrei [...] e se ne avessimo saputo in alcun modo
avremmo potuto approvarli».[64] Evola ha una concezione dell'uomo come
essere costituito da corpo, anima e spirito, dove la parte spirituale deve
avere il primato su quella corporea. Secondo Evola «l'opportunità di questa
formulazione risiede nel fatto che una razza può degenerare, anche restando
biologicamente pura, se la parte interiore e spirituale è morta, diminuita o
obnubilata, se ha perso la propria forza (come presso certi tipi nordici
attuali). Inoltre gli incroci, di cui oggi pochissime stirpi sono esenti,
possono avere come conseguenza che ad un corpo di una data razza siano legati,
in un individuo, il carattere e l'orientamento spirituale propri di un'altra
razza, donde una più complessa concezione del meticciato».[65] Lo storico
Renzo De Felice, pur molto critico e severo rispetto al pensiero e alle tesi di
Evola, testimonia di come lo stesso Evola respinge «anche più recisamente
[dell'Acerbo] ogni teorizzazione del razzismo in chiave esclusivamente
biologica»,[66] ponendo il pensatore tradizionale tra coloro che «imboccata una
certa strada, la seppero percorrere, in confronto con tanti che scelsero quella
della menzogna, dell'insulto, del completo obnubilamento di ogni valore
culturale e morale, con dignità e persino con serietà».[66] A tale
proposito De Felice segnala anche che Evola non è il solo a prendere le distanze
dal razzismo biologico di matrice nazionalsocialista. Altre note figure della
cultura fascista del tempo, come Giacomo Acerbo, e meno note, come Vincenzo
Mazzei, se ne dissociano.[67] L'impostazione critica data da De Felice su
questo passaggio del pensiero di Evola è particolarmente apprezzata dagli
autori filo-evoliani.[68] Anche Paolo Orano sviluppa, secondo taluni, una
forma di antisemitismo etico-sociale che rinvia a Il mito del sangue di
Evola.[69] L'approccio al "problema della razza" di Evola, come quello
di Acerbo ed Orano, pur se sviluppato da posizioni e secondo logiche diverse,
viene apprezzato da Mussolini che ne intravede gli elementi differenziatori da
quello germanico, anche se successivamente il "Duce" non si farà
scrupolo di dare patente di legittimità anche all'antisemitismo di un Preziosi,
di un Interlandi e di un Gayda. Altri autori, invece, ritengono che
l'opera e il pensiero di Evola continuino ad essere razzisti tout court o
addirittura emuli delle tesi di Paolo Orano. È di questo avviso Attilio Milano
che, a proposito della campagna antiebraica fascista, scrive: «Primo, in ordine
di tempo, e per notorietà personale, come già ricordato, fu Paolo Orano [...]
dietro di lui, con una vena più scadente, comparvero anche Ebrei,
Cristianesimo, Fascismo, di Alfredo Romanini, Tre aspetti del problema ebraico,
di Giulio Evola [...]».[70] Lo storico Francesco Germinario nel suo saggio
Razza del Sangue, razza dello Spirito[71] analizza in particolare il
progressivo avvicinamento di Evola al nazionalsocialismo, specialmente in
relazione all'ammirazione che il filosofo aveva nei confronti delle SS.
La tesi di maggior rilievo del saggio di Germinario consiste nel tentativo di
interpretare il razzismo evoliano come una sorta di differenzialismo in nuce, ovvero
un razzismo che identifica il suo obiettivo principale nella ricomposizione dei
cosiddetti tre ordini di razza: corpo, anima, spirito. Dunque, secondo
Germinario, Evola riprende, seppur in maniera meno esplicita, alcune delle
teorie del de Gobineu che cercano di identificare una gerarchia ideale nei
gruppi delle razze umane.[72] Lo storico torinese Francesco Cassata, che ha
dedicato molti suoi scritti al rapporto tra fascismo e razzismo e agli studi
sull'eugenetica, nel suo A destra del fascismo,[73] sottolinea di come il
razzismo sia un aspetto centrale del pensiero evoliano, e che in realtà lo
stesso è volutamente depotenziato e purificato dai suoi estimatori con lo scopo
di dare una visione edulcorata delle teorie del filosofo. Più dura la posizione
del giornalista Gianni Scipione Rossi, che con il volume Il razzista
totalitario[74] cerca di mettere in luce quegli aspetti contraddittori del
pensiero evoliano rispetto al tema della razza. Ma soprattutto Il razzista
totalitario tenta di dimostrare che quella di Evola non è una parentesi
razzista, ma una costruzione originale ed autonoma di una teoria che accompagna
tutta l'opera evoliana. Per il germanista Furio Jesi Evola è «un razzista così
sporco che ripugna toccarlo con le dita».[75] Lo storico e saggista torinese
infatti dubita fortemente della definizione spiritualistica attribuita al
razzismo di Evola[76] e ritiene anzi che le sue teorie farmeticanti e triviali
conducano direttamente ad Auschwitz: «Egli [Evola] non si è mai dichiarato
paladino dei roghi dei libri, anche se bisogna precisare che implicitamente, da
intellettuale, s'intende, ha dato una mano ai forni crematori non per libri ma
per uomini».[77] La maggior parte delle critiche mosse a Evola e ai suoi
studi sulla razza (per esempio da Dana Lloyd Thomas, Gianni Scipione Rossi,
Francesco Germinario, Francesco Cassata), sostanzialmente, cercano di
dimostrare che il cosiddetto razzismo spirituale in realtà è una sofisticata
costruzione teorica utilizzata dall'autore e ancor più dai suoi epigoni per
celare il convincimento di un vero e proprio razzismo di matrice biologica, e
che dunque c'è in realtà un filo diretto tra le teorie nazionalsocialiste e
quelle evoliane, queste ultime solo apparentemente diverse.[78] In ogni caso è
in concomitanza con la campagna antiebraica scatenata dal regime fascista a
partire dal 1937 che Julius Evola, grazie al suo "razzismo
spirituale", entra definitivamente a far parte, a pieno titolo, della
cultura e dell'intelligencija fascista di quegli anni. Secondo Fabio Venzi, in
maniera del tutto infondata, ciò non impedisce ad Evola di avere una
"doppia affiliazione" ed essere pure membro della
Massoneria[79]. Evola non aderisce al Partito fascista e tale
mancata adesione gli impedisce nel 1940 di arruolarsi come volontario contro
l'Unione Sovietica nel corso della Seconda guerra mondiale. Nel 1942 viene
pubblicato un suo saggio dal titolo Per un allineamento politico-culturale
dell'Italia e della Germania[80] nel quale esprime ammirazione per il nazismo
tedesco, considerandolo superiore al fascismo in ragione del coraggio nel
risvegliare l'antico spirito ariano e germanico. Critica tuttavia
l'incompletezza nell'attuazione di questo programma, non abbastanza radicale e
aderente ai principi della "Tradizione": per esempio una difesa della
razza improntata giuridicamente ad una sorta di "igiene razziale" e
il potere del Führer derivato dal popolo e non un potere regale di origine
divina come nell'ideale società ario-germanica delle origini. Evola teorizza
dunque il tradizionalismo puro, ideale e radicale, capace di attuare i propri
principi e di far trionfare la cultura romana e pagana delle origini. Tra
l'Unione Sovietica bolscevica e gli Stati Uniti d'America capitalistici, il
nazionalsocialismo tedesco gli sembra proporre una terza via: un impero europeo
e pagano sotto la guida egemonica della Germania di Hitler. Nel 1943,
riprendendo temi già trattati nei suoi anni giovanili, pubblica La dottrina del
risveglio, un saggio sull'ascesi buddhista. Nel 1951 l'opera viene poi tradotta
in inglese[81] da Harold Edward Musson (Ñāṇavīra Thera) con l'avallo della Pali
Society, anche se l'unica fonte che riporta questa informazione è lo stesso
Evola: «L'edizione inglese aveva avuto il crisma della Pali Society, noto
istituto accademico di studi sul buddhismo delle origini, che aveva
riconosciuto la validità della mia trattazione».[82] Ancor oggi rimane
aperto, tra gli studiosi, il dibattito sull'adesione di Evola alla Repubblica
Sociale, alla quale fanno accenno saggi ed opere enciclopediche di larga
diffusione.[83] In realtà subito dopo l'8 settembre, il filosofo romano, che si
trova in Germania per tenere alcune conferenze, raggiunge a Monaco gli altri
esuli fascisti «[...] osservando con distacco reazionario scelte che non lo convincono».[84]
Farà ritorno nell'Italia liberata solo al termine della guerra. Essendo Evola
rigorosamente contrario all'abrogazione della Monarchia e alla trasformazione
dell'Italia in una Repubblica, intraprende tentativi di influenza sulle SS e
sui nazisti tedeschi, compreso lo stesso Heinrich Himmler. Si scopre poi, nel
dopoguerra, che Evola è – sia in Germania che in Italia – tenuto sotto stretta
sorveglianza dall'Ahnenerbe.[85] Le SS gli permettono di avere ruoli culturali
di rilievo solo nei casi in cui questo giovi alla causa tedesca. Tuttavia Evola
collaborò con la sezione delle SS che si occupava di studiare e combattere le
trame occulte e antitradizionali della massoneria e dei poteri forti in
genere[86]. Nel 1945 Evola si trova a Vienna e nell'intento «di non
schivare anzi di cercare i pericoli, nel senso di un tacito interrogare la
sorte»[87] si avventura in una passeggiata durante i bombardamenti sovietici
che colpiscono la capitale austriaca. Sbalzato da uno spostamento d'aria,
subisce una lesione al midollo spinale che gli provoca una paralisi permanente
agli arti inferiori.[88] Solo nel 1948, grazie all'interessamento di Umberto
Zanotti Bianco – presidente della Croce Rossa Internazionale – viene trasferito
prima al sanatorio di Cuasso al Monte, poi a Bologna e infine, nel 1951, a
Roma, come egli stesso riporta in una lettera inviata all'amico poeta Girolamo
Comi.[89 A partire dal 1949 inizia la collaborazione con la rivista La
Sfida fondata da Enzo Erra, Pino Rauti ed Egidio Sterpa, ispirando poi la
nascita della nuova rivista Imperium che vede la luce nel 1950. Nel 1950
pubblica su Imperium l'opuscolo Orientamenti nel quale vengono sintetizzate in
undici punti le sue idee (poi sviluppate nei libri successivi e riedite nel
1970). Nel 1951 Evola viene arrestato con le accuse di apologia di
fascismo e di essere l'ispiratore di alcuni gruppi neofascisti: si tratta del
processo ai FAR (Fasci di Azione Rivoluzionaria). In questa occasione Evola
viene difeso gratuitamente dall'avvocato Francesco Carnelutti[90] e dall'ex
ministro dell'RSI Piero Pisenti ed egli stesso tiene dinanzi al Tribunale
un'autodifesa poi pubblicata integralmente dalla Fondazione Julius Evola.[91]
Scrive Evola: «Dissi che attribuirmi idee fasciste era un assurdo, non in
quanto erano fasciste, ma solo in quanto, rappresentavano, nel fascismo, la
riapparizione di principi della grande tradizione Politica europea di Destra in
genere. Io potevo aver difeso e potevo continuare a difendere certe concezioni
in fatto di dottrina dello Stato. Si era liberi di fare il processo a tali
concezioni. Ma in tal caso si dovevano far sedere sullo stesso banco degli
accusati: Platone, un Metternich, un Bismarck, il Dante del De Monarchia e via
dicendo» (Julius Evola, Il cammino del cinabro, op. cit., pp. 94-95.)
Pino Rauti ricorda che Evola viene portato dall'infermeria di Regina Coeli
nella I sezione della Corte d'Assise di Roma su un telo retto da quattro
detenuti, per l'occasione trasformati in infermieri, in quanto in tutta la
Corte non vi è una sedia a rotelle.[92] Una rara fotografia degli
anni cinquanta Il processo ai FAR si conclude il 20 novembre del 1951 con
l'assoluzione di Evola con formula piena. Successivamente lo scrittore
Marcello Veneziani, in relazione all'accusa mossa ad Evola di essere
l'ispiratore e ideologo dei FAR, scrive che «[...] gli errori compiuti da chi
ha cercato di tradurre Evola sul terreno sismico della politica, appartengono a
chi li ha compiuti e non ad Evola».[93] Analoga tesi sostiene Giorgio
Galli,[94] sottolineando inoltre di come lo stesso Evola è molto polemico nei
confronti delle ristampe cosiddette "non autorizzate" che alcuni
fanno dei suoi testi, soprattutto in relazione agli scritti giovanili
(Imperialismo pagano in particolare) e a quelli relativi al problema della
razza (Il mito del sangue, Indirizzi per una educazione razziale, Sintesi di
dottrina della razza). Scrive Evola in L'Italiano: «Non è certo colpa mia
se alcuni giovani hanno fatto un uso arbitrario, confuso e poco serio di alcune
idee dei miei libri, scambiando piani molto diversi».[95] Secondo Gianfranco De
Turris, non potendo accusare Evola direttamente per i suoi scritti, si tenta di
effettuare una "doppia lettura" dei suoi testi: una lettura palese
per il volgo ed una "esoterica" per gli "iniziati".[96]
Furio Jesi è il primo ad avanzare questa teoria nel suo famoso Cultura di
destra del 1979.[77] Altri autori sostengono invece che Evola sia un vero
e proprio cattivo maestro. Felice Pallavicini – partigiano e frequentatore di
Evola – così stigmatizza l'influenza del pensatore tradizionale sui giovani
neofascisti: «Non ha fabbricato ordigni esplosivi, non è stato il capo di una
banda di dinamitardi, ma le idee producono fatti, conseguenze [...] Ebbene
l'evolismo ha prodotto fascismo, razzismo e antisemitismo. La rivolta ha senso
solo se alla distruzione segue la ricostruzione, ma Evola ha badato solo a
distruggere».[97] Nel 1953 pubblica Gli uomini e le rovine – testo che
esercita grande influenza negli ambienti della destra italiana – nel quale
spiega la decadenza del mondo moderno in seguito alla distruzione del principio
di autorità e di ogni possibilità di trascendenza per l'affermarsi del
razionalismo, in contrasto con le antiche civiltà e i valori della Tradizione.
Nel 1958 esce la Metafisica del sesso sulla forza magica e potentissima
dell'atto sessuale, attraverso lo studio dei simboli esteso a numerose
tradizioni. Nel 1959 esce un testo sul pensiero di Jünger: L'«Operaio» nel
pensiero di Ernst Jünger. Nel 1961 è la volta di Cavalcare la tigre in cui
prosegue la sua critica al mondo moderno, offrendo una guida per coloro che pur
non sentendo di appartenere interiormente a questo mondo, hanno intenzione di
non cedervi psicologicamente ed esistenzialmente. Scrive anche su alcune riviste
ispirate al concetto metafisico ed immanente di Tradizione, come Il Ghibellino.
Gli uomini e le rovine e Cavalcare la tigre sono considerati due testi
fondamentali grazie ai quali c'è «una fattiva adesione dei giovani di destra al
ribellismo antisistema partito dalle università»[98] alla fine degli anni
sessanta. Scrive Pino Tosca: «Se si medita bene, ci si accorgerà che la
posizione dei tradizionalisti nei fatti del '68, proviene in massima parte
dalla lettura miscellanea di questi due testi».[99] Nel 1963 pubblica Il
cammino del cinabro, la sua autobiografia, e nel 1968 un volume di saggi:
L'arco e la clava. In questi anni torna all'attenzione del pubblico la
sua produzione artistica: nel 1963 Enrico Crispolti organizza una mostra dei
suoi quadri alla galleria La Medusa di Roma; nel 1969 viene pubblicata da
Scheiwiller Raâga Blanda, una raccolta di tutte le sue poesie, tra cui alcuni
lavori inediti. Riprende anche l'attività giornalistica e scrive su Meridiano
d'Italia, Monarchia, Barbarossa, Ordine Nuovo, Domani, Il Conciliatore,
Totalità, Vie della Tradizione e Il Borghese. In questo periodo Evola assiste
alla costituzione del Gruppo dei Dioscuri, sodalizio dedito al ripristino della
cultualità romana ed italica, di cui è uno degli ispiratori,[100] attraverso i
suoi scritti sulla romanità, il paganesimo e le idee imperiali, oltre che
attraverso un particolare rapporto di intimità intellettuale con i fondatori
dei Dioscuri. Gli ultimi anni Julius Evola in una fotografia del
1973 Vive gli ultimi anni con una pensione di invalido di guerra facendo
traduzioni e scrivendo articoli, sostenuto economicamente da alcuni ammiratori
guidati da Sergio Bonifazi, direttore del trimestrale Solstitivm. Un primo
scompenso cardiaco si manifesta nel 1968, un secondo nel 1970. In quest'ultima
occasione viene fatto ricoverare in ospedale da Placido Procesi, suo medico
personale. Evola è infastidito dalle suore che lo assistono e minaccia di
denunciarle per sequestro di persona. Viene fatto rientrare nella sua
abitazione. La sua salute continua costantemente a peggiorare: inizia ad avere
difficoltà respiratorie ed epatiche. Poco prima della morte detta lo
statuto originario di quella che sarebbe diventata la Fondazione Julius Evola
per la difesa dei valori di una cultura conforme alla Tradizione.[101] Muore
nella sua casa romana di corso Vittorio Emanuele l'11 giugno del 1974.
Pierre Pascal così lo ricorda nei suoi ultimi giorni: «Gli dissi il desiderio
supremo di Henry de Montherlant: essere ridotto in ceneri dal fuoco, affinché
fossero disperse a brezza leggera del Foro, tra i Rostri e il Tempio di Vesta.
Allora quest'uomo, che era davanti a me, disteso, con le belle mani incrociate
sul petto mi mormorò dolcemente e quasi impercettibilmente: "Io vorrei...
ho disposto... che le mie fossero lanciate dall'alto di una
montagna"».[102] L'esecuzione testamentaria è affidata all'avvocato Paolo
Andriani, condirettore della rivista Civiltà e amico fraterno, il quale riesce,
dopo molte peripezie, a far cremare il corpo di Evola – come da sua esplicita
richiesta – presso il cimitero di Spoleto. L'amica di Evola Amalia Baccelli
ricorda che il feretro rimane per molti giorni bloccato al Cimitero del Verano
nella stanza mortuaria.[103] Un'urna contenente le ceneri viene consegnata alla
guida emerita del CAI Eugenio David – compagno di scalate di Evola in
giovinezza – e calata nel crepaccio del Lyskamm Orientale sul Monte Rosa dal
Direttore del Centro Studi Evoliani di Genova Renato Del Ponte[104]. Una
seconda urna si trova invece presso la tomba di famiglia al cimitero del
Verano. Evola è propugnatore del Tradizionalismo, un modello ideale e
sovratemporale di società caratterizzato in senso spirituale, aristocratico e
gerarchico. Secondo l'autore tale modello si riscontra, da un punto di vista
storico, in civiltà quali quella egiziana, romana e indiana. Tali civiltà non
si basano su criteri economici, materiali e biologici, ma sono suddivise e
gestite in base a criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e
spirituale. L'essere e il divenire Secondo Evola ogni azione che avviene
durante la vita biologica (il divenire) rispecchia direttamente una medesima
azione di carattere metafisico (l'essere) e dunque imperitura e
sovratemporale. Il tempo e l'involuzione dell'uomo Il cammino dell'uomo
durante la sua involuzione (come la definisce lo stesso Evola in aperto
contrasto con le teorie darwiniane) avviene attraverso un percorso di tipo
circolare, non lineare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio, nello
schema proposto da Esiodo relativo alla cosiddetta teoria delle cinque età
(dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi, del ferro), corrispondenti ai
quattro yuga dell'induismo. Queste civiltà menzionate – ritenute superiori da
Evola – si basano dunque su una più elevata dimensione metafisica e spirituale
dell'esistenza, anziché su criteri di ordine materiale. La naturale decadenza
di queste società è direttamente proporzionale all'aumento del progresso e
della modernità. Tale processo di decadenza ha inizio con la perdita dell'unico
polo che in passato racchiude sia l'autorità spirituale che quella temporale e
prosegue con la spinta propulsiva dei valori illuministi espressi con la
Rivoluzione francese: si arriva così alla società odierna dove la dimensione
spirituale dell'esistenza è andata definitivamente perduta. In particolare
Evola rifiuta totalmente il concetto di egualitarismo, in favore di una visione
differenziatrice della natura umana. Ne consegue un netto rifiuto per la
democrazia (intesa come strumento di massa) e parimenti per ogni forma di
totalitarismo, anch'esso ritenuto uno strumento di massa che si basa non su
un'autorità spirituale, bensì su un'autorità esclusivamente di tipo
temporale. La via iniziatica Secondo Evola l'uomo ha la possibilità di
elevarsi alla sfera divina e metafisica attraverso precise strade (il rito e
l'iniziazione), utilizzando determinati strumenti (l'azione e la
contemplazione) all'interno di contesti sociali predeterminati (la casta,
l'impero). In aperto contrasto con le teorie di Sant'Agostino espresse nel De
civitate dei ed in sintonia con i dettami del buddhismo delle origini, Evola
sostiene che non esiste differenza quantitativa tra l'uomo e il dio. Per
l'autore ogni uomo è un dio mortale e ogni dio un uomo immortale.[106] Il
razzismo "spirituale" Conseguenza di questo pensiero è che le
differenze naturali tra gli esseri umani si rispecchierebbero anche nelle
razze. Il filosofo rifiuta una visione razzista della vita in senso biologico,
sostenendo invece la sua teoria del cosiddetto "razzismo spirituale".
La "razza interiore" di cui parla Evola è definita come un patrimonio
di tendenze e attitudini che, a seconda delle influenze ambientali,
giungerebbero o meno a manifestarsi compiutamente. L'appartenenza a una razza si
individuerebbe dunque sulla base delle caratteristiche spirituali, e in seguito
di quelle fisiche, diventandone col tempo queste ultime il segno visibile.
Partendo da questi presupposti assiomatici, Evola definisce gli ebrei come
razza materialista e spiritualmente inferiore rispetto alla razza ariana, in
sintonia con alcune idee del nazismo tedesco. Nonostante il rifiuto della
concezione pseudo-scientifica del razzismo biologico, nei confronti degli ebrei
il "razzismo spirituale" di Evola non rappresenta una versione attenuata
dell'antisemitismo nazista, ma un suo ribaltamento in senso metafisico: secondo
Enzo Collotti, «il razzismo spirituale del quale parla Evola vuole partire
appunto dal dato biologico, che gli pare ancora troppo rozzo e deterministico,
per sublimarlo e portarlo a pieno compimento "sul piano dello
spirito", ossia sul piano metafisico. In tal modo Evola intendeva
potenziare e nobilitare, e non già attenuare, il razzismo, avvolgendolo in una
nebulosa filosofeggiante e scrostandolo di quel tanto di ruvido
antropologismo»[107]. Nel 1994 vengono ritrovate presso l'archivio
crociano di Napoli sette lettere scritte da Evola a Benedetto Croce (più una,
l'ottava, indirizzata all'editore Laterza). Tale ritrovamento, ad opera di
Stefano Arcella – funzionario dei Beni Culturali presso la biblioteca di Napoli
– permette di ricostruire almeno in parte i rapporti tra Evola e il filosofo
del liberalismo. Evola invia inizialmente a Croce, in una lettera del 13 aprile
1925, la richiesta di intercedere presso l'editore Laterza per la pubblicazione
dei Saggi sull'idealismo magico e Teoria dell'individuo assoluto. Pochi giorni
dopo Evola risponde ad una cartolina postale di Croce ringraziandolo per il
giudizio di apprezzamento sul lato formale dei due manoscritti. Laterza,
nonostante l'appoggio favorevole di Benedetto Croce, scrive ad Evola una
lettera il 14 settembre 1925 in cui precisa di volersi riservare «la massima
libertà di decidere anche nei riguardi di autorevoli amici».[108] L'8 aprile
1930 Evola scrive nuovamente a Croce chiedendo aiuto per la sua nuova opera
sull'alchimia: La tradizione ermetica. In una successiva, breve lettera, Evola
ringrazia Croce per l'interessamento e l'anno successivo, il manoscritto esce
per i tipi dell'editore barese. Secondo Stefano Arcella[109] in questo
periodo si realizza un collegamento tra due opposizioni culturali al fascismo:
una in senso tradizionale (Evola) ed una in senso liberale (Croce). Secondo
Gianfranco De Turris[110] Evola si rivolge a Croce in quanto preferisce
aperture presso uomini e gruppi non dogmatici, più che presso l'ufficialità del
regime fascista. Poiché Evola non lascia un archivio epistolare, non è
possibile analizzare le risposte date da Croce alle missive dello stesso Evola.
Senza le risposte di Croce diventa infatti difficile valutare l'apertura del
pensatore liberale verso i contributi filosofici del pensatore
tradizionale. Lettere a Giovanni Gentile Giovanni Gentile Evola
invia, tra il 1927 e il 1929, quattro lettere al Senatore Gentile. Nonostante
le marcate divergenze sul piano filosofico – Evola si discosta dall'attualismo
gentiliano in favore di una rigida codificazione teoretica (l'idealismo magico)
– il pensatore tradizionale cerca un confronto con uno dei massimi esponenti
del mondo accademico. Tale confronto, secondo Stefano Arcella[111] – curatore
del volume Lettere di Julius Evola a Giovanni Gentile (1927-1929) – non produce
risvolti interessanti sotto il profilo speculativo in quanto i due filosofi
sono su posizioni eccessivamente distanti, ed anche i presupposti dottrinali e
religiosi sono inconciliabili. Sempre Arcella afferma che «il tentativo
evoliano di aprire un colloquio costruttivo rimane un fiore che non
sboccia».[112] Evola cerca di costruire, pur senza risultati apprezzabili, un punto
di riferimento culturale alternativo all'ambiente gentiliano. Nel Cammino dei
cinabro tenta di spiegare così le ragioni di questo mancato incontro:
«Tutti i riferimenti extra-filosofici di cui il mio sistema filosofico era
ricco servirono come un comodo pretesto per l'ostracismo. Si poteva liquidare
con un'alzata di spalle un sistema che accordava un posto perfino al mondo
dell'iniziazione, della "magia" e di altri relitti superstiziosi. Che
tutto ciò da me fosse fatto valere nei termini di un rigoroso pensiero
speculativo, a poco servì. Però anche da parte mia vi era un equivoco, nei
riguardi di coloro ai quali, sul piano pratico, la mia fatica speculativa
poteva servire a qualcosa. Si trattava di una introduzione filosofica ad un
mondo non filosofico, la quale poteva avere un significato nei soli rarissimi
casi in cui la filosofia ultima avesse dato luogo ad una profonda crisi
esistenziale. Ma vi era anche da considerare (e di questo in seguito mi resi
sempre più conto) che i precedenti filosofici, cioè l'abito del pensiero
astratto discorsivo, rappresentavano la qualificazione più sfavorevole affinché
tale crisi potesse essere superata nel senso positivo da me indicato, con un
passaggio a discipline realizzatrici» (Julius Evola, Il cammino del cinabro,
op. cit., p. 61.) Gentile tuttavia riconosce ad Evola una certa competenza in
campo esoterico-alchemico ed infatti chiede al filosofo della tradizione di
curare la voce Atanor per l'Enciclopedia Italiana.[113] Anche alcuni allievi di
Gentile riconoscono ad Evola una certa stima, in particolare Guido
Calogero.[114] Alessandro Giuli successivamente[115] riporta altre
informazioni, relative al carteggio Evola-Gentile, reperite all'interno della
"Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici", occupandosi in
particolare dei vari volumi[116] che Evola invia con dedica al Senatore.
Lettere a Carl Schmitt Carl Schmitt Si tratta di sette lettere inviate da
Evola a Schmitt tra il 1951 e il 1963, conservate nel Nachlass Carl Schmitt
dell'Archivio di Stato di Düsseldorf.[117] L'epistolario mette in luce da una
parte alcune amicizie e conoscenze in comune tra i due pensatori (Ernst Jünger,
Armin Mohler e il principe di Rohan), dall'altra il tentativo di proporre la
pubblicazione in italiano del saggio di Schmitt sul tradizionalista cattolico
Donoso Cortés.[118] Tale tentativo non va in porto, così come fallisce anche il
secondo progetto editoriale, risalente al 1963, di pubblicare un'antologia
schmittiana. Di rilievo, all'interno dello scambio epistolare, le due divergenti
visioni rispetto alle teorie di Donoso Cortés sul ruolo dell'uomo politico e la
sua autonomia. Evola interpreta il concetto di dictatura coronada come
«necessità di un potere che decida assolutamente, ma ad un livello di una
dignità superiore, indicata dall'aggettivo coronada».[119] Per il giurista
tedesco, invece, esiste prima di tutto un passaggio significativo che porta dal
concetto della legittimità del regnare a quello della dittatura. Per Cortés,
scrive Schmitt, «la dittatura incoronata, la dictadura coronada, significava
solo un pis-aller pratico [...] mai ha concepito questo espediente pragmatico
come una forma di salvezza religiosa o teologica».[120] Anche in questo
caso – così come già ampiamente esposto in Rivolta contro il mondo moderno[121]
– il costante rimando evoliano ad un fondamento trascendente dell'ordine
politico rimane «quell'ineliminabile discrimine che non può essere in alcun
modo occultato o minimizzato».[122] Antonio Caracciolo sottolinea anche di come
l'epistolario assume rilievo in relazione al tentativo di «fornire di solidi
contrafforti ideologici e culturali il mondo conservatore che, nel dopoguerra
italiano, si trovava a combattere la sua battaglia politica».[123]
Lettere a Gottfried Benn Gottfried Benn Evola entra in contatto
epistolare con Gottfried Benn – medico e poeta tedesco appartenente alla
cosiddetta Rivoluzione conservatrice – fin dal 1930. Il primo incontro risale
invece al 1934, durante la tappa berlinese di un viaggio che Evola effettua in
Germania. Da quell'incontro scaturisce una famosa recensione-saggio di Benn
alla traduzione tedesca di Rivolta contro il mondo moderno[124] che appare nel
1935 sulla rivista Die Literatur di Stoccarda.[125] Nel presentare l'opera,
Benn espone le sue teorie convergendo con la visione del mondo di
Evola.[126] Successivamente Francesco Tedeschi rintraccia nello
Schiller-Nationalmuseum Deutsches Literaturarchiv di Marbach due lettere
manoscritte (la prima del 30 luglio e la seconda del 9 agosto 1934) più una
dattiloscritta del 13 settembre 1955 che Evola invia a Benn. Le prime due
lettere sono importanti in quanto chiariscono la comunanza di vedute dei due
autori rispetto al tema della tradizione e di una visione del mondo
conservatrice, oltre al fatto che entrambi non si riconoscono nel nazismo
tedesco. Dalla lettera del 9 agosto: «Sono sempre più convinto che a chi voglia
difendere e realizzare senza compromessi di sorta una tradizione spirituale e
aristocratica non rimanga purtroppo, oggi e nel mondo moderno, alcun margine di
spazio; a meno che non si pensi unicamente a un lavoro elitario».[3] La terza
lettera è importante in quanto testimonia il tentativo di Evola di riprendere,
nel dopoguerra, i rapporti con quegli esponenti conservatori che conosce negli
anni trenta e quaranta.[127] Lettere a Tristan Tzara Tristan Tzara
in un ritratto di Lajos Tihanyi Nel 1975 compaiono, in un articolo di Giovanni
Lista,[128] brani di due lettere inviate da Evola a Tristan Tzara, il fondatore
del Dadaismo. Dall'articolo non si evince però la loro collocazione. Solo nel
1989, grazie al lavoro di ricerca della studiosa Elisabetta Valento, tutta la
corrispondenza viene trovata presso l'archivio della Fondation Jaques Doucet
della biblioteca Sainte-Geneviève di Parigi. Si tratta di una trentina di
documenti tra lettere e cartoline: la prima è del 7 ottobre 1919, l'ultima del
1º agosto 1923. Molte tappe del cammino artistico del filosofo romano sono già
note prima del rinvenimento della corrispondenza con Tzara: in parte perché lo
stesso Evola ne parla nella sua autobiografia,[129] in parte perché dedotte dai
critici e dagli studiosi nelle partecipazioni, in qualità di articolista, che
Evola ha in alcune riviste d'arte dell'epoca: Noi, Cronache d'Attualità, Dada e
Bleu. Secondo la Valento, ciò che invece non è noto prima del rinvenimento
della corrispondenza, sono «le modalità dell'avventura evoliana nella sfera
artistica, ovvero come essa si attuò, come fu vissuta, a che
mirava».[130] L'archivio della corrispondenza tra i due artisti ha, inoltre,
il pregio di colmare il vuoto di un periodo giovanile poco conosciuto di Evola.
Questo vuoto si colma sia attraverso la ricostruzione di tappe cronologiche (il
recupero di alcune date, partecipazioni a mostre, riviste, incontri) sia
attraverso il recupero di tappe più specificamente «psicologiche».[131] In
particolare quelle che portano Evola ad annunciare il proprio suicidio (lettera
24 del 2 luglio 1921) e che raccontano di un uomo colto nel pieno male di
vivere, di una sperimentazione del travaglio interiore che l'artista vive tra
il 1920 e il 1921, dove la «sofferenza acuta si alterna alla
disperazione».[130]Opere dell'autore Julius Evola, Arte Astratta, posizione
teorica, Roma, Maglione e Strini, 1920. ISBN non esistente (FR) Julius Evola,
La parole obscure du paysage intérieur, Roma-Zurigo, Collection Dada, 1921.
ISBN non esistente Julius Evola, Saggi sull'idealismo magico, Todi-Roma,
Atanòr, 1925. ISBN non esistente Julius Evola, L'individuo e il divenire del
mondo, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1926. ISBN non esistente Julius
Evola, L'uomo come potenza, Todi-Roma, Atanòr, 1927a. ISBN non esistente Julius
Evola, Teoria dell'individuo assoluto, Torino, Bocca, 1927b. ISBN non esistente
Julius Evola, Imperialismo pagano, Todi-Roma, Atanòr, 1928. ISBN non esistente
Julius Evola, Fenomenologia dell'individuo assoluto, Torino, Bocca, 1930. ISBN
non esistente Julius Evola, La tradizione ermetica, Bari, Laterza, 1931. ISBN
non esistente Julius Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo,
Torino, Bocca, 1932. ISBN non esistente Julius Evola, Rivolta contro il mondo
moderno, Milano, Hoepli, 1934. ISBN non esistente Julius Evola, Tre aspetti del
problema ebraico, Roma, Mediterranee, 1936. ISBN non esistente Julius Evola, Il
mistero del Graal, Bari, Laterza, 1937a. ISBN non esistente Julius Evola, Il
mito del sangue, Milano, Hoepli, 1937b. ISBN non esistente Julius Evola,
Indirizzi per una educazione razziale, Napoli, Conte, 1941a. ISBN non esistente
Julius Evola, Sintesi di dottrina della razza, Milano, Hoepli, 1941b. ISBN non
esistente Julius Evola, La dottrina del risveglio, Bari, Laterza, 1943. ISBN
non esistente Julius Evola, Lo Yoga della potenza, Torino, Bocca, 1949. ISBN
non esistente Julius Evola, Orientamenti, Roma, Imperium, 1950. ISBN non
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DVD pubblicato nel 2006 dalla Società Editrice Barbarossa di Milano, della
durata di 101 min., che ripercorre il periodo artistico di Evola. Con musiche
di: Ain Soph, Kaiserbund, Roma, Wien, Zetazeroalfa. Voci correlate
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Julius Evola, su futur-ism.it. URL consultato il 29 dicembre 2012. Julius Evola
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fascistaPersonalità del neofascismoOrientalisti italianiSepolti nel cimitero
del VeranoNeopaganesimo in ItaliaAnticomunisti italiani[altre]. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice ed Evola," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Eubulides’s
paradox -- sorites: an argument
consisting of categorical propositions that can be represented as or decomposed
into a sequence of categorical syllogisms such that the conclusion of each
syllogism except the last one in the sequence is a premise of the next
syllogism in the sequence. An example is ‘All cats are felines; all felines are
mammals; all mammals are warm-blooded animals; therefore, all cats are
warm-blooded animals’. This sorites may be viewed as composed of the two
syllogisms ‘All cats are felines; all felines are mammals; therefore, all cats
are mammals’ and ‘All cats are mammals; all mammals are warm-blooded animals;
therefore, all cats are warm-blooded animals’. A sorites is valid if and only
if each categorical syllogism into which it decomposes is valid. In the
example, the sorites decomposes into two syllogisms in the mood Barbara; since
any syllogism in Barbara is valid, the sorites is valid. Then there is the
sorites paradox from Grecian soros, ‘heap’, any of a number of paradoxes about
heaps and their Sorel, Georges sorites paradox 864 864 elements, and more broadly about
gradations. A single grain of sand cannot be arranged so as to form a heap.
Moreover, it seems that given a number of grains insufficient to form a heap,
adding just one more grain still does not make a heap. If a heap cannot be
formed with one grain, it cannot be formed with two; if a heap cannot be formed
with two, it cannot be formed with three; and so on. But this seems to lead to
the absurdity that however large the number of grains, it is not large enough
to form a heap. A similar paradox can be developed in the opposite direction. A
million grains of sand can certainly be arranged so as to form a heap, and it is
always possible to remove a grain from a heap in such a way that what is left
is also a heap. This seems to lead to the absurdity that a heap can be formed
even from just a single grain. These paradoxes about heaps were known in
antiquity they are associated with Eubulides of Miletus, fourth century B.C.,
and have since given their name to a number of similar paradoxes. The loss of a
single hair does not make a man bald, and a man with a million hairs is
certainly not bald. This seems to lead to the absurd conclusion that even a man
with no hairs at all is not bald. Or consider a long painted wall hundreds of
yards or hundreds of miles long. The left-hand region is clearly painted red,
but there is a subtle gradation of shades and the right-hand region is clearly
yellow. A small double window exposes a small section of the wall at any one
time. It is moved progressively rightward, in such a way that at each move
after the initial position the left-hand segment of the window exposes just the
area that was in the previous position exposed by the right-hand segment. The
window is so small relative to the wall that in no position can you tell any
difference in color between the exposed areas. When the window is at the
extreme left, both exposed areas are certainly red. But as the window moves to
the right, the area in the right segment looks just the same color as the area
in the left, which you have already pronounced to be red. So it seems that one
must call it red too. But then one is led to the absurdity of calling a clearly
yellow area red. As some of these cases suggest, there is a connection with
dynamic processes. A tadpole turns gradually into a frog. Yet if you analyze a
motion picture of the process, it seems that there are no two adjacent frames
of which you can say the earlier shows a tadpole, the later a frog. So it seems
that you could argue: if something is a tadpole at a given moment, it must also
be a tadpole and not a frog a millionth of a second later, and this seems to
lead to the absurd conclusion that a tadpole can never turn into a frog. Most
responses to this paradox attempt to deny the “major premise,” the one
corresponding to the claim that if you cannot make a heap with n grains of sand
then you cannot make a heap with n ! 1. The difficulty is that the negation of
this premise is equivalent, in classical logic, to the proposition that there
is a sharp cutoff: that, e.g., there is some number n of grains that are not
enough to make a heap, where n ! 1 are enough to make a heap. The claim of a
sharp cutoff may not be so very implausible for heaps perhaps for things like
grains of sand, four is the smallest number which can be formed into a heap but
is very implausible for colors and tadpoles. There are two main kinds of
response to sorites paradoxes. One is to accept that there is in every such
case a sharp cutoff, though typically we do not, and perhaps cannot, know where
it is. Another kind of response is to evolve a non-classical logic within which
one can refuse to accept the major premise without being committed to a sharp
cutoff. At present, no such non-classical logic is entirely free of
difficulties. So sorites paradoxes are still taken very seriously by
contemporary philosophers. The heap was one of the four known paradoxes by
Eubulides. Refs.: Grice, “Eubulides, and solving his paradoxes.”
EX-DVCTVM --
eductum: eduction, the process of
initial clarification, as of a phenomenon, text, or argument, that normally
takes place prior to logical analysis. Out of the flux of vague and confused
experiences certain characteristics are drawn into some kind of order or
intelligibility in order that attention can be focused on them Aristotle,
Physics I. These characteristics often are latent, hidden, or implicit. The
notion often is used with reference to texts as well as experience. Thus it
becomes closely related to exegesis and hermeneutics, tending to be reserved
for the sorts of clarification that precede formal or logical analyses.
EX-FECTVM --
effectum: causa efficiencis --
effective procedure for the generation of a conversational implicaturum --, a
step-by-step recipe for computing the values of a function. It determines what
is to be done at each step, without requiring any ingenuity of anyone or any
machine executing it. The input and output of the procedure consist of items
that can be processed mechanically. Idealizing a little, inputs and outputs are
often taken to be strings on a finite alphabet. It is customary to extend the
notion to procedures for manipulating natural numbers, via a canonical
notation. Each number is associated with a string, its numeral. Typical
examples of effective procedures are the standard grade school procedures for
addition, multiplication, etc. One can execute the procedures without knowing
anything about the natural numbers. The term ‘mechanical procedure’ or
‘algorithm’ is sometimes also used. A function f is computable if there is an
effective procedure A that computes f. For every m in the domain of f, if A
were given m as input, it would produce fm as output. Turing machines are
mathematical models of effective procedures. Church’s thesis, or Turing’s
thesis, is that a function is computable provided there is a Turing machine
that computes it. In other words, for every effective procedure, there is a Turing
machine that computes the same function.
EX-HIBITVM -- inhibitium/exhibitum
distinction, the: exhibitum: Grice: “For one, I will introduce a pair of not
really antonyms: the exhibitive and not the inhibitive, but the protreptic.”
Grice contrasts this with the protrepticum – A piece of a communicatum is an
exhitibum if it is a communication-device for the emisor to display his
psychological attitude. It is protrepticum if the emisor intends the sendee to
entertain a state other than the uptake – i. e. form a volition to close the
door, for how else will he comply with the order in the imperative
modeprotrepticum: the opposite of the exhibitium.
EX-MISSVM -- emissum: emissor. A construction out of ex- and ‘missum,’ cf. Grice
on psi-trans-mis-sion. Grice’s utterer, but turned Griceian, To emit, to
translate some Gricism or other. Cf. proffer. emissum. emissor-emissum distinction.
Frequently ignored by Austin. Grice usually formulates it ‘roughly.’ Strawson
for some reason denied the reducibility of the emissum to the emissor. Vide his
footnote in his Inaugural lecture at Oxford. it is a truth implicitly
acknowledged by communication theorists themselves -- this acknowledgement is
is certainly implicit in Grice's distinction between what speakers actually
say, in a favored sense of 'say', and what they imply (see "Utterer's
Meaning, SentenceMeaning and Word-Meaning," in Foundations of Language,
1968) -- that in almost all the things we should count as sentences there is a
substantial central core of meaning which is explicable either in terms of
truth-conditions or in terms of some related notion quite simply derivable from
that of a truth-condition, for example the notion, as we might call it, of a
compliance condition in the case of an imperative sentence or a
fulfillment-condition in the case of an optative. If we suppose, therefore,
that an account can be given of the notion of a truthcondition itself, an
account which is indeed independent of reference to communicationintention,
then we may reasonably think that the greater part of the task of a general
theory of meaning has been accomplished without such reference. So let us see
if we can rephrase the distinction for a one-off predicament. By drawing a
skull, Blackburn communicates to his fellow Pembrokite that there is danger
around. The proposition is ‘There is danger around’. Of the claims, one is
literal; the other metabolical. Blackburn means that there is danger around.
Blackburn communicates that there is danger around, possibly leading to death.
The emissum, Blackburn’s drawing of the skull ‘means’ that there is danger
around. Since the fact that Blackburn communicates that p is diaphanous, we
have yet another way of posing the distinction: Blackburn communicates that
there is danger around. What is communicated by Blackburn – his emissum – is
true. Note that in this diaphanous change from ‘Blackburn communicates that
there is danger around’ and ‘What Blackburn communicates, viz. that there is
danger around, is true’ we have progressed quite a bit. There are ways of
involving ‘true’ in the first stage. Blackburn communicates that there is
danger around, and he communicates something true. In the classical languages,
this is done in the accusative case. emissum.
emit. V. emissor. A good verb used by Grice. It gives us ‘emitter, and it is
more Graeco-Roman than his ‘utterer,’ which Cicero would think a barbarism.
EX-MOTVM -- emotum: the emotum, the motum. Grice enjoyed a bit of history of
philosophy. Cf. conatum. And Urmson’s company helped. Urmson produced a
brilliant study of the ‘emotive’ theory of ethics, which is indeed linguistic
and based on Ogden. Diog. Laert. of Zeno of Citium. πρὸς τὸν εἰπόντα,
"πολλοί σου καταγελῶσιν," "ἀλλ ἐγώ," ἔφη, "οὐ κατα-
γελῶμαι; to the question, who is a friend?, Zeno’s answer is, ‘a second self
(alter ego). One direct way to approach friend is via emotion, as
Aristotle did, and found it aporetic as did Grice. Aristotle discusses philia
in Eth. Nich. but it is in Rhet. where he allows for phulia to be an emotion.
Grice was very fortunate to have Hardie as his tutor. He overused Hardies
lectures on Aristotle, too, and instilled them on his own tutees! Grice is
concerned with the rather cryptic view by Aristotle of the friend (philos,
amicus) as the alter ego. In Grices cooperative, concerted, view of
things, a friend in need is a friend indeed! Grice is interested in Aristotle
finding himself in an aporia. In Nicomachean Ethics IX.ix, Aristotle poses the
question whether the happy man will need friends or not. Kosman correctly
identifies this question as asking not whether friends are necessary in order
to achieve eudæmonia, but why we require friends even when we are happy. The
question is not why we need friends to become happy, but why we need friends
when we are happy, since the eudæmon must be self-sufficient. Philia is
required for the flourishing of the life of practical virtue. The solution by
Aristotle to the aporia here, however, points to the requirement of friendships
even for the philosopher, in his life of theoretical virtue. The olution
by Aristotle to the aporia in Nicomachean Ethics IX.ix is opaque, and the
corresponding passage in Eudeiman Ethics VII.xii is scarcely better. Aristotle
thinks he has found the solution to this aporia. We must take two things into
consideration, that life is desirable and also that the good is, and thence
that it is desirable that such a nature should belong to oneself as it belongs
to them. If then, of such a pair of corresponding s. there is always one s. of
the desirable, and the known and the perceived are in general constituted by
their participation in the nature of the determined, so that to wish to
perceive ones self is to wish oneself to be of a certain definite
character,—since, then we are not in ourselves possessed of each such
characters, but only in participation in these qualities in perceiving and
knowing—for the perceiver becomes perceived in that way in respect in which he
first perceives, and according to the way in which and the object which he
perceives; and the knower becomes known in the same way— therefore it is for
this reason that one always desires to live, because one always desires to
know; and this is because he himself wishes to be the object known. emotion, as
conceived by philosophers and psychologists, any of several general types of
mental states, approximately those that had been called “passions” by earlier
philosophers, such as Descartes and Hume. Anger, e.g., is one emotion, fear a
second, and joy a third. An emotion may also be a content-specific type, e.g.,
fear of an earthquake, or a token of an emotion type, e.g., Mary’s present fear
that an earthquake is imminent. The various states typically classified as
emotions appear to be linked together only by overlapping family resemblances
rather than by a set of necessary and sufficient conditions. Thus an adequate
philosophical or psychological “theory of emotion” should probably be a family
of theories. Even to label these states “emotions” wrongly suggests that they
are all marked by emotion, in the older sense of mental agitation a
metaphorical extension of the original sense, agitated motion. A person who is,
e.g., pleased or sad about something is not typically agitated. To speak of
anger, fear, joy, sadness, etc., collectively as “the emotions” fosters the
assumption which James said he took for granted that these are just
qualitatively distinct feelings of mental agitation. This exaggerates the
importance of agitation and neglects the characteristic differences, noted by
Aristotle, Spinoza, and others, in the types of situations that evoke the
various emotions. One important feature of most emotions is captured by the
older category of passions, in the sense of ‘ways of being acted upon’. In many
lanemotion emotion 259 259 guages
nearly all emotion adjectives are derived from participles: e.g., the English
words ‘amused’, ‘annoyed’, ‘ashamed’, ‘astonished’, ‘delighted’, ‘embarrassed’,
‘excited’, ‘frightened’, ‘horrified’, ‘irritated’, ‘pleased’, ‘terrified’,
‘surprised’, ‘upset’, and ‘worried’. When we are, e.g., embarrassed, something
acts on us, i.e., embarrasses us: typically, some situation or fact of which we
are aware, such as our having on unmatched shoes. To call embarrassment a
passion in the sense of a way of being acted upon does not imply that we are
“passive” with respect to it, i.e., have no control over whether a given
situation embarrasses us and thus no responsibility for our embarrassment. Not
only situations and facts but also persons may “do” something to us, as in love
and hate, and mere possibilities may have an effect on us, as in fear and hope.
The possibility emotions are sometimes characterized as “forward-looking,” and
emotions that are responses to actual situations or facts are said to be
“backward-looking.” These temporal characterizations are inaccurate and
misleading. One may be fearful or hopeful that a certain event occurred in the
past, provided one is not certain as to whether it occurred; and one may be,
e.g., embarrassed about what is going to occur, provided one is certain it will
occur. In various passions the effect on us may include involuntary
physiological changes, feelings of agitation due to arousal of the autonomic
nervous system, characteristic facial expressions, and inclinations toward
intentional action or inaction that arise independently of any rational
warrant. Phenomenologically, however, these effects do not appear to us to be
alien and non-rational, like muscular spasms. Rather they seem an integral part
of our perception of the situation as, e.g., an embarrassing situation, or one
that warrants our embarrassment. emotive
conjugation: I went to Oxford; you went to Cambridge; he went to the London
School of Economics”: a humorous verbal conjugation, designed to expose and
mock first-person bias, in which ostensibly the same action is described in
successively more pejorative terms through the first, second, and third persons
e.g., “I am firm, You are stubborn, He is a pig-headed fool”. This example was
used by Russell in the course of a BBC Radio “Brains’ Trust” discussion. It was
popularized later that year when The New Statesman ran a competition for other
examples. An “unprecedented response” brought in 2,000 entries, including: “I
am well informed, You listen to gossip, He believes what he reads in the
paper”; and “I went to Oxford, You went to Cambridge, He went to the London
School of Economics” Russell was educated at Cambridge and later taught
there. -- emotivism, a noncognitivist
metaethical view opposed to cognitivism, which holds that moral judgments
should be construed as assertions about the moral properties of actions,
persons, policies, and other objects of moral assessment, that moral predicates
purport to refer to properties of such objects, that moral judgments or the
propositions that they express can be true or false, and that cognizers can
have the cognitive attitude of belief toward the propositions that moral
judgments express. Noncognitivism denies these claims; it holds that moral
judgments do not make assertions or express propositions. If moral judgments do
not express propositions, the former can be neither true nor false, and moral
belief and moral knowledge are not possible. The emotivist is a noncognitivist
who claims that moral judgments, in their primary sense, express the
appraiser’s attitudes approval or
disapproval toward the object of
evaluation, rather than make assertions about the properties of that object.
Because emotivism treats moral judgments as the expressions of the appraiser’s
pro and con attitudes, it is sometimes referred to as the boohurrah theory of
ethics. Emotivists distinguish their thesis that moral judgments express the
appraiser’s attitudes from the subjectivist claim that they state or report the
appraiser’s attitudes the latter view is a form of cognitivism. Some versions
of emotivism distinguish between this primary, emotive meaning of moral
judgments and a secondary, descriptive meaning. In its primary, emotive
meaning, a moral judgment expresses the appraiser’s attitudes toward the object
of evaluation rather than ascribing properties to that object. But secondarily,
moral judgments refer to those non-moral properties of the object of evaluation
in virtue of which the appraiser has and expresses her attitudes. So if I judge
that your act of torture is wrong, my judgment has two components. Its primary,
emotive sense is to express my disapproval of your act. Its secondary,
descriptive sense is to denote those non-moral properties of your act upon
which I base my disapproval. These are presumably the very properties that make
it an act of torture roughly, a causing
of intense pain in order to punish, coerce, or afford sadistic pleasure. By
making emotive meaning primary, emotivists claim to preserve the univocity of
moral language between speakers who employ different criteria of application
for their moral terms. Also, by stressing the intimate connection between moral
judgment and the agent’s non-cognitive attitudes, emotivists claim to capture
the motivational properties of moral judgment. Some emotivists have also
attempted to account for ascriptions of truth to moral judgments by accepting
the redundancy account of ascriptions of truth as expressions of agreement with
the original judgment. The emotivist must think that such ascriptions of truth
to moral judgments merely reflect the ascriber’s agreement in noncognitive
attitude with the attitude expressed by the original judgment. Critics of
emotivism challenge these alleged virtues. They claim that moral agreement need
not track agreement in attitude; there can be moral disagreement without
disagreement in attitude between moralists with different moral views, and
disagreement in attitude without moral disagreement between moralists and
immoralists. By distinguishing between the meaning of moral terms and speakers’
beliefs about the extension of those terms, critics claim that we can account
for the univocity of moral terms in spite of moral disagreement without
introducing a primary emotive sense for moral terms. Critics also allege that
the emotivist analysis of moral judgments as the expression of the appraiser’s
attitudes precludes recognizing the possibility of moral judgments that do not
engage or reflect the attitudes of the appraiser. For instance, it is not clear
how emotivism can accommodate the amoralist
one who recognizes moral requirements but is indifferent to them.
Critics also charge emotivism with failure to capture the cognitive aspects of
moral discourse. Because emotivism is a theory about moral judgment or
assertion, it is difficult for the emotivist to give a semantic analysis of
moral predicates in unasserted contexts, such as in the antecedents of
conditional moral judgments e.g., “If he did wrong, then he ought to be
punished”. Finally, one might want to recognize the truth of some moral
judgments, perhaps in order to make room for the possibility of moral mistakes.
If so, then one may not be satisfied with the emotivist’s appeal to redundancy
or disquotational accounts of the ascription of truth. Emotivism was introduced
by Ayer in Language, Truth, and Logic 2d ed., 6 and refined by C. L. Stevenson
in Facts and Values 3 and Ethics and Language 4. Refs.:
Luigi Speranza, “Croce, Collingwood, and Grice on the expression of emotion” --
There is an essay on “Emotions and akrasia,” but the topic is scattered in
various places, such as Grice’s reply to Davidson on intending. Grice has an
essay on ‘Kant and friendship,’ too, The H. P. Grice Papers, BANC.
EX-PERITVM -- Experitum – ex-peri – In Roman, ex-
preferred, in Grecian, im-preferred, ex-pĕrĭor , pertus ( I.act.
experiero, Varr. L. L. 8, 9, 24 dub.), 4, v. dep. a. [ex- and root per-;
Sanscr. par-, pi-parmi, conduct; Gr. περάω, pass through; πόρος, passage; πεῖρα,
experience; Lat. porta, portus, peritus, periculum; Germ. fahren, erfahren;
Eng. fare, ferry], to try a thing; viz., either by way of testing or of
attempting it. I. To try, prove, put to the test. A. In tempp. praes. constr.
with the acc., a rel. clause, or absol. (α). With acc.: “habuisse aiunt domi
(venenum), vimque ejus esse expertum in servo quodam ad eam rem ipsam parato,”
Cic. Cael. 24, 58: “taciturnitatem nostram,” id. Brut. 65, 231: “amorem
alicujus,” id. Att. 16, 16, C, 1: “his persuaserant, uti eandem belli fortunam
experirentur,” Caes. B. G. 2, 16, 3: “judicium discipulorum,” Quint. 2, 5, 12:
“in quo totas vires suas eloquentia experiretur,” id. 10, 1, 109: “imperium,”
Liv. 2, 59, 4: “cervi cornua ad arbores subinde experientes,” Plin. 8, 32, 50,
§ 117 et saep.— “With a personal object: vin' me experiri?” make trial of me,
Plaut. Merc. 4, 4, 29: “hanc experiamur,” Ter. Hec. 5, 2, 12 Ruhnk.: “tum se
denique errasse sentiunt, cum eos (amicos) gravis aliquis casus experiri
cogit,” Cic. Lael. 22, 84: “in periclitandis experiendisque pueris,” id. Div.
2, 46, 97.—So with se. reflex., to make trial of one's powers in any thing: “se
heroo (versu),” Plin. Ep. 7, 4, 3 variis se studiorum generibus, id. ib. 9, 29,
1: “se in foro,” Quint. 12, 11, 16.— (β). With a rel.-clause, ut, etc.: vosne
velit an me regnare era quidve ferat Fors, Virtute experiamur, Enn. ap. Cic.
Off. 1, 12, 38 (Ann. v. 204, ed. Vahl.): “lubet experiri, quo evasuru'st
denique,” Plaut. Trin. 4, 2, 93: “experiri libet, quantum audeatis,” Liv. 25,
38, 11; cf. Nep. Alcib. 1, 1: “in me ipso experior, ut exalbescam, etc.,” Cic.
de Or. 1, 26, 121; cf. with si: “expertique simul, si tela artusque sequantur,”
Val. Fl. 5, 562.— (γ). Absol.: “experiendo magis quam discendo cognovi,” Cic.
Fam. 1, 7, 10: “judicare difficile est sane nisi expertum: experiendum autem
est in ipsa amicitia: ita praecurrit amicitia judicium tollitque experiendi
potestatem,” id. Lael. 17, 62.— B. In the tempp. perf., to have tried, tested,
experienced, i. e. to find or know by experience: “benignitatem tuam me experto
praedicas,” Plaut. Merc. 2, 2, 18: “omnia quae dico de Plancio, dico expertus
in nobis,” Cic. Planc. 9, 22: “experti scire debemus, etc.,” id. Mil. 26, 69:
“illud tibi expertus promitto,” id. Fam. 13, 9, 3: “dicam tibi, Catule, non tam
doctus, quam, id quod est majus, expertus,” id. de Or. 2, 17, 72: “puellae jam
virum expertae,” Hor. C. 3, 14, 11; 4, 4, 3; cf. Quint. 6, 5, 7: “mala
captivitatis,” Sulp. Sev. 2, 22, 5: “id opera expertus sum esse ita,” Plaut.
Bacch. 3, 2, 3: “expertus sum prodesse,” Quint. 2, 4, 13: “expertus, juvenem praelongos
habuisse sermones,” id. 10, 3, 32: “ut frequenter experti sumus,” id. 1, 12,
11.— “Rarely in other tenses: et exorabile numen Fortasse experiar,” may find,
Juv. 13, 103.— C. To make trial of, in a hostile sense, to measure strength
with, to contend with: “ut interire quam Romanos non experiri mallet,” Nep.
Ham. 4, 3: “maritimis moribus mecum experitur,” Plaut. Cist. 2, 1, 11: “ipsi
duces cominus invicem experti,” Flor. 3, 21, 7; 4, 10, 1; cf.: “hos cum Suevi,
multis saepe bellis experti, finibus expellere non potuissent,” Caes. B. G. 4,
3, 4: “Turnum in armis,” Verg. A. 7, 434. II. To undertake, to attempt, to make
trial of, undergo, experience a thing. A. In gen.: “qui desperatione debilitati
experiri id nolent, quod se assequi posse diffidant. Sed par est omnes omnia
experiri, qui, etc.,” Cic. Or. 1, 4; cf.: “istuc primum experiar,” Plaut. Truc.
2, 7, 47: “omnia experiri certum est, priusquam pereo,” Ter. And. 2, 1, 11:
“omnia prius quam, etc.,” Caes. B. G. 7, 78, 1: “extrema omnia,” Sall. C. 26, 5;
cf. “also: sese omnia de pace expertum,” Caes. B. C. 3, 57, 2: “libertatem,” i.
e. to make use of, enjoy, Sall. J. 31, 5: “late fusum opus est et multiplex,
etc. ... dicere experiar,” Quint. 2, 13, 17: “quod quoniam me saepius rogas,
aggrediar, non tam perficiundi spe quam experiundi voluntate,” Cic. Or. 1,
2.—With ut and subj.: “nunc si vel periculose experiundum erit, experiar certe,
ut hinc avolem,” Cic. Att. 9, 10, 3: “experiri, ut sine armis propinquum ad
officium reduceret,” Nep. Dat. 2, 3.— B. In partic., jurid. t. t., to try or
test by law, to go to law: “aut intra parietes aut summo jure experietur,” Cic.
Quint. 11, 38; cf.: “in jus vocare est juris experiundi causa vocare,” Dig. 2,
4, 1; 47, 8, 4: “a me diem petivit: ego experiri non potui: latitavit,” Cic.
Quint. 23, 75; Liv. 40, 29, 11: “sua propria bona malaque, cum causae dicendae
data facultas sit, tum se experturum,” Liv. 3, 56, 10: “postulare ut judicium
populi Romani experiri (liceat),” id. ib.—Hence, 1. expĕrĭens , entis, P. a.
(acc. to II.), experienced, enterprising, active, industrious (class.): “homo
gnavus et industrius, experientissimus ac diligentissimus arator,” Cic. Verr.
2, 3, 21, § 53: “promptus homo et experiens,” id. ib. 2, 4, 17, § “37: vir
fortis et experiens,” id. Clu. 8, 23: “vir acer et experiens,” Liv. 6, 34, 4:
“comes experientis Ulixei,” Ov. M. 14, 159: “ingenium,” id. Am. 1, 9, 32. —With
gen.: “genus experiens laborum,” inured to, patient of, Ov. M. 1, 414: “rei
militaris experientissimi duces,” Arn. 2, 38 init.; cf. Vulg. 2 Macc. 8,
9.—Comp. appears not to occur.— 2. expertus , a, um, P. a. (acc. to I.), in
pass. signif., tried, proved, known by experience (freq. after the Aug. per.):
“vir acer et pro causa plebis expertae virtutis,” Liv. 3, 44, 3: “per omnia
expertus,” id. 1, 34, 12: “indignitates homines expertos,” id. 24, 22, 2:
“dulcedo libertatis,” id. 1, 17, 3: “industria,” Suet. Vesp. 4: “artes,” Tac.
A. 3, 17: saevitia, Prop. 1, 3, 18: “confidens ostento sibi expertissimo,”
Suet. Tib. 19.—With gen.: “expertos belli juvenes,” Verg. A. 10, 173; cf. Tac.
H. 4, 76.—Comp. and adv. appear not to occur. Empeireia – experiential -- empiricism: One of Grice’s
twelve labours -- Condillac, Étienne Bonnot de, philosopher, an empiricist who
was considered the great analytical mind of his generation. Close to Rousseau
and Diderot, he stayed within the church. He is closely perhaps excessively
identified with the image of the statue that, in the Traité des sensations
Treatise on Sense Perception, 1754, he endows with the five senses to explain
how perceptions are assimilated and produce understanding cf. also his Treatise
on the Origins of Human Knowledge, 1746. He maintains a critical distance from
precursors: he adopts Locke’s tabula rasa but from his first work to Logique
Logic, 1780 insists on the creative role of the mind as it analyzes and
compares sense impressions. His Traité des animaux Treatise on Animals, 1755,
which includes a proof of the existence of God, considers sensate creatures
rather than Descartes’s animaux machines and sees God only as a final cause. He
reshapes Leibniz’s monads in the Monadologie Monadology, 1748, rediscovered in
0. In the Langue des calculs Language of Numbers, 1798 he proposes mathematics
as a model of clear analysis. The origin of language and creation of symbols
eventually became his major concern. His break with metaphysics in the Traité
des systèmes Treatise on Systems, 1749 has been overemphasized, but Condillac
does replace rational constructs with sense experience and reflection. His empiricism
has been mistaken for materialism, his clear analysis for simplicity. The
“ideologues,” Destutt de Tracy and Laromiguière, found Locke in his writings.
Jefferson admired him. Maine de Biran, while critical, was indebted to him for
concepts of perception and the self; Cousin disliked him; Saussure saw him as a
forerunner in the study of the origins of language. Empiricism – one of Grice’s
twelve labours – This implicates he saw himself as a Rationalist, rather --
Cordemoy, Géraud de, philosopher and member of the Cartesian school. His most
important work is his Le discernement du corps et de l’âme en six discours,
published in 1666 and reprinted under slightly different titles a number of
times thereafter. Also important are the Discours physique de la parole 1668, a
Cartesian theory of language and communication; and Une lettre écrite à un
sçavant religieux 1668, a defense of Descartes’s orthodoxy on certain questions
in natural philosophy. Cordemoy also wrote a history of France, left incomplete
at his death. Like Descartes, Cordemoy advocated a mechanistic physics
explaining physical phenomena in terms of size, shape, and local motion, and
converse Cordemoy, Géraud de 186 186
held that minds are incorporeal thinking substances. Like most Cartesians,
Cordemoy also advocated a version of occasionalism. But unlike other
Cartesians, he argued for atomism and admitted the void. These innovations were
not welcomed by other members of the Cartesian school. But Cordemoy is often
cited by later thinkers, such as Leibniz, as an important seventeenth-century
advocate of atomism. Empiricism: one of
Grice’s twelve labours -- Cousin, V., philosopher who set out to merge the psychological tradition with the pragmatism
of Locke and Condillac and the inspiration of the Scottish Reid, Stewart and G.
idealists Kant, Hegel. His early courses at the Sorbonne 1815 18, on “absolute”
values that might overcome materialism and skepticism, aroused immense
enthusiasm. The course of 1818, Du Vrai, du Beau et du Bien Of the True, the
Beautiful, and the Good, is preserved in the Adolphe Garnier edition of student
notes 1836; other early texts appeared in the Fragments philosophiques
Philosophical Fragments, 1826. Dismissed from his teaching post as a liberal
1820, arrested in G.y at the request of the
police and detained in Berlin, he was released after Hegel intervened
1824; he was not reinstated until 1828. Under Louis-Philippe, he rose to
highest honors, became minister of education, and introduced philosophy into
the curriculum. His eclecticism, transformed into a spiritualism and cult of
the “juste milieu,” became the official philosophy. Cousin rewrote his work
accordingly and even succeeded in having Du Vrai third edition, 1853 removed
from the papal index. In 1848 he was forced to retire. He is noted for his
educational reforms, as a historian of philosophy, and for his translations
Proclus, Plato, editions Descartes, and portraits of ladies of
seventeenth-century society. Empiricism – one of Grice’s twelve labours -- empirical
decision theory, the scientific study of human judgment and decision making. A
growing body of empirical research has described the actual limitations on
inductive reasoning. By contrast, traditional decision theory is normative; the
theory proposes ideal procedures for solving some class of problems. The
descriptive study of decision making was pioneered by figures including Amos
Tversky, Daniel Kahneman, Richard Nisbett, and Lee Ross, and their empirical
research has documented the limitations and biases of various heuristics, or
simple rules of thumb, routinely used in reasoning. The representativeness
heuristic is a rule of thumb used to judge probabilities based on the degree to
which one class represents or resembles another class. For example, we assume
that basketball players have a “hot hand” during a particular game producing an uninterrupted string of
successful shots because we
underestimate the relative frequency with which such successful runs occur in
the entire population of that player’s record. The availability heuristic is a
rule of thumb that uses the ease with which an instance comes to mind as an
index of the probability of an event. Such a rule is unreliable when salience
in memory misleads; for example, most people incorrectly rate death by shark
attack as more probable than death by falling airplane parts. For an overview,
see D. Kahneman, P. Slovic, and A. Tversky, eds., Judgment Under Uncertainty:
Heuristics and Biases, 2. These biases, found in laypeople and statistical experts
alike, have a natural explanation on accounts such as Herbert Simon’s 7 concept
of “bounded rationality.” According to this view, the limitations on our
decision making are fixed in part by specific features of our psychological
architecture. This architecture places constraints on such factors as
processing speed and information capacity, and this in turn produces
predictable, systematic errors in performance. Thus, rather than proposing
highly idealized rules appropriate to an omniscient Laplacean genius more characteristic of traditional normative
approaches to decision theory empirical
decision theory attempts to formulate a descriptively accurate, and thus
psychologically realistic, account of rationality. Even if certain simple rules
can, in particular settings, outperform other strategies, it is still important
to understand the causes of the systematic errors we make on tasks perfectly
representative of routine decision making. Once the context is specified,
empirical decision-making research allows us to study both descriptive decision
rules that we follow spontaneously and normative rules that we ought to follow
upon reflection. empiricism from
empiric, ‘doctor who relies on practical experience’, ultimately from Grecian
empeiria, ‘experience’, a type of theory in epistemology, the basic idea behind
all examples of the type being that experience has primacy in human knowledge
and justified belief. Because empiricism is not a single view but a type of
view with many different examples, it is appropriate to speak not just of
empiricism but of empiricisms. Perhaps the most fundamental distinction to be
drawn among the various empiricisms is that between those consisting of some
claim about concepts and those consisting of some empirical empiricism 262 262 claim about beliefs call these, respectively, concept-empiricisms
and belief-empiricisms. Concept-empiricisms all begin by singling out those
concepts that apply to some experience or other; the concept of dizziness,
e.g., applies to the experience of dizziness. And what is then claimed is that
all concepts that human beings do and can possess either apply to some
experience that someone has had, or have been derived from such concepts by
someone’s performing on those concepts one or another such mental operation as
combination, distinction, and abstraction. How exactly my concepts are and must
be related to my experience and to my performance of those mental operations
are matters on which concept-empiricists differ; most if not all would grant we
each acquire many concepts by learning language, and it does not seem plausible
to hold that each concept thus acquired either applies to some experience that
one has oneself had or has been derived from such by oneself. But though
concept-empiricists disagree concerning the conditions for linguistic
acquisition or transmission of a concept, what unites them, to repeat, is the
claim that all human concepts either apply to some experience that someone has
actually had or they have been derived from such by someone’s actually
performing on those the mental operations of combination, distinction, and
abstraction. Most concept-empiricists will also say something more: that the
experience must have evoked the concept in the person having the experience, or
that the person having the experience must have recognized that the concept
applies to his or her experience, or something of that sort. What unites all
belief-empiricists is the claim that for one’s beliefs to possess one or
another truth-relevant merit, they must be related in one or another way to
someone’s experience. Beliefempiricisms differ from each other, for one thing,
with respect to the merit concerning which the claim is made. Some
belief-empiricists claim that a belief does not have the status of knowledge
unless it has the requisite relation to experience; some claim that a belief
lacks warrant unless it has that relation; others claim that a belief is not
permissibly held unless it stands in that relation; and yet others claim that
it is not a properly scientific belief unless it stands in that relation. And
not even this list exhausts the possibilities. Belief-empiricisms also differ
with respect to the specific relation to experience that is said to be
necessary for the merit in question to be present. Some belief-empiricists
hold, for example, that a belief is permissibly held only if its propositional
content is either a report of the person’s present or remembered experience, or
the belief is held on the basis of such beliefs and is probable with respect to
the beliefs on the basis of which it is held. Kant, by contrast, held the
rather different view that if a belief is to constitute empirical knowledge, it
must in some way be about experience. Third, belief-empiricisms differ from
each other with respect to the person to whose experience a belief must stand
in the relation specified if it is to possess the merit specified. It need not
always be an experience of the person whose belief is being considered. It
might be an experience of someone giving testimony about it. It should be
obvious that a philosopher might well accept one kind of empiricism while
rejecting others. Thus to ask philosophers whether they are empiricists is a
question void for vagueness. It is regularly said of Locke that he was an
empiricist; and indeed, he was a concept-empiricist of a certain sort. But he
embraced no version whatsoever of belief-empiricism. Up to this point,
‘experience’ has been used without explanation. But anyone acquainted with the
history of philosophy will be aware that different philosophers pick out
different phenomena with the word; and even when they pick out the same
phenomenon, they have different views as to the structure of the phenomenon
that they call ‘experience.’ The differences on these matters reflect yet more
distinctions among empiricisms than have been delineated above.
EX-PLANATVM
-- explanatum:
cf. iustificatum – That the distinction is not absolute shows in that
explanatum cannot be non-iustificatum or vice versa. To explain is in part to
justify – but Grice was in a hurry, and relying on an upublication not meant
for publication! Grice on explanatory versus justificatory reasons -- early
15c., explanen, "make
(something) clear in the mind, to make intelligible," from Latin explanare "to explain, make
clear, make plain," literally "make level, flatten," from ex "out" (see ex-) + planus "flat" (from PIE root *pele- (2) "flat; to
spread"). The spelling was altered by influence of plain. Also see plane (v.2). In 17c.,
occasionally used more literally, of the unfolding of material things: Evelyn
has buds that "explain into leaves" ["Sylva, or, A discourse of
forest-trees, and the propagation of timber in His Majesties dominions,"
1664]. Related: Explained; explaining; explains. To explain
(something) away "to deprive of significance by explanation,
nullify or get rid of the apparent import of," generally with an adverse
implication, is from 1709. I
think we may find, in our talk about reasons, three main kinds of case. (1) The
first is that class of cases exemplified by the use of such a sentence as
"The reason why the bridge collapsed was that the girders were made of
cellophane". Variant forms would be exemplified in "The (one) reason
for the collapse of the bridge was that . . ." and "The fact that the
girders were made of cellophane was the (one) reason for the collapse of the
bridge (why the bridge collapsed)", and so on. This type of case includes
cases in which that for which the (a) reason is being given is an action. We
can legitimately use such a sentence form as "The reason why he resigned
his office (for his resigning his office) was that p"; and, so far as I
can see, the same range of variant forms will be available. I shall take as
canonical (paradigmatic) for this type of case (type (1)) the form "The
(a) reason why A was (is) that B". The significant features of a type (1)
case seem to me to include the following. (a) The canonical form is 'factive'
both with respect to A and to B. If I use it, I imply both that it is true that
A and that it is true that B. (b) If the reason why A was that B, then B is the
explanation of its being the case that A; and if one reason why A was (that) B,
then B is one explanation of its being the case that A, and if there are other
explanations (as it is implicated that there are, or may be) then A is
overdetermined; and (finally) if a part of the reason why A was that B, then B
is a part of the explanation of A's being so. This feature is not unconnected
with the previous one; if B is the explanation of A, then both B and A must be
facts; and if one fact is a reason for another fact, then it looks as if the
connection between them must be that the first explains the second. (c) In
some, but not all, cases in which the reason why A was that B, we can speak of
B as causing, or being the cause of, A (A's being the case). If the reason why
the bridge collapsed was that the girders were made of cellophane, then we can
say that the girders' being made of cellophane caused the bridge to collapse
(or, at least, caused it to collapse when the bus drove onto it). But not end
p.37 in all cases; it might be true that the reason why X took offence was that
all Tibetans are specially sensitive to comments on their appearance, though it
is very dubious whether it would be proper to describe the fact, or
circumstance, that all Tibetans have this particular sensitivity as the cause
of, or as causing, X to take offence. However, it may well be true that if B
does cause A, then the (or a) reason why A is that B. (d) The canonical form
employs 'reason' as a count-noun; it allows us to speak (for example) of the
reason why A, of there being more than one reason why A, and so on. But for
type (1) cases we have, at best, restricted licence to use variants in which
'reason' is used as a massnoun. "There was considerable reason why the
bridge collapsed (for the bridge collapsing)" and "The weakness of
the girders was some reason why the bridge collapsed" are oddities; so is
"There was good reason why the bridge collapsed", though "There
was a good reason why the bridge collapsed" is better; but "There was
(a) bad reason why the bridge collapsed" is terrible. The discomforts
engendered by attempts to treat 'reason' as a mass-noun persist even when A specifies an
action; "There was considerable reason why he resigned his office" is
unhappy, though one would not object to, for example, "There was
considerable reason for him to resign his office", which is not a type (1)
case. (e) Relativization to a person is, I think, excluded, unless (say) the
relativizing 'for X' means "in X's opinion", as in "for me, the
reason why the bridge collapsed was . . .". Again, this feature persists
even when A specifies an action: "For him, the reason why he resigned was
. . ." and "The reason for him why he resigned was . . ." are
both unnatural (for different reasons). I shall call type (1) cases
"reasons why" or "explanatory reasons" – for
etymologically, they make something ‘plain’ – out of nothing, almost – vide
Latin explanare – but never IM-planare – and in any case, not to be confused
with what Carnap calls an ‘explication’! (2) The cases which I am allocating to
type (2) are a slightly less tidy family than those of type (1). Examples are:
"The fact that they were a day late was some (a)reason for thinking that
the bridge had collapsed." "The fact that they were a day late was a
reason for postponing the conference." We should particularly notice the
following variants and allied examples (among others): end p.38 That they were
a day late was reason to think that the bridge had collapsed. There was no
reason why the bridge should have collapsed. The fact that they were so late
was a (gave) good reason for us to think that . . . He had reason to think that
. . . (to postpone . . .) but he seemed unaware of the fact. The fact that they
were so late was a reason for wanting (for us to want) to postpone the meeting.
I shall take as the paradigmatic form for type (2) "That B was (a) reason
(for X) to A", where "A" may conceal a psychological verb like
"think", "want", or "decide", or may specify an
action. Salient features seem to me to include the following. (a) Unlike type
(1), where there is double factivity, the paradigmatic form is non-factive with
respect to A, but factive with respect to B; with regard to B, however,
modifications are available which will cancel factivity; for example, "If
it were (is) the case that B, that would be a reason to A." (b) In
consonance with the preceding feature, it is not claimed that B explains A
(since A may not be the case), nor even that if A were the case B would explain
it (since someone who actually does the action or thinks the thought specified
by A may not do so because of B). It is, however, in my view (though some might
question my view) claimed that B is a justification (final or provisional) for
doing, wanting, or thinking whatever is specified in A. The fact that B goes at
least some way towards making it the case that an appropriate person or persons
should (or should have) fulfil (fulfilled) A. (c) The word "cause" is
still appropriate, but in a different grammatical construction from that used
for type (1). In Example (1), the fact that they were so late is not claimed to
cause anyone to think that the bridge had collapsed, but it is claimed to be
(or to give) cause to think just that. (d) Within type (2), 'reason' may be
treated either as a count-noun or as a mass-noun. Indeed, the kinds of case
which form type (2) seem to be the natural habitat of 'reason' as a mass-noun.
A short version of an explanation of this fact (to which I was helped end p.39
by George Myro) seems to me to be that (i) there are no degrees of explanation:
there may be more than one explanation, and something may be a part (but only a
part) of the explanation, but a set of facts either does explain something or
it does not. There are, however, degrees of justification (justifiability); one
action or belief may be more justifiable, in a given situation, than another
(there may be a better case for it). (ii) Justifiability is not just a matter
of the number of supporting considerations, but rather of their combined weight
(together with their outweighing the considerations which favour a rival action
or belief). So a mass-term is needed, together with specifications of degree or
magnitude. (e) That B may plainly be a reason for a person or people to A;
indeed, when no person is mentioned or implicitly referred to, it is very
tempting to suppose that it is being claimed that the fact that B would be a
reason for anyone, or any normal person, to A. One might call type (2) cases "justificatory reasons" or
"reasons for (to)". (3) Examples: John's reason for thinking Samantha
to be a witch was that he had suddenly turned into a frog. John's reason for
wanting Samantha to be thrown into the pond was that (he thought that) she was
a witch. John's reason for denouncing Samantha was that she kept turning him
into a frog. John's reason for denouncing Samantha was to protect himself
against recurrent metamorphosis. If X's reason for doing (thinking) A was that
B, it follows that X A-ed because B (because X knew (thought) that B). If X's
reason for doing (wanting, etc.) A was to B, it follows that X A-ed in order to
(so as to) B. The sentence form "X had several reasons for A-ing, such as
that (to) B" falls, in my scheme, under type (3), unlike the seemingly
similar sentence "X had reason to A, since B", which I locate under
type (2). The paradigmatic form I take as being "X's reason(s) for A-ing
was that B (to B)". Salient features of type (3) cases should be fairly
obvious. end p.40 (a) In type (3) cases reasons may be either of the form that
B or of the form to B. If they are of the former sort, then the paradigmatic
form is doubly factive, factive with respect both to A and to B. It is always
factive with respect to A (A-ing). When it is factive with respect to B,
factivity may be cancelled by inserting "X thought that" before B.
(b) Type (3) reasons are "in effect explanatory". If X's reason for
A-ing was that (to) B, X's thinking that B (or wanting to B) explains his
A-ing. The connection between type (3) reasons being, in effect, explanatory,
and their factivity is no doubt parallel to the connection which obtains for
type (1) reasons. I reserve the question of the applicability of "cause"
to a special concluding comment. (c) So far as I can see, "reason"
cannot, in type (3) cases, be treated as a mass-noun. This may be accounted for
by the explanatory character of reasons of this type. We can, however, here
talk of reasons as being bad; X's reasons for A-ing may be weak or appalling.
In type (2) cases, we speak of there being little reason, or even no reason, to
A. But in type (3) cases, since X's reasons are explanatory of his actions or
thoughts, they have to exist. (I doubt if this is the full story, but it will
have to do for the moment.) (d) Of their very nature, type (3) reasons are
relative to persons. Because of their hybrid nature (they seem, as will in a
moment, I hope, emerge, in a way to partake of the character both of type (1)
and of type (2)) one might call them "Justificatory-Explanatory"
reasons. Strawson said my explanation required an explanation. ex-plāno , āvi, ātum, 1, v. a. * I. Lit., to flatten or
spread out: “suberi cortex in denos pedes undique explanatus,” Plin. 16, 8, 13,
§ 34.— II. Trop., of speech, to make plain or clear, to explain (class.: “syn.:
explico, expono, interpretor): qualis differentia sit honesti et decori,
facilius intelligi quam explanari potest,” Cic. Off. 1, 27, 94; cf. Quint. 5,
10, 4: “rem latentem explicare definiendo, obscuram explanare interpretando,
etc.,” Cic. Brut. 42, 152: “explanare apertiusque dicere aliquid,” id. Fin. 2,
19, 60: “docere et explanare,” id. Off. 1, 28, 101: “aliquid conjecturā,” id.
de Or. 2, 69, 280: “rem,” id. Or. 24, 80: “quem amicum tuum ais fuisse istum,
explana mihi,” Ter. Ph. 2, 3, 33: “de cujus hominis moribus pauca prius
explananda sunt, quam initium narrandi faciam,” Sall. C. 4, 5.—Pass. impers.:
“juxta quod flumen, aut ubi fuerit, non satis explanatur,” Plin. 6, 23, 26, §
97.— 2. To utter distinctly: “et ille juravit, expressit, explanavitque verba,
quibus, etc.,” Plin. Pan. 64, 3.—Hence, explānātus , a, um, P. a. (acc. to
II.), plain, distinct (rare): “claritas in voce, in lingua etiam explanata
vocum impressio,” i. e. an articulate pronunciation, Cic. Ac. 1, 5, 19: parum
explanatis vocibus sermo praeruptus, Sen. de Ira, 1, 1, 4.—Adv. ex-plānāte ,
plainly, clearly, distinctly: “scriptum,” Gell. 16, 8, 3.—Comp.: “ut definire
rem cum explanatius, tum etiam uberius (opp. presse et anguste),” Cic. Or. 33,
117.
EX-PLICATVM --
implicaturum-explicaturum distinction, the:
– “I am aware that with ‘implicaturum,’ as opposed to ‘implicaturum,’ the
distinction with ‘implicatio’ is lost – for ‘what is implied,’ in contrast,
sounds vulgar.” And then there’s ‘entailment” is not as figurative as it
sounds: it inovolves property and limitation -- “Paradoxes of entailment,”
“Paradoxes of implication.” Philo and his teacher. Grice is not sure about
‘implicaturum.’ The quote by Moore, 1919 being:"It might be suggested that
we should say "p ent q" 'means' "p ) q AND this proposition is
an instance of a formal implication, which is not merely true but self-evident,
like the laws of formal logic." This proposed definitions would avoid the
paradoxes involved in Strachey's definition, since such true formal
implications as 'All the persons in this room are more than five years old' are
certainly not self-evident; and, so far as I can see, it may state something
which is in fact true of p and q, whenever and only whenp ent q. I do not
myself think that it gives the meaning of 'p ent q,' since the kind of relation
which I see to hold between the premises and a conclusion of a syllogism seems
to me one which is purely 'objective' in the sense that no psychological term,
such as is involved in the meaning of 'self-evident' is involved in its
definition (it it has one). I am not, however, concerned to dispute that some
such definition of "p ent q" as this may be true." --- and so
on. So, it is apparently all Strachey's fault. This view as to what φA . ent . ψA
means has, for instance, if I understand him rightly, been asserted by Mr. O.
Strachey in Mind, N.S., 93; since he asserts that, in his opinion, this is what
Professor C. I. Lewis means by “φA strictly implies ψA,” and undoubtedly what
Professor Lewis means by this is what I mean by φA . ent . ψA. And the same
view has been frequently suggested (though I do not know that he has actually
asserted it) by Mr. Russell himself (e.g., Principia Mathematica, p. 21). I 1903 B. Russell Princ. Math. ii.
14 How far formal implication is definable in terms of implication
simply, or material implication as it may be called, is a difficult
question. Source : Principles : Chapter III. Implication and Formal Implication.
– Source : Principia, page 7 : "When it is necessary explicitly to
discriminate "implication" [i.e. "if p, then q" ] from
"formal implication," it is called "material implication."
– Source : Principia, page 20 : "When an implication, say ϕx.⊃.ψx, is said to
hold always, i.e. when (x):ϕx.⊃.ψx, we shall say that ϕx formally implies ψx"Many logicians did use ‘implicaturum’ not necessarily to
mean ‘conversational implicaturum,’ but as the result of ‘implicatio’.
‘Implicatio’ was often identified with the Megarian or Philonian ‘if.’ Why?
thought that we probably did need an entailment. The symposium was held in New
York with Dana Scott and R. K. Meyer. The notion had been mis-introduced
(according to Strawson) in the philosophical literature by Moore. Grice is
especially interested in the entailment + implicaturum pair. A philosophical
expression may be said to be co-related to an entailment (which is rendered in
terms of a reductive analysis). However, the use of the expression may
co-relate to this or that implicaturum which is rendered reasonable in the light
of the assumption by the addressee that the utterer is ultimately abiding by a
principle of conversational helfpulness. Grice thinks many philosophers take an
implicaturum as an entailment when they surely shouldnt! Grice was more
interested than Strawson was in the coinage by Moore of entailment for logical
consequence. As an analyst, Grice knew that a true conceptual analysis needs to
be reductive (if not reductionist). The prongs the analyst lists are thus
entailments of the concept in question. Philosophers, however, may misidentify
what is an entailment for an implicaturum, or vice versa. Initially, Grice was
interested in the second family of cases. With his coinage of disimplicaturum,
Grice expands his interest to cover the first family of cases, too. Grice
remains a philosophical methodologist. He is not so much concerned with any
area or discipline or philosophical concept per se (unless its rationality),
but with the misuses of some tools in the philosophy of language as committed
by some of his colleagues at Oxford. While entailment, was, for Strawson
mis-introduced in the philosophical literature by Moore, entailment seems to be
less involved in paradoxes than if is. Grice connects the two, as indeed his
tutee Strawson did! As it happens, Strawsons Necessary propositions and
entailment statements is his very first published essay, with Mind, a re-write
of an unpublication unwritten elsewhere, and which Grice read. The relation of
consequence may be considered a meta-conditional, where paradoxes
arise. Grices Bootstrap is a principle designed to impoverish the
metalanguage so that the philosopher can succeed in the business of pulling
himself up by his own! Grice then takes a look at Strawsons very first
publication (an unpublication he had written elsewhere). Grice finds Strawson
thought he could provide a simple solution to the so-called paradoxes of
entailment. At the time, Grice and Strawson were pretty sure that nobody then
accepted, if indeed anyone ever did and did make, the identification of the
relation symbolised by the horseshoe with the relation which Moore calls
entailment, p⊃q, i. e. ~(pΛ~q) is rejected as an analysis of p entails q
because it involves this or that allegedly paradoxical implicaturum, as that
any false proposition entails any proposition and any true proposition is
entailed by any proposition. It is a commonplace that Lewiss amendment had
consequences scarcely less paradoxical in terms of the implicatura. For if p is
impossible, i.e. self-contradictory, it is impossible that p and ~q. And
if q is necessary, ~q is impossible and it is impossible that p and ~q; i. e.,
if p entails q means it is impossible that p and ~q any necessary proposition
is entailed by any proposition and any self-contradictory proposition entails any
proposition. On the other hand, Lewiss definition of entailment (i.e. of the
relation which holds from p to q whenever q is deducible from p) obviously
commends itself in some respects. Now, it is clear that the emphasis laid on
the expression-mentioning character of the intensional contingent statement by
writing pΛ~q is impossible instead of It is impossible that p and ~q does not
avoid the alleged paradoxes of entailment. But it is equally clear that the
addition of some provision does avoid them. One may proposes that one
should use “entails” such that no necessary statement and no negation of a
necessary statement can significantly be said to entail or be entailed by any
statement; i. e. the function p entails q cannot take necessary or self-contradictory
statements as arguments. The expression p entails q is to be used to mean p⊃q is necessary, and neither p nor q is either necessary or
self-contradictory, or pΛ~q is impossible and neither p nor q, nor either of
their contradictories, is necessary. Thus, the paradoxes are avoided. For let
us assume that p1 expresses a contingent, and q1 a necessary, proposition. p1
and ~q1 is now impossible because ~q1 is impossible. But q1 is necessary. So,
by that provision, p1 does not entail q1. We may avoid the paradoxical
assertion that p1 entails q2 as merely falling into the equally paradoxical
assertion that p1 entails q1 is necessary. For: If q is necessary, q is
necessary is, though true, not necessary, but a contingent intensional
(Latinate) statement. This becomes part of the philosophers lexicon: intensĭo,
f. intendo, which L and S render as a stretching out, straining, effort.
E. g. oculorum, Scrib. Comp. 255. Also an intensifying, increase. Calorem suum
(sol) intensionibus ac remissionibus temperando fovet,” Sen. Q. N. 7, 1, 3. The
tune: “gravis, media, acuta,” Censor. 12. Hence:~(q is necessary) is,
though false, possible. Hence “p1Λ~(q1 is necessary)” is, though false,
possible. Hence p1 does NOT entail q1 is necessary. Thus, by adopting the view
that an entailment statement, and other intensional statements, are
non-necessary, and that no necessary statement or its contradictory can entail
or be entailed by any statement, Strawson thinks he can avoid the paradox that
a necessary proposition is entailed by any proposition, and indeed all the
other associated paradoxes of entailment. Grice objected that Strawsons cure
was worse than Moores disease! The denial that a necessary proposition can
entail or be entailed by any proposition, and, therefore, that necessary
propositions can be related to each other by the entailment-relation, is too
high a price to pay for the solution of the paradoxes. And here is where Grices
implicaturum is meant to do the trick! Or not! When Levinson proposed + for
conversationally implicaturum, he is thinking of contrasting it with ⊢. But things aint that easy.
Even the grammar is more complicated: By uttering He is an adult, U explicitly
conveys that he is an adult. What U explicitly conveys entails that he is not a
child. What U implies is that he should be treated accordingly. Refs.: One
good reference is the essay on “Paradoxes of entailment,” in the Grice papers;
also his contribution to a symposium for the APA under a separate series, The
H. P. Grice Papers, BANC. EX-PLICATVM -- Implicaturum/explicaturum
distinction, the: explicatum: Grice is
clear here. There is explicat- and explicit-. Both yield different fields. The
explicit- has to do with what is shown. The explicat- does not. But both are
cognate. And of course, the ambiguity replicates in implicit- and implicat-
Short and Lewis have both ‘explicatus’ and ‘explicitus’ as Part.
and P. a., from explico. “I wonder why they had to have TWO!” – Grice.He once asked this to his master at Clifton. And he said,
“because this is a participium heteroclitum.” Grice never forgot that! An
Heteroclite Participle. R E D U N D A N S abounding. Art'cipium the
Participle faepe o/?em redundat abounds, ut as Perfe&tum the perfe&?
ter/? [aid] priùs before ; ut as explico to unfold conduplicat doubles [its
Participle] explicitus explicatufque, making both explicitus and explicatus. Et
and fic /3 fevi I have plantea folet is wont dare to give fatus planted, &
and ferui I have put fertus placed. Cello to bcat vult will mittere produce
-celfus ab -ui from [the perfe&* tenfe in] -ui ; fed but -culfus ab -i
-cu!fus from [its perfr&7 in] -i. Compofitum à fto the Compound offlo to
/fand [ makes] - ftaturus, pariterque amd aff? -ftiturus [in the future
Participle.] Etiam alfo duplex two Participles fit are made à fimplice perfeéto
from one perfe&i tenfe ; tendo to/lretch habet hath tentus, and tenfus;
pando to opem takes fibi to itfejf paffus, and panfus : Item affo mifcui I have
mixed miftus, vel or mixtus ; alo to breed up, altus and alitus ; Poto to drink
makes potatus & and potus ; lavo to wa/h, lautus and lotus. A tundo from
[tundo] to knock down -tufus is made ; retundo to blunt [makes] both -tufus and
-tunfus. Pinfo to bake effert makes triplex three Participles piftus,
pinfufque, & pinfitus, piftus, and pinfus, and pinfitus. Civi, the perfe&?
tenfe à cieo ofcieo to provoke makes the participle citus [with the i. -- Vult
tendo tenfus, tentus , vult flectere pando - Panfus Panfus paffus 5 pinfo
vult piftus dare pinfus Pinfitus ; & fevi fatus, & ferui
dare fertus. Compofitum à fto-ftaturus meliufque-ftiturus.
* Conftaturus Lucan. Mart. Obftaturus Quint. _
Tundo in compofitis -tufus ; -tunfufque retundo Congeminat ; plico
& explicitus facit, éx-que-plicatus. Verba in-uo &-vo-ütus
tendunt ; ruo fed breve-ütus dat. A cieo pariter manat citus , à cio
citus. - Cello ab -ui celfus , fed ab-i vult mittere -culfus. At Oxford, nobody was interested in the explication. That’s
too explicit. It was, being English, all about the ‘innuendo,’ the
‘understatement,’ the implication. The first Oxonian was C. K. Grant, with his
‘pragmatic implication.’ Then came Nowell-Smith with his ‘contextual
implication.’ Urmson was there with his ‘implied’ claims. And Strawson was
saying that ‘the king of France is not bald’ implies that thereis a king of
France. So, it was enough, Grice thought! We have to analyse what we imply by
imply, or at least what _I_ do. He thought publishing was always vulgar. But
when he was invited for one of those popularisations, when he was invited to
contribute to a symposium on a topic of his choice – he chose “The causal
theory of perception” and dedicates an ‘extensum excursus’ on ‘implication.’
The conclusion is simple: “The pillar box seems red” implies. And implies a
LOT. So much so that neo-Wittgensteinians were saying that what Grice implies
is part of what Grice is committed in terms of ‘satisfactoriness’ of what he is
expressing. Not so! What Grice implies is, surely, that the pillar box may not
be red. But surely he can cancel that EXPLICITLY “The pillar box seems red and
is red.” So, what he implies is not part of what he explicitly commits in terms
of value satisfactoriness. In terms of value satisfactoriness, Grice
distinguishes between the subperceptual (“The pillar box seems red”) and the
perceptual proper (“Grice perceives that the pillar box is red”). The causal
theory merely states that “Grice perceives that the pillar box is red” (a
perceptum for the subperceptum, “the pillar box seems red”) if and only if,
first, the pillar box is red; second,
the subperceptum: the pillar box seems red; and third and last, the fact that
the pillar box is red CAUSES the pillar box seeming red. None of that is
explicit, but none of it is implicit. It is merely a philosophical reductive
analysis which has cleared away an unnecessary implication out of the picture.
The philosopher, involved in conceptual analysis, has freed from the ‘pragmatic
implication’ and can provide, for his clearly stated ‘analysans,’ three
different prongs which together constitute the necessary and sufficient
conditions – the analysandum. And his problem is resolved. Grice’s cavalier
attitude towards the explicit is obvious in the way he treats “Wilson is a
great man,” versus “the prime minister is a great man” “I don’t care if I’m not
sure if I want to say that an emissor of (i) and an emissor of (ii) have put
forward, in an explicit fashion, the same proposition. His account of
‘disambiguation’ is meant even more jocularly. He knows that in the New World,
they spell ‘vice’ as ‘vyse’ – So Wilson
being in the grip of a vyse is possibly the same thing put forward as the prime
minister being caught in the grip of either a carpenter’s tool or a sort of
something like a sin – if not both. (Etymologically, ‘vice’ and ‘vice’ are
cognate, since they are ‘violent’ things – cf. violence. While ‘implicare’
developed into vulgar Engish as ‘employ,’ “it’s funny explicature did not
develop into ‘exploy.’”A logical construction is an explication. A reductive
analysis is an explication. Cf. Grice on Reductionism as a bete noire,
sometimes misquoted as Reductivism. Grice used both ‘explanation’ and
‘explication’, so one has to be careful. When he said that he looked for a
theory that would explain conversation or the implicaturum, he did not mean
explication. What is the difference, etymologically, between explicate and explain? Well, explain is from
‘explanare,’ which gives ‘explanatum.’Trop., of speech, to make plain or clear,
to explain (class.:“syn.: explico, expono, interpretor): qualis differentia sit
honesti et decori, facilius intelligi quam explanari potest,” Cic.Off. 1, 27,
94; cf. Quint. 5, 10, 4: “rem latentem explicare definiendo, obscuram explanare
interpretando, etc.,” Cic. Brut. 42, 152: “explanare apertiusque dicere
aliquid,” id. Fin. 2, 19, 60: “docere et explanare,” id. Off. 1, 28, 101:
“aliquid conjecturā,” id. de Or. 2, 69, 280: “rem,” id. Or. 24, 80: “quem
amicum tuum ais fuisse istum, explana mihi,” Ter. Ph. 2, 3, 33: “de cujus
hominis moribus pauca prius explananda sunt, quam initium narrandi faciam,”
Sall. C. 4, 5.—Pass.impers.: “juxta quod flumen, aut ubi fuerit, non satis
explanatur,” Plin. 6, 23, 26, § 97.—2. To utter distinctly: “et ille juravit,
expressit, explanavitque verba, quibus, etc.,” Plin. Pan. 64, 3.Hence,
explānātus , a, um, P. a. (acc. to II.), plain, distinct (rare): “claritas in
voce, in lingua etiam explanata vocum impressio,” i. e. an articulate
pronunciation, Cic. Ac. 1, 5, 19: parum explanatis vocibus sermo praeruptus,
Sen. de Ira, 1, 1, 4. Adv. ex-plānāte , plainly, clearly, distinctly:
“scriptum,” Gell. 16, 8, 3.—Comp.: “ut definire rem cum explanatius, tum etiam
uberius (opp. presse et anguste),” Cic. Or. 33, 117.Cr. Occam. M. O. R. the
necessity is explanatory necessity. Senses or conventional implicaturata (not
reachable by ‘argument’) and Strawson do not explain. G. A. Paul does not
explain. Unlike Austin, who was in love with a taxonomy, Grice loved an
explanation. “Ἀρχὴν δὲ τῶν πάντων ὕδωρ ὑπεστήσατο, καὶ τὸν κόσμον ἔμψυχον καὶ
δαιμόνων πλήρη. “Arkhen de ton panton hudor hupestesato.” Thales’s doctrine is
that water is the universal primary substance, and that the world is animate
and full of divinities. “Ἀλλὰ Θαλῆς μὲν ὁ τῆς τοιαύτης ἀρχηγὸς φιλοσοφίας ὕδωρ
φησὶν εἶναι (διὸ καὶ τὴν γῆν ἐφ᾽ ὕδατος ἀπεφήνατο εἶναι), λαβὼν ἴσως τὴν
ὑπόληψιν ταύτην ἐκ τοῦ πάντων ὁρᾶν τὴν τροφὴν ὑγρὰν οὖσαν καὶ αὐτὸ τὸ θερμὸν ἐκ
τούτου γιγνόμενον καὶ τούτῳ ζῶν (τὸ δ᾽ ἐξ οὗ γίγνεται, τοῦτ᾽ ἐστὶν ἀρχὴ πάντων)
– διά τε δὴ τοῦτο τὴν ὑπόληψιν λαβὼν ταύτην καὶ διὰ τὸ πάντων τὰ σπέρματα τὴν
φύσιν ὑγρὰν ἔχειν, τὸ δ᾽ ὕδωρ ἀρχὴν τῆς φύσεως εἶναι τοῖς ὑγροῖς. εἰσὶ δέ τινες
οἳ καὶ τοὺς παμπαλαίους καὶ πολὺ πρὸ τῆς νῦν γενέσεως καὶ πρώτους θεολογήσαντας
οὕτως οἴονται περὶ τῆς φύσεως ὑπολαβεῖν‧ Ὠκεανόν τε γὰρ καὶ Τηθὺν ἐποίησαν τῆς γενέσεως πατέρας
[Hom. Ξ 201], καὶ τὸν ὅρκον τῶν θεῶν ὕδωρ, τὴν καλουμένην ὑπ᾽ αὐτῶν Στύγα τῶν
ποιητῶν‧ τιμιώτατον μὲν γὰρ τὸ πρεσβύτατον,
ὅρκος δὲ τὸ τιμιώτατόν ἐστιν. εἰ μὲν οὖν [984a] ἀρχαία τις αὕτη καὶ παλαιὰ
τετύχηκεν οὖσα περὶ τῆς φύσεως ἡ δόξα, τάχ᾽ ἂν ἄδηλον εἴη, Θαλῆς μέντοι λέγεται
οὕτως ἀποφήνασθαι περὶ τῆς πρώτης αἰτίας. (Ἵππωνα γὰρ οὐκ ἄν τις ἀξιώσειε
θεῖναι μετὰ τούτων διὰ τὴν εὐτέλειαν αὐτοῦ τῆς διανοίας)‧ Ἀναξιμένης δὲ ἀέρα καὶ Διογένης πρότερον ὕδατος καὶ μάλιστ᾽
ἀρχὴν τιθέασι τῶν ἁπλῶν σωμάτων.” De caelo: “Οἱ δ᾽ ἐφ᾽ ὕδατος κεῖσθαι [sc. τὴν
γὴν]. τοῦτον γὰρ ἀρχαιότατον παρειλήφαμεν τὸν λόγον, ὅν φασιν εἰπεῖν Θαλῆν τὸν
Μιλήσιον, ὡς διὰ τὸ πλωτὴν εἶναι μένουσαν ὥσπερ ξύλον ἤ τι τοιοῦτον ἕτερον (καὶ
γὰρ τούτων ἐπ᾽ ἀέρος μὲν οὐθὲν πέφυκε μένειν, ἀλλ᾽ ἐφ᾽ ὕδατος), ὥσπερ οὐ τὸν
αὐτὸν λόγον ὄντα περὶ τῆς γῆς καὶ τοῦ ὕδατος τοῦ ὀχοῦντος τὴν γῆν‧ οὐδὲ γὰρ τὸ ὕδωρ πέφυκε μένειν μετέωρον, ἀλλ᾽ ἐπί τινός
[294b] ἐστιν. ἔτι δ᾽ ὥσπερ ἀὴρ ὕδατος κουφότερον, καὶ γῆς ὕδωρ‧ ὥστε πῶς οἷόν τε τὸ κουφότερον κατωτέρω κεῖσθαι τοῦ
βαρυτέρου τὴν φύσιν; ἔτι δ᾽ εἴπερ ὅλη πέφυκε μένειν ἐφ᾽ ὕδατος, δῆλον ὅτι καὶ
τῶν μορίων ἕκαστον [αὐτῆς]‧
νῦν δ᾽ οὐ φαίνεται τοῦτο γιγνόμενον, ἀλλὰ τὸ τυχὸν μόριον φέρεται εἰς βυθόν,
καὶ θᾶττον τὸ μεῖζον. The problem of the nature of matter, and its
transformation into the myriad things of which the universe is made, engaged
the natural philosophers, commencing with Thales. For his hypothesis to be
credible, it was essential that he could explain how all things could come into
being from water, and return ultimately to the originating material. It is
inherent in Thaless hypotheses that water had the potentiality to change to the
myriad things of which the universe is made, the botanical, physiological,
meteorological and geological states. In Timaeus, 49B-C, Plato had Timaeus
relate a cyclic process. The passage commences with that which we now call
“water” and describes a theory which was possibly that of Thales. Thales would
have recognized evaporation, and have been familiar with traditional views,
such as the nutritive capacity of mist and ancient theories about spontaneous
generation, phenomena which he may have observed, just as Aristotle believed
he, himself had, and about which Diodorus Siculus, Epicurus (ap. Censorinus,
D.N. IV.9), Lucretius (De Rerum Natura) and Ovid (Met. I.416-437) wrote. When
Aristotle reported Thales’s pronouncement that the primary principle is water,
he made a precise statement: Thales says that it [the nature of things] is
water, but he became tentative when he proposed reasons which might have
justified Thaless decision. Thales’s supposition may have arisen from
observation. It is Aristotle’s opinion that Thales may have observed, that the
nurture of all creatures is moist, and that warmth itself is generated from
moisture and lives by it; and that from which all things come to be is their
first principle. Then, Aristotles tone changed towards greater confidence. He
declared: Besides this, another reason for the supposition would be that the
semina of all things have a moist nature. In continuing the criticism of
Thales, Aristotle wrote: That from which all things come to be is their first
principle (Metaph. 983 b25). Simple
metallurgy had been practised long before Thales presented his hypotheses, so
Thales knew that heat could return metals to a liquid state. Water exhibits
sensible changes more obviously than any of the other so-called elements, and
can readily be observed in the three states of liquid, vapour and ice. The
understanding that water could generate into earth is basic to Thaless watery
thesis. At Miletus it could readily be observed that water had the capacity to
thicken into earth. Miletus stood on the Gulf of Lade through which the
Maeander river emptied its waters. Within living memory, older Milesians had
witnessed the island of Lade increasing in size within the Gulf, and the river
banks encroaching into the river to such an extent that at Priene, across the
gulf from Miletus the warehouses had to be rebuilt closer to the waters edge.
The ruins of the once prosperous city-port of Miletus are now ten kilometres
distant from the coast and the Island of Lade now forms part of a rich
agricultural plain. There would have been opportunity to observe other areas
where earth generated from water, for example, the deltas of the Halys, the
Ister, about which Hesiod wrote (Theogony, 341), now called the Danube, the
Tigris-Euphrates, and almost certainly the Nile. This coming-into-being of land
would have provided substantiation of Thaless doctrine. To Thales water held
the potentialities for the nourishment and generation of the entire cosmos.
Aëtius attributed to Thales the concept that even the very fire of the sun and
the stars, and indeed the cosmos itself is nourished by evaporation of the
waters (Aëtius, Placita). It is not known
how Thales explained his watery thesis, but Aristotle believed that the reasons
he proposed were probably the persuasive factors in Thaless considerations.
Thales gave no role to the Olympian gods. Belief in generation of earth from
water was not proven to be wrong until A.D. 1769 following experiments of
Antoine Lavoisier, and spontaneous generation was not disproved until the
nineteenth century as a result of the work of Louis Pasteur.The first
philosophical explanation of the world was speculative not practical. has its
intelligibility in being identified with one of its parts (the world is water).
First philosophical explanation for Universe human is rational and the world in
independent; He said the arché is water; Monist: He believed reality is one Thales of Miletus, first philosophical
explanation of the origin and nature of justice (and Why after all, did a Thales is Water.” Without the millions of species
that make up the biosphere, and the billions of interactions between them that
go on day by day,.Oddly, Grice had spent some time on x-questions in the Kant
lectures. And why is an x-question. A philosophical explanation of
conversation. A philosophical explanation of implicaturum. Description vs.
explanation. Grice quotes from Fisher, Never contradict. Never explain.
Taxonomy, is worse than explanation, always. Grice is exploring the
taxonomy-description vs. explanation dichotomy. He would often criticise
ordinary-language philosopher Austin for spending too much valuable time on
linguistic botany, without an aim in his head. Instead, his inclination, a
dissenting one, is to look for the big picture of it all, and disregard a
piece-meal analysis. Conversation is a good example. While Austin would
Subjectsify Language (Linguistic Nature), Grice rather places rationality
squarely on the behaviour displayed by utterers as they make conversational
moves that their addressees will judge as rational along specific
lines. Observation of the principle of conversational helpfulness is
rational (reasonable) along the following lines: anyone who cares about the two
goals which are central to conversation, viz. giving and receiving information,
and influencing and being influenced by others, is expected to have an interest
in taking part in a conversation which will only be profitable (if not
possible) under the assumption that it is conducted along the lines of the
principle of conversational helpfulness. Grice is not interested in
conversation per se, but as a basis for a theory that explains the mistakes ordinary-language
philosophers are making. The case of What is known to be the case is not
believed to be the case. EXPLICATUM
-- “to understand” – to explain -- Dilthey, W. philosopher and historian whose
main project was to establish the conditions of historical knowledge, much as
Kant’s Critique of Pure Reason had for our knowledge of nature. He studied
theology, history, and philosophy at Heidelberg and Berlin and in 2 accepted
the chair earlier held by Hegel at the
of Berlin. Dilthey’s first attempt at a critique of historical reason is
found in the Introduction to the Human Sciences 3, the last in the Formation of
the Historical World in the Human Sciences 0. He is also a recognized
contributor to hermeneutics, literary criticism, and worldview theory. His Life
of Schleiermacher and essays on the Renaissance, Enlightenment, and Hegel are
model works of Geistesgeschichte, in which philosophical ideas are analyzed in
relation to their social and cultural milieu. Dilthey holds that life is the
ultimate nexus of reality behind which we cannot go. Life is viewed, not
primarily in biological terms as in Nietzsche and Bergson, but as the
historical totality of human experience. The basic categories whereby we
reflect on life provide the background for the epistemological categories of
the sciences. According to Dilthey, Aristotle’s category of acting and
suffering is rooted in prescientific experience, which is then explicated as
the category of efficacy or influence Wirkung in the human sciences and as the
category of cause Ursache in the natural sciences. Our understanding of
influence in the human sciences is less removed from the full reality of life
than are the causal explanations arrived at in the natural sciences. To this
extent the human sciences can claim a priority over the natural sciences.
Whereas we have direct access to the real elements of the historical world
psychophysical human beings, the elements of the natural world are merely
hypothetical entities such as atoms. The natural sciences deal with outer
experiences, while the human sciences are based on inner experience. Inner
experience is reflexive and implicitly self-aware, but need not be
introspective or explicitly self-conscious. In fact, we often have inner
experiences of the same objects that outer experience is about. An outer
experience of an object focuses on its physical properties; an inner experience
of it on our felt responses to it. A lived experience Erlebnis of it includes
both. The distinction between the natural and the human sciences is also
related to the methodological difference between explanation and understanding.
The natural sciences seek causal explanations of nature connecting the discrete representations of
outer experience through hypothetical generalizations. The human sciences aim
at an understanding Verstehen that articulates the typical structures of life
given in lived experience. Finding lived experience to be inherently connected
and meaningful, Dilthey opposed traditional atomistic and associationist
psychologies and developed a descriptive psychology that Husserl recognized as
anticipating phenomenological psychology. In Ideas 4 Dilthey argued that
descriptive psychology could provide a neutral foundation for the other human
sciences, but in his later hermeneutical writings, which influenced Heidegger
and Hans-Georg Gadamer, he rejected the possibility of a foundational
discipline or method. In the Formation, he asserted that all the human sciences
are interpretive and mutually dependent. Hermeneutically conceived,
understanding is a process of interpreting the “objectifications of life,” the
external expressions of human experience and activity. The understanding of
others is mediated by these common objectifications and not immediately
available through empathy Einfühlung. Moreover, to fully understand myself I
must interpret the expressions of my life just as I interpret the expressions
of others. Whereas the natural sciences aim at ever broader generalizations,
the human sciences place equal weight on understanding individuality and
universality. Dilthey regarded individuals as points of intersection of the
social and cultural systems in which they participate. Any psychological
contribution to understanding human life must be integrated into this more
public framework. Although universal laws of history are rejected, particular
human sciences can establish uniformities limited to specific social and
cultural systems. In a set of sketches 1 supplementing the Formation, Dilthey
further developed the categories of life in relation to the human sciences.
After analyzing formal categories such as the partwhole relation shared by all
the sciences, he distinguished the real categories of the human sciences from
those of the natural sciences. The most important human science categories are
value, purpose, and meaning, but they by no means exhaust the concepts needed
to reflect on the ultimate sense of our existence. Such reflection receives its
fullest expression in a worldview Weltanschauung, such as the worldviews developed
in religion, art, and philosophy. A worldview constitutes an overall
perspective on life that sums up what we know about the world, how we evaluate
it emotionally, and how we respond to it volitionally. Since Dilthey
distinguished three exclusive and recurrent types of worldview naturalism e.g.,
Democritus, Hume, the idealism of freedom e.g., Socrates, Kant, and objective
idealism e.g., Parmenides, Hegel he is
often regarded as a relativist. But Dilthey thought that both the natural and
the human sciences could in their separate ways attain objective truth through
a proper sense of method. Metaphysical formulations of worldviews are relative
only because they attempt an impossible synthesis of all truth. Explicatum --
explanation, an act of making something intelligible or understandable, as when
we explain an event by showing why or how it occurred. Just about anything can
be the object of explanation: a concept, a rule, the meaning of a word, the
point of a chess move, the structure of a novel. However, there are two sorts
of things whose explanation has been intensively discussed in philosophy:
events and human actions. Individual events, say the collapse of a bridge, are
usually explained by specifying their cause: the bridge collapsed because of the
pressure of the flood water and its weakened structure. This is an example of
causal explanation. There usually are indefinitely many causal factors
responsible for the occurrence of an event, and the choice of a particular
factor as “the cause” appears to depend primarily on contextual considerations.
Thus, one explanation of an automobile accident may cite the icy road
condition; another the inexperienced driver; and still another the defective
brakes. Context may determine which of these and other possible explanations is
the appropriate one. These explanations of why an event occurred are sometimes
contrasted with explanations of how an event occurred. A “how” explanation of
an event consists in an informative description of the process that has led to the
occurrence of the event, and such descriptions are likely to involve
descriptions of causal processes. The covering law model is an influential
attempt to represent the general form of such explanations: an explanation of
an event consists in “subsuming,” or “covering,” it under a law. When the
covering law is deterministic, the explanation is thought to take the form of a
deductive argument: a statement the
explanandum describing the event to be
explained is logically derived from the explanans the law together with statements of
antecedent conditions. Thus, we might explain why a given rod expanded by
offering this argument: ‘All metals expand when heated; this rod is metallic
and it was heated; therefore, it expanded’. Such an explanation is called a
deductive-nomological explanation. On the other hand, probabilistic or
statistical laws are thought to yield statistical explanations of individual
events. Thus, the explanation of the contraction of a contagious disease on the
basis of exposure to a patient with the disease may take the form of a
statistical explanation. Details of the statistical model have been a matter of
much controversy. It is sometimes claimed that although explanations, whether
in ordinary life or in the sciences, seldom conform fully to the covering law
model, the model nevertheless represents an ideal that all explanations must
strive to attain. The covering law model, though influential, is not
universally accepted. Human actions are often explained by being “rationalized’ i.e., by citing the agent’s beliefs and
desires and other “intentional” mental states such as emotions, hopes, and
expectations that constitute a reason for doing what was done. You opened the
window because you wanted some fresh air and believed that by opening the
window you could secure this result. It has been a controversial issue whether
such rationalizing explanations are causal; i.e., whether they invoke beliefs
and desires as a cause of the action. Another issue is whether existential
polarity explanation 298 298 these
“rationalizing” explanations must conform to the covering law model, and if so,
what laws might underwrite such explanations.
Refs.: One good source is the
“Prejudices and predilections.” Also the first set of ‘Logic and conversation.”
There is also an essay on the ‘that’ versus the ‘why.’ The H. P. Grice Papers,
BANC.
EX-PORTATVM -- Importatum/exportatum
distinction, the: exportatum – exportation: in classical logic, the principle that
A 8 B / C is logically equivalent to A / B / C. 2 The principle A 8 B P C P A P
B P C, which relevance logicians hold to be fallacious when ‘P’ is read as
‘entails’. 3 In discussions of propositional attitude verbs, the principle that
from ‘a Vs that b is an f’ one may infer ‘a Vs f-hood of b’, where V has its
relational transparent sense. For example, exportation in sense 3 takes one
from ‘Ralph believes that Ortcutt is a spy’ to ‘Ralph believes spyhood of
Ortcutt’, wherein ‘Ortcutt’ can now be replaced by a bound variable to yield
‘Dx Ralph believes spyhood of x’.
EX-POSITVM
-- impositum/expositum distinction, the: expositum: Grice: “My
preferred term for what Strawson calls the exponible.’ In dialectica, an
exponible proposition is that which needs to be expounded, i.e., elaborated or
explicated in order to make clear their true ‘form,’ as opposed to its mere
‘matter.’ ‘Giorgione is so called because of his size.’ ‘Giorgione is so called
because of his size’ has a misleading ‘matter’ (implicating at least two
forms). It may suggestin a simple predication. In fact, it means, ‘Giorgione is
called ‘Giorgione’ because of his size’. Grice’s examples: “An English pillar
box is called ‘red’ because it is red,” “Grice is called ‘Grice’ because he is
Grice.” “Grice is called ‘Grice’ because his Anglo-Norman ancestors had ‘grey’
in their coat of arms.” “Grice is called ‘Grice’ because his ancestor kept
grice, i. e. pigs.” Another example by Grice: ‘Every man except Strawson is
running’, expounded as ‘Strawson is not running and every man other than
Strawson is running (for Prime Minister)’; and ‘Only Strawson says something
true’, uttered by Grice. Grice claims ‘Only Strawson says something true’
should be expounded (or explicated, or explciited, or exposed, or provided
‘what is expositum, or the expositum provided: not only as ‘Strawson says
something true and no one other than Strawson says something true’, but needs
an implicated third clause, ‘Grice says something false’ for surely Grice is
being self-referentially ironic. If only Strawson says something true – that
proposition can only be uttered by Strawson. Grice borrowed it from Descartes:
“Only Descarets says something ture.” This last example brings out an important
aspect of exponible propositions, viz., their use in a sophisma. Sophismatic
treatises are a common genre at Oxford in which this or that semantic issue is
approached dialectically (what Grice calls “the Oxonian dialectic”) by its
application in solving a puzzle case. Another important ingredient of an
exponible proposition is its containing a particular term, sometimes called the
exponible term (terminus exponibilis in Occam). Attention on such a term is
focused in the study of the implicaturum of a syncategorematic expression, Note
that such an exponible term could only be expounded in context, not by an
explicit definition. A syncategorematic term that generates an exponible
proposition is one such as: ‘twice’, ‘except’, ‘begins’ and ‘ceases [to eat
iron, or ‘beat your wife,’ to use Grice’s example in “Causal Theory of
Perception”]’, and ‘insofar as’ e.g. ‘Strawson insofar as he is rational is
risible’. H. P. Grice, “Implicaturum and
explicaturum”
EX-PRESSVM -- impressum-expressum distinction, the: expressum: At
one time, Oxford was all about the Croceans! It all changed! The oppositum is the
impressum, or sense-datum. In a functionalist model, you have perceptual INPUT
and behavioural OUTPUT, the expressum. In between, the black box of the soul.
Darwin, Eckman. Drawing a skull meaning
there is danger. cf. impressum. Inside out. Expression of Impressions. As an
empiricist, Grice was into ‘impress.’ But it’s always good to have a
correlatum. Grice liked an abbreviation, especially because he loved
subscripts. So, he starts to analyse the ‘ordinary-language’ philosohper’s
mistake by using a few symbols: there’s the phrase, or utterance, and there’s
the expression, for which Grice uses ‘e’ for a ‘token,’ and ‘E’ for a type. So,
suppose we are considering Hart’s use of ‘carefully.’ ‘Carefully’ would be the
‘expression,’ occurring within an utterance. Surely, since Grice uses
‘expression’ in that way, he also uses to say what Hart is doing, Hart is
expressing. Grice notes that ‘expressing’ may be too strong. Hart is expressing
the belief THAT if you utter an utterance containing the ‘expression’ ‘carefully,’
there is an implicaturum to the effect that the agent referred to is taking
RATIONAL steps towards something. IRRATIONAL behaviour does not count as
‘careful’ behaviour. Grice uses the same abbreviations in discussing philosophy
as the ‘conceptual analysis’ of this or that expression. It is all different
with Ogden, Collingwood, and Croce, that Collingwood loved! "Ideas, we may say generally, are
symbols, as serving to express some actual moment or phase of experience and
guiding towards fuller actualization of what is, or seems to be, involved in
its existence or MEANING . That no idea is ever wholly adequate MEANS that the
suggestiveness of experience is inexhaustible" Forsyth, English
Philosophy, 1910, . Thus the significance of sound, the meaning of an utterance
is here identical with the active response to surroundings and with the natural
expression of emotions According to Husserl, the function of expression is only
directly and immediately adapted to what is usually described as the meaning
(Bedeutung) or the sense (Sinn) of the speech or parts of speech. Only because
the meaning associated with a wordsowid expresses something, is that word-sound
called 'expres- sion' (Ideen, p. 256 f). "Between the ,nearnng and the
what is meant, or what it expresses, there exists an essential relation,
because the meaning is the expression of the meant through its own content
(Gehalt) What is meant (dieses Bedeutete) lies in the 'object' of the thought
or speech. We must therefore distinguish these three-Word, Meaning, Object
"1 Geyser, Gp cit p z8 PDF compression, OCR, web optimization using a
watermarked evaluation copy of CVISION PDFCompresso These complexities are
mentioned here to show how vague are most of the terms which are commonly
thought satisfactory in this topic. Such a word as 'understand' is, unless
specially treated, far too vague to serve except provisionally or at levels of
discourse where a real understanding of the matter (in the reference sense) is
not possible. The multiple functions of speech will be classified and discussed
in the following chapter. There it will be seen that the expression of the
speaker's intention is one of the five regular language functions. Grice hated
Austin’s joke, the utteratum, “I use ‘utterance’ only as equivalent to
'utteratum;' for 'utteratio' I use ‘the issue of an utterance,’” so he needed
something for ‘what is said’ in general, not just linguistic, ‘what is
expressed,’ what is explicitly conveyed,’ ex-prĭmo , pressi, pressum, 3, v. a.
premo. express (mostly poet. and in postAug. prose; “freq. in the elder Pliny):
(faber) et ungues exprimet et molles imitabitur aere capillos,” Hor. A. P. 33;
cf.: “alicujus furorem ... verecundiae ruborem,” Plin. 34, 14, 40, § 140:
“expressa in cera ex anulo imago,” Plaut. Ps. 1, 1, 54: “imaginem hominis gypso
e facie ipsa,” Plin. 35, 12, 44, § 153; cf.: “effigiem de signis,” id. ib.:
“optime Herculem Delphis et Alexandrum, etc.,” id. 34, 8, 19, § 66 et saep.:
“vestis stricta et singulos artus exprimens,” exhibiting, showing, Tac. G. 17:
“pulcher aspectu sit athleta, cujus lacertos exercitatio expressit,” has well
developed, made muscular, Quint. 8, 3, 10.
EX-SISTERE
-- The insistens/existens distinction, the: exsistentia: Grice: “A rather
complex Ciceronian construction!” – Grice: “The correct spelling, at Clifton,
was ‘ex-sistentia.’” -- ex-sisto or existo , stĭti,
stĭtum, 3, v. n. ( I.act. August. Civ. D. 14, 13), to step out or forth, to
come forth, emerge, appear (very freq. and class.). I. Prop. A. In gen.: “e
latebris,” Liv. 25, 21, 3: “ab inferis,” Cic. Verr. 2, 1, 37, § 94; Liv. 39,
37, 3: “anguem ab ara exstitisse,” Cic. Div. 2, 80 fin.; cf.: vocem ab aede
Junonis ex arce exstitisse (shortly before: voces ex occulto missae; and:
“exaudita vox est a luco Vestae),” id. ib. 1, 45, 101: “est bos cervi figura,
cujus a media fronte inter aures unum cornu exsistit excelsius,” Caes. B. G. 6,
26, 1: “submersus equus voraginibus non exstitit,” Cic. Div. 1, 33, 73; cf.
Cic. Verr. 2, 4, 48, § 107: “nympha gurgite medio,” Ov. M. 5, 413: “hoc vero
occultum, intestinum ac domesticum malum, non modo non exsistit, verum, etc.,”
does not come to light, Cic. Verr. 2, 1, 15, § 39.— B. In partic., with the
accessory notion of originating, to spring, proceed, arise, become: “vermes de
stercore,” Lucr. 2, 871: “quae a bruma sata sunt, quadragesimo die vix
exsistunt,” Varr. R. R. 1, 34, 1: “ut si qui dentes et pubertatem natura dicat
exsistere, ipsum autem hominem, cui ea exsistant, non constare natura, non
intelligat, etc.,” Cic. N. D. 2, 33 fin.: “ex hac nimia licentia ait ille, ut
ex stirpe quadam, exsistere et quasi nasci tyrannum,” id. Rep. 1, 44; id. Off.
2, 23, 80; cf.: “ex luxuria exsistat avaritia necesse est,” id. Rosc. Am. 27,
75; “ut exsistat ex rege dominus, ex optimatibus factio, ex populo turba et
confusio,” id. Rep. 1, 45: “ut plerumque in calamitate ex amicis inimici
exsistunt,” Caes. B. C. 3, 104, 1; “for which: videtisne igitur, ut de rege
dominus exstiterit? etc.,” Cic. Rep. 2, 26: “ex quo exsistit id civitatis
genus,” id. ib. 3, 14: “hujus ex uberrimis sermonibus exstiterunt doctissimi
viri,” id. Brut. 8, 31; cf. id. Or. 3, 12: “ex qua (disserendi ratione) summa
utilitas exsistit,” id. Tusc. 5, 25, 72: “sermo admirantium, unde hoc
philosophandi nobis subito studium exstitisset,” id. N. D. 1, 3, 6: “exsistit
hoc loco quaestio subdifficilis,” id. Lael. 19, 67: “magna inter eos exsistit
controversia,” Caes. B. G. 5, 28, 2: “poëtam bonum neminem sine inflammatione
animorum exsistere posse,” Cic. de Or. 2, 46 fin.: exsistit illud, ut, etc., it
ensues, follows, that, etc., id. Fin. 5, 23, 67; cf.: “ex quo exsistet, ut de
nihilo quippiam fiat,” id. Fat. 9, 18. II. Transf., to be visible or manifest
in any manner, to exist, to be: “ut in corporibus magnae dissimilitudines sunt,
sic in animis exsistunt majores etiam varietates,” Cic. Off. 1, 30, 107: “idque
in maximis ingeniis exstitit maxime et apparet facillime,” id. Tusc. 1, 15, 33:
“si exstitisset in rege fides,” id. Rab. Post. 1, 1: “cujus magnae exstiterunt
res bellicae,” id. Rep. 2, 17: “illa pars animi, in qua irarum exsistit ardor,”
id. Div. 1, 29, 61: “si quando aliquod officium exstitit amici in periculis
adeundis,” id. Lael. 7, 24 et saep.: “neque ullum ingenium tantum exstitisse
dicebat, ut, etc.,” Cic. Rep. 2, 1; cf.: “talem vero exsistere eloquentiam,
qualis fuit in Crasso, etc.,” id. de Or. 2, 2, 6; “nisi Ilias illa
exstitisset,” id. Arch. 10, 24: “cujus ego dignitatis ab adolescentia fautor,
in praetura autem et in consulatu adjutor etiam exstitissem,” id. Fam. 1, 9, 11;
cf.: “his de causis ego huic causae patronus exstiti,” id. Rosc. Am. 2, 5:
“timeo, ne in eum exsistam crudelior,” id. Att. 10, 11, 3: “sic insulsi
exstiterunt, ut, etc.,” id. de Or. 2, 54, 217.Grice learned to use \/x
for the existential quantifier, since “it shows the analogy with ‘or’ and
avoids you fall into any ontological trap, of existential generalization, a
rule of inference admissible in classical quantification theory. It allows one
to infer an existentially quantified statement DxA from any instance A a/x of
it. Intuitively, it allows one to infer ‘There exists a liar’ from ‘Epimenides
is a liar’. It is equivalent to universal instantiation the rule that allows one to infer any
instance A a/x of a universally quantified statement ExA from ExA. Intuitively,
it allows one to infer ‘My car is valuable’ from ‘Everything is valuable’. Both
rules can also have equivalent formulations as axioms; then they are called
specification ExA / A a/x and particularization Aa/x / DxA. All of these
equivalent principles are denied by free logic, which only admits weakened
versions of them. In the case of existential generalization, the weakened
version is: infer DxA from Aa/x & E!a. Intuitively: infer ‘There exists a
liar’ from ‘Epimenides is a liar and Epimenides exists’. existential import, a commitment to the
existence of something implied by a sentence, statement, or proposition. For
example, in Aristotelian logic though not in modern quantification theory, any
sentence of the form ‘All F’s are G’s’ implies ‘There is an F that is a G’ and
is thus said to have as existential import a commitment to the existence of an
F that is a G. According to Russell’s theory of descriptions, sentences
containing definite descriptions can likewise have existential import since ‘The
F is a G’ implies ‘There is an F’. The presence of singular terms is also often
claimed to give rise to existential commitment. Underlying this notion of
existential import is the idea long
stressed by W. V. Quine that ontological
commitment is measured by existential sentences statements, propositions of the
form Dv f. existential instantiation, a
rule of inference admissible in classical quantification theory. It allows one
to infer a statement A from an existentially quantified statement DxB if A can
be inferred from an instance Ba/x of DxB, provided that a does not occur in
either A or B or any other premise of the argument if there are any.
Intuitively, it allows one to infer a contradiction C from ‘There exists a
highest prime’ if C can be inferred from ‘a is a highest prime’ and a does not
occur in C. Free logic allows for a stronger form of this rule: with the same
provisions as above, A can be inferred from DxB if it can be inferred from Ba/x
& E!a. Intuitively, it is enough to infer ‘There is a highest natural
number’ from ‘a is a highest prime and a exists’. existentialism, a philosophical and literary
movement that came to prominence in Europe, particularly in France, immediately
after World War II, and that focused on the uniqueness of each human individual
as distinguished from abstract universal human qualities. Historians differ as
to antecedents. Some see an existentialist precursor in Pascal, whose
aphoristically expressed Catholic fideism questioned the power of rationalist
thought and preferred the God of Scripture to the abstract “God of the
philosophers.” Many agree that Kierkegaard, whose fundamentally similar but
Protestant fideism was based on a profound unwillingness to situate either God
or any individual’s relationship with God within a systematic philosophy, as
Hegel had done, should be exact similarity existentialism 296 296 considered the first modern
existentialist, though he too lived long before the term emerged. Others find a
proto-existentialist in Nietzsche, because of the aphoristic and
anti-systematic nature of his writings, and on the literary side, in
Dostoevsky. A number of twentiethcentury novelists, such as Franz Kafka, have
been labeled existentialists. A strong existentialist strain is to be found in
certain other theist philosophers who have written since Kierkegaard, such as
Lequier, Berdyaev, Marcel, Jaspers, and Buber, but Marcel later decided to
reject the label ‘existentialist’, which he had previously employed. This
reflects its increasing identification with the atheistic existentialism of
Sartre, whose successes, as in the novel Nausea, and the philosophical work
Being and Nothingness, did most to popularize the word. A mass-audience
lecture, “Existentialism Is a Humanism,” which Sartre to his later regret
allowed to be published, provided the occasion for Heidegger, whose early
thought had greatly influenced Sartre’s evolution, to take his distance from
Sartre’s existentialism, in particular for its self-conscious concentration on
human reality over Being. Heidegger’s Letter on Humanism, written in reply to
a admirer, signals an important turn in
his thinking. Nevertheless, many historians continue to classify Heidegger as
an existentialist quite reasonably,
given his early emphasis on existential categories and ideas such as anxiety in
the presence of death, our sense of being “thrown” into existence, and our
temptation to choose anonymity over authenticity in our conduct. This
illustrates the difficulty of fixing the term ‘existentialism’. Other thinkers of the time, all acquaintances of
Sartre’s, who are often classified as existentialists, are Camus, Simone de
Beauvoir, and, though with less reason, Merleau-Ponty. Camus’s novels, such as
The Stranger and The Plague, are cited along with Nausea as epitomizing the
uniqueness of the existentialist antihero who acts out of authenticity, i.e.,
in freedom from any conventional expectations about what so-called human nature
a concept rejected by Sartre supposedly requires in a given situation, and with
a sense of personal responsibility and absolute lucidity that precludes the
“bad faith” or lying to oneself that characterizes most conventional human
behavior. Good scholarship prescribes caution, however, about superimposing too
many Sartrean categories on Camus. In fact the latter, in his brief
philosophical essays, notably The Myth of Sisyphus, distinguishes
existentialist writers and philosophers, such as Kierkegaard, from absurdist
thinkers and heroes, whom he regards more highly, and of whom the mythical
Sisyphus condemned eternally by the gods to roll a huge boulder up a hill
before being forced, just before reaching the summit, to start anew is the
epitome. Camus focuses on the concept of the absurd, which Kierkegaard had used
to characterize the object of his religious faith an incarnate God. But for
Camus existential absurdity lies in the fact, as he sees it, that there is
always at best an imperfect fit between human reasoning and its intended
objects, hence an impossibility of achieving certitude. Kierkegaard’s leap of
faith is, for Camus, one more pseudo-solution to this hard, absurdist reality.
Almost alone among those named besides Sartre who himself concentrated more on
social and political thought and became indebted to Marxism in his later years,
Simone de Beauvoir 886 unqualifiedly accepted the existentialist label. In The
Ethics of Ambiguity, she attempted, using categories familiar in Sartre, to
produce an existentialist ethics based on the recognition of radical human
freedom as “projected” toward an open future, the rejection of inauthenticity,
and a condemnation of the “spirit of seriousness” akin to the “spirit of
gravity” criticized by Nietzsche whereby individuals identify themselves wholly
with certain fixed qualities, values, tenets, or prejudices. Her feminist
masterpiece, The Second Sex, relies heavily on the distinction, part
existentialist and part Hegelian in inspiration, between a life of immanence,
or passive acceptance of the role into which one has been socialized, and one
of transcendence, actively and freely testing one’s possibilities with a view
to redefining one’s future. Historically, women have been consigned to the
sphere of immanence, says de Beauvoir, but in fact a woman in the traditional
sense is not something that one is made, without appeal, but rather something
that one becomes. The Sartrean ontology of Being and Nothingness, according to
which there are two fundamental asymmetrical “regions of being,”
being-in-itself and being-for-itself, the latter having no definable essence
and hence, as “nothing” in itself, serving as the ground for freedom,
creativity, and action, serves well as a theoretical framework for an
existentialist approach to human existence. Being and Nothingness also names a
third ontological region, being-for-others, but that may be disregarded here.
However, it would be a mistake to treat even Sartre’s existentialist insights,
much less those of others, as dependent on this ontology, to which he himself
made little direct existentialism existentialism 297 297 reference in his later works. Rather, it
is the implications of the common central claim that we human beings exist
without justification hence “absurdly” in a world into which we are “thrown,”
condemned to assume full responsibility for our free actions and for the very
values according to which we act, that make existentialism a continuing
philosophical challenge, particularly to ethicists who believe right choices to
be dictated by our alleged human essence or nature.
EX-TENSVM
-- extensum -- extensionalism: one of the twelve labours of H. P. Grice
-- a family of ontologies and semantic theories restricted to existent
entities. Extensionalist ontology denies that the domain of any true theory
needs to include non-existents, such as fictional, imaginary, and impossible
objects like Pegasus the winged horse or round squares. Extensionalist
semantics reduces meaning and truth to set-theoretical relations between terms
in a language and the existent objects, standardly spatiotemporal and abstract
entities, that belong to the term’s extension. The extension of a name is the
particular existent denoted by the name; the extension of a predicate is the
set of existent objects that have the property represented by the predicate.
The sentence ‘All whales are mammals’ is true in extensionalist semantics
provided there are no whales that are not mammals, no existent objects in the
extension of the predicate ‘whale’ that are not also in the extension of
‘mammal’. Linguistic contexts are extensional if: i they make reference only to
existent objects; ii they support substitution of codesignative terms referring
to the same thing, or of logically equivalent propositions, salva veritate
without loss of truthvalue; and iii it is logically valid to existentially
quantify conclude that There exists an object such that . . . etc. objects
referred to within the context. Contexts that do not meet these requirements
are intensional, non-extensional, or referentially opaque. The implications of
extensionalism, associated with the work of Frege, Russell, Quine, and
mainstream analytic philosophy, are to limit its explanations of mind and
meaning to existent objects and material-mechanical properties and relations
describable in an exclusively extensional idiom. Extensionalist semantics must
try to analyze away apparent references to nonexistent objects, or, as in
Russell’s extensionalist theory of definite descriptions, to classify all such
predications as false. Extensionalist ontology in the philosophy of mind must eliminate
or reduce propositional attitudes or de dicto mental states, expressed in an
intensional idiom, such as ‘believes that ————’, ‘fears that ————’, and the
like, usually in favor of extensional characterizations of neurophysiological
states. Whether extensionalist philosophy can satisfy these explanatory
obligations, as the thesis of extensionality maintains, is controversial.
Fabri
-- Filippo
Fabri (1564-1630) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump
to search Abbozzo Questa voce sull'argomento religiosi italiani è solo un
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Filippo Fabri (1564-1630).jpg
Disputationes theologicae de restitutione et extrema unctione, 1624
Filippo Fabri o Fabbri (Spinata di Brisighella, 1564 – Padova, 1630) è stato un
teologo, filosofo e religioso italiano dei francescani conventuali. Indice 1 Biografia
2 Opere
3 Bibliografia
4 Altri
progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia Insegnò, presso la universitas artistarum dello Studio di
Padova in via Scoti, metafisica nel 1603-1606 e teologia nel 1606-1630. Criticò Francesco Patrizi, Gianfrancesco
Pico, Francisco Suárez e Galileo Galilei, in difesa di Aristotele, dell'unità
della metafisica e della separazione di matematica e fisica. Opere (LA) Filippo Fabbri, Disputationes
theologicae de restitutione et extrema unctione, Venetiis, ex officina Marci
Ginammi, 1624. URL consultato il 21 aprile 2015. Bibliografia Forlivesi, Marco
(2011) Filippo Fabri vs Patrizi, Suárez e Galilei: il valore della
"Metafisica" di Aristotele e la distinzione delle scienze
speculative. In: Innovazione filosofica e università tra Cinquecento e primo
Novecento - Philosophical Innovation and the University from the 16th Century
to the Early 20th. La filosofia e il suo passato, 40 . CLEUP, pp. 95–116. ISBN
9788861297357 Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
contiene immagini o altri file su Filippo Fabri Collegamenti esterni Opere di
Filippo Fabri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN)
Filippo Fabri, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Controllo di autorità VIAF
(EN) 153175425 · ISNI (EN) 0000 0001 1018 055X · LCCN (EN) no2006019917 · GND
(DE) 142393304 · BAV (EN) 495/24228 · CERL cnp01876978 · WorldCat Identities
(EN) lccn-no2006019917 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale
Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Categorie: Teologi italianiFilosofi
italiani del XVI secoloFilosofi italiani del XVII secoloReligiosi italianiNati
nel 1564Morti nel 1630Nati a BrisighellaMorti a PadovaFrancescani
italiani[altre]
Fabro
-- Cornelio Fabro Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Cornelio Fabro (Talmassons, 24 agosto 1911 – Roma, 4
maggio 1995) è stato un presbitero, teologo, filosofo, storico della filosofia,
traduttore e accademico italiano, membro della Congregazione delle Sacre
Stimmate di Nostro Signore Gesù Cristo. Indice 1 Biografia 2 Il
pensiero 3 Opere
3.1 Traduzioni
4 Letteratura
su Cornelio Fabro 5 Note
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Nacque in Flumignano, frazione del comune di Talmassons (UD).
Nel 1922 entrò come aspirante nel seminario degli stimmatini. Compiuti tutti
gli studi inferiori e superiori, nel 1931 si laureò in Filosofia presso la
Pontificia Università Lateranense (con il massimo dei voti, la lode e
l'assegnazione di un premio speciale). Il titolo della sua tesi di laurea è:
L'oggettività del principio di causa e la critica di D. Hume. Alla Lateranense,
il Fabro era stato in precedenza allievo del biologo Giuseppe Reverberi. Il 20
aprile 1935 riceve l'ordinazione sacerdotale a San Giovanni Laterano, e il 7
luglio consegue (con pieni voti e lode) la licenza in Teologia presso la
Pontificia Università San Tommaso d'Aquino[1]. Si dedica quindi allo
studio da una parte delle scienze naturali e biologiche, per le quali sembra
avviarsi alla docenza universitaria, dall'altra, e soprattutto, della
filosofia: nel 1938 consegue il dottorato in Teologia nella Pontificia
Università «Angelicum» con la dissertazione teologica La nozione metafisica di
partecipazione secondo San Tommaso, che diventa un'opera capitale per la
comprensione della quarta via e di tutto il pensiero tomista. Nel 1939 è
docente straordinario di Metafisica nell'Ateneo Urbaniano (dal 1941 diventa
ordinario). Gli studi e le pubblicazioni si susseguono a ritmo serrato.
Nel 1948 consegue la «libera docenza» di Filosofia teoretica all'Università di
Roma, ed è anche nominato professore honoris causa di Filosofia nell'Università
di Buenos Aires. Continua a insegnare nelle università pontificie, ma dal 1949
ha anche un incarico di Filosofia all'Università di Roma. Nel 1954 diventa
straordinario di Filosofia teoretica presso l'Istituto Universitario Pareggiato
di Magistero «Maria Ss. Assunta» di Roma, divenendone al contempo direttore
fino al 1956. Nel 1954 risulta vincitore della cattedra di Filosofia teoretica
presso l'Università di Napoli come secondo ternato. Nel 1965 è nominato professore
ordinario di Filosofia nell'Università degli Studi di Perugia, e preside della
Facoltà di Magistero nella stessa Università. Di qui in avanti è un seguito
ininterrotto d'incarichi sia accademici sia culturali e istituzionali del più
alto prestigio, nella Chiesa, in Italia e nel mondo. Nonostante il susseguirsi
instancabile di studi, di pubblicazioni, d'impegni, e la fama che ne consegue,
il padre Fabro continua a vivere modestamente e semplicemente nella parrocchia
romana di Santa Croce al Flaminio, retta dai suoi confratelli stimmatini,
dedicandosi alla pastorale parrocchiale, e non tirandosi mai indietro da
scalmanate partite a pallone coi "regazzini" dell'oratorio,
inconsapevoli di star marcando chiassosamente un centravanti così illustre.
Il pensiero Cornelio Fabro si inscrive nell'alveo della neoscolastica, o, più
precisamente, del neotomismo. Il suo apporto più profondo alla metafisica
classica, sulle orme di san Tommaso d'Aquino, è la distinzione reale tra
essentia ("essenza") e actus essendi ("atto d'essere"). È
questa tesi che lo porterà a riconoscere con sicurezza le debolezze e le aporie
del pensiero moderno, il quale, movendo dall'immanentismo del cogito
cartesiano, sfocia ineluttabilmente nell'ateismo. Inoltre combatté e condannò
l'eterodosso pensiero modernista. Nel saggio Introduzione all'ateismo
moderno (Studium, Roma, 1964) egli ha sviluppato un ampio esame del pensiero
ateo moderno, trovandone l'origine nel pensiero di Cartesio e con successivi
importanti apporti di quello di Spinoza. Secondo Fabro con alcune premesse
poste da essi l'ateismo ha trovato basi di sviluppo importanti. In buona
sintesi: tutto nasce da una visione filosofica dell'"immanenza" che
ha danneggiato fortemente il riferimento alla "trascendenza".
Altri pensatori moderni su cui si è esercitata l'acribìa fabriana sono Emanuele
Severino e Karl Rahner. Sul fronte opposto, il Fabro ha valorizzato in misura
importante il pensiero cristiano, esistenzialista, anti-idealista di Søren
Kierkegaard, facendosi traduttore (dall'originale in lingua danese), editore e
commentatore delle sue opere. Opere Nell'arco temporale 1934-1994 Fabro
pubblicò 38 libri, ciò che fa di lui uno scrittore con una produzione media
superiore a un libro ogni due anni. Ma la sua produzione letteraria viene quasi
raddoppiata quando si considerino i suoi contributi in diverse opere in
collaborazione (circa venti); le voci per Dizionari, per Enciclopedie italiane
ed estere (per la sola Enciclopedia Cattolica [1948] scrive 113 voci); gli
articoli su riviste, giornali, periodici (quasi novecento); le recensioni
(centinaia); ecc.[1] La nozione metafisica di partecipazione secondo S.
Tommaso d'Aquino, S.E.I., Torino, 1939 Neotomismo e suarezismo, Piacenza, 1941
La fenomenologia della percezione, Vita e Pensiero, Milano, 1941 Percezione e
pensiero, Vita e Pensiero, Milano, 1941 Introduzione all'esistenzialismo, Vita
e Pensiero, Milano, 1943 Problemi dell'esistenzialismo, A.V.E., Roma, 1945 Tra
Kierkegaard e Marx: per una definizione dell'esistenza, Vallecchi, Firenze,
1952 Dio. Introduzione al problema teologico, Studium, Roma, 1953 L'Assoluto
nell'esistenzialismo, Miano-Catania, 1953 L'anima, Studium, Roma, 1955
Dall'essere all'esistente, Morcelliana, Brescia, 1957 Profili di Santi,
Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo, 1957 Vangeli delle domeniche,
Morcelliana, Brescia, 1959 Breve introduzione al Tomismo, Desclée, Roma, 1960
Georg W.F. Hegel: La dialettica, La Scuola Editrice, Brescia, 1960
Participation et causalité selon S. Thomas D'Aquin, Paris-Louvain, 1961
Partecipazione e causalità, S.E.I., Torino, 1960 Feuerbach-Marx-Engels.
Materialismo dialettico e materialismo storico, La Scuola Editrice, Brescia,
1962 Introduzione all'ateismo moderno, Studium, Roma, 1964 L'uomo e il rischio
di Dio, Studium, Roma, 1967 Esegesi tomistica, Pontificia Università
Lateranense, Roma, 1969 Tomismo e pensiero moderno, Pontificia Università
Lateranense, Roma, 1969 La svolta antropologica di Karl Rahner, Rusconi,
Milano, 1974 L'avventura della teologia progressista, Rusconi, Milano, 1974
Søren Kierkegaard. Il problema della Fede, La Scuola Editrice, Brescia, 1978 La
trappola del compromesso storico: da Togliatti a Berlinguer, Logos, Roma, 1979
La preghiera nel pensiero moderno, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1979
L'alienazione dell'Occidente. Osservazioni sul pensiero di Emanuele Severino,
Quadrivium, Genova, 1981 Momenti dello spirito I, Sala Francescana di cultura
«P. Antonio Giorgi», Assisi - S. Damiano, 1983 Momenti dello spirito II, Sala
Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», Assisi - S. Damiano, 1983
Introduzione a San Tommaso, Ares, Milano, 1983 Riflessioni sulla libertà,
Maggioli, Rimini, 1983 Gemma Galgani. Testimone del soprannaturale, Cipi, Roma,
1987 L'enigma Rosmini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1988 Le prove
dell'esistenza di Dio, La Scuola, Brescia, 1989 Commento al Pater Noster,
(postumo), Pontificia Accademia di San Tommaso d'Aquino, Città del Vaticano,
2002 Traduzioni Ludwig Feuerbach, L'essenza del Cristianesimo, L'Aquila,
Japadre, 1977. Letteratura su Cornelio Fabro Antonio Pieretti (a cura di),
Essere e libertà. Studi in onore di Cornelio Fabro, Maggioli, Rimini, 1984.
Giuseppe Mario Pizzuti (a cura di), Veritatem in caritate. Studi in onore di C.
Fabro, Ermes, Potenza, 1991. Rosa Goglia, La novità metafisica in Cornelio
Fabro, Marsilio, Venezia, 2004. Federico Costantini (a cura di), Cornelio Fabro
e il problema della libertà, Forum, Udine, 2007. Elvio Celestino Fontana, Fabro
all'Angelicum, EDIVI, Segni, 2008. Idem, Fabro e l'Esistenzialismo, EDIVI,
Segni, 2010. Rosa Goglia, Cornelio Fabro. Profilo biografico, cronologico,
tematico da inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI, Segni, 2010.
Ariberto Acerbi (a cura di), Crisi e destino della filosofia. Studi su Cornelio
Fabro, EDUSC, Roma, 2012. Note ^ Goglia, Rosa, Cornelio Fabro : profilo
biografico cronologico tematico da inediti, note di archivio, testimonianze,
EDIVI, 2010, p. 44, ISBN 9788889231371, OCLC 641458068. Voci correlate Søren
Kierkegaard Neotomismo Ateismo Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote
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Cornelio Fabro, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2009. Pagina su Cornelio Fabro e sulle sue opere., su corneliofabro.org.
Pagina dell'Università di Trieste relativa a Convegno internazionale su
Cornelio Fabro., su units.it. Il Fondo Fabro presso la Biblioteca della
Pontificia Università della Santa Croce., su pusc.it. Controllo di autorità VIAF (EN)
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Categorie: Presbiteri italianiTeologi italianiFilosofi italiani del XX
secoloNati nel 1911Morti nel 1995Nati il 24 agostoMorti il 4 maggioNati a
TalmassonsMorti a RomaAccademici italiani del XX secoloFilosofi
cattoliciPersonalità del cattolicesimoProfessori della Sapienza - Università di
RomaProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIProfessori
dell'Università degli Studi di PerugiaStorici della filosofia italianiStorici
della filosofia medievaleTraduttori all'italianoTraduttori dal daneseTraduttori
dal tedesco all'italianoTraduttori italianiStimmatini[altre]
Faggin
Giuseppe
Faggin Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Giuseppe Faggin (Isola Vicentina, 20 ottobre 1906 – 23 settembre 1995[1]) è
stato un filosofo e storico della filosofia italiano. Indice 1 Biografia
2 Pubblicazioni
2.1 Monografie
2.2 Traduzioni
3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Laureatosi nel 1930 con Erminio Troilo,[2] Faggin è stato
professore di filosofia all'Università di Padova e nei licei classici di
Bassano del Grappa, Campobasso e Vicenza.[1]
Studioso del platonismo, della tradizione mistica e dell'occultismo, ha
tradotto per la prima volta in Italia le Enneadi di Plotino, pubblicate nel 1947–48
per l'Istituto Editoriale, e riedite nel 1992 da Rusconi.[1] Altri suoi lavori riguardano Meister Eckhart
e la mistica medioevale tedesca, il filosofo Schopenhauer, la stregoneria e
l'occultismo rinascimentale.[1] Suo
figlio Federico è un importante fisico e inventore: sua l'invenzione nel 1971
del microprocessore. Pubblicazioni
Monografie Van Gogh, Padova, CEDAM, 1945. Plotino, Milano, Garzanti, 1945[3]
(2ª ed. aggiornata: Plotino, Roma, Āśram Vidyā, 1988). Meister Eckhart e la
mistica tedesca preprotestante, Bocca, Milano, 1946. Schopenhauer: il mistico
senza Dio, Firenze, La nuova Italia, 1951. Le streghe: trentatré incisioni
dell'epoca, Milano, Longanesi & C., 1959. Gli occultisti dell'età
rinascimentale, Milano, Marzorati, 1960. Storia della filosofia: ad uso dei
licei classici, Milano, Principato, 1963–65. Dal Rinascimento a Immanuel Kant,
Milano, Principato, 1969. Il pensiero antico e medievale, Milano, Principato,
1972. Diabolicità del rospo, Vicenza, Neri Pozza, 1973. Dal Romanticismo alla scuola
di Francoforte, Milano, Principato, 1977. Traduzioni Plotino, Enneadi, 3 voll.,
Introduzione, testo critico, traduzione e note di Giuseppe Faggin, Milano,
Istituto Editoriale, 1947–48. Arthur Schopenhauer, I due problemi fondamentali
dell'etica: 1. Sulla libertà del volere; 2. Sul fondamento della morale,
Introduzione, traduzione e note di Giuseppe Faggin, Torino, Boringhieri, 1961.
Meister Eckhart, Trattati e prediche, a cura di Giuseppe Faggin, Milano,
Rusconi, 1982. Inni orfici, a cura di Giuseppe Faggin, Roma, Āśram Vidyā, 1991.
Plotino, Enneadi. Testo greco a fronte, a cura di Giuseppe Faggin, coadiuvato
da Roberto Radice, Milano, Rusconi, 1992. Note
In ricordo di Giuseppe Faggin. ^ Franco Volpi, Ars majeutica. Studi in
onore di Giuseppe Faggin, pag. 3, Neri Pozza, 1985. ^ Estratti del testo su
Plotino pubblicato da Giuseppe Faggin per Garzanti. Bibliografia Franco Volpi
(a cura di), ARS MAJEUTICA. Scritti in onore di Giuseppe Faggin, Vicenza, Neri
Pozza Editrice, 1985. Collegamenti esterni Giuseppe Faggin. Le ragioni
dell'insegnante, dagli Atti della commemorazione tenuta il 22 novembre 1996
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Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX
secoloStorici della filosofia italianiNati nel 1906Morti nel 1995Nati il 20
ottobreMorti il 23 settembreNati a Isola Vicentina[altre]
Falciglia
-- Giuliano
Falciglia da Salemi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump
to search Giuliano Falciglia, detto da Salemi (Salemi, XV secolo – Messina, 20
maggio 1459), è stato un religioso e filosofo italiano Generale dell'ordine
Agostiniano. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Giuliano Falciglia nacque a Salemi agli inizi del XV secolo e
giovanissimo entrò nel convento di Sant'Agostino della sua città natale per
essere poi trasferito nel 1419 a Padova per proseguine negli studi dove divenne
allievo di Paolo da Venezia e Giovanni di Cipro. Fu poi più volte trasferito:
nel 1422 a Siena e due anni dopo a Bologna, dove fu eletto definitore dell'ordine
dell'isola sicula durante il capitolo del 4 luglio 1430 tenutosi nel convento
di Montpelier.[1] Fu nominato
baccelliere sentenziario a Padova dove insegnò teologia nel biennio 1430-32. Fu
quindi nominato reggente di Rimini e socio del Generale dell'ordine durante il
concilio di Basilea sostituendolo nell'incarico dal 1443. Restò fino al 1459
Generale dell'Ordine agostiniano.[2] Questa carica gli venne più volte
rinnovata nei diversi Capitoli dell'ordine tenutesi a Burges 1441, Ferrara
(1451) e ad Avignone (1455) restando presumibilmente in carica fino alla sua
morte, tanto che il successore Alessandro Oliva fu eletto solo il 12 maggio
1459. La data della sua morte che il Perdini indica come il 20 maggio è quindi
non da tutti considerata esatta, ma si presume che possa essere deceduto entro
la prima decate del mese di maggio. In questo lungo periodo a causa dei suoi
gravi problemi di salute dal 1448 incaricò suo collaboratore Alessandro Oliva
di Sassoforte, poi suo successore. La
salma fu sepolta nel convento agostiniano di Messina. Opere Statuta pro conventu Parisiensi del
1447 De sensu composito De medio demostrationis Note ^ Giuliano da Salemi,
Associazione Storico culturale S. Agostino. URL consultato il 30 luglio 2019..
^ La chiesa e i salemitani, su matricesalemi.blogspot.com. URL consultato il 30
luglio 2019.. Bibliografia Nicola Crusenio, Bibliografia Agostiniana, a cura di
D.Perini, Firenze, 1931, p. 44-45. Collegamenti esterni Giuliano Falciglia da
Salemi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Biografie Portale Biografie Cattolicesimo
Portale Cattolicesimo Categorie: Religiosi italianiFilosofi italiani del XV
secoloNati nel XV secoloMorti nel 1459Morti il 20 maggioNati a SalemiMorti a
Messina[altre]
Falzea
-- Angelo Falzea Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Angelo Falzea (Messina, 26 agosto 1914 – Messina, 11
febbraio 2016[1]) è stato un giurista, filosofo e avvocato italiano.
Indice 1 Biografia
e carriera 2 Attività
scientifica e pensiero 3 Opere
principali 4 Note
5 Bibliografia
6 Collegamenti
esterni Biografia e carriera Laureatosi in Giurisprudenza nel 1936 e allievo di
Salvatore Pugliatti,[2][3][4][5][6] ha svolto l'intera carriera accademica alla
Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Messina (intervallata da periodi
di parallelo insegnamento in alcune università calabresi), prima come
assistente poi, dal 1943 in poi, come ordinario, di Istituzioni di diritto
privato e, dal 1984, di diritto civile,[7] fino alla nomina a professore
emerito, dopo essere stato collocato a riposo. Dal 1959 al 1986, fu anche
preside della Facoltà di Giurisprudenza. Socio nazionale dell'Accademia
Nazionale dei Lincei e decano dei civilisti italiani[8] fra i più noti a
livello mondiale, Falzea è stato anche il più anziano ed illustre esponente
della Scuola messinese di diritto civile, fondata da Salvatore Pugliatti.
Condirettore della Rivista di Diritto Civile, dal 1997 al 2002 è stato anche il
direttore scientifico dell'Enciclopedia del Diritto, voluta dall'editore
Antonino Giuffrè, e di cui è stato uno dei fondatori. Docente esigente,
rigoroso e integerrimo, maestro della tradizione italiana della scienza del
diritto, con le sue ricerche di teoria generale e dogmatica giuridica,[9]
nonché con i suoi numerosi contributi ai più diversi istituti civilistici, ha
segnato, in più di sessant'anni di intensa e ricca operosità scientifica, un
profondo avanzamento ed un decisivo rinnovamento degli studi giuridici in Italia.[10]
Tra i suoi allievi: Vincenzo Scalisi, Angelo Federico, Giovanni D'Amico,
Attilio Gorassini, Enzo Campagna e Mario Trimarchi. Tra i molti
riconoscimenti ricevuti da Falzea nel corso degli anni, la laurea honoris causa
in Scienze Politiche, conferitagli dall'Università di Siena[11] nel 2006, e il
primo premio internazionale Bonino. Attività scientifica e pensiero
Falzea è stato un pioniere delle scienze giuridiche teoriche[12] e della
filosofia del diritto, contribuendo, con un originale metodo interdisciplinare
(ma non eclettico), a mettere in relazione aree disciplinari apparentemente
distanti fra loro, ma tutte convergenti a conferire più solidità ed autonomia
al diritto.[13] Sua costante preoccupazione è stata quella di integrare, sempre
ed opportunamente, la prospettiva astratta logico-formale e filosofica con
quella pragmatica del diritto mirante a fornire quel necessario ordine
giuridico indispensabile alla coesistenza pacifica di vita materiale, vita
spirituale e vita sociale.[14] Fra i suoi maggiori risultati,[15] la centralità
della nozione di ”soggetto“, pensato sia astrattamente che in relazione alla
correlativa persona fisica e reale, la fondazione di una etica giuridica e
l'elaborazione di una teoria assiologica del diritto, frutto rispettivamente
della sua incisiva indagine critica ed ampia comprensione concettuale delle
nozioni di ”valore“ – da porre, per Falzea, al centro del pensiero giuridico,
assieme a quello di ”interesse“ – e di ”categoria giuridica“ formale, quali
nuclei fondanti del corpus dottrinario della giurisprudenza. Da qui, la
constatazione di principio secondo cui il ”fenomeno giuridico“, nella sua
accezione più ampia come fatto storico-sociale dinamico e non statico, deve
essere analizzato nelle sue due componenti principali, quella ”formale“ e
quella ”sostanziale“, da considerarsi sempre in un reciproco, razionale
equilibrio correlativo garante di quella realtà umana fattuale di interessi e
di valori.[16][17] Epistemologia giuridica e interdisciplinarità Il perno
epistemologico dell'impianto teorico delineato da Falzea, quale presupposto
ineludibile per l'esistenza di un qualsiasi stato di diritto, è quello che fa
leva sull'imprescindibile ruolo formalizzante che ogni determinazione giuridica
cogente deve avere nel catturare, indi razionalizzare (componente formale),
quel nucleo affettivo-emotivo (componente sostanziale) insito in ogni fatto
umano consuetudinario della vita reale.[18][19][20] Il diritto, come realtà
assiologica, è quella naturale concezione, Falzea fa notare, cui si perviene
allorché si abbandona quella riduttiva visione formalistica ed astratta della
giurisprudenza la quale, invece, come scienza viva e positiva, deve guardare
alla realtà fattuale ed alle sue dinamiche complesse e multifattoriali, ai suoi
contenuti pragmatici, di valori ed interessi.[21] Da qui, la necessaria
interdisciplinarità cui deve sottostare – pur mantenendo la propria autonomia –
la costante giurisprudenza per non cadere in un anacronistico e sterile
formalismo privo di sostanzialità.[13] La «forte, quasi esasperata
dimensione teoretica»[22] (ma mai grettamente dogmatica) che ha caratterizzato
l'opera di Falzea, espressa non solo da un punto di vista meramente
logico-formale ma sempre contestualizzata alla variegata problematicità e
storicità della realtà umana, si evince, in tutta la sua evidenza, dagli
scritti dedicati ai problemi di teoria generale del diritto, affrontati, oltre
che in alcuni suoi lavori monografici,[23] in certe voci la lui redatte per
l'Enciclopedia del Diritto, tra gli anni '50 e '60, sì da costituire dei veri
"classici" della letteratura giuridica contemporanea: fra queste, le
voci “Accertamento” (Vol. I, 1958), “Apparenza” (Vol. II, 1958), “Efficacia
Giuridica” (Vol. XIV, 1965), “Fatto giuridico” (Vol. XVI, 1967). Fra i
molti contributi dati da Falzea all'elaborazione teorica dell'ordinamento
giuridico, in raccordo a quanto detto sopra, degno di nota è l'aver egli
richiamata l'attenzione – nella voce ”I fatti del sentimento“, sulla scia di
parte del pensiero di Pugliatti – sulla rilevanza giuridica del sentimento,
inteso non come un principio generale dell'ordinamento, bensì come un vero e
proprio sentimento individuale o collettivo, fattualmente rilevante per il
comportamento umano, che le norme giuridiche, specie quelle del diritto civile
e penale, classificano come un valore positivo, da rispettare dunque, o
negativo (disvalore), da reprimere invece.[24] Da questa presupposizione
quindi, con metodo contraddistinto da ampiezza dell'indagine storica e improntato
al rigore filosofico, Falzea consegue uno dei suoi maggiori risultati,
riguardante l'analisi del concetto generale di diritto, quale diritto positivo,
cioè effettivamente vigente, scritto o no, incardinato entro un sistema
assiologico fondato su un ordine razionale dello spirito umano che permette di
classificare i valori umani, di una determinata società in un assegnato luogo
ed in un certo tempo (storicità del diritto), secondo una scala della loro
importanza. Quest'ordinamento razionale è un tratto distintivo sia del sistema
culturale umano generale che dei suoi sottosistemi, fra i quali preminenti sono
quello linguistico, che è il principale sistema di comunicazione, e quello
giuridico, che è il sistema normativo attualizzato dell'azione umana individuale
e collettiva.[25] Da questa prospettiva, anche sulla base di un parallelo
analogico-concettuale con la struttura della logica, Falzea perviene, tra
l'altro, ad una elementare quanto fondamentale distinzione metagiuridica fra
teoria generale del diritto e dogmatica giuridica, argomentando
solidamente a favore della tesi per cui la teoria generale del diritto opera ad
un livello superiore di generalità rispetto a quello in cui si colloca la
dogmatica giacché quest'ultima è sempre inerente a diritti positivi
storicamente attualizzati, oggetti di studio della teoria generale che, in
quanto tale, non discende dunque da alcun diritto positivo particolare, e
quindi neppure dalla dogmatica. La teoria generale del diritto è piuttosto
riflessione metateorica su quei particolari sistemi culturali individuati dalle
varie attuazioni storiche del diritto positivo, sistemi che verranno quindi
interpretati speculativamente e spiegati razionalmente (interpretazione
giuridica) tramite metodi centrati sulla individuazione e ordinazione
concettuale. Solo in questi termini, Falzea ribadisce, si può allora più
propriamente parlare, da un punto di vista positivistico, di ”scienza del
diritto“, piuttosto che di semplice ”filosofia del diritto“.[26] Nel 1991
è stata pubblicata, in sei volumi, una raccolta di scritti in suo onore,
comprendente contributi tecnici e scientifici di alcuni fra i maggiori giuristi
italiani, fra cui Guido Alpa, Pietro Barcellona, Paolo Barile, Cesare Massimo
Bianca, Antonino Cataudella, Paolo Grossi, Elio Fazzalari, Vittorio Frosini,
Nicolò Lipari, Enrico Opocher, Giorgio Oppo, Pietro Rescigno, Rodolfo Sacco,
Paolo Spada, Michele Taruffo, Alberto Trabucchi. Opere principali Il
soggetto nel sistema dei fenomeni giuridici, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,
1939. La condizione e gli elementi dell'atto giuridico, Dott. A. Giuffrè
Editore, Milano, 1941 (con successive edizioni). La separazione personale,
Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 1943. L'offerta reale e la liberazione
coattiva del debitore, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2011 (ristampa della
prima edizione del 1947, con nuova prefazione dell'autore). Il fatto naturale,
CEDAM-Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova, 1969. Voci di teoria generale
del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 1978 (con successive edizioni).
Il gene giuridico (con Danilo Mainardi), Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,
1983. Introduzione alle scienze giuridiche. Parte I: Il concetto di diritto, VI
edizione (I edizione, 1975), Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2008. Teoria
generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 1999 (Fa parte di
Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Vol. I).
Dogmatica Giuridica, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 1997 (Fa parte di
Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Vol. II).
Scritti d'occasione, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2010 (Fa parte di
Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Vol. III).
Note ^ Messaggio di cordoglio Archiviato il 16 febbraio 2016 in Internet
Archive. sul sito dell'Università di Messina. ^ Cfr. P. Grossi, ”La cultura del
civilista italiano“, p. 1215, in: Scienza e insegnamento del diritto civile in
Italia, Convegno di studio in onore del prof. Angelo Falzea, Messina, 4-7
giugno 2002, a cura di V. Scalisi, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2004, pp.
1149-1228. ^ Cfr. la testimonianza dello stesso Falzea in: M. Sabbioneti,
”Salvatore Pugliatti“, Dizionario Biografico degli Italiani, 2016. ^ Cfr.
http://www.messinaierieoggi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2801:falzea-il-preside-angelo-&catid=92:antonino-condorelli&Itemid=2906
^ Cfr. ”Omaggio ad Angelo Falzea“ (p. 191), in: P. Grossi, Nobiltà del diritto.
Profili di giuristi, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2008, pp. 189-215. ^
Cfr. pure A. Falzea, ”Salvatore Pugliatti, il maestro“, in: AA.VV., L'opera di
Salvatore Pugliatti, fascicolo speciale dedicato in sua memoria, Rivista di
Diritto Civile, Parte I, 1978, pp. 534-540. ^ Angelo Falzea nell'Enciclopedia
Treccani ^ Sull'importanza del contributo di Falzea alla giuscivilistica
italiana, cfr., per esempio, ”Omaggio ad Angelo Falzea“, cit. ^ A cui dedicava
il corso annuale speciale, da lui introdotto per la prima volta nella Facoltà
di Giurisprudenza di Messina, di Introduzione alle Scienze Giuridiche. ^ Cfr.
V. Scalisi, ”Presentazione“, p. XVIII, in: Scienza e insegnamento del diritto
civile in Italia, Convegno di studio in onore del prof. Angelo Falzea, Messina,
4-7 giugno 2002, a cura di V. Scalisi, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2004,
pp. XVII-XXVII. ^ Cfr. Motivazione della laurea honoris causa in scienze
Politiche conferita dall'Università degli Studi di Siena il 6 marzo 2006 ad
Angelo Falzea, in: Oltre il ”positivismo giuridico“: in onore di Angelo Falzea,
a cura di P. Sirena, ESI, Napoli, 2012, p. XI. ^ Cfr. F. Santoro-Passarelli,
”Sguardo all'opera di un giurista“ (p. 3), in: Scritti in onore di Angelo
Falzea, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 1991, Vol. I, pp. 3-5. Cfr.
”Omaggio ad Angelo Falzea“, cit., pp. 208-209. ^ Cfr. ”Omaggio ad Angelo
Falzea“, cit., p. 205. ^ Molti dei quali riguardanti tematiche, metodologie ed
indirizzi già aperti da Pugliatti (cfr. la sua biografia scientifica ”Salvatore
Pugliatti, giurista inquieto“, in: P. Grossi, Nobiltà del diritto. Profili di
giuristi, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2008, pp. 531-555), seppur
ottenuti, da Falzea, secondo una sua propria visione condotta da un'originale
prospettiva storica e per altre vie. Per un raffronto storico-critico fra il
pensiero di Pugliatti e quello di Falzea, così come per più approfondite
notizie storiche sulla ”Scuola giuridica messinese“, rinviamo a V. Scalisi,
Fonti-Teoria-Metodo. Alla ricerca della «regola giuridica» nell'epoca della
postmodernità, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2012, Parte II, ed alle
referenze ivi citate. ^ Cfr. G. Benedetti, ”La contemporaneità del civilista“,
pp. 1274-1275, in: Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia,
Convegno di studio in onore del prof. Angelo Falzea, Messina, 4-7 giugno 2002,
a cura di V. Scalisi, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2004, pp. 1229-1299. ^
Cfr. ”Omaggio ad Angelo Falzea“, cit., pp. 203-205. ^ Cfr. ”Omaggio ad Angelo
Falzea“, cit., pp. 201-202, 212, che riprende quanto Falzea sostiene alle pp.
9-10 della voce Sistema normativo e analitica della norma, dell'Enciclopedia
del Diritto. ^ Per Falzea, il nesso fra la fattispecie, ossia la premessa
normativa (ovvero, il caso particolare fattuale), e la conseguenza, ossia il
suo possibile effetto giuridico, sarebbe di fondamentale importanza per
chiarire la natura delle norme giuridiche, e quindi per strutturare il mondo
del diritto. Cfr. F. Viola, G. Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti
di teoria ermeneutica del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari, 1999, Cap. II, §
8, p. 144. ^ In merito a ciò, è utile rammentare come gli studi antropologici
abbiano messo in luce il fatto saliente per il quale, in un certo senso, tutto
il diritto può essere considerato come consuetudinario; cfr. U. Fabietti, F.
Remotti (a cura di), Dizionario di Antropologia. Etnologia, Antropologia
Culturale, Antropologia Sociale, Zanichelli Editore, Bologna, 1997, p. 239;
sull'importanza, poi, della consuetudine dal punto di vista dell'antropologia
giuridica, cfr. pure A. Facchi, M.P. Mittica (a cura di), Concetti e norme.
Teorie e ricerche di antropologia giuridica, FrancoAngeli, Milano, 2000; L.
Assier-Andrieu, Le Droit dans les sociétés humaines, Éditions Nathan, Paris,
1996, e "Penser le temps culturel du droit. Le destin du concept de coutume
en anthropologie", L'Homme, 160 (2001) pp. 67-90. Inoltre, per i
fondamentali contributi dell'opera di Falzea all'antropologia giuridica, cfr.
R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del diritto,
Società editrice il Mulino, Bologna, 2007. ^ Cfr. ”Omaggio ad Angelo Falzea“,
cit., pp. 206-207. ^ Cfr. ”Omaggio ad Angelo Falzea“, cit., p. 203. ^ Cfr.
soprattutto la sua Introduzione alle Scienze Giuridiche. ^ Cfr. ”Sguardo
all'opera di un giurista“, cit., pp. 3-4. ^ Cfr. ”Sguardo all'opera di un
giurista“, cit., p. 4. ^ Cfr. A. Falzea, Teoria generale del diritto, Dott. A.
Giuffrè Editore, Milano, 1999, pp. 278-279. Bibliografia Scritti catanzaresi in
onore di Angelo Falzea, ESI-Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1987.
Scritti in onore di Angelo Falzea, 6 voll., Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,
1991. Giornate in onore di Angelo Falzea, Messina, 15-16 febbraio 1991, Dott.
A. Giuffrè Editore, Milano, 1993. Scienza e insegnamento del diritto civile in
Italia, Convegno di studio in onore del prof. Angelo Falzea, Messina, 4-7
giugno 2002, a cura di V. Scalisi, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2004.
Oltre il ”positivismo giuridico“: in onore di Angelo Falzea, a cura di P.
Sirena, ESI-Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2012. V. Scalisi,
Fonti-Teoria-Metodo. Alla ricerca della «regola giuridica» nell'epoca della
postmodernità, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, 2012. Collegamenti esterni
Centenario di Angelo Falzea, su gazzettadelsud.it. Ricordo di Angelo Falzea, su
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Giuristi italiani del XX secoloGiuristi italiani del XXI secoloFilosofi
italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAvvocati italiani del XX
secoloAvvocati italiani del XXI secoloNati nel 1914Morti nel 2016Nati il 26
agostoMorti l'11 febbraioNati a MessinaMorti a MessinaCentenari
italianiProfessori dell'Università degli Studi di MessinaStudiosi di diritto
civile del XX secoloStudiosi di diritto civile del XXI secolo[altre]
Fano
-- Giorgio Fano Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Giorgio Fano (Trieste, 17 aprile 1885 – Siena, 20
settembre 1963) è stato un filosofo italiano. Pensatore neoidealista,
apparteneva a quel gruppo di artisti, letterati, e scrittori che hanno reso
famosa la Trieste del primo Novecento. Egli ha letto in modo originale l'opera
di Croce e Gentile. In particolare ha sottolineato l'importanza delle scienze
naturali e della matematica, che nel suo sistema non sono governate dagli
pseudoconcetti. Inoltre ha dato molta importanza agli aspetti più semplici e
ferini dello spirito seguendo le riflessioni di Giambattista Vico.
Indice 1 Biografia
1.1 Giovinezza
e interazione con gli intellettuali giuliani 1.2 Studi e insegnamenti 1.3 Ultimi
anni e ricerche sull'origine del linguaggio 2 Opere
2.1 Traduzioni
3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Giorgio Fano nacque a Trieste il 17 aprile 1885. Suo padre
Guglielmo era un medico affermato, sua madre Amalia Sanguinetti, da molti anni
gravemente sofferente, morì quando lui era ancora bambino. Il padre Guglielmo
fu uno dei pochi ebrei di allora che passarono al cattolicesimo per sincera
fede. Ma tale conversione fu accompagnata da manie religiose e disordini
mentali precoci. Giovinezza e interazione con gli intellettuali giuliani
Fin dall'adolescenza Fano ebbe un impulso di rivolta contro gli adulti, il loro
conformismo, il loro spirito oppressivo. Nel romanzo Quasi una fantasia[1] di
Ettore Cantoni[2] si parla di due ragazzi, in cui è facile riconoscere l'autore
Ettore e il suo amico Giorgio Fano, che viaggiano e arrivano addirittura in
Africa, appunto per sfuggire all'atmosfera pesante instaurata dagli
adulti. Fano fu un ragazzo ribelle, non volle accettare la disciplina
della scuola; un piccolo episodio contraddistingue il suo carattere, quando gettò
nella stufa il registro di classe. Frequentò le scuole austriache del tempo con
scarso profitto; egli affermava che una parte delle sue difficoltà era dovuta
al fatto di avere poca memoria (non quella concettuale, in cui eccelleva, ma
quella specifica, dettagliata, necessaria ad es. nello studio della storia e
della geografia). Così abbandonò gli studi assai prima di aver conseguito la
maturità. Ritiratosi da scuola, i suoi congiunti gli procurarono un posto
di impiegato. Ma egli abbandonò l’impiego e affittò, assieme ad alcuni
coetanei, una cameretta sul colle di Scorcola, dove si dedicò non solo a
discussioni senza fine con gli amici, ma passò ore e ore a leggere i classici
della filosofia. Più tardi a Vienna poté sentire le lezioni universitarie di
alcuni luminari del tempo. Fu la lettura dei classici tedeschi, da Leibnitz a
Schopenhauer, da Kant a Fichte e Hegel, a dare al suo pensiero un indirizzo al
quale egli sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, a fargli trovare le armi
per la sua personale battaglia contro il dogmatismo, il fideismo, il
clericalismo del proprio ambiente familiare.[3] Certo alla formazione di
Fano ha contribuito anche l'ambiente eccezionale della Trieste di allora; fu
suo amico Umberto Poli, il cui pseudonimo, Saba, fu inventato proprio da
lui. Si ispira certamente alla figura di Fano anche il sesto de I
prigioni (1924) di Saba: «L’Appassionato. / Natura, perché ardo, m’ha di rosso
/ pelo le guance rivestite e il mento. / Non è una brezza lo spirito: è un
vento / impetuoso, onde anche il Fato è scosso. /…../ Ero Mosè che ti trasse
d’Egitto, / ed ho sofferto per te sulla croce. / Mi chiamano in Arabia
Maometto». Nel 1919 Saba e Fano comprarono in società la libreria
antiquaria Mayländer, la futura "Libreria antica e moderna"[4], ma
non andavano d’accordo, perché Fano non era persona da accollarsi
diligentemente troppi compiti "noiosi". Così i due decisero di
separarsi e, poiché entrambi volevano rimanere proprietari, Fano propose di
giocare questo diritto a testa o croce e vinse. Ma Saba, che era amante e
cultore di libri antichi, non accettò il verdetto della sorte e convinse
l’amico a cedergli ugualmente la libreria[5]. Un'altra persona
dell'ambiente triestino con cui Fano ebbe grande amicizia è stato Virgilio
Giotti. Scrive Fano[senza fonte]: «Il nostro fu un incontro come di un artista
toscano con un profeta ebreo. Io ne ebbi un grande giovamento. Egli leggeva a
quel tempo Zola, Maupassant e Flaubert che io non conoscevo. Per il suo
carattere indolente, in molte cose esteriori della vita egli fece ciò che gli
consigliavo io. Se ne venne via da Trieste, poi fece venire la famiglia a
Firenze e cose simili». Ma l'amicizia fra i due subì un tremendo contraccolpo a
causa delle drammatiche vicende in cui fu coinvolta Maria, sorella di Virgilio,
che Fano sposò nel 1914: ebbero un figlio minorato mentale, Piero, che nel 1929
fu ucciso dalla madre, la quale si tolse a sua volta la vita[6]. Fu una
tragedia che scosse profondamente tutta la città. In seconde nozze, nel
1931 Giorgio Fano sposò Anna Curiel, da cui ebbe un figlio di nome Guido.
Studi e insegnamenti Durante il periodo della prima guerra mondiale fu
irredentista, come molti dei suoi amici, Benco, Saba, Giotti, Schiffrer e
altri. In seguito il suo atteggiamento fu molto simile a quello di Benedetto
Croce, e per analoghi motivi ideologici. Gli ideali egalitari non facevano
presa su di lui e gli sembrava utopistico, e comunque non desiderabile,
l’instaurare una società comunista. Anzi, negli anni subito dopo la prima
guerra mondiale si oppose con decisione al socialismo massimalista e turbolento
di allora, tanto da dimostrare, per un breve periodo, una certa comprensione
per la reazione fascista. Ma, già prima di Croce, Giorgio Fano divenne un
antifascista, che non perdeva alcuna occasione per manifestare apertamente le
sue opinioni. Fano si laureò in filosofia col massimo dei voti a Padova
nel 1923, con una tesi dal titolo Dell’universo ovvero di me stesso: saggio di
una filosofia solipsistica, tesi che fu poi pubblicata nel 1926 sulla Rivista
d’Italia. Probabilmente non frequentò le lezioni universitarie a Padova, anche
perché era già sposato e doveva pensare a mantenere la sua famiglia. Semmai la
sua formazione universitaria si compì, oltre che a Vienna, a Firenze, dove aveva
trascorso qualche anno prima della guerra e dove aveva frequentato l’ambiente
de La Voce. «Professore di filosofia presso vari licei di Trieste
dal 1925, il Fano aspirava tuttavia all’insegnamento universitario, a cui
giunse dopo molte traversie causate da intralci posti dalle autorità. Il motivo
di queste difficoltà si deve alla fama di antifascista che egli si procurò
quando, commemorando il cugino Enrico Elia, volontario nella grande guerra e
morto sul Podgora nel 1915, tenne un discorso in cui traspariva, in maniera non
molto velata, la convinzione che il sacrificio di tante vite per la libertà
veniva rinnegato dal regime politico allora dominante. Questa sua presa di
posizione gli costò alcuni giorni di carcere nella fortezza di Capodistria e la
fama di antifascista si ripercosse sulla sua carriera universitaria».[7]
Attorno a quegli anni a Trieste si andavano diffondendo le idee della
psicoanalisi, in particolare ad opera di Edoardo Weiss che era stato discepolo
di Freud. A Fano non piaceva questa teoria, affermando che si basava su
supposte attività del pensiero immaginarie e non verificabili; il concetto di
inconscio non poteva venir accettato da chi come lui basava tutto
sull'autocoscienza.[8] Studioso di Croce, che aveva conosciuto fin dal
1912 Fano pubblicò vari articoli sulla filosofia crociana[9]; un suo articolo,
dal titolo La negazione della filosofia nell’idealismo attuale (1932) gli
procurò l’attenzione di Giuseppe Lombardo Radice, che gli offrì un posto di
assistente volontario di pedagogia presso la facoltà di magistero
dell’università di Roma, dove Fano si trasferì assieme alla sua nuova famiglia.
Da notare che il suo primo libro, in cui veniva esposto organicamente il suo
pensiero, Il sistema dialettico dello spirito apparve solo nel 1937,
quando egli aveva già 52 anni. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, fu
allontanato dall'insegnamento universitario; riuscì però a mantenere un
posto di professore presso la Scuola Militare di Roma. Ultimi anni e
ricerche sull'origine del linguaggio Dopo l'invasione tedesca successiva all'8
settembre 1943, Fano trovò rifugio a Rocca di Mezzo, in Abruzzo dove rimase per
quasi un anno. La tranquilla sicurezza, la noncuranza dei pericoli non gli
vennero mai meno, né per il rischio di venir scoperti dai tedeschi (lui e la
moglie avevano falsificato le carte d’identità), né per i bombardamenti
alleati. Anzi, nel lungo inverno 1943-44 i tedeschi lo usarono spesso come
interprete e poiché la sua casa stava proprio sulla strada maestra, spesso la
cucina era piena di soldati che avevano bisogno di qualcosa. Lì, in quella
cucina mal riscaldata, incurante dei rischi immediati, egli lavorò forse più di
quanto non avesse mai fatto in precedenza e portò a termine l'opera: La
filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema
dialettico dello spirito, che venne poi pubblicata nel 1946.[10] Finita
la guerra ritrovò il suo posto presso l’Università di Roma, e anzi per un breve
periodo ricoprì anche la carica provvisoria di direttore dell’Istituto di
pedagogia del Magistero, ma non si preoccupò di ottenere una sistemazione
stabile, tanto che alla fine della sua carriera accademica non ebbe neanche
diritto alla pensione. In compenso lavorò con continuità per quasi vent'anni,
fino alla sua morte, portando a termine altri saggi rilevanti. Nel già citato
saggio sul Croce aveva rivendicato l'importanza delle scienze empiriche, che
nella filosofia crociana non avevano dignità conoscitiva. Nel testo Teosofia
orientale e filosofia greca (1949) troviamo una descrizione dello sviluppo
storico del pensiero umano, in cui tra l'altro viene rivendicata l'importanza
della matematica, mentre il Croce sosteneva che la matematica è uno
pseudoconcetto. Inoltre curò la traduzione integrale dei Prolegomena ad ogni
futura metafisica di Kant (1948), di cui aveva già pubblicato degli
estratti. Infine le sue ricerche lo portarono ad esaminare il problema
dell'origine della lingua, su cui espresse il suo pensiero nel Saggio sulle
origini del linguaggio (1962), poi riedito accresciuto a cura della moglie Anna
e del figlio Guido. Morì a Siena il 20 Settembre 1963, mentre presiedeva
una commissione di esami. Opere Il sistema dialettico dello spirito,
Roma, Servizi editoriali del GUF, 1937. La filosofia del Croce. Saggi di critica
e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito, Milano, Istituto
editoriale italiano, 1946. Teosofia orientale e filosofia greca. Preliminari ad
ogni storiografia filosofica, Firenze, La nuova Italia, 1949. Saggio sulle
origini del linguaggio. Con una storia critica delle dottrine glottogoniche,
Torino, Einaudi, 1962; riedizione postuma, con parti inedite, a cura di Anna e
Guido Fano, col titolo Origini e natura del linguaggio, Torino, Einaudi,
1973.[11] Neopositivismo, analisi del linguaggio e cibernetica, Torino,
Einaudi, 1968. Traduzioni Emanuele Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica:
estratti, traduzione, introduzione e note a cura di Giorgio Fano, Firenze, G.
C. Sansoni, 1935. Emanuele Kant, Prolegomena ad ogni futura metafisica, a cura
di Giorgio Fano, Milano, Istituto Editoriale Italiano, 1948. Note ^ Ettore
Cantoni, Quasi una fantasia: romanzo, Milano, Treves, 1926. ^ Cantóni, Ettore,
su treccani.it. ^ Giorgio Voghera su Il Piccolo del 4 gennaio 1995. ^ Nel 1919
viene venduta a Giorgio Fano e Umberto Poli, il poeta Umberto Saba, che in data
12 settembre 1919 ne diventa proprietario unico (Rino Alessi). ^ Lantier 1976,
p. 12. ^ Anna Fano 2005, p. 314. ^ Franco Laicini, in Dizionario Biografico
degli Italiani, cit. infra. ^ Giorgio Voghera, Gli anni della psicanalisi,
Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1980, pp. 32-33: «Egli diceva, ad esempio, che
una teoria può essere accettata solo se si prospettano anche delle ipotesi —
che poi appariranno assurde e non si verificheranno concretamente — nelle quali
essa dovrebbe venir respinta. La psicanalisi, invece, si mette accuratamente al
coperto da ogni prova contraria». ^ L'estetica nel sistema di B. Croce,
L'Anima, dicembre 1911; la filosofia di B. Croce, Giornale critico della
filosofia italiana, 1928. ^ Un episodio illustra bene sia l’importanza che egli
annetteva al suo lavoro, sia il suo coraggio: «Una mattina, scendendo in
cucina, che era diventata il suo studio, la trovò invasa da soldati tedeschi
che cercavano acqua ed altro. E allora, con l’abituale tono tranquillo,
dimenticando con chi aveva a che fare, lui l’ebreo, col suo viso di profeta
biblico, additò ai soldati della Wehrmacht la porta: Prego – disse in tedesco –
se lorsignori avessero la compiacenza di andare da un’altra parte. Io avrei da
lavorare. Senza fiatare i soldati infilarono la porta ed egli si rimise
tranquillamente al suo tavolo di lavoro per battagliare con Croce, dimentico
che la più superficiale inchiesta sarebbe stata sufficiente a convogliarlo
assieme alla sua famiglia verso i campi di sterminio» (Anna Fano 1993, p. 47).
^ Il saggio è stato tradotto in inglese: The Origins and Nature of Language,
translated by Susan Petrilli, Bloomington, Indianapolis, Indiana University
Press, 1992. Bibliografia Anna Fano, Noi ebrei, Gorizia, Istituto giuliano di
storia, cultura e documentazione, 1993. Anna Fano, Giorgio e io: un grande
amore nella Trieste del primo '900, a cura di Guido Fano, Venezia, Marsilio,
2005, ISBN 88-317-8689-X. Guido Fano, L'ottimismo di Giorgio Fano e il pessimismo
di Giorgio Voghera. Brani da lettere e testi, Milano, Mimesis, 2019, ISBN
978-88-575-5487-7. Silvano Lantier, Il pensiero di Giorgio Fano: il linguaggio
tra filosofia e scienza, Trieste, Riva, 1976. Silvano Lantier, Giambattista
Vico e Giorgio Fano: motivi di un'affinità ideale, Udine, Del Bianco, 1981.
Collegamenti esterni Franco Laicini, Giorgio Fano, in Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 15
gennaio 2018. Dal sito "Giorgio Fano Filosofo" si possono scaricare
in formato PDF molti suoi scritti editi e inediti Controllo di autorità VIAF
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italiani del XX secoloNati nel 1885Morti nel 1963Nati il 17 aprileMorti il 20
settembreNati a TriesteMorti a SienaEbrei italiani[altre]
Fardella
-- Michelangelo
Fardella Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Ritratto di Michelangelo
Fardella, 1818 circa Michelangelo Fardella (Trapani, 1650 – Napoli, 5 gennaio
1718) è stato un matematico e filosofo italiano. Indice 1 Biografia
2 Pensiero
3 Opere
4 Note
5 Bibliografia
6 Collegamenti
esterni Biografia Fardella studiò a Messina, allievo di Giovanni Alfonso
Borelli, dal quale accettò la teoria atomistica di Democrito, ma abbracciò il
pensiero di Cartesio, dopo averne appreso gli insegnamenti durante il suo
soggiorno a Parigi dal 1678 al 1680, grazie alle conversazioni con Antoine
Arnauld, Nicolas Malebranche e Bernard Lamy.
Membro dell'ordine francescano, insegnò matematica a Roma e poi a
Modena, mentre a Padova, dal 1693, anno in cui divenne prete secolare, insegnò
astronomia e poi filosofia. Nel 1709 lasciò lo Studio padovano, recandosi a
Barcellona, e ritornando in Italia nel 1712.
Tenne una lunga corrispondenza con Leibniz e polemizzò con Matteo
Giorgi, che con il suo Saggio della nuova dottrina di Renato Descartes aveva
attaccato il cartesianesimo. Pensiero Il
cartesianesimo del Fardella, per quanto riconosca che «solo Cartesio trovò, fra
gli antichi e i moderni, il retto e naturale metodo di filosofare», è tuttavia
relativo, adeguato com'è al platonismo di Agostino. La struttura del mondo è
organizzata secondo principi matematici:«Dio ha creato ogni cosa secondo peso,
numero e misura, ossia secondo le leggi statiche, aritmetiche e geometriche»;
mediante la matematica si comprende il mondo e si comprende così la logica di
Dio. Nel punto, che non ha peso, non ha
grandezza, non è divisibile, è tuttavia l'origine di ogni estensione: «nel
punto, come il numero nell'unità, si risolve l'estensione». L'anima, che non ha
estensione, è un punto. Per Fardella,
non è possibile dimostrare l'esistenza indipendente delle realtà materiali: «La
stessa esperienza ci insegna che spesso nel sogno percepiamo oggetti che
veramente non possiamo ammettere realmente esistenti. Quante volte, la notte,
mentre dormo, vedo splendere il sole sopra l'orizzonte e vedo muoversi in vari
modi moltissime cose prodigiose, che non sono niente extra ideam?. Dunque, quel
che sento e vedo non può in nessun modo essere dedotto come realmente
esistente». E se si obbietta che una cosa è sognare, altra cosa è la veglia,
per lui le cose che percepiamo nella veglia potrebbe anche essere soltanto cose
percepite «con maggiore chiarezza, distinzione e ordine, benché non siano
niente» in sé. I sensi non danno certezza del mondo, la quale può ritrovarsi,
per il Fardella come per Cartesio, soltanto in Dio. Opere Universae philosophiae systema, in qua
nova quadam et extricata Methodo, Naturalis scientiae et Moralis fundamenta
explanantur, Venezia, 1691[1] Universae usualis mathematicae theoria, Venezia,
1691. Utraque dialectica rationalis et mathemathica, Amsterdam, 1695. Animae
humanae natura ab Augustino detecta in libris de Animae Quantitate, decimo de
Trinitate, et de Animae Immortalitate, Venezia, 1698 Pensieri scientifici,
Napoli, 1986. Lettera antiscolastica, Napoli, 1986. Note ^ Recensito
immediatamente dopo la pubblicazione del primo e unico volume sulla rivista
scientifica Acta Eruditorum Universae Philosophae Systema. Tomus I, Leipzig,
1692, p. 39. URL consultato il 10 settembre 2018. Bibliografia Descartes e
l'eredità cartesiana nell'Europa sei-settecentesca, Lecce, 2002. Professori e
scienziati a Padova nel Settecento, Treviso, 2002. Franco Aureluio Meschini,
FARDELLA, Michelangelo, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 44, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1994. Modifica su Wikidata FARDELLA,
Michelangelo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2009. Collegamenti esterni Opere di Michelangelo Fardella, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Michelangelo
Fardella, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di
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Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Matematici italiani del XVII
secoloMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani del XVII
secoloFilosofi italiani del XVIII secoloNati nel 1650Morti nel 1718Morti il 5
gennaioNati a TrapaniMorti a NapoliPersone legate all'Università degli Studi di
PadovaFardella (famiglia)[altre]
farquharsonism – Grice enjoyed reading Cook Wilson, and was grateful to A
S L Farquharson for making that possible.
Fasso
-- Guido
Fassò Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
«Guido Fassò, mi viene a conforto col suo ottimo lavoro, che dà una
diligentissima ed acuta interpretazione ed esposizione del corso non già logico
ma storico, o per meglio dire, psicologico della formazione della Scienza
nuova; esposizione che è utile possedere e che si segue con curiosità. Con pari
bravura è condotta la ricerca di quel che il Vico attinse o credette di
attingere ai quattro suoi autori.» (Benedetto Croce, Illusione degli
autori sui “loro” autori, in Quaderni della Critica, luglio 1949, n.
14[1]) Guido Fassò. Guido Fassò (Bologna, 18 ottobre 1915 – Bologna, 30
ottobre 1974) è stato un giurista e filosofo italiano. Indice 1 Biografia
2 Sinossi
del pensiero 3 Onorificenze
4 Note
5 Bibliografia
5.1 Opere
5.2 Curatele
5.3 Biografie
5.4 Letteratura
critica 6 Collegamenti
esterni Biografia Frontespizio de La storia come esperienza giuridica,
Giuffrè, Milano 1953. Giuseppe Saitta, esponente della cosiddetta
«sinistra gentiliana»[2], seguì Fassò nella redazione della tesi di laurea in
Filosofia, avviandolo, per mezzo dell'indagine su Michelet, agli studi
vichiani[3]. Nato a Bologna, il 18 ottobre 1915, da Ernesto, generale
dell'esercito, e Caterina Barbieri, discendente dalle famiglie Barbieri (il di
lei nonno era Lodovico Barbieri) e Dallolio (Maria Sofia, moglie di Lodovico,
era sorella di Alberto e Alfredo Dallolio[4][5]), Guido Fassò trascorre i suoi
primi anni, fino all'adolescenza, fra il Piemonte (Mondovì), l'Emilia-Romagna
(Parma) e la Lombardia (Mantova). Temperamento religioso, ereditato
dall'educazione famigliare e dalla frequentazione con un anziano sacerdote[6],
egli si caratterizzò sempre per il rigore negli studi (perciò Mazzetti, suo
compagno di gioventù, poté definirlo «schivo degli incontri e quasi della
società, teso in un impegno di chiarezza mentale, di serietà e finezza di
sentire»[7]). Conseguita, nel 1932, la maturità classica al
"Virgilio" di Mantova, si laurea, presso l'Alma Mater Studiorum di
Bologna, in Giurisprudenza (1936), discutendo, con Umberto Borsi, una tesi di
Legislazione del lavoro, intitolata L'elemento demografico nelle provvidenze
assistenziali a favore dei lavoratori[8]. Dopo aver rinunciato ad impiegarsi
come funzionario nell'Unione industriale[6], Fassò ottiene anche la laurea in
Filosofia (1940), sotto la supervisione di Giuseppe Saitta, con una tesi di
Storia della filosofia su Il pensiero filosofico e politico di Giulio
Michelet[9]. Confiderà poi al suo allievo, Enrico Pattaro, che la scelta della
filosofia, lungi dall'essere redditizia, è un matrimonio con «madonna
povertà»[10], cui egli, tuttavia, non volle sottrarsi, non essendo versato,
come rivelò a Fausto Nicolini, nella «professione forense»[11]. Svolse, quindi,
l'attività di docente di storia e filosofia, inizialmente come supplente al
"Galvani" di Bologna (1939), poi a Forlì (1939-1940) e, infine, al
Liceo scientifico "Augusto Righi" di Bologna (1949-1953)[6].
Nel 1942, convola a nozze con una sua vecchia alunna del Liceo
"Galvani", Margherita Osti, figlia di Giuseppe Osti, professore
ordinario di Diritto privato all'Università di Bologna, del quale lo stesso
Fassò era stato allievo[6]. Dall'unione nasceranno Alberto, Andrea (1945[12]),
Federico (1952[13]) e Silvia[14]. Nell'anno delle nozze, Fassò completava il
suo primo saggio, dedicato a Il Vico nel pensiero del suo primo traduttore
francese, che, però, a causa dell'indisponibilità degli editori, sarebbe stato
pubblicato, grazie all'intervento di Giuseppe Saitta, solo nel 1947, come
memoria dell'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna[15]. Vicino al
Partito Liberale Italiano, a guerra conclusa, nel 1951, accettò di candidarsi,
per il medesimo partito, alle elezioni comunali bolognesi[6]. Divenuto
assistente volontario di Filosofia del diritto nell'Ateneo felsineo (1947), fu
convinto da Felice Battaglia a concorrere per la libera docenza, che ottenne
nel 1949. Nel medesimo anno, all'Università di Parma, gli viene quindi
assegnato l'incarico in Filosofia del diritto[16]. Aggiudicatosi l'ordinariato
(1957), si trasferì successivamente a Bologna (1963), dove insegnò filosofia giuridica,
presso la Facoltà di Giurisprudenza, e Storia delle dottrine politiche, nella
Facoltà di Lettere e Filosofia[17][18]. Si occupò di studi vichiani
(della cui validità scientifica è testimonianza una epistola di Gioele Solari
del 17 maggio 1949, in cui si apprende che «l'interpretazione giuridica della
Scienza nuova [proposta da Fassò] [...] supera la visione Croce-Nicolini»,
ponendosi al livello qualitativo di quelle del Fubini e del Donati[19]) e
groziani, della cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e
della pace di Grozio (1949), e scrisse Vico e Grozio (1971), nonché, fra il
1966 e il 1970, la Storia della filosofia del diritto in tre volumi, giudicata
da Bobbio come la «storia della filosofia del diritto [...] più completa» esistente
«sulla faccia della terra»[20]. Oltre Croce, Fassò criticò anche
Gentile, autore di una «concezione speculativa indubbiamente grandiosa», che si
risolveva, però, in «vana retorica», negante, entro la dialettica dello
spirito, la realtà del fenomeno giuridico[21]. Fra le altre opere, La
democrazia in Grecia, del 1959 (tradotta in neogreco nel 1971, col titolo Η
Δημοκρατία στην Ελλάδα [I Dimokratìa stin Ellàda], e fatta circolare durante la
dittatura dei colonnelli[22]); Il diritto naturale, del 1964; dello stesso anno
è La legge della ragione, considerata una «tra le opere migliori di filosofia
del diritto uscite in Italia» al tempo, e consistente in una «appassionata
rivalutazione» del diritto naturale[23]; Società, legge e ragione, apparso
nell'anno della morte (i due ultimi volumi citati, tuttavia, ripropongono
scritti precedenti). Le pubblicazioni in cui si esprime con più chiarezza
l'ispirazione teoretica di Fassò sono, invece, La storia come esperienza
giuridica del 1953 (in cui, ha commentato Bobbio, si dimostra che «tutti i
rapporti che l'uomo ha con gli altri uomini, contengono un germe di
organizzazione, e quindi sono istituzioni giuridiche»[24]) e Cristianesimo e
società del 1956, che susciterà un vivace dibattito nell'ambiente cattolico, incontrando
financo il favore di Prezzolini[25]. Colpito dalla malattia, Fassò spira
nella notte del 30 ottobre 1974[26]. Il suo testamento, composto già nel 1955,
disponeva funerali semplici, «senza fiori e senza seguito di estranei». In un
codicillo del 1967, inoltre, soggiungeva che, «se si trovassero miei scritti
incompiuti, manoscritti o dattilografati, non si stampino, perché non possono
essere stati riveduti come avrei ritenuto necessario», congiuntamente
all'invito a non raccogliere «in volume opuscoli sparsi o "scritti
minori", operazione che non dovrebbe mai esser fatta se non
dall'autore»[27]. Alla memoria di Fassò, oltre che a quella di Augusto
Gaudenzi, è intitolato il Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del
Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica (CIRSFID)
dell’Università di Bologna, istituito nel 1986[28]. Benché Fassò
abbia apprezzato il Romano sostenitore della concezione non normativistica del
diritto, egli non poté tacerne il limite, consistente nell'assenza di una
«definizione esauriente» dell'istituzione, dovuto alla volontà di Romano di
tenersi «fuori dal campo della filosofia»[29]. Sinossi del pensiero Secondo
Giuliano Marini fu «il più limpido storico del giusnaturalismo»[30].
Formatosi filosoficamente nella temperie culturale neoidealistica, Fassò se ne
distaccò, rifiutandone soprattutto l'immanentismo[31], con La storia come
esperienza giuridica[32], opera ispirata dalle suggestioni istituzionalistiche
di Santi Romano (ma di questi deplorerà, nella successiva Storia della
filosofia del diritto, il «circolo vizioso», per cui una «istituzione è
giuridica [solo] quando è giuridica»[33][34]). A Croce, che faceva coincidere
storia e filosofia[35][36], Fassò replicava con l'identificazione di storia e
giuridicità[37], estendendo il concetto di istituzione — contrariamente a
quanto aveva fatto Romano, e risolvendone così il «circolo vizioso» — a «tutti
gli aspetti della vita sociale, cioè della vita dell'uomo nella storia, che è
sempre vita dell'uomo in società»[33]. L'elisione dell'identità fra realtà
(storica) e razionalità (filosofica) non implicava, per Fassò, la rimozione
dell'Assoluto, ma egli ne negava ogni possibilità conoscitiva, ricadendo la
«concreta unità del reale» (sotto l'aspetto gnoseologico) nell'ambito del privo
di senso[38], sebbene restasse attingibile in uno slancio mistico, descritto,
in una pagina de La legge della ragione, come partecipazione dell'«uomo [al]
Valore divino, ma solo quando si faccia anch'egli Dio per unirsi a lui, trascendendo
la propria umanità, la propria soggettività empirica, storica»[39]. È
importante tener fermo come Fassò, quantunque abbia legato l'Assoluto a uno
slancio mistico, non si sia fatto teorico di un irrazionalismo
misticheggiante[40], ma — giusta l'osservazione di Lombardi Vallauri — abbia
formulato un «dittico» in cui si afferma, da un lato, la «sopragiuridicità
dell'etica intesa come esperienza religiosa» e, dall'altro, «la funzione
essenziale della ragione giuridica nel mondo»[41]. Proprio il riconoscimento
della centralità della ragione giuridica nel governo della «concreta
molteplicità del reale»[42] costituì, per Fassò, un ulteriore motivo critico
nei confronti dell'antigiusnaturalismo crociano, da cui, dopo l'approfondimento
della storia del giusnaturalismo, prese più convintamente le distanze[43]. La
concezione giusnaturalistica fassoiana, infatti, cerca di non cadere
nell'errore proprio della tradizione precedente (errore che Fassò, nella Storia
della filosofia del diritto, non esitò a indicare quale «difetto capitale»
della scuola del diritto naturale, consistente nell'«astrattismo [e nel]
conseguente antistoricismo»[44]), intendendo il diritto naturale quale «ordine
che nasce dalla storia, e nel quale l'uomo non può non essere inserito proprio
per la sua dimensione storica, che è la sua dimensione essenziale»[45].
Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e
dell'arte - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia
d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — 2 giugno
1974[46][47]. Note ^ B. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori (PDF),
su Quaderni della Critica, Laterza, luglio 1949, n. 14, 89-90. URL consultato
il 26 agosto 2016. Ora anche in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici, a cura di A. Savorelli, Napoli, Bibliopolis, 1997 [1952], p. 204,
ISBN 978-88-7088-334-3. ^ Cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana
(1900/1943), 2 voll., vol. 2, Bari, Laterza, 1966 [1955], p. 427, ISBN non
esistente. «La sua ricerca [: di Saitta], anche storica, sembra
inscindibile da una polemica e da una protesta. Polemica e protesta che
attraversano ugualmente l'attività così del Calogero come dello Spirito,
annoverati talora col Saitta fra gli esponenti della "sinistra"
gentiliana, e come lui accusati a volte, e non certo benevolmente, di
crocianesimo». ^ E. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero
di Guido Fassò, in G. Fassò, Scritti di filosofia del diritto, 3 voll., a cura
di E. Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1982, p. XXIV,
nota 7, ISBN non esistente. «[Fassò seguì] con particolare attenzione i
corsi di Giuseppe Saitta, che gli suggerì di approfondire Michelet (che lo
avrebbe condotto a Vico)». ^ Scheda senatore DALLOLIO Alberto, su senato.it.
URL consultato il 18 agosto 2019. ^ Scheda senatore DALLOLIO Alfredo, su
senato.it. URL consultato il 18 agosto 2019. F. Tamassia, FASSÒ, Guido,
in Dizionario biografico degli italiani, vol. 45, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1995, p. 295a, ISBN non esistente. ^ Le parole di
Mazzetti sono riportate in Carla Faralli, Il maestro e lo studioso, in Rivista
di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, dicembre 2015, p. 9, ISBN
978-88-15-26112-0, ISSN 2280-482X (WC · ACNP). ^ Elenco dei laureati e diplomati
nell'Anno Scolastico 1935-36 (e loro tesi) (JPG), in Annuario dell'Anno
Accademico 1936-1937, Bologna, Società Tipografica già Compositori, 1938, p.
398a-b. URL consultato il 22 agosto 2019. ^ Elenco dei laureati e diplomati
nell'Anno Scolastico 1939-40 (e loro tesi) (JPG), in Annuario dell'Anno
Accademico 1940-1941, Bologna, Tipografia Compositori, 1941, p. 444a. URL
consultato il 22 agosto 2019. ^ E. Pattaro, Alcuni ricordi personali e cenni
sulla gnoseologia, ontologia e concezione della filosofia di Fassò, in Rivista
di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, dicembre 2015, p. 60, ISBN
978-88-15-26112-0, ISSN 2280-482X (WC · ACNP). «Sul finire del 1965 Fassò
mi disse che ci sarebbe stato un concorso per assistente ordinario alla
cattedra e mi chiese se fossi interessato a partecipare. Ma mi prevenne con due
avvertimenti sui quali avrei dovuto meditare prima di dargli una risposta. Essi
sono: "chi fa filosofia del diritto in una facoltà di Giurisprudenza sposa
madonna povertà", e "nell'università occorre sapere ingoiare amaro e
sputare dolce perché l'intelligenza degli accademici è di regola superiore a
quella dei comuni mortali, e ciò implica che essi siano capaci di cattiverie
più raffinate e perfide di quelle di cui sono capaci i comuni mortali"». ^
La citazione è tratta dal carteggio Fassò-Nicolini, richiamato da E. Pattaro,
nel suo Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò,
premesso a G. Fassò, Scritti di filosofia del diritto, 3 voll., a cura di E.
Pattaro, C. Faralli, G. Zucchini, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1982, p. XXIII, nota
7, ISBN non esistente. «In altre lettere allo stesso Nicolini, del 23
febbraio e del 4 marzo 1948, Fassò scrive di […] non sent[ire] "nessuna
vocazione per la professione forense"». ^ Curriculum vitae di Andrea
Fassò, su www.unibo.it. URL consultato il 22 agosto 2019. ^ Consiglio Nazionale
del Notariato, su www.notariato.it. URL consultato il 22 agosto 2019. ^ C.
Faralli, Prefazione a G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, 3 voll.,
edizione aggiornata a cura di C. Faralli, vol. 1, Roma-Bari, Laterza, 2001
[1966], p. VIII, ISBN 978-88-420-6239-4. ^ E. Pattaro, Gli studi vichiani di
Guido Fassò (PDF), in Bollettino del Centro Studi Vichiani, vol. 5, Napoli,
Guida, 1975, p. 87, nota 1. URL consultato il 18 agosto 2019. «Fassò
aveva ultimato [Il Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese] nel
maggio-giugno 1942, ma — causa la difficoltà di trovare un editore — non gli fu
possibile pubblicarlo allora: soltanto il 29 marzo 1947 egli poté presentarlo
all'Accademia delle scienze di Bologna per il tramite di Giuseppe Saitta». ^ E.
Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido Fassò, in
G. Fassò, Scritti di filosofia del diritto, 3 voll., a cura di E. Pattaro, C.
Faralli, G. Zucchini, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1982, p. XXIV, nota 7, ISBN non
esistente. «Nel '45-'46, dopo i disagi della guerra, [Fassò] aveva
ripreso le proprie ricerche incoraggiato da Felice Battaglia, che lo convinse
ad affrontare l'esame di libera docenza in filosofia del diritto […].
Conseguita la libera docenza in filosofia del diritto nel 1949, nello stesso
anno Fassò ebbe il suo primo incarico in questa materia, all'università di
Parma». ^ F. Tamassia, FASSÒ, Guido, in Dizionario biografico degli italiani,
vol. 45, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1995, pp. 295a-295b, ISBN
non esistente. ^ F. Battaglia, Guido Fassò: in memoria, in Rivista
internazionale di filosofia del diritto, n. 2, 1975, p. 301. «Nel 1949
[giunse] alla libera docenza, e nello stesso anno lo abilitarono a tenere
l'incarico della filosofia del diritto nella Università di Parma, ove divenne
professore della materia nel 1954 e infine ordinario nel 1957. Nel 1963 il
Fassò passò all'Università di Bologna, dove rimase titolare della disciplina,
tenuta con alto prestigio e qualificata dignità fino alla morte che ne chiuse
la laboriosa giornata». ^ Enrico Pattaro, Gli studi vichiani di Guido Fassò, in
Bollettino del Centro Studi Vichiani, vol. 5, Napoli, Guida, 1975, pp. 94-95 e
nota 12. «Tra le carte personali di Guido Fassò ho trovato una cartolina
postale, vergata fitta fitta da Gioele Solari. In essa, tra le altre cose, è
scritto: ‘Da tempo ero convinto della verità della interpretazione giuridica
della S.[cienza] Nuova: ma Lei [Fassò] ne ha dato ampia, profonda, persuasiva
dimostrazione. La cautela con cui è sostenuta è frutto della Sua modestia, e
della Sua serietà di studioso. Il Suo saggio sui «quattro autori» può stare a
paro cogli scritti vichiani del Donati e del Fubini e supera la visione
Croce-Nicolini che sul punto della genesi giuridica della S.[cienza] N.[uova]
stanno ancora sulle generali’ [cfr. nota 12: La cartolina [...] fu scritta il
17 maggio 1949]». ^ Guido Fassò, Prefazione, in Carla Faralli (a cura di),
Storia della filosofia del diritto, vol. 1, Roma-Bari, Laterza, 2007 [1966], p.
V, ISBN 978-88-420-6239-4. «‘Finalmente esiste in Italia (dico in Italia,
ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del
diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più
completa’: così Norberto Bobbio in due lettere a Guido Fassò del 27 aprile 1966
e del 18 gennaio 1971 salutava l'uscita della Storia della filosofia del
diritto». ^ G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, 3 voll., edizione
aggiornata a cura di C. Faralli, vol. 3, Roma-Bari, Laterza, 2001 [1970], p.
247, ISBN 978-88-420-7936-1. «In tutta la filosofia del Gentile si ha una
concezione speculativa indubbiamente grandiosa, ma che si risolve in vana
retorica, negante l'esperienza della realtà effettuale. Non è tuttavia dalla
negazione della molteplicità dei soggetti che discende la negazione della
realtà del diritto nella filosofia gentiliana. Come in quella del Croce, essa è
compiuta in relazione alla dialettica dello spirito, cioè del soggetto
assoluto». ^ C. Faralli, Presentazione, in G. Fassò, La democrazia in Grecia, a
cura di C. Faralli, E. Pattaro, G. Zucchini, 2ª ed., Milano, Giuffrè, 1999, p.
X, ISBN 88-14-07833-5. «È importante, infine, sottolineare il valore di
impegno civile che il filosofo bolognese riconosceva al testo e che ad esso
venne riconosciuto dalla traduzione greca del 1971 [cfr. nota 8: Thessalonike,
Poseidonas], all'epoca della dittatura militare in Grecia». ^ Norberto Bobbio,
Giusnaturalismo e positivismo giuridico, prefazione di Luigi Ferrajoli,
Roma-Bari, Laterza, 2011 [1965], p. 4, ISBN 978-88-420-8668-0. ^ Norberto
Bobbio, La filosofia del diritto in Italia (PDF), in Jus, Milano, 1957, p. 189.
URL consultato il 22 agosto 2016. ^ Carla Faralli, I momenti della riflessione
critica su Guido Fassò, in Guido Fassò, Scritti di filosofia del diritto, vol.
3, Milano, Giuffrè, 1982, pp. 1487-1488, ISBN non esistente. «Prezzolini
chiosa Cristianesimo e società sia in un articolo su ‘Il resto del carlino’ sia
nel libro Cristo e/o Machiavelli. ‘Conservo la prima edizione di Cristianesimo
e società — egli scrive —... La volli come compagna perché dovevo moltissimo a
quel libro, cioè non dirò l'apertura, ma la conferma dotta, serena, eppure
appassionata di un punto di vista importante’. Prezzolini ritiene di aver
trovato in Fassò, argomentate con un'alta filologia, sempre al corrente della
produzione critica e accompagnata dalla conoscenza dei testi filosofici, quelle
stesse idee che anch'egli aveva manifestato fin dal 1908 ‘lanciate piuttosto da
un intuito che da un sapere storico’». ^ Guido Fassò (PDF), in Annuario
dell'Anno Accademico 1973-1974, Bologna, Tipografia Compositori, 1975, p. 423.
URL consultato il 22 agosto 2019. ^ E. Pattaro, Ricordo di Guido Fassò, in
Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 3, Milano, Giuffrè, 1975,
p. 1090. ^ CIRSFID - Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del
Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica, su
www.cirsfid.unibo.it. URL consultato il 23 agosto 2019. ^ G. Fassò, Storia
della filosofia del diritto, 3 voll., edizione aggiornata a cura di C. Faralli,
vol. 3, Roma-Bari, Laterza, 2001 [1970], pp. 285-286, ISBN
978-88-420-7936-1. «Romano si tiene deliberatamente fuori dal campo della
filosofia, non sfruttando neppure quegli indirizzi di essa, primo fra tutti
quello del Croce, che potevano valere a suffragar la sua tesi. Questa è
sostenuta unicamente sul terreno della considerazione empirica del diritto, e
non vuole avere né premesse né conclusioni che stiano al di fuori o al di sopra
di essa. […] Neppure il Romano dà del concetto di istituzione una definizione
esauriente». ^ G. Marini, Il giusnaturalismo nella cultura filosofica italiana
del Novecento [1976], in Id., Storicità del diritto e dignità dell'uomo,
Napoli, Morano, 1987, p. 315, ISBN non esistente. ^ Cfr. N. Matteucci,
recensione a G. Fassò, Cristianesimo e società, Giuffrè, Milano 1956, in Il
Mulino, n. 10, ottobre 1957, p. 732b. «L'esigenza filosofica fondamentale
che si palesa nei lavori del Fassò […] è quella di uscire dallo storicismo
immanentistico dei Croce e dei Gentile che vedeva nella storia la
manifestazione di un principio assoluto (lo Spirito, l'Atto)». ^ Cfr. E.
Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo
trascendentale di Guido Fassò [1983], in appendice a G. Fassò, La storia come
esperienza giuridica, a cura di C. Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016
[1953], p. 146, ISBN 978-88-498-4623-2. «L'esperienza che Fassò aveva
avuto della filosofia idealistica egemone in Italia nella prima metà del
secolo, la quale all'interno dei suoi precedenti studi vichiani, condotti in
chiave di storia della filosofia, non necessariamente costituiva un'ipoteca con
cui dover fare conti precisi, in sede teoretica — sia pure di filosofia del
diritto — venne chiamata ad un inevitabile redde rationem». G. Fassò,
Storia della filosofia del diritto, 3 voll., edizione aggiornata a cura di C.
Faralli, vol. 3, Roma-Bari, Laterza, 2001 [1970], p. 287, ISBN
978-88-420-7936-1. ^ Il giudizio, tuttavia, è già presente in G. Fassò, La
storia come esperienza giuridica, a cura di C. Faralli, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2016 [1953], p. 32, ISBN 978-88-498-4623-2. «È proprio
questo, del resto, il punto debole della dottrina del Romano, che fu subito
rilevato dai suoi critici: il circolo vizioso in cui egli si aggira,
presupponendo la giuridicità di quella istituzione che poi identifica con il
diritto. In altre parole, il Romano afferma che sono istituzione, ossia
ordinamento giuridico, ossia diritto, quegli enti o corpi sociali che hanno
carattere giuridico». ^ B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, a cura
di C. Farnetti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis, 1996
[1909], p. 223, ISBN 978-88-7088-345-9. ^ B. Croce, La storia come pensiero e
come azione, a cura di M. Conforti, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli,
Bibliopolis, 2002 [1938], p. 29, ISBN 978-88-7088-377-0. «Si può dire
che, con la critica storica della filosofia trascendente, la filosofia stessa,
nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata
appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è
più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto
storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che ha per suo
principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e
dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i quali realmente
sono un solo». ^ G. Fassò, La storia come esperienza giuridica, a cura di C.
Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016 [1953], p. 92, ISBN
978-88-498-4623-2. «L'esperienza giuridica non [è] altro che l'esperienza
umana nella sua totalità, la storia stessa insomma dell'uomo». ^ Enrico
Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo
trascendentale di Guido Fassò, cit., p. 153. «La concreta unità del reale,
l'universale concreto, è un residuato della grandiosa retorica metafisica
idealistica. Fassò, con l'onore delle armi, lo colloca nella dimensione che gli
compete, ossia dell'inconoscibile, indicibile, incomunicabile per definizione:
dell'indiscutibile che è tale non perché sia vero o certo di là da ogni
ragionevole dubbio, bensì perché non è possibile oggetto di discorso, non è
suscettibile di ragionamento, sfugge ad ogni comprensione e spiegazione
razionale. Lo colloca nella dimensione del privo di senso» ^ Guido Fassò,
La legge della ragione, a cura di Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo
Zucchini, 2ª ed., Milano, Giuffrè, 1999 [1964], p. 11, ISBN 88-14-07827-0. ^
Enrico Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica:
l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, cit., p. 155, nota 10. «Resti
chiaro, peraltro, che Fassò rinvia sì al piano mistico l'unità del reale,
l'assoluto, l'universale concreto, ecc., ma che, non per questo, egli professa
una filosofia mistica (intuizionistica)» ^ Il giudizio di Lombardi
Vallauri è espresso nel suo Amicizia, carità, diritto, Giuffrè, Milano 1969, p.
238 («Considerata nel suo arco complessivo, l'opera di Fassò risulta formare
come un dittico, che da un lato ribadisce rigorosamente la sopragiuridicità
della esperienza cristiana giunta al suo culmine (identificato nella carità), e
dall'altro lato riconosce la funzione preziosa della ragione giuridica ‘nel
mondo, dove ogni individuo limita e contraddice l'altro e dove una norma di
coesistenza è indispensabile’») e accolto in Guido Fassò, Società, legge e
ragione, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, pp. 8-9, ISBN non esistente. ^
Enrico Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica:
l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, cit., p. 158. «La ‘(concreta)
molteplicità del reale’, il ‘flusso eracliteo dei particolari concrerti’,
l'eterogeneo continuum di cui Fassò parla richiamando Ross, è la realtà
empirica, fenomenica: molteplicità infinita di eventi originali e irripetibili,
‘non essendovi nello spazio, e più ancora nel tempo, due fenomeni perfettamente
identici’» ^ Sulla posizione crociana rispetto al giusnaturalismo cfr.,
per esempio, Benedetto Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, a
cura di M. Tarantino, con una nota al testo di G. Sasso, Napoli, Bibliopolis,
1996 [1909], pp. 332-333, ISBN 978-88-7088-357-2. «Contraddittorio è
altresì il concetto di un codice eterno, di una legislazione-limite o modello,
di un diritto universale, razionale o naturale, o come altro lo si è venuto
variamente intitolando. Il diritto naturale, la legislazione universale, il
codice eterno, che pretende fissare il transeunte, urta contro il principio
della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere
contingente e storico del loro contenuto. Se al diritto naturale si lasciasse
fare quel che esso annunzia, se Dio permettesse che gli affari della Realtà
fossero amministrati secondo le astratte idee degli scrittori e dei professori,
si vedrebbe, con la formazione e applicazione del Codice eterno, arrestarsi di
colpo lo Svolgimento, concludersi la Storia, morire la Vita, disfarsi la
Realtà». Sulla presa esplicita di distanza di Fassò da Croce, cfr. Società,
legge e ragione, cit., pp. 7-8. «Ho continuato a ripetere la stessa cosa: che
il diritto nasce dalla natura umana, la quale è natura storica e natura
sociale. Ho rifiutato dapprima, sotto la suggestione dell'antigiusnaturalismo
del tempo in cui ero cresciuto, di chiamare naturale un siffatto diritto; più
tardi, dopo avere approfondito la conoscenza storica del giusnaturalismo ed
essermi meglio chiarito la parte che esso ha avuto nella difesa della libertà
contro l'assolutismo politico, mi sono deciso a designare con quell'aggettivo
in realtà equivoco il diritto che la ragione trova nella natura della
società» ^ Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, a cura di
Carla Faralli, vol. 2, Roma-Bari, Laterza, 2001 [1968], p. 91, ISBN
978-88-420-6240-0. ^ Guido Fassò, Sicietà, legge e ragione, Milano, Edizioni di
Comunità, 1974, p. 8, ISBN non esistente. ^ Sito web del Quirinale: dettaglio
decorato. ^ Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, n. 291, 8 novembre
1974, p. 7719. URL consultato il 23 agosto 2019. Bibliografia L'ordine delle
opere, ivi compreso quello delle curatele e della letteratura critica, segue
l'anno originario di pubblicazione. Laddove, invece, si è riscontrata
coincidenza cronologica, si è preferito seguire l'ordine alfabetico.
Opere Per una più completa bibliografia degli scritti di Guido Fassò, si rinvia
a Giampaolo Zucchini, Bibliografia degli scritti filosofico-giuridici di Guido
Fassò, in appendice al terzo volume degli Scritti di filosofia del diritto
dello stesso Fassò, a cura di Enrico Pattaro, Carla Faralli, Giampaolo
Zucchini, Giuffrè, Milano 1982, pp. 1463-1473. Guido Fassò, I «quattro
auttori» del Vico. Saggio sulla genesi della Scienza nuova, Milano, Giuffrè,
1949, ISBN non esistente. Guido Fassò, La storia come esperienza giuridica, a
cura di Carla Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016 [1953], ISBN
978-88-498-4623-2. Guido Fassò, Cristianesimo e società, 2ª ed., Milano,
Giuffrè, 1969 [1956], ISBN non esistente. Guido Fassò, La democrazia in Grecia,
a cura di Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini, 2ª ed., Milano,
Giuffrè, 1999 [1959], ISBN 88-14-07833-5. Guido Fassò, Il diritto naturale, 2ª
ed., Torino, ERI, 1972 [1964], ISBN non esistente. Guido Fassò, La legge della
ragione, a cura di Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini, 2ª ed.,
Milano, Giuffrè, 1999 [1964], ISBN 88-14-07827-0. Guido Fassò, Storia della
filosofia del diritto, a cura di Carla Faralli, vol. 1, Roma-Bari, Laterza,
2005 [1966], ISBN 88-420-6239-1. Guido Fassò, Storia della filosofia del
diritto, a cura di Carla Faralli, vol. 2, Roma-Bari, Laterza, 2001 [1968], ISBN
88-420-6240-5. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, a cura di Carla
Faralli, vol. 3, Roma-Bari, Laterza, 2009 [1970], ISBN 978-88-420-7936-1. Guido
Fassò, Vico e Grozio, Napoli, Guida, 1971, ISBN non esistente. Guido Fassò,
Società, legge e ragione, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, ISBN non esistente.
Guido Fassò, Scritti di filosofia del diritto, a cura di Carla Faralli, Enrico
Pattaro e Giampaolo Zucchini, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1982, ISBN non
esistente. Guido Fassò, Scritti di filosofia del diritto, a cura di Carla
Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini, vol. 2, Milano, Giuffrè, 1982,
ISBN non esistente. Guido Fassò, Scritti di filosofia del diritto, a cura di
Carla Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini, vol. 3, Milano, Giuffrè,
1982, ISBN non esistente. Curatele Ugo Grozio, Prolegomeni al diritto della
guerra e della pace, traduzione, introduzione e note di Guido Fassò,
aggiornamento di Carla Faralli, 3ª ed., Napoli, Morano, 1979 [1949], ISBN non
esistente. Biografie Franco Tamassia, Fassò, Guido, in Dizionario biografico
degli italiani, vol. 45, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1995, pp.
295-298, ISBN non esistente. Carla Faralli, Fassò, Guido, in Dizionario
biografico dei giuristi italiani (XII – XX secolo), 2 voll., diretto da Italo
Birocchi, Ennio Cortese, Antonello Mattone, Marco Nicola Miletti, con la
collaborazione della Biblioteca del Senato, vol. 1, Bologna, Il Mulino, 2013,
pp. 825-826, ISBN 978-88-15-24124-5. Letteratura critica Per una più completa
bibliografia degli scritti su Guido Fassò, almeno fino agli anni Ottanta, si
rinvia a Carla Faralli, I momenti della riflessione critica su Guido Fassò, in
appendice al terzo volume degli Scritti di filosofia del diritto dello stesso
Fassò, a cura di Enrico Pattaro, Carla Faralli, Giampaolo Zucchini, Giuffrè,
Milano 1982, pp. 1475-1517, che passa in rassegna i contributi dedicati
all'opera del filosofo felsineo. Segue, alle pp. 1518-1528 del suddetto terzo
volume, la Bibliografia degli scritti su Guido Fassò. Enrico Pattaro, Gli
studi vichiani di Guido Fassò (PDF), in Bollettino del Centro Studi Vichiani,
vol. 5, Napoli, Guida, 1975, pp. 87-121. URL consultato il 23 agosto 2016.
Enrico Pattaro, Ricordo di Guido Fassò, in Rivista trimestrale di diritto e
procedura civile, n. 3, Milano, Giuffrè, 1975, pp. 1089-1105 (con Bibliografia
delle opere di Guido Fassò, a cura di Giampaolo Zucchini, pp. 1097-1105).
Felice Battaglia, Guido Fassò: in memoria, in Rivista internazionale di
filosofia del diritto, n. 2, 1975, pp. 301-310. Antonio-Enrique Pérez Luño,
L'itinerario intellettuale di Guido Fassò, in Rivista internazionale di
filosofia del diritto, vol. 53, n. 3, Milano, Giuffrè, 1976, pp. 372-381.
Enrico Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di Guido
Fassò, in Guido Fassò, Scritti di filosofia del diritto, a cura di Carla
Faralli, Enrico Pattaro e Giampaolo Zucchini, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1982,
pp. XIX-LXXX, ISBN non esistente. Enrico Pattaro, In che senso la storia è
esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di Guido Fassò, in
Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, vol. 37, n. 2, Milano,
Giuffrè, 1983, pp. 390-428. (ES) Antonio-Enrique Pérez Luño, Razon y historia
en la experiencia filosofica y juridica de Guido Fassó, in Carla Faralli e
Enrico Pattaro (a cura di), Reason in Law. Proceedings of the Conference Held
in Bologna, 12-15 Dicembre 1984, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 47-62, ISBN
88-14-01245-8. Giuliano Marini, Lo storicismo di Guido Fassò, in Carla Faralli
e Enrico Pattaro (a cura di), Reason in Law. Proceedings of the Conference Held
in Bologna, 12-15 Dicembre 1984, vol. 1, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 35-46, ISBN
88-14-01245-8. Dario Quaglio, Guido Fassò. Della ragione come legge, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, 1991, ISBN 88-7104-267-0. (ES) Fernando Higinio
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Editorial Tecnos, S.A., 1997, ISBN 978-84-309-2966-5. URL consultato il 5
luglio 2019. Carla Faralli, Norberto Bobbio e Guido Fassò. Sulla annosa e
ricorrente disputa tra positivisti e giusnaturalisti, in Antonio Punzi (a cura
di), Metodo, linguaggio, scienza del diritto. Omaggio a Norberto Bobbio
(1909-2004), Milano, Giuffrè, 2007, pp. 145-154, ISBN 978-88-14-12801-1. Paolo
Grossi, Carla Faralli, Antonio-Enrique Pérez Luño, Francesco D'Agostino, Franco
Todescan, Luigi Ferrajoli, Eugenio Ripepe, Luigi Lombardi Vallauri e Enrico
Pattaro, Guido Fassò. Una tavola rotonda, in Rivista di filosofia del diritto,
Bologna, Il Mulino, dicembre 2015, pp. 7-69, ISBN 978-88-15-26112-0, ISSN
2280-482X (WC · ACNP). URL consultato il 28 agosto 2016. Fernando Higinio Llano
Alonso, L'idea di storia come esperienza giuridica in Guido Fassò, in Rivista
di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, dicembre 2017, pp. 397-412, ISBN
978-88-15-26112-0, ISSN 2280-482X (WC · ACNP). URL consultato il 15 novembre
2018. Giuseppe Russo, Guido Fassò. Un itinerario filosofico tra diritto e
natura umana, in Il Pensiero Italiano. Rivista di studi filosofici, vol. 2, n.
1-2, 2018, pp. 91-114, ISSN 2532-6864 (WC · ACNP). URL consultato il 28 ottobre
2019. Collegamenti esterni Guido Fassò - Archivio storico dell'Università di
Bologna. Franco Tamassia, «FASSÒ, Guido» in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 45, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1995. AA.VV.,
«FASSÒ, Guido» in Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2009. Controllo di autorità VIAF
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del XX secoloNati nel 1915Morti nel 1974Nati il 18 ottobreMorti il 30
ottobreNati a BolognaMorti a BolognaFilosofi del diritto[altre]
Fazzini
-- Lorenzo Fazzini Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Lorenzo Fazzini Lorenzo Fazzini (Vieste, 19
gennaio 1787[1] – Napoli, 4 maggio 1837) è stato un matematico, fisico e
filosofo italiano, un divulgatore di materie scientifiche e filosofiche e il
fondatore dell'omonima scuola privata, una delle più celebri nel Regno delle
Due Sicilie. Indice 1 Biografia
1.1 Formazione
1.2 Attività
come insegnante 1.3 Laboratorio
1.4 Morte
2 Ricerche
scientifiche 3 Opere
4 Note
5 Bibliografia
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Via dedicata a Lorenzo Fazzini a Vieste Lorenzo Fazzini
nacque a Vieste, in provincia di Foggia, da Tommaso e Porzia Medina, che
appartenevano a due delle famiglie più agiate della città.[2]. Ebbe tre
fratelli minori, Gaetano,[3] Antonio e Matteo; Gaetano e Antonio in seguito
collaborarono alla scuola fondata da Lorenzo a Napoli. Formazione Lorenzo
Fazzini trascorse l'infanzia a Vieste. Il suo talento per la matematica fu
notato fin dai primi anni; i genitori decisero quindi di far proseguire i suoi
studi in ambienti che potessero garantire una formazione adeguata. Fazzini si
trasferì così a Foggia, poi a Benevento e in ultimo nel seminario di Nusco, in
provincia di Avellino. Qui trascorse l'adolescenza approfondendo anche lo
studio dei classici. A diciotto anni, terminato il seminario, Fazzini
tornò a Vieste.[4] Lì, poco dopo il suo rientro, recitò in Duomo un'orazione in
lode dell'Arcangelo Michele che fu molto apprezzata dal clero e dai
fedeli.[5] Il rientro nella città natale fu comunque di breve durata:
desiderando continuare i suoi studi, Fazzini si trasferì infatti a Napoli,[6]
dove rimase per il resto della vita. Nel 1809 venne ordinato sacerdote[7] e
nello stesso anno ebbe come insegnante di matematica il napoletano Nicola
Fergola.[8] La scuola di quest'ultimo era un rinomato centro per la formazione
di matematici e un punto di incontro per studiosi e ricercatori del
Mezzogiorno; Fazzini ne fu uno degli allievi più illustri. Fazzini
proseguì anche gli studi in teologia, diritto canonico, storia della Chiesa,
filosofia, scienze fisico-matematiche. Nel frattempo, tuttavia, si era
avvicinato alla filosofia sensista. Nel 1817 ottenne dalla Chiesa il permesso
di acquisire testi proibiti su questa corrente filosofica, a patto che non ne
divulgasse i contenuti.[9] Questo aspetto della formazione filosofica di Fazzini
influirà sulla sua docenza e sulla sua personalità, determinando una
contraddizione che, secondo le testimonianze di allievi e amici, lo accompagnò
per tutta la vita.[10] Attività come insegnante Nel 1810, Fazzini aprì
una scuola privata in cui venivano insegnate filosofia, matematica e fisica. La
scuola aveva sede nella Strada nuova dei Pellegrini, nel quartiere di
Montecalvario, e divenne uno dei centri di studio più rinomati di Napoli. Nel
periodo di maggior successo la scuola arrivò a contare tra i 300 e i 400
allievi. In una data non precisabile, Fazzini dovette quindi spostare la scuola
in una sede più grande, in via Magnacavallo, nello stesso quartiere.[11]
Anche dopo aver aperto la propria scuola, comunque, Fazzini insegnò presso
altre scuole private. Secondo diverse testimonianze del tempo, dedicava quindi
all'insegnamento sei o sette ore al giorno.[12] Uno dei suoi allievi fu
Francesco De Sanctis, che nella sua autobiografia La giovinezza ha lasciato una
descrizione molto vivace di Fazzini e del suo insegnamento, particolarmente
coinvolgente per quanto riguardava la fisica.[10] Sembra comunque che la
maggior parte del tempo di insegnamento di Fazzini fosse dedicata alla
matematica.[13] Al servizio di questa attività Fazzini pubblicò tre volumi,
riediti più volte e dedicati rispettivamente all'aritmetica, alla geometria
piana e alla geometria solida. Questi lavori non avevano tuttavia solo finalità
didattiche: in particolare, secondo Raffaele Santoro, nei due volumi dedicati
alla geometria piana e alla geometria solida, traduzione degli Elementi di
Euclide, Fazzini tenne conto di diverse traduzioni precedenti, esaminandole in
modo critico anche alla luce degli sviluppi recenti della geometria.[14]
Laboratorio Oltre all'insegnamento della filosofia e delle materie
scientifiche, Fazzini si dedicava alla ricerca e alla divulgazione. Al servizio
di queste tre attività allestì anche un laboratorio scientifico, considerato
all'epoca uno dei migliori di Napoli.[15] Dopo la morte di Fazzini, le attrezzature
del laboratorio vennero acquistate dall'Università di Napoli.[16] Morte
Il 4 maggio del 1837, Fazzini morì di colera, di cui era ammalato da mesi,
durante la prima grande epidemia del morbo in Italia. La salma fu
provvisoriamente depositata nella chiesa di San Tommaso d'Aquino; al termine
dell'epidemia, venne trasferita in quella di Santa Maria ad Ogni Bene dei Sette
Dolori. Qui furono celebrate le esequie solenni; alla celebrazione
parteciparono molti giovani allievi e amici che manifestarono la loro
venerazione e gratitudine per il maestro. Per la cerimonia venne composta da
Gaetano Donizetti una Messa da Requiem oggi perduta,[17] mentre Basilio Puoti
recitò un elogio di Fazzini, di cui era amico.[18] Nei mesi successivi,
numerose commemorazioni a stampa esaltarono le qualità di Fazzini come persona
e come scienziato.[19] Dopo la sua morte, l'attività della scuola di
Lorenzo Fazzini venne proseguita per un certo periodo dai fratelli Antonio e
Gaetano.[20] A Lorenzo sopravvissero anche i genitori, che nel frattempo si
erano trasferiti con lui a Napoli: dopo la sua morte, il padre rientrò a Vieste
mentre la madre rimase a Napoli.[21] Ricerche scientifiche Fazzini si
occupò a lungo di ricerche scientifiche in vari campi della fisica. In particolare,
studiò l'induzione elettromagnetica, il magnetismo in generale e la relazione
tra luce e magnetismo. Non pubblicò però quasi nulla a proposito di queste
ricerche, che sono note soprattutto attraverso le testimonianze di Emanuele
Tellini e di Gaetano Fazzini.[22] Fazzini era convinto che diverse delle
forze naturali allora note, e in particolare il calorico, la luce,
l’elettricismo, il galvanismo e il magnetismo, fossero in realtà diverse
manifestazioni di un'unica forza.[23] Partendo da questa idea di base, studiò
soprattutto il magnetismo, e in particolare due fenomeni di induzione, oggi
spiegati in base alla Legge di Faraday, che erano stati scoperti negli anni
immediatamente precedenti: il magnetismo di rotazione, scoperto nel 1825
da Arago: il fenomeno per cui un ago magnetico posto sopra un disco di rame in
rotazione inizia a sua volta a ruotare l'induzione tellurica, scoperta nel 1831
da Faraday: la generazione di una corrente elettrica indotta in un circuito che
si muove attraverso il campo geomagnetico Per quanto riguarda il magnetismo di
rotazione, Fazzini ripeté e approfondì le esperienze di Arago notando che la
rotazione dell'ago magnetico si verificava anche quando al di sopra del disco
di rame si sovrapponeva materiale isolante, mentre non si verificava se il
disco di rame veniva sostituito da un disco di materiale isolante.[24]
Per quanto riguarda l'induzione tellurica, Fazzini ne identificò con maggiore
chiarezza le modalità. Cercò poi di combinare lo studio di questo fenomeno con
quello del magnetismo di rotazione, costruendo per questo tre diversi
apparecchi. Una ricostruzione dettagliata del modo in cui gli apparecchi
operavano è stata fornita da Raffaele Santoro sulla base delle testimonianze
lasciate da Filippo Cirelli e Gaetano Fazzini.[25] Lorenzo Fazzini
descrisse una delle sue esperienze sull'induzione tellurica in una lettera
scritta in francese a Faraday e datata 3 aprile 1832; pubblicata postuma,[26]
questa lettera è l'unica descrizione lasciata da Fazzini in persona riguardo ai
propri esperimenti.[27] Fazzini eseguì inoltre esperimenti sul rapporto
tra luce e magnetismo, proiettando raggi di luce su un ago magnetico. Le
testimonianze rimaste, tutte indirette, non permettono però, secondo Raffaele
Santoro, di ricostruire in modo sicuro le intenzioni di Fazzini e i risultati
dei suoi esperimenti.[28] Opere I primi sei libri degli elementi di
Euclide tradotti in Italiano dall'abate Fazzini (Geometria piana), Napoli,
dalla stamperia francese, 1825 (ripubblicato nel 1828 presso la stessa
stamperia e nel 1834 presso la stamperia del Fibreno). I libri undecimo, e
duodecimo degli elementi di Euclide tradotti in italiano dall'abate Fazzini ed
i teoremi scelti di Archimede sulla sfera e sul cilindro, e la misura del
cerchio aggiunti dal medesimo (Geometria solida), Napoli, dalla stamperia di C.
Cataneo, 1825 (ripubblicato nel 1829 presso la stamperia francese e nel 1843
presso la stamperia di Gennaro Agrelli). Elementi di aritmetica, Napoli, dalla
stamperia francese, 1827 (ripubblicato nel 1829 presso la stessa stamperia e
nel 1834 presso la stamperia del Fibreno). Note ^ I biografi di Lorenzo Fazzini
hanno tradizionalmente riportato come sua data di nascita il 17 gennaio. La
data corretta è stata ricavata da Raffaele Santoro in base a informazioni
contenute nel registro dei Battezzati della Cattedrale di Vieste, vol. 12, p.
236 (Santoro, p. 1). Dalla stessa fonte risulta, inoltre, che Fazzini venne
battezzato col nome completo di Laurentius Maria Antonius (Santoro, p. 1). ^
Santoro, p. 1. ^ LaTosa. ^ Santoro, p. 3. ^ Puoti, p. 81. ^ Taddei, p. 54. ^
Santoro, p. 4. ^ Santoro, pp. 8-9. ^ Santoro, p. 10. De Sanctis, pp.
31-38. ^ Santoro, p. 12. ^ Santoro, pp. 12-13. ^ Santoro, p. 34. ^ Santoro, p.
35. ^ Puoti stima che per l'allestimento del laboratorio Fazzini avesse speso
complessivamente 10 000 ducati: Puoti, p. 86. ^ De Sanctis, p. 35. ^ Santoro,
p. 25. ^ L'elogio di Puoti fu in seguito inserito dall'autore nella raccolta
dei suoi Elogi: Puoti. ^ In particolare: Brayda, Malpica. ^ Santoro, p. 52. ^
Puoti, p. 84. ^ Santoro, p. 57. ^ Santoro, p. 63. ^ Santoro, pp. 68-69. ^
Santoro, pp. 70-81. ^ L. Pearce Williams (a cura di), The Selected
Correspondence of Michael Faraday, vol. 1 - 1812-1848, Cambridge University
Press, 1971, p. 219. ^ Santoro, pp. 69-81. ^ Santoro, pp. 82-94. Bibliografia
Francesco De Sanctis, La giovinezza. Ricordi, a cura di Gennaro Savarese,
Napoli, Guida editori, 1983 [1889], ISBN 88-7042-129-5. URL consultato il 24
luglio 2019. Giuseppe La Tosa, Fazzini, Gaetano Emanuele, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 45, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1995. URL consultato il 23 luglio 2019. Cesare Malpica, Necrologia di Lorenzo
Fazzini, in Poliorama Pittoresco, II, n. 41, 1837, pp. 317-391. URL consultato
il 28 luglio 2019. Basilio Puoti, L'elogio di Lorenzo Fazzini, in Elogi,
Firenze, Giunti Editore, 1846, pp. 77-91. Raffaele Santoro, Fazzini, Lorenzo,
in Dizionario biografico degli italiani, vol. 45, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1995. URL consultato il 31 luglio 2019. Raffaele
Santoro, Lorenzo Fazzini, Bologna, Vecchiarelli Editore, 2017, ISBN
978-1521338636. Emanuele Taddei, Necrologia di Lorenzo Fazzini, in Annali
Civili del Regno delle Due Sicilie, XIX, 1837, pp. XVIII-XIX. Carlo Tortora
Brayda, Necrologia di Lorenzo Fazzini, in Il progresso delle scienze, delle
lettere e delle arti, XVI, n. 32, marzo-aprile, pp. 298-302. Voci correlate
Michael Faraday Francesco De Sanctis Interazione elettromagnetica Altri
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altri file su Lorenzo Fazzini Collegamenti esterni Pagina dedicata a Lorenzo
Fazzini, su web.tiscali.it. Vieste - LORENZO FAZZINI, IL PIU' FAMOSO DEI
VIESTANI ILLUSTRI, su retegargano.it. Controllo di autorità VIAF (EN) 90105545 ·
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Napoli[altre]
Felice
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Ferdinando
-- Epifanio Ferdinando Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump
to search Epifanio Ferdinando Epifanio
Ferdinando (Mesagne, 2 novembre 1569 – Mesagne, 7 dicembre 1638) è stato un
medico e filosofo italiano. Chiamato
"il Vecchio" per distinguerlo dal figlio, fu docente di medicina e
filosofia oltre che Primo Cittadino di Mesagne per ben due volte, e uno dei
medici più famosi e colti della Puglia di inizio Seicento Indice 1 Vita
2 Cenni
biografici ed opere principali 3 Cultura
e amore per la medicina 4 Epifanio
Ferdinando e il Tarantismo 5 Testimonianza
del tarantismo 6 Opere
edite ed inedite 7 Note
8 Bibliografia
9 Altri
progetti 10 Collegamenti
esterni Vita Nasce a Mesagne, in provincia di Brindisi, il 2 novembre 1569 e
ivi muore nel 1638. L'attenzione di questo medico-filosofo, laureatosi presso
l'Università di Napoli in filosofia e medicina il 24 agosto 1594, per campi non
strettamente connessi a quello medico quali l'astronomia, l'astrologia, la
storia e la teologia, ne testimoniano la poliedricità. Nella sua vita si
dedicò, oltre che alla professione di medico, anche all'insegnamento declinando
però l'offerta di una cattedra di medicina avanzatagli dall'Università di
Padova, luogo di insegnamento di menti geniali come Andrea Vesalio e Galileo
Galilei, per il suo grande attaccamento al Salento e soprattutto alla sua città
natale, Mesagne, di cui fu anche eletto Primo Cittadino nel 1605. Copertina del Centum Historiae Dedica alla Marchesa Giulia Farnese Copertina del Theoremata Medica et
Philosophica Cenni biografici ed opere principali Epifanio Ferdinando (il
Vecchio), definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”, studiò
grammatica, poetica, greco e latino sotto la sapiente guida, in Mesagne, di
Francesco Riccio, intimo amico di Paolo e Aldo Manuzio. Si trasferì
successivamente a Napoli nel 1588 dove studiò medicina , filosofia, geometria e
matematica prima di conseguire la laurea in filosofia e medicina nel 1594.
Tornò poi a Mesagne dove prese in moglie la ventinovenne Giordana Longo
Pecoraio, da cui ebbe dieci figli, ed esercitò la professione di medico fino
alla sua morte avvenuta il 7 dicembre del 1638. Tra le opere principali del
Ferdinando grande rilievo assumono i Teoremi Medici e Filosofici, dedicati alla
sua amata città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del
tarantismo e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o
Casi Medici, raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico
nella sua vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e
appassionata analisi della storia di Mesagne.
Tutte le sue opere edite e inedite furono redatte in lingua latina e
solo successivamente furono raccolte e tradotte in italiano, probabilmente dai
suoi allievi. Dal punto di vista medico, ma anche culturale, l'opera di
riferimento per eccellenza del Ferdinando è fuor di dubbio Centum Historiae.
Pubblicata nel 1621 e scritta completamente in latino, l'opera è dedicata a
Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore fu medico di fiducia,
intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li condusse a Roma dove
Epifanio conobbe Cinzio Clemente, medico di Paolo V e fu contattato, per la sua
fama, da noti scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Marco Aurelio
Severino, con cui ebbe una disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione
della salvatella, la vena presente sul dorso della mano che parte dalla base
del mignolo e si connette con la vena ulnare.
Cultura e amore per la medicina Profondo conoscitore dei classici e
seguace non solo delle teorie di Ippocrate di Kos, Galeno e Avicenna, ma anche
di quelle formulate da Girolamo Mercuriale, Bartolomeo Eustachio, Falloppia e
Fracastoro, attento alle tradizioni della sua terra, Epifanio Ferdinando
propose un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto del malato,
anticipando, in una certa misura, quello che sarebbe stato lo stile del Johns
Hopkins statunitense: una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua
applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza fu richiesto non
solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i
concittadini per la sua bontà d'animo, curava anche senza compenso
somministrando farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si
concentrava sull'importanza delle analisi del sangue valutandone consistenza,
opacità, densità e colore e riteneva centrale per la terapia attenersi ad una
adeguata dieta. Per curare i suoi pazienti si serviva non solo di salassi,
purghe e clisteri, secondo la prassi ordinaria, ma preparava anche dei farmaci
di origine vegetale ottenuti miscelando quantità variabili di erbe mediche a
seconda della terapia. Nella sua vita si
occupò anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico, descritti nei
particolari nelle Centum Historiae, e nutrì anche uno spiccato interesse nei
confronti del tarantismo e della musica come terapia “certissima”. Grazie alle
sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra con quella
storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti che
mantenne con i medici napoletani, Epifanio Ferdinando fu uno dei più importanti
intermediari fra la cultura medica napoletana e quella di Terra d'Otranto del
1600. Epifanio Ferdinando e il
Tarantismo Molti studiosi, soprattutto medici come il Ferdinando, si sono
interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere venuti a
conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo morbo, tra
cui la più importante di tutte è senza dubbio la “musico-terapia”somministrata
al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e
soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una
funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo
modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene assecondato
dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il malato dopo
essere stato morso dovesse espellere il veleno scatenandosi a ritmo di musica,
ma non di una qualunque: il tema musicale doveva essere scelto in base al
colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che
testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis
redatto, presumibilmente da Guglielmo di Marra da Padova, nel primo anno del
pontificato di Urbano V, nel 1362[1], ma il secondo a documentare per
esperienza diretta questa connessione fu il medico di Mesagne Epifanio
Ferdinando, vissuto nel XVII secolo. Nelle sue Centum Historiae egli analizza,
tra gli altri, il caso di un suo giovane concittadino, tale Pietro Simeone,
pizzicato mentre dormiva di notte in un campo. Il medico credette fermamente
nella musica come terapia “certissima” criticando chi sosteneva che il
tarantismo non fosse necessariamente scatenato da un morso tanto reale quanto
velenoso. Inoltre, fu il primo a proporre come metodo di cura per i tarantati
morsi da tarantole le malinconiche (nenie funebri). Testimonianza del tarantismo Il gesuita
Atanasio Kircher riferisce nel suo Magnes[2] un episodio accaduto ad Andria,
nel barese, talmente singolare da destare ragionevoli sospetti su quanto
starebbe alla base di questa terapia:
“Come il veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante
continua eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non
avrei mai creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei Padri
ricordati, che son degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in
proposito fu tenuto un esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di
uno dei nostri Padri, e d tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare
nel modo più adatto questo ammirabile prodigio della natura, ordinò che si
trovasse a bella posta una taranta, la si collocasse, librata su una piccola
festuca, in un vasetto colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i
suonatori. In un primo momento la taranta non dette alcun segno di muoversi al
suono della chitarra, ma poi, allorché il suonatore dette inizio ad una musica
proporzionata al suo umore, la bestiola non soltanto faceva le viste di
eseguire una danza saltellando sulle zampe e agitando il corpo, ma addirittura
danzava sul serio, rispettando il tempo: e se il suonatore cessava di suonare
anche la bestiola sospendeva il ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in
Andria ammirarono in quella circostanza come episodio straordinario, era a
Taranto fato consueto: infatti i suonatori di Taranto, i quali erano soliti
curare con la musica questo morbo anche in qualità di pubblici funzionari
retribuiti con regolari stipendi (e ciò per venire incontro ai più poveri, e
sollevarli dalle spese), per accelerare la cura dei pazienti in modo più certo
e più facile, sogliono chiedere ai colpiti il luogo dove la taranta li ha
morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici citaredi sogliono portarsi subito
sul luogo indicato, dove in gran numero le diverse specie di tarante si
adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano vari generi di armonie, a
cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle saltano… E quando abbiano
scorto saltare una taranta di quel colore indicata dal paziente, tengono per
segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo esattamente proporzionato
all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla cura, eseguendo la quale
essi dicono che ne deriva un sicuro effetto terapeutico.” Opere edite ed inedite Le opere edite
sono: Theoremata medica et philosophica,
Venetiis 1611 apud Thomam Ballionum in folio. De vita proroganda seu iuventute
conservanda et senectute retardanda, Neapoli 1612 apud Io. Bapt. Garganum et
Lucretium Muccium- in quarto. Centum Historiae seu Observationes et Casus
medici, Venetiis 1621 apud Thomam Ballionum in folio. Aureus De Peste Libellus,
Neapoli 1626 apud Dominicum Maccaranum in 4°. Alcune opere inedite: Libellus de apibus in 4° Tractatus de natura
Leporis De coelo Messapiensi De bonitate aquae cisternae Libellus de morsu
tarantolae Note ^ Ernesto De Martino La terra del rimorso,Milano,Est,
1996,cit., p. 136 ^ Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Colonia,
1643, p. 770 Bibliografia Le notizie biografiche sono tratte da: Mario Marti e Domenico Urgesi (a cura di),
Epifanio Ferdinando, medico e storico del Seicento. Atti del convegno di studi
(Mesagne, 28-29 maggio 1999), Besa Editrice, Nardò, 1999 Altre fonti: Atanasio Kircher, Magnes sive de arte
magnetica opus tripartitum, Colonia, 1643 Ernesto De Martino, La terra del
rimorso, Est, Milano, 1996 M. Luisa Portulano Scoditti, A. Elio Distante,
Roberto Alfonsetti, Enzo Poci (a cura di), Epifanio Ferdinando Medico, Storico,
Filosofo (Mesagne 1569-1638), Edizione Assessorato alla Cultura Città di
Mesagne, Mesagne, 1999 Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce,
1741 Altre opere pubblicate su Epifanio Ferdinando: M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio
Distante, La peste, 2001, traduzione italiana del De peste aureus libellus,
Napoli, 1626 M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio
Ferdinando - Le centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di Mesagne,
2000 M. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, Epifanio Ferdinando -
De Vita Proroganda, Città di Mesagne, 2004, traduzione italiana del De Vita
Proroganda seu juventute conservanda..., Napoli, 1612 M. Luisa Portulano
Scoditti e Amedeo Elio Distante, (a cura di), Atti del XLI Congresso Nazionale
della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne, 2001 Altri progetti Collabora
a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su
Ferdinando Epifanio Collegamenti esterni Opere di Epifanio Ferdinando, su
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0000 6130 0702 · LCCN (EN) n2005047196 · GND (DE) 130587095 · BAV (EN)
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Fergnani
-- Franco Fergnani Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump
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Fergnani}}--~~~~ Franco Fergnani (Milano, 1927 – Milano, 18 giugno 2009) è
stato uno storico della filosofia, traduttore, accademico e antifascista
italiano, nonché studioso e profondo conoscitore del pensiero esistenzialista,
in particolare quello di Jean-Paul Sartre.
Biografia Di famiglia dotata di ampia cultura e fortemente schierata
contro il regime fascista, si unisce appena sedicenne alla Resistenza italiana
con un deciso spirito attivista, fatto che gli costerà un arresto e la breve
reclusione nel carcere di San Vittore. La passione per la filosofia lo porterà
a laurearsi nel 1953 all’Università degli Studi di Milano con Antonio Banfi;
dopo l’insegnamento in licei come l’Alessandro Racchetti di Crema e il Filippo
Lussana di Bergamo e diverse pubblicazioni di saggi e articoli su riviste come
“Il pensiero critico”, “Rivista di filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di
storia della filosofia” e “Nuova corrente”, ottiene la cattedra di Filosofia
Morale II dell’Università degli Studi di Milano nel 1971[1] e la mantiene
ininterrottamente fino al pensionamento, avvenuto nel 2000. Fu figura di spicco
nella riflessione esistenzialista novecentesca: egli può essere infatti
considerato il portatore del pensiero di Jean-Paul Sartre in Italia[2],
traducendo e curando numerosi testi del filosofo francese. Oltre che al
pensiero sartriano, Fergnani dedicò molte riflessioni al marxismo occidentale e
ad autori come Maurice Merleau-Ponty, Bloch, lo stesso Marx, Lukács e
Althusser, tenendo inoltre corsi universitari su Martin Heidegger, Emmanuel
Lévinas, Henri Bergson[3]. Alle lezioni tenute da Fergnani, Massimo Recalcati
dedica parole estremamente rilevanti, con le quali esprime al meglio le
caratteristiche e il lavoro del professore: «Lezioni che apparivano ai nostri
occhi come piccoli diamanti: Essere e tempo di Heidegger o L'essere e il nulla
di Sartre diventavano incredibilmente vivi, pulsanti, straripavano dalle loro
cornici prestabilite per entrarci dentro. La parola del professore sapeva
scuoterci scuotendo i testi che commentava»[4] . Collaborò e strinse amicizia
con Fulvio Papi[5], Pier Aldo Rovatti e Remo Cantoni, figure anch’esse di
estrema rilevanza nel panorama filosofico italiano. Le sue ceneri sono in una
celletta al Cimitero Maggiore di Milano[6].
Opere Marxismo e filosofia contemporanea, Padus, Cremona, 1964. [3]
Lukács critico di se stesso, 1971. Etica-Trattato teologico-politico, Baruch Spinoza,
a c. di Remo Cantoni e Franco Fergnani, UTET, Torino, 1972. [4] Antonio
Gramsci. La filosofia della prassi nei «Quaderni del carcere», Unicopli,
Milano, 1975. [5] Materialismo e rivoluzione, Jean-Paul Sartre, a c. e
introduzioni di Franco Fergnani, Pier Aldo Rovatti, traduzioni di Franco
Fergnani, Augusta Mattioli, Domenico Tarizzo, il Saggiatore, Milano, 1977. [6]
La cosa umana: esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli,
Milano, 1978. [7] L'essere e il nulla, Jean-Paul Sartre, Traduzione di G. Del
Bo, revisione a cura di Franco Fergnani e Marina Lazzari, Il Saggiatore,
Milano, 1997. [8] Da Heidegger a Sartre, Farina Editore, Milano, 2016. ISBN
978-88-941469-5-0 [9] La coscienza sadica. Ripercorrendo l’analisi di Jean-Paul
Sartre, Farina Editore, Milano, 2016. ISBN 978-88-941469-0-5 [10] Nietzsche e
la filosofia dell’esistenza, Farina Editore, Milano, 2016. ISBN
978-88-941469-6-7 [11] Introduzione a Sartre, Franco Fergnani, Mauro Trentadue,
Farina Editore, Milano, 2017. ISBN 978-88-942213-0-5 [12] Kierkegaard, A c. di
Mauro Trentadue e Lorenza Mantovani, Postfazione di Patrizia De Capua, Farina
Editore, Milano, 2017. ISBN 978-88-942213-5-0 [13] Il gesto e la passione.
Sull’insegnamento di Franco Fergnani (Opera dedicata a Franco Fergnani), AAVV,
Farina Editore, Milano, 2017. ISBN 978-88-942213-7-4 [14] Merleau-Ponty, Farina
Editore, Milano 2018. ISBN 978-88-943369-0-0 [15] L’Esistenzialismo ieri e
oggi, Carini E., Farina G., Fergnani F., Trentadue M., Toscani F., Farina
Editore, Milano, 2018. ISBN 978-88-943369-6-2 [16] Lezioni su Sartre, Farina
Editore, Milano, 2018. ISBN 978-88-943369-7-9 [17] Jaspers, Farina Editore,
Milano, 2019. ISBN 978-88-32265-01-9 [18] Note ^ E.I. Rambaldi, “Gli
insegnamenti filosofici nella Facoltà di Lettere (1924-1968)”, Annali di Storia
delle Università italiane, XI, 2007. ^ F. Manzoni, “Franco Fergnani, il
filosofo che ci “spiegò” Sartre”, Corriere della Sera, 19 gennaio 2010, p. 9. ^
Si confronti M. Bellini, "La filosofia come vita: la lezione di Franco
Fergnani", in Materiali di Estetica, N. 5.2, 2018, pp. 310-324.[1] ^
Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino, 2014. ISBN
978-88-06-21489-0 ^ F. Papi, “Ricordo di Franco Fergnani”, Materiali di
Estetica, n. 3, 1, 2016, p. 170. [2] ^ Comune di Milano, app di ricerca defunti
"Not 2 4get". Controllo di autorità VIAF
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biografie Categorie: Storici della filosofia italianiTraduttori
italianiAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani del XXI secoloNati
nel 1927Morti nel 2009Morti il 18 giugnoNati a MilanoMorti a MilanoAntifascisti
italianiProfessori dell'Università degli Studi di MilanoStudenti
dell'Università degli Studi di MilanoTraduttori all'italianoTraduttori dal
francese all'italiano[altre]
ferguson: a. philosopher. His
main theme was the rise and fall of virtue in individuals and societies. In his
most important work, An Essay on the History of Civil Society Ferguson argues
that human happiness of which virtue is a constituent is found in pursuing
social goods rather than private ends. Ferguson thought that ignoring social
goods not only prevented social progress but led to moral corruption and
political despotism. To support this he used classical texts and travelers’
writings to reconstruct the history of society from “rude nations” through
barbarism to civilization. This allowed him to express his concern for the
danger of corruption inherent in the increasing selfinterest manifested in the
incipient commercial civilization of his day. He attempted to systematize his
moral philosophy in The Principles of Moral and Social Science 1792. J.W.A.
Fermat’s last theorem.
Ferrabino -- Aldo Ferrabino Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search «Si compie il mio
ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di
storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata.
Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio
nascosto.[1]» Aldo Ferrabino Aldo
Ferrabino senato.jpg Senatore della Repubblica Italiana Legislature I Gruppo parlamentare democratico cristiano
Incarichi parlamentari 6ª Commissione permanente (Istruzione pubblica e belle
arti) Commissione speciale ddl ratifica decreti legislativi Comitato per
l'incremento della ricerca scientifica Sito istituzionale Dati generali Partito
politico DC
Titolo di studio laurea
in lettere Università Università
di Torino Professione storico,
filosofo, accademico, rettore Aldo
Ferrabino nel giugno 1928 Aldo Ferrabino (Cuneo, 26 giugno 1892 – Roma, 30
ottobre 1972) è stato uno storico, filosofo e bibliotecario italiano, nonché
scrittore e poeta. Indice 1 Biografia 2 Opere 2.1 Opere
in collaborazione 3 Note
4 Bibliografia
5 Altri
progetti 6 Collegamenti
esterni Biografia Ferrabino nacque a Cuneo, primo dei tre figli di Angelica
Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello
Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per
questo motivo non volle far battezzare i figli. L'infanzia di Aldo trascorse
serena circondato com'era dalle premure della madre e del padre che, avendo
perduto il precedente figlio, dedicarono molte attenzioni al fanciullo nato di
costituzione debole e di salute cagionevole.
A Cuneo compì il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo
modello e con rare doti di intelligenza. Proseguì gli studi classici a Cremona,
dove il padre era stato trasferito per lavoro, e quando la famiglia dovette
nuovamente trasferirsi in Alessandria, il giovane, che aveva terminato il
Liceo, si iscrisse nell'ottobre del 1910, all'Università di Torino presso la
facoltà di Lettere. Aldo Ferrabino nel
suo studio a Torino A Torino, dove viveva in una camera ammobiliata, iniziò a
frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo
impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle
finanze paterne. Il suo primo maestro fu
Arturo Graf, docente di Letteratura italiana presso la stessa università, ma
verso il terzo anno iniziò a seguire con crescente interesse la storia antica
frequentando le lezioni dello storico Gaetano De Sanctis, con il quale si
laureò nel 1914, con una tesi su Kalypso.
Insegnò presso vari Licei, a Torino, Palermo, Napoli fintanto che,
ottenuta la libera docenza, divenne nel 1921 professore di storia antica
dapprima presso l'Università di Torino e in seguito presso l'Università di
Padova. Nel 1947 venne nominato rettore dell'Ateneo, incarico che durò fino al
1949, anno in cui ottenne la cattedra di Storia romana presso l'Università di
Roma, cattedra che detenne fino al 1962.
Aldo Ferrabino nel suo studio di Roma il 28 giugno 1948 Aldo Ferrabino ad Assisi nel 1954 Morta la
prima moglie Mercedes dopo lunga malattia il 4 giugno 1945, Ferrabino concluse
il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare
nel dicembre 1945. Sposò poi Paola Zancan, sua collega nell'Università di Padova,
proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si stabilì a Roma,
dove vivrà fino alla morte. Iniziò in
quel periodo a frequentare "La Cittadella di Assisi" diventando
grande amico di don Giovanni Rossi, fondatore dell'Associazione «Pro Civitate
Christiana» e della rivista La Rocca. Ad
Assisi, Ferrabino prese l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti
lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a
Fregene. Nel 1948 venne eletto senatore della Repubblica Italiana per la
Democrazia Cristiana e rimase al Senato fino al 1954. Nel 1954 divenne presidente della
Enciclopedia Italiana, incarico che detenne, insieme a quello di direttore
scientifico avuto nel 1966, fino al 1972.
Nel 1949 era stato intanto incaricato di presiedere al Consiglio
Superiore delle Accademie e nel 1950 promosse il Centro nazionale per il
catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche
diventandone il presidente. Nel 1950
divenne corrispondente dell'Accademia del Lincei e nel 1955 corrispondente
nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia
antica. Nel 1956 fu eletto presidente
della Società Nazionale "Dante Alighieri" e nel 1957, insieme a
Vincenzo Cappelletti, fondò la Rivista di italianistica "Il
Veltro". Pubblicò circa 200 lavori
sulla storia di Atene e dei Greci, sull'Italia romana, l'età dei Cesari, la
filosofia della storia, la cristologia.
Opere Kalipso, saggio d’una storia di un mito, Bocca, Torino, 1914 Arato
di Sicione e l'idea federale, Le Monnier, Firenze, 1921[2] L'impero ateniese,
1927[3] La dissoluzione della libertà nella Grecia antica, cedam, Padova, 1929
L'Italia romana, Mondadori, Milano, 1934[4] Cesare, pp. 244, Unione
Tipografica, Edizione Torinese, 1941 La vocazione umana, pp. 248, Nuova
Edizione Ivrea, Ivrea, 1943 L'esperienza cristiana, Libreria Draghi, Padova,
1944 Le speranze immortali, Casa Editrice Società per Azioni, Padova, 1945
Trilogia del Cristo, 3 voll.[5], Casa editrice Le tre venezie, 1946-47 Adamo,
pp. 172, Morcelliana, 1950, Brescia Le vie della storia, pp. 241, Sansoni,
Firenze, 1955 Rivelazione e cultura, pp. 189, La Scuola, Brescia, 1956 Storia
dell'uomo avanti e dopo Cristo, pp. 190, Edizioni Pro Civitate Christiana,
Assisi, 1957 L'essenza del Romanesimo, pp. 291, Tumminelli, Roma, 1957 L'inno
del Simposio di S. Metodio Martire, G. Giappichelli, Torino, 1958 Nuova storia
di Roma, Tumminelli, Roma, 1959, seconda edizione [ 1ª edizione 1942], 3 voll.
Scritti di filosofia della Storia, pp. XVIII-810, G. C. Sansoni, 1962
Trasfigurazioni, Aldo Martello, Milano, 1965 Pagine italiane, pp. 332, Il
Veltro, Roma, 1969, ISBN 88-85015-09-3 Misticamente, pp. 179, Stamperia
Valdonega, Verona, 1972 Opere in collaborazione La bonifica benedettina, Aldo Ferrabino,
Augusto Jandolo, Luigina Fasoli, Georges Duby e altri, pp. 199, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1970 Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e
Orientale, A. Ferrabino (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana,
Roma, 1966 Dizionario Enciclopedico Illustrato, 12 voll., A. Ferrabino,
Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Giovanni
Treccani, Roma, 1955 Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno - 1-2 ottobre,
Gino Doria, Aldo Ferrabino, Nino Cortese, Francesco Flora, Ente Autonomo
Volturno, Napoli, 1960 Note ^ da Prefazione in Aldo Ferrabino, Misticamente,
Verona, 1972, pag. 5 ^ Ripubblicato da L'Erma di Bretschneider[collegamento
interrotto], 1972, ISBN 88-7062-263-0 ^ Ripubblicato da L'Erma di Bretschneider[collegamento
interrotto], 1972, ISBN 88-7062-262-2 ^ Fonte BookFinder ^ I vol.: Il figlio
dell'uomo (nella testimonianza di S. Matteo) II vol.: Il figlio di Dio (nella
testimonianza di S. Giovanni) III vol.: Il risorto (nella testimonianza di S.
Paolo) Bibliografia Voce "Aldo Ferrabino" in Biografie e bibliografie
degli Accademici Lincei, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1976, pp.
907–908 Giorgio De Gregori, Simonetta Buttò, Per una storia dei bibliotecari
italiani del XX secolo. Dizionario bio-bibliografico, con la collaborazione di
Giuliana Zagra, presentazione di Alberto Petrucciani, Roma, Associazione
Italiana Biblioteche, 1999, p. 84 [1] Altri progetti Collabora a Wikimedia
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esterni Aldo Ferrabino, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Aldo Ferrabino / Aldo
Ferrabino (altra versione), in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Aldo Ferrabino, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
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Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura Storia Portale Storia
Categorie: Storici italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX
secoloBibliotecari italianiNati nel 1892Morti nel 1972Nati il 26 giugnoMorti il
30 ottobreNati a CuneoMorti a RomaStudenti dell'Università degli Studi di
TorinoProfessori dell'Università degli Studi di TorinoSenatori della I
legislatura della Repubblica ItalianaProfessori dell'Università degli Studi di
PadovaProfessori della Sapienza - Università di RomaRettori dell'Università
degli Studi di Padova[altre]
Ferrando -- Guido Ferrando Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Guido Ferrando Guido Ferrando (Roma, 29 marzo
1883 – Santa Barbara, 11 giugno 1969) è stato un docente, filosofo, teosofo,
anglista, studioso di psicologia e antifascista italiano. Indice 1 Biografia
2 Note
3 Bibliografia
4 Collegamenti
esterni Biografia Si laureò in filosofia e filosofia moderna all'Università di
Pisa. Nel 1920 divenne titolare della cattedra di letteratura inglese presso la
facoltà di lettere dell'Università di Firenze e per oltre un decennio fu
vicedirettore e preside del British Institute della stessa città; fu anche
direttore della Biblioteca Filosofica fiorentina. In qualità di anglista
s'interessò a Shakespeare, Coleridge, Yeats e i trascendentalisti Emerson e
Thoreau, dando di alcuni di questi anche delle versioni. Scrisse per La Voce
nei primi anni della sua pubblicazione. Fu inoltre studioso di psicologia e
redattore della rivista Psiche. Collaborò con Gaetano Salvemini alla propaganda
antifascista e firmò il Manifesto di Benedetto Croce (1925). Nel 1932 espatriò negli Stati Uniti, a New
York, dove continuò la sua attività antifascista, divenne professore d'italiano
e filosofia presso il Vassar College e nel 1934 sposò Wilhelmina Anieka
Leggett, con cui adottò la figlia Vasanti[1]. Contribuì più tardi a fondare la
Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento more
socratico: "l'istruzione è un processo d'indagine dove gli studenti
imparano come pensare, non cosa pensare".
Note ^ RootsWeb's WorldConnect Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE,
ENGLAND and WEST FARMS (BRONX), NEW YORK Bibliografia Guido Ferrando appointed
Chairman of italian dept. in «Vassar Miscellany News», Volume XVII, N. 30, 25
febbraio 1933. Collegamenti esterni Guido Ferrando in Internet Culturale
Besanthill.org (archiviato dall'url originale il 27 marzo 2014).
Mccurdyfamilylineage.com. Controllo di autorità VIAF
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Letteratura Portale Letteratura Categorie: Insegnanti italiani del XIX
secoloInsegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani del XIX secoloFilosofi
italiani del XX secoloTeosofi italianiNati nel 1883Morti nel 1969Nati il 29
marzoMorti l'11 giugnoNati a RomaMorti a Santa Barbara (California)Traduttori
italiani[altre]
ferrari: essential Italian philosopher. Giuseppe
Ferrari (Milano, 7 marzo 1811 – Roma, 2 luglio 1876[1]) è stato un filosofo,
storico e politico italiano. Federalista, repubblicano, di posizioni
democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano
per sei legislature dal 1860 al 1876, e senatore del Regno dal 15 maggio al 2
luglio 1876. Nato a Milano da una famiglia borghese - il padre era medico
- dopo la morte dei suoi genitori, avvenuta quando era ancora giovane, poté
godere di una piccola rendita grazie alla quale visse senza particolari
problemi economici. Ferrari fece i suoi studî nel ginnasio S. Alessandro,
fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo e si laureò in utroque iure a Pavia
nel 1831. Fu però più interessato dalla filosofia, che coltivò nel cerchio
della gioventù milanese che si riuniva attorno a Gian Domenico Romagnosi.
Gli anni in Francia Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutriva per la
cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che nell'aprile
1838 lo portò a Parigi. Ferrari trascorse in Francia i successivi 21 anni. Il
27 agosto del 1840 sostenne l'esame di dottorato in filosofia alla Sorbona, con
la presentazione di due tesi intitolate De religiosis Campanellae
opinionibus[2] e De l'Erreur, nella prima delle quali presentava positivamente
il pensiero religioso di Tommaso Campanella, mentre nella seconda giungeva ad
una conclusione scettica a proposito dei giudizî. Essi infatti non consentono
di giungere alla verità assoluta in quanto essa è indissolubilmente intrecciata
all'errore, così che si può dire che la verità sia un errore relativo e
l'errore una verità relativa. Dal 1838 al 1847 collaborò regolarmente alla
«Revue des Deux Mondes». Introdotto nei circoli intellettuali della
capitale francese da lettere di presentazione di Amedeo Peyron e Lorenzo
Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Pierre-Simon Ballanche,
Ferrari frequentò Victor Cousin, Augustin Thierry, Claude Fauriel, Jules
Michelet e Edgar Quinet, come pure gli intellettuali e gli emigrati italiani
che si riunivano nel salotto della principessa di Belgiojoso. Nel 1840 fu
docente di filosofia al Liceo di Rochefort-sur-mer, e nel novembre di
quell'anno richiese un permesso di residenza permanente in Francia, poi nel
1841 fu nominato professore supplente all'Università di Strasburgo dove,
attaccato dalla Chiesa e dal partito cattolico per le affermazioni irreligiose
e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la
sua presentazione favorevole della Riforma luterana nel dicembre del 1841, fu
anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso
dall'insegnamento nel 1842 e, benché avesse ottenuto la nazionalità francese e
nel 1843 il titolo di "professore aggregato" di filosofia, che lo
abilitava ad insegnare all'università, non fu più reintegrato nell'insegnamento
universitario francese, poiché la raccomandazione di Edgar Quinet per una sua
nomina a professore supplente al Collège de France nel 1847, benché accettata
dalla Facoltà, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione.
L'allontanamento dalla cattedra di Strasburgo fu all'origine del suo lungo
rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso Ferrari" dalla
stampa, s'interessò a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia che
durò sino alla morte di Proudhon, nel 1865. A partire dal 1847 Ferrari fu tra
gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Victor Schoelcher e
Félicité de Lamennais. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano
contro il governo austriaco nel marzo del 1848 fu accanto a Carlo Cattaneo ma,
deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un
altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Victor Cousin) di ottenere una
cattedra all'Università di Strasburgo. Da gennaio a giugno del 1849 insegnò la
filosofia al Liceo di Bourges. Il 2 dicembre 1851 avvenne il colpo di
Stato che mise fine alla Seconda Repubblica francese e portò al trono Napoleone
III; Ferrari, ricercato come repubblicano, si rifugiò à Bruxelles per sfuggire
alla polizia. Il ritorno in Italia Pur conservando il suo appartamento a
Parigi, Ferrari ritornò definitivamente a Milano a metà dicembre del 1859, per
partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello
stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel
collegio di Luino nel 1859 (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni del
27 gennaio-3 febbraio del 1861 (eletto in secondo scrutinio nello stesso collegio
di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Confermato per quindici anni,
Ferrari sedette ala Camera dei deputati sui banchi della Sinistra
ininterrottamente per sei legislature, fino al 1876 (XII Legislatura). Nel 1870
(XI Legislatura) fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne
fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico può essere
riassunto nella formula: " irreligione[3] e legge agraria", cioè
lotta contro la Chiesa e il clericalismo e riforma della proprietà terriera dei
latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. La Chiesa e
i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda, erano per lui i nemici naturali
dell'uguaglianza, non teorica ma concreta e reale. Per quel che concerne
la forma del nuovo stato italiano, Ferrari domandava una costituzione federale
di tipo svizzero o statunitense, con un esercito, delle finanze e delle leggi
federali comuni, ma anche con la più ampia decentralizzazione amministrativa
possibile. Nell'agosto del 1861, dopo essersi recato sul posto, scrisse
una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni[4].
Nel giugno del 1862, contro la sua volontà, Ferrari fu nominato dal re
Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimandò immediatamente
il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva
inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta
ufficiale. Nominato professore di filosofia della storia all'Accademia
scientifico-letteraria di Milano, benché non ci fosse a quel tempo nessuna
indennità parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun beneficio,
Ferrari rinunciò allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur
continuando a insegnare. In Parlamento, Ferrari prese posizione in sede di
discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione
di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele[5], a più
riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia
delle regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante il Ferrari
riconoscesse nell'articolo "La révolution et les réformes en Italie"
del 1848 che: (FR) «L'unité italienne n'existe que dans les régions de la
littérature et de la poésie; dans ces régions, on ne trouve pas de peuples, on
ne peut pas recruter d'armées, on ne peut organiser aucun gouvernement.»
(IT) «L'unità italiana non esiste che nelle regioni della letteratura e della
poesia; in queste regioni non si trovano popoli, non si possono reclutare
eserciti, non si può organizzare nessun governo.» (Joseph Ferrari, La
révolution et les réformes en Italie, Parigi, 1848, p. 10.) esprimeva
ugualmente, nello stesso testo, l'auspicio che l'Unità Italiana si potesse
prima o poi realizzare:[6] (FR) «L'Italie doit tout demander à la liberté: elle
n'a ni lois, ni mœurs politiques , elle ne s'appartient pas; elle n'est ni une,
ni confédérée; elle n'avancera qu'en demandant d'abord des chartes, puis la
confédération, ensuite la guerre, enfin l'unité, si la fatalité le
permet.» (IT) «L’Italia tutto deve domandare alla libertà: essa non ha
leggi, né costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non è né
una né confederata; essa non progredirà se non col cominciare a chiedere costituzioni,
poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo l’Unità, se la fatalità lo
permette» (Joseph Ferrari, La révolution et les réformes en Italie,
Parigi, 1848) L'8 Ottobre 1860 nel Parlamento di Torino sconfessò queste sue
parole scritte 12 anni prima dicendo : Io non muto d'avviso: sono stato
avversario dell'unità italiana, la credo tragica nell'azione sua, destinata a
creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, benché necessaria come
gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle
religioni.[7] Si è pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della
Savoia alla Francia (1860), contro il trattato di commercio con la Francia
(1863) e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del
debito già pontificio (1867) (lui, "francese al peggiorativo", come
amava definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di
Garibaldi per i fatti d'Aspromonte (1862), in favore della Polonia (1863) e
dello spostamento della capitale da Torino a Firenze (1864), prese parte attiva
ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul
brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. Il 15 maggio del
1876 fu fatto senatore. Morì improvvisamente nella notte tra il 1º e il 2
luglio del 1876. Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni
gruppo politico e ad ogni consorteria, Ferrari non ebbe seguito e, come disse
il politico Francesco Crispi intervenendo alla Camera il 3 agosto 1862:
«Ferrari, tutti lo sanno, è una delle illustrazioni del parlamento, ma non
esprime se non che le sue idee individuali» La sua azione parlamentare è
stata così caratterizzata e riassunta:[8] «Ferrari sedeva sui banchi
della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli
errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita
preminenza di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio
ecclesiastico, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi
dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con
l'indisciplinata libertà dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con
loro.» Discorsi parlamentari Dal 1860 al 1875: 1860, 27 maggio,
Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. 1860, 8 e 11 ottobre,
Contro le annessioni incondizionate. 1861, 26 marzo, Sulla interpellanza del
deputato Audinot intorno alla questione romana. 1861, 4 aprile, Interpellanza
relativa alle condizioni delle province meridionali. 1861, 16 e 17 aprile, Il
battesimo del Regno. 1861, 26 e 30 giugno, Contro il prestito di 500 milioni.
1861, 2 dicembre, La questione romana e le condizioni delle province
meridionali. 1862, 15 marzo, La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. 1862,
26 marzo, Sull'esercizio provvisorio (bilancio 1862). 1862, 3 agosto,
Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte). 1862, 29 e 30 novembre,
Interpellanza sugli affari di Roma. 1863, 27 marzo, Sulla questione della
Polonia. 1863, 25 e 7 novembre, Contro il trattato di commercio con la Francia.
1864, 6 maggio, Intorno al bilancio dell'Interno. 1864, 2, 4 e 5 luglio, Sulla
situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. 1864, 10
novembre, Il trasporto della capitale. 1865, 17 gennaio, sul giuramento
politico. 1865, 23 gennaio, sulle giornate di Torino. 1867, Interpellanza al
Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. 1867, 10 e 24 aprile, Contro la
convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex
Stati pontifici. 1867, 21 giugno, 1, 4 e 13 luglio, Contro le trattative con
Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. 1867, 7 e 30 luglio, Sulla
violazione del diritto del non intervento. 1867, 11 e 19 dicembre,
Interpellanza su Mentana. 1868, 7 marzo, Inchiesta sul corso forzoso. 1868, 15
marzo, Per la guardia nazionale. 1868, 14 e 16 marzo, Legge sul macinato. 1868,
27 e 29 aprile, Sulla sospensione dei professori all'Università di Bologna.
1868, 4 agosto, Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. 1868, 25 novembre, 6, 7
e 9 dicembre, Sull'assassinio di Monti e Tognetti. 1869, 13, 21, 22 e 25
gennaio, Sui disordini per la legge sul macinato. 1869, 31 maggio, 1, 2, 4 e 5
giugno, Inchiesta sulla Regia. 1870, 11 aprile, Sul bilancio dell'Interno.
1870, 12 aprile, Sul consiglio Superiore d'Istruzione. 1870, 19 agosto, I fatti
di Francia. 1870, 21 dicembre, Contro la convalidazione del decreto di
accettazione del plebiscito di Roma. 1872, 19 aprile, Interpellanza per la
pubblicazione del Libro verde. 1872, 14 maggio, Contro la politica estera.
1872, 25 e 27 maggio, Sulla nomina dei vescovi. 1872, 21 novembre,
Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo. 1872, 28
novembre, Sulla politica estera. 1873, 18 marzo, Sul ripristinamento
dell'appannaggio al principe Amedeo. 1873, 12 e 25 maggio, La soppressione degli
ordini religiosi in Roma. 1875, 25 gennaio, Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera
universitaria Dal 1841 al 1876: 1841, autunno, Professore supplente di
storia all'Università di Strasburgo. 1862, 9 febbraio, Professore onorario
dell'Università di Napoli. 1862, 28 marzo, Professore di Filosofia della storia
all'Accademia scientifico-letteraria di Milano 1864, Professore ordinario di
Filosofia all'Università di Torino. 1865, 28 giugno, Professore ordinario di
Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e di
perfezionamento di Firenze. Cariche e titoli Dal 1836 al 1876: 1836,
Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. 1861, 21 febbraio, Membro
corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. 1862, 20
maggio, Membro ordinario della Società reale di Napoli. 1864, 18 gennaio,
Membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. 1864, 6
novembre, Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica
istruzione. 1865, 6 dicembre - dicembre 1866, Membro ordinario del Consiglio
superiore della pubblica istruzione. 1870, Socio corrispondente della
Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. 1876, 19 marzo,
Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere dell'Ordine
al Merito Civile di Savoia - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al
Merito Civile di Savoia — 30 aprile 1876 Ufficiale dell'Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro — giugno 1862
Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia —
1862 Il socialismo di Ferrari Come tutti i teorici socialisti italiani del
primo Ottocento, Ferrari è fortemente influenzato dalle teorie francesi, e in
particolare dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce
come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla
rivoluzione francese. Ferrari riconosce come unico fondamento della
proprietà il lavoro: propone quindi un socialismo che, non strettamente in
opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto
di godere dei frutti del proprio lavoro. Più che con la nascente borghesia,
Ferrari si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in
Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese.
Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale: contrario
all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una
federazione di repubbliche, in modo da tutelare le particolarità e l'unicità
delle singole regioni. Questo progetto doveva essere attuato attraverso
un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della
maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Giuseppe Mazzini), i
quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, egli credeva -
abbastanza pragmaticamente - che fosse necessario l'intervento di uno stato
estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati
italiani. L'opinione pubblica doveva essere preparata alla rivoluzione
(che doveva avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori)
da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista (la
questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale). Il futuro
stato federale sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante
assemblee regionali. Insieme a Guglielmo Pepe elaborò il termine
neoguelfismo, per sottolineare il carattere reazionario di restaurare la
presenza attiva della Chiesa nella vita politica dello Stato; Ferrari era
critico verso la formula liberale Libera Chiesa in libero Stato, e affermava la
necessità di una superiorità dello Stato rispetto alla Chiesa, corrispondente
alla superiorità della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto
Stato-Chiesa che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in
Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Note ^ "Consta dai
registri della Parrocchia di S. Satiro , che Giuseppe Michele Giovanni
Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque il 7 di marzo
1811.", "Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi
Ferri, : G. Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, a cura di O. Campa, Milano,
1913, p. 145, nota 1. ^ Giuseppe Ferrari, Sulle opinioni religiose di
Campanella, Milano, FrancoAngeli, 2009 ^ "La fede in Dio è l'errore più
primitivo, più naturale del genere umano [...]. La religione è la pratica della
servitù [...] Il cristianesimo presenta tutti i vizi della rivelazione
soprannaturale [...] l'autorità cristiana conduce alla dominazione dell'uomo
sull'uomo [...] il cristiano è morto, l'uomo deve nascere, è nato, ha già
respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa.", Giuseppe Ferrari,
Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di Giuseppe Ferrari, a cura
di Silvia Rota Ghibaudi, Torino, UTET, 1973, p. 807-831. ^ Camera dei Deputati,
Atti del Parlamento Italiano - sessione del 1861, vol. III discussioni della
Camera dei Deputati, Torino, Eredi Botta, 1862. ^ Atti del parlamento italiano
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(FR) La philosophie catholique en Italie, 1844 (FR) La révolution et les
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depuis 1830, 1845 (FR) La révolution et les réformes en Italie, 1848 (FR)
Machiavel juge des révolutions de notre temps, 1849 (trad. it 1921) (FR) Les
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Filosofia della rivoluzione (vol. 1), 1851 (ried. 1873, 1922, 1928, 1942)
Filosofia della rivoluzione (vol. 2), 1851 L'Italia dopo il colpo di Stato del
2 dicembre 1851, 1852 Opuscoli politici e letterari ora per la prima volta
tradotti, 1852 La mente di Giambattista Vico, 1854 (FR) Histoire des
révolutions d'Italie, ou, Guelfes et Gibelins, 1856-1858 (ried. 2012) (FR)
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Siciles, 1860 Corso sugli scrittori politici italiani, 1862 (ried. 1929 con
pref. di Adriano Olivetti) Corso sugli scrittori politici italiani e stranieri,
1863 Il governo a Firenze, 1865 (FR) La Chine et l'Europe, 1867 La mente di
Pietro Giannone, 1868 Lettere chinesi sull'Italia, 1869 Storia delle Rivoluzioni
d'Italia, 1872 (ried. 1921) Teoria dei periodi politici, 1874 L'aritmetica
nella storia, 1875 Proudhon, 1875, (ried. a cura di Andrea Girardi, Napoli,
Edizioni Immanenza, 2015 ISBN 9788898926541) La Rivoluzione e i rivoluzionari
in Italia (dal 1796 al 1844), 1900 (ried. 1952) Il genio di Vico, 1916 (ried.
1928) I partiti politici italiani (dal 1789 al 1848), 1921 Le più belle pagine
di Giuseppe Ferrari, 1927 (ried. 1941) Opere di Giandomenico Romagnosi, Carlo
Cattaneo e Giuseppe Ferrari, a cura di Ernesto Sestan, 1957 Scritti politici, a
cura di Silvia Rota Ghibaudi, 1973 I filosofi salariati, a cura di L. La Puma,
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Giuseppe Ferrari", Nuova rivista storica, 1975, 59, p. 186-190. Clara M.
Lovett (ed.), "Il 1848 in Lombardia dalla corrispondenza inedita di
Giuseppe Ferrari", Nuova rivista storica, 1975, 59, p. 470-480. Clara M.
Lovett (ed.),"Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere
inedite di Jean Gustave Wallon a Giuseppe Ferrari", Rassegna storica del
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"Joseph Ferrari et les droits de la liberté", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo
stato italiano, Milano, 1992, p. 193-208. Luigi Zanzi, "Giuseppe
Ferrari:un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano,
1992, p. 167-192. Stefano Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico
di Giuseppe Ferrari", BAUM, Venezia, 1986. Voci correlate Gian Domenico
Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli
Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo Altri
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secoloNati nel 1811Morti nel 1876Nati il 7 marzoMorti il 2 luglioNati a
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d'ItaliaPersonalità del RisorgimentoSenatori della XII legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della VII legislatura del Regno di SardegnaDeputati dell'VIII
legislatura del Regno d'ItaliaDeputati della IX legislatura del Regno
d'ItaliaDeputati della X legislatura del Regno d'ItaliaDeputati dell'XI
legislatura del Regno d'ItaliaSepolti nel Cimitero Monumentale di
MilanoFederalisti[altre]. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
ferrari: Ferrari (alias
Novatore) Renzo Novatore Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search «Oggi cerco un'ora sola di furibonda
anarchia e per quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la
mia vita.» (Renzo Novatore) Renzo Novatore Renzo Novatore,
pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari (Arcola, 12 maggio 1890 – Genova, 29
novembre 1922), è stato un anarchico, poeta e filosofo italiano.
Indice 1Biografia 1.1L'anarchico disertore 1.2 L'antifascismo e la morte
2 Il pensiero 3Opere scritte 4 Note 5Bibliografia 6Altri progetti 7Collegamenti
esterni Biografia Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, Abele
Ricieri Ferrari frequentò la scuola soltanto per alcuni mesi prima di
abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare nei
campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza di
volontà, lo spinse però ad un personalissimo studio da autodidatta che lo portò
a leggere Max Stirner, Friedrich Nietzsche, Georges Palante, Oscar Wilde,
Henrik Ibsen, Arthur Schopenhauer, Charles Baudelaire.[1] Non rinunciò
comunque ad elaborare una visione autonoma, che costruì giorno dopo giorno,
come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attività
meditativa.[1] Si sposò con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei
quali morto in tenera età. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle
orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono
nell'ambito della produzione artistica e letteraria.[1] Questo nonostante fosse
contrario alla famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: «O
ciniche prostitute, o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il
mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi
occhi profondi. Voi siete il sole più bello che oggi il sole bacia. Voi
siete di un'altra razza. E l'anima vostra è un canto, un sogno la vostra vita.
Scardinate il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canterò
per voi. Il resto è fango!» (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La
prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un
incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte tra il 15 e
il 16 maggio: le indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare
i responsabili del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i
quali anche Abele Ferrari.[1] Contrario alla guerra, nel 1915 venne
richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione
e condannato in contumacia alla pena di morte. Sarà poi arrestato e scarcerato
in seguito ad amnistia.[1] «E le rane partirono... Partirono verso il
regno della suprema viltà umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee.
Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danzò macabramente sul
mondo. Danzò con piedi di folgore... Danzò e rise... Rise e danzò... Per cinque
lunghi anni. Ah, Come è volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali
di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il perché...» (Dal
poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo
di Renzo Novatore, fu protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e
Tintino Persio Rasi di alcuni dei più importanti episodi della lotta operaia
del biennio rosso nella Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non
si comprende se non tenendo conto che allora La Spezia era una delle più
importanti roccaforti militari italiane, circondata da una serie di forti e
polveriere che ne dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un
arsenale militare e di alcune delle più importanti industrie belliche. In quel
periodo molti lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che
era in molti anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la
rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata
decisa.[1] L'antifascismo e la morte Coerente fino alla fine nella prima
lotta al nascente fascismo, entrò nel mirino delle camicie nere, coadiuvate
dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi l'incolumità; per
sopravvivere si unì al bandito piemontese Sante Pollastri che era noto anche
per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di rapinatori, data
la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche
tempo dopo la banda di Pollastri rapinò un importante cassiere di una banca,
che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier
Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e morì; sebbene probabilmente
fu Pollastri, che aveva già diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle
spalle, ad esplodere il colpo, al processo del 1931 costui avrebbe accusato il
defunto Novatore.[1] Le forze dell'ordine, su incarico del governo
Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Il 29 novembre 1922,
intorno a mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e
Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel
genovese, perché avevano individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo.
Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro componente del
gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui carabinieri,
scatenando la risposta di quest'ultimi[2]. Nello scontro a fuoco rimasero
uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo crivellato di
colpi si rivelò essere quello dell'anarchico Abele Ricieri Ferrari, noto come
Renzo Novatore, ricercato per attività sovversiva e antifascismo, mentre
Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare. Novatore, al momento della
morte, aveva con sé una pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba
a mano ed un anello con spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro,
per suicidarsi se fosse caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un
documento falso recante il nome di Giovanni Governato[1]. Il pensiero
Novatore si definiva anarchico individualista. Lottava per la libertà e per i
diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni
del 1919, che non si potesse fare affidamento sul popolo: «Le masse che
sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la
borghesia lo sanno e sogghignano.» «Io so, noi sappiamo, che cento uomini
- degni di questo nome - potrebbero fare quello che cinquecentomila
"organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai capaci di
fare.» Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta
si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo
fine a sé stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento
anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione
anarco-comunista).[1] «L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e
lo intendo, non ha per fine né il Socialismo, né il Comunismo, né l'Umanità.
L'individualismo ha per fine sé stesso.» (Dallo scritto Il mio
individualismo iconoclasta in Iconoclasta!, 1920) «L'anarchia è per me un mezzo
per giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per
la realizzazione di quella. Se così fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma.
Se i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano
l'anarchia come un mezzo d'individuazione.» «Nella vita io cerco la gioia
dello spirito e la lussuriosa voluttà dell'istinto. E non m'importa sapere se
queste abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i
vorticosi abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo
e nessuna anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono
scoperto ho considerato me stesso come meta suprema.» Rimaneva salda nel
suo pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessità
irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo,
combatteva come un demonio. Su di lui restò sempre fortissima
l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche[1]. Opere scritte Le
opere e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime
fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del
movimento anarchico[1]. Le sue firme compaiono con molti pseudonimi
diversi (oltre al già citato "Renzo Novatore", anche "Mario
Ferrento", "Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane"[3],
"Brunetta l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche
dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati
(Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine
Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia),
Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi). Da
ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla
creatore" e "Al di sopra dell'arco". Libri ed
opuscoli Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla
creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", 1924. Renzo Novatore,
prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro,
illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli
dell'Etna", 1924. Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio
dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, 1939. Renzo Novatore, prefazione
di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia,
Albatros, 1949. Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario
Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, 1950. Renzo Novatore,
prefazioni di Totò Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G.
Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, 1951. Renzo
Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Totò Di Mauro, illustrazioni
di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, 1978. Renzo
Novatore, Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, 1993. Renzo Novatore,
a cura di Alberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note
biografiche, Pisa, BFS Edizioni, 1996. Renzo Novatore, Toward the Creative
Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, 2000. Renzo Novatore,
introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni
Anarchismo, 2009. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press, 2012. Renzo Novatore,
Le rose, dove sono le rose?, Gratis Edizioni, 2013. Renzo Novatore, Flores
silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos, 2013. Note Novatore: una
biografia Archiviato il 22 luglio 2011 in Internet Archive. ^ Renzo Novatore -
Anarchopedia, su ita.anarchopedia.org. URL consultato il 17 dicembre 2018. ^
dal personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray
di Oscar Wilde Bibliografia Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario
biografico degli anarchici italiani, 2 voll., Pisa, Biblioteca Franco
Serantini, 2003-2004. ISBN 88-86389-86-8, ISBN 88-86389-87-6. Massimo Novelli,
La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, 2007. ISBN
978-88-86771-89-4. Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
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Antifascismo (1919-1943) Controllo di autoritàVIAF (EN) 49309213 · ISNI (EN)
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Ferraris – Antonio De Ferraris
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De Ferraris, detto il Galateo Antonio De Ferraris, a volte scritto “De
Ferrariis”, detto il Galateo (Galatone, 1444 – Lecce, 12 novembre 1517), è
stato un medico, filosofo e astronomo italiano, appartenente alla minoranza
greca del Salento[1]. Indice 1 Biografia 2 Il profilo culturale 3
Opere 4 Riconoscimenti 5 Note 6 Bibliografia 7 Altri progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Antonio De Ferraris[2] nacque a Galatone fra il 1444 e il
1448[3], e dal luogo di nascita derivò il nome “Galateo”. Il padre, il notaio
Pietro De Ferraris, morì quando Antonio era ancora in giovanissima età, e
perciò la madre Giovanna d'Alessandro lo affidò ai frati basiliani del paese
che gli impartirono le nozioni formative di base. Chiuso il primo ciclo
scolastico, proseguì gli studi a Nardò spaziando fra filosofia antica,
letteratura greca e latina, medicina e geografia, discipline verso le quali
mostrò vivo interesse. Passò quindi a Napoli, dove dal 1465 approfondì le
discipline umanistiche e la medicina[4]. Antonius Galateus.JPG Molte
furono le conoscenze che fece all'Accademia napoletana, dove fu ammesso attorno
al 1470. Lì entrò in contatto con un gran numero di intellettuali: Benedetto
Gareth detto il Chariteo, Paolo e Giovanni Attaldi, Giovanni Pontano, Teodoro
Gaza, Giovan Francesco e Galeazzo Caracciolo, Giovanni Pardo, fra' Roberto da
Lecce, Jacopo Sannazaro. Con l'aiuto di Girolamo Castello ottenne il diploma di
medicina a Ferrara[4], dove soggiornò praticando la professione di medico; si
trasferì poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della
reggia partenopea[2], stimato a tal punto da divenire medico della corte di
Ferdinando I d’Aragona[3]. Verso il 1478, per il suo carattere riservato
e modesto, si adattò a svolgere la funzione di medico condotto a Gallipoli[2],
dove si sposò con l'aristocratica Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La
coppia ebbe cinque figli: Antonino, Lucrezia, Galeno, Betta e Francesca. La
serenità della sua vita fu turbata nel 1480 dall'invasione di Otranto da parte
dei Turchi, e De Ferraris cercò rifugio a Lecce annotando gli eventi drammatici
che in seguito sarebbero stati il canovaccio per un'opera composta in
latino[2]. Fra il 1481 e il 1495, ormai medico affermato, si spostò
ripetutamente fra Napoli, apprezzato dottore al servizio della corte aragonese,
e la Puglia, sua zona d'origine e di residenza. Iniziò anche a scrivere,
inizialmente in forma epistolare: in Ad Hermolaum Barbarum mandò i
ringraziamenti a Ermolao Barbaro per la dedica ricevuta; è seguente la redazione
di Altilio Galateus εὐ πράττειν e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum de
distinctione humani generis et nobilitate; e ancora, negli anni novanta del XV
secolo, una seconda epistola a Barbaro e il saggio Ad Marinum Pancratium de
dignitate disciplinarum[4]. Dopo la morte del re Ferdinando e quella, nel
1495, di Alfonso II che gli era succeduto, De Ferraris abbandonò Napoli non
prima di avere composto l’Antonius Galateus medicus in Alphonsum regem
epitaphium, e tornò a Lecce dove formò assieme ad altri amici studiosi
l'Accademia lupiense, e dove scrisse Ad Chrysostomum De villae incendio, per
celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta dal fuoco. Dal
1498 al 1501 fu a Napoli, convocato dal re Federico d’Aragona che lo volle con
sé, ma l'inasprimento del conflitto franco-spagnolo lo spinse a ritornare nella
provincia salentina. Dal 1503 godette dell'ospitalità di Isabella d’Aragona,
presso cui ebbe modo di comporre in latino lavori filosofici, cronachistici e
commemorativi, assieme all’Esposizione del Pater Noster, unico scritto in
volgare che ci è stato tramandato[4]. Una delle pochissime trasferte dal
Salento fu quella che l'accademico effettuò a Roma presso il Papa Giulio II, a
cui offrì una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata
nella biblioteca di Casole[3]. Divenuto prete di rito greco a seguito della
morte della moglie, De Ferraris morì a Lecce nel 1517[2]. A lui è
dedicato il cenotafio nella chiesa della Madonna del Rosario (eretto nel 1788
dall'Arditi). Il profilo culturale Antonio De Ferraris De Ferraris
fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi contemporanei, riuscì a
coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni scientifiche e, nel suo
caso, anche con una apprezzata pratica medica. Le sue conoscenze erano di ampio
respiro, e il suo bagaglio filosofico includeva la cultura classica di
Aristotele, Platone ed Euclide, e quella araba di Avicenna e Averroè. Considerò
che la filosofia classica era stata traviata dai pensatori medievali, come Alberto
Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salvò solo Severino Boezio e
la sua Consolatio philosophiae. In campo letterario era un estimatore della
lingua spagnola, anche se prediligeva la civiltà classica e autori come Omero,
Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio, Virgilio e
Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante, Petrarca, il
Morgante e Sannazaro fra i tanti. De Ferraris si interessò anche delle opere
geografiche di Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze
associò lo studio di medicina, cominciando dai dottori del mondo classico (fra
gli altri Ippocrate, Galeno) e arabo (Serapione il Vecchio)[4].
Nonostante questa cultura ampia e poliedrica, De Ferraris non trascurò gli usi
e i costumi della sua terra d'origine, e descrisse in termini molto
particolareggiati le zone del salentino, illustrando con realismo Gallipoli ed
esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue opere. Ma non sfuggì
all'intellettuale il quadro generale della società dei suoi tempi e della
corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa soggetto
degli scritti di De Ferraris nei quali criticò la diffusione delle consuetudini
spagnole[4]. Il suo De Situ Japygiae, scritto nel 1510-11, circolò a
lungo manoscritto fino alla sua pubblicazione a Basilea (1553) ad opera del
duca di Oria Giovanni Bernardino Bonifacio, e fu per secoli il più autorevole
trattato storico-geografico sul Salento. Mentre era a Bari (1503) come
medico di Isabella d'Aragona (vedova di Gian Galeazzo Sforza) e precettore di
sua figlia Bona Sforza (futura regina di Polonia), ebbe notizia della
"Disfida di Barletta" e ne narrò per primo la storia nel suo De pugna
tredecim equitum. Opere Oltre a decine di saggi e trattatelli la cui
datazione è vaga o impossibile da determinare, De Ferraris compose le seguenti
epistole in latino: 1495-1502 - Ad Accium Sincerum de inconstantia humani
animi 1495-1502 - Ad Accium Sincerum de villa Laurentii Vallae 1495-1502 - Ad Franciscum
Caracciolum de beneficio indignis collato 1495-1502 - Marco Antonio Ptolomaeo
Lupiensi episcopo Antonius Galateus medicus 1495-1502 - Antonio Ptolomaeo
Lupiensi episcopo Antonius Galateus medicus 1495-1502 - Dialogus de Heremita
1495-1502 - De podagra 1495-1502 - Ad Chrysostomum, Antonius Galateus Gelasio
suo salutem de nobilitate 1495-1502 - Ad Chrysostomum de morte fratris
1495-1502 - Ad illustrem comitem Potentiae 1495-1502 - Ad comitem potentiarum
1495-1502 - Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis militis
1495-1502 - Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum 1495-1502 - Federico
Aragonio regi Apuliae Antonius Galateus medicus sanitatem 1495-1502 - Ad
Chrysostomum de morte Lucii Pontani 1495-1502 - Ad Ferdinandum ducem Calabriae
1503 - Antonius Galateus salutem 1503 - Galateus ad Chrysostomum de pugna
tredecim equitum 1503 - Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani 1504-5 - Ad
Prosperum Columnam 1504-5 - Galateus medicus ad Chrysostomum de Prospero
Columna 1504-5 - Antonii Galatei Liciensis phiilosophi et medici
praestantissimi de situ elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium 1504-8 -
Esposizione del Pater noster 1505-8 - De educatione 1507 - Ad illustrem dominam
Bonam Sforciam 1507-10 - Antonius Galateus ad Antonium de Caris Neritinum
episcopum 1510 - Ad Catholicum regem Ferdinandum 1510 - Beatissimo PP. Iulio II
pontifici maximo Antonius Galateus 1510-1 - Antonii Galatei philosophi et
medici praestantissimi De situ Japigiae ad clarissimum virum Ioannem Baptistam
Spinellum, comitem Choriati 1512 - Antonii Galatei medici Lupiensis epistola ad
Nicolaum Leonicenum medicum 1512-3 - Petro Summontio Antonius Galateus medicus
bene valere (De suo scribendi genere) 1512-3 - Antonius Galateus medicus
Summontio suo bonam valetudinem (Callipolis descriptio) 1512-4 - Ad Pyrrum
Castriotam 1513 - Illustri viro Belisario Aquevivo Galateus medicus bene valere
(Vituperatio litterarum) 1513 - Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas 1513-4 -
Galateus medicus Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V.[4] De Situ Japygiae
(Basilea 1553), trad. italiana di Gabriella Miccoli La Iapigia. Itinerari e
luoghi dell'antico Salento, a c. di Vittorio Zacchino (Lecce, Messapica
Editrice, 1975) Callipolis Descriptio (trad. italiana di Amleto Pallara,
Gallipoli, a c. di V. Zacchino, Lecce, Messapica Editrice 1977). Riconoscimenti
Diverse città pugliesi hanno intitolato una via "Antonio De
Ferraris", come Bari, Collepasso (LE), Manduria (TA), Poggiardo (LE),
Santa Maria al Bagno (Nardò) o Taurisano (LE). Galatone, che ha una
strada "Antonio Galateo", onorato il poeta nel marzo 2017 con
l’apposizione di una lapide dedicata alla sua memoria, in Piazza Crocefisso,
evento inserito nel programma delle Celebrazioni del V centenario della morte
di Antonio De Ferraris. Note ^ Leuzzi 2014. Antonio Galateo, su
scienzasalento.unile.it. URL consultato il 1º settembre 2013. Antonio De
Ferraris Galateo, Città di Galatone. URL consultato il 1º settembre 2013
(archiviato dall'url originale il 2 luglio 2010). A. Romano, Antonio De
Ferraris, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 33, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1987. URL consultato il 31 agosto 2013.
Bibliografia Angelo Romano, DE FERRARIIS, Antonio, in Dizionario biografico
degli italiani, XXXIII vol., Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1987.
URL consultato il 1º novembre 2018. Altri progetti Collabora a Wikimedia
Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio De
Ferrariis Collegamenti esterni De Ferràriis, Antonio, in Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 1º
novembre 2018. Galatone, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 1º novembre 2018. «De Ferràriis,
Antonio. - Umanista (Galatone 1444 o 1448 - Lecce 1517), detto il Galateo dalla
sua patria». Controllo di autorità VIAF (EN) 102733 · ISNI (EN) 0000 0001 0854
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Maurizio Ferraris (Torino, 7 febbraio 1956) è un filosofo e accademico
italiano. Dal 1995 è professore ordinario di filosofia teoretica presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia (dal 2012 "Dipartimento di Filosofia e
Scienze dell'Educazione") dell'Università degli Studi di Torino. Presso
l'ateneo torinese dirige il LabOnt (Laboratorio di Ontologia dal 2018 Centro
interdipartimentale di ontologia) di cui è stato Direttore dal 1999 al 2015 e
di cui è Presidente dal 2016. Ha studiato a Torino, Parigi (prendendo un
diploma d'études approfondies con Jacques Derrida alla Ecole des Hautes Etudes
en Sciences Sociales), all'Università di Heidelberg e insegnato in importanti
università europee. Dirige la Rivista di Estetica ed è nel comitato direttivo
di Critique, del Círculo Hermenéutico editorial e di aut aut. Dal 1989 al 2010
ha collaborato al supplemento culturale de Il Sole 24 ORE; dal 2010 scrive per
le pagine culturali de la Repubblica. È inoltre editorialista per la Neue
Zürcher Zeitung. Dopo aver scritto e condotto Zettel - Filosofia in movimento
per Rai Cultura, dal 2015 conduce Lo Stato dell'Arte su Rai 5, dedicato
all'approfondimento di temi d'attualità, politica e cultura. In ambito
teorico, ha legato il suo nome al rilancio dell'estetica come teoria della
sensibilità, a un'ontologia sociale intesa come ontologia dei documenti
(documentalità) e a un superamento del postmodernismo attraverso la proposta di
un nuovo realismo. Ha scritto Henning Klüver, nella Süddeutsche Zeitung del 3
gennaio 2014: «Uno spettro si aggira, e non solo per l'Europa. Lo spettro
del “nuovo realismo”. Il concetto di “nuovo realismo” è stato coniato dal
filosofo italiano Maurizio Ferraris dell'Università di Torino. [...] Il
dibattito sul realismo è oggi condotto in diverse parti del mondo,
dall'argentino José Luis Jerez, passando dal messicano Manuel De Landa e
dall'americano Graham Harman, per arrivare fino al tedesco Markus Gabriel.
[...] Grazie ai suoi innumerevoli contributi come colonnista di quotidiani come
Il Sole 24 Ore e la Repubblica e a una sua trasmissione televisiva per il
canale culturale Rai Scuola (Zettel - Filosofia in movimento), Ferraris è
divenuto nel frattempo una celebrità della scena filosofica italiana, sapendo
abbinare il lavoro scientifico alle comparse pubbliche – attirandosi però allo
stesso tempo aspre critiche.» ( Henning Klüver, Ich bin, also denke ich
(PDF), in Süddeutsche Zeitung, traduzione italiana di Simone Maestrone, 3
gennaio 2014. URL consultato il 10 ottobre 2015.) Indice 1 Biografia 2 Pensiero 2.1 L'ermeneutica
2.2 La
svolta 2.3 Il
realismo e l'ontologia critica 2.4 Dall'ontologia
sociale alla Documentalità 2.5 Nuovo
Realismo e critiche 3 Premi
4 Opere
5 Media
e divulgazione 6 Note
7 Bibliografia
8 Voci
correlate 9 Altri
progetti 10 Collegamenti
esterni Biografia Ferraris si laurea in Filosofia a Torino nel 1979, sotto la
guida di Gianni Vattimo. Nei primi anni la sua attività si divide tra
insegnamento, ricerca e giornalismo culturale. Dal 1979 al 1988 è redattore,
poi condirettore, di Alfabeta, il cui comitato direttivo comprende, tra gli
altri, Antonio Porta, Nanni Balestrini, Maria Corti, Umberto Eco, Francesco
Leonetti, Pier Aldo Rovatti e Paolo Volponi. All'inizio degli anni
ottanta inizia il suo rapporto con Jacques Derrida, che segna profondamente la
sua formazione. Sul piano accademico, dopo due anni di insegnamento a Macerata
(1982-83), nel 1984 inizia a insegnare a Trieste, inframmezzando l'attività didattica
con una serie di soggiorni a Heidelberg dove, a contatto con Hans-Georg
Gadamer, intraprende studi di ermeneutica. Nel 1995 Ferraris viene chiamato a
Torino, come professore ordinario di Estetica. Passerà all'insegnamento di
Filosofia Teoretica nel 1999. Direttore di programma (cioè insegnante) al
Collège international de philosophie dal 1998 al 2004, nel 1999 fonda il
Laboratorio di Ontologia (LabOnt) e il Centro interuniversitario di Ontologia
Teorica e Applicata (CTAO). Pensiero L'ermeneutica I primi interessi di
Ferraris si rivolgono alla filosofia post-strutturalista francese, con autori
come Jean-François Lyotard, Michel Foucault, Jacques Lacan, Gilles Deleuze. Un
ruolo particolare nella formazione del pensiero del filosofo italiano è stato rivestito
indubbiamente da Jacques Derrida, con cui Ferraris intrattiene un rapporto di
ricerca, e poi di amicizia, a partire dal 1981. Sono testimonianza di questa
fase del suo pensiero le opere: Differenze (1981), Tracce (1983) e La svolta
testuale (1984). Specificamente a Derrida, Ferraris ha dedicato: Postille a
Derrida (1990), Honoris causa a Derrida (1998), Introduzione a Derrida (2003),
Il gusto del segreto (1997) e, infine, Jackie Derrida. Ritratto a memoria
(2006). Lavorando invece a contatto con Gadamer, a partire dai primi anni
Ottanta Ferraris si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti
dell'ermeneutica del Novecento (1986), Ermeneutica di Proust (1987), Nietzsche
e la filosofia del Novecento (1989) e soprattutto Storia dell'ermeneutica (1988).
La svolta Alla fine degli anni ottanta Ferraris sviluppa un'articolata critica
alla tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria
di una svolta, del 1990, postfazione alla conferenza di Heidegger La svolta),
che fa valere, in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come
contestazione del retaggio romantico e idealistico che condiziona tale
tradizione. La conclusione di questo percorso critico sfocia nella
riconsiderazione del rapporto tra lo spirito e la lettera e in un ribaltamento
della loro contrapposizione tradizionale. Spesso i filosofi e gli uomini comuni
disprezzano la lettera – le norme e i vincoli che sono istituiti attraverso
documenti e iscrizioni di vario genere – anteponendole lo spirito – il pensiero
e la volontà – e riconoscendo la libera creatività del secondo rispetto alla
prima. Per Ferraris è la lettera a precedere e fondare lo spirito. Si consuma
così il passaggio alla seconda fase del pensiero del filosofo italiano.
Il realismo e l'ontologia critica Ferraris abbandona il relativismo ermeneutico
e la decostruzione di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo
realistico secondo cui l'«oggettività e realtà, considerate dall'ermeneutica
radicale come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto - e
proprio in conseguenza della contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è
detto - la sola tutela nei confronti dell'arbitrio»[1]. Questo principio,
valido in ambito morale, ha nel riconoscimento di una sfera di realtà
indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento teorico (si veda, in
particolare, L'ermeneutica del 1998). Il mondo esterno, riconosciuto come
inemendabile, e il rapporto tra schemi concettuali ed esperienza sensibile
(l'estetica, riportata al suo significato etimologico di “scienza della
percezione sensibile”, acquisisce una rilevanza primaria – si vedano, in
particolare, Analogon rationis (1994), Estetica (1996, con altri autori),
L'immaginazione (1996), Experimentelle Ästhetik (2001) ed Estetica razionale
(1997)) sono i temi dominanti della seconda fase del pensiero ferrarisiano, che
rilegge Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino Paolo
Bozzi (Il mondo esterno (2001) e Goodbye Kant! (2004)). La “ontologia
critica” ferrarisiana riconosce il mondo della vita quotidiana come largamente
impenetrabile rispetto agli schemi concettuali. Il mancato riconoscimento di
questo principio risale alla confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed
epistemologia (la sfera del sapere), di cui Ferraris articola una
tematizzazione critica fondata sulcarattere di inemendabilità che è proprio
dell'essere rispetto al sapere (si vedano in particolare: Ontologia (2003)
e Storia dell'ontologia (2008, con altri autori). La sua riflessione sul
realismo sfocia, nel 2011, nell'elaborazione del Manifesto del New
Realism[2]. Dall'ontologia sociale alla Documentalità L'esito naturale
dell'ontologia critica è il riconoscimento – accanto al mondo inemendabile – di
un dominio di oggetti in cui la filosofia trascendentale kantiana trova la sua
adeguata applicazione: gli oggetti sociali. Questa nuova fase del suo pensiero
si apre idealmente con la pubblicazione di Dove sei? Ontologia del telefonino
(2005) e prosegue con Babbo Natale, Gesù adulto (2006), Sans Papier (2007), La
fidanzata automatica (2007), Il tunnel delle multe (2008). La tesi di fondo è
che la distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento
dell'autonomia ontologica della sfera degli oggetti sociali (regolata dalla
legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente di correggere la tesi
derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del testo"
(letteralmente, e asemanticamente, “non c'è fuori testo”) per teorizzare,
contro Searle, che “niente di sociale esiste fuori del testo”. Si approda
così alla fase più matura del pensiero di Ferraris, esposta compiutamente e
sistematizzata in quella che può essere considerata la sua summa,
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce (2009). In seguito la sua
bibliografia si arricchisce di piccole ma significative metafisiche dei costumi
artistici e scritturali - finanche ultratecnologici - con Piangere e ridere
davvero (2010) e Filosofia per dame (2011), vere e proprie grammatologies,
insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come
del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente
quelli per Alfabeta e Alfabeta2). Nuovo Realismo e critiche La svolta
realista compiuta da Maurizio Ferraris a partire dalla formulazione
dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come ontologia della percezione
e dell'esperienza sensibile (Estetica razionale 1997, nuova edizione 2011),
trova un'ulteriore declinazione nel Manifesto del nuovo realismo (2012). Il
Nuovo realismo, i cui principi sono anticipati da Ferraris in un articolo
uscito su Repubblica l'8 agosto 2011 e che avvia un imponente dibattito, è in
primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici
(l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico); da
queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle
derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei
realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire
dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra
individuo e realtà); da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla
degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace
della relazione con il mondo che questa ha indotto: il Nuovo Realismo si
identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia,
Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e
convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni
che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti
extrafilosofici[3]. In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per
quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia
culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di
sociologia della comunicazione e linguistica[4]. In campo internazionale, il
Manifesto del nuovo realismo ha già avuto due traduzioni (cilena e spagnola,
quest'ultima accresciuta con un nuovo saggio di Ferraris e accompagnata da
ampia introduzione di Francisco José Martín anticipata sulla Revista de
Occidente[5]) seguite dall'uscita delle traduzioni inglese (Suny Press),
tedesca (Klostermann), francese (Hermann), svedese (Daidalos) e dalla recente
traduzione cinese (BIT Press). Sempre sul piano internazionale, il nuovo
realismo è stato discusso dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung, dalla Neue
Zürcher Zeitung e dalla Süddeutsche Zeitung[6] e si annuncia un fascicolo
monografico del "Monist"[7]. Inoltre, il tema è rielaborato sia
in Warum es die Welt nicht gibt di Markus Gabriel (Berlin, Ullstein Verlag
2013), sia nel Manifiesto del nuevo realismo analógico (Buenos Aires, Círculo
Herméneutico 2013) di Mauricio Beuchot (México-UNAM) e José Luis Jerez
(Argentina-UNCo). Per ciò che riguarda l'Italia, il nuovo realismo ha
sollecitato una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare
da Della realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti 2011 di Gianni Vattimo
e Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum, 2011 di Pier Aldo Rovatti sino
a Il senso dell'esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,
2012, di Markus Gabriel, Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione (a
cura di M. De Caro e M. Ferraris), Torino, Einaudi, 2012 e a Sociologia e nuovo
realismo, Milano-Udine, Mimesis, 2013 di Luca Martignani (che fa parte della
collana “Nuovo Realismo” diretta da Ferraris e De Caro, che conta numerose
pubblicazioni)[8]. Al Nuovo Realismo di Ferraris hanno aderito sia
filosofi di formazione analitica, come Mario De Caro (cfr. Bentornata Realtà, a
c. di De Caro e Ferraris, 2012), sia filosofi di formazione continentale, come
Mauricio Beuchot (Manifesto del realismo analogico, 2013), Luca Taddio (Verso
un nuovo realismo, 2014), e Markus Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia
neorealista, 2014), che ha raccolto il sostegno di pensatori come Umberto Eco,
Hilary Putnam e John Searle, e che si incrocia con altri movimenti realisti
sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze affini, come il “realismo
speculativo” del filosofo francese Quentin Meillassoux e del filosofo
statunitense Graham Harman. Per il nuovo realismo, il fatto che sia sempre più
evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e
della realtà non comporta che si debba dire addio alla realtà, alla verità o
alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso.
Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la
linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito
del mondo. In questo quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un
realismo negativo: la resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi
concettuali non va considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una
prova dell'esistenza di un mondo solido e indipendente. Se le cose stannoin
questi termini, però, il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo
(Cfr. M. Ferraris, Realismo Positivo, Rosenber e Sellier 2013): nella sua
resistenza larealtà non costituisce soltanto un limite, ma offre anche delle
possibilità e delle risorse, il che spiega come, nel mondo naturale, forme di
vita differenti possano interagire nello stesso ambiente senza condividere
alcuno schema concettuale; e come, nel mondo sociale, le intenzioni e i
comportamenti umani siano resi possibili da una realtà che è anzitutto data, e
che solo in un secondo momento potrà essere interpretata e, se necessario,
trasformata. Esauritasi la stagione del postmoderno, il nuovo realismo ha
intercettato un diffuso bisogno di rinnovamento in ambiti extradisciplinari
come l'architettura, la letteratura, la pedagogia, la medicina. L'ultima
corrente filosofica inaugurata da Maurizio Ferraris ha provocato resistenze e
critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e del pensiero
debole. Premi Foto del 2007 1990 Premio filosofico
"Claretta" 2005 Premio filosofico "Valitutti" 2006 Premio
filosofico "Castiglioncello" 2007 Premio "Ringrose",
Università di Berkeley 2008 Premio filosofico "Viaggio a Siracusa"
2012 Premio filosofico "Capalbio" 2017 Premio "Humboldt
Forschung", Univeristà di Monaco 2018 Premio filosofico "Elio
Matassi" Opere 1981 Differenze. La filosofia francese dopo lo
strutturalismo, Milano: Multhipla, pp. 228, seconda edizione, 2007 Milano:
Edizioni Albo Versorio, pp. 158 1983 Tracce. Nichilismo moderno postmoderno,
Milano: Multhipla, pp. 174; seconda edizione, Milano: Mimesis, 2006, pp. 173
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Ontology of the Cell Phone, New York: Fordham UP, pp. 248 (sr) Gde si?
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trasformazione digitale, Torino: Rosenberg&Sellier, pp. 11-120 2019 From Fountain
to Moleskine, Brill Research Perspectives in Art and Law, 2/4, pp. 87 2019
Cinema and Ontology, with E. Terrone, Milano-Udine: Mimesis, pp. 200 Media e
divulgazione Maurizio Ferraris è responsabile scientifico del seguente manuale
in tre volumi per le scuole superiori: 2019 "Pensiero in
movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse
curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale
l'Espresso (2009) e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica
si segnalano: 2012 "Felicità. Cos'è la ricerca della
felicità?", Roma, la Repubblica, venerdì 9 novembre, pp. 96 2012
"Libertà. Quando si è davvero liberi?", Roma, la Repubblica, sabato
10 novembre, pp. 96 2012 "Arte. Perché certe cose sono opere
d'arte?", Roma, la Repubblica, venerdì 16 novembre, pp. 96 2012
"Male. È possibile vivere senza il male?", Roma, la Repubblica,
sabato 17 novembre, pp. 96 2012 "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale
degli altri?", Roma, la Repubblica, venerdì 23 novembre, pp. 95 2012
"Bellezza. C'è una regola del bello?", Roma, la Repubblica, sabato 24
novembre, pp. 95 2012 "Mente. La mente è soltanto il cervello?",
Roma, la Repubblica, venerdì 30 novembre, pp. 95 2012 "Morale. C'è un solo
modo giusto di vivere?", Roma, la Repubblica, sabato 1º dicembre, pp. 95
2012 "Potere. Perché si lotta per il potere?", Roma, la Repubblica,
venerdì 7 dicembre, pp. 96 2012 "Pensiero. Che cosa significa
pensare?", Roma, la Repubblica, sabato 8 dicembre, pp. 96 2012
"Violenza: La violenza è inevitabile?", Roma, la Repubblica, venerdì
14 dicembre, pp. 96 2012 "Passione: Chi decide, la ragione o la
passione?", Roma, la Repubblica, sabato 15 dicembre, pp. 96 2012
"Senso: Che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso?",
Roma, la Repubblica, venerdì 21 dicembre, pp. 96 2012 "Linguaggio: Si può
pensare senza parole", Roma, la Repubblica, sabato 22 dicembre, pp. 96
2012 "Scienza: Che cosa sanno gli scienziati?", Roma, la Repubblica,
venerdì 28 dicembre, pp. 96 2012 "Filosofia: A cosa servono i
filosofi?", Roma, la Repubblica, sabato 29 dicembre, pp. 96 Dal settembre
2013 ha curato, oltre a partecipare con singoli interventi, la seconda serie
del "Caffè Filosofico" di Repubblica curandone gli
epiloghi[10]. Nel biennio 2012-2013 ha diretto e condotto tre serie del programma
televisivo Zettel - Filosofia in movimento in onda su Rai Scuola. Nel 2015 e
nel 2016 ha continuato tale lavoro nel programma televisivo "Lo stato
dell'arte", in onda su RAI5[11]. Ha condotto la rubrica di Rai cultura
"Opera aperta", in onda sullo stesso canale. Note ^
"Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe (a cura di),
Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani, pp. 226-235. ^
"Maurizio Ferraris", la Repubblica, 8 agosto 2011,
http://www.alfabeta2.it/2011/09/09/manifesto-del-new-realism/#more-1513. Per
una rassegna completa del dibattito sorto intorno al "Manifesto del New
Realism" si veda Copia archiviata, su labont.it. URL consultato il 26
novembre 2015 (archiviato dall'url originale il 4 maggio 2012).. ^ Nuovo Realismo
| Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo ^ R. Scarpa, Ilcaso Nuovo
Realismo. La lingua del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine,
Mimesis, 2013. ^ Reperibileonline, fascicolo di Giugno:
http://www.ortegaygasset.edu/fog/ver/552/revista-de-occidente/junio-2013 ^
Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono
quireperibili: https://nuovorealismo.wordpress.com/rassegna/2013-2/ ^
http://www.themonist.com/wp-content/uploads/2010/06/98-4CFP.html ^ Si vedano
ancora, tra gli altri, Emiliano Bazzanella, La filosofia e il suo consumo. Il
nuovo New Realism, Trieste, Asterios, 2012; Perché essere realisti? Una sfida
filosofica, a cura di Andrea Lavazza e Vittorio Possenti, Milano-Udine,
Mimesis, 2013; L. Somigli (a curadi), Negli archivi e per le strade. Il ritorno
alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne, 2013;
Architettura e realismo, Milano Maggioli, 2013. ^ Âme et iPad e disponibile in
francese in open access sulla portale parcoursnumeriques-pum.ca ^ Il Caffè
Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi ^ Lo stato dell`arte - Il
portale di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in Il portale di RAI Cultura
dedicato alla filosofia. URL consultato il 17 ottobre 2017. Bibliografia 2009
"Maurizio Ferraris", in D. Antiseri e S. Tagliagambe (a cura di),
Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani, pp. 226-235; 2009
"Ontologia analitica e ontologie continentali: Maurizio Ferraris e i
filosofi italiani di impostazione analitica", in C. Esposito e P. Porro (a
cura di), Filosofia contemporanea, Roma-Bari: Laterza, pp. 692-693. dal 2011
Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di tutti
gli interventi a proposito della proposta teorica sul realismo di Maurizio
Ferraris. Voci correlate Documentalità Ontologia Ermeneutica Realismo
(filosofia) Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni
di o su Maurizio Ferraris Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons
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Sito ufficiale, su maurizioferraris.it (archiviato dall'url originale il 31
luglio 2018). Modifica su Wikidata Maurizio Ferraris, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
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Wikidata (EN) Opere di Maurizio Ferraris, su Open Library, Internet Archive.
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Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.
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Applicata, su ctaorg.org. URL consultato l'11 novembre 2008 (archiviato
dall'url originale il 12 gennaio 2013). LABONT - Laboratorio di Ontologia, su
labont.it. Il «questionario Proust» a Maurizio Ferraris, su elapsus.it.
Maurizio Ferraris, il Nuovo Realismo, sul portale RAI Filosofia, su
filosofia.rai.it. Controllo di autorità VIAF
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Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani
del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XXI secoloNati nel 1956Nati il 7 febbraioNati a
TorinoStudenti dell'Università degli Studi di TorinoStudenti dell'università di
HeidelbergProfessori dell'Università degli Studi di MacerataProfessori
dell'Università degli Studi di TorinoDirettori di periodici italianiConduttori
televisivi di Rai Scuola[altre]
ferrero:
Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del
Pitagorismo nel mondo romano di Leonardo Ferrero (1915-1965) vide la luce nel
1955 grazie al contributo della Fondazione Parini-Chirio e della Facoltà di
Lettere dell’Università di Torino e rappresenta ancora oggi uno dei contributi
più alti alla Storia della Filosofia Romana.
Animato da uno spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del
sentimento dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di
coloro che Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto
fiorire sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico
occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più
importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra
filosofia romana e pitagorica,
rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana
classica. Su questa base l’a. arriva a
sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica
ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e
realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la
formazione del politico. Il piano
dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente
permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della
Roma prima dell’era cristiana, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti
e da un indice analitico che ne facilita la consultazione. L’autore
Leonardo Ferrero allievo del filologo concittadino Rostagni, nel 1937 si
laurea all’Università di Torino ed inizia subito l’insegnamento. Docente
all’Istituto Universitario di Magistero dell’Aquila e, poi, Ordinario di
Letteratura Latina presso l’Università di Trieste di cui è eletto Preside.
L’anno successivo è nominato socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze
di Torino. Leonardo Ferrero muore a Trieste il 31 dicembre 1965.
FERRETTI
--
Giovanni Ferretti (filosofo) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Giovanni Ferretti (Brusasco, 26 luglio 1933) è un
filosofo e storico della filosofia italiano, professore ordinario di filosofia
teoretica dal 1976, e direttore del Dipartimento di filosofia e scienze umane
dell’Università degli studi di Macerata dal 1999. Indice 1 Carriera
accademica 2 Orientamento
di pensiero 3 Pubblicazioni
4 Collegamenti
esterni Carriera accademica Si è laureato in filosofia presso l'Università
Cattolica del Sacro Cuore nel febbraio del 1962 e ha ottenuto la licenza in
Sacra Teologia presso la Pontificia Facoltà Teologica di Milano con sede in
Venegono Inferiore nell'ottobre del 1962. Dal 1968 al 1976 ha insegnato
filosofia della religione presso la Facoltà teologica dell'Italia
settentrionale, nella sede centrale di Milano, e filosofia nella sede parallela
di Torino. Dal 1979 al 1985 è stato Preside della Facoltà di Lettere e
Filosofia presso l'Università degli Studi di Macerata; dal 1985 al 1991 è stato
Rettore della medesima Università e dal 1995 al 1998 ne è stato Presidente del
Nucleo di valutazione. Dal 1995 al 1998
è stato Presidente del Centro di studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson. È
Direttore del Dipartimento di filosofia e scienze umane dell'Università degli
studi di Macerata dal 1999. È membro della Giunta direttiva del Comitato
scientifico del Centro Studi filosofici di Gallarate. È fondatore e fa parte
della Direzione della rivista «Filosofia e Teologia» dal 1987. È tra i
fondatori ed è membro del consiglio di amministrazione del Centro di studi
filosofico-religiosi Luigi Pareyson, con sede a Torino, dal 1995. Dal 1995 fa
parte del Comitato direttivo dell’Annuario filosofico, pubblicato dal medesimo
centro. Orientamento di pensiero Sezione
vuota Questa sezione sugli argomenti biografie e filosofia è ancora vuota.
Aiutaci a scriverla! Pubblicazioni Max Scheler. I. Fenomenologia e antropologia
personalistica, Vita e Pensiero, Milano 1972; Max Scheler. II. Filosofia della
religione, Vita e Pensiero, Milano 1972; Introduzione alla teologia
contemporanea. Profilo storico e antologia (in con F. Ardusso, A. Pastore
Perone, U. Perone), SEI, Torino 1972, 2ª ed. ampliata e rinnovata
collaborazione con il titolo La teologia contemporanea. Introduzione e brani
antologici, Marietti, Torino 1980; Storia del pensiero filosofico (in
collaborazione con Ugo Perone, A. Pastore Perone, C. Ciancio), 3 voll., SEI,
Torino 1975; Filosofia della religione, in Dizionario Teologico
Interdisciplinare, vol. I, Marietti, Torino 1977, pp. 151–181; Filosofia e
pedagogia. Profilo storico e analisi delle istituzione educative (in
collaborazione con B. Bellerate, C. Ciancio, A. Perone, U. Perone), voll. 3,
SEI, Torino 1978; In lotta con l'angelo. La filosofia degli ultimi due secoli
di fronte al Cristianesimo, SEI, Torino 1989 (in collaborazione con U. Perone,
A. Pastore Perone, C. Ciancio, Maurizio Pagano); Filosofia: i testi, la storia
(in collaborazione con C. Ciancio, U. Perone, A. Pastore), SEI, Torino 1991;
Soggettività, intersoggettività, alterità. In dialogo con Husserl e Levinas, I,
Le meditazioni cartesiane di Husserl (Quaderni di ricerca e didattica, VI),
Dipartimento di filosofia e scienze umane, Università di Macerata, Macerata
1993; Soggettività, intersoggettività, alterità. In dialogo con Husserl e
Levinas, II, Totalità e infinito di Emmanuel Levinas (Quaderni di ricerca e
didattica, VIII), Dipartimento di Filosofia e Scienze umane, Università di
Macerata, Macerata 1993; Alterità e trascendenza. Introduzione e commento ad
Altrimenti che essere di E. Levinas (Quaderni di ricerca e didattica, XI),
Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane, Università di Macerata, Macerata
1994; Ontologia e teologia in Kant. Con commentari di testi kantiani (Quaderni
di ricerca e didattica, XIV), Dipartimento di Filosofia e Scienze Umane,
Università di Macerata, Macerata 1995; La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza,
Rosenberg & Sellier, Torino 1996; Soggettività e intersoggettività. Le
Meditazioni cartesiane di Husserl, Rosenberg & Sellier, Torino 1997;
Ontologia e teologia in Kant, Rosenberg & Sellier, Torino 1997 (tradotta in
francese come Ontologie et Theologie chez Kant, Cerf, Paris 2001). Collegamenti
esterni Università-Macerata, su unimc.it. Controllo di autorità VIAF
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Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XXI
secoloNati nel 1933Nati il 26 luglioProfessori dell'Università degli Studi di
MacerataRettori dell'Università degli Studi di Macerata[altre]
FERRI
--
Luigi Ferri (filosofo) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Abbozzo Questa voce sull'argomento filosofi italiani è
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Wikipedia. Luigi Ferri (Bologna, 15 giugno 1826 – Roma, 17 marzo 1895) è stato
un filosofo italiano. Insegnò
all'Istituto superiore di Firenze e all'Università di Roma dal 1871 al 1895.
Venne nominato, nel 1876, Socio Nazionale dell'Accademia dei Lincei. Discusse in tre lettere le Confessioni di un
metafisico del suo amico Terenzio Mamiani ed elaborò in tre memorie (1888) le
sue concezioni. Dal 1885 pubblicò la
Rivista italiana di filosofia. Opere
(selezione) Essai sur l'histoire de la philosophie en Italie au dixnèuvieme
siècle (1869) Bibliografia Luca Lo Bianco, FERRI, Luigi, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 47, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1997. Collegamenti esterni Luigi Ferri, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Luigi Ferri, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Luigi Ferri, su Open Library, Internet Archive. Modifica
su Wikidata Controllo di autorità VIAF
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Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XIX secoloNati nel
1826Morti nel 1895Nati il 15 giugnoMorti il 17 marzoNati a BolognaMorti a
Roma[altre]
ficino: one of the most
important Italian philosophers, neoplatonic philosopher who played a leading
role in the cultural life of Florence. Ordained a priest in 1473, he hoped to
draw people to Christ by means of Platonism. It was through Ficino’s
translation and commentaries that the works of Plato first became accessible to
the Latin-speaking West, but the impact of Plato’s work was considerably
affected by Ficino’s other interests. He accepted Neoplatonic interpretations
of Plato, including those of Plotinus, whom he tr.; and he saw Plato as the
heir of Hermes Trismegistus, a mythical Egyptian sage and supposed author of
the hermetic corpus, which he tr. early in his career. He embraced the notion
of a prisca theologia, an ancient wisdom that encapsulated philosophic and
religious truth, was handed on to Plato, and was later validated by the
Christian revelation. The most popular of his original works was Three Books on
Life 1489, which contains the fullest Renaissance exposition of a theory of
magic, based mainly on Neoplatonic sources. He postulated a living cosmos in
which the World-Soul is linked to the world-body by spirit. This relationship
is mirrored in man, whose spirit or astral body links his body and soul, and
the resulting correspondence between microcosm and macrocosm allows both man’s
control of natural objects through magic and his ascent to knowledge of God.
Other popular works were his commentary on Plato’s Symposium 1469, which
presents a theory of Platonic love; and his Platonic Theology 1474, in which he
argues for the immortality of the soul. Marsilio
Ficino (Figline Valdarno, 19 ottobre 1433 – Careggi, 1º ottobre 1499) è stato
un filosofo, umanista e astrologo italiano[1]. Nato dal medico personale
di Cosimo il Vecchio, Diotifeci d'Agnolo, e da Alessandra di Nanoccio,[2]
studia a Firenze sotto Luca de Bernardi e Comando Comandi e apprende le prime
nozioni di greco da Francesco da Castiglione,[3] mentre sarebbe da smentire la
notizia riportata nella Vita Ficini di Giovanni Corsi, scritta del 1506, che
sia stato allievo del Platina.[4] Il suo primo maestro di filosofia è il
folignate Niccolò Tignosi, medico aristotelico autore di un De anima e di un De
ideis.[5] Conseguenza di questi insegnamenti è la sua Summa philosophiae, un
gruppo di scritti in latino dedicati a Michele Mercati intorno al 1454 in cui
il Ficino tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones.[6]
Nella dedica all'amico scrive di volerlo introdurre «a quegli studi che devono
impegnare la nostra età, secondo la regola del nostro Platone». Studia
Epicuro e Lucrezio, scrivendo intorno al 1457 i Commentariola in Lucretium, che
distruggerà nel 1492,[7] il De voluptate ad Antonium Calisianum, il De
virtutibus moralibus e il De quattuor sectis philosophorum, dove tratta di
questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche,
epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione
mnemonica e senza pretese sistematiche.[7] Nel 1456 scrive vari libri di
Institutionum ad platonicam disciplinam, perduti, tratti da fonti latine e per
questo motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta
fonte greca.[6] Sembra che il suo interesse al platonismo abbia indotto
l'arcivescovo fiorentino Antonino Pierozzi, preoccupato di possibili deviazioni
del Ficino verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare sia medicina a
Bologna sia l'opera di Tommaso d'Aquino.[8] Ma la permanenza a Bologna dal 1457
al 1458, testimoniata da Zanobi Acciaiuoli, non è documentata e resta certo
l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica e neo-platonica.[3] Intorno
al 1460 traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco
attribuito a Senocrate.[9] Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la
Teogonìa di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e
una villa a Careggi, che diverrà nel 1459 sede della nuova Accademia Platonica,
fondata dallo stesso Ficino per volere di Cosimo, con il compito di studiare le
opere di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione.[10] Qui
inizia la traduzione, nell'aprile del 1463, dei Libri ermetici (Corpus
hermeticum), portati in Italia dalla Macedonia da Leonardo da Pistoia; la sua
opera di traduzione avrà un notevole influsso nel pensiero rinascimentale
europeo.[11] Il Ficino vede in quella sapienza antica la presenza di una
rivelazione, di una pia philosophia che si è attuata nel Cristianesimo ma della
quale l'umanità di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a
Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto «per primo disputò con grandissima
sapienza della maestà divina, della gerarchia degli spiriti» (daemonum ordine),
«della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo: lo seguì,
secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro
divino Platone».[12] Esiste dunque, secondo Ficino, una concorde e antica
tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che
nasce con Ermete e culmina con Platone.[13] La «pia filosofia», antitetica alle
correnti di pensiero atee e materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli
inganni dei sensi e della fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce
la verità, l'ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui,
grazie all'illuminazione divina, affinché l'uomo, tornato fra i suoi simili,
possa renderli partecipi delle verità rivelategli dalla fonte divina (divino
numine revelata).[14] La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, già
tradotto in volgare nel 1463 da Tommaso Benci, viene stampata nel 1471; nel
1463 inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, conclusa forse nel
1468, e vi aggiunge nel tempo i suoi commenti: intorno al 1474 quelli al
Filebo, al Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano), nel 1484 al Timeo,
e nel 1494 al Parmenide.[15] Dal 1469 al 1474 stende l'opera più
importante, i diciotto libri della Theologia platonica de immortalitate
animarum, dedicata a Lorenzo de' Medici. Dopo aver preso i voti sacerdotali il
18 dicembre 1473, compone la Religione cristiana, in italiano, di cui darà poi
la versione latina nella De christiana religione. Dal 1475 al 1476 scrive la
Disputatio contra iudicium astrologorum e nel 1481 viene dato alle stampe il
suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia del
1478.[16] Busto di Marsilio Ficino ad opera di Andrea Ferrucci
(1522) in Santa Maria del Fiore, Firenze Nel 1484 inizia la traduzione delle
Enneadi di Plotino e dal 1488 al 1493 traduce le opere di Giamblico, Proclo,
Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Michele Psello, la Mistica teologia e
i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora di Atene:[15]
con questo ampio corpus platonico il Ficino persegue la sua teorizzazione della
continuità della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi
attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, Boezio, Macrobio, Avicebron,
Al-Farabi, Avicenna, Duns Scoto, Bessarione e il Cusano.[14] I tre libri
del De vita, usciti nel 1489, gli procurano accuse di magia dalle quali si
difende con un'Apologia;[17] nel 1495 pubblica dodici libri di Epistulae che
comprendono anche opuscoli scritti dal 1476 al 1491, come il De furore divino,
la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le Quinque claves Platonicae
sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica
comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de
voluptate quattuor.[16] Lascia incompiuto un Commento a San Paolo per la
morte sopraggiunta a sessantasei anni, nel 1499. È sepolto nel duomo di Santa
Maria del Fiore, dove un monumento lo celebra come il maggior filosofo
fiorentino.[16] È noto come Aristotele concepisca l'essere umano
come sinolo, unità ordinata e indissolubile di materia e forma, di corpo e
anima, cosicché il suo principale commentatore dell'antichità Alessandro di
Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalità dell'anima
contemporanea a quella del corpo.[18] Al contrario, Platone aveva già distinto
le due sostanze, concedendo all'anima una vita separata e indipendente dal
destino del corpo. A questa concezione aderisce Ficino, che in polemica
contro Aristotele esalta la dottrina platonica, al punto da interpretarla come
una forma di religiosità propedeutica alla fede cristiana.[19] La sua Theologia
platonica o De immortalitate animarum si apre dunque con un (LA) «Soluamus
obsecro caelestes animi caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula
compedum terrenarum ut alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream
liberius peruolemus, ubi statim nostri generis excellentiam feliciter
contemplabimur.» (IT) «Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi
della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali
platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati
l'eccellenza del genere nostro.» (Ficino, Theologia Platonica, I, 1)
Delle divine lettere del gran Marsilio Ficino, frontespizio di una edizione del
1563 Per comprendere la sostanza dell'anima è necessario comprendere la
struttura dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici:[20] Dio;
gli angeli; le anime; le qualità; la materia. Al grado inferiore sta la
materia, concepita, seguendo Averroè, come pura quantità: «la materia non ha di
per sé nessuna forza che possa produrre le forme», diversamente da chi, come
Avicebron, la concepisce come «sostanza produttrice di forme, fonte piuttosto
che soggetto delle forme». È la qualità il principio formale che dà
sostanza alle realtà corporee, grazie a «una sostanza incorporea che penetra
attraverso i corpi, della quale sono strumento le qualità corporee»: questa
sostanza incorporea nell'uomo si eleva al rango di anima «che genera la vita e
il senso della vita anche dal fango non vivente».[21] Al di sopra delle
anime sono gli angeli: «Sopra quelli intelletti che alli corpi s'accostano,
cioè l'anime ragionevoli, non è dubbio che sono assai menti, dal commercio dei
corpi al tutto divise»;[22] e se l'intelletto dell'anima «è mobile e parte
interrotto e dubbio»,[23] l'intelletto angelico è «stabile tutto, continuo e
certissimo».[23] Al di sopra del tutto è Dio, che è unità, bontà e verità
assoluta, fonte di ogni verità e di ogni vita, è atto e vita assoluta: «Dove un
continuo atto e una continua vita dura, quivi è un immenso lume d'una
assolutissima intelligenza»[24] che è luce per gli uomini perché si riflette in
tutte le cose. Attraverso Dio «tutte le cose son fatte, e però Iddio si trova
in tutte le cose e tutte le cose si veggono in lui... Iddio è principio, perché
da lui ogni cosa procede; Iddio è fine, perché a lui ogni cosa ritorna, Iddio è
vita e intelligenza, perché per lui vivono le anime e le menti
intendono».[25] Dio e materia rappresentano i due estremi della natura, e
la funzione dell'anima, che è considerata, diversamente da Aristotele e da
Tommaso, realtà in sé e non solamente forma del corpo, è quella di incarnarsi
per riunire lo spirito e la corporeità: Amore sacro e amor profano
(Tiziano): eros come mediatore dei contrari «[L'anima] … è tale da cogliere le
cose superiori senza trascurare le inferiori... per istinto naturale, sale in
alto e scende in basso. E quando sale, non lascia ciò che sta in basso e quando
scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo,
scivolerebbe verso l'altro e non sarebbe più la copula del mondo.»
(Ficino, Theologia Platonica, 1474[26]) La "copula mundi" è l'anima
razionale che «ha sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della
natura» (obtinet naturae mediam regionem) «e tutto connette in unità». La sua
opera unificatrice è resa possibile dall'amore, inteso come movimento circolare
attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bontà infinita,
per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui.
L'amore di cui parla Ficino è l'eros di Platone, che per l'antico filosofo
greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo sensibile e quello
intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso cristiano perché, a
differenza di quello platonico, l'amore per lui non è solo attributo dell'uomo
ma anche di Dio.[27] Lo stesso Platone viene interpretato in una chiave
di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene Ficino non faccia
distinzione tra platonismo e neoplatonismo.[28] Per lui esiste una sola
filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verità eterne, le Idee, che
in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia.[14]
Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro
dell'astrologia e della magia, a cui Ficino rivolge notevoli interessi in virtù
dell'unione vitale del mondo da essi presupposta,[29] filosofia e religione si
fondono così in una visione d'insieme di reciproca complementarità,
sottolineata anche nell'accostamento di termini come «pia philosophia», o
«teologia platonica». Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'Uno è
principalmente la Bellezza.[30] Nel pensiero di Marsilio Ficino, Gesù
Cristo è considerato un maestro spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il
bene dell'umanità:[31] «Cos'altro era Cristo se non una specie di manuale
di etica, cioè di filosofia divina, il quale visse come un inviato dal cielo,
essendo lui stesso una divina Idea di virtù, manifestata agli occhi degli
uomini.» (De Christiana religione, cap. 4) Elevando il cristianesimo a
religione suprema,[31] Ficino asserì che l'Incarnazione del Cristo era avvenuta
anche perché Dio si potesse riunire «a tutti gli aspetti della
creazione».[32] Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del
panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante
richiesta delle sue opere,[33] dopo la fine del Rinascimento Ficino venne
tradotto e commentato sempre meno, fino ad essere accusato,
immeritatamente,[31] di un ritorno al paganesimo. In Italia, dove è
riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo cinquecentesco,[34] e in particolare
su Giordano Bruno,[35] sarà Giambattista Vico a raccogliere nel Settecento
l'eredità neoplatonica di Ficino, di cui lesse l'opera di traduzione,
rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui,
rinchiudendosi nelle angustie mentali di Cartesio.[36] Sottoposto ad
attacchi nel corso del Novecento che giudicarono «retorici» e «privi di valore»
i suoi scritti,[37] Ficino è stato rivalutato dallo psicanalista scrittore
James Hillman, che lo definì uno «psicologo del profondo» e «precursore della
psicologia junghiana», per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni
affermazione proveniente dai campi più disparati, sia della scienza che della
teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene vista
cioè come «mediazione e compendio» dell'universo.[38] La conoscenza dell'anima
è infatti per Hillman la «quintessenza del neoplatonismo italiano», in cui
giacciono sepolte le «fantasie mistiche» di questo «strano uomo che suonava
inni orfici sul liuto, che studiava la magia e componeva canti astrologici,
quest'uomo gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore, malinconico
traduttore di Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici, autore lui
stesso di alcuni tra gli scritti più diffusi e influenti (Commento al Simposio)
e scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo tempo».[39] La
centralità attribuita da Ficino all'anima, per la quale, ancora ragazzo, Cosimo
de' Medici lo considerava «prescelto alla cura delle anime» come suo padre medico
lo era dei corpi,[40] convinse anche Erwin Panofsky che egli «ebbe un impatto
paragonabile per estensione ed intensità solo a quello prodotto oggi dalla
psicoanalisi».[41] Notevole è ad esempio l'intuizione di Ficino del
potere psicosomatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina
moderna considera un effetto placebo: «Io sono del parere che
l'intenzione dell'immaginazione abbia il suo peso su immagini e medicine, non
tanto al momento della preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad
esempio, se un tale, a quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei
modi debiti, o certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera
intensamente soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con
incrollabile fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di
incremento all'aiuto che essa può dare.» (Ficino, De vita[42])
Opere Frontespizio di una edizione del 1560 del De triplici vita. De
Voluptate (1457-8) De Amore o Commentarium in Convivium Platonis (1469) De
religione Christiana et fidei pietate (1475–6) Theologia Platonica de
immortalitate animarum (1482) Compendium in Timaeum (1484) De triplici vita
(1489) De lumine (1492) In Epistolas Pauli commentaria (Venezia 1491; Firenze
1497) El libro dell'amore De vita Teologia platonica (1474) Sopra lo amore
ovvero Convito di Platone La religione cristiana Epistolarum familiarum, liber
I. Note ^ Rosanna Zerilli, Marsilio Ficino: alla lente dell'astrologia,
Edizioni Capone, 2010. ^ Ove non diversamente riportato, le notizie sulla vita
e la dottrina di Ficino sono tratte da: Eugenio Garin, Storia della filosofia
italiana, vol. I, Einaudi, 1966, pp. 373-436. Giuseppe Saitta, Marsilio
Ficino e la filosofia dell'umanesimo, pag. 2, Fiammenghi & Nanni, 1954. ^
Giornale storico della letteratura italiana, voll. 111-112, a cura di Francesco
Novati, Egidio Gorra, Vittorio Cian, Giulio Bertoni, Carlo Calcaterra,
Loescher, 1938, pag. 339. ^ Arthur M. Field, The Origins of the Platonic
Academy of Florence, pag. 140, Princeton University Press, 2014. Giorgio
Bàrberi Squarotti, Storia della civiltà letteraria italiana: Umanesimo e
Rinascimento, vol. II, pag. 815, UTET, 1996. E. Garin, pag. 231. ^
Giovanni Semprini, I platonici italiani, pag. 40, Edizioni Athena, 1926. ^
AA.VV., La Letteratura italiana: Storia e testi, vol. XIII, pag. 929, a cura di
E. Garin, Riccardo Ricciardi Editore, 1950-60. ^ A. Della Torre, Storia
dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di
Perfezionamento in Firenze, 1902. ^ Eugenio Garin, Ermetismo del Rinascimento,
pag. 72, Ed. Riuniti, 1988. ^ «Primus de maiestate Dei, daemonum ordine,
animarum mutationibus sapientissime disputavit. Primus igitur theologiae
appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas antiquae theologiae partes
obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo successit in theologia
Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri praeceptor». ^
James D. Heiser, Prisci Theologi and the Hermetic Reformation in the Fifteenth
Century, Repristination Press, 2011. Andrea Cusimano, Storia del pensiero
occidentale, pag. 167, Lulu.com, 2013. L'immenso lavoro di traduzione
compiuto da Marsilio Ficino è stato documentato in particolare da Paul Oskar
Kristeller, in Supplementum ficinianum: Marsilii Ficini florentini philosophi
platonici Opuscula inedita et dispersa, 2 voll., Firenze, Leo S. Olschki, 1937.
Cfr. anche: P. O: Kristeller, The First Printed Edition of Plato's Works and
the Date of Its Publication (1484), in "Science and History: Studies in
Honor of Edward Rosen", a cura di Erna Hilfstein, Pawel Czartoryski, e
Frank D. Grande, pp. 25–35, Wroclaw, 1978; Marsilio Ficino as a Beginning
Student of Plato, in "Scriptorium", n. 20, pp. 41–54, 1966; Marsilio
Ficino and His Work after Five Hundred Years, in "Quaderni di
Rinascimento", n. 7, Firenze, 1987. E. Garin, pp. 241-243. ^ Arnaldo
Della Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze (1902), pag. 623,
Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, 1960. ^
Alessandro di Afrodisia, L'anima, a cura di P. Accattino e P. Donini,
Roma-Bari, Laterza, 1996. ^ Marsilio Ficino su Parodos. ^
isentieridellaragione.weebly.com,
https://isentieridellaragione.weebly.com/ficino.html. ^ Ficino, cit. in E.
Garin, pag. 251. ^ Le divine lettere del gran Marsilio Ficino, vol. 1, pag.
137, a cura di S. Gentile, Edizioni di storia e letteratura, 2001.
Ficino, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, pag. 118, a cura di G.
Ottaviano, Celuc, 1973. ^ Ficino, cit. in E. Garin, pag. 253. ^ Le divine
lettere del gran Marsilio Ficino, vol. 1, pag. 157, a cura di S. Gentile, op.
cit. ^ Trad. in Storia sociale e culturale d'Italia: La cultura filosofica e
scientifica, a cura di Guido Ceriotti, vol. 5, pag. 305, Bramante, 1988. ^ Ioan
P. Couliano, Eros and the Magic in the Reinassance, University of Chicago
Press, 1987. ^ Il termine "neoplatonismo" è stato coniato solo nel
XIX secolo per indicare le interpretazioni platoniche che si erano andate via
via sovrapponendo a partire dall'età ellenistica, ma che erano sempre state
identificate col pensiero stesso di Platone, ritenuto quasi un loro capostipite
(cfr. Cenni sulla tradizione platonica). ^ Sebastiano Gentile, Il ritorno di
Platone, dei platonici e del "corpus" ermetico. Filosofia, teologia e
astrologia nell'opera di Marsilio Ficino, in C. Vasoli, Le filosofie del
Rinascimento, a cura di P.C. Pissavino, pp. 193-228, Milano, Bruno Mondadori,
2002. ^ La prospettiva storiografica di Marsilio Ficino, di E. Lo Presti,
Università degli Studi di Bologna. Battista Mondin, Storia della
teologia: epoca moderna, pag. 51, Edizioni Studio Domenicano, 1996. ^ Citazione
da A. C. Grayling, Una storia del bene. Alla riscoperta di un'etica laica,
Storia e civiltà, n. 62, Bari, Edizioni Dedalo, 2006, pp. 122-3, ISBN
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State University Press, 2000. ^ Cesare Vasoli, Quasi sit deus: studi su
Marsilio Ficino, pp. 46-47, Conte, 1999. Cfr. anche A. Jugegno, II primo Bruno
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filosofia», n. XXIII, pp. 149-170, 1968. ^ Giambattista Vico, The Autobiography
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Torino, Bottega d’Erasmo, 1959–1962. (ristampa anastatica dell'edizione di
Basilea, 1576) Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso
Gabriel Giolito de' Ferrari, 1563. Marsilio Ficino, Opere. Lettere e carteggi,
in Vinegia, appresso Gabriel Giolito de' Ferrari, 1548. Marsilio Ficino, De
vita libri tres, (1489) a cura di Albano Biondi e Giuliano Pisani, Biblioteca
dell'Immagine, Pordenone 1991, pp. XXXV-501. Marsilio Ficino, Scritti
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Berkeley, North Atlantic Books, 2006. Rosanna Zerilli, Marsilio Ficino alla
lente dell'astrologia, Edizioni Federico Capone, Torino, 2010. Altri progetti
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neoplatonicaTraduttori dal greco al latino[altre]. Refs.: Ficino’s
“Commentaries on Plato,” Tatti -- Luigi
Speranza, "Grice e Ficino," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
fictum: in the widest
usage, whatever contrasts with what is a matter of fact. As applied to works of
fiction, however, this is not the appropriate contrast. For a work of fiction,
such as a historical novel, might turn out to be true regarding its historical
subject, without ceasing to be fiction. The correct contrast of fiction is to
non-fiction. If a work of fiction might turn out to be true, how is ‘fiction’
best defined? According to some philosophers, such as Searle, the writer of
nonfiction performs illocutionary speech acts, such as asserting that
such-and-such occurred, whereas the writer of fiction characteristically only
pretends to perform these illocutionary acts. Others hold that the core idea to
which appeal should be made is that of making-believe or imagining certain
states of affairs. Kendall Walton Mimesis as Make-Believe, 0, for instance,
holds that a work of fiction is to be construed in terms of a prop whose
function is to serve in games of make-believe. Both kinds of theory allow for
the possibility that a work of fiction might turn out to be true.
fidanza: essential Italian
philosopher, b. Bagnorea, Tuscany, he was educated at Paris, earning a master’s
degree in arts and a doctorate in theology. He joined the Franciscans about
1243, while still a student, and was elected minister general of the order in
1257. Made cardinal bishop of Albano by Pope Gregory X in 1274, Bonaventure helped
organize the Second Ecumenical Council of Lyons, during the course of which he
died, in July 1274. He was canonized in 1482 and named a doctor of the church
in 1587. Bonaventure wrote and preached extensively on the relation between
philosophy and theology, the role of reason in spiritual and religious life,
and the extent to which knowledge in God is obtainable by the “wayfarer.” His
basic position is nicely expressed in De reductione artium ad theologiam “On
the Reduction of the Arts to Theology”: “the manifold wisdom of God, which is
clearly revealed in sacred scripture, lies hidden in all knowledge and in all
nature.” He adds, “all divisions of knowledge are handmaids of theology.” But
he is critical of those theologians who wish to sever the connection between
faith and reason. As he argues in another famous work, Itinerarium mentis ad
deum “The Mind’s Journey unto God,” 1259, “since, relative to our life on
earth, the world is itself a ladder for ascending to God, we find here certain
traces, certain images” of the divine hand, in which God himself is mirrored.
Although Bonaventure’s own philosophical outlook is Augustinian, he was also
influenced by Aristotle, whose newly available works he both read and
appreciated. Thus, while upholdBonaventure, Saint Bonaventure, Saint 94 94 ing the Aristotelian ideas that knowledge
of the external world is based on the senses and that the mind comes into
existence as a tabula rasa, he also contends that divine illumination is
necessary to explain both the acquisition of universal concepts from sense
images, and the certainty of intellectual judgment. His own illuminationist
epistemology seeks a middle ground between, on the one hand, those who maintain
that the eternal light is the sole reason for human knowing, providing the
human intellect with its archetypal and intelligible objects, and, on the
other, those holding that the eternal light merely influences human knowing,
helping guide it toward truth. He holds that our intellect has certain
knowledge when stable; eternal archetypes are “contuited by us [a nobis
contuita],” together with intelligible species produced by its own fallible
powers. In metaphysics, Bonaventure defends exemplarism, the doctrine that all
creation is patterned after exemplar causes or ideas in the mind of God. Like
Aquinas, but unlike Duns Scotus, he argues that it is through such ideas that
God knows all creatures. He also adopts the emanationist principle that
creation proceeds from God’s goodness, which is self-diffusive, but differs from
other emanationists, such as al-Farabi, Avicenna, and Averroes, in arguing that
divine emanation is neither necessary nor indirect i.e., accomplished by
secondary agents or intelligences. Indeed, he sees the views of these Islamic
philosophers as typical of the errors bound to follow once Aristotelian
rationalism is taken to its extreme. He is also well known for his
anti-Aristotelian argument that the eternity of the world something even Aquinas following Maimonides
concedes as a theoretical possibility is
demonstrably false. Bonaventure also subscribes to several other doctrines
characteristic of medieval Augustinianism: universal hylomorphism, the thesis,
defended by Ibn Gabirol and Avicenna among others, that everything other than
God is composed of matter and form; the plurality of forms, the view that
subjects and predicates in the category of substance are ordered in terms of
their metaphysical priority; and the ontological view of truth, according to
which truth is a kind of rightness perceived by the mind. In a similar vein,
Bonaventure argues that knowledge ultimately consists in perceiving truth
directly, without argument or demonstration. Bonaventure also wrote several
classic works in the tradition of mystical theology. His bestknown and most
popular mystical work is the aforementioned Itinerarium, written in 1259 on a
pilgrimage to La Verna, during which he beheld the six-winged seraph that had
also appeared to Francis of Assisi when Francis received the stigmata.
Bonaventure outlines a seven-stage spiritual journey, in which our mind moves
from first considering God’s traces in the perfections of irrational creatures,
to a final state of peaceful repose, in which our affections are “transferred
and transformed into God.” Central to his writings on spiritual life is the
theme of the “three ways”: the purgative way, inspired by conscience, which
expels sin; the illuminative way, inspired by the intellect, which imitates
Christ; and the unitive way, inspired by wisdom, which unites us to God through
love. Bonaventure’s writings most immediately influenced the work of other
medieval Augustinians, such as Matthew of Aquasparta and John Peckham, and
later, followers of Duns Scotus. But his modern reputation rests on his
profound contributions to philosophical theology, Franciscan spirituality, and
mystical thought, in all three of which he remains an authoritative source.Bonaventura da Bagnoregio (Bagnoregio, 1217/1221 circa –
Lione, 15 luglio 1274) è stato un cardinale, filosofo e teologo italiano. Denominato
Doctor Seraphicus, insegnò alla Sorbona di Parigi e fu amico di san Tommaso
d'Aquino. Vescovo e cardinale, dopo la morte venne canonizzato da papa
Sisto IV nel 1482 e proclamato Dottore della Chiesa da papa Sisto V nel 1588. È
considerato uno tra i più importanti biografi di san Francesco d'Assisi.
Infatti alla sua biografia — la Legenda Maior — si ispirò Giotto per il ciclo
delle storie sul Santo nella basilica di Assisi. Per diciassette anni —
dal 1257 — fu ministro generale dell'Ordine francescano, del quale è ritenuto
uno dei padri: quasi un secondo fondatore. Sotto la sua guida furono pubblicate
le Costituzioni narbonesi, su cui si basarono tutte le successive costituzioni
dell'Ordine. La visione filosofica di Bonaventura partiva dal presupposto
che ogni conoscenza derivi dai sensi: l'anima conosce Dio e se stessa senza
l'aiuto dei sensi esterni. Risolse il problema del rapporto tra ragione e fede
in chiave platonico-agostiniana. È venerato come santo dalla Chiesa
cattolica, che celebra la sua memoria obbligatoria il 15 luglio o il giorno
precedente nella forma straordinaria. La data in cui Bonaventura venne
alla luce non è certa e viene collocata tra il 1217 e il 1221. Nacque a Civita
di Bagnoregio, in Tuscia, oggi provincia di Viterbo. Era figlio di Giovanni di
Fidanza, medico, e di Rita (o Ritella).[1] Iniziò i suoi studi giovanili nel
convento di San Francesco "vecchio", situato a metà strada tra
Bagnoregio e Civita[2]. Nel 1235 si recò a Parigi a studiare nella facoltà
delle Arti e successivamente, nel 1243, nella facoltà di teologia.
Probabilmente in quello stesso anno entrò tra i Frati Minori (Minoriti). I suoi
studi di teologia terminarono nel 1253, quando divenne magister (cioè
"maestro") di teologia e ottiene la licentia docendi (la "licenza
d'insegnare"). Tra il 1262 e il 1264 Bonaventura fu priore del
convento di San Francesco ad Orvieto che fece ristrutturare. I francescani
erano di casa ad Orvieto. I Mendicanti di Francesco dovevano essere in città
almeno fin dal 1216 (ben prima dell'approvazione della Regola) nel luogo stesso
dove sarà edificato il complesso attuale di San Francesco, chiesa e convento;
presumibilmente sul preesistente sito della citata S. Maria in Pulzella chiesa
“detta Nunziata” nel quartiere di Serancia: dove sorgerà il quartier generale
dei Monaldeschi. Quello dei Frati Minori fu il primo Ordine ad insediarsi
ufficialmente in Orvieto nel 1228 o 1229 presso S. Pietro in Vetera: dove è il
sito del santuario federale Fanum Voltumnae di Velsna, Volsinii Etruriae capita
(Tito Livio), Orvieto etrusca. Francesco era morto il 3 ottobre 1226. La Regola
era stata approvata da Onorio III nell'ottobre 1223. Tracce del passaggio di
Francesco nel territorio orvietano restano a La Scarzuola, dove è raffigurato
il suo ritratto più antico; a Pantanelli, dove dimorò e predicò ai pesci sul
Tevere; ad Alviano e Lugnano, dove predicò agli uccelli. Insegnamento San
Bonaventura, francescano, venti giorni dopo l'indizione della festa del Corpus
Domini predicò il Sermo de sanctissimo corpore Christi alla presenza di papa
Urbano IV e del concistoro generale. Bonaventura, con Tommaso d'Aquino, è stato
tra i protagonisti di quell'evento rilevante nella storia religiosa ma anche
nella storia della cultura: veniva istituita, infatti, una nuova festa per la
Chiesa latina, incentrata sul mistero dell'eucaristia. Bonaventura e Tommaso, i
dottori "seraphicus" ed "angelicus", furono due
protagonisti del pensiero filosofico e teologico del tempo: erano stati
entrambi cattedratici presso lo Studium orvietano, l'antica università della
città. Nel 1250 il papa aveva autorizzato il cancelliere dell'Università a
conferire la licenza di insegnamento a religiosi degli ordini mendicanti,
sebbene ciò contrastasse con il diritto di cooptare i nuovi maestri rivendicato
dalla corporazione universitaria. Nel 1253, di fatti, scoppiò uno sciopero al
quale tuttavia i membri degli ordini mendicanti non si associarono. La
corporazione universitaria richiese loro un giuramento di obbedienza agli
statuti, ma essi rifiutarono e pertanto vennero esclusi
dall'insegnamento. Questa esclusione colpì anche Bonaventura, che fu
maestro reggente fra il 1253 e il 1257. Nel 1254 i maestri secolari
denunciarono a papa Innocenzo IV il libro del francescano Gerardo di Borgo San
Donnino, Introduzione al Vangelo eterno. In questo testo fra' Gerardo,
rifacendosi al pensiero di Gioacchino da Fiore, annunciava l'avvento di una
«nuova età dello Spirito Santo» e di una «Chiesa cattolica puramente spirituale
fondata sulla povertà», profezia che si doveva realizzare attorno al 1260. In
conseguenza di questo il Papa — poco prima di morire — annullò i privilegi
concessi agli ordini mendicanti. Il nuovo pontefice papa Alessandro IV
condannò il libro di Gerardo con una bolla nel 1255, prendendo tuttavia
posizione a favore degli ordini mendicanti e senza più porre limiti al numero
delle cattedre che essi potevano ricoprire. I secolari rifiutarono queste
decisioni, venendo così scomunicati, anche per il boicottaggio da loro operato
ai danni dei corsi tenuti dai frati degli ordini mendicanti. Tutto questo
nonostante che i primi avessero l'appoggio del clero e dei vescovi, mentre il
re di Francia Luigi IX si trovava a sostenere le posizioni dei
mendicanti. Nel 1257 Bonaventura venne riconosciuto magister. Nello stesso
anno fu eletto Ministro generale dell'Ordine francescano, rinunciando così alla
cattedra. A partire da questa data, preso dagli impegni del nuovo servizio,
accantonò gli studi e compì vari viaggi per l'Europa. Il suo obiettivo
principale fu quello di conservare l'unità dei Frati Minori, prendendo
posizione sia contro la corrente spirituale (influenzata dalle idee di
Gioacchino da Fiore e incline ad accentuare la povertà del francescanesimo
primitivo), sia contro le tendenze mondane insorte in seno all'Ordine.
Favorevole a coinvolgere l'Ordine francescano nel ministero pastorale e nella
struttura organizzativa della Chiesa, nel Capitolo generale di Narbona del 1260
contribuì a definire le regole che dovevano guidare la vita dei suoi membri: le
Costituzioni, dette appunto Narbonensi. A lui, in questo Capitolo, venne
affidato l'incarico di redigere una nuova biografia di san Francesco d'Assisi
che, intitolata Legenda Maior, diventerà la biografia ufficiale
nell'Ordine. Incipit del Legenda maior Infatti il Capitolo generale
successivo, del 1263 (Pisa), approvò l'opera composta dal Ministro generale;
mentre il Capitolo del 1266, riunito a Parigi, giunse a decretare la
distruzione di tutte le biografie precedenti alla Legenda Maior, probabilmente
per proporre all'Ordine una immagine univoca del proprio fondatore, in un
momento in cui le diverse interpretazioni fomentavano contrapposizioni e
conducevano verso la divisione.[3] In modo analogo a Tommaso d'Aquino che
rifiutò ripetutamente la proposta di essere nominato Arcivescovo di Napoli, nel
1265 fu nominato arcivescovo di York dal neoeletto papa Clemente IV (mai
beatificato), incarico che, dopo numerose richieste al Sommo Pontefice, gli fu
consentito di lasciare l'anno seguente[4]. Ultimi anni Negli ultimi anni
della sua vita Bonaventura intervenne nelle lotte contro l'aristotelismo e
nella rinata polemica fra maestri secolari e mendicanti. A Parigi, tra il 1267
e il 1269, tenne una serie di conferenze sulla necessità di subordinare e
finalizzare la filosofia alla teologia. Nel 1270 lasciò Parigi per farvi però
ritorno nel 1273, quando tenne altre conferenze nelle quali attaccava quelli
che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo. Peraltro, negli anni tra
il 1269 ed il 1271, fu spesso a Viterbo ove si svolgeva il famoso, lunghissimo
conclave, per tenere numerosi sermoni volti ad accelerare ed indirizzare la
scelta dei cardinali; alla fine fu eletto papa Gregorio X, cioè quel Tedaldo
Visconti di cui Bonaventura era amico da molti anni[5] Fu proprio papa
Gregorio X a crearlo cardinale vescovo con titolo di Albano nel concistoro del
3 giugno 1273, mentre Bonaventura soggiornava nel convento del Bosco ai Frati
presso Firenze; l'anno successivo partecipò al Concilio di Lione (in cui favorì
un riavvicinamento fra la Chiesa latina e quella greca), nel corso del quale
morì, forse a causa di un avvelenamento, stando almeno a quanto affermò in
seguito il suo segretario, Pellegrino da Bologna.[senza fonte] Pierre de
Tarentaise, futuro papa Innocenzo V, ne celebrò le esequie e Bonaventura venne
inumato nella chiesa francescana di Lione. Intorno all'anno 1450 la salma venne
traslata in una nuova chiesa, dedicata a San Francesco d'Assisi; la tomba venne
aperta e la sua lingua venne trovata in perfetto stato di conservazione: questo
fatto ne facilitò la canonizzazione, che avvenne ad opera del papa francescano
Sisto IV il 14 aprile 1482, e la nomina a dottore della Chiesa, compiuta il 14
marzo1588 da un altro francescano, papa Sisto V. Le reliquie: il «santo
braccio» Il 14 marzo 1490, a seguito della ricognizione del corpo del santo a
Lione, venne estratta una parte del braccio destro del santo e composta in un
reliquiario d'argento che l'anno seguente fu portato a Bagnoregio. Oggi il
«santo braccio» è la più grande delle reliquie rimaste di san Bonaventura dopo
la profanazione del suo sepolcro e la dispersione dei suoi resti compiuta dagli
Ugonotti nel 1562. Si trova custodito a Bagnoregio nella concattedrale di San
Nicola. Da esso, nel corso degli anni, sono state ricavate alcune reliquie
minori. Frontespizio delle Meditationes Bonaventura è considerato uno dei
pensatori maggiori della tradizione francescana, che anche grazie a lui si
avviò a diventare una vera e propria scuola di pensiero, sia dal punto di vista
teologico che da quello filosofico. Difese e ripropose la tradizione
patristica, in particolare il pensiero e l'impostazione di sant'Agostino. Egli
combatté apertamente l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti,
fondamentali per il suo pensiero. Inoltre valorizzò alcune tesi della filosofia
arabo-ebraica, in particolare quelle di Avicenna e di Avicebron, ispirate al
neoplatonismo. Nelle sue opere ricorre continuamente l'idea del primato della
sapienza, come alternativa ad una razionalità filosofica isolata dalle altre
facoltà dell'uomo. Egli sostiene, infatti, che: «(...) la scienza
filosofica è una via verso altre scienze. Chi si ferma resta immerso nelle
tenebre.» Secondo Bonaventura è il Cristo la via a tutte le scienze, sia
per la filosofia che per la teologia. Il progetto di Bonaventura è una
riduzione (reductio artium) non nel senso di un depotenziamento delle arti
liberali, bensì della loro unificazione sotto la luce della verità rivelata, la
sola che possa orientarle verso l'obiettivo perfetto a cui tende
imperfettamente ogni conoscenza, il vero in sé che è Dio. La distinzione delle
nove arti in tre categorie, naturali (fisica, matematica, meccanica), razionali
(logica, retorica, grammatica) e morali (politica, monastica, economica)
riflette la distinzione di res, signa ed actiones la cui verticalità non è
altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l'unione mistica. La
parzialità delle arti è per Bonaventura non altro che il rifrangersi della luce
con la quale Dio illumina il mondo: prima del peccato originale Adamo sapeva
leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata
anche perdita di questa capacità. Per aiutare l'uomo nel recupero della
contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae,
conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che
altrimenti smarrirebbe se stessa nell'autoreferenzialità. Attraverso
l'illuminazione della rivelazione, l'intelletto agente è capace di comprendere
il riflesso divino delle verità terrene inviate dall'intelletto passivo, quali
pallidi riflessi delle verità eterne che Dio perfettamente pensa mediante il
Verbo. Ciò rappresenta l'accesso al terzo libro, Liber Vitae, leggibile solo
per sintesi collaborativa tra fede e ragione: la perfetta verità, assoluta ed
eterna in Dio, non è un dato acquisito, ma una forza la cui dinamica si attua
storicamente nella reggenza delle verità con le quali Dio mantiene l'ordine del
creato. Lo svelamento di quest'ordine è la lettura del terzo libro che per
segni di dignità sempre maggior avvicina l'uomo alla fonte di ogni
verità. La primitas divina o "primalità di Dio" è il sostegno a
tutto l'impianto teologico di Bonaventura. Nella sua prima opera, il Breviloquium,
egli definisce i caratteri della teologia affermando che, poiché il suo oggetto
è Dio, essa ha il compito di dimostrare che la verità della sacra scrittura è
da Dio, su Dio, secondo Dio ed ha come fine Dio. L'unita del suo oggetto
determina come unitaria ed ordinata la teologia perché la sua struttura
corrisponde ai caratteri del suo oggetto. Nella sua opera più famosa,
l'Itinerarium mentis in Deum ("L'itinerario della mente verso Dio"),
Bonaventura spiega che il criterio di valore e la misura della verità si
acquisiscono dalla fede, e non dalla ragione (come sostenevano gli
averroisti). Da ciò fa conseguire che la filosofia serve a dare aiuto
alla ricerca umana di Dio, e può farlo, come diceva sant'Agostino, solo
riportando l'uomo alla propria dimensione interiore (cioè l'anima), e,
attraverso questa, ricondurlo infine a Dio. Secondo Bonaventura, dunque, il
«viaggio» spirituale verso Dio è frutto di una illuminazione divina, che
proviene dalla «ragione suprema» di Dio stesso. Per giungere a Dio, quindi,
l'uomo deve passare attraverso tre gradi, che, tuttavia, devono essere
preceduti dall'intensa ed umile preghiera, poiché: «(...) nessuno può
giungere alla beatitudine se non trascende sé stesso, non con il corpo, ma con
lo spirito. Ma non possiamo elevarci da noi se non attraverso una virtù
superiore. Qualunque siano le disposizioni interiori, queste non hanno alcun
potere senza l'aiuto della Grazia divina. Ma questa è concessa solo a coloro
che la chiedono (...) con fervida preghiera. È la preghiera il principio e la sorgente
della nostra elevazione. (...) Così pregando, siamo illuminati nel conoscere i
gradi dell'ascesa a Dio.» La "scala" dei 3 gradi dell'ascesa a
Dio è simili alla "scala" dei 4 gradi dell'amore di Bernardo di
Chiaravalle, anche se non uguale; tali gradi sono: 1) Il grado esteriore:
«(...) è necessario che prima consideriamo gli oggetti corporei, temporali e
fuori di noi, nei quali è l'orma di Dio, e questo significa incamminarsi per la
via di Dio.» 2) Il grado interiore: «È necessario poi rientrare in noi
stessi, perché la nostra mente è immagine di Dio, immortale, spirituale e
dentro di noi, il che ci conduce nella verità di Dio.» 3) Il grado
eterno: «Infine, occorre elevarci a ciò che è eterno, spiritualissimo e sopra
di noi, aprendoci al primo principio, e questo dona gioia nella conoscenza di
Dio e omaggio alla Sua maestà.» Inoltre, afferma Bonaventura, in
corrispondenza a tali gradi l'anima ha anche tre diverse direzioni:
«(...) L'una si riferisce alle cose esteriori, e si chiama animalità o sensibilità;
l'altra ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé; la terza ha per
oggetto la mente, che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che
devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché l'ami con tutta la mente, con
tutto il cuore, con tutta l'anima (...).» (San Bonaventura da Bagnoregio,
Itinerarium mentis in Deum) Dunque, per Bonaventura, l'unica conoscenza
possibile è quella contemplativa, cioè la via dell'illuminazione, che porta a
cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino di accostarsi a Dio
misticamente. L'illuminazione guida anche l'azione umana, in quanto solo essa
determina la sinderesi, cioè la disposizione pratica al bene. Bonaventura
elaborò una teologia trinitaria di derivazione agostiniana, in quanto volle
evidenziare l'unità del Dio-Trino, come forza, che unisce le tre persone. Ma
tale unità è conciliabile con la pluralità delle persone: unità e trinità sono
sempre insieme. I dati presenti nella Scrittura presentano all'uomo la verità
rivelata: in Dio vi sono tre persone. Due sono le fasi dell'auto-rivelazione di
Dio: la prima nella creazione, la seconda in Cristo. Il mondo, per Bonaventura,
è come un libro da cui traspare la Trinità che l'ha creato. Noi possiamo
ritrovare la Trinità extra nos (cioè "fuori di noi"), intra nos
("in noi") e super nos ("sopra di noi"). Infatti, la
Trinità si rivela in 3 modi: come vestigia (o impronta) di Dio, che si
manifesta in ogni essere, animato o inanimato che sia; come immagine di Dio, che
si trova solo nelle creature dotate d'intelletto, in cui risplendono memoria,
intelligenza e volontà; come similitudine di Dio, che è qualità propria delle
creature giuste e sante, toccate dalla Grazia e animate da fede, speranza e
carità; quindi, quest'ultima è ciò che ci rende "figli di Dio". La
Creazione dunque è ordinata secondo una scala gerarchica trinitaria e la natura
non ha sua consistenza, ma si rivela come segno visibile del principio divino
che l'ha creata; solo in questo, quindi, trova il suo significato. Bonaventura
trae questo principio anche da un passo evangelico, in cui i discepoli di Gesù
dissero: ««Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace
in cielo e gloria nel più alto dei cieli!» Alcuni farisei tra la folla gli
dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli.» Ma egli rispose: «Vi dico che,
se questi taceranno, grideranno le pietre.»» (Lc, 19,38-40) Le creature,
dunque, sono impronte, immagini, similitudini di Dio, e persino le pietre
"gridano" tale loro legame col divino. Opere Breviloquium
(Breviloquio) Collationes de decem praeceptis (Raccolte su dieci precetti)
Collationes de septem donis Spiritus Sanctis (Raccolte sui sette doni dello
Spirito Santo) Collationes in Hexaemeron (Raccolte nei Sei Giorni della
Creazione) Commentaria in quattuor libros sententiarum Magistri Petri Lombardi
(Commentari in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo) De
mysterio Trinitatis (Il mistero della Trinità; questione disputata) De
perfectione vitae ad sorores (La perfezione della vita alle sorelle) De
reductione artium ad theologiam (La riduzione della arti alla teologia) De
Regno Dei descripto in parabolis evangelicis (Il Regno di Dio descritto nelle
parabole evangeliche) De scientia Christi et mysterio Trinitatis (La conoscenza
di Cristo ed il mistero della Trinità) De sex alis Seraphin (Le sei ali dei
Serafini) De triplici via (La triplice via) Itinerarium mentis in Deum
(Itinerario della mente verso Dio) Legenda majior Sancti Francisci (La leggenda
maggiore di San Francesco) Legenda minor Sancti Francisci (La leggenda minore
di San Francesco) Lignum vitae (L'Albero della vita) Officium de passione
Domini (L'Ufficio della passione del Signore) Quaestiones de perfectione
evangelica (Questioni sopra la perfezione evangelica) Soliloquium (Soliloquio)
Summa theologiae (Complesso di teologia) Vitis mystica (La vite
mistica) Note ^ Eletto Ramacci, S. Bonaventura e il Santo Braccio,
Bagnoregio, Associazione Organum, 1991. ^ Oggi del convento restano solo i
ruderi. ^ Grado Giovanni Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei
Minori, in Maria Pia Alberzoni, et al., Francesco d'Assisi e il primo secolo di
storia francescana, Torino, Einaudi, 1997. pp. 28-30. ^ G. Bosco, Storia
ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino,
Libreria Salesiana Editore, 1904, p. 284. URL consultato il 4 novembre 2018
(archiviato il 4 novembre 2018)., con l'approvazione del card. Lorenzo
Gastaldi, arcivescovo di Torino ^ Cesare Pinzi,Storia della Città di
Viterbo,Tip.Camera dei Deputati, Roma, 1887-89,lib.VII. Il Pinzi parla
dettagliatamente degli interventi di Bonaventura a Viterbo in occasione del
Conclave e dell'amicizia con Gregorio X. Bibliografia Testi Bonaventura da
Bagnorea (presunto), Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson,
circa 1478. Bonaventura da Bagnorea, Legenda maior, Milano, Ulrich
Scinzenzeler, 1495. Bonaventura da Bagnorea, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe
; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea, Expositiones
in Testamentum novum, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde,
Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea,
Opuscula, vol. 1, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, vol. 2, Lyon, Borde, Philippe ; Borde,
Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros
sententiarum, vol. 1, Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent,
1668. Bonaventura da Bagnorea, Commentaria in libros sententiarum, vol. 2,
Lyon, Borde, Philippe ; Borde, Pierre ; Arnaud, Laurent, 1668. Studi Bettoni
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Ramacci, Un Inno per S. Bonaventura (1560), Associazione Organum, Bagnoregio,
2017. Emiliano Ramacci, S. Bonaventura da Bagnoregio - Miracoli, Associazione
Organum, Bagnoregio, 2020. Voci correlate Dottore della Chiesa Filosofia
scolastica. Il Quadragesimale de Contemptu Mundi Pontificia Facoltà Teologica
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Modifica su Wikidata (EN) Tim Noone e R. E. Houser, Saint Bonaventure, su
Stanford Encyclopedia of Philosophy. Biografia di San Francesco d'Assisi (PDF),
su assisiofm.it. scritta da San Bonaventura da Bagnoregio Itinerario della
mente in Dio (PDF), su lamelagrana.net. (LA) Itinerarium mentis in Deum, su
thelatinlibrary.com. (FR) Oeuvres spirituelles, su abbaye-saint-benoit.ch. URL
consultato il 26 aprile 2007 (archiviato dall'url originale il 30 aprile 2007).
(LA) S. Bonaventura: Opera Omnia Peltiero Edente, su
documentacatholicaomnia.eu. (LA) San Bonaventura online, su
dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di
Quaracchi (EN) Salvador Miranda, BONAVENTURA, O.F.M., su fiu.edu – The
Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University.
PredecessoreMinistro generale dell'Ordine dei Frati
MinoriSuccessoreFrancescocoa.png Giovanni da Parma2 febbraio 1257 - 15 luglio
1274Girolamo Masci d'Ascoli PredecessoreCardinale vescovo di
AlbanoSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Raoul Grosparmi3 giugno 1273 - 15 luglio
1274Bentivegna de' Bentivegni, O.F.M.V · D · M Padri e dottori della Chiesa
cattolica V · D · M Francescanesimo Controllo di autoritàVIAF (EN) 89657091 ·
ISNI (EN) 0000 0001 1774 1110 · SBN IT\ICCU\CFIV\029314 · LCCN (EN) n79043613 ·
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Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo
Portale Medioevo Categorie: Cardinali italiani del XIII secoloFilosofi italiani
del XIII secoloTeologi italianiMorti nel 1274Morti il 15 luglioNati a
BagnoregioMorti a LioneBonaventura da BagnoregioSanti canonizzati da Sisto
IVCardinali nominati da Gregorio XDottori della Chiesa cattolicaFrancescani
italianiInnatistiNeoplatoniciPersonaggi citati nella Divina Commedia
(Paradiso)Santi per nomeSanti italiani del XIII secoloSanti minoritiScolasticiCardinali
francescani del XIII secoloVescovi e cardinali vescovi di AlbanoVescovi e
arcivescovi cattolici di YorkFilosofi cattoliciScrittori medievali in lingua
latinaVescovi francescani[altre]. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
figura: figure-ground, the discrimination of an object or
figure from the context or background against which it is set. Even when a
connected region is grouped together properly, as in the famous figure that can
be seen either as a pair of faces or as a vase, it is possible to interpret the
region alternately as figure and as ground. This fact was originally elaborated
in 1 by Edgar Rubin 6 1. Figureground effects and the existence of other
ambiguous figures such as the Necker cube and the duck-rabbit challenged the
prevailing assumption, Vitters thought, in classical theories of
perception maintained, e.g., by H. P.
Grice and J. S. Mill and H. von Helmholtz
that complex perceptions could be understood in terms of primitive
sensations constituting them. The underdetermination of perception by the
visual stimulus, noted by Berkeley in his Essay of 1709, takes account of the
fact that the retinal image is impoverished with respect to threedimensional
information. Identical stimulation at the retina can result from radically
different distal sources. Within Gestalt psychology, the Gestalt, or pattern,
was recognized to be underdetermined by constituent parts available in proximal
stimuli. M. Wertheimer 03 observed in 2 that apparent motion could be induced
by viewing a series of still pictures in rapid succession. He concluded that
perception of the whole, as involving movement, was fundamentally different
from the perception of the static images of which it is composed. W. Köhler An
example of visual reversal from Edgar Rubin: the object depicted can be seen
alternately as a vase or as a pair of faces. The reversal occurs whether there
is a black ground and white figure or white figure and black ground. figure
figure ground 310 310 77 observed that there was no figure
ground articulation in the retinal image, and concluded that inherently
ambiguous stimuli required some autonomous selective principles of perceptual
organization. As subsequently developed by Gestalt psychologists, form is taken
as the primitive unit of perception. In philosophical treatments, figureground
effects are used to enforce the conclusion that interpretation is central to
perception, and that perceptions are no more than hypotheses based on sensory
data. Refs.: Grice, “You can’t see a knife as a knife,” “The Causal Theory of
Perception,” Vitters on ‘seeing-as’”. figura -- schema (Latin ‘figura,’ as in Grice,
‘figure of speech’), also schema plural: schemata, a metalinguistic frame or
template used to specify an infinite set of sentences, its instances, by finite
means, often taken with a side condition on how its blanks or placeholders are
to be filled. The sentence ‘Either Abe argues or it is not the case that Abe
argues’ is an instance of the excluded middle scheme for English: ‘Either . . .
or it is not the case that . . .’, where the two blanks are to be filled with
one and the same well-formed declarative English sentence. Since first-order
number theory cannot be finitely axiomatized, the mathematical induction scheme
is used to effectively specify an infinite set of axioms: ‘If zero is such that
. . . and the successor of every number such that . . . is also such that . . .
, then every number is such that . . .’, where the four blanks are to be filled
with one and the same arithmetic open sentence, such as ‘it precedes its own
successor’ or ‘it is finite’. Among the best-known is Tarski’s scheme T: ‘. . .
is a true sentence if and only if . . .’, where the second blank is filled with
a sentence and the first blank by a name of the sentence. And then there’s the figura quadrata: square of opposition – figura
quadrata – Grice: “It is clear that the apparatus of Modernism does not give a
faithful account of the character of semantic phenomena. One such less than
faithful account, indeed, deviant account, appears in the treatment of the
square of opposition.” cited by Grice in “Retrospective epilogue.” Since
tutoring Strawson on this for Strawson’s ‘logic paper,’ Grice kept an interest,
if only to witness Strwson’s playing with the square – and ‘uselessly trying to
circle it’ -- a graphic representation of various logical relations among
categorical propositions. Relations among modal and even among hypothetical
propositions have also been represented on the square. Two propositions are
said to be each other’s 1 contradictories if exactly one of them must be true
and exactly one false; 2 contraries if they could not both be true although
they could both be false; and 3 subcontraries if at least one of them must be
true although both of them may be true. There is a relation of 4 subalternation
of one proposition, called subaltern, to another called superaltern, if the
truth of the latter implies the truth of the former, but not conversely.
Applying these definitions to the four types of categorical propositions, we
find that SaP and SoP are contradictories, and so are SeP and SiP. SaP and SeP
are contraries. SiP and SoP are subcontraries. SiP is subaltern to SaP, and SoP
is subaltern to SeP. These relations can be represented graphically in a square
of opposition: The four relations on the traditional square are expressed in
the following theses: Contradictories: SaP S -SoP, SeP S -SiP Contraries: -SaP
& SeP or SaP P -SeP Subcontraries: SiP 7 SoP Subalterns: SaP P SiP, SeP P
SoP For these relations to hold, an underlying existential assumption must be
satisfied: the terms serving as subjects of propositions must be satisfied, not
empty e.g., ‘man’ is satisfied and ‘elf’ empty. Only the contradictory
opposition remains without that assumption. Modern interpretations of
categorical propositions exclude the existential assumption; thus, only the
contradictory opposition remains in the square.
Refs.: H. P. Grice, “Apuleius on the square of opposition,” H. P. Grice,
“Boethius and the square of opposition.”
filmer: r. English
political writer who produced, most importantly, the posthumous Patriarcha It
is remembered because Locke attacked it in the first of his Two Treatises of
Government 1690. Filmer argued that God gave complete authority over the world
to Adam, and that from him it descended to his eldest son when he became the
head of the family. Thereafter only fathers directly descended from Adam could
properly be rulers. Just as Adam’s rule was not derived from the consent of his
family, so the king’s inherited authority is not dependent on popular consent.
He rightly makes laws and imposes taxes at his own good pleasure, though like a
good father he has the welfare of his subjects in view. Filmer’s
patriarchalism, intended to bolster the absolute power of the king, is the
classic English statement of the doctrine.
find
play
– where Grice’s implicaturum finds play Strawson Wiggins p. 523
Fides – cf. con-fido – con-fidence --
Fides: -- justification by faith, the characteristic doctrine of the Protestant
Reformation that sinful human beings can be justified before God through faith
in Jesus Christ. ‘Being justified’ is understood in forensic terms: before the
court of divine justice humans are not considered guilty because of their sins,
but rather are declared by God to be holy and righteous in virtue of the
righteousness of Christ, which God counts on their behalf. Justification is
received by faith, which is not merely belief in Christian doctrine but
includes a sincere and heartfelt trust and commitment to God in Christ for
one’s salvation. Such faith, if genuine, leads to the reception of the
transforming influences of God’s grace and to a life of love, obedience, and
service to God. These consequences of faith, however, are considered under the
heading of sanctification rather than justification. The rival Roman Catholic
doctrine of justification – often mislabeled by Protestants as “justification
by works” – understands key terms differently. ‘Being just’ is understood not
primarily in forensic terms but rather as a comprehensive state of being
rightly related to God, including the forgiveness of sins, the reception of
divine grace, and inner transformation. Justification is a work of God
initially accomplished at baptism; among the human “predispositions” for
justification are faith (understood as believing the truths God has revealed),
awareness of one’s sinfulness, hope in God’s mercy, and a resolve to do what
God requires. Salvation is a gift of God that is not deserved by human beings,
but the measure of grace bestowed depends to some extent on the sincere efforts
of the sinner who is seeking salvation. The Protestant and Catholic doctrines
are not fully consistent with each other, but neither are they the polar
opposites they are often made to appear by the caricatures each side offers of
the other.
finis: H. P. Grice, "Cum finis est licitus, etiam media
sunt licita" -- "Der Zweck und die Mittel.” Grice: “means-end
rationality is a must” -- finitum -- telos, ancient Grecian term meaning ‘end’
or ‘purpose’. Telos is a key concept not only in Grecian ethics but also in
Grecian science. The purpose of a human being is a good life, and human
activities are evaluated according to whether they lead to or manifest this
telos. Plants, animals, and even inanimate objects were also thought to have a
telos through which their activities and relations could be understood and
evaluated. Though a telos could be something that transcends human activities
and sensible things, as Plato thought, it need not be anything apart from
nature. Aristotle, e.g., identified the telos of a sensible thing with its
immanent form. It follows that the purpose of the thing is simply to be what it
is and that, in general, a thing pursues its purpose when it endeavors to
preserve itself. Aristotle’s view shows that ‘purpose in nature’ need not mean
a higher purpose beyond nature. Yet, his immanent purpose does not exclude
“higher” purposes, and Aristotelian teleology was pressed into service by
medieval thinkers as a framework for understanding God’s agency through nature.
Thinkers in the modern period argued against the prominent role accorded to
telos by ancient telepathy telos 906
906 and medieval thinkers, and they replaced it with analyses in terms
of mechanism and law. teleology, the philosophical doctrine that all of nature,
or at least intentional agents, are goaldirected or functionally organized.
Plato first suggested that the organization of the natural world can be
understood by comparing it to the behavior of an intentional agent external teleology. For example, human beings
can anticipate the future and behave in ways calculated to realize their
telekinesis teleology 905 905 intentions.
Aristotle invested nature itself with goals
internal teleology. Each kind has its own final cause, and entities are
so constructed that they tend to realize this goal. Heavenly bodies travel as
nearly as they are able in perfect circles because that is their nature, while
horses give rise to other horses because that is their nature. Natural
theologians combined these two teleological perspectives to explain all
phenomena by reference to the intentions of a beneficent, omniscient,
all-powerful God. God so constructed the world that each entity is invested
with the tendency to fulfill its own God-given nature. Darwin explained the
teleological character of the living world non-teleologically. The evolutionary
process is not itself teleological, but it gives rise to functionally organized
systems and intentional agents. Present-day philosophers acknowledge
intentional behavior and functional organization but attempt to explain both
without reference to a supernatural agent or internal natures of the more
metaphysical sort. Instead, they define ‘function’ cybernetically, in terms of
persistence toward a goal state under varying conditions, or etiologically, in
terms of the contribution that a structure or action makes to the realization
of a goal state. These definitions confront a battery of counterexamples
designed to show that the condition mentioned is either not necessary, not
sufficient, or both; e.g., missing goal objects, too many goals, or functional
equivalents. The trend has been to decrease the scope of teleological
explanations from all of nature, to the organization of those entities that
arise through natural selection, to their final refuge in the behavior of human
beings. Behaviorists have attempted to eliminate this last vestige of teleology.
Just as natural selection makes the attribution of goals for biological species
redundant, the selection of behavior in terms of its consequences is designed
to make any reference to intentions on the part of human beings unnecessary. Kant, in fact,
for reasons not unlike these, sought to show the validity of a different but
fairly closely related Technical Imperative by just such a method. The form
which he selects is one which, in my terms, would be represented by "It is
fully acceptable, given let it be that B, that let it be that A" or
"It is necessary, given let it be that B, that let it be that A".
Applying this to the one fully stated technical imperative given in
Grundlegung, we get "It is necessary, given let it be that one bisect a
line on an unerring principle, that let it be that I draw from its extremities
two intersecting arcs". Call this statement, (α). Though he does not
express himself very clearly, I am certain that his claim is that this
imperative is validated in virtue of the fact that it is, analytically, a
consequence of an indicative statement which is true and, in the present
context, unproblematic, namely, the statement vouched for by geometry, that if
one bisects a line on an unerring principle, then one does so only as a result
of having drawn from its extremities two intersecting arcs. Call this
statement, (β). His argument seems to be expressible as follows. (1) It is
analytic that he who wills the end (so far as reason decides his conduct),
wills the indispensable means thereto. (2) So it is analytic that (so far as
one is rational) if one wills that A, and judges that if A, then A as a result
of B, then one wills that B. end p.93 (3) So it is analytic that (so far as one
is rational) if one judges that if A, then A as a result of B, then if one
wills that A then one wills that B. (4) So it is analytic that, if it is true
that if A, then A as a result of B, then if let it be that A, then it must be
that let it be that B. From which, by substitution, we derive (5): it is analytic
that if β then α. Now it seems to me to be meritorious, on Kant's part, first
that he saw a need to justify hypothetical imperatives of this sort, which it
is only too easy to take for granted, and second that he invoked the principle
that "he who wills the end, wills the means"; intuitively, this
invocation seems right. Unfortunately, however, the step from (3) to (4) seems
open to dispute on two different counts. (1) It looks as if an unwarranted
'must' has appeared in the consequent of the conditional which is claimed, in
(4), as analytic; the most that, to all appearances, could be claimed as being
true of the antecedent is that 'if let it be that A then let it be that B'. (2)
(Perhaps more serious.) It is by no means clear by what right the psychological
verbs 'judge' and 'will', which appear in (3), are omitted in (4); how does an
(alleged) analytic connection between (i) judging that if A, A as a result of B
and (ii) its being the case that if one wills that A then one wills that B
yield an analytic connection between (i) it's being the case that if A, A as a
result of B and (ii) the 'proposition' that if let it be that A then let it be
that B? Can the presence in (3) of the phrase "in so far as one is
rational" legitimize this step? I do not know what remedy to propose for
the first of these two difficulties; but I will attempt a reconstruction of
Kant's line of argument which might provide relief from the second. It might,
indeed, even be an expansion of Kant's
actual thinking; but whether or not this is so, I am a very long way from being
confident in its adequacy. (1) Let us suppose it to be a fundamental
psychological law that, ceteris paribus, for any creature x (of a sufficiently
developed kind), no matter what A and B are, if x wills A and judges that if A,
A only as a result of B, then x wills B. This I take to be a proper
representation of "he who wills the end, wills the indispensable
means"; and in calling it a fundamental law I mean that it is the end p.94
law, or one of the laws, from which 'willing' and 'judging' derive their sense
as names of concepts which explain behaviour. So, I assume, to reject it would
be to deprive these words of their sense. If x is a rational creature, since in
this case his attitudes of acceptance are at least to some degree under his
control (volitive or judicative assent can be withheld or refused), this law
will hold for him only if the following is true: (2) x wills (it is x's will)
that (for any A, B) if x wills that A and judges that if A, A only as a result
of B, then x is to will that B. In so far as x proceeds rationally, x should
will as specified in (2) only if x judges that if it is satisfactory to will
that A and also satisfactory to judge that if A, A only as a result of B, then
it is satisfactory to will that B; otherwise, in willing as specified in (2),
he will be willing to run the risk of passing from satisfactory attitudes to
unsatisfactory ones. So, given that x wills as specified in (2): (3) x should
(qua rational) judge that (for any A, B) if it is satisfactory to will that A
and also satisfactory to judge that if A, A only as a result of B, then it is
satisfactory to will that B. Since the satisfactoriness of attitudes of
acceptance resolves itself into the satisfactoriness (in the sense distinguished
in the previous chapter) of the contents of those attitudes (marked by the
appropriate mode-markers), if x judges as specified in (3) then: (4) x should
(qua rational) judge that (for any A, B) if it is satisfactory that ! A and
also satisfactory that if it is the case that A, A only as a result of B, then
it is satisfactory that ! B. And, if x judges as in (4), then (because (A &
B → C) yields A → (B → C)): (5) x should judge that (for any A, B) if it is
satisfactory that if A, A only because B, then it is satisfactory that, if let
it be that A, then let it be that B. But if x judges that satisfactoriness is,
for any A, B, transmitted in this particular way, then: (6) x should judge that
(for any A, B) if A, A only because B, yields if let it be that A, then let it
be that B. end p.95 But if any rational being should (qua rational) judge that
(for any A, B) the first 'propositional' form yields the second, then the first
propositional form does yield the second; so: (7) (For any A, B) if A, A only
because B yields if let it be that A, then let it be that B. (A special apology
for the particularly violent disregard of 'use and mention'; my usual reason is
offered.) Fig. 4 summarizes the steps of the argument. I. Kant's Steps α = It
is necessary, given let it be that one bisect a line on an unerring principle,
that let it be that I draw from its extremities two intersecting arcs. β = If
one bisects a line on an unerring principle, then one does so only as a result
of having drawn from its extremities two intersecting arcs. (1) It is analytic
that (so far as he is rational) he who wills the end wills the means. (2) It is
analytic that (so far as one is rational) if one wills that A, and judges that
if A, then A only as a result of B, then one wills that B. (3) It is analytic
that (so far as one is rational) if one judges that if A, A as a result of B,
then if one wills that A one wills that B. (4) It is analytic that if, if A,
then A as a result of B, then, if let it be that A, then it must be that let it
be that B. (5) It is analytic that if β, then α. Grice goes on to
provide some Reconstruction Steps (1)
Fundamental law that (ceteris paribus) for any creature x (for any A, B), if x
wills A and judges that if A, then A as a result of B; then x wills B. (2) x
wills that (for any A, B) if x wills A and judges that if A, A as a result of
B, then x is to will that B. (3) x should (qua rational) judge that (for any A,
B) if it is satisfactory to will that A and also satisfactory to judge that if
A, A only as a result of B, then it is satisfactory to will that B. (4) x
should (qua rational) judge that (for any A, B) if it is satisfactory that ! A
and also satisfactory that if ⊢A,
then ⊢A only as a result of B, then it is
satisfactory that ! B. (5) x should (q.r.) judge that (for any A, B) if it is
satisfactory that if ⊢A, ⊢A
only because B, then it is satisfactory that, if let it be that A, then let it
be that B. (6) x should (q.r.) judge that (for any A, B) if A, A only because
B, yields if let it be that A, then let it be that B. (7) (For any A, B) if A,
A only because B yields if let it be that A, then let it be that B. Fig. 4.
Validation of Technical Acceptabilities end p.96 Prudential Acceptability It
will be convenient to initiate the discussion of this topic by again referring
to Kant. Kant thought that there is a special sub-class of Hypothetical
Imperatives (which he called "counsels of prudence") which were like
his class of Technical Imperatives, except in that the end specified in a full
statement of the imperative is the special end of Happiness (one's happiness).
To translate into my terminology, this seems to amount to the thesis that there
is a special subclass of, for example, singular practical acceptability
conditionals which exemplifies the structure "it is acceptable, given that
let a (an individual) be happy, that let a be (do) G"; an additional
indicative sub-antecedent ("that it is the case that a is F") might
be sometimes needed, and could be added without difficulty. There would,
presumably, be a corresponding special subclass of acceptability
generalizations. The main characteristics which Kant would attribute to such
prudential acceptability conditionals would, I think, be the following. (1) The
foundation for such conditionals is exactly the same as that for technical
imperatives; they would be treated as being, in principle, analytically
consequences of indicative statements to the effect that so-and-so is a (the)
means to such-and-such. The relation between my doing philosophy now and my
being happy would be a causal relation not significantly different from the
relation between my taking an aspirin and my being relieved of my headache. (2)
However, though the relation would be the same, the question whether in fact my
doing philosophy now will promote my happiness is insoluble; to solve it, I
should have to be omniscient, since I should have to determine that my doing
philosophy now would lead to "a maximum of welfare in my present and all
future circumstances". (3) The special end (happiness) of specific
prudential acceptability conditionals is one which we know that, as a matter of
"natural necessity", every human being has; so, unlike technical
imperatives, their applicability to himself cannot be disclaimed by any human
being. end p.97 (4) Before we bring in the demands of morality (which will
prescribe concern for our own happiness as a derivative duty), the only
positive evaluation of a desire for one's happiness is an alethic evaluation;
one ought to, or must, desire one's own happiness only in the sense that,
whoever one may be, it is acceptable that it is the case that one desire one's
own happiness; the 'ought' or 'must' is non-practical. (This position seems to
me akin to a Humean appeal to 'natural dispositions', in place of
justification.) I would wish to disagree with Kant in two, or possibly three,
ways.(1) Kant, I think, did not devote a great deal of thought to the nature of
happiness, no doubt because he regarded it as being of little importance to the
philosophical foundations of morality. So it is not clear whether he regarded
happiness as a distinct end from the variety of ends which one might pursue
with a view to happiness, rather than as a complex end which includes (in some
sense of 'include') some of such ends. If he did regard it as a distinct end,
then I think he was wrong. (2) I think he was certainly wrong in thinking of
something's being conducive to happiness as being on all fours with, say,
something's being conducive to the relief of a headache; as, perhaps, a matter
(in both cases) of causal relationship. (3) I would like to think him wrong in
thinking that (morality apart) there is no practical interpretation of 'ought'
in which one ought to pursue (desire, aim at) one's own happiness. We have,
then, three not unconnected questions which demand some attention. (A) What is
the nature of happiness? (B) In what sense (if any) (and why) should I desire,
or aim at, my own happiness? (C) What is the nature of the connection between
things which are conducive to happiness and happiness? (What, specifically, is
implied by 'conducive'?) Though it is fiendishly difficult, I shall take up
question (C) first. I trust that I will be forgiven if I do not present a full
and coherent answer. Let us take a brief look at Aristotle. Aristotle was, I
think, more sophisticated in this area. end p.98 (1) Though it is by no means
beyond dispute, I am disposed to think that he did regard Happiness (eudaemonia)
as a complex end 'containing' (in some sense) the ends which are constitutive
of happiness; to use the jargon of recent commentators, I suspect he regarded
it as an 'inclusive' and not a 'dominant' end. (2) He certainly thought that
one should (practical 'should') aim at one's own happiness. (3) (The matter
directly relevant to my present purpose.) I strongly suspect that he did not
think that the relationship between, say, my doing philosophy and my happiness
was a straightforward causal relationship. The passage which I have in mind is
Nicomachean Ethics VI. 12, 13, where he distinguishes between wisdom
("practical wisdom") and cleverness (or, one might say,
resourcefulness). He there makes the following statements: (a) that wisdom is not
the same as cleverness, though like it, (b) that wisdom does not exist without
cleverness, (c) that wisdom is always laudable (to be wise one must be
virtuous), but cleverness is not always laudable, for example, in rogues, (d)
that the relation between wisdom and cleverness is analogous to the relation
between 'natural' virtue and virtue proper (he says this in the same place as
he says (a)). Faced with these not exactly voluminous remarks, some
commentators have been led (not I think without reluctance) to interpret
Aristotle as holding that the only difference between wisdom and cleverness is
that the former does, and the latter does not, require the presence of virtue;
to be wise is simply to be clever in good causes. Apart from the fact that
additional difficulties are generated thereby, with respect to the
interpretation of Nicomachean Ethics VI, to attribute this view to Aristotle
does not seem to indicate a very high respect for his wisdom, particularly as
the text does not seem to demand such an interpretation. Following an idea once
given me, long ago, by Austin, I would prefer to think of Aristotle as
distinguishing between the characteristic manifestation of wisdom, namely, the
ability to determine what one should do (what should be done), and the characteristic
manifestation of cleverness, which is the ability to determine how to do what
it is that should be done. On this interpretation cleverness would plainly be
in a certain sense subordinate to wisdom, since opportunity for cleverness (and
associated qualities) will only end p.99 arise after there has been some
determination of what it is that is to be done. It may also be helpful
(suggestive) to think of wisdom as being (or being assimilable to)
administrative ability, with cleverness being comparable with executive
ability. I would also like to connect cleverness, initially, with the ability
to recognize (devise) technical acceptabilities (though its scope might be
larger than this), while wisdom is shown primarily in other directions. On such
assumptions, expansion of the still obscureAristotelian distinction is plainly
a way of pursuing question (C), or questions closely related to it; for we will
be asking what other kinds of acceptabilities (beyond 'technical'
acceptabilities) we need in order to engage (or engage effectively) in
practical reasoning. I fear my contribution here will be sketchy and not very
systematic. We might start by exploring a little further the 'administrative/
executive' distinction, a distinction which, I must admit, is extremely hazy
and also not at all hard and fast (lines might be drawn, in different cases, in
quite different places). A boss tells his secretary that he will be travelling
on business to suchand-such places, next week, and asks her to arrange travel
and accommodation for him. I suspect that there is nothing peculiar about that.
But suppose, instead of giving her those instructions, he had said to her that
he wanted to travel on business somewhere or other, next week, and asked her to
arrange destinations, matters to be negotiated, firms to negotiate with, and
brief him about what to say to those whom he would visit. That would be a
little more unusual, and the secretary might reply angrily, "I am paid to
be your secretary, not to run your business for you, let alone run you."
What (philosophically) differentiates the two cases? Let us call a desire or
intention D which a man has at t "terminal for him at t" if there is
no desire or intention which he has at t, which is more specific than D; if, for
example, a man wanted at t a car, but it was also true of him that he wanted a
Mercedes, then his desire for a car would not be terminal. Now I think we can
(roughly) distinguish (at least) three ways in which a terminal desire may be
non-specific. (1) D may be finitely non-specific; for example, a man may want a
large, fierce dog (to guard his house) and not care at all what kind of large,
fierce dog he acquired; any kind will do (at least within end p.100 some normal
range). Furthermore, he does not envisage his attitude, that any kind will do,
being changed when action-time comes; he will of course get some particular
kind of dog, but what kind will simply depend on such things as availability.
(2) D may be indeterminately non-specific: that is to say the desirer may recognize,
and intend, that before he acts the desire or intention D should be made more
specific than it is; he has decided, say, that he wants a large, fierce dog,
but has not yet decided what kind he wants. It seems to me that an
indeterminately non-specific desire or intention differs from a finitely
non-specific desire in a way which is relevant to the application of the
concept of 'meanstaking'. If the man with the finitely non-specific desire for
a large, fierce dog decides on a mastiff, that would be (or at least could be)
a case of choosing a mastiff as a means to having a large, fierce dog, but not
something of which getting a large, fierce dog would be an effect. But, if the
man with the indeterminate desire for a large, fierce dog decides that he wants
a mastiff (as a further determination of that indeterminate desire), that is
not a case of meanspicking at all. (3) There is a further kind of
non-specificity which I mention only with a view to completeness: a desire D
may be vaguely, or indefinitely, non-specific; a man may have decided that he
wants a large, fierce dog, but it may not be very well defined what could count
as a large, fierce dog; a mastiff would count, and a Pekinese would not, but
what about a red setter? In such cases the desire or intention needs to be
interpreted, but not to be further specified. With regard to the first two
kinds of non-specificity, there are some remarks to be made. (1) We do not
usually (if we are sensible) make our desires more determinate than the
occasion demands; if getting a dog is not a present prospect, a man who decides
exactly what kind of dog he would like is engaging in fantasy. (2) The final
stage of determination may be left to the occasion of action; if I want to buy
some fancy curtains, I may leave the full determination of the kind until I see
them in the store. (3) Circumstances may change the status of a desire; a man
may have a finitely non-specific desire for a dog until he talks to end p.101
his wife, who changes things for him (making his desire indeterminately
non-specific). (4) Indeterminately non-specific desires may of course be
founded (and well founded) on reasons, and so may be not merely desires one
does have but also desires which one should have.We may now return to the boss
and his secretary. It seems to me that what the 'normally' behaved boss does
(assuming that he has a very new and inexperienced secretary) is to reach a
finitely non-specific desire or intention (or a set of such), communicate these
to his secretary, and leave to her the implementation of this (these)
intention(s); he presumes that nothing which she will do, and no problem which
she will encounter, will disturb his intention (for, within reasonable limits,
he does not care what she does), even though her execution of her tasks may
well involve considerable skill and diplomacy (deinotes). If she is more
senior, then he may well not himself reach a finitely, but only an
indeterminately, non-specific intention, leaving it to her to complete the
determination and trusting her to do so more or less as he would himself. If
she reaches a position in which she is empowered to make determinate his
intentions not as she thinks he would think best, but as she thinks best, then
I would say that she has ceased to be a secretary and has become an
administrative assistant. This might be a convenient place to refer briefly to
a distinction which is of some importance in practical thinking which is not
just a matter of finding a means, of one sort or another, to an already fixed
goal, and which is fairly closely related to the process of determination which
I have been describing. This is the distinction between non-propositional ends,
like power, wealth, skill at chess, gardening; and propositional or objective
ends, like to get the Dean to agree with my proposal, or that my uncle should
go to jail for his peculations of the family money. Non-propositional ends are
in my view universals, the kind of items to be named by mass-terms or abstract
nouns. I should like to regard their non-propositional appearance as genuine; I
would like them to be not only things which we can be said to pursue, but also
things which we can be said to care about; and I would not want to reduce
'caring about' to 'caring that', though of course there is an intimate end
p.102 connection between these kinds of caring. I would like to make the
following points. (1) Non-propositional ends enter into the most primitive
kinds of psychological explanation; the behaviour of lower animals is to be
explained in terms of their wanting food, not of their wanting (say) to eat an
apple. (2) Non-propositional ends are characteristically variable in degree,
and the degrees are valuationally ordered; for one who wants wealth, a greater
degree of wealth is (normally) preferable to a lesser degree. (3) They are the
type, I think, to which ultimate ends which are constitutive of happiness
belong; and not without reason, since their non-propositional, and often
non-temporal, character renders them fit members of an enduring system which is
designed to guide conduct in particular cases. (4) The process of determination
applies to them, indeed, starts with them; desire for power is (say) rendered
more determinate as desire for political power; and objectives (to get the
position of Prime Minister) may be reached by determination applied to
non-propositional ends. (5) Though it is clear to me that the distinction
exists, and that a number of particular items can be placed on one side or
another of the barrier, there is a host of uncertain examples, and the
distinction is not easy to apply. Let us now look at things from her (the
secretary's) angle. First, many (indeed most) of the things she does, though
perhaps cases of means-finding, will not be cases of finding means of the kind
which philosophers usually focus on, namely, causal means. She gets him an
air-ticket, which enables, but does not cause, him to travel to Kalamazoo,
Michigan; she arranges by telephone for him to stay at the Hotel Goosepimple;
his being booked in there is not an effect but an intended outcome of her
conversation on the telephone; and his being booked in at that hotel is not a
cause of his being booked at a hotel, but a way in which that situation or
circumstance is realized. Second, if during her operations she discovers that
there is an epidemic of yellow fever at Kalamazoo, she does not (unless she
wishes to be fired) go blindly ahead and book him in; she consults him, because
something has now happened end p.103 which will (if he knows of it) disturb his
finitely non-specific intention; indeed may confront the boss with a plurality
of conflicting (or apparently conflicting) ends or desiderata; a situation
which is next in line for consideration. Before turning to it, however, I think
I should remark that the kind of featureswhich have shown up in this
interpersonal transaction are also characteristic of solitary deliberation,
when the deliberator executes his own decisions. We are now, we suppose, at a
stage at which the secretary has come back to the boss to announce that if she
executes the task given her (implements the decision about what to do which he
has reached), there is such-and-such a snag; that is, the decision can be
implemented only at the cost of a consequence which will (or which she suspects
may) dispromote some further end which he wants to promote, or promote some
"counter-end" which he wants to dispromote. (1) We may remark that
this kind of problem is not something which only arises after a finitely
non-specific intention has been formed; exactly parallel problems are
frequently, though not invariably, encountered on the way towards a finitely
non-specific intention or desire. This prompts a further comment on Aristotle's
remark that, though wisdom is not identical with cleverness, wisdom does not
exist without cleverness. This dictum covers two distinct truths; first, that
if a man were good at deciding what to do, but terrible at executing it (he
makes a hash of working out train times, he is tactless with customs officials,
he irritates hotel clerks into non-cooperation), one might hesitate to confer
upon him the title 'wise'; at least a modicum of cleverness is required.
Second, and more interestingly, cleverness is liable to be manifested at all
stages of deliberation; every time a snag arises in connection with a tentative
determination of one's will, provided that the snag is not blatantly obvious,
some degree of cleverness is manifested in seeing that, if one does
such-and-such (as one contemplates doing), then there will be the undesirable
result that so-and-so. (2) The boss may now have to determine how 'deep' the
snag is, how radically his plan will have to be altered to surmount it. To lay
things out a bit, the boss might (in some sense of 'might'), in his
deliberation, have formed successively a series of indeterminately non-specific
intentions (I i , I ii , I iii , . . . I n ), where each end p.104 member is a
more specific determination of its predecessor, and I n represents the final
decision which he imparted to the secretary. He now (the idea is) goes back to
this sequence to find the most general (least specific) member which is such
that if he has that intention, then he is saddled with the unwanted
consequences. He then knows where modification is required. Of course, in
practice he may very well not have constructed such a convenient sequence; if
he has not, then he has partially to construct one on receipt of the bad news
from the secretary, to construct one (that is) which is just sufficiently well
filled in to enable him to be confident that a particular element in it is the
most generic intention of those he has, which generates the undesirable
consequence. Having now decided which desire or intention to remove, how does
he decide what to put in its place? How, in effect, does he 'compound' his
surviving end or ends with the new desideratum, the attainment of the end (or
the avoidance of the counter-end) which has been brought to light by the snag?
Now I have to confess that in connection with this kind of problem, I used to entertain
a certain kind of picture. Let us label (for simplicity) initially just two
ends E1 and E2, with degrees of "objective desirability" d 1 and d 2
. For any action a 1 which might realize E1, or E2, there will be a certain
probability p 1 that it will realize E1, a certain probability p 2 that it will
realize E2, and a probability p 12 (a function of p 1 and p 2 ) that it will
realize both. If E1 and E2 are inconsistent (again, for simplicity, let us
suppose they are) p 12 will be zero. We can now, in principle, characterize the
desirability of the action a 1 , relative to each end (E1 and E2), and to each
combination of ends (here just E1 and E2), as a function of the desirability of
the end and the probability that the action a 1 will realize that end, or
combination of ends. If we envisage a range of possible actions, which includes
a 1 together with other actions, we can imagine that each such action has a
certain degree of desirability relative to each end (E1 and (or) E2) and to
their combination. If we suppose that, for each possible action, these
desirabilities can be compounded (perhaps added), then we can suppose that one
particular possible action scored higher (in actiondesirability relative to
these ends) than any alternative possible action; and that this is the action
which wins out; that is, is the action which is, or at least should, end p.105
be performed. (The computation would in fact be more complex than I have
described, once account is taken of the fact that the ends involved are often
not definite (determinate) states of affairs(like becoming President), but are
variable in respect of the degree to which they might be realized (if one's end
is to make a profit from a deal, that profit might be of a varying magnitude);
so one would have to consider not merely the likelihood of a particular
action's realizing the end of making a profit, but also the likelihood of its
realizing that end to this or that degree; and this would considerably
complicate the computational problem.) No doubt most readers are far too
sensible ever to have entertained any picture even remotely resembling the
"Crazy-Bayesy" one I have just described. I was not, of course, so
foolish as to suppose that such a picture represents the manner in which anybody
actually decides what to do, though I did (at one point) consider the
possibility that it might mirror, or reflect, a process actually taking place
in the physiological underpinnings of psychological states (desires and
beliefs), a process in the 'animal spirits', so to speak. I rather thought that
it might represent an ideal, a procedure which is certainly unrealized in fact,
and quite possibly one which is in principle unrealizable in fact, but still
something to which the procedures we actually use might be thought of as
approximations, something for which they are substitutes; with the additional
thought that the closer the approximation the better the procedure. The
inspirational source of such pictures as this seems to me to be the very
pervasive conception of a mechanical model for the operations of the soul;
desires are like forces to which we are subject; and their influence on us, in
combination, is like the vectoring of forces. I am not at all sure that I
regard this as a good model; the strength of its appeal may depend considerably
on the fact that some model is needed, and that, if this one is not chosen, it
is not clear what alternative model is available. If we are not to make use of
any variant of my one-time picture, how are we to give a general representation
of the treatment of conflicting or competing ends? It seems to me that, for
example, the accountant with the injured wife in Boise might, in the first
instance, try to keep everything, to fulfil all relevant ends; he might think
of telephoning Redwood City to see if his firm could postpone for a week the
preparation of their accounts. If this is end p.106 ineffective, then he would
operate on some system of priorities. Looking after his wife plainly takes
precedence over attention to his firm's accounting, and over visiting his
mother. But having settled on measures which provide adequately for his wife's
needs, he then makes whatever adjustments he can to provide for the ends which
have lost the day. What he does not do, as a rule, is to compromise; even with
regard to his previous decision involving the conflict between the claims of
his firm and his mother, substantially he adopted a plan which would satisfy
the claims of the firm, incorporating therein a weekend with mother as a way of
doing what he could for her, having given priority to the claims of the firm.
Such systems of priorities seem to me to have, among their significant
features, the following. (1) They may be quite complex, and involve sub-systems
of priorities within a single main level of priority. It may be that, for me,
family concerns have priority over business concerns; and also that, within the
area of family concerns, matters affecting my children have priority over
matters concerning Aunt Jemima, whs been living with us all these years. (2)
There is a distinction between a standing, relatively long-term system of
priorities, and its application to particular occasions, with what might be
thought of as divergences between the two. Even though my relations with my
children have, in general, priority over my relations with Aunt Jemima, on a
particular occasion I may accord priority to spending time with Aunt Jemima to
get her out of one of her tantrums over taking my son to the zoo to see the
hippopotami. It seems to me that a further important feature of practical
thinking, which plays its part in simplifying the handling of problems with
which such thinking is concerned, is what I might call its 'revisionist'
character (in a non-practical sense of that term). Our desires, and ascriptions
of desirability, may be relative in more than one way. They may be
'desire-relative' in that my desiring A, or my regarding A as desirable, may be
dependent on my desiring, or regarding as desirable, B; the desire for, or the
desirability of, A may be parasitic on a desire for, or the desirability of, B.
This is the familiar case of A's being desired, or desirable for the sake of B.
But desires and desirabilities may be relative in another slightly less banal
way, which end p.107 (initially) one might think of as 'fact-relativity'. They
may be relative to some actual or supposed prevailing situation; and, relative
to such prevailing situations, things may be desired or thought desirablewhich
would not normally be so regarded. A man who has been sentenced to be hanged,
drawn, and quartered may be relieved and even delighted when he hears that the
sentence has been changed to beheading; and a man whose wealth runs into
hundreds of millions may be considerably upset if he loses a million or so on a
particular transaction. Indeed, sometimes, one is led to suspect that the
richer one is, the more one is liable to mind such decrements; witness the
story, no doubt apocryphal, that Paul Getty had pay-telephones installed in his
house for the use of his guests. The phenomenon of 'fact-relativity' seems to
reach at least to some extent into the area of moral desirabilities. It can be
used, I think, to provide a natural way of disposing of the Good Samaritan
paradox; and if one recalls the parable of the Prodigal Son, one may reflect
that what incensed the for so long blameless son was that there should be all
that junketing about a fact-relative desirability manifested by his errant
brother; why should one get a party for that? It perhaps fits in very well with
these reflections that our practical thinking, or a great part of it, should be
revisionist or incremental in character; that what very frequently happens is
that we find something in the prevailing situation (or the situation
anticipated as prevailing) which could do with improvement or remove a blemish.
We do not, normally, set to work to construct a minor Utopia. It is notable
that aversions play a particularly important role in incremental deliberations;
and it is perhaps just that (up to a point) the removal of objects of aversion
should take precedence over the installation of objects of desire. If I have to
do without something which I desire, the desired object is not (unless the
desire is extreme) constantly present in imagination to remind me that I am
doing without it; but if I have to do or have something which I dislike, the
object of aversion is present in reality, and so difficult to escape. This
revisionist kind of thinking seems to me to extend from the loftiest problems
(how to plan my life, which becomes how to improve on the pattern which
prevails) to the smallest (how to arrange the furniture); and it extends also,
at the next move so to speak, to the projected improvements which I entertain
in thought; I seek to improve on them; a master chess-player, end p.108 it is
said, sees at once what would be a good move for him to make; all his thought
is devoted to trying to find a better one. When one looks at the matter a
little more closely, one sees that 'fact-relative' desirability is really desirability
relative to an anticipated, expected, or feared temporal extension of the
actual state of affairs which prevails (an extension which is not necessarily
identical with what prevails, but which will come about unless something is
done about it). And looked at a little more closely still, such desires or
desirabilities are seen to be essentially comparative; what we try for is
thought of as better than the anticipated state which prompts us to try for it.
This raises the large and difficult question, how far is desirability of its
nature comparative? Is it just that the pundits have not yet given us a
non-comparative concept of desirability, or is there something in the nature of
desire, or in the use we want to make of the concept of desirability, which is
a good reason why we cannot have, or should not have, a noncomparative concept?
Or, perhaps, we do have one, which operates only in limited regions? Certainly
we do not have to think in narrowly incremental ways, as is attested by those
who seek to comfort us (or discomfort us) by getting us to count our blessings
(or the reverse); by, for example, pointing out that being beheaded is not
really so hot, or that, if you have 200 million left after a bad deal, you are
not doing so badly. Are such comforters abandoning comparative desirability, or
are they merely shifting the term of comparison? Do we find non-comparative
desirability (perhaps among other regions) in moral regions? If we say that a
man is honest, we are likely to mean that he is at least not less honest than
the average; but we do not expect a man, who wants or tries to be honest, just
to want or try to be averagely honest. Nor do we expect him to aspire to
supreme or perfect honesty (that might be a trifle presumptuous). We do expect,
perhaps, that he try to be as honest as he can, which may mean that we don't
expect him to form aspirations with regard to a lifetime record of any sort for
honesty, but we do expect him to try on each occasion, or limited bunch of
occasions, to be impeccably honest on those occasions, even though we know (and
he knows) that on some occasions at some times there will or may be lapses. If
something like this interpretation be correct, it may correspond to a general
feature of universals (non-propositional ends) of which one cannot have end
p.109 too much, a type of which certain moral universals are specimens;
desirabilities in the case of such universals are, perhaps, not comparative.
But these are unworked-out speculations.To summarize briefly this rambling,
hopefully somewhat diagnostic, and certainly unsystematic discussion. I have
suggested, in a preliminary enquiry into practical acceptability which is other
than technical acceptability: (1) that practical thinking, which is not just
means-end thinking, includes the determination or sharpening of antecedently
indeterminate desires and intentions; (2) that means-end thinking is involved
in the process of such determination; (3) that a certain sort of computational
model may not be suitable; (4) that systems of priorities, both general and
tailored to occasions, are central; (5) that much, though not perhaps all, of
practical thinking is revisionist and comparative in character. I turn now to a
brief consideration of questions (A) and (B) which I distinguished earlier, and
left on one side. These questions are: (A) What is the nature of happiness? (B)
In what sense, and why, should I desire or aim at my own happiness? I shall
take them together. First, question (B) seems to me to divide, on closer
examination, into three further questions. (1) Is there justification for the
supposition that one should, other things being equal, voluntarily continue
one's existence, rather than end it? (2) (Given that the answer to (1) is
'yes'.) Is there justification for the idea that one should desire or seek to
be happy? (3) (Given that the answer to (2) is 'yes'.) Is there a way of
justifying (evaluating favourably) the acceptance of some particular set of
ends (as distinct from all other such sets) as constitutive of happiness (or of
my happiness)? end p.110 The second and third questions, particularly the
third, are closely related to, and likely to be dependent on, the account of
happiness provided in answer to question (A); indeed, such an account might
wholly or partly provide an answer to question (3), since "happiness"
might turn out to be a valueparadigmatic term, the meaning of which dictates
that to be happy is to have a combination of ends which (the combination) is
valuable with respect to some particular purpose or point of view. I shall say
nothing about the first two questions; one or both of these would, I suspect,
require a careful treatment of the idea of Final Causes, which so far I have
not even mentioned. I will discuss the third question and question (A) in the
next chapter. end p.111 5 Some Reflections About Ends and Happiness I The topic
which I have chosen is one which eminently deserves a thorough, systematic, and
fully theoretical treatment; such an approach would involve, I suspect, a
careful analysis of the often subtly different kinds of state which may be
denoted by the word 'want', together with a comprehensive examination of the
role which different sorts of wanting play in the psychological equipment of
rational (and non-rational) creatures. While I hope to touch on matters of this
sort, I do not feel myself to be quite in a position to attempt an analysis of
this kind, which would in any case be a very lengthy undertaking. So, to give
direction to my discussion, and to keep it within tolerable limits, I shall
relate it to some questions arising out of Aristotle's handling of this topic
in the Nicomachean Ethics; such a procedure on my part may have the additional
advantage of emphasizing the idea, in which I believe, that the proper habitat
for such great works of the past as the Nicomachean Ethics is not the museums
but the marketplaces of philosophy. My initial Aristotelian question concerns
two conditions which Aristotle supposes to have to be satisfied by whatever is
to be recognized as being the good for man. At the beginning of Nicomachean
Ethics I. 4, Aristotle notes that there is general agreement that the good for
man is to be identified with eudaemonia (which may or may not be well rendered
as 'happiness'), and that this in turn is to be identified with living well and
with doing well; but remarks that there is large-scale disagreement with
respect to any further and more informative specification of eudaemonia. In I.
7 he seeksend p.112 to confirm the identification of the good for man with
eudaemonia by specifying two features, maximal finality (unqualified finality)
and self-sufficiency, which, supposedly, both are required of anything which is
to qualify as the good for man, and are also satisfied by eudaemonia. 'Maximal
finality' is defined as follows: "Now we call that which is in itself
worthy of pursuit more final than that which is worthy of pursuit for the sake
of something else, and that which is never desirable for the sake of something
else more final than the things which are desirable both in themselves and for
the sake of that other thing, and therefore we call final without qualification
that which is always desirable in itself and never for the sake of something
else." Eudaemonia seems (intuitively) to satisfy this condition; such
things as honour, pleasure, reason, and virtue (the most popular candidates for
identification with the good for man and with eudaemonia) are chosen indeed for
themselves (they would be worthy of choice even if nothing resulted from them);
but they are also chosen for the sake of eudaemonia, since "we judge that
by means of them we shall be happy". Eudaemonia, however, is never chosen
for the sake of anything other than itself. After some preliminaries, the
relevant sense of 'self-sufficiency' is defined thus: "The selfsufficient
we now define as that which when isolated makes life desirable and lacking in
nothing." Eudaemonia, again, appears to satisfy this condition too; and
Aristotle adds the possibly important comment that eudaemonia is thought to be
"the most desirable of all things, without being counted as one good thing
among others". This remark might be taken to suggest that, in Aristotle's
view, it is not merely true that the possession of eudaemonia cannot be
improved upon by the addition of any other good, but it is true because
eudaemonia is a special kind of good, one which it would be inappropriate to
rank alongside other goods. This passage in Nicomachean Ethics raises in my
mindseveral queries: (1) It is, I suspect, normally assumed by commentators
that Aristotle thinks of eudaemonia as being the only item which satisfies the
condition of maximal finality. This uniqueness claim is not, however,
explicitly made in the passage (nor, so far as I can recollect, elsewhere); nor
is it clear to me that if it were made it end p.113 would be correct. Might it
not be that, for example, lazing in the sun is desired, and is desirable, for
its own sake, and yet is not something which is also desirable for the sake of
something else, not even for the sake of happiness? If it should turn out that
there is a distinction, within the class of things desirable for their own sake
(I-desirables), between those which are also desirable for the sake of
eudaemonia (H-desirables) and those which are not, then the further question
arises whether there is any common feature which distinguishes items which are
(directly) H-desirable, and, if so, what it is. This question will reappear
later. (2) Aristotle claims that honour, reason, pleasure, and virtue are all
both I-desirable and Hdesirable. But, at this stage in the Nicomachean Ethics,
these are uneliminated candidates for identification with eudaemonia; and,
indeed, Aristotle himself later identifies, at least in a sort of way, a
special version of one of them (metaphysical contemplation) with eudaemonia.
Suppose that it were to be established that one of these candidates (say,
honour) is successful. Would not Aristotle then be committed to holding that
honour is both desirable for its own sake, and also desirable for the sake of
something other than honour, namely, eudaemonia, that is, honour? It is not
clear, moreover, that this prima facie inconsistency can be eliminated by an
appeal to the non-extensionality of the context "——is desirable". For
while the argument-pattern 'α is desirable for the sake of β, β is identical
with γ; so, α is desirable for the sake of γ' may be invalid, it is by no means
clear that the argument-pattern 'α is desirable for the sake of β, necessarily
β is identical with γ; so, α is desirable for the sake of γ' is invalid. And,
if it were true that eudaemonia is to be identified with honour, this would
presumably be a non-contingent truth. (3) Suppose the following: (a) playing
golf and playing tennis are each I-desirables, (b) each is conducive to
physical fitness, which is itself I-desirable, (c) that a daily round of golf
and a daily couple of hours of tennis are each sufficient for peak physical
fitness, and (if you like, for simplicity), (d) that there is no third route to
physical fitness. Now, X and Y accept all these suppositions; X plays golf
daily, and Y plays both golf and tennis daily. It seems difficult to deny,
first, that it is quite conceivable that allof the sporting activities of these
gentlemen are undertaken both for their own sake and also for the sake of
physical fitness, and, second, that (pro end p.114 tanto) the life of Y is more
desirable than the life of X, since Y has the value of playing tennis while X
does not. The fact that in Y's life physical fitness is overdetermined does not
seem to be a ground for denying that he pursues both golf and tennis for the
sake of physical fitness; if we wished to deny this, it looks as if we could,
in certain circumstances, be faced with the unanswerable question, "If he
doesn't pursue each for the sake of physical fitness, then which one does he
pursue for physical fitness?" Let us now consider how close an analogy to
this example we can construct if we search for one which replaces references to
physical fitness by references to eudaemonia. We might suppose that X and Y
have it in common that they have distinguished academic lives, satisfying
family situations, and are healthy and prosperous; that they value, and rightly
value, these aspects of their existences for their own sakes and also regard
them as contributing to their eudaemonia. Each regards himself as a thoroughly
happy man. But Y, unlike X, also composes poetry, an activity which he cares
about and which he also thinks of as something which contributes to his
eudaemonia; the time which Y devotes to poetic endeavour is spent by X
pottering about the house doing nothing in particular. We now raise the
question whether or not Y's life is more desirable than X's, on the grounds
that it contains an I-desirable element, poetic composition, which X's life
does not contain, and that there is no counterbalancing element present in X's
life but absent in Y's. One conceivable answer would be that Y's life is indeed
more desirable than X's, since it contains an additional value, but that this
fact is consistent with their being equal in respect of eudaemonia, in line
with the supposition that each regards himself as thoroughly happy. If we give
this answer we, in effect, reject the Aristotelian idea that eudaemonia is, in
the appropriate sense, self-sufficient. There seems to me, however, to be good
reason not to give this answer. Commentators have disagreed about the precise
interpretation of the word "eudaemonia", but none, so far as I know,
has suggested what I think of as much the most plausible conjecture; namely,
that "eudaemonia" is to be understood as the name for that state or
condition which one's good daemon would (if he could) ensure for one; and my
good daemon is a being motivated, with respect to me, solely by concern for my
well-being or happiness. end p.115 To change the idiom, "eudaemonia"
is the general characterization of what a full-time and unhampered fairy
godmother would secure for you. The identifications regarded by Aristotle as
unexcitingly correct, of eudaemonia with doing well and with living well, now
begin to look like necessary truths. If this interpretation of
"eudaemonia" is correct (as I shall brazenly assume) then it would be
quite impossible for Y's life to be more desirable than X's, though X and Y are
equal in respect of eudaemonia; for this would amount to Y's being better off
than X, though both are equally well-off. Various other possible answers
remain. It might be held that not only is Y's life more desirable than X's, but
Y is more eudaemon (better off) than X. This idea preserves the proposed
conceptual connection between eudaemonia and being well-off, and relies on the
not wholly implausible principle that the addition of a value to a life
enhances the value of that life (whatever, perhaps, the liver may think). One
might think of such a principle, when more fully stated, as laying down or
implying that any increase in the combined value of the H-desirable elements
realized in a particular life is reflected, in a constant proportion, in an
increase in the degree of happiness or well-being exemplified by that life; or,
more cautiously, that the increase in happiness is not determined by a constant
proportion, but rather in some manner analogous to the phenomenon of
diminishing marginal utility. I am inclined to see the argument of this chapter
as leading towards a discreet erosion of the idea that the degree of a
particular person's happiness is the value of a function the arguments of which
are measures of the particular Hdesirables realized in that person's life, no
matter what function is suggested; but at the present moment it will be
sufficient to cast doubt on the acceptability of any of the crudest versions of
this idea. To revert to the case of X and Y: it seems to me that when we speak
of the desirability of X's life or of Y's life, the desirability of which we
are speaking is the desirability of that life from the point of view of the
person whose life it is; and that it is therefore counterintuitive to suppose
that, for example, X who thinks of himself as "perfectly happy" and
so not to be made either better off or more happy (though perhaps more
accomplished) by an injection of poetry composition, should be making a
misassessment of what his stateof well-being would be if the composition of poetry
were added to his occupation. Furthermore, if the pursuit end p.116 of
happiness is to be the proper end, or even a proper end, of living, to suppose
that the added realization of a further H-desirable to a life automatically
increases the happiness or well-being of the possessor of that life will
involve a commitment to an ethical position which I, for one, find somewhat
unattractive; one would be committed to advocating too unbridled an eudaemonic
expansionism. A more attractive position would be to suppose that we should
invoke, with respect to the example under consideration, an analogue not of
diminishing marginal utility, but of what might be called vanishing marginal
utility; to suppose, that is, that X and Y are, or at least may be, equally well-off
and equally happy even though Y's life contains an H-desirable element which is
lacking in X's life; that at a certain point, so to speak, the bucket of
happiness is filled, and no further inpouring of realized Hdesirables has any
effect on its contents. This position would be analogous to the view I adopted
earlier with respect to the possible overdetermination of physical fitness.
Even should this position be correct, it must be recognized that the really
interesting work still remains to be done; that would consist in the
characterization of the conditions which determine whether the realization of a
particular set of Hdesirables is sufficient to fill the bucket. The main
result, then, of the discussion has been to raise two matters for exploration;
first, the possibility of a distinction between items which are merely
I-desirable and items which are not only Idesirable but also H-desirable; and,
second, the possibility that the degree of happiness exemplified by a life may
be overdetermined by the set of H-desirables realized in that life, together
with the need to characterize the conditions which govern such
overdetermination. (4) Let us move in a different direction. I have already
remarked that, with respect to the desirability-status of happiness and of the
means thereto, Aristotle subscribed to two theses, with which I have no quarrel
(or, at least, shall voice no quarrel). (A) That some things are both
I-desirable and H-desirable (are both ends in themselves and also means to
happiness). (B) That happiness, while desirable in itself, is not desirable for
the sake of any further end. end p.117 I have suggested the possibility that a
further thesis might be true (though I have not claimed that it is true),
namely: (C) That some things are I-desirable without being H-desirable (and,
one might add, perhaps without being desirable for the sake of any further end,
in which case happiness will not be the only item which is not desirable for
the sake of any further end). But there are two further as yet unmentioned
theses which I am inclined to regard as being not only true, but also
important: first, (D) Any item which is directly H-desirable must be
I-desirable. And second, (E) Happiness is attainable only via the realization
of items which are I-desirable (and also of course H-desirable). Thesis (D)
would allow that an item could be indirectly H-desirable without being
I-desirable; engaging in morning press-ups could be such an item, but only if
it were desirable for the sake of (let us say) playing cricket well, which
would plainly be itself an item which was both I-desirable and Hdesirable. A
thesis related to (D), namely, (D′). (An item can be directly conducive to the
happiness of an individual x only if it is regarded by x as being I-desirable)
seems to me very likely to be true; the question whether not only (D′) but (D)
are true would depend on whether a man who misconceives (if that be possible)
certain items as being I-desirable could properly be said to achieve happiness
through the realization of those items. To take an extreme case, could a wicked
man who pervertedly regards cheating others in an ingenious way as being
I-desirable, and who delights in so doing, properly be said to be (pro tanto)
achieving happiness? I think Aristotle would answer negatively, and I am rather
inclined to side with him; but I recognize that there is much to debate. A
consequence of thesis (D), if true, would be that there cannot be a
happiness-pill (a pill the taking of which leads directly tohappiness); there
could be (and maybe there is) a pill which leads directly to "feeling
good" or to euphoria; but these states would have to be distinguishable
from happiness. Thesis (E) would imply that happiness is essentially a
dependent state; happiness cannot just happen; its realization is conditional
end p.118 upon the realization of one or more items which give rise to it.
Happiness should be thought of adverbially; to be happy is, for some x, to x
happily or with happiness. And reflection on the interchangeability or near-interchangeability
of the ideas of happiness and of well-being would suggest that the adverbial in
question is an evaluation adverbial. The importance, for present purposes, of
the two latest theses is to my mind that questions are now engendered about the
idea that items which are chosen (or desirable) for the sake of happiness can
be thought of as items which are chosen (or desirable) as means to happiness,
at least if the means-end relation is conceived as it seems very frequently to
be conceived in contemporary philosophy; if, that is, x is a means to y just in
case the doing or producing of x designedly causes (generates, has as an
effect) the occurrence of y. For, if items the realization of which give rise
to happiness were items which could be, in the above sense, means to happiness,
(a) it should be conceptually possible for happiness to arise otherwise than as
a consequence of the occurrence of any such items, and (b) it seems too
difficult to suppose that so non-scientific a condition as the possession of
intrinsic desirability should be a necessary condition of an item's giving rise
to happiness. In other words, theses (D) and (E) seem to preclude the idea that
what directly gives rise to happiness can be, in the currently favoured sense,
a means to happiness. The issue which I have just raised is closely related to
a scholarly issue which has recently divided Aristotelian commentators; battles
have raged over the question whether Aristotle conceived of eudaemonia as a
'dominant' or as an 'inclusive' end. The terminology derives, I believe, from
W. F. R. Hardie; but I cite a definition of the question which is given by
Ackrill in a recent paper: "By 'an inclusive end' might be meant any end
combining or including two or more values or activities or goods . . . By 'a
dominant end' might be meant a monolithic end, an end consisting of just one
valued activity or good."1 One's initial reaction to this formulation may
fall short of overwhelming enlightenment, among other things, perhaps, because
the verb 'include' appears within end p.119 the characterization of an
inclusive end. I suspect, however, that this deficiency could be properly
remedied only by a logicometaphysical enquiry into the nature of the 'inclusion
relation' (or, rather, the family of inclusion relations), which would go far
beyond the limits of my present undertaking. But, to be less ambitious, let us,
initially and provisionally, think of an inclusive end as being a set of ends.
If happiness is in this sense an inclusive end, then we can account for some of
the features displayed in the previous section. Happiness will be dependent on
the realization of subordinate ends, provided that the set of ends constituting
happiness may not be the empty set (a reasonable, if optimistic, assumption).
Since the "happiness set" has as its elements I-desirables, what is
desirable directly for the sake of happiness must be I-desirable. And if it
should turn out to be the case, contrary perhaps to the direction of my
argument in the last section, that the happiness set includes all I-desirables,
then we should have difficulty in finding any end for the sake of which
happiness would be desirable. So far so good, perhaps; but so far may not
really be very far at all. Some reservation about the treatment of eudaemonia
as an inclusive end is hinted at by Ackrill: It is not necessary to claim that
Aristotle has made quite clear how there may be 'components' in the best life
or how they may be interrelated. The very idea of constructing a compound end
out of two or more independent ends may arouse suspicion. Is the compound to be
thought of as a mere aggregate or as an organized system? If the former, the
move to eudaemonia seems trivial—nor is it obvious that goods can be just added
together. If the latter, if there is supposed to be a unifying plan, what is
it?2 From these very pertinent questions, Ackrill detaches himself, on the
grounds that his primary concern is with the exposition and not with the
justification of Aristotle's thought. But we cannot avail ourselves of this
rain check, and so the difficulties which Ackrill touches on must receive
further exposure.Let us suppose a next-to-impossible world W, in which there
are just three I-desirables, which are also H-desirables, A, B, and C. If you
like, you may think of these as being identical, respectively, with honour,
wealth, and virtue. If, in general, happiness is end p.120 to be an inclusive
end, happiness-in-W will have as its components A, B, and C, and no others. Now
one might be tempted to suppose that, since it is difficult or impossible to
deny that to achieve happiness-in-W it is necessary and also sufficient to
realize A, to realize B, and to realize C, anyone who wanted to realize A,
wanted to realize B, and wanted to realize C would ipso facto be someone who
wanted to achieve happiness-in-W. But there seems to me to be a good case for
regarding such an inference as invalid. To want to achieve happiness-in-W might
be equivalent to wanting to realize A and to realize B and to realize C, or indeed
to wanting A and B and C; but there are relatively familiar reasons for
allowing that, with respect to a considerable range of psychological verbs
(represented by 'ψ'), one cannot derive from a statement of the form 'x ψ's
(that) A and x ψ's (that) B' a statement of the form 'x ψ's (that) A and B'.
For instance, it seems to me a plausible thesis that there are circumstances in
which we should want to say of someone that he believed that p and that he
believed that q, without being willing to allow that he believed that both p
and q. The most obvious cases for the application of the distinction would
perhaps be cases in which p and q are inconsistent; we can perhaps imagine
someone of whom we should wish to say that he believed that he was a
grotesquely incompetent creature, and that he also believed that he was a
world-beater, without wishing to say of him that he believed that he was both
grotesquely incompetent and a world-beater. Inconsistent beliefs are not, or
are not necessarily, beliefs in inconsistencies. Whatever reasons there may be
for allowing that a man may believe that p and believe that q without believing
that p and q would, I suspect, be mirrored in reasons for allowing that a man
may want A and want B without wanting both A and B; if I want a holiday in
Rome, and also want some headache pills, it does not seem to me that ipso facto
I want a holiday in Rome and some headache pills. Moreover, even if we were to
sanction the disputed inference, it would not, I think, be correct to make the
further supposition that a man who wants A and B (simply as a consequence of
wanting A and wanting B) would, or even could, want A (or want B) for the sake
of, or with a view to, realizing A and B. So even if, in world W, a man could
be said to want A and B and C, on the strength of wanting each one of them,
some further condition would end p.121 have to be fulfilled before we could say
of him that he wanted each of them for the sake of realizing A and B and C,
that is, for the sake of achieving happiness-in-W. In an attempt to do justice
to the idea that happiness should be treated as being an 'inclusive' end, let
me put forward a modest proposal; not, perhaps, the only possible proposal, but
one which may seem reasonably intuitive. Let us categorize, for present
purposes, the I-desirables in world W as 'universals'. I propose that to want,
severally, each of these I-desirables should be regarded as equivalent to
wanting the set whose members are just those I-desirables, with the
understanding that a set of universals is not itself a universal. So to want A,
want B, and want C is equivalent to wanting the set whose members are A, B, and
C ('the happinessin-W set'). To want happiness-in-W requires satisfaction of
the stronger condition of wanting A and B and C, which in turn is equivalent to
wanting something which is a universal, namely, a compound universal in which
are included just those universals which are elements of the happiness-inW set.
I shall not attempt to present a necessary and sufficient condition for the
fulfilment of the stronger rather than merely of the weaker condition; but I
shall suggest an important sufficient condition for this state of affairs. The
condition is the following: for x to want the conjunction of the members of a
set, rather than merely for him to want, severally, each member of the set, it
is sufficient that his wanting, severally, each member of the set should be
explained by (have as one of its explanations) the fact that there is an 'open'
feature F which is believed by x to be exemplified by the set, and the
realization of which is desired by x. By an open feature I mean a feature the
specification of which does not require the complete enumeration of the items
which exemplify it. To illustrate, a certain Oxford don at one time desired to
secure for himself the teaching, in his subject, at the colleges of Somerville,
St Hugh's, St Hilda's, Lady Margaret Hall, and St Anne's. (He failed, by two
colleges.) This compound desire was based on the fact that the named colleges
constituted the totality of women's colleges in Oxford, and he desired the
realization of the open feature consisting in his teaching, in his subject, at
all the women's colleges in Oxford. This sufficient condition is important in that it
is, I think, fulfilled with respect to all compound desires which are rational,
as distinct from end p.122 arbitrary or crazy. There can be, of course,
genuinely compound desires which are non-rational, and I shall not attempt to
specify the condition which distinguishes them; but perhaps I do not need to,
since I think we may take it as a postulate that, if a desire for happiness is
a compound desire, it is a rational compound desire. The proposal which I have
made does, I think, conform to acceptable general principles for metaphysical
construction. For it provides for the addition to an initially given category
of items ('universals') of a special sub-category ('compound universals') which
are counterparts of certain items which are not universals but rather sets of
universals. It involves, so to speak, the conversion of certain non-universals
into 'new' universals, and it seems reasonable to suppose that the purpose of
this conversion is to bring these non-universals, in a simple and relatively
elegant way, within the scope of laws which apply to universals. It must be
understood that by 'laws' I am referring to theoretical generalities which
belong to any of a variety of kinds of theory, including psychological,
practical, and moral theories; so among such laws will be laws of various kinds
relating to desires for ends and for means to ends. If happiness is an
inclusive end, and if, for it to be an inclusive end the desire for which is
rational, there must be an open feature which is exemplified by the set of
components of happiness, our next task is plainly to attempt to identify this
feature. To further this venture I shall now examine, within the varieties of
means-end relation, what is to my mind a particularly suggestive kind of case.
II At the start of this section I shall offer a brief sketch of the varieties,
or of some of the varieties, of means-end relation; this is a matter which is
interesting in itself, which is largely neglected in contemporary philosophy,
and which I am inclined to regard as an important bit of background in the
present enquiry. I shall then consider a particular class of cases in our
ordinary thinking about means and ends, which might be called cases of
'end-fixing', and which might provide an important modification to our
consideration of the idea that happiness is an inclusive end. end p.123 I shall
introduce the term 'is contributive to' as a general expression for what I have
been calling 'means-end' relation, and I shall use the phrase 'is contributive
in way w to' to refer, in a general way, to this or that particular specific
form of the contributiveness relation. I shall, for convenience, assume that
anyone who thinks of some state of affairs or action as being contributive to
the realization of a certain universal would have in mind that specific form of
contributiveness which would be appropriate to the particular case. We may now
say, quite unstartlingly, that x wants to do A for the sake of B just in case x
wants to do A because (1) x regards his doing A as something which would be
contributive in way w to the realization of B, and (2) x wants B. That leaves
us the only interesting task, namely, that of giving the range of specific
relations one element in which will be picked out by the phrase 'contributive
in way w', once A and B are specified. The most obvious mode of
contributiveness, indeed one which has too often been attended to to the
exclusion of all others, is that of causal antecedence; x's contributing to y
here consists in x's being the (or a) causal origin of y. But even within this
mode there may be more complexity than meets the eye. The causal origin may be
an initiating cause, which triggers the effect in the way in which flipping a
switch sets off illumination in a light bulb; or it may be a sustaining cause,
the continuation of which is required in order to maintain the effect in being.
In either case, the effect may be either positive or negative; I may initiate a
period of non-talking in Jones by knocking him cold, or sustain one by keeping
my hand over his mouth. A further dimension, in respect of which examples of
each variety of causal contributiveness may vary, is that of conditionality.
Doing A may be desired as something which will, given the circumstances which
obtain, unconditionally originate the realization of B, or as something which
will do so provided that a certain possibility is fulfilled. A specially
important subclass of cases of conditional causal contributiveness is the class
of cases in which the relevant possibility consists in the desire or will of some
agent, either the means-taker or someone else, that B should be realized; these
arecases in which x wants to do A in order to enable, or to make it possible
for, himself (or someone else) to achieve the realization of B; as when, for
example, x puts a corkscrew in his pocket to enable him later, should be wish
to do so, to open a bottle of wine. end p.124 But, for present purposes, the
more interesting modes of contributiveness may well be those other than that of
causal contributiveness. These include the following types. (1) Specificatory
contributiveness. To do A would, in the prevailing circumstances, be a
specification of, or a way of, realizing B; it being understood that, for this
mode of contributiveness, B is not to be a causal property, a property
consisting in being such as to cause the realization of C, where C is some
further property. A host's seating someone at his right-hand side at dinner may
be a specification of treating him with respect; waving a Union Jack might be a
way of showing loyalty to the Crown. In these cases, the particular action
which exemplifies A is the same as the item which exemplifies B. Two further
modes involve relations of inclusion, of one or another of the types to which
such relations may belong. (2) To do A may contribute to the realization of B
by including an item which realizes B. I may want to take a certain advertised
cruise because it includes a visit to Naples. (3) To do A may contribute to the
realization of B by being included in an item which realizes B. Here we may
distinguish more than one kind of case. A and B may be identical; I may, for
example, be hospitable to someone today because I want to be hospitable to him
throughout his visit to my town. In such a case the exemplification of B
(hospitality) by the whole (my behaviour to him during the week) will depend on
a certain distribution of exemplifications of B among the parts, such as my
behaviour on particular days. We might call this kind of dependence
"componentdependence". In other cases A and B are distinct, and in
some of these (perhaps all) B cannot, if it is exemplified by the whole, also
be exemplified by any part. These further cases subdivide in ways which are
interesting but not germane to the present enquiry. We are now in a position to
handle, not quite as Aristotle did, a 'paradox' about happiness raised by
Aristotle, which involves Solon's dictum "Call no man happy till he is
dead". I give a simplified, but I hope not distorted, version of the
'paradoxical' line of argument. If we start by suggesting that happiness is the
end for man, we shall have to modify this suggestion, replacing
"happiness" by "happiness in a complete life". (Aristotle
himself end p.125 applies the qualification "in a complete life" not
to happiness, but to what he gives as constituted of happiness, namely,
activity of soul in accordance with excellence). For, plainly, a life which as
a whole exemplifies happiness is preferable to one which does not. But since
lifelong happiness can only be exemplified by a whole life, non-predictive
knowledge that the end for man is realized with respect to a particular person
is attainable only at the end of the person's life, and so not (except possibly
at the time of his dying gasp) by the person himself. But this is paradoxical,
since the end for man should be such that non-predictive knowledge of its
realization is available to those who achieve its realization. I suggest that
we need to distinguish non-propositional, attributive ends, such as happiness,
and propositional ends or objectives, such as that my life, as a whole, should
be happy. Now it is not in fact clear that people do, or even should, desire
lifelong happiness; it may be quite in order not to think about this as an
objective. And, even if one should desire lifelong happiness, it is not clear
that one should aim at it, that one should desire, and do, things for the sake
of it. But let us waive these objections. The attainment of lifelong happiness,
an objective, consists in the realization, in a whole life, of the attributive
end happiness. This realization is component-dependent; it depends on a certain
distribution of realizations of that same end in episodes or phases of that
life. But these realizations are certainly nonpredictively knowable by the
person whose life it is. So, if we insist that to specify the end for man is to
specify an attributive end and not an objective, then the 'paradox' disappears.
The special class of cases to which one might be tempted to apply the term
'end-fixing' may be approached in the following way. For any given mode of
contributiveness, say causal contributiveness, the same final position, that x
wants (intends, does) A as contributive to the realization of B, may be reached
through more than one process of thought. In line with the canonical
Aristotelian model, x maydesire to realize B, then enquire what would lead to
B, decide that doing A would lead to B, and so come to want, and to do, A.
Alternatively, the possibility of doing A may come to his mind, he then
enquires what doing A would lead to, sees that it would lead to B, which he
wants, and so he comes to want, and perhaps do, A. I now ask whether there are
cases in which the following end p.126 conditions are met: (1) doing A is fixed
or decided, not merely entertained as a possibility, in advance of the
recognition of it as desirable with a view to B, and (2) that B is selected as
an end, or as an end to be pursued on this occasion, at least partly because it
is something which doing A will help to realize. A variety of candidates, not
necessarily good ones, come to mind. (1) A man who is wrecked on a desert
island decides to use his stay there to pursue what is a new end for him,
namely, the study of the local flora and fauna. Here doing A (spending time on
the island) is fixed but not chosen; and the specific performances, which some
might think were more properly regarded as means to the pursuit of this study,
are not fixed in advance of the adoption of the end. (2) A man wants (without
having a reason for so wanting) to move to a certain town; he is uncomfortable
with irrational desires (or at least with this irrational desire), and so comes
to want to make this move because the town has a specially salubrious climate.
Here, it seems, the movement of thought cannot be fully conscious; we might say
that the reason why he wants to move to a specially good climate is that such a
desire would justify the desire or intention, which he already has, to move to
the town in question; but one would baulk at describing this as being his reason
for wanting to move to a good climate. The example which interests me is the
following. A tyrant has become severely displeased with one of his ministers,
and to humiliate him assigns him to the task of organizing the disposal of the
palace garbage, making clear that only a high degree of efficiency will save
him from a more savage fate. The minister at first strives for efficiency
merely in order to escape disaster; but later, seeing that thereby he can
preserve his self-respect and frustrate the tyrant's plan to humiliate him, he
begins to take pride in the efficient discharge of his duties, and so to be
concerned about it for its own sake. Even so, when the tyrant is overthrown and
the minister is relieved of his menial duties, he leaves them without regret in
spite of having been intrinsically concerned about their discharge. One might
say of the minister that he efficiently discharged his office for its own sake
in order to frustrate the tyrant; and this is clearly inadequately represented
as his being interested in the efficient discharge of his office both for its
own sake and for the end p.127 sake of frustrating the tyrant, since he hoped
to achieve the latter goal by an intrinsic concern with his office. It seems
clear that higher-order desires are involved; the minister wants, for its own
sake, to discharge his office efficiently, and he wants to want this because he
wants, by so wanting, to frustrate the tyrant. Indeed, wanting to do A for the
sake of B can plausibly be represented as having two interpretations. The first
interpretation is invoked if we say that a man who does A for the sake of B (1)
does A because he wants to do A and (2) wants to do A for the sake of B. Here
wanting A for the sake of B involves thinking that A will lead to B. But we can
conceive of wanting A for the sake of B (analogously with doing A for the sake
of B) as something which is accounted for by wanting to want A for the sake of
B; if so, we have the second interpretation, one which implies not thinking
that A will help to realize B, but rather thinking that wanting A will help to
realize B. The impact of this discussion, on the question of the kind of end
which happiness should be taken to be, will be that, if happiness is to be
regarded as an inclusive end, the components may be not the realizations of
certain ends, but rather the desires for those realizations. Wanting A for the
sake of happiness should be given the second mode of interpretation specified
above, one which involves thinking that wanting A is one of a set of items
which collectively exhibit the open feature associated with happiness. III My
enquiry has, I hope, so far given some grounds for the favourable consideration
of three theses: (1) happiness is an end for the sake of which certain I-desirables
are desirable, but is to beregarded as an inclusive rather than a dominant end;
(2) for happiness to be a rational inclusive end, the set of its components
must exemplify some particular open feature, yet to be determined; and (3) the
components of happiness may well be not universals or states of affairs the
realization of which is desired for its own sake, end p.128 but rather the
desires for such universals or states of affairs, in which case a desire for
happiness will be a higher-order desire, a desire to have, and satisfy, a set
of desires which exemplifies the relevant open feature. At this point, we might
be faced with a radical assault, which would run as follows. "Your whole
line of enquiry consists in assuming that, when some item is desired, or
desirable, for the sake of happiness, it is desired, or desirable, as a means
to happiness, and in then raising, as the crucial question, what kind of an end
happiness is, or what kind of means-end relation is involved. But the initial
assumption is a mistake. To say of an item that it is desired for the sake of
happiness should not be understood as implying that that item is desired as any
kind of a means to anything. It should be understood rather as claiming that
the item is desired (for its own sake) in a certain sort of way: 'for the sake
of happiness' should be treated as a unitary adverbial, better heard, perhaps,
as 'happinesswise'. To desire something happiness-wise is to take the desire
for it seriously in a certain sort of way, in particular to take the desire
seriously as a guide for living, to have incorporated it in one's overall plan
or system for the conduct of life. If one looks at the matter this way, one can
see at once that it is conceivable that these should be I-desirables which are
not H-desirables; for the question whether something which is desirable is
intrinsically desirable, or whether its desirability derives from the
desirability of something else, is plainly a different question from the
question whether or not the desire for it is to be taken seriously in the
planning and direction of one's life, that is, whether the item is H-desirable.
One can, moreover, do justice to two further considerations which you have, so
far, been ignoring: first, that what goes to make up happiness is relative to
the individual whose happiness it is, a truth which is easily seen when it is
recognized that what x desires (or should desire) happiness-wise may be quite
different from what y so desires; and, second, that intuition is sympathetic to
the admittedly vague idea that the decision that certain items are constitutive
of one's happiness is not so much a matter of judgement or belief as a matter
of will. One's happiness consists in what one makes it consist in, an idea
which will be easily accommodated if 'for the sake of happiness' is understood
in the way which I propose." end p.129 There is much in this (spirited yet
thoughtful) oration towards which I am sympathetic and which I am prepared to
regard as important; in particular, the idea of linking H-desirability with
desires or concerns which enter into a system for the direction of one's life,
and the suggestion that the acceptance of a system of ends as constituting
happiness, or one's own happiness, is less a matter of belief or judgement than
of will. But, despite these attractive features, and despite its air of
simplifying iconoclasm, the position which is propounded can hardly be regarded
as tenable. When looked at more closely, it can be seen to be just another form
of subjectivism: what are ostensibly beliefs that particular items are
conducive to happiness are represented as being in fact psychological states or
attitudes, other than beliefs, with regard to these items; and it is vulnerable
to variants of stock objections to subjectivist manœuvres. That in common
speech and thought we have application for, and so need a philosophical account
of, not only the idea of desiring things for the sake of happiness but, also,
that of being happy (or well-off), is passed over; and should it turn out that
the position under consideration has no account to offer of the latter idea,
that would be not only paradoxical but also, quite likely, theoretically
disastrous. For it would seem to be the case that the construction or adoption
of a system of ends for the direction of life is something which can be done
well or badly, or better or less well; that being so, there will be a demand
for the specification of the criteria governing this area of evaluation; and it
will be difficult to avoid the idea that the conditions characteristic of a
good system of ends will be determined by the fact that the adoption of a
system conforming to those conditions will lead, or is likely to lead, or other
things being equal will lead, to the realization of happiness; to something,
that is, which the approach under consideration might well not be able to
accommodate. So it begins to look as if we may be back where we were before the
start of this latest discussion. But perhaps not quite; for, perhaps, something
can be done with the notion of a set or system of endswhich is suitable for the
direction of life. The leading idea would be of a system which is maximally
stable, one whose employment for the direction of life would be maximally
conducive end p.130 to its continued employment for that purpose, which would
be maximally self-perpetuating. To put the matter another way, a system of ends
would be stable to the extent to which, though not constitutionally immune from
modification, it could accommodate changes of circumstances or vicissitudes
which would impose modification upon other less stable systems. We might need
to supplement the idea of stability by the idea of flexibility; a system will
be flexible in so far as, should modifications be demanded, they are achievable
by easy adjustment and evolution; flounderings, crises, and revolutions will be
excluded or at a minimum. A succession of systems of ends within a person's
consciousness could then be regarded as stages in the development of a single
life-scheme, rather than as the replacement of one life-scheme by another. We
might find it desirable also to incorporate into the working-out of these ideas
a distinction, already foreshadowed, between happiness-in-general and
happiness-for-an-individual. We might hope that it would be possible to present
happiness-in-general as a system of possible ends which would be specified in
highly general terms (since the specification must be arrived at in abstraction
from the idiosyncrasies of particular persons and their circumstances), a
system which would be determined either by its stability relative to stock
vicissitudes in the human condition, or (as I suspect) in some other way; and
we might further hope that happiness for an individual might lie in the
possession, and operation for the guidance of life, of a system of ends which
(a) would be a specific and personalized derivative, determined by that
individual's character, abilities, and situations in the world, of the system
constitutive of happiness in general; and (b) the adoption of which would be
stable for that individual in his circumstances. The idea that happiness might
be fully, or at least partially, characterized in something like this kind of
way would receive some support if we could show reason to suppose that features
which could plausibly be regarded, or which indeed actually have been regarded,
as characteristic of happiness, or at least of a satisfactory system for the
guidance of life, are also features which are conducive to stability. Refs.: H.
P. Grice, “Means-end rationality.”
FIGLIUCCI
-- Felice
Figliucci Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Felice Figliucci (in latino: Felix Filliucius; Siena, 4 maggio 1518 – Firenze,
20 ottobre 1595) è stato un umanista, filosofo e teologo italiano. Partecipò al
Concilio di Trento, durante il quale pronunciò un'orazione in latino. Vita Nato a Siena intorno all'anno 1525,
completò gli studi filosofici a Padova e, per qualche tempo, fu al servizio del
cardinale del Monte, destinato a diventare papa Giulio III nel 1550. Dopo aver
vissuto le piacevolezze mondane della corte, Figliucci entrò, nel 1551, nel
convento domenicano di Firenze, dove assunse il nome di Alessio. Nonostante fosse rinomato come oratore, poeta
e profondo conoscitore del greco, il suo nome non è menzionato in opere sul
Rinascimento come Die Wiederbelebung des classischen Alterthums di Georg Voigt
o Il Seicento di Antonio Belloni. Opere
Figliucci scrisse opere in italiano e traduzioni dal greco. Esse
includono: Felice Figliucci, Il Fedro,
ovvero del bello, Roma, 1544. URL consultato il 26 maggio 2019. Delle divine
lettere del gran Marsilio Ficino, Venezia, 1548 Felice Figliucci, Le undici
Filippiche di Demostene con una Lettera di Filippo agli Ateniesi. Dichiarate in
lingua Toscana, Roma, Appresso Vincenzo Valgrisi, 1550. URL consultato il 26
maggio 2019. Della Filosofia morale d'Aristotile, Roma, 1551 Felice Figliucci,
Della Politica, ovvero Scienza civile secondo la dottrina d'Aristotile, libri
VIII scritti in modo di dialogo, Venezia, Gio. Battista Somascho, 1583. URL
consultato il 26 maggio 2019. Tradusse in italiano il Catechismo latino del
Concilio di Trento (Catechismo, cioè istruzione secondo il decreto del Concilio
di Trento, 1567), più volte ristampato.
Collegamenti esterni Felice Figliucci, su Treccani.it – Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Dario Busolini,
Felice Figliucci, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Felix Filliucius, in
Catholic Encyclopedia, New York, Encyclopedia Press, 1913. V · D · M Famiglia
domenicana Controllo di autorità VIAF
(EN) 100227551 · ISNI (EN) 0000 0001 1000 7191 · WorldCat Identities (EN)
viaf-100227551 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo
Letteratura Portale Letteratura Rinascimento Portale Rinascimento Categorie:
Umanisti italianiFilosofi italiani del XVI secoloTeologi italianiNati nel
1518Morti nel 1595Nati il 4 maggioMorti il 20 ottobreNati a SienaMorti a
FirenzeTraduttori dal greco all'italiano[altre]
FILANGIERI
-- Gaetano Filangieri Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Gaetano Filangieri Gaetano filangieri.jpg Dei principi
di Arianello Stemma Nascita San
Sebastiano al Vesuvio, 22 agosto 1753 Morte Vico Equense, 21 luglio 1788 Coniuge Charlotte Frendel
Figli Carlo
Filangieri, Roberto Filangieri, Adelaide Filangieri Gaetano Filangieri (San
Sebastiano al Vesuvio , 22 agosto 1753 – Vico Equense, 21 luglio 1788) è stato
un giurista e filosofo italiano del Regno di Napoli. È ritenuto uno dei massimi
giuristi e pensatori italiani del XVIII secolo.[1] Indice 1 Biografia
2 La
Scienza della Legislazione 3 Opere
e scritti nelle principali edizioni 4 Note
5 Bibliografia
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Terzogenito di Cesare, principe di Arianiello, e di Marianna
Montalto, figlia del duca di Fragnito, Gaetano nacque il 22 di agosto del 1753
in un'antica villa di suo padre, sita nella giurisdizione territoriale del
Casale di San Sebastiano di Napoli, in seguito denominato San Sebastiano al
Vesuvio[2]. Nella medesima villa di San Sebastiano al Vesuvio, nel 1750, morì
Giovan Gaetano Filangieri: il nonno dell'illuminista[3]. Gaetano proveniva da
una delle famiglie più antiche della nobiltà partenopea: lo zio arcivescovo era
Serafino Filangieri. Ricevette un'educazione severa che si svolse
privatamente nel palazzo di Largo Arianello. Se ne occuparono lo zio Serafino,
benedettino, professore di fisica sperimentale all'Università di Napoli, e
soprattutto l'ecclesiastico Luca Nicola De Luca. A 17 anni abbandonò la
carriera militare a cui era stato destinato fin da bambino per dedicarsi agli
studi. Si laureò in legge nel 1774. Tre anni dopo, a seguito della carica di
gentiluomo di camera presso il re Ferdinando IV di Borbone, si dedicò al
progetto della riforma di giustizia e divenne ufficiale volontario di
marina. Preconizzazione della Questione meridionale Il suo illuminismo è
considerato "napoletano" in quanto non assimilato dall'esterno. Si
tratta di un Illuminismo prodotto nella Napoli del Settecento: la città
partenopea si era dimostrata sì come uno dei maggiori laboratori di idee
d'Europa, ma in essa allo stesso tempo esistevano sempre i privilegi feudali e
il lusso sfrenato di nobiltà e clero, mentre la massa plebea continuava a
vivere nell'ignoranza. Si parla a questo proposito di "Questione
meridionale" in quanto vi si impediva non solo il progresso, ma si metteva
in discussione anche l'esistenza di una civiltà, dato che il tessuto sociale
era ridotto a brandelli. In tale contesto Gaetano Filangieri rappresentò la
voce riformatrice, la cui efficacia fu tuttavia limitata dalla precoce morte,
prima delle vicende rivoluzionarie in Francia (che in campo sociale stava
peggio di Napoli all'epoca) e dalle conseguenze che esse ebbero o
indussero. Nel 1772 scrisse un breve testo, Morale de' legislatori, nel
quale dichiarava di essere favorevole alla pena di morte, mettendo in
discussione le tesi di Cesare Beccaria; in questo afferma infatti che
"nello stato di natura ciascuno ha il diritto di togliere la vita a tutti
per proteggere la propria ingiustamente minacciata". Tali temi vengono poi
ripresi e trattati ne La Scienza della Legislazione, la sua opera più
importante. Nel 1774 stampò a Napoli le Riflessioni politiche su l'ultima
legge del sovrano, dedicata al ministro Bernardo Tanucci. L'opera riguarda la
riforma dell'amministrazione della giustizia; in particolare afferma la
necessità, per i magistrati, di motivare le proprie sentenze in base alla
legislazione scritta nel regno, permettendo in questo modo di eliminare gli
abusi e i privilegi per i giudici. L'Illuminismo napoletano di Filangieri
emerge in particolar modo nella sua opera più famosa, La Scienza della
Legislazione (1780-1788). In tale scritto sono analizzate le linee sistematiche
di una scienza pratica destinata a essere guida delle riforme legislative e
basata sulla felicità individuale del cittadino come premessa utilitaristica allo
Stato buono. Famosi pensatori come d'Alembert e Montesquieu, con il loro
spirito di classici dell'Illuminismo, contribuirono a influenzare
l'opera. Nel 1783 Filangieri si sposò con una giovane nobile ungherese,
Charlotte Frendel e, ottenuta la dispensa dal servizio di corte, si trasferì a
La Cava (oggi Cava de' Tirreni), poco lontano da Napoli. Qui si dedicò
interamente alla scrittura e alla famiglia. Nel dicembre del 1784
arrivarono le prime condanne relative all'opera di Filangieri da parte dell'Inquisizione,
anche se la Chiesa non contestò la legittimità dei provvedimenti assunti dal
governo borbonico sulla scorta delle proposte contenute nella Scienza della
legislazione. Parallelamente alla stesura de La Scienza della
Legislazione, Filangieri fu investito di un'importante carica militare di grado
superiore: Tenente di fanteria nel 1783 e Capitano nel 1785. Nel 1787
divenne Consigliere del Supremo Consiglio delle Finanze e, preso dagli impegni
politici, non riuscì a completare il quinto libro della Scienza, il quale fu
pubblicato incompiuto postumo nel 1791. Dei sette volumi inizialmente
progettati, riuscì quindi a pubblicarne solo cinque. Colpito dalla
tubercolosi, si ritirò a Vico Equense, dove morì il 20 luglio 1788 a soli
trentacinque anni. È sepolto nell'ex cattedrale della Santissima Annunziata
della stessa cittadina. Essendo stato iniziato in massoneria in una
loggia napoletana di costituzione inglese, Filangieri ebbe solenni funerali
massonici, celebrati da Domenico Cirillo, Mario Pagano, Donato Tommasi e
Giuseppe Leonardo Albanese, ai quali parteciparono delegazioni di tutte le
logge napoletane di obbedienza inglese[4]. A Gaetano Filangieri era
intitolato il carcere minorile di Napoli, istituito da Gioacchino Murat nel
1809 e dismesso alla fine degli anni settanta. A Milano è intitolata la piazza
antistante il carcere di San Vittore. La Scienza della Legislazione La
Scienza della Legislazione, composta da otto volumi, è un'opera di alto e
innovativo valore europeo[5] in materia di filosofia del diritto[6] e teoria
della giurisprudenza. In quest'opera che fu così apprezzata per la sobrietà
della critica e per la concreta esposizione sul piano giuridico[7], Filangieri
espose un pensiero frutto della grande cultura napoletana[8] antecedente all'Unità
d'Italia, rappresentata in particolare da Giambattista Vico e da Pietro
Giannone, che interpolò con le teorie dei filosofi francesi, in particolare con
le dottrine di Montesquieu e soprattutto di Rousseau. La Scienza della
Legislazione porta alla luce le ingiustizie sociali che affliggevano anche la
Napoli borbonica come le tante altre capitali europee (Parigi, Londra, San
Pietroburgo, ecc.) pervasa dal lusso sfrenato dei privilegi feudali di
aristocrazia e clero sfruttatori del popolo[9]; al tempo stesso essa chiede
alla Corona di farsi portatrice di una "rivoluzione pacifica", una
sorta di modello di monarchia illuminata, secondo i canoni illuministici[10],
da conseguire attraverso una seria azione riformatrice da attuarsi sugli
strumenti giuridici. Importanti[11] l'affermazione dell'esigenza di
attuare una codificazione delle leggi[12] e di una riforma progressiva dalla
procedura penale, la necessità di operare un'equa ripartizione delle proprietà
terriere[13] e anche un miglioramento qualitativo dell'educazione pubblica
oltre ad un suo rafforzamento su quella privata. Giuseppe Grippa,
La scienza della legislazione sindacata (1784), una critica dell'opera di
Filangieri Per ciò che attiene al diritto criminale, nell'opera Filangieri dà
un'innovativa definizione di delitto: «Non tutte le azioni contrarie alle leggi
sono delitti, non tutti coloro che le commettono sono delinquenti. L'azione
disgiunta dalla volontà non è imputabile; la volontà disgiunta dall'azione non
è punibile. Il delitto consiste dunque nella violazione della legge
accompagnata dalla volontà di violarla»[14]. L'opera tratta le principali
proposte di riforma, nel campo politico-economico (abolizione dei privilegi
feudali ecc.), penale, dei rapporti tra religione e legislazione, e, in modo
particolare, nel campo educativo. Essa comprende il primo libro dedicato a Le
Regole generali della scienza legislativa, il secondo a Le Leggi politiche
ed economiche, il terzo a Le Leggi criminali (prima parte: la procedura;
seconda parte: dei delitti e delle pene), il quarto a Le Leggi che riguardano
l'educazione, i costumi e l'opinione pubblica, il quinto a Le Leggi che
riguardano la religione. Il sesto, dedicato alle leggi relative alla proprietà,
rimase abbozzato (ne fu steso soltanto il sommario), e il settimo, dedicato
alle leggi sulla famiglia, non venne mai scritto. Tra le varie tesi
esposte in questo libro emerge la considerazione che Filangieri aveva
dell'agricoltura; sotto l'influenza di Genovesi, di Verri e dei fisiocratici,
egli la considerava come un settore importante del sistema economico e propose
la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed economico al suo sviluppo e
alla libertà del commercio dei suoi prodotti, sostenendo altresì l'imposta
unica sul prodotto della terra. L'opera fu messa all'Indice dalla Chiesa
cattolica nel 1784, per le sue idee giacobine e per i suoi attacchi ai diritti
del clero. Filangieri infatti criticava l'atteggiamento della Chiesa, ritenendo
appunto che questa pesasse sulla società e si avvalesse di privilegi. Egli
aveva messo in campo proposte (giustizia sociale e giuridica, uguaglianza,
pubblica istruzione, espropriazione dei beni ecclesiastici donati dai fedeli,
ecc.) miranti al "progresso" in senso rivoluzionario attraverso
un'azione legislativa fondata sulla presunta "ragione" e rivolta ad
un altrettanto presunto sviluppo della realtà delle città di Napoli, ma con i
metodi tipicamente giacobini basati su coercizione e sentimento massonico e
anticattolico. Fu pubblicata a partire dal 1780 in 7 volumi e una parte
uscì postuma (l'indice e parte del libro V). Nel 1783 e nel 1785 ne vennero
stampati altri due libri, i quali ebbero grande successo non solo a livello
nazionale con le riedizioni (Firenze e Venezia 1782, Milano 1784) ma anche a
livello europeo. Fino all'Ottocento si contarono 40 edizioni italiane e
28 in lingue straniere[15]. In Germania comparvero tre edizioni diverse a
Zurigo, Berlino e a Vienna (la prima traduzione in tedesco è del 1784). L'opera
venne tradotta in francese (la prima traduzione in francese è del 1786)[16],
spagnolo[17], inglese, russo e svedese, con elogi entusiastici rivolti
all'autore: il più noto e significativo fu quello di Benjamin Franklin, il
quale avviò una corrispondenza con Filangieri e tenne presente le sue idee per
la stesura della Costituzione americana. La fortuna dell'opera fu
vastissima sul continente europeo[18] e oltre[19]. L'opera fu - assieme a Dei
delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria - uno dei contributi italiani
maggiormente diffusi e tradotti all'estero. Suscitò interesse e discussioni
sino al Novecento anche grazie all'attenzione dedicatagli da Benjamin Constant
(1767-1830)[20]. Opere e scritti nelle principali edizioni Riflessioni
politiche su l'ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma
dell'amministrazione della giustizia, Napoli 1774. La scienza della
legislazione, Napoli 1780-1785. Reflexiones sobre la libertad del comercio de
frutos, Madrid 1784. Il mondo nuovo e le virtù civili: l'epistolario di Gaetano
Filangieri 1772-1788, Napoli 1999. Note ^ Ricca, Discorso genealogico della
famiglia Filangieri estratto dall'istoria del feudo di Lapio, Napoli 1863. ^
Bernardo Cozzolino, San Sebastiano al Vesuvio: Un itinerario storico artistico
e un ricordo di Gaetano Filangieri, Poseidon Editore, Napoli 2006, p.137. ^
Giovan Gaetano Filangieri (Lapio,1676 † San Sebastiano al Vesuvio, 1750),
Signore di Lapio, Rogliano e Arianello, Patrizio Napoletano aggregato al Seggio
di Capuana nel 1685, fu decorato nel 1724, con diploma imperiale di Carlo VI
d'Asburgo, col titolo di principe di Arianello ^ Vittorio Gnocchini, L'Italia
dei liberi muratori. Brevi biografie di massoni famosi, Roma-Milano, Erasmo
Editore-Mimesis, 2005, p. 122 ^ Simon, Fabrizio. "An economic approach to
the study of law in the eighteenth century : Gaetano Filangieri and 'La scienza
della legislazione'." Journal Of The History Of Economic Thought 33, no. 2
(June 2011): 223-248. ^ LUNA GONZALEZ, Adriana, "Religión Y Política:
Ciencia De La Legislación De Gaetano Filangieri." (2008) ISTITUTO UNIV.
EUROPEO. ^ Giampiero Buonomo, Quei lumi accesi nel Mezzogiorno, in Avanti!, 4
marzo 1989. ^ BECCHI, PAOLO. "Gaetano Filangieri und die neapolitianische
Schule: Ein Beitrag zu den Anfängen der Wirkungsgeschichte einer Gesetzgebungslehre
in der europäischen Aufklärung." ARSP: Archiv für Rechts- und
Sozialphilosophie / Archives for Philosophy of Law and Social Philosophy, 1985,
199. ^ Ferrone, Vincenzo. 2012. The politics of enlightenment : Republicanism,
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Press, 2012. ^ The politics of enlightenment; republicanism, constitutionalism,
and the rights of man in Gaetano Filangieri, 2012, Reference & Research
Book News, no. 6. ^ De Luca, S. Il Pensiero Politico di Gaetano Filangieri.
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Filangieri e la proporzionalità fra reato e pena. Imputazione e prevenzione
nella filosofia penale dell'Illuminismo. n.p.: Società editrice il Mulino,
2001. ^ Trampus, Antonio, La traduzione settecentesca di testi politici: il
caso della 'Scienza della legislazione' di Gaetano Filangieri, EUT - Edizioni
Università di Trieste, 2001. ^ Filangieri G., La science de la législation, par
M. le chevalier Gaetano Filangieri, 1786. cfr. ouvrage traduit de l'italien
d'après l'édition de Naples, de 1784, 1786-1791. ^ Scandellari, Simonetta.
2007. "La difusión del pensamiento criminal de Gaetano Filangieri en
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Diritti e costituzione : l'opera di Gaetano Filangieri e la sua fortuna
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1838, pp. 77–78 Masucci, Giovanni. 1909. Gaetano Filangieri. Conferenza tenuta
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Un uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, 1999, Alfredo
Guida Editore Pecora Gaetano, Il pensiero politico di Gaetano Filangieri. Una
analisi critica, Rubbettino Editore, 2007 Ferrone Vincenzo, La società giusta
ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell'uomo in Gaetano Filangieri, Roma-Bari,
Laterza, 2003 Cozzolino Bernardo, San Sebastiano al Vesuvio: Un itinerario
storico artistico e un ricordo di Gaetano Filangieri, Edizioni Poseidon, Napoli
2006 Giancarlo Piccolo, Cappella Filangieri. Indagini sulla Parrocchia
Immacolata e Sant'Antonio, Cercola (NA), IeS Edizioni, Cercola 2019 F.S. Salfi,
Franco Crispini (ed.), "Introduzione" di Valentina Zaffino, Elogio di
Filangieri, Cosenza, Pellegrini, 2012, ISBN 978-88-8101-863-5 "Frontiera d'Europa"
(Rivista storica semestrale, Esi editore - Istituto Italiano per gli Studi
Filosofici), anno XVI, n. 2, 2010 intitolato Studi filangieriani Berti, F., Il
repubblicanesimo di Gaetano Filangieri, Pensiero politico XXXVII.1 (2004):
108-113. Mongardini, C., Politica e sociologia nell'opera di G. Filangieri,
Giuffrè, 1964. Trampus, A. e Scola, M., Diritti e costituzione. L'opera di
Gaetano Filangieri e la sua fortuna europea, Pensiero politico, XL.1 (2007):
167-168. Simon, Fabrizio, An economic approach to the study of law in the
eighteenth century: Gaetano Filangieri and la scienza della legislazione,
Journal of the history of economic thought33.2 (Jun 2011): 223-248. Ascione
Gina Carla e Cozzolino Bernardo, Cappella di San Vito Martire a San Domenico: Il
restauro del dipinto della Madonna del Carmelo di Giovanni Antonio d’Amato,
Pref. S.E. Card. Crescenzio Sepe, San Sebastiano al Vesuvio (NA) 2016. Voci
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storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata (EN)
Gaetano Filangieri, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.
Modifica su Wikidata Gaetano Filangieri, in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Gaetano
Filangieri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN)
Opere di Gaetano Filangieri, su Open Library, Internet Archive. Modifica su
Wikidata Il pensiero politico di Gaetano Filangieri.Una analisi critica, su
politicamagazine.it. V · D · M Illuministi italiani Controllo di autorità VIAF (EN) 19740686 · ISNI
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Diritto Filosofia Portale Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII
secoloFilosofi italiani del XVIII secoloNati nel 1753Morti nel 1788Nati il 22
agostoMorti il 21 luglioMorti a Vico EquenseMassoniIlluministiStoria del
dirittoFilangieriStudenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico
IIFilosofi del dirittoStudiosi di diritto penale del XVIII secolo[altre]
FILLIPIS
-- Vincenzo
De Filippis Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Niente fonti! Questa voce o sezione sugli argomenti matematici italiani
e filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono
insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti
attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. Vincenzo De Filippis
(Tiriolo, 4 aprile 1749 – Napoli, 28 novembre 1799) è stato un matematico,
filosofo e patriota italiano, considerato un martire della Repubblica
Napoletana del 1799. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Nato in Calabria in una famiglia di piccoli proprietari
terrieri, fu allievo del Real Collegio gesuita di Catanzaro dove ricevette una
buona istruzione nelle scienze matematiche. Nel 1769 si recò a Napoli dove fu
allievo del grande economista Antonio Genovesi. Nella città partenopea ebbe
modo di frequentare gli ambienti illuministici entrando in contatto fra gli
altri con la poetessa Eleonora Pimentel Fonseca e il giurista Mario
Pagano[senza fonte]. Proseguì in seguito
gli studi in matematica e filosofia presso il collegio Ancarano dell'Università
di Bologna, dove fu discepolo del matematico Sebastiano Canterzani[senza
fonte]. Nel 1787 ottenne la cattedra di
matematica al Real Collegio di Catanzaro[senza fonte] ed ebbe, fra i suoi
discepoli, Giuseppe Poerioː tuttavia, le cattive condizioni di salute lo
spinsero ad abbandonare l'insegnamento nel 1793. Nel 1799 fu fra i principali artefici della
Repubblica Napoletanaː infatti il 25 febbraio 1799, con la nomina di Ignazio
Ciaia alla guida della Repubblica napoletana in sostituzione di Carlo Lauberg,
Vincenzo De Filippis entrò nel governo come ministro degli Interni, succedendo
a Francesco Conforti[1]. Con la caduta
della Repubblica, venne messo a morte per impiccagione in Piazza Mercato (28
novembre 1799) assieme ad altri sette patrioti[2]. Opere Conseguito il dottorato, nel 1777 De
Filippis era ritornato al paese natale, dove rimase in relazione epistolare con
gli studiosi di Napoli e di Bologna, e scrisse importanti opere di filosofia e
matematica, quali il Corso di etica, gli Scritti filosofici e metafisici,
Statica e dinamica, Scritti di fisica e di meccanica. Appartengono anche a
questo periodo gli scritti Appunti di matematica e meccanica, Meccanica,
Problemi di matematica, meccanica, dinamica[senza fonte]. Gli scritti di De Filippis sono andati,
tuttavia, dispersi[senza fonte], tranne una relazione sui terremoti del 1783 e
del 1789 inviata al Canterzani[3]. Note
^ M. D'Ayala, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino,
Bocca, 1883, pp. 218-221; Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana del
1799 a cura di B. Croce, G. Ceci, M. D'Ayala, S. Di Giacomo, Napoli, Morano,
1899. ^ Anna Maria Rao, La Repubblica napoletana del 1799, Roma, Newton, 1999,
ISBN 88-8183-608-4. ^ Vincenzo De Filippis, De' terremoti della Calabria Ultra
nel 1783 e 1789. Bibliografia Ugo Baldini, Vincenzo De Filippis, in Dizionario
biografico degli italiani, vol. 33, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1987. Modifica su Wikidata Voci correlate Repubblica Napoletana (1799) Repubblicani
napoletani giustiziati nel 1799-1800 Altri progetti Collabora a Wikisource
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esterni Biografia di Vincenzo De Filippis, su web.tiscalinet.it. Vincenzo De
Filippis, De' Terremoti della Calabria Ultra nel 1783 e 1789, testo
elettronico, su web.tiscalinet.it. V · D · M Illuministi italiani Controllo di
autorità VIAF
(EN) 30339810 · ISNI (EN) 0000 0000 5288 6334 · LCCN (EN) nr93043543 · GND (DE)
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Biografie Matematica Portale Matematica Categorie: Matematici italiani del
XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloPatrioti italiani del XVIII secoloNati
nel 1749Morti nel 1799Nati il 4 aprileMorti il 28 novembreNati a TirioloMorti a
NapoliIlluministiPersone giustiziate per impiccagionePersonalità della
Repubblica Napoletana (1799)[altre]
FINESCHI
-- Roberto
Fineschi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
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di collegamenti in entrata da altre voci. Inseriscine almeno uno pertinente e
non generico e rimuovi l'avviso. Segui i suggerimenti del progetto di
riferimento. Niente fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi
italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti.
Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo
le linee guida sull'uso delle fonti. Roberto Fineschi (Siena, 1º marzo 1973) è
un filosofo italiano. Indice 1 Biografia 2 Scritti
3 Note
4 Collegamenti
esterni Biografia Nel 1998 Fineschi ha concluso i suoi studi presso
l'Università di Siena con Alessandro Mazzone con l dissertazione Marx
rivisitato. Per il suo dottorato, svoltosi sotto la guida di Nicola De Domanico
presso l'Università di Palermo, si è occupato del rapporto Marx-Hegel. Nel 2002
ha vinto la prima edizione del premio David-Rjazanov-Preises,[1] presentando il
lavoro, Wertform, Geldform und Austauschprozess“[2]. Scritti Ripartire da Marx. Processo storico
ed economia politica nella teoria del “capitale”, Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici – La Città del Sole, Napoli 2001 Come editore: Karl Marx: rivisitazioni
e prospettive, Mimesis, Milano 2005, ISBN 88-8483-389-2 (Itinerari filosofici)
Marx e Hegel. Contributi a una relectura, Carocci editore, Roma 2006 Un nuovo
Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico critica
(MEGA2), Carocci editore, Roma 2008 Wolfgang Fritz Haug: Rezension (5 Seiten
pdf; 86 kB) in: Das Argument 277, 2008/4, Seite 540ff. mit Riccardo Bellofiore
als Herausgeber: Re-reading Marx. New Perspectives after the Critical Edition,
Basingstoke, Hampshire; Palgrave Macmillan, New-York 2009, ISBN
978-0-230-20211-5 Note ^ Begründung zur Verleihung des David-Rjazanov-Preises
2002 Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet Archive. (3 Seiten pdf; 43 kB) des
Vereines zur Förderung der MEGA-Edition e. ^ R. Fineschi: Nochmals zum Verhältnis
Wertform/Geldform/Austauschprozess Archiviato il 4 marzo 2016 in Internet
Archive. (13 Seiten pdf; 63 kB) Collegamenti esterni Roberto Fineschi (PDF; 33
kB), Angaben auf Marxforschung.de Marxdialecticalstudies: Interview mit Roberto
Fineschi zum zweiten Buch des Kapital gemäß der neuen kritischen Ausgabe (MEGA)
(englisch) Controllo di autorità VIAF
(EN) 49473265 · ISNI (EN) 0000 0000 6658 1056 · LCCN (EN) n2003099791 · GND
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Categorie: Filosofi italiani del XXI secoloNati nel 1973Nati il 1º marzoNati a
SienaFilosofi del XXI secolo[altre]
Fioramonte
-- Lorenzo Fioramonti (Roma, 29 aprile 1977) è un accademico e
politico italiano, dal 5 settembre al 30 dicembre 2019 ministro
dell’istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte II.
Indice 1 Biografia
1.1 Attività
accademica 1.2 Attività
politica 1.2.1 Sottosegretario
e vice ministro 1.2.2 Ministro
dell’istruzione, dell'università e della ricerca 1.3 L’uscita dai 5 Stelle 1.4 La
fondazione di Eco e l'entrata in Green Italia 2 Controversie
3 Pubblicazioni
4 Vita
privata 5 Note
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Dopo aver frequentato il liceo scientifico "Edoardo
Amaldi" di Roma, situato nel quartiere di Tor Bella Monaca, si è laureato
in Filosofia presso l'Università degli Studi di Roma "Tor Vergata"
con una tesi in Storia del pensiero politico ed economico moderno incentrata
sul ruolo dei diritti di proprietà ed individuali in America e in Europa. Ha
conseguito anche un dottorato di ricerca in Politica comparata ed europea
presso l’Università degli Studi di Siena[1]. Attività accademica Diviene
a 35 anni docente di economia politica presso l'Università di Pretoria, ed è
direttore del Centro per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello
stesso ateneo[2]. È inoltre membro del Center for Social Investment
dell'Università di Heidelberg, della Hertie School of Governance e
dell'Università delle Nazioni Unite. Si occupa di economia e integrazione
economica europea[1]. Per il Financial Times, Fioramonti sostiene che il PIL è
"non solo uno specchio distorto in cui vedere le nostre economie sempre
più complesse, ma anche un impedimento a costruire società migliori".[3]
Lorenzo Fioramonti mentre tiene un discorso nel 2013 I suoi articoli sono
inoltre apparsi su The New York Times, The Guardian, Harvard Business Review,
Die Presse, Das Parlament, Der Freitag, Mail & Guardian, Foreign Policy e
opendemocracy.net. Ha una rubrica mensile nel Business Day, il principale
quotidiano finanziario del Sudafrica.[4] È stato co-direttore della rivista
scientifica The Journal of Common Market Studies[1]. Fioramonti è inoltre
coautore e co-editore di diversi libri[1]. Oltre ai best seller Gross Domestic
Problem: la politica dietro il numero più potente del mondo (2013) e Il modo in
cui i numeri governano il mondo: l'uso e l'abuso delle statistiche nella
politica globale (2014), nel 2017 ha pubblicato i volumi Economia del
benessere: successo in un mondo senza crescita, Presi per il PIL. Tutta la
verità sul numero più potente del mondo e Il mondo dopo il PIL: economia,
politica e relazioni internazionali nell'era post-crescita. Attività
politica Fra il 1997 e il 2000 ha avuto un'esperienza come assistente
parlamentare, collaborando a titolo gratuito con Antonio Di Pietro (IdV) a
sviluppare politiche per i giovani nelle periferie[1]. Nel gennaio 2018
viene resa nota la sua candidatura col Movimento 5 Stelle alle imminenti
elezioni politiche di marzo 2018, risultando eletto alla Camera dei deputati
nel collegio uninominale di Roma-Torre Angela con il 36,65% dei voti.[5]
Sottosegretario e vice ministro Il 12 giugno dello stesso anno l'onorevole
Fioramonti è stato nominato sottosegretario presso il Ministero
dell’istruzione, dell'università e della ricerca nel Governo Conte I[6]. A
settembre 2018 ha annunciato di aver nominato a luglio 2018 il personaggio
televisivo Dino Giarrusso suo segretario particolare, affidandogli l'incarico
di coordinare la comunicazione del suo ufficio e curare le relazioni
istituzionali. L'onorevole ha inoltre aggiunto di aver chiesto a Giarrusso di
aiutarlo anche ad evadere le segnalazioni inviate al Ministero sulle presunte
irregolarità che si verificano all'interno dei concorsi universitari[7].
Il 13 settembre 2018 il Consiglio dei ministri, su proposta del ministro Marco
Bussetti, lo ha nominato vice ministro all'istruzione, università e
ricerca[8]. Ministro dell’istruzione, dell'università e della ricerca Proposto
il 4 settembre 2019 come ministro dell'istruzione, dell'università e della
ricerca nel Governo Conte II, viene nominato ufficialmente il 5 settembre 2019.
All'inizio del suo mandato ha istituito un comitato scientifico di consulenza,
composto tra gli altri dall'indiana Vandana Shiva. Nel mese di ottobre
2019 intervenendo ai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno da
pecora ha affermato di "credere in una scuola laica" e di essere
favorevole alla rimozione del crocifisso nelle scuole, per sostituirlo
piuttosto con una mappa del mondo. In seguito, verrà criticato dalla Conferenza
Episcopale Italiana (CEI).[9] Il 5 novembre 2019 Fioramonti ha annunciato
per l'anno successivo l'introduzione in Italia, primo Paese al mondo, dello
studio del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile come materia
scolastica.[10] Il 18 novembre 2019, in un'intervista a Il Messaggero, ha
dichiarato di essere pronto a rassegnare le proprie dimissioni qualora nella
Legge di bilancio 2020 non fossero stati trovati fondi per 3 miliardi di euro
da destinare all'istruzione[11]; il 25 dicembre dello stesso anno Fioramonti
invia al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte una lettera in cui annuncia le
proprie dimissioni e dichiara che, a proprio avviso, sarebbe opportuno rivedere
l'IVA al fine di incassare i fondi che chiedeva per il proprio
ministero.[12] L’uscita dai 5 Stelle Il 30 dicembre 2019 comunica la
propria uscita dal Movimento 5 Stelle e la propria adesione al Gruppo Misto
alla Camera[13]. La fondazione di Eco e l'entrata in Green Italia Il 7
gennaio 2020 ha annunciato la fondazione del nuovo partito politico Eco.[14]
Successivamente ha dichiarato che Eco rappresenta un'ipotesi, un'idea guidata
dalla volontà di costituire una entità in collaborazione tra società civile e
parlamentari, ma la cui concretizzazione in una nuova realtà non è ancora
certa.[15] Il 10 giugno 2020 però entra a far parte di Green Italia,
insieme all'onorevole Rossella Muroni e Elly Schlein, vicepresidente
dell'Emilia Romagna. Controversie Il 3 ottobre 2019, dopo che il
quotidiano il Giornale ha pubblicato alcune dichiarazioni fatte nel passato su
Twitter da Fioramonti, ritenute inappropriate per la carica da ministro,
diversi partiti (tra cui Lega, FI e FdI) chiedono le sue dimissioni dal
dicastero, annunciando il deposito in Parlamento di una mozione di sfiducia[È
stata effettivamente depositata? Che ne è stato?][16]. Il ministro ha quindi
dichiarato sui social che tali opinioni erano state scritte di getto e si è
quindi scusato[17]. Nello stesso periodo suscita polemica il fatto che,
secondo quanto riportato dalle chat di alcuni genitori, il ministro avrebbe
scelto di iscrivere il figlio alla scuola inglese e di non fargli fare l'esame
di italiano; a seguito di tale notizia Fioramonti scrive un post sui social in
cui si definisce turbato come padre e cittadino ed annuncia di voler presentare
un esposto al garante della privacy[17]. Pubblicazioni Diritti umani 50
anni dopo. Aracne, 1999. Fuori. Fermento, 2010. Poteri emergenti nell'economia
politica e internazionale. Il caso di India, Brasile e Sudafrica . ETS, 2011.
Presi per il PIL. Tutta la verità sul numero più potente del mondo. L’Asino
d’oro edizioni, 2017. Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della
post-crescita. Edizioni Ambiente, 2019. Un'economia per stare bene. Dalla
pandemia del Coronavirus alla salute delle persone e dell'ambiente.
Chiarelettere, 2020. Vita privata È sposato con Janine Schall-Emdem, cittadina
tedesca, e ha due figli.[18] Note Vincenzo Bisbiglia, Lorenzo
Fioramonti, chi è il candidato M5S: dalla laurea in Filosofia alla critica al
pil. Con tappa alla Rockefeller foundation - Il Fatto Quotidiano, in Il Fatto
Quotidiano, 16 febbraio 2018. URL consultato il 15 settembre 2018. ^ (EN)
Professor Lorenzo Fioramonti, su www.up.ac.za. URL consultato il 15 settembre
2018. ^ (EN) Has GDP become an impediment to a better society?, su Financial
Times. URL consultato il 16 ottobre 2017. ^ (EN) World needs a new Bretton
Woods with Africa in the lead, su www.bdlive.co.za, Business Day. URL
consultato il 13 gennaio 2015. ^ Eligendo: Camera [Scrutini] Collegio
uninominale 05 - ROMA - ZONA TORRE ANGELA (Italia) - Camera dei Deputati del 4
marzo 2018 - Ministero dell'Interno, su Eligendo. URL consultato il 16 marzo
2018. ^ F.Q., Governo, nominati 45 tra viceministri e sottosegretari: Castelli
e Garavaglia al Mef. Crimi all'Editoria. Dentro anche Siri - Il Fatto
Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, 12 giugno 2018. URL consultato il 15
settembre 2018. ^ Università, dietrofront su Giarrusso. Fioramonti: "è
solo il mio segretario, non un controllore", in Repubblica.it, 14
settembre 2018. URL consultato il 15 settembre 2018. ^ Governo: Galli, Rixi e
Fioramonti nominati viceministri - Tgcom24, in Tgcom24, 13 settembre 2018. URL
consultato il 15 settembre 2018. ^ Crocifisso a scuola, la Chiesa contro il
ministro Fioramonti che vorrebbe toglierlo dalle classi, su Repubblica.it, 1º
ottobre 2019. URL consultato il 26 dicembre 2019. ^ Fioramonti: da settembre il
clima sarà materia di studio a scuola ^ Fioramonti: 3 miliardi per l'istruzione
o confermo le mie dimissioni -, su Orizzonte Scuola, 18 novembre 2019. URL
consultato il 26 dicembre 2019. ^ Il ministro dell’Istruzione Fioramonti ha
dato le dimissioni, Corriere della sera, 25 dicembre 2019. ^ Fioramonti lascia
il gruppo M5S: «C'è diffuso sentimento di delusione», Il Messaggero, 30
dicembre 2019. ^ [1] ^ L’ex ministro Fioramonti: «Un altro governo non è un
tabù. Ora un’area civica progressista», su Il Manifesto. URL consultato il 4
giugno 2020. ^ Bufera su Fioramonti per alcuni tweet. Meloni chiede le
dimissioni, per Lega e Pd deve chiarire, su L'HuffPost, 3 ottobre 2019. URL
consultato il 26 dicembre 2019. Bufera su Fioramonti per offese web,
ministro si scusa - Politica, su Agenzia ANSA, 3 ottobre 2019. URL consultato
il 26 dicembre 2019. ^ Chi è Lorenzo Fioramonti, nuovo ministro del MIUR, su
theitaliantimes.it, 4 settembre 2019. URL consultato il 5 settembre 2019. Voci
correlate Governo Conte II Ministri dell'istruzione, dell'università e della
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RadioRadicale.it, Radio Radicale. Modifica su Wikidata Predecessore Ministro
dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione.png
Marco Bussetti 5
settembre 2019 - 25 dicembre 2019 Giuseppe
Conte (ad interim) Predecessore Viceministro
dell'istruzione, dell'università e della ricerca della Repubblica Italiana Successore MinisteroIstruzione.png
- 13
settembre 2018 - 5 settembre 2019 Anna
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Biografie Portale Biografie Istruzione Portale Istruzione Politica Portale
Politica Università Portale Università Categorie: Accademici italiani del XXI
secoloPolitici italiani del XXI secoloNati nel 1977Nati il 29 aprileNati a
RomaGoverno Conte IIMinistri dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca
della Repubblica ItalianaDeputati della XVIII legislatura della Repubblica
ItalianaPolitici del Movimento 5 StelleStudenti dell'Università degli Studi di
Roma Tor Vergata[altre]
fiore: da Floris:
Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni
in Fiore (vide, Grice, “St. John’s and the Cistercians”). He devoted the rest
of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his
major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in
Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris illustrates the deep meaning of history as he
perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos
and threes. The two testaments represent history as divided in two phases
ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also
through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that
of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260;
the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders
like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this
final era of spirituality and interpreted Joachim’s prophecies as suggesting
the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his
views were condemned by the Lateran Council.
Fiormonte – Domenico
Fiorentino -- Francesco
Fiorentino Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Francesco Fiorentino Francesco Fiorentino.gif Deputato del Regno
d'Italia Legislature XI,
XII Sito istituzionale Dati generali Titolo di studio laurea Professione filosofo
Francesco Fiorentino (Sambiase, 1º maggio 1834[1] – Napoli, 22 dicembre 1884) è
stato un filosofo e storico della filosofia italiano. Indice 1 Biografia
2 Le
opere e il pensiero 2.1 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Altri
progetti 6 Collegamenti
esterni Biografia Nacque a Sambiase (attuale Lamezia Terme), nel cui centro
storico ci sono una piazza ed una via a lui dedicate, il 1˚ maggio del 1834[1]
da Gennaro, chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio
e Bruno Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi
sacerdoti, e venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Giuseppe
Capocasale e Pasquale Galluppi. Successivamente entrò nel seminario vescovile
di Nicastro, per imparare lettere e teologia. Qui studiò sotto gli insegnamenti
di N. De Marco e F. M. Crecca, insigni filosofi e latinisti. Abbandonò il
seminario nel 1851. Durante la giovinezza, trascorreva il suo tempo libero nel
caffè letterario "Cherry Plum", luogo d'élite che attirava gli
intellettuali del tempo. Lì Fiorentino iniziò a farsi conoscere tra i coetanei
di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Dopo due anni
trascorsi a Sambiase, a studiare teologia, si trasferì a Catanzaro dove
intraprese gli studi di giurisprudenza. Non poté laurearsi perché aveva solo
diciannove anni. Sarebbe probabilmente divenuto un avvocato se la filosofia non
fosse stata la sua innata passione. Per vivere, Fiorentino dava lezioni private
spendendo il resto della giornata a studiare. Di questi anni sono numerose
traduzioni di testi antichi della Chiesa. Sempre a Catanzaro, nel 1859, si legò
con profonda amicizia a M. Vitale, B. Chimirri, V. Bona, F. Pronestì e
soprattutto a Bernardino Grimaldi. Pur se miope e non aduso alle armi,
Fiorentino tentò di prender parte alla rivoluzione di Giuseppe Garibaldi, ma
dovette desistere, ritornando nuovamente alle sudate sue carte. All'indomani
dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila soldati borbonici
a Soveria Mannelli, nell'incontrare Giuseppe Garibaldi a Maida, Fiorentino gli
si avvicinò per congratularsi del successo ottenuto gridando: «Viva
l'annessione, vogliamo l'annessione!» Dopo l'Unità d'Italia, Fiorentino venne
nominato, con decreto regio, professore di filosofia nel Liceo di Spoleto in
Umbria: la sua fama di intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della
sua natia regione. Non si sa dove e quando è stato iniziato in
Massoneria, ma nel 1867 era membro effettivo della Loggia Felsinea di
Bologna[2]. Le opere e il pensiero Da Spoleto presto passò a Maddaloni,
vicino a Napoli, dove approfondì sempre più i suoi studi. Nella città
partenopea pubblicò: Il Panteismo di Giordano Bruno. Fiorentino rivedeva
molto di sé nel carattere e nel martirio del filosofo nolano. La stessa
affinità che, sia pure in chiave politica, egli ritrovava in Vincenzo Gioberti,
grande statista torinese. Il saggio su Bruno, gli valse nel 1862 la
cattedra presso l'Università di Bologna che era stata dell'amico Bertrando
Spaventa. Qui si occupò della storia della filosofia greca, contemporaneamente
si interessò dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto figure di filosofi
allora sconosciute. Nella città felsinea, Fiorentino rimase per ben nove anni,
dove avviò intensissima l'attività di pubblicista e saggista, scrivendo: Il
Saggio storico sulla filosofia greca; Pietro Pomponazzi; e Scritti varii. Seguì
l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Nel 1871 si trasferì a
Napoli per insegnare Filosofia della storia. Con lui fu Restituta Trebbe, la
donna che amò intensamente e dalla quale ebbe quattro figli. Nel 1875 il
Fiorentinò mutò ancora la sede dei suoi insegnamenti: fu nell'Università di
Pisa per insegnare Filosofia teoretica. Qui pubblicò il noto testo Elementi di
filosofia ad uso dei Licei, che per decenni ha costituito uno dei migliori
manuali scolastici. Tra il 1879 e il 1881 pubblicò il Manuale di Storia
della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato: un vero filosofo
scrittore… Nel 1880 ritornò di nuovo a Napoli ad occupare la cattedra che
già una volta fu sua. Nel 1883 successe all'amico Spaventa nell'insegnamento
della Filosofia Teoretica. Sempre nella città partenopea fondò il Giornale
Napoletano. Nel 1882, con le sue prefazione e note, pubblicò "Poesie
Liriche edite ed inedite di Luigi Tansillo", Domenico Morano, Napoli. Nel
campo politico, dopo essere stato Deputato al Parlamento nel 1870 e nel 1874 in
due collegi del Norditalia, nel 1861 egli era stato candidato nel collegio di
Nicastro, ma non venne eletto. Riprovò nuovamente nel 1882 quando si presentò
nel collegio di Monteleone. Morirà a Napoli due anni dopo, il 22 dicembre
del 1884 per un attacco cardiaco, a soli cinquant'anni d'età. Nel 1887 le
sue spoglie vennero traslate a Catanzaro che due anni dopo gli eresse un
monumento alla memoria. Così pure il paese natale di Sambiase nel 1909.
Benché egli avesse insegnato per ventiquattro anni di seguito nelle scuole
pubbliche, la sua famiglia non poté ottenere la pensione per soli sei mesi di
servizio mancanti. Opere Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a
Dio di S. Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalità dell'anima e Del
libero arbitrio di S. Aurelio Agostino, del Proslogio di S. Anselmo, Messina,
1858 Sul panteismo di Giordano Bruno, Napoli, 1861 Saggio storico sulla
filosofia greca, Firenze, 1864 Pietro Pomponazzi, studi storici sulla scuola
bolognese e padovana del secolo XVI, Firenze, 1868 Bernardino Telesio, ossia
studi storici sull'Idea della Natura nel Risorgimento italiano, Firenze,
1872-1873 La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, 1876 Scritti vari di
letteratura, poesia e critica, Napoli, 1876 Elementi di filosofia, Napoli, 1877
Della vita e opere di Vincenzo de Grazia, Napoli, 1877 Manuale di storia della
filosofia, Napoli, 1879-1881 Elementi di filosofia, Napoli, 1880 Il
Risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, 1885 e 1994 ISBN
88-85239-10-2 Note L. Lo Bianco, op. cit., indica la data del 10 maggio
1834. ^ Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma,
2005, pp. 123-124. Bibliografia G. Galati, Interpretazione dell'opera di
Francesco Fiorentino, in «Archivio storico della filosofia italiana», 1936 G.
Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari, 1973 P. Di
Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo italiano, in «Bollettino
della Società Filosofica Italiana», 2000 Altri progetti Collabora a Wikisource
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Collegamenti esterni Francesco Fiorentino, su Treccani.it – Enciclopedie on
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Fiorentino, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Francesco Fiorentino, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di
Francesco Fiorentino, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata
(EN) Opere di Francesco Fiorentino, su Open Library, Internet Archive. Modifica
su Wikidata Francesco Fiorentino, su storia.camera.it, Camera dei deputati.
Modifica su Wikidata Simonetta Bassi, Francesco Fiorentino e Felice Tocco, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2012. Controllo di autorità VIAF (EN) 24695059 ·
ISNI (EN) 0000 0001 1609 058X · SBN IT\ICCU\CFIV\043187 · LCCN (EN) n79063350 ·
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BAV (EN) 495/121333 · WorldCat Identities (EN) lccn-n79063350 Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XIX
secoloNati nel 1834Morti nel 1884Nati il 1º maggioMorti il 22 dicembreNati a
SambiaseMorti a NapoliProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico
IIMassoniProfessori dell'Università di Pisa[altre]
Fioretti -- Benedetto Fioretti Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Proginnasmi poetici, 1639. Benedetto
Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro, (Mercatale, 18 ottobre
1579[1] – Pistoia, 30 giugno 1642[1]), è stato un filosofo, filologo, teologo
grammatico, poeta, critico letterario, ed educatore italiano. italiano. Fu
autore del lavoro Proginnasmi poetici (pubblicato in 5 volumi tra il 1620 e il
1639), un'ampia raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci
e latini agli scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la
straordinaria versatilità e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse le opere Osservazioni
di creanze e Esercizi morali (1633). Fu critico acerrimo di Ariosto[2],
Aristotele e altri autori classici. È stato anche co-fondatore dell'Accademia
degli Apatisti[1]. Secondo Girolamo Tiraboschi, era più un poeta che un
filosofo[3]. Indice 1 Biografia 2 Opere 3 Note
4 Bibliografia
5 Altri
progetti 6 Collegamenti
esterni Biografia A ventidue anni divenne prete, ma trascurò i suoi doveri di
ministro di Dio, avendo una vita così indisciplinata che il conte Giovanni
Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più contenuta. Ma ha
risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del conte, che
immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma il prete accorto fuggì, e i
partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del prete che
recita: Resurrexit, non est hic[4].
Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò
completamente stile di vita: si dedicò agli studi e alla letteratura e divenne
un sacerdote virtuoso. Rimase isolato nella sua residenza di Oriuolo e cambiò
anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di nessuno, ad
eccezione di Dio". Ha pubblicato
numerosi lavori, dimostrandosi diligente filologo e critico critico. Il suo
capolavoro è la raccolta di poesie Proginnasmi, in cinque volumi, contenente
critiche ai poeti greci, latini e italiani. La figura di Benedetto Fioretti è
stata dimenticata dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente
franco[5]. Al suo pseudonimo era solito
aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la
mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità
dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa
accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Agostino Coltellini,
si concretizzò con l'obiettivo di riunire persone con abitudini salutari e
politici impegnati. Secondo Francesco
Cionacci (1633-1714), nella sua opera Vita di Benedetto Fioretti, fu sepolto
nella chiesa di San Basilio dei confratelli della Congregazione dello Spirito
Santo, a cui lasciò come eredità la sua biblioteca e i suoi scritti. Opere Benedetto Fioretti, Polifemo Briaco,
1627. Benedetto Fioretti, Proginnasmi poetici, vol. 1, Firenze, appresso Zanobi
Pignoni, 1620. URL consultato il 18 marzo 2020. Benedetto Fioretti, Proginnasmi
poetici, vol. 2, Firenze, appresso Zanobi Pignoni, 1620. URL consultato il 18
marzo 2020. Benedetto Fioretti, Proginnasmi poetici, vol. 3, Firenze, appresso
Zanobi Pignoni, 1627. URL consultato il 18 marzo 2020. Benedetto Fioretti,
Proginnasmi poetici, vol. 4, Firenze, nella Stamperia di Zanobi Pignoni, 1638.
URL consultato il 18 marzo 2020. Benedetto Fioretti, Proginnasmi poetici, vol.
5, Firenze, nella stamperia di Pietro Nesti all'insegna del Sole, 1639. URL
consultato il 18 marzo 2020. Il quinto volume dei Proginnasmi poetici venne
presentato a Leopoldo I di Toscana che lo definì "un'opera di grande
erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i
più singolari artifici della Poetica"[6]. Benedetto Fioretti, Esercizi
morali, 1633. URL consultato il 18 marzo 2020. Benedetto Fioretti, Rimario e
Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni, 1641. URL consultato il 18 marzo 2020.
Note DBI. ^ Raffaello Ramat, La critica
ariostesca, Firenze 1954, pp. 38-48, e anche in Walter Binni, Storia della
critica ariostesca, Lucca 1951, pp. 20-25. ^ Tiraboschi. ^ Luca, 24,6 ^ Scheda
Biografica di Benedetto Fioretti, su Centro Ricerche Pratesi, 2013. URL
consultato il 15 ottobre 2018 (archiviato il 30 aprile 2013). ^ Carmine Jannaco
e Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia: Il Seicento. Bibliografia Gian
Vittorio Rossi, Pinacotheca, Colonia 1647, II, n. 31; Giulio Negri, Istoria degli
scrittori fiorentini, Ferrara, per Bernardino Pomatelli, 1722, pp. 92-93.
Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij..., Venezia 1730, II, p. 352; III, p.
105; IV, p. 146; Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia,
Venezia 1731, p. 31; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia
1735, p. 322; Giusto Fontanini, Della eloquenza italiana, Roma 1736, pp. 151,
261 s., 264, 298, 300, 311, 394 s., 419, 498, 526, 558 s., 639; Domenico
Moreni, Bibliografia storico-ragionata della Toscana ..., I, Firenze 1805, pp.
269, 475; Giovan Battista Corniani, I secoli della Letteratura italiana dopo il
suo Risorgimento Commentario di G.B. Corniani, a cura di S. Ticozzi, II, Milano
1833, pp. 52 ss.; Francesco Inghirami, Storia della Toscana, Biografia, XIII,
Fiesole 1844, pp. 59 s.; Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano 1915, pp.
205, 253-256; Umberto Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con
Dante attraverso il Seicento, Bari 1946, pp. 32-37; Benedetto Croce, Storia
dell'età barocca, Bari 1946, pp. 66 s., 181 s., 197 s., 205; Walter Binni,
Storia della critica ariostesca, Lucca 1951, pp. 20-25; Raffaello Ramat, La
critica ariostesca, Firenze 1954, pp. 38-48; Franco Croce, La discussione
sull'Adone, in La Rassegna della letteratura italiana, LIX (1955), pp. 437 ss.;
Letteratura italiana (Marzorati), I minori, II, Milano [1961], pp. 1010, 1234,
1237, 1351, 1356, 1785; Carmine Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, Milano
1963, pp. 31, 36 ss., 41, 45, 67, 73 ss., 79, 83, 205, 213, 279, 343, 428; Pio
Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso, Firenze [1975], pp. VII s. Gianfranco
Formichetti, Benedetto Fioretti, in Dizionario biografico degli italiani, vol.
48, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1997. Modifica su Wikidata Anton
Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, Il giovane istruito nella
cognizione dei libri, vol. 6, Venezia, per Giuseppe Picotti, 1823, pp. 113-115.
Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, vol. 8, Roma, per Luigi
Perego Salvioni Stampator Vaticano, 1785, p. 407. Altri progetti Collabora a
Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Benedetto Fioretti
Collegamenti esterni Benedetto Fioretti, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Antonio Belloni,
Benedetto Fioretti, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Controllo di autorità VIAF (EN) 61680503 · ISNI (EN) 0000 0001
0851 3685 · SBN IT\ICCU\TO0V\256983 · LCCN (EN) n85317302 · GND (DE) 124523684
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WorldCat Identities (EN) lccn-n85317302 Categorie: Filosofi italiani del XVI
secoloFilosofi italiani del XVII secoloFilologi italianiTeologi italianiNati
nel 1579Morti nel 1642Nati il 18 ottobreMorti il 30 giugnoNati a VernioMorti a
Pistoia[altre]
Fisichella -- Francesco Fisichella Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Biblioteca Civica di Catania Francesco
Fisichella (Catania, 1841 – Messina, 28 dicembre 1908) è stato un presbitero e
filosofo italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Collegamenti
esterni Biografia Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei
Fisichella[1], il canonico Francesco Fisichella fu autore di famose opere di
teologia e diritto. Fu responsabile
della Biblioteca Civica di Catania dal 1878 al 1902.[2] Insegnò presso l'Istituto teologico di
Messina. Morì a Messina, vittima del
terremoto del 1908. Opere Francesco
Fisichella: Roma e il Mondo nel 1869: Discorso recitato nella chiesa del
gesuiti in Catania il 31 dicembre 1869, Eugenio Coco, 1870, pp. 58. Francesco
Fisichella: Della interdizione patrimoniale del condannato a pena perpetua:
Secondo l'ultimo disegno del Codice penale italiano, F. Martinez, 1888.
RISTAMPA: Kessinger Publishing, 2010, pp. 72. ISBN 1162354690, EAN
9781162354699. Francesco Fisichella: Delle obbligazioni naturali: Saggio
critico, F. Martinez, 1889, pp. 78. RISTAMPA: Kessinger Publishing, 2010, pp.
78. ISBN 1162360119, EAN 9781162360119. Francesco Fisichella: Il divorzio:
observazioni critiche, Carmelo de Stefano, 1894, pp. 164. Francesco Fisichella:
Chiesa e Stato nel matrimonio: Studio critico di legislazione matrimoniale,
Loescher, 1899, pp. 336. RISTAMPA: Kessinger Publishing, 2010, pp. 346. ISBN
1160339716, EAN 9781160339711. Note ^ Albero genealogico, su MyHeritage. URL
consultato il 28 aprile 2020. ^ Nel 1893 fu nominato "bibliotecario
onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino
ancora conservato molte pagine del suo romanzo I Viceré. Bibliografia Armando
Balduino: Storia letteraria d'Italia, Vol. 10, p. 1753, Piccin, 1997, pp. 2510.
Voci correlate Biancavilla Biblioteche riunite Civica ed Ursino Recupero
Collegamenti esterni Opere di Francesco Fisichella, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Modifica su Wikidata Predecessore Responsabile della
Biblioteca Civica di Catania Successore
Giuseppe Coco Zanghì 11 luglio 1872 – 1878 1878
– 1902 Carmelo
Ardizzoni 1902 – 1907 Controllo di autorità VIAF
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Categorie: Presbiteri italianiFilosofi italiani del XIX secoloNati nel
1841Morti nel 1908Morti il 28 dicembreNati a CataniaMorti a Messina[altre]
flew
floridi: essential Italian philosopher. He
has explored aspects of Grice’s use of the expression ‘inform,’ ‘mis-inform,’
in terms of ‘factivity.’ Luciano
Floridi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Luciano Floridi Luciano Floridi (Roma, 16 novembre 1964) è un
filosofo italiano naturalizzato britannico, professore ordinario di filosofia
ed etica dell'informazione presso l'Oxford Internet Institute dell'Università
di Oxford[1], dove è direttore del Digital Ethics Lab[2]. Attualmente è
visiting professor all'Università di Ferrara. Floridi è principalmente
conosciuto per il suo lavoro in due aree di ricerca filosofica: la filosofia
dell'informazione e l'etica informatica. Indice 1 Biografia 2 Pensiero
3 Opere
4 Note
5 Voci
correlate 6 Collegamenti
esterni Biografia Laureato all'Università di Roma "La Sapienza",
M.Phil e in possesso di un dottorato di ricerca conseguito all'Università di
Warwick, M.A. all'Università di Oxford, prima dell'attuale incarico il
professor Floridi ha insegnato, in qualità di professore associato, logica ed
epistemologia all'Università di Oxford e all'Università di Bari. In qualità di
professore ordinario, invece, ha insegnato filosofia dell'informazione presso
l'Università dello Hertfordshire, dove è anche stato UNESCO Chair of
Information and Computer Ethics. È conosciuto per i suoi studi sulla
tradizione scettica (scetticismo), ma principalmente per il suo lavoro di
fondazione della filosofia dell'informazione e dell'etica informatica, due
campi che ha contribuito a costituire.[3] È stato fondatore e coordinatore, con
Jeff Sanders, dello IEG, gruppo di ricerca interdipartimentale sulla filosofia
dell'informazione all'Università di Oxford.[4] Ha lavorato nella Humanities
Computing e ha fondato e diretto il Sito Web Italiano di Filosofia (SWIF).[5] È
stato presidente della IACAP (International Association for Computing And
Philosophy), della quale in passato è stato anche vicepresidente. I suoi
lavori sono stati tradotti in ceco, cinese, francese, giapponese, greco,
persiano, polacco, portoghese e ungherese. Pensiero Niente fonti! Questa
voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o
quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo
citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti.
Durante la laurea ha studiato da classicista e da storico della filosofia. Nel
Regno Unito, prima a Warwick e poi a Oxford, si è interessato di filosofia
della logica ed epistemologia. Si è quindi occupato di diversi argomenti
filosofici tradizionali, alla ricerca di una nuova metodologia, con l'obiettivo
di riuscire ad avvicinarsi ai problemi contemporanei in una prospettiva che fosse
efficace dal punto di vista euristico e potesse allo stesso tempo anche
costituire un arricchimento intellettuale nell'affrontare le questioni
filosofiche dei nostri giorni. Molto presto, ha iniziato a distanziarsi dalla
filosofia analitica classica. Secondo Floridi, il movimento analitico aveva
perso la sua spinta iniziale ed era ormai un paradigma sempre più debole,
scolasticizzato.[6] Per questo motivo, ha concentrato i suoi interessi su una
nuova fondazione dell'epistemologia. Nel suo primo libro, Scepticism and the
Foundation of Epistemology, andava già alla ricerca di un concetto di
"conoscenza-indipendente-dal-soggetto", vicino a ciò che oggi
definisce informazione semantica. Secondo Floridi, è necessario
sviluppare una filosofia costruzionista, all'interno della quale il design, la
creazione di modelli e le implementazioni sostituiscano analisi frivole e esami
cavillosi. In questo modo, la filosofia ha la speranza di non chiudersi in un
angolo sempre più angusto, fatto di ricerche autosufficienti e che interessano
solo a sé stesse, e di riacquistare un punto di vista più ampio sui problemi
che sono realmente determinanti nella vita umana. Così, lentamente, Floridi è
giunto a prendere in considerazione la filosofia dell'informazione, una nuova area
di ricerca emersa dalla svolta computazionale, avvicinandola da due
prospettive, quella puramente teorica della logica e dell'epistemologia, e
quella più tecnica dell'informatica, in particolare dell'etica del computer,
della teoria dell'informazione e della humanities computing. Nella
prefazione di Philosophy and Computing, pubblicato nel 1999, Floridi scrive che
il libro è pensato per due tipi di studenti di filosofia: gli studenti che
hanno bisogno di acquisire conoscenze di IT necessarie per fare uso del
computer in maniera efficace, e gli studenti che possono essere interessati ad
acquisire le conoscenze di sfondo indispensabili per la comprensione critica
della nostra era digitale e dunque iniziare a lavorare sulla nuova branca della
filosofia che si va formando, proprio la Filosofia dell'informazione, che
Floridi si augura un giorno possa diventare parte integrante della cosiddetta
Philosophia Prima. Da allora, la PI, o PCI (Philosophy of Computing and
Information), è diventata il suo maggiore interesse di ricerca. In PI,
Floridi sostiene che ci sia bisogno di un concetto più ampio di elaborazione e
di flusso dell'informazione, che includa la computazione, ma non solo. Questa
nuova prospettiva fornisce una cornice teorica molto efficace all'interno della
quale inserire e dare significato alle differenti linee di ricerca che hanno
preso forma dagli anni cinquanta a oggi. Il secondo vantaggio è la prospettiva
diacronica fornita da PI, che permette di inquadrare lo sviluppo della
filosofia nel tempo. Secondo Floridi, PI fornisce infatti un punto di vista
molto più ampio e profondo su ciò che la filosofia avrebbe cercato di fatto di
realizzare nel corso dei secoli. Opere Scepticism and the Foundation of
Epistemology - A Study in the Metalogical Fallacies. Leida: Brill, 1996.
Internet - An Epistemological Essay. Milano: Il Saggiatore, 1997. Philosophy
and Computing: An Introduction. Londra/New York: Routledge, 1999. Sextus
Empiricus, The Recovery and Transmission of Pyrrhonism. Oxford: Oxford
University Press, 2002. The Blackwell Guide to the Philosophy of Computing and
Information. Oxford: Blackwell UK, 2003. Infosfera - Filosofia e Etica
dell'informazione. Torino: Giappichelli Editore, 2009. Information – A Very
Short Introduction. Oxford: Oxford University Press, 2010 (trad. it. di Massimo
Durante, La rivoluzione dell'informazione. Torino: Codice, 2012). The
Philosophy of Information. Oxford: Oxford University Press, 2011. The Fourth
Revolution - How the infosphere is reshaping human reality. Oxford: Oxford
University Press, 2014 (tr. it. La quarta rivoluzione, Milano: Raffaello
Cortina Editore, 2017). The Ethics of Information. Oxford: Oxford University
Press, 2013. Information - A Very Short Introduction. Oxford: Oxford University
Press, 2010. The Cambridge Handbook of Information and Computer Ethics.
Cambridge: Cambridge University Press, 2010. Pensare l'infosfera. Milano:
Raffaello Cortina Editore, 2020. Il verde e il blu. Milano: Raffaello Cortina
Editore, 2020. Note ^ OII: Luciano Floridi, www.oii.ox.ac.uk. URL consultato il
9 maggio 2016. ^ digitalethicslab.oii.ox.ac.uk,
http://digitalethicslab.oii.ox.ac.uk/luciano-floridi/. URL consultato il 2
dicembre 2017. ^ Pagina personale di Floridi ^ IEG Home Page ^
https://web.archive.org/web/20080907203824/http://www.philosophyofinformation.net/pdf/auto.pdf
^ https://www.thenewatlantis.com/publications/why-information-matters Voci
correlate Onlife Collegamenti esterni Opere di Luciano Floridi, su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Luciano Floridi, su
Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Pagina ufficiale nel sito
dell'Oxford Institute, su oii.ox.ac.uk. Home page e articoli online, su
philosophyofinformation.net. Intervista e lezione durante l'IoE talks (Internet
of Everything - Roma 2015) La lecture su "Intelligenza artificiale,
dobbiamo preoccuparci?" presso il Centro Nexa del Politecnico di Torino -
2015 Biografia e intervista su Rai MediaMente, su mediamente.rai.it. URL
consultato il 1º maggio 2006 (archiviato dall'url originale il 26 giugno 2007).
Biografia e intervista per l'American Philosophical Association (archiviato)
Biografia, da Cervelli in Fuga, Roma, Accenti, 2001 (archiviato) Where are we
in the philosophy of information? The Bergen podcast (archiviato) Controllo di
autorità VIAF (EN)
64109500 · ISNI (EN) 0000 0001 1446 1957 · Europeana agent/base/146003 · LCCN
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cb12498356c (data) · WorldCat Identities (EN) lccn-n98095077 Biografie Portale
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secoloFilosofi britanniciNati nel 1964Nati il 16 novembreNati a RomaStudenti
della Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università di Oxford[altre]
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