Gioia -- Melchiorre Gioia Da
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Melchiorre Gioja Melchiorre Gioja o Gioia (Piacenza, 19 gennaio o 20
settembre[1] 1767 – Milano, 2 gennaio 1829) è stato un economista, politico e
intellettuale italiano. Indice 1 Biografia
1.1 Studi
1.2 Attività:
giornalista, storiografo ed economista 1.3 Gli
studi di Statistica applicata all'Economia 1.4 Il
"Nuovo Galateo" 1.5 Massoneria
1.6 Gli
ultimi anni dopo il crollo della Repubblica Cisalpina 2 Le critiche di Antonio Rosmini 3 Opere 4 Note
5 Bibliografia
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Jeremy Bentham: filosofo e giurista inglese Studi Dopo
gli studi nel Collegio Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un
orientamento di pensiero tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per
l'influenza dell'utilitarismo di Jeremy Bentham, dell'empirismo di John Locke e
del sensismo di Étienne Bonnot de Condillac, quanto in teologia per
l'influenza del pensiero di Giansenio. Il suo interesse si rivolge ben
presto anche alle questioni politiche: nel settembre 1796 vince il concorso
bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema "Quale dei
governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia", alla quale
partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in cui sostiene la tesi di
un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche e basata su
comuni elementi geografici, linguistici, storici e culturali, prefigura, come
la maggioranza di quelle presentate, l'unità italiana, benché questa tesi non
sia gradita ai francesi che in quel periodo occupano il nord Italia[2].
Ugo Foscolo in un ritratto di Fabre La notizia del premio ricevuto gli
giunge però in carcere: nel frattempo Gioja è stato arrestato con l'accusa di
aver celebrato a scopo di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in
realtà le sue idee politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità[3]. Gioja
viene scarcerato nello stesso anno 1797 grazie, forse, alle pressioni di
Napoleone Bonaparte[3], e ripara a Milano. Il Trattato di Campoformio, con la
cessione di Venezia all'Austria da parte della Francia in cambio del
riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però ben presto
a diventare oppositore della Francia stessa[4]. Attività: giornalista,
storiografo ed economista Dopo aver rinunciato al sacerdozio, si impegna nella
professione giornalistica fondando diverse testate[3], ("Il Monitore
Italiano"[collegamento interrotto] con Ugo Foscolo, "Il Censore",
"La Gazzetta nazionale della Cisalpina", "Il Giornale filosofico
politico"), stroncate una dopo l'altra dalla rigida censura austriaca per
le posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja stesso ed i suoi
collaboratori vi sostengono. È dalle colonne del "Giornale Filosofico
Politico" che nel 1799 scrive una lettera aperta al duca Ferdinando
d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere nel 1796; nello
stesso anno però Napoleone Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache
nella Battaglia di Novi Ligure e Melchiorre Gioja viene arrestato nuovamente
dagli austriaci, per essere scarcerato quattordici mesi dopo, in seguito alla
vittoria francese nella Battaglia di Marengo[3]. Carlo Felice
Biscarra, Museo Civico di Saluzzo: Arresto di Maroncelli e Pellico Nel 1801
Gioja viene nominato storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo
pubblica il trattato "Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del
vitto" , ispirato dai tumulti per il rincaro del pane, e "Il Nuovo
Galateo"[3]. Nel 1803 viene rimosso dalla carica per le polemiche seguite
alla pubblicazione e alla difesa del suo trattato "Teoria civile e penale
del divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera d'organizzarla"
Gli studi di Statistica applicata all'Economia L'apprezzamento per i suoi
solidi e realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono
prevalentemente rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la
nomina nel 1807 alla direzione del nascente Ufficio di Statistica[3]: in questa
veste inizia una febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri
sinottici, raffronti demografici, causa di nuove ed accese polemiche e della
rimozione dall'incarico. Tale attività rese Gioja uno dei primi studiosi ad
applicare i concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici
(ad esempio per le tasse, gabelle, e così via). Precursore di
concetti giuridici e medico-legali Grazie alle sue conoscenze statistiche
ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno
il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del
danno alla persona con una concezione che supera la questione
patrimoniale. Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio,
che anticipa il concetto di riduzione della capacità lavorativa
specifica: "...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un
quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a
fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e
un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i
giorni festivi.." . E ancora, seppur meno noti, concetti come:
- "Ne' casi d'indebolimento o distruzione di forze industri, considerando
il soddisfacimento come uguale al lucro giornaliero diminuito o distrutto,
moltiplicato per la rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo molto al di
sotto del valore reale, giacché una forza umana può essere riguardata come
Mezzo di sussistenza - Mezzo di godimento - Mezzo di bellezza - Mezzo di difesa
Filosofia della Statistica (libro originale) - “Rendendo paralitico, per
es., l'altrui braccio destro o la mano, voi togliete al musico il mezzo con cui
si procura il vitto divertendo gli altri, al proprietario il mezzo con cui si
sottrae alla noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo con cui
gestisce e porge con grazia, a chiunque il mezzo con cui si schernisce da
mali eventuali difendendosi". Si tratta di principi rivoluzionari
per l’epoca, forse frutto di quel particolare mix di cultura che derivava dalla
sua formazione che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è
il primo che riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che
produce reddito, ma anche un soggetto che attraverso il lavoro realizza la
propria personalità. In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni
’80 del novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del
risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti
relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico.
Sul filone di queste tematiche nel 1994 gli veniva intestata a Pisa
un'ssociazione scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici
legali e assicuratori. Il "Nuovo Galateo" Testo fondamentale
nella storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di Gioja fu scritto per
contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo
conosce ben tre edizioni. La prima del 1802 si sofferma in particolar modo
sulla definizione laica di "pulitezza" intesa come ramo della
civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i sentimenti, i
discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro stessi. È
divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato", "Pulitezza
dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di mondo".
Nella seconda edizione del 1820, Gioja ridimensiona il concetto di
"pulitezza" come l'arte di modellare la persona, le azioni, i
sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La
vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza Generale",
"Pulitezza Particolare", "Pulitezza Speciale". La
terza edizione risale al 1822 dove Gioja, a differenza dell'edizioni
precedenti, enfatizza l'importanza del concetto di "ragione sociale",
considerato dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato
felicità e pace sociale mediante le buone maniere. Massoneria Gioja fu
membro della Loggia massonica "Reale Amalia Agusta" di Brescia, che
prese il nome dalla moglie del principe Eugenio di Beauharnais, primo Gran
Maestro del Grande Oriente d'Italia, loggia che fu attiva fino al 1814[5]. A
lui è intestata la loggia N. 1114 di Piacenza all’obbedienza del Grande Oriente
d’Italia. Gli ultimi anni dopo il crollo della Repubblica Cisalpina
Del merito e delle ricompense Crollato il dominio napoleonico nel 1814, negli
anni della Restaurazione Gioja produce le sue opere maggiori: il "Nuovo
prospetto delle scienze economiche" (1815 - 1819), il trattato "Del
Merito e delle Ricompense" (1818 - 1819), "Sulle manifatture
nazionali" (1819), "L'ideologia" (1822): gli ultimi tre libri
vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è interrotto da un nuovo
arresto, dal 19 dicembre 1820 al 10 luglio 1821[3], con Pietro Maroncelli e
Silvio Pellico, per aver cospirato contro l'Austria partecipando alla setta
carbonara dei "Federati". Dopo quest'ultima peripezia,
nonostante i sospetti da parte del governo austriaco, Gioja ha finalmente
davanti a sé qualche anno di serenità e compone la sua ultima opera, "La
filosofia della statistica" (1826). Muore a Milano nel 1829, trovando
sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina (per un periodo di
tempo, si pensò erroneamente che il suo corpo fosse stato sepolto presso il
vecchio Fopponino di Porta Vercellina): nel 1855 lo scrittore Ignazio Cantù,
nel suo Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie;
passeggiate storiche ne poteva ancora vedere la lapide tombale redatta in
latino e scriveva:[6] «Nel cimitero vicino (il cimitero della Mojazza)
fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre
Gioia, di Gianbattista De-Cristoforis, di Luigi Sabatelli, di Giacomo
Albertolli, e d'altri uomini insigni (...)» Prende il suo nome il Liceo
Classico di Piacenza. Antonio Rosmini in un dipinto di Hayez Le
critiche di Antonio Rosmini L'abate Antonio Rosmini, suo avversario in politica
come in religione, lo accusò di pretendere di proporre un nuovo codice morale,
fondato su principi palesemente opportunistici, mentre con disinvoltura
richiedeva sussidi e regali dai titolari del potere politico per elogiarne le
benemerenze nelle proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiarò pubblicamente
un "ciarlatano".[7] Opere Melchiorre Gioia, Del merito e delle
ricompense, vol. 2, Filadelfia, s.n., 1830. Riflessioni sulla rivoluzione.
Scritti politici 1798 Nuovo Galateo 1802 Il Nuovo prospetto delle scienze
economiche 1815-1819 Melchiorre Gioia, Distribuzione delle ricchezze, Milano,
presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, 1815. Melchiorre Gioia, Produzione
delle ricchezze, vol. 2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, 1815.
Melchiorre Gioia, Consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, 1816. Melchiorre Gioia, Azione governativa sulla produzione, distribuzione,
consumo delle ricchezze, vol. 2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, 1817. Sulle manifatture nazionali - 1819 Dell'ingiuria, dei danni,
del soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili 1821
l’Ideologia 1822 Filosofia della statistica (1826) Note ^ Francesca Sofia nel
Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in Bibliografia, indica la
data del "19 gennaio" 1767. Ettore Rota nella Enciclopedia Italiana,
edizione 1933, riporta "20 settembre" dello stesso anno. ^ Cfr.
Arrigo Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di Napoleone in Rassegna
storica del Risorgimento, gennaio-marzo 1933. Fonte: Francesca Sofia,
Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in Bibliografia. ^ Fonte:
Treccani.it L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in Collegamenti esterni. ^
Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori,Mimesis-Erasmo, Milano-Roma,
2005, p. 146. ^ Ignazio Cantù, Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno:
Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche, 1855, p. 39. URL consultato il 24
giugno 2014. ^ Antonio Saltini, Maria Teresa Salomoni, Stefano Rossi, Via
Emilia. Percorsi inusuali fra i comuni dell'antica strada consolare , Il Sole
24 ore - Edagricole, Bologna 2003, pag. 224 Bibliografia Piero Barucci, Il pensiero
economico di Melchiorre Gioia, Milano, Giuffre, 1965 (Biblioteca della rivista
Economia e storia; 15). Manlio Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il
progetto politico-costituzionale di Melchiorre Gioia, Milano, Ares, 1999
(Faretra; 25). Francesca Sofia, «GIOIA (Gioja), Melchiorre», in Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 55, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2001. Nicola Pionetti, Melchiorre Gioia: il progetto politico del
1796 per un'Italia unita e repubblicana, Piacenza, EdizioniLir, 2015. Luisa
Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese nell'Italia dell'Ottocento,
Firenze, Le Lettere, 2004. Voci correlate Gioia (metropolitana di Milano) Altri
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Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Melchiorre
Gioia, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata (DE) Melchiorre Gioia (XML), in Dizionario
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Categorie: Economisti italianiPolitici italiani del XIX secoloNati nel
1767Morti nel 1829Morti il 2 gennaioNati a PiacenzaMorti a MilanoMassoni[altre]
Giorello -- Giulio Giorello Da
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(Milano, 14 maggio 1945 – Milano, 15 giugno 2020) è stato un filosofo,
matematico, accademico ed epistemologo italiano. Indice 1 Biografia 2 Pensiero 3 Opere
4 Note
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esterni Biografia Giulio Giorello conseguì due lauree: la prima in Filosofia
presso l'Università degli Studi di Milano nel 1968 (sotto la guida di Ludovico
Geymonat), la seconda in Matematica all'Università degli Studi di Pavia nel
1971. Insegnò quindi Meccanica razionale presso la Facoltà di Ingegneria
dell'Università degli Studi di Pavia, per poi passare alla Facoltà di Scienze
fisiche e matematiche dell'Università degli Studi di Catania, di Scienze
fisiche presso l'Università degli Studi dell'Insubria, sede di Como, e al
Politecnico di Milano. Ricoprì dal 1978 al 2015 la cattedra (già di
Ludovico Geymonat) di Filosofia della scienza presso l'Università degli Studi
di Milano; fu inoltre Presidente della SILFS (Società Italiana di Logica e
Filosofia della Scienza) dal 2004 al 2008.[1] Diresse la collana Scienza
e idee di Raffaello Cortina Editore e collaborò, come elzevirista, alle pagine
culturali del quotidiano milanese Corriere della Sera. Vinse la IV edizione del
Premio Nazionale Frascati Filosofia 2012. Fu attivo in rassegne culturali
insieme allo scrittore Luca Gallesi. È morto a Milano il 15 giugno 2020,
presumibilmente per complicanze dovute al COVID-19.[2][3] Tre giorni prima del
decesso aveva sposato la compagna Roberta Pelachin.[4] Il corpo è stato cremato
al cimitero di Lambrate, ove le ceneri sono state poi portate nel Giardino del
Ricordo[5], un luogo dove vengono sparse per essere assorbite dalla
natura[6]. Pensiero Giorello divise i suoi interessi tra lo studio di
critica e crescita della conoscenza con particolare riferimento alle discipline
fisico-matematiche e l'analisi dei vari modelli di convivenza politica; dalle
sue prime ricerche in filosofia e storia della matematica, i suoi interessi si
erano poi ampliati verso le tematiche del cambiamento scientifico e delle
relazioni tra scienza, etica e politica. La sua visione politica era di stampo
liberal democratico e si ispirava, tra gli altri, al filosofo inglese John
Stuart Mill. Si occupò anche di storia della scienza - in particolare le
dispute novecentesche sul "metodo" - e di storia delle matematiche
(Lo spettro e il libertino). Nel 1981 curò con Marco Mondadori l'edizione
italiana di Sulla libertà di John Stuart Mill. Giulio Giorello era ateo e
scrisse al riguardo il libro Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.[7]
Opere Giulio Giorello fra il prof. Peter Atkins (il primo da sinistra) e
Giuseppe Testa, direttore del Laboratorio di Epigenetica delle cellule
staminali, alla conferenza mondiale Science for Peace - Aula Magna Università
Bocconi di Milano - 16 novembre 2013 Saggi di storia della matematica, Milano,
FER, 1974. Il pensiero matematico e l'infinito, Milano, UNICOPLI, 1982. ISBN
88-7061-160-4. Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero
pensiero, Milano, A. Mondadori, 1985. Le ragioni della scienza, con Ludovico Geymonat,
con la partecipazione e un'appendice di Fabio Minazzi, Roma-Bari, Laterza,
1986. ISBN 88-420-2767-7. Filosofia della scienza, Milano, Jaca Book, 1992.
ISBN 88-16-43034-6. testo di Isabella Colonnello, Le stanze della ricerca,
Milano, Mazzotta, 1992. ISBN 88-202-1057-6. Europa universitas. Tre saggi
sull'impresa scientifica europea, con Tullio Regge e Salvatore Veca, Milano,
Feltrinelli, 1993. ISBN 88-07-09038-4. Introduzione alla filosofia della
scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, 1994. ISBN 88-452-2128-8.
Quale Dio per la sinistra? Note su democrazia e violenza, con Pietro Adamo,
Milano, UNICOPLI, 1994. ISBN 88-400-0342-8. La filosofia della scienza nel XX
secolo, con Donald Gillies, Roma-Bari, Laterza, 1995. ISBN 88-420-4492-X Lo
specchio del reame. Riflessioni su potere e comunicazione, con Roberto
Esposito, Carlo Sini e Danilo Zolo, Ravenna, Longo, 1997. ISBN 88-8063-113-6.
Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, a cura di e con Michele Di
Francesco, Milano, CUEM, 1999. ISBN 88-6001-645-2. I volti del tempo, a cura di
e con Elio Sindoni, Corrado Sinigaglia, Milano, Bompiani, 2001. ISBN
88-452-4973-5. Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina,
2004. ISBN 88-7078-878-4. Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Milano,
Cortina, 2005. ISBN 88-7078-975-6. Dove fede e ragione si incontrano?, con
Bruno Forte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006. ISBN 88-215-5720-0 La libertà
della vita, con Umberto Veronesi, Milano, Cortina, 2006. ISBN 88-6030-071-1. Il
decalogo. I dieci comandamenti commentati dai filosofi, II, Non nominare il
nome di Dio invano, con Gabriele Mandel, con CD, Milano, Albo Versorio, 2007.
ISBN 978-88-89130-26-1. Giulio Giorello relatore al convegno
internazionale "Science for Peace", Milano 14 novembre 2014 La
scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, con Pier Luigi Gaspa,
Milano, Cortina, 2007. ISBN 978-88-6030-125-3. Kos. Rivista di medicina,
cultura e scienze umane, Vol. 4: Dio, Patria e Famiglia (con Massimo Cacciari e
Carlo Maria Martini), Milano, Editrice San Raffaele, 2000 Libertà. Un manifesto
per credenti e non credenti, con Dario Antiseri, Milano, Bompiani, 2008. ISBN
978-88-452-6176-3. Il peso politico della Chiesa, con Francesco D'Agostino,
Cinisello Balsamo, San Paolo, 2008. ISBN 978-88-215-6200-6. Viaggio intorno
all'Evoluzione (con E. Sciarra, F. Eugeni, C. Venturelli), a cura di R.
Mascella, Zikkurat Edizioni&Lab, 2008. Harsanyi visto da Giulio Giorello e
Simona Morini (con Simona Morini), Milano, Luiss University press, 2008. Lo
scimmione intelligente. Dio, natura e libertà (con Edoardo Boncinelli), Milano,
Rizzoli, 2009. Ricerca e carità. Due voci a confronto su scienza e solidarietà,
con Carlo Maria Martini, Milano, Editrice San Raffaele, 2010. ISBN
978-88-96603-20-8. Introduzione a Apostolos Doxiadis e Christos H.
Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda, 2010. ISBN 978-88-6088-168-7.
Lussuria. La passione della conoscenza, Bologna, Il Mulino, 2010. Senza Dio.
Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi, 2010. Il tradimento. In politica,
in amore e non solo, Milano, Longanesi, 2012. ISBN 978-88-304-3164-5. Premio
Nazionale Rhegium Julii Saggistica.[8] La filosofia di Topolino, con Ilaria
Cozzaglio, Parma, Guanda, 2013. ISBN 978-88-235-0244-4. Noi che abbiamo l'animo
libero. Quando Amleto incontra Cleopatra, con Edoardo Boncinelli, Milano,
Longanesi, 2014. ISBN 978-88-304-3832-3. Note ^ SILFS Past Presidents, su
silfs.it. URL consultato il 20 giugno 2020. ^
https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/approfondimenti/2020/06/15/e-morto-il-filosofo-giulio-giorello_ca38aabe-c76a-47df-97b6-15494a58d870.html
^
https://www.corriere.it/cultura/20_giugno_16/morto-giorello-non-si-era-mai-arreso-ricovero-ritorno-ultimi-doni-20e01862-afac-11ea-a957-8b82646448cc.shtml
^ È morto il filosofo Giulio Giorello, in la Repubblica, 15 giugno 2020. ^
Comune di Milano, App di ricerca defunti Not 2 4get. ^ Un giardino per il
ricordo al cimitero di Lambrate - VareseNews, in VareseNews, 11 ottobre 2004.
URL consultato il 19 marzo 2017. ^ Longanesi (collana Le spade), 2010 ^ premio
Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com. URL consultato il 3
novembre 2018. Voci correlate Scuola di Milano Altri progetti Collabora a
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Giorgi -- Pierpaolo De Giorgi
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un musicista, filosofo, poeta, ricercatore, estetologo ed etnomusicologo
italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
2.1 Volumi
(poesia) 2.2 Volumi
(ricerca) 2.3 Articoli
e saggi 2.4 Interventi
poetici 3 Discografia
3.1 Album
4 Collegamenti
esterni Biografia Si laurea a Perugia in Filosofia Estetica con Sergio Givone,
studia con l'etnologo Tullio Seppilli e con l'etnomusicologo Piero Arcangeli,
dapprima cantautore solista, suona negli anni Settanta con il Gruppo popolare
salentino e con i Tarantula, del quale è fondatore. Lavora presso la RAI di Perugia e studia a
lungo in senso specialistico il tarantismo e la pizzica.Già negli anni Ottanta
è il primo[senza fonte] a intuire le possibilità della pizzica ed a cantarla
anche come solista. Dal 1984 in poi insegna canti e musiche tradizionali del
Salento in varie scuole statali. Tiene concerti ovunque, anche assieme a gruppi
come la Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Nel 1990 assieme al maestro depositario Amedeo de Rosa dà vita al gruppo
Pierpaolo De Giorgi e i Tamburellisti di Torrepaduli, provocando in pochi anni
una vera e propria rinascita della pizzica. Nel 1991 rivaluta la pizzica come
vero e proprio genere musicale, utilizzando i materiali tradizionali e
scrivendo assieme al cantautore Gino Ingrosso l'album Fantastica pizzica. Studia etnomusicologia della “Grecìa
salentina”, rivalutando i brani in "grico". Nel 1992 riceve la
cittadinanza onoraria di Nemea in Grecia per meriti poetici e musicali. Assieme
ai Tamburellisti di Torrepaduli e come solista tiene concerti in tutto il mondo
e suona in teatri famosissimi come quello di Erode Attico ad Atene presso il
Partenone. Molti dei numerosi artisti e
gruppi che si formano successivamente seguono la strada di De Giorgi. Nel 2000
scrive l'album Pizzica e rinascita, il più venduto dei Tamburellisti, che esce
con “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È curatore e traduttore del noto volume La
danza delle spade e la tarantella di M. Schneider. È direttore del Centro Regionale Servizi
Educativi e Culturali LE/38. Collabora con la Cattedra di Estetica di Paolo
Pellegrino dell'Università degli Studi di Lecce. Tiene ovunque conferenze e
lezioni di etnomusicologia e di estetica.
Opere Volumi (poesia) Pierpaolo De Giorgi - Luigi Marzo, Le strade che portano
al Subasio passando dal Salento, prefazione di Donato Valli e Ilderosa Laudisa,
Ed. Del Grifo, Lecce 1991. Volumi (ricerca) Pierpaolo De Giorgi, Tarantismo e
rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica e della
tarantella, Lecce, Argo, 1999. Marius Schneider, La danza delle spade e la
tarantella: saggio musicologico, etnografico e archeologico sui riti di
medicina, traduzione e cura di Pierpaolo De Giorgi, Argo, Lecce 1999. Pierpaolo
De Giorgi, Pizzica-Pizzica, la musica della rinascita. La tarantella del
tarantismo e la sua resurrezione: struttura musicale, stato dell'arte e
neotarantismo, Lecce, Pensa MultiMedia, 2002. Pierpaolo De Giorgi, L'estetica
della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo Editore, Galatina, 2004.
Pierpaolo De Giorgi, Pizzica e tarantismo: la carne del mito
dall'etnomusicologia all'estetica musicale, Galatina, Edit Santoro, 2005.
Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo come mito: dagli errori di De Martino alla
rivalutazione del pensiero mitico, Galatina, Congedo, 2007. Pierpaolo De
Giorgi, Il mito del tarantismo: dalla terra del rimorso alla terra della
rinascita, Galatina, Congedo 2007. Pierpaolo De Giorgi, I poeti del vino,
Galatina, Congedo, 2009. Pierpaolo De Giorgi, La pizzica, la taranta e il vino:
il pensiero armonico, Galatina, Congedo, 2010. Pierpaolo De Giorgi, La
rinascita della pizzica, Galatina, Congedo, 2012. Articoli e saggi Pierpaolo De
Giorgi et.al., Husserl e la Krisis, 3ª in “Segni e comprensione”, Milano, 1985,
gennaio-giugno 1987. Pierpaolo De Giorgi, Il francescanesimo tra idealità e
storicità, 3ª in “Segni e comprensione”, Porzincula (S.Maria degli Angeli),
1985, gennaio-aprile 1989. Pierpaolo De Giorgi, Il canto popolare salentino, in
Aa. Vv., Il canto popolare salentino, Atti del I Convegno Nazionale di Studi
Demologici Salentini, Copertino 15-16 novembre 1990, a cura di F. Noviello e D.
Severino, Capone, Cavallino 1992. Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo secondo
Schneider: nuove prospettive di ricerca, in Aa. Vv., Quarant'anni dopo De Martino:
il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina 24-25 ottobre 1998, vol. I, Nardò
2000. Pierpaolo De Giorgi, La iatromusica carne del mito: la pizzica pizzica
tra etnomusicologia ed estetica musicale, in Aa. Vv., Mito e tarantismo, a cura
di P. Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce 2001. Pierpaolo De Giorgi, La pizzica
pizzica immensa risorsa culturale del Sud, in Aa. Vv., Terra salentina: i Sud e
le loro arti, materiali del Convegno di Arnesano del 6-8 settembre 2001, La
Stamperia, Leverano 2001. Pierpaolo De Giorgi, Il ritorno di Dioniso: a
proposito di un libro di P. Pellegrino, in “Segni e comprensione”, a. XIX, n.
55, maggio-agosto 2005. Pierpaolo De Giorgi, Fra aborigeni e tarantismo, in Aa.
Vv., Settimana di promozione culturale pugliese a Sydney, a cura di C.
Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce 2002. Pierpaolo De Giorgi, a cura di, Le
tradizioni popolari nei disegni di Nino Severino, greco, Copertino 2004.
Interventi poetici Pierpaolo De Giorgi, Diario di bordo, in Aa. Vv., La czarda
e il vento: antologia di autori contemporanei ungheresi e salentini, a cura di
G. Conte, Congedo 1994. Pierpaolo De Giorgi, Poesia sintetica, in Aa. Vv., Il
cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori contemporanei salentini
e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni di F. Baranyi e A.
Menenti, Veszprém 1996. Pierpaolo De Giorgi, I fogli, numero uno, in
“L'Immaginazione”. Pierpaolo De Giorgi, Chiedendo e schiodando, La vita amico è
l'arte dell'incontro e Maestà delle volte, in Omaggio al Salento, Torgraf,
Galatina 1990. Pierpaolo De Giorgi, In marcia di pace verso Assisi e Trilogia
del molto e ben comunicare, in Aa.Vv., Omaggio a Maglie cuore del Salento,
Torgraf, Galatina 1991. Pierpaolo De Giorgi, Fantastica pizzica, in Aa. Vv.,
Salentopoesia 91, settimo festival nazionale di poesia con musica e danza,
Gallipoli 10-11 agosto 1991, Conte, Lecce 1991. Pierpaolo De Giorgi, Gheriglio
in disegno e preghiera, in Aa. Vv., Salentopoesia 92, ottavo festival nazionale
di poesia con musica e danza, Lecce, 5-6 dicembre 1992, Conte, Lecce 1992.
Pierpaolo De Giorgi, Isola nel Trasimeno, in Aa. Vv., Salentopoesia 95, nono
festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni, 28-29 ottobre 1995,
Conte, Lecce 1995. Pierpaolo De Giorgi, S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli
da Leggere, in Luigi Marzo: mostra di pittura, Spello 5-13 febbraio 1994,
catalogo, Spello 1994. Pierpaolo De Giorgi, Lascio un cielo di luce cinica, in
Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di pittura, Città della
Pieve, 18 luglio-9 agosto 1998, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998.
Discografia Album 1991 - Fantastica Pizzica (MC - Discoexpress) 1995 - Pizzica
e Trance (MC - Discoexpress) 2000 - Pizzica e Rinascita (CD - Sorriso) 2003 -
Il tempo della taranta: pizzica d'autore (CD - Drim) 2005 - Pizzica grica: to
paleo cerò (CD - Planet Music Studio) 2006 - Pizzica e Rinascita - Ristampa (CD
- C&M) 2009 - Taranta Taranta (CD - Irma records) Collegamenti esterni Sito
ufficiale, su pierpaolodegiorgi.it. URL consultato il 17 ottobre 2019
(archiviato dall'url originale il 22 gennaio 2019). Biografie Portale Biografie
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italiani del XX secoloMusicisti italiani del XXI secoloFilosofi italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XXI secoloPoeti italiani del XX secoloPoeti
italiani del XXI secoloNati nel 1951Nati a CavallinoGruppi e musicisti della
PugliaSaggisti italiani del XXI secolo[altre]
Giorgi -- Raffaele De Giorgi
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Raffaele
De Giorgi (Vernole, 1º settembre 1947) è un accademico, sociologo e filosofo
italiano Insegna filosofia del diritto presso la facoltà di Giurisprudenza
dell'Università del Salento. Indice 1 Studi e carriera accademica 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Altri
progetti Studi e carriera accademica Nel 1966 consegue la maturità classica.
Nel 1971 si laurea in filosofia con lode, presso l'Università degli Studi di
Roma, discutendo la tesi Prospettive della logica giuridica: la logica
deontica. Dopo aver condotto studi e ricerche in molte università europee e
aver insegnato presso il Max-Planck-Institut für europäische Rechtsgeschichte
(Società Max Planck), la collaborazione più fruttuosa la ha con Niklas Luhmann,
con il quale fonda nel 1990, il Centro Studi sul Rischio[1], presso
l'Università degli Studi di Lecce, del quale è tutt'oggi direttore. Conduce
molti studi e seminari in America meridionale, ottiene una Càtedra de Exelcia
presso l'Universidad Nacionàl Autònoma de México. È stato preside di facoltà
fino al 2012, anno in cui è stato nominato direttore del Dipartimento di Studi
giuridici dell'Università del Salento. È
uno dei maggiori studiosi italiani della Teoria dei sistemi sociali. Opere Tra i suoi lavori: Wahrheit und Legitimation im Recht, 1981
Materiali per una teoria sociologica del diritto, 1981 Manuale di diritto del
lavoro e legislazione sociale, con Realino Marra, 1983 Azione e imputazione.
Semantica e critica di un principio nel diritto penale, 1984 Teoria della
società, con Niklas Luhmann, 1992 Direito, democracia e risco. Vinculos com o
futuro, 1988 Scienza del diritto e legittimazione. Critica dell'epistemologia
giuridica tedesca da Kelsen a Luhmann, 1998 Ridescrivere la questione
meridionale, con Giancarlo Corsi, con un saggio di Niklas Luhmann, 1998 Mondi
della società del mondo, con Stefano Magnolo, 2005 Direito, tempo e memoria,
2006 Temi di filosofia del diritto, 2006 Futuri passati. Il mondo visto da
Campone, a cura di Adriana Prizreni, 2010 Note ^ Sito Centro Studi sul rischio
di Lecce Bibliografia Curriculum del prof. Raffaele De Giorgi Facoltà di
Giurisprudenza dell'Università del Salento Altri progetti Collabora a Wikiquote
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Università Categorie: Accademici italiani del XX secoloAccademici italiani del
XXI secoloSociologi italianiFilosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani
del XXI secoloNati nel 1947Nati il 1º settembreNati a VernoleProfessori
dell'Università del Salento[altre]
Giovanni -- Biagio De Giovanni
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riferimento. Biagio De Giovanni Europarlamentare Legislature III, IV
Gruppo parlamentare Gruppo
per la Sinistra Unitaria Europea; Gruppo socialista; Gruppo del Partito del
socialismo europeo Incarichi parlamentari Presidente della Commissione per gli
affari istituzionali Sito istituzionale Dati generali Partito politico Partito Comunista
Italiano; Partito Democratico della Sinistra; Democratici di Sinistra
Università Università
degli Studi di Napoli Federico II Biagio De Giovanni (Napoli, 21 dicembre 1931)
è un filosofo e politico italiano, parlamentare europeo, già esponente del PCI,
del PDS e dei DS. Ha aderito successivamente alla Rosa nel Pugno. Indice 1 Biografia
2 Opere
principali 3 Bibliografia
4 Note
5 Collegamenti
esterni Biografia Da giovanissimo simpatizzò per la monarchia e l'11 giugno
1946 fu tra coloro che presero parte agli scontri che causarono la strage di
via Medina; in seguito avrebbe spiegato la sua partecipazione con queste
parole: «Già leggevo Hegel - ero monarchico perché credevo all'unita dello
Stato. (...) Scappai quando la situazione s'incanaglì»[1]. Laureatosi in filosofia del diritto, alla
facoltà di giurisprudenza all'Università Federico II di Napoli, con una tesi su
Giambattista Vico, è stato docente nello stesso ateneo e successivamente ha
insegnato presso l'Università di Bari. È
stato poi docente di Dottrine politiche presso l'Università degli Studi di
Napoli "L'Orientale" e titolare della cattedra Jean Monnet di Storia
e politica dell'integrazione europea presso lo stesso ateneo. Dal 1981 al 1986
è stato il direttore della rivista "il Centauro. Rivista di filosofia e
teoria politica", che annoverava, tra gli altri, collaboratori come Angelo
Bolaffi, Massimo Cacciari, Umberto Curi, Roberto Esposito e Giacomo
Marramao. Dal 1987 al 1989 è stato
rettore dell'Orientale. È stato eletto
deputato europeo alle elezioni del 1989, e riconfermato nel 1994, per le liste
del PCI e del PDS. È stato presidente della Commissione per gli affari
istituzionali, membro della Commissione per la gioventù, la cultura,
l'istruzione, i mezzi di comunicazione e lo sport, della Delegazione per le
relazioni con l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, della
Commissione giuridica e per i diritti dei cittadini, della Delegazione per le
relazioni con la Repubblica popolare cinese, della Delegazione per le relazioni
con i paesi del Mashrek e gli Stati del Golfo.
Attualmente è ancora un intellettuale attivo e interessato alla politica
italiana e campana, relatore in diversi seminari e incontri, su temi non solo
filosofici; tuttora è continua e proficua la sua produzione pubblicistica. Opere principali L'esperienza come
oggettivazione: alle origini del problema moderno della scienza, 1962. La
teoria politica delle classi nel Capitale, 1976. Hegel e il tempo storico della
società borghese, 1976. Marx e la costituzione della praxis, 1984. Marx dopo
Marx, con Gianfranco Pasquino, 1985. La nottola di Minerva: PCI e nuovo
riformismo, 1989. Dopo il comunismo, 1990. L'ambigua potenza dell'Europa, 2002.
Da un secolo all'altro: politica e istituzioni a partire dal 1968, con Ciriaco
De Mita e Roberto Racinaro, 2004. La filosofia e l'Europa moderna, 2004. Sul
partito democratico. Opinioni a confronto, con Massimo Cacciari e Giuseppe
Galasso, 2007. A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?, 2009. Elogio della
sovranità politica, Editoriale scientifica, 2015. Bibliografia Le Forme e la
storia. Scritti in onore di Biagio De Giovanni, a cura di M. Montanari, F.
Papa, G. Vacca, Napoli, Bibliopolis, 2011 (in appendice Bibliografia di Biagio
de Giovanni, a cura di Luca Basile) Note ^ Antonio Carioti I dimostranti
monarchici abbattuti dalla mitraglia Archiviato il 7 marzo 2012 in Internet
Archive. Collegamenti esterni (EN) Opere di Biagio De Giovanni, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Biagio De Giovanni, su
Goodreads. Modifica su Wikidata Biagio De Giovanni, su europarl.europa.eu,
Parlamento europeo. Modifica su Wikidata Registrazioni di Biagio De Giovanni,
su RadioRadicale.it, Radio Radicale. Modifica su Wikidata Profilo biografico su
Rai Educational Biagio De Giovanni, o la parabola di un intellettuale nel sito
"europeanjournal.it" Controllo di autorità VIAF (EN) 54160173 · ISNI (EN) 0000 0001 2101 4223 ·
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Biografie Filosofia Portale Filosofia Politica Portale Politica Categorie:
Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloPolitici
italiani del XX secoloPolitici italiani del XXI secoloNati nel 1931Nati il 21
dicembreNati a NapoliPolitici del Partito Comunista ItalianoPolitici del
Partito Democratico della SinistraPolitici dei Democratici di SinistraPolitici
della Rosa nel PugnoProfessori dell'Università degli Studi di Napoli
"L'Orientale"Europarlamentari dell'Italia della III legislaturaEuroparlamentari
dell'Italia della IV legislatura[altre]
Giraldi -- Giovanni Giraldi Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il letterato e poeta italiano
del XVI secolo, vedi Giambattista Giraldi Cinzio. Giovanni Giraldi nel 2013 Giovanni (Battista)
Giraldi (Ventimiglia, 1º luglio 1915 – Milano, 23 settembre 2014) è stato un
filosofo, filologo, accademico e scrittore italiano. Indice 1 Biografia
2 Pensiero
2.1 Per
una filosofia della scelta e della decisione 3 Bàrel
4 Opere
4.1 Organon
Philosophicum 4.2 Ricerche
filosofiche 4.2.1 Riviste
4.3 Filologia
4.4 Poesia
e prosa d'arte 5 Note
6 Bibliografia
7 Voci
correlate 8 Altri
progetti Biografia Il padre di Giovanni Giraldi, originario di Dolceacqua e di
estrazione contadina, dopo il servizio militare riuscì la scalata del successo
al Casinò di Monte Carlo, affermandosi anche come uomo di grande saggezza e
religiosità. La madre invece era originaria di Ventimiglia, dove Giovanni
Giraldi stesso nacque e trascorse la sua infanzia, nono di undici figli.
Sebbene la famiglia fosse benestante, egli soffriva per la grande
conflittualità interna, continuamente vessato dalla sorella maggiore che non
esitava ad usare violenza nei suoi confronti, mentre la madre non faceva parola
con il padre di quanto assisteva. Giraldi racconta che in questo periodo
riusciva a trovare pace solo in chiesa.
Con una bugia astuta Giraldi riuscì a scappare di casa, entrando in un
collegio, dunque l'anno successivo si trasferì in un altro collegio di Roma,
ove tuttavia non riuscì a trovare la tranquillità sperata. Nel 1939 si sposò
con Armida Saliola, che gli darà due figli e resterà la compagna della sua vita
sino alla morte sopraggiunta nel 1996. Giraldi riuscì a compiere studi classici
a Roma, iscrivendosi poi all'Università. Egli non frequentava le lezioni delle
materie filosofiche o letterarie curricolari, ma studiava per conto proprio.
Tuttavia seguiva abbastanza regolarmente le lezioni di psicologia del professor
Mario Ponzo, anche se non era materia d'esame.
Conseguì la prima laurea nel 1941 e prestò servizio militare durante la
seconda guerra mondiale. Nel frattempo, dopo aver conseguito la prima laurea in
discipline letterarie, si iscrisse per una seconda, questa in discipline
filosofiche, che ottenne discutendo molto animatamente la tesi con Ugo Spirito,
il quale ironizzò sulle sue pretese di "fare una nuova filosofia".
Gli interessi letterari erano però prevalenti, a partire dalla sua prima opera
creativa, il Bàrel, composto all'età di 24 anni in versi e poi rivisto in
prosa, ma soprattutto ricerche letterarie, anche se le occasioni di
pubblicazione si limitarono a degli studi sul Carrara: una ricerca sul Bucolicm
Carmen uscì su Il giornale storico della letteratura italiana e una
bibliografia delle opere su Rinascimento, e uno studio sul Rinaldo del Tasso
pubblicato su Bergomum e sul Convivium diretto da Carlo Calcaterra. Più facilmente venivano pubblicati gli studi
filosofici di Giraldi che trovarono spazio su Il Saggiatore, rivista pedagogica
e filosofica diretta da Gallo Galli e da Angiolo Gambaro, sulla Rivista
Internazionale della filosofia del diritto di Giorgio Del Vecchio e molto sulla
rivista Filosofia dell'Unicità di Antonio Consentino, che aveva conosciuto
nell'ambiente della rivista milanese Humana. Nel 1959 conseguì finalmente la
Libera Docenza e insegnò per molti anni Storia Generale della Filosofia presso
l'Università Statale di Milano. Giovanni Giraldi ha fondato e diretto la casa
editrice Pergamena, dopo la morte della moglie ceduta al figlio Giancarlo.
Pergamena Editrice ha pubblicato due periodici specialistici, anch'essi fondati
e diretti da Giovanni Giraldi: L'Idea liberale (1959-1992) e Sistematica
(1968-2014). La sua attività culturale,
estesa a tutto lo scibile umano, è racchiusa in centinaia di opere e in
numerosissimi articoli. Si segnalano tra questi le sue collaborazioni anche per
Il Giornale d'Italia. Oltre a libri di filosofia, teologia, filologia e
pedagogia - quelli che hanno goduto di maggiore notorietà sono il monumentale
Dizionario di Estetica e Linguistica generale e la Storia della pedagogia,
testi utilizzati prevalentemente in ambito universitario - Giovanni Giraldi ha
scritto anche poesie, racconti e novelle confluite in alcune raccolte. È stato
inoltre ripetutamente acquisito come consulente dall'Accademia Svedese per
l'attribuzione del Premio Nobel per la letteratura; ha trascorso gli ultimi
anni della sua vita a Noli, ove era cittadino onorario[1]. È morto nel suo centesimo anno di vita il 23
settembre 2014[2] a Milano. Pensiero
Partendo dalla teoria gentiliana, che vede in tutto una "mediazione",
e da quella di Antonio Consentino, che sostiene al contrario la totale
"immediatezza", Giovanni Giraldi afferma che anche l'atto puro di
Gentile, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna
mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza consentiniana, o del
sentire puro. Egli pertanto prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le
posizioni in una sintesi hegeliana che possa superare sia il divenirismo
gentiliano, sia il coscienzialismo antidivenirista di Consentino. La soluzione
di Giraldi è che l'immediatezza sarebbe "sostanziata di mediazione, e
viceversa"[3]. L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza di
essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla.
Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di
sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi. In Etica del sentimento (1955), ancorando il
principio morale proprio alla sfera sentimentale, Giraldi si focalizza sul
sentimento di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione
stoica del sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In Gnoseologia
del Sentimento (1957) egli parte proprio dalla posizione del Consentino per
ripercorrere gli itinerari di una filosofia dell'essere indiveniente e per
affrontare gli aspetti dinamici e volontaristici dell'Io, cui Consentino,
dall'alto della sua posizione teoretica, non sembrava interessato. In Filosofia giuridica (1961) espone la
concezione di diritto naturale quale sentimento fondamentale giuridico[4],
condizione trascendentale di ogni diritto positivo, una posizione abbozzata in
un intervento durante il III Congresso di Filosofia del Diritto a Catania.
Pertanto il diritto naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad altri
codici, ma la precondizione che permette alle leggi positive di essere leggi e
non atti religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Nella rivista L'Idea
Liberale e in alcuni volumi, tra cui Storia del Liberalismo nel sec. XX (1990),
si è occupato anche della riflessione su temi politici. Notevoli inoltre i
saggi di pedagogia, cui ha dedicato anche una Storia della pedagogia che dagli
anni sessanta è tra le più adottate in sede universitaria. L'opera Storiografia come rettorica, del
1980, tende ad inquadrare l'unitarietà artistica e scientifica della
ricostruzione storica, coerentemente con la tesi ciceroniana della historia
opus oratorum maxime e con quella aristotelica dell'entimema, in altre parole
quel sillogismo retorico che si differenzia da quello della necessità. In
Epistemologia (1965) invoca una "demitizzazione" anche delle teorie
cosmologiche e scientifiche più accreditate (l'evoluzionismo, la teoria del Big
Bang, la meccanica quantistica), poiché a suo dire tenderebbero pure esse a
cadere in paralogismi e contraddizioni logiche, nonostante gli apprezzabili
sforzi a riferirsi a filosofie anche orientali da parte di alcuni notevoli
scienziati (Albert Einstein, Werner Karl Heisenberg, Erwin Schrödinger, Paul
Dirac). Ad esempio nota che anche i
migliori epistemologi che irridono il concetto di sostanza, di fatto, riferiscono
i dati sperimentali ad una sottintesa sostanza soggiacente. In numerose opere
dedicate alla religione, analizzata nelle molteplici forme di spiritualità,
avanza la tesi che il proprium della religione sia la soteriologia, quindi non
tanto il contenuto di una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo
della vita e della morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e
non più la fede, che viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione
della salvezza. L'analisi giraldiana della
religiosità tenta perciò di emanciparsi dagli usuali preconcetti teologici o
filosofici: se alla religione è stato assegnato per oggetto l'uomo
immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia Dio si dà immediatamente e
l'uomo mediatamente. Altresì in Immortalità dell'anima (1992) mostra come sia
improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del Pensiero con la
determinazione individualizzata della persona. Il Dizionario di Estetica e
Linguistica generale (1975), con alcune integrazioni filologiche presenti in
alcune successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche per
l'attenzione dedicata all'estetica orientale e sulle concezioni dei primitivi
"di ieri e di oggi". Per una
filosofia della scelta e della decisione
Giovanni Giraldi nel 2013 La proposta avanzata da Giovanni Giraldi per
una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione sul
dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le distanza.
Non si considera dogmatico, perché gnoseologicamente il suo metodo gli consente
di aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo
porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto
la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita
ultraterrena o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non
esistenza. Tra le numerose acquisizioni
che lo difenderebbero dalle accuse incrociate di scetticismo e agnosticismo
enumera la consapevolezza di un patrimonio di verità circa le possibilità di
pensiero; la ricchezza dell'atto di conoscenza anche nelle forme meno
esplicate; l'emancipazione dalla divisione del conoscere in intuizioni e
concetto, sensazione e concetto; la pretestuosità di coloro che esigono una
purezza del conoscere senza inquinamenti sentimentali; le aporie di una scienza
oggettivante e insieme soggettivante al massimo e dell'arte che, mentre il
mondo odierno nega il reale, si riferisce continuamente ad essa,
particolarmente nella negazione. Non
potendosi dare una irruzione nel trascendente, è tuttavia possibile affermare
la vasta pregnanza del trascendentale, in altre parole di un terreno comune per
l'esperienza e il pensiero. Giraldi si considera pertanto idealista, nel senso
che non esiste pensiero senza pensiero, spirito senza spirito, ideato senza
ideante. Tuttavia, differentemente dalle posizioni gentiliane, non crede che
affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché l'idea diventa
comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una verità
fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge così una
debita attenzione per la scelta e la decisione.
Distinguendo le scelte apparenti, che sono totalmente arbitrarie, da
quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera con un atto di buona
volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad un bivio metafisico:
impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati reali (Dio, Anima e
Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la decisione autentica, cui si
arriva solamente secondo una corretta formulazione di intenti e seguendo una
fine immanente ad ogni forma di scelta. Aristotelicamente – e anche
kantianamente – la causa finale riveste una primaria importanza. Se ogni uomo
sceglie per sé, nessuna scelta avrebbe una portata teoretica di cogenza, ma
aprirebbe le vie della libertà vera, dalla quale ne derivano conseguenze
radicali e speculazioni abissali a partire da una decisione, che può essere
quella dell'anima unica immortale, o quella del pensiero che viene ad essere
dopo la materia, o la non esistenza di Dio. Ciò permetterebbe anche di evitare
il depauperamento culturale, con una rivitalizzazione delle esperienze
antiche. La decisione personale di
Giraldi propende per una concezione dell'anima unitaria, di stampo aristotelico-averroistico;
se l'immortalità naturale di tomistica memoria è da lui considerata "la
più materialistica, e più grezza", egli preferisce pensare ad una
immortalità conseguita, oppure chiesta a Chi può donarla e concessa a chi la
chiede. Sul mondo reale fisico resta una indecisione, ma propende verso un
residuo di natura mentale, una sorta di noumeno mentale – sulla scia di
Immanuel Kant e Pasquale Galluppi – oltre il grande telone dei fenomeni. In
questo caso però occorrerebbe rapportarlo ad una mente divina, perché parlare
di mondo senza Dio non avrebbe connotazioni filosofiche. Infine, riguardo
l'esistenza di Dio, punto in cui la scelta diviene decisione pura, egli tende a
negare la validità delle dimostrazioni, pur scorgendo in esse una bella prova
della potenza della mente umana. La conclusione non è però la non esistenza di
Dio, ma la non dimostrazione della sua esistenza. Chi ammette l'esistenza di Dio, tuttavia,
deve assumere la radicalità di tale affermazione "guardando il mondo dagli
occhi di Dio" e non facendo etsi deus non daretur. Chi prendesse la scelta
teistica dovrebbe tacersi per sempre e rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette
in risalto anche la Volontà, definendola potenza fattiva dell'Idea, e
constatandone il carattere generativo-spermatico, per collocare in una prospettiva
differente il vitalismo dell'élan vital bergsoniano e della Wille di
Schopenhauer. Questo permette di pensare l'Idea non solo quale conoscenza
filosofica, ma anche negli aspetti attivi, vitali e di sentimento. Ad essere
eroicamente divini non sono pertanto solo i pochi giunti al massime vette di
autocoscienza teoretica, ma anche gli umili che vivono inconsapevoli della
propria dignità divina, folgoranti però di una autocoscienza morale. Bàrel Dal punto di vista poetico, l'opera
principale di Giovanni Giraldi è il Bàrel, iniziato negli anni trenta e sorto
dall'ispirazione di un progetto di Papini esposto nell'autobiografia Un uomo
finito per un poema apocalittico, mai scritto. Altri spunti furono la lettura
di Lord of the World di Robert Hugh Benson e dell'Apocalisse. Il primo dei tre volumi di cui si compone il
Bàrel, terminato in versi nel 1937, fu presentato a Eugenio Giovannetti de Il
Giornale d'Italia, che propose come titolo Il Dio Eroico. Gli anni seguenti, segnati
dalla Seconda Guerra Mondiale, furono l'occasione per trasporlo in prosa,
operazione terminata nel 1944.Questa versione, appena terminata la guerra, fu
proposta a vari editori ma che per una serie di sfortunate coincidenze –
Mondadori non disponeva della carta, e dopo alcuni anni, quando la carta è
disponibile, cambia idea sulla pubblicazione; la casa editrice Api di
Mazzucchelli nel frattempo fallì – l'idea di pubblicazione venne
temporaneamente accantonata. Nel frattempo alcuni versi furono pubblicati
frammentariamente. Il 1964 fu l'anno del riordino delle due versioni in un
unico libro che contenesse sia versi, sia prosa, in uno spiccato pluristilismo
sperimentale. La pubblicazione avverrà, in tre libri, tra gli anni sessanta e
gli anni settanta sotto lo pseudonimo I. Tanarda e poi in raccolte unitarie
successive. Il tema è insolito e il
contenuto, con riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo, non è di
semplice accessibilità. Se il primo libro può essere collocato in un momento
simbolico dell'arte, il secondo è classico e il terzo romantico, nei canoni
dell'estetica hegeliana. Nel primo, Apocalisse grande, il protagonista Bàrel
sovrappone le passioni alle idee; nel secondo, La cerca di Barel, ritorna in
proporzioni umane e nel terzo, La morte degli dèi, scende negli abissi vertiginosi
del Pensiero, che la poesia tenta di inseguire. È stato tradotto anche in
lingua francese dalla poetessa e latinista Geneviève Immè dell'Università di
Pau. Opere Organon Philosophicum Ironia,
morale, educazione, Editrice Gheroni, Torino 1954. Etica del sentimento,
Edizioni di "Filosofia dell'Unicità", 1955. Gnoseologia del
sentimento, Pergamena Editrice, 1957. La filosofia giuridica, Edizioni di
"Filosofia dell'Unicità", Milano 1961. Filosofia della religione.
Lezioni accademiche, Edizioni di "Filosofia dell'Unicità", 1962.
Epistemologia. Una nostra riforma della Logica Hegeliana, Pergamena Editrice,
1965. La Metafisica. Quattro discorsi, Pergamena Editrice, 1971. Iesous
Eléutheros. La liberazione di Gesù: lettera sistematica ai miei figli, Pergamena
Editrice, 1973. Dizionario di Estetica e di Linguistica generale, Pergamena
Editrice, 1975. Studi successivi al 1975 nel periodico Sistematica. Res
Publica. I. Educazione civica, Pergamena Editrice, 1977. Res Publica. II.
Teoria dell'Ineguaglianza, Pergamena Editrice, 1978. Nel Pleròma. Da Dio alla
Materia, Pergamena Editrice, 1979. Storiografia come rettorica. Autobiografia
come filosofia, Pergamena Editrice, 1980. Memoriale Ambrosiano e Memoriale
Italico, Pergamena Editrice, 1981. Dio, Pergamena Editrice, 1982. Estetica
della Musica, Pergamena Editrice, 1984; seconda edizione 1997 con Colloquia
Edizioni. Meditazioni Hegeliane, Pergamena Editrice, 1988. Meditazioni
Platoniche, Pergamena Editrice, 1990. Capitoli sulla Scienza Moderna, Pergamena
Editrice, 1991. L'immortalità dell'anima, Pergamena Editrice, 1992. Ricerche
filosofiche La filosofia del sentimento di A. Consentino, in Quaderni del 2000,
Milano 1952. Rabelais e l'educazione del principe, Edizioni Viola, Milano 1953;
ora in Paideia grande. Un mistico bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, 1953.
Amiel Morale, pubblicato sulla rivista pedagogica e filosofica Il Saggiatore,
Torino 1956. L'educazione dei ciechi, Armando Editore, Roma 1962. Società e
Stato da Spedalieri a Marx, Pergamena Editrice, 1963. L'estetica italiana nella
prima metà del secolo XX : figure e problemi., Nistri-Lischi, Pisa 1963. Storia
della pedagogia, Armando Editore, Roma (I ediz. 1964, X ediz. 1984; "le
edizioni successive alla X sono state scempiate da interventi dell'Editore -
riporta Giraldi in Sistematica). Il pensiero politico tra Ottocento e
Novecento, Pergamena Editrice, 1964. Adolfo Ferrière. Psicologia, attivismo,
religione, Armando Editore, Roma 1964. Giuseppe Lomabardo Radice tra poesia e
pedagogia, Armando Editore, Roma 1965 Giovanni Gentile. Filosofo
dell'educazione - Pensatore politico - Riformatore della Scuola, Armando
Editore, Roma 1968. Raffaello Lambruschini. Un uomo, una pedagogia, Armando
Editore, Roma 1969. Silvio Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Editrice, 1972.
Moralistica francese, Pergamena Editrice, 1972 - Saggi su Francesco di Sales,
il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost. Filosofi teoretici e Morali, Pergamena
Editrice, 1975 - saggi su Condillac, Senancour, Rensi, Hume, Camus, Barié,
Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti, Pergamena Editrice,
1979. Storia della filosofia, Trevisini Editore, Milano 1983. L'Italia nella
dittatura e nella non democrazia, Pergamena Editrice, 1983. Paideia Grande,
Pergamena Editrice, 1983 - Rabelais, Rosmini, Boncompagni, Gentile. Storia del
Liberalismo nel sec. XX, Pergamena Editrice, 1990. Riviste Moltissimi saggi e
studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica sono stati
pubblicati nelle seguenti riviste fondate da Giraldi stesso: L'Idea Liberale, attiva dal 1959 al 1992.
Sistematica, dal 1968, attiva sino al 2014. Filologia Giovanni Michele Alberto
Carrara, De fato et fortuna. Introduzione - Testo - Note a cura di Giovanni
Giraldi, Tipografia A. Ronda, Milano 1954. Studi sul Rinascimento, Pergamena
Editrice, 1960. Saggi su: Seneca e la filologia; Petrarca viaggiatore; Leonardo
scrittore; Le fonti del Pontano lirico; Gli errori di Dante in un poema
umanistico inedito; Il Rinaldo di T. Tasso; Il T. Tasso corregge il Floridante;
Rime inedite di Cecco d'Ascoli. G. M. A. Carrara, Vol. I, Opere Scelte, a cura
di Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, 1967 G. M. A. Carrara, Vol. II,
Armiranda. Inedito umanistico, a cura di Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice,
1976. Commedia inedita, testo latino e traduzione G. M. A. Carrara, Vol. III,
De choreis Musarum, a cura di Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, 1984. Testo
sistematico latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista. G. M. A.
Carrara, Vol. IV, Sermones objurgatorii, a cura di Giovanni Giraldi, Pergamena
Editrice, 1984. Sui tragici greci. Da mio diario filologico, Pergamena
Editrice, 1973. Filologia. Teoria e saggi, Voll. 4 (1975, 1980, 1986, 1995),
Pergamena Editrice. Su Dante con verità, Pergamena Editrice, 2003. Il Manzoni,
in Sistematica (140-141), Pergamena Editrice, 2009. Gesù, Pergamena Editrice,
2012. Poesia e prosa d'arte Collana dei "Tredici". La Scala, novelle
e poesie; Casa Editrice Mutarsio, Torino 1938 Bàrel. I. Apocalisse grande
(1965); II. La cerca di Bàrel (1971); III. La morte degli dèi (1977); in volume
unico (1998 e 2011), Pergamena Editrice. Hendecasyllabi aliaque scripta,
Pergamena Editrice, 1964. L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena Editrice, 1968.
Il figlio di Pinocchio, Pergamena Editrice, 1976; Fratelli Frilli 2001 (recensioni).
Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Editrice, 1981. Quadri Intemelii,
Pergamena Editrice, 1988. Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex
quadraticus, Pergamena Editrice, 1992. Cento tavole, alcune con testi latini
parzialmente editi in Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del
Bàrel; il Codex aureus è a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus
comprende le figure degli scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi,
temi, tecniche. Pergamene eseguite dal 1972 al 1977. Musa latina, Pergamena
Editrice, 1990. Il ramo d'oro, Pergamena Editrice, 1992. Scritti in Italiano,
Latino, Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena
Editrice, 1993. Splendido novellare, Pergamena Editrice, 1994. Cento racconti e
novelle. Musis amicus, Pergamena Editrice, 1997. Versi e prose in Latino. Mimì
o E tutto è amore, Pergamena Editrice, 1998. Sorridono i gigli. Liriche e
restauro filologico di Saffo, Pergamena Editrice, 2002. Tevere amico, Pergamena
Editrice, 2006. Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un
popolano di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, 2006. Faust mediterraneo,
Pergamena Editrice, 2007. Atlantidos persis, Pergamena Editrice, 2008. François
Villon, Il Testamento, traduzione e saggio critico a cura di Giovanni Giraldi,
Pergamena Editrice, 2006. Amitiés françaises, Pergamena Editrice, 2008. Nel
Sublime, Pergamena Editrice, 2009. Il mio Ponente, Pergamena Editrice, 2010.
Letture belle, Pergamena Editrice, 2011. Note ^ Piero Pastorino, Pinocchio, un
figlio nato da una bugia, in La Repubblica, 4 dicembre 2001, p. 8 sez. Genova.
URL consultato il 3 gennaio 2014. «Giraldi, nato a Ventimiglia, docente
universitario a Milano di Storia generale della filosofia, è stato
ripetutamente consulente all'Accademia di Svezia per il conferimento dei Nobel
per la letteratura. Ha al suo attivo un dizionario di estetica e linguistica,
una storia della pedagogia e ha scritto novelle raccolte in due volumi. Vive a
Noli, di cui è cittadino onorario.». ^ Piotr Zygulski, È morto Giovanni
Giraldi, filosofo liberale, in Termometro Politico, 23 settembre 2014. URL
consultato il 23 settembre 2014. ^ Giraldi, p. 37. ^ Giraldi, p. 43.
Bibliografia Pierre-Philippe Druet, Giovanni Giraldi, Silvio Tissi, filosofo dell'ironia,
Revue Philosophique de Louvain, 1976, vol. 74, n° 22, pp. 306-307. John Dudley,
Giovanni Giraldi, Sui tragici greci. Dal mio diario filologico, Revue
Philosophique de Louvain, 1976, vol. 74, nº 23, p. 439. Giraldi, Giovanni, Da
"Autobiografia come filosofia" (Milano, 1980) e pagine integrative
(1981 e ss.), in Sistematica, nnº 130-131, Milano, Pergamena, 2005. Angelo
Grimaldi, Illuministi inglesi e francesi, in Disegno storico del
costituzionalismo moderno, Roma, Armando, 2007, p. 56, ISBN 978-88-6081-2582.
Giancarlo Ottaviani, La scuola del Risorgimento. Cinquant'anni della scuola
italiana 1860-1910, Roma, Armando, 2009. Giovanni Semerano, La favola
dell'indoeuropeo, Milano, Paravia Bruno Mondadori, 2005, pp. 55-56. Voci
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1º luglioMorti il 23 settembreNati a VentimigliaMorti a Milano[altre]
Girardi -- Giulio Girardi Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Giulio
Girardi (Il Cairo, 23 febbraio 1926 – Rocca di Papa, 26 febbraio 2012) è stato
un presbitero, teologo, filosofo e docente universitario italiano.
Indice 1 Biografia 2 Docente
universitario 3 Il
Concilio e il suo impegno politico 4 Opere
5 Note
6 Voci
correlate 7 Collegamenti
esterni Biografia Dopo la nascita, vive con la famiglia a Parigi fino al 1931;
si trasferisce in seguito con i genitori a Beirut (Libano), dove riceve la sua prima
istruzione presso la scuola italiana retta dai domenicani. Nel 1937, dopo
la separazione dei genitori, con la madre e la sorella si trasferisce ad
Alessandria d'Egitto; qui frequenta la scuola media italiana presso i
salesiani. Nel 1939, maturata la sua scelta vocazionale, viene inviato in
Italia, dove inizia gli studi superiori, poi quelli filosofici e teologici, per
la formazione al sacerdozio nella Società salesiana di San Giovanni
Bosco. Completa gli studi filosofici nel 1950, con il dottorato in
filosofia, discutendo la tesi sulla metafisica di san Tommaso d'Aquino. Compie
inoltre gli studi di teologia presso l'Università Gregoriana di Roma dal 1951
al 1953 e presso la sede di Torino dell'Università Salesiana dal 1953 al 1955.
Sempre a Torino, viene ordinato presbitero il 1º gennaio del 1955.
Docente universitario Già dal 1948 è docente di storia della filosofia e di
metafisica presso la Facoltà salesiana di Torino; dal 1960 tiene gli stessi
corsi anche all'Università Salesiana di Roma. Nonostante l'impegno accademico e
la partecipazione ai lavori del Concilio Vaticano II in qualità di perito, la
sua scelta di impegno con i movimenti di base e la presa di posizione per il
marxismo fanno sì che nel 1969 venga espulso dall'ateneo salesiano per "divergenze
ideologiche"; si trasferisce allora a Parigi, dove è docente di
antropologia presso la facoltà di filosofia dell'Università Cattolica e di
introduzione al marxismo presso l'Istituto di Scienze e Teologia delle
religioni. Negli stessi anni, insegna antropologia, introduzione al marxismo e
teologia della liberazione presso l'Istituto Superiore di Pastorale Lumen Vitae
di Bruxelles. In quegli anni aderisce e promuove, in America Latina e in
Europa, il movimento dei Cristiani per il Socialismo; il suo impegno esplicito,
a livello ideologico e politico, a favore dei movimenti rivoluzionari e di
liberazione, portano alla sua definitiva espulsione dall'Università Cattolica
di Parigi nel 1973 e, l'anno successivo, dall'Istituto Lumen Vitae di
Bruxelles. Si dimettono da quest'ultimo, per solidarietà, i suoi colleghi di
docenza François Houtart, Gustavo Gutiérrez, Paulo Freire. Prosegue
tuttavia la docenza universitaria presso l'Università di Lecce, insegnando
filosofia della storia nell'anno 1977-'78, poi presso l'Università di Sassari,
ove insegna filosofia politica dal 1978 al 1996, quando si congeda
dall'insegnamento. Il Concilio e il suo impegno politico Nel 1962,
Girardi viene invitato come esperto al Concilio Vaticano II, in qualità di
profondo conoscitore del marxismo e delle problematiche dell'ateismo
contemporaneo. Al Concilio, collabora alla progettazione e alla stesura dello
Schema XIII, che darà vita alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes.
Nel 1965, inizia la sua partecipazione al dialogo tra cristiani e marxisti,
nelle varie sessioni a livello nazionale e internazionale. Alla sua ricerca
filosofica, affianca un impegno sempre crescente con le realtà di base, in
Italia e nel mondo, che iniziano a coniugare l'aggiornamento conciliare con
l'impegno politico. La sua conoscenza dell'America Latina lo porta sempre più
frequentemente in giro per il mondo; è tra i protagonisti della nascente
teologia della liberazione, di cui è uno dei divulgatori in Europa. Nel
1972, partecipa al primo incontro continentale dei Cristiani per il Socialismo,
a Santiago del Cile; in seguito, dopo aver conosciuto dal vivo i più diversi
paesi latinoamericani (Cile, Perù, Colombia, Messico, Cuba), trasporta in
Europa il suo impegno nel movimento dei Cristiani per il Socialismo
(1973-1980). Nel 1974 diventa membro del Tribunale Russel II sull'America
Latina; dal 1976 al 2012, è membro del Tribunale Permanente dei Popoli.
Nel 1977, dopo essere stato espulso da tutte le università cattoliche in cui
era docente, viene anche dimesso dalla congregazione salesiana e,
successivamente, sospeso a divinis. Girardi continua il suo impegno di
solidarietà con i popoli latinoamericani e la sua opera di animatore e
formatore nelle comunità di base, così come negli organismi di riflessione e di
dialogo tra cattolici e comunisti. Nel 1980 compie la sua prima visita in
Nicaragua, ove solidarizza con la rivoluzione sandinista e esprime la sua
collaborazione con i vari movimenti ecumenici, indigeni e popolari di quella
nazione. Il Fronte Sandinista gli assegnerà l'ordine Carlos Fonseca per il suo
lavoro a fianco della popolazione nicaraguense. Dal 1986 si reca anche a
Cuba, ogni anno, collaborando con diverse istituzioni culturali ed ecumeniche;
dal 1988 è impegnato nella solidarietà con il movimento indigeno, specialmente
in Messico, Ecuador e Bolivia. Nel 1989 è candidato come capolista alle
elezioni per il rinnovo del consiglio comunale di Roma con Democrazia
Proletaria[1]. Dal 1992 è impegnato con il movimento macroecumenico dell'Assemblea
del popolo di Dio, in cui alle tradizionali tematiche della liberazione, si
unisce la riscoperta delle origine etniche e indigene dei popoli sudamericani.
Fino ai primi anni del nuovo secolo, continua ad occuparsi anche delle
tematiche riguardanti l'educazione popolare e il nascente movimento per la
pace. Nel corso degli anni, non ha trascurato anche l'impegno in Italia,
soprattutto nel campo della ricerca partecipativa sulle condizioni del mondo
del lavoro e sulle trasformazioni della coscienza cristiana di fronte alle
mutazioni del contesto sociale. Nel 2005, con il suo ingresso nel
movimento Noi Siamo Chiesa, propone in esso l'aggiornamento delle tematiche di
impegno politico ed ecclesiale da lui coltivate in tanti anni di studio e di
dialogo. Assieme a un gruppo internazionale di teologi (unico italiano,
assieme a Giovanni Franzoni e al giornalista Filippo Gentiloni), è stato
promotore anche di un Appello alla chiarezza, un "manifesto" contro
la beatificazione di Karol Wojtyła[2], uno dei pochi segnali critici rivolti al
grande pubblico sulla figura di Giovanni Paolo II. È stato anche
cofondatore dell'Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba e della
Fondazione Italiana Ernesto Che Guevara. È scomparso nel 2012 all'età di
86 anni, dopo una grave malattia durata sei anni[3]. Opere Metafisica
della causa esemplare in San Tommaso d'Aquino, Torino, Società Editrice
Internazionale, 1954. Ontologia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1962.
Theologia naturalis, Torino, Società Editrice Internazionale, 1962. Marxismo e
cristianesimo, Assisi, Cittadella, 1966; 1969. Cristiani e marxisti a confronto
sulla pace. Implicanze dottrinali, Assisi, Cittadella, 1967. Credenti e non
credenti per un mondo nuovo, Firenze, Vallecchi, 1969. Cristianesimo e lotta di
classe, Pistoia, Centro di documentazione, 1969. Speranza cristiana e speranza
marxista, con Lucio Lombardo Radice, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina,
1970. Cristianesimo, liberazione umana, lotta di classe, Assisi, Cittadella,
1971; 1972. La lotta di classe e gli esclusi, con Nicola Badaloni, Firenze,
Libreria Editrice Fiorentina, 1972. Cristiani per il socialismo, perché?
Questione cattolica e questione socialista, Assisi, Cittadella, 1975. Educare:
per quale società?, Assisi, Cittadella, 1975. Fede cristiana e materialismo
storico, Roma, Edizioni Borla, 1977. Coscienza operaia oggi. I nuovi
comportamenti operai in una ricerca gestita dai lavoratori, a cura di, Bari, De
Donato, 1980. Sulla crisi del marxismo. Relazione del seminario di studi tenuto
a Bergamo (12-13 aprile 1980) presso il Centro La Porta, Bergamo, La Porta, Centro
studi e documentazione, 1980. Intervento in Teologia della liberazione, Roma,
Sapere 2000, 1985. La tunica lacerata. L'identità cristiana oggi fra
liberazione e restaurazione, Roma, Borla, 1986. ISBN 88-263-0614-1. Sandinismo,
marxismo, cristianesimo. La confluenza, Roma, Borla, 1986. ISBN 88-263-0640-0.
Le rose non sono borghesi. Popolo e cultura del nuovo Nicaragua, a cura di,
Roma, Borla, 1986. ISBN 88-263-0642-7. Rivoluzione popolare e occupazione del
tempio. Il popolo cristiano del Nicaragua sulle barricate, Roma, Edizioni
associate, 1989. Il popolo prende la Parola. Il Nicaragua per la teologia della
liberazione, con José Maria Vigil, Roma, Borla, 1990. ISBN 88-263-0714-8. Dalla
dipendenza alla pratica della libertà. Una comunità d'accoglienza s'interroga e
interroga, ricerca partecipativa coordinata da, Roma, Borla, 1990. ISBN
88-263-0823-3. La conquista dell'America. Dalla parte dei vinti, Roma, Borla,
1992. ISBN 88-263-0925-6. Il tempio condanna il Vangelo. Il conflitto sulla
teologia della Liberazione fra il Vaticano e la CLAR, San Domenico, Fiesole,
Cultura della pace, 1993. ISBN 88-09-00919-3. Gli esclusi costruiranno la nuova
storia? Il movimento indigeno, negro e popolare, Roma, Borla, 1994. ISBN
88-263-1076-9. Cuba dopo il crollo del comunismo, Roma, Borla, 1995. ISBN
88-263-1101-3. Samuel Ruiz. Sui sentieri indigeni della chiesa in Chiapas, con
Alberto Grossi e Aluisi Tosolini, Parma, AlfaZeta, 1996. Cuba dopo la visita
del papa. Marxismi, cristianesimi, religioni afroamericane alle soglie del
terzo millennio, Roma, Borla, 1999. ISBN 88-263-1281-8. Riscoprire Gandhi. La
violenza è l'ultima parola della storia?, Roma, Anterem, 1999; Roma, Icone,
2001. ISBN 88-87494-15-0. Seminando amore come il mais. L'insorgere dei popoli
indigeni e il sogno di Leonidas Proano, Roma, Icone, 2001. ISBN 88-87494-19-3.
Resistenza e alternativa al liberalismo e ai terrorismi, Milano, Punto Rosso,
2002. ISBN 88-8351-023-2. Che Guevara visto da un cristiano, Milano, Sperling
& Kupfer, 2005. ISBN 88-8274-598-8. Note ^ Legalità informazione: girardi
appoggia lo sciopero della fame di pannella e negri. | RadioRadicale.it, su
radioradicale.it. URL consultato il 13 aprile 2012 (archiviato dall'url
originale il 4 marzo 2016). ^ L'appello coi firmatari Archiviato il 27 settembre
2007 in Internet Archive. ^ Il nostro fratello Giulio Girardi ci ha lasciato
Noisiamochiesa.org Voci correlate Comunità cristiana di base Cristiani per il
Socialismo Teologia della liberazione Sandinismo Socialismo cristiano Forum
Sociale Mondiale Collegamenti esterni Gli ottant'anni di Giulio Girardi di
Valerio Gigante, 2006, sito Adista, Fatti, notizie, avvenimenti su mondo
cattolico e realtà religiose. Sito Web dedicato a Giulio Girardi contiene una
biografia e altro materiale. Controllo di autorità VIAF (EN) 111183539 · ISNI (EN) 0000 0001 1779 8811 · SBN
IT\ICCU\MILV\157747 · LCCN (EN) n80050865 · GND (DE) 141421002 · BNF (FR)
cb11905055b (data) · BNE (ES) XX885931 (data) · BAV (EN) 495/128811 · WorldCat
Identities (EN) lccn-n80050865 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo
Portale Cattolicesimo Categorie: Presbiteri italianiTeologi italianiFilosofi
italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati nel 1926Morti nel
2012Nati il 23 febbraioMorti il 26 febbraioNati al CairoMorti a Rocca di
PapaProfessori dell'Università degli Studi di SassariProfessori dell'Università
del SalentoReligione e politicaSalesianiTeologi cattoliciPacifisti[altre]
Girgenti – Giuseppe Girgenti
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'omonimo politico e prefetto
fascista, vedi Giuseppe Girgenti (politico). Giuseppe Girgenti (Palermo, 17
aprile 1967) è un filosofo italiano.
Indice 1 Biografia
2 Pensiero
3 Opere
4 Note
5 Collegamenti
esterni Biografia Ha frequentato gli studi classici nella sua città natale
presso il Liceo "Vittorio Emanuele II" (ove, fra gli altri, ha avuto
come docenti Vincenzo Brighina, Mario Franchina, Francesco Armetta, Ubaldo
Mirabelli e padre Pino Puglisi) e poi si è trasferito a Milano per gli studi
universitari, presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore (ove, fra gli
altri, ha seguito i corsi e i seminari di Gustavo Bontadini, Sofia Vanni
Rovighi, Adriano Bausola, Virgilio Melchiorre e don Luigi Giussani); si è
laureato in filosofia con Giovanni Reale nel 1989, con una tesi dal titolo
Platonismo e Cristianesimo in San Giustino Martire; ha poi vinto un dottorato
di ricerca nella stessa università, ed è andato a studiare prima a Monaco di
Baviera con Werner Beierwaltes e poi a Parigi con Pierre Hadot; ha conseguito
il titolo di dottore di ricerca nel 1994 con una dissertazione dal titolo
Porfirio tra henologia e ontologia riproponendo la questione degli
universali[1] come origine del "pensiero forte". Dopo un biennio
post-dottorale presso l'Università Cattolica di Milano, è diventato
Assistenzprofessor presso l'Accademia Internazionale di Filosofia nel
Principato del Liechtenstein, ove ha insegnato "Storia della Filosofia e
Metodologia Filosofica" nel triennio 1997 - 2000; in questo periodo ha
tenuto contatti regolari con Hans-Georg Gadamer; dal 2002 è passato a insegnare
Storia della Filosofia Antica alla Facoltà di Filosofia dell'Università
Vita-Salute San Raffaele di Milano. È segretario delle collane Bompiani
"Testi a fronte" e "Il pensiero occidentale". Pensiero I suoi studi sono concentrati sul
rapporto tra filosofia greca e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza
che il platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo
tema, ha applicato due categorie ermeneutiche create da Gadamer: la
"storia degli effetti" (Wirkungsgeschichte) e la "fusione di
orizzonti" (Horizontverschmelzung); secondo la storia degli effetti, come
già in Beierwaltes, la storia della Patristica greca e latina deve essere
considerata una fase importante della storia del platonismo antico, che fa da
tramite rispetto a tutto il pensiero cristiano medioevale; secondo la fusione
di orizzonti, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere analizzato
superando due opposte posizioni classiche: la "Praeparatio
evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia greca sarebbe
stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la "Ellenizzazione del
cristianesimo" di Adolf von Harnack, secondo cui nell'incontro con la
filosofia greca il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione originaria (e
dovrebbe pertanto de-ellenizzarsi). La posizione mediana potrebbe contribuire a
superare le rigidità del cristianesimo ortodosso e le chiusure del
cristianesimo protestante. Opere
Porfirio negli ultimi 50 anni: bibliografia sistematica e ragionata della
letteratura primaria e secondaria riguardante il pensiero porfiriano e i suoi
influssi storici, Vita e Pensiero, Milano 1994; Giustino Martire, il primo
cristiano platonico, Vita e Pensiero, Milano 1995; Il Pensiero forte di
Porfirio, Vita e Pensiero, Milano 1996; Introduzione a Porfirio, Laterza,
Roma-Bari 1997; La nuova interpretazione di Platone, a cura di G. Girgenti,
Rusconi, Milano 1998; Incontri con Hans-Georg Gadamer, a cura di G. Girgenti,
Bompiani, Milano 2000; Platone tra oralità e scrittura, a cura di G. Girgenti,
Bompiani, Milano 2001; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato,
Padova 2011; Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia,
libro-intervista con Sossio Giametta, Mursia, Milano 2012. Note ^ G. Giorello,
Corriere della Sera, 1º giugno 1995 Collegamenti esterni Scheda biografica,
curriculum e bibliografia nel sito dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su
unisr.it. URL consultato il 23 agosto 2012 (archiviato dall'url originale il 10
maggio 2012). Controllo di autorità VIAF
(EN) 5017375 · ISNI (EN) 0000 0001 2098 8034 · SBN IT\ICCU\CFIV\063738 · LCCN
(EN) n95039390 · BNF (FR) cb12404975g (data) · BAV (EN) 495/188240 · WorldCat
Identities (EN) lccn-n95039390 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale
Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI
secoloNati nel 1967Nati il 17 aprileNati a PalermoStudiosi di patristica[altre]
Girotti -- Armando Girotti Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Armando Girotti Armando Girotti (Adria, 9 dicembre 1942) è un filosofo
italiano, specializzato nelle metodologie di insegnamento della
filosofia. Indice 1 Biografia
2 Pensiero
3 Onorificenze
4 Opere
5 Note
6 Collegamenti
esterni Biografia Nato ad Adria ma trasferitosi da bambino con la famiglia a
Pontelongo, Armando Girotti si è laureato all'Università di Padova, dove si è
formato alla scuola dei filosofi Giovanni Santinello e Enrico Berti. Insieme a
quest' ultimo ha pubblicato nel 2000 il libro Filosofia, dedicato
all'insegnamento della materia.[1] Dopo aver lavorato alcuni anni come
docente di storia e filosofia nel liceo Ippolito Nievo di Padova, fin dagli
anni '70 si è interessato alle metodologie di insegnamento e apprendimento
della filosofia, lavorando come consulente esterno per gli IRRSAE di Veneto,
Friuli Venezia Giulia, Trentino ed Emilia-Romagna e come Direttore
dell'aggiornamento didattico per il Provveditorato agli studi di Padova,
Vicenza, Venezia e Treviso.[2][3][4] È incaricato dal Ministero della pubblica
istruzione della realizzazione di materiali didattici finalizzati a innovare
l'insegnamento della filosofia e di analizzare la didattica del Giappone all'interno
di un progetto di scambio culturale con il paese asiatico.[3][5][6] Negli
anni '80, dopo aver conseguito il Dottorato di ricerca in filosofia, tiene
alcuni seminari per il Corso di Perfezionamento in Metodologia
dell’insegnamento filosofico presso l’Università di Padova.[2][3][7] Nel
1990 ha pubblicato Henri Gouhier e la sua storia storica della filosofia, prima
opera in italiano dedicata al filosofo francese.[8] Ha collaborato alla
terza edizione dell'Enciclopedia filosofica Bompiani, è saggista e redattore di
Comunicazione filosofica, la rivista telematica della Società Filosofica
Italiana, e dirige alcune collane di metodologia filosofica e di storia della
filosofia.[9] Pensiero I suoi lavori iniziano a partire dal rapporto tra
storiografia e filosofia, cioè se sia possibile una storia storica della
filosofia (argomento riguardo al quale pubblica uno studio analizzando il
pensiero di Henri Gouhier) che non scivoli nella storia filosofica della
filosofia, cioè in una filosofia come decodificatrice della storia del
pensiero.[10] Il primario interesse è rivolto alla formazione dei futuri
docenti di filosofia,[11] anche con stimolazioni pratiche.[12] L’attenzione per
le nuove metodologie, come la Didattica Breve, lo portano a definirne la lungimiranza,[13]
mostrandone anche l'aspetto pratico.[14] I suoi studi sulle metodologie
di insegnamento[15] lo portano a disapprovare le tecniche, a difesa delle
strategie, quelle che, dice, insegnano a riflettere filosoficamente.[16] A tal
riguardo si è inserito nel dibattito sull’insegnamento della filosofia
sostenendo che la diatriba tra le due scuole di pensiero, quella inerente alla
didattica per problemi o secondo il profilo storico, perde di vista il dato
primario, che non risiede tanto nei contenuti, quanto nel metodo di
approccio[17] finalizzato alla riflessione filosofica, quel metodo che insegna
a “filosofare”.[18] Gli esiti della sua ricerca perciò lo portano a sostenere
l'esigenza di modificare l'insegnamento della filosofia in quanto lo scopo è
che la didattica diventi filosofica[19] e non rimanga semplice didattica della
filosofia, teoreticamente sostenendone le motivazioni.[20] Le sue
riflessioni teoretiche a difesa del Progetto Brocca,[21] mostrandone le
peculiarità, lo inducono a produrre Moduli anche su sollecitazione del
Ministero dell'Istruzione[22] e, per quanto riguarda la Philosophy for
Children, trovandola troppo legata all'interpretazione della filosofia come
avvio alla logica, ne critica la didattica finalizzata alle tecniche, privilegiando
invece la "Filosofia con i bambini" che, cambiando il “for” in
“with”, presta maggior attenzione alla psiche infantile.[23] I suoi studi
sulla metodologia dell'insegnamento filosofico lo portano infine ad inserirsi
nel dibattito "cervello-mente" con riferimenti alla complessità
dell'io nel rapporto tra sapere ed emozione,[24] sulla volontà,[25] nonché sul
problema anima.[26] Onorificenze Nel 2016 è stato insignito della
cittadinanza onoraria[27] dal Sindaco di Pontelongo Fiorella Canova. Opere
Henri Gouhier e la sua storia storica della filosofia, Unipress, Padova 1990.
La filosofia per unità didattiche, Pagus, Treviso 1993. Aristotele, dal
platonismo all’autonomia, Polaris, Faenza 1996. L’insegnamento della filosofia,
dalla crisi alle nuove proposte, Unipress, Padova 1996. La filosofia di
Schopenhauer, Polaris, Faenza 1998. Girotti - Berti, Filosofia, Professione
docente, La Scuola, Brescia 2000. Girotti - Morini, Modelli di razionalità
nella storia del pensiero, Sapere, Padova 2005. Discorso sui metodi, Pensa,
Lecce 2005. Medioevo vs 2009, tra tabula rasa e innatismo, Sapere, Padova 2009.
Riforma Gelmini e insegnamento della filosofia, Sapere, Padova 2010. Essere e
volere, Pensa multimedia, Lecce 2013. Siamo completamente liberi di volere ciò
che vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna 2014. Aristotele, Diogene
Multimedia, Bologna 2015. Hegel, Diogene Multimedia, Bologna 2015.
Schopenhauer, Diogene Multimedia, Bologna 2015. Siamo liberi di volere ciò che
vogliamo?, Diogene Multimedia, Bologna 2015. Girotti-Paris, Filosofia, bellezza
e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna 2016. Kant, Diogene Multimedia,
Bologna 2016. Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna 2016.
Giovanni Gentile, La filosofia nella scuola secondaria, Diogene Multimedia,
Bologna 2017. Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione del male, Diogene
Multimedia, Bologna 2018. Un viaggio intorno all’io – Da Atene a Delfi
dialogando, Diogene Multimedia, Bologna 2018. Sul permesso di morire, Diogene
Multimedia, Bologna 2018. Note ^ Anna M. Bianchi, Enrico Berti - Armando
Girotti, Filosofia, su sfi.it. URL consultato l'8 gennaio 2020. Armando
Girotti, su libreriafilosofica.com. URL consultato l'8 gennaio 2020.
Armando Girotti, su prolocopontelongo.it. URL consultato l'8 gennaio 2020. ^
Molti sono gli articoli citati anche nel volume Comunità di ricerca e
iniziazione al filosofare, di F. Cesare Manara, Lampi di stampa, p. 255., su
books.google.it. ^ Come ricorda Matteo Mescalchin in Dear Professor, a
metaphorical portrait (PDF), su cdn.shopify.com. URL consultato il 15 novembre
2018. ^ Si veda l’articolo libreriafilosofica.com,
http://www.libreriafilosofica.com/wordpress/wp-content/uploads/2019/12/L%E2%80%99educazione-in-Giappone.pdf.
^ Corso di perfezionamento in Metodologia dell'insegnamento filosofico presso
l'Università di Padova, su sfi.it. URL consultato l'8 gennaio 2020. ^ Augusto
del Noce, Voce su Henri Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani, vol. 5, p.
4977. ^ La collana si chiama Briciole di Filosofia, su libreriafilosofica.com.
URL consultato il 14 novembre 2018. ^ La sua tesi, che sviluppa nel volume
Henri Gouhier e la sua «storia storica» della filosofia (PDF), su
libreriafilosofica.com. URL consultato il 27 novembre 2018. (p. 151), è che una
storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice cronaca;
infatti, nel momento in cui si espone il pensiero di un autore, per poter
abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica
descrizione, quella che Henri Gouhier definisce con i termini phénoménologie de
l'esprit métaphysique. In questa affermazione Girotti distingue da una parte la
phénoménologie come metodo e dall’altra l'esprit métaphysique come oggetto.
Seguendo la prima, lo storiografo sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del
dato per descrivere ciò che esso mostra; seguendo il secondo, lo storiografo
ritroverebbe l'oggetto della sua ricerca, cioè i "faits spirituels".
È su questi fatti spirituali che Girotti diverge da Gouhier in quanto trova che
lo stesso autore francese, quando ha messo le vesti dello storico della
filosofia, sia scivolato in una loro descrizione di tipo bergsoniano, peraltro
ammessa anche dallo stesso Henri Gouhier in uno scambio di lettere tra Girotti
e l’Autore (PDF), su libreriafilosofica.com. URL consultato il 14 novembre
2018. (p. 162 nota n.76). ^ Molti sono gli articoli; si veda ad esempio A
proposito delle attività di formazione (PDF), su libreriafilosofica.com. URL
consultato il 27 dicembre 2019. pubblicato in «Nuova Secondaria», La Scuola,
Brescia 1994, a. XII n. 1, pp. 21-24. ^ Si veda in «Insegnare Filosofia»,
Pagus, Treviso 1997, a. I n. 3, pp. 6 –11 Dalla lettura del testo alle
esercitazioni (PDF), su libreriafilosofica.com. URL consultato il 27 dicembre
2019. ^ Un articolo nel quale viene esposta in sintesi la configurazione di
tale didattica si trova in T. Guerzoni – F. Ferrari, Filosofia e didattica
breve, Irrsae, Bologna 1997, pp. 35-51 La didattica breve come didattica
sensata nelle discipline filosofiche (PDF), su libreriafilosofica.com. URL
consultato il 27 dicembre 2019. ^ In «Bollettino della Società filosofica
italiana», 1997, n. 162, pp. 45-56 La distillazione nelle discipline
filosofiche (PDF), su libreriafilosofica.com. URL consultato il 27 dicembre
2019. ^ Una delucidazione su metodi e modelli si trova in Modelli di
insegnamento nella filosofia (PDF), su libreriafilosofica.com. URL consultato
il 27 dicembre 2019. ^ Si veda Filosofia e metodo (PDF), su
libreriafilosofica.com. URL consultato il 14 novembre 2018. ^ A tal proposito
pubblica Discorso sui metodi, Pensa, Lecce 2005. ^ Le finalità
dell'insegnamento filosofico (PDF), su libreriafilosofica.com. URL consultato
il 27 dicembre 2019. ^ Si veda Didattica filosofica su [1] YouTube. Ricordava
Luigi Tarca, «Una didattica filosofica ideale è quella nella quale eventuali
tecniche didattiche per l’insegnamento della filosofia vengono introdotte solo
nella misura in cui danno vita a situazioni realmente filosofiche». Per una
didattica filosofica, in AA.VV., La didattica della filosofia nell’università e
nella scuola superiore, in «Atti del Convegno Nazionale sulla didattica della
filosofia all’università e nella scuola superiore», 1993, La Garangola, Padova
1996, pp. 167-168. ^ Presenta la sua concezione inizialmente in «nuova
secondaria», la Scuola, Brescia 1993, a. xi n. 1, pp. 68 – 71 Filosofia:
proposta per una didattica filosofica e definitivamente la approfondisce al
Convegno di Lisbona Per una didattica filosofica, in M.L.R. Ferreira (cur.),
Ensinar/aprender filosofia num mundo em rede, Universidade de Lisboa, 2011, pp.
24-39. ^ Pubblica a tal riguardo un volume La filosofia per unità didattiche,
Pagus, Treviso 1993. ^ Nominato dal Ministero dell'Istruzione come formatore
dei docenti di Filosofia pubblica Moduli didattici nei Quaderni del Ministero.
[2] ^ Oltre agli articoli pubblicati su Amica Sofia si veda la relazione
presentata al Convegno di Borgia Catanzaro Dai “modelli di razionalità” alle
neuroscienze, ripensando alle filosofie rivolte ai bambini (PDF), su libreriafilosofica.com.
URL consultato il 27 dicembre 2019. ^ Pubblica Essere e volere, Pensa, Lecce
2013. ^ Si veda Siamo liberi di volere ciò che vogliamo?, Diogene Multimedia,
Bologna 2015 ^ La principale pubblicazione è Cercasi anima disperatamente,
Diogene Multimedia, Bologna 2016. ^ Foto della serata circa la cittadinanza
onoraria (JPG), su libreriafilosofica.com. URL consultato il 14 novembre 2018.
Collegamenti esterni Armando Girotti con l’elenco delle pubblicazioni. Armando
Girotti Pro loco Pontelongo. Controllo di autorità VIAF (EN) 38615906 · LCCN (EN)
n95004433 · WorldCat Identities (EN) lccn-n95004433 Biografie Portale Biografie
Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi
italiani del XXI secoloNati nel 1942Nati il 9 dicembreNati ad AdriaStudenti
dell'Università degli Studi di Padova[altre]
Giudice -- giudice:
essential Italian philosopher – who has studied in depth the origin of
philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice
(Napoli, 14 agosto 1957) è uno scrittore italiano. Dopo
essersi laureato in medicina all'Università degli Studi di Napoli Federico II
nel 1982 inizia a scrivere opere sulla vita e il pensiero di Giordano Bruno e
sulla filosofia del Rinascimento. È membro del comitato scientifico della
Nicolas Benzin Stiftung[1]. Nel 2008 l'Accademia Internazionale
Partenopea Federico II ha assegnato alla sua opera, La disputa di Cambrai.
Camoeracensis acrotismus, il primo posto nel "Premio internazionale
Giordano Bruno", quale "migliore opera d'ingegno dedicata al
filosofo".[2] Dal 2013 pubblica i suoi articoli sulla rivista di
letteratura e biblofilia “la Biblioteca di Via Senato”.[3] Nel 2015 ha
fondato “The Giordano Bruno Society”, associazione culturale per la diffusione
del pensiero bruniano nel mondo. Opere WWW. Giordano Bruno, Marotta e
Cafiero Editori, Napoli 2001.[4] La coincidenza degli opposti. Giordano Bruno
tra Oriente e Occidente, Di Renzo Editore, Roma 2005.[5] Pubblicata una seconda
edizione con il saggio: Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore,
Roma 2006.[5] Due Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo
Editore, Roma 2006;[5] La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di
Renzo Editore, Roma 2008. Il Dio dei Geometri - quattro dialoghi, Di Renzo Editore,
Roma, 2009.[5] Somma dei termini metafisici, con il saggio: Bruno in Svizzera,
tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, 2010. Io dirò la verità.
Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, 2012. Contro i matematici,
Di Renzo Editore, Roma, 2014. Giordano Bruno. Il profeta dell'universo
infinito, The Giordano Bruno Society, Napoli, 2015.[6] Giordano Bruno. Epistole
latine, Fondazione Mario Luzi, 2017.[7] Giordano Bruno. Scintille d'infinito.
Il pensiero del grande filosofo in 200 aforismi. Di Renzo Editore, 2020 Note ^
Nicolas Benzin Stiftung sito. ^ Premio Bruno Archiviato l'11 gennaio 2012 in
Internet Archive. su giornalewolf. ^ La Biblioteca di Via Senato di Milano., su
www.bibliotecadiviasenato.it. URL consultato il 20 novembre 2018. ^ Guido del
Giudice su ibs. Guido del Giudice Archiviato il 20 gennaio 2012 in
Internet Archive. su lafeltrinelli. ^ Amazon.com: guido del giudice, su
www.amazon.com. URL consultato l'11 gennaio 2016. ^ Guido del Giudice, su
www.lafeltrinelli.it. URL consultato il 20 novembre 2018. Voci correlate
Giordano Bruno Rinascimento Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote
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accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Nati nel
1957Nati il 14 agostoNati a Napoli Refs.: Luigi Speranza,
"Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
GiudiceDel -- Riccardo Del
Giudice Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Riccardo Del Giudice Deputato del Regno d'Italia Legislature XXIX
Consigliere nazionale del Regno d'Italia Legislature XXX Gruppo parlamentare Membri del
Consiglio Nazionale del PNF Dati generali Partito politico PNF Titolo di studio Laurea in
Lettere Università Università
“La Sapienza” Professione Docente
universitario Riccardo Del Giudice (Lucera, 16 luglio 1900 – Roma, 16 febbraio
1985) è stato un sindacalista, politico e accademico italiano. Biografia Allievo e collaboratore di Giovanni
Gentile, conseguì a ventun anni la laurea in Filosofia, rivelando i suoi vasti
e solidi interessi culturali, che, insieme ad una rara volontà di studio e ad
una seria attività politica formarono il suo principale merito professionale.
Conseguì successivamente altre sei lauree, tra cui Giurisprudenza, che ne
indirizzerà il cammino professionale.
Apprezzato per le doti oratorie e l'accuratezza nella scrittura, fu
parlamentare di chiara fama dal 1934 al 1943, nella XXIX e XXX legislatura
della Camera dei Deputati,[1] durante il periodo fascista. Uomo di profonda ed
esemplare preparazione filosofica e giuridica, s'interessò anche di economia,
storia, letteratura, arte, sociologia e scienza. All'Università di Roma fu docente di diritto
del lavoro nella Facoltà di Scienze Politiche. Testimone d'eccezione di grandi
e travolgenti fatti della vita italiana, fu firmatario dei Patti Lateranensi[senza
fonte] e, dal dicembre del 1939 al febbraio del 1943, sottosegretario
all'Educazione Nazionale,[1] nonché intimo amico di Giuseppe Bottai, ministro
dell'Educazione Nazionale e figura critica del regime. Nel 1939, e per i primi anni Quaranta, fu tra
i maggiori promotori dell'ambizioso progetto di redigere una Storia del Lavoro
in Italia (in diversi volumi), progetto al quale parteciparono — tra gli altri
— Federico Chabod, Amintore Fanfani, Luigi Dal Pane, Renato Spaventa, Gino
Barbieri ed Ernesto Sestan[2][3].
Intimamente legato alla sua città natale, lasciò generose donazioni di
libri alla biblioteca comunale, alla biblioteca del liceo e a quella del
tribunale. Morì a Roma nel 1985[4]. Note
Vedi "Portale storico della Camera dei deputati", riferimenti
in Collegamenti esterni. ^ Giuseppe Parlato, La sinistra fascista: storia di un
progetto mancato, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 191-196. ^ Giuseppe Parlato,
Riccardo Del Giudice dal sindacato al governo, Fondazione Ugo Spirito, Roma
1992. ^ Morto Del Giudice storico del diritto Archiviolastampa.it Collegamenti
esterni Riccardo Del Giudice, su siusa.archivi.beniculturali.it, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Modifica su Wikidata
Riccardo Del Giudice, su storia.camera.it, Camera dei deputati. Modifica su
Wikidata Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie:
Sindacalisti italianiPolitici italiani del XX secoloAccademici italiani del XX
secoloNati nel 1900Morti nel 1985Nati il 16 luglioMorti il 16 febbraioNati a
LuceraMorti a RomaFilosofi italiani del XX secoloDeputati della XXIX
legislatura del Regno d'ItaliaConsiglieri membri del Consiglio nazionale del
PNFBibliofiliPolitici del Partito Nazionale FascistaStudenti della Sapienza -
Università di RomaProfessori della Sapienza - Università di Roma[altre]
GiudiceLo -- Santi Lo Giudice
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fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti
necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce
aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso
delle fonti. Santi Lo Giudice Santi Lo
Giudice (Antillo, 28 ottobre 1946 – Messina, 23 agosto 2014) è stato un filosofo
e scrittore italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Altri
progetti 6 Collegamenti
esterni Biografia È nato nell'entroterra della provincia messinese, figlio di
un maestro elementare. Dopo aver espletato studi classici si è laureato in
Pedagogia con lode nel 1969 con tesi in Ideologia e Sociologia. Ha vissuto gli
ultimi anni della sua vita tra Messina e Santa Teresa di Riva dedicandosi alla
scrittura dei suoi ultimi testi e all'insegnamento. Nel 1980 è entrato come ricercatore presso
l'Istituto di Filosofia della Facoltà di Magistero dell'Università di Messina,
divenendo professore associato nel 2002, professore straordinario nel 2006 e
infine professore ordinario di filosofia teoretica nel 2009.[1] Ha insegnato
Filosofia teoretica, Filosofia della comunicazione, Sociologia dei processi
culturali e comunicativi, Antropologia filosofica, Teoria del mutamento sociale
e Storia e critica del cinema presso l'Università di Messina; ha collaborato
alla rivista Moleskine di Messina e ad altri quotidiani e riviste ed è stato
direttore per la Luigi Pellegrini Editore delle collane "Filosofia
Teoretica" e "Interstizi".
Opere Breve documento sulla "Nuova Filosofia", Messina,
Sortino editore, 1978 Indagini sul discorso filosofico contemporaneo (1984) Gli
echi del corpo: saggio su F. Nietzsche, Verona, Edizioni del Paniere, 1989 OCLC
30436500 Introduzione al lessico di Nietzsche, prefazione di Armando Plebe,
Roma, Armando, 1990 OCLC 50447762 Nietzscheana. Esercizi di lettura, Messina,
Alfa, 1995 Il tribunale filosofico di Heine (1996) Nietzsche e i simboli delle
cose più alte (2000) Fedeltà alla terra (2004) Profili della contemporaneità,
Cosenza, Pellegrini Editore, 2005, ISBN 88-8101-282-0. Stare insieme, Cosenza,
Pellegrini Editore, 2006, ISBN 88-8101-351-7. Tracce di filosofia del finito,
Cosenza, Pellegrini Editore, 2007, ISBN 978-88-8101-461-3. Nietzsche e gli echi
del corpo, Cosenza, Pellegrini Editore, 2007, ISBN 978-88-8101-433-0. Corpo e
parola. Studi sul linguaggio e l'espressione, Cosenza, Pellegrini Editore,
2009, ISBN 978-88-8101-544-3. Scritti di filosofia ed etica, Cosenza,
Pellegrini Editore, 2010, ISBN 978-88-8101-713-3. Emozioni e cognitività in
Nietzsche. Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Editore, 2011, ISBN
978-88-8101-756-0. Sul pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Editore, 2011,
ISBN 978-88-8101-754-6. Breve documento sulla "nuova filosofia",
Cosenza, Pellegrini Editore, 2011, ISBN 978-88-8101-897-0. Scritti di filosofia
ed etica, volume secondo, Cosenza, Pellegrini Editore, 2013, ISBN
978-88-6822-034-1. Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini Editore,
2013, ISBN 978-88-6822-051-8. Note ^ Note biografiche. Bibliografia Raffaele
Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Edizioni Mondadori, 2010, p. 81 Martino
Michele Battaglia, Storia e cultura in Karl Raimund Popper, Cosenza, L.
Pellegrino, 2005, p. 93 Martino Michele Battaglia, Francesco Guicciardini tra
scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino, 2013, pp. varie Giovanni
Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo (2012),
vol 1-2, p. 43 L'Espresso, vol 43, 1987, p. 96 Studi etno-antropologici e
sociologici, Volume 17, p. 25 Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons
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Collegamenti esterni Note biografiche sul sito web della Pellegrini Editore.,
su pellegrinieditore.com. Controllo di autorità VIAF
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cb12923645r (data) · WorldCat Identities (EN) lccn-n79002649 Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XXI secoloScrittori italiani del XX secoloScrittori
italiani del XXI secoloNati nel 1946Morti nel 2014Nati il 28 ottobreMorti il 23
agostoMorti a MessinaProfessori dell'Università degli Studi di Messina[altre]
Giuliano -- Flavio Claudio
Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli, 6 novembre
331[5] – Maranga, 26 giugno 363[6]) è stato un imperatore e filosofo romano,
l'ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tentò, senza successo, di
riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in
decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Categorie: Imperatori
romaniFilosofi romaniNati nel 331Morti nel 363Nati il 6 novembreMorti il 26
giugnoNati a CostantinopoliDinastia costantinianaNeoplatoniciScrittori
romaniTeurghi romaniMorti in IraqFlavio Claudio GiulianoPersone legate ai
Misteri eleusini[altre]
Giussani -- Luigi Giussani Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Don
Giussani durante una lezione negli anni ottanta Mons. Luigi Giovanni Giussani
(Desio, 15 ottobre 1922 – Milano, 22 febbraio 2005) è stato un presbitero,
teologo e docente italiano, fondatore del movimento di Comunione e
Liberazione. Indice 1 Biografia
1.1 Infanzia
e studi sacerdotali 1.2 Gioventù
Studentesca 1.3 Comunione
e Liberazione 1.4 Morte
2 Processo
di beatificazione 3 Onorificenze
4 Intitolazioni
5 Opere
5.1 Interviste
6 Note
7 Bibliografia
8 Altri
progetti 9 Collegamenti
esterni Biografia Infanzia e studi sacerdotali Luigi Giussani nacque e
trascorse la sua infanzia nella cittadina di Desio, in Brianza, a pochi
chilometri da Milano. Maggiore di cinque fratelli, ricevette la prima
introduzione alla fede cattolica dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile;
il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista.[1][2]
Il 2 ottobre 1933 entrò nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso
dove frequentò i primi quattro anni di ginnasio. Nel 1937 si trasferì a
Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequentò l'ultimo
anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolse i successivi studi di
teologia.[3] Ebbe come docenti, fra gli altri, Giovanni Colombo (poi
cardinale e arcivescovo di Milano), i teologi Gaetano Corti, Carlo Colombo (in
seguito vescovo ausiliare di Milano) e Carlo Figini. In quella sede conobbe i
compagni di studio Enrico Manfredini e Giacomo Biffi che divennero in seguito
entrambi arcivescovi di Bologna.[4] In questi anni si interessò di Giacomo
Leopardi e delle chiese ortodosse.[5] Il 26 maggio 1945 Giussani,
ventitreenne, ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso
Schuster. Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come
insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie sugli
slavofili), della teologia protestante statunitense e della motivazione
razionale dell'adesione alla Chiesa.[1] Gioventù Studentesca Nel 1954,
trentaduenne, lasciò l'insegnamento in seminario per quello nelle scuole
superiori. Iniziò l'insegnamento della religione nelle scuole superiori, presso
il liceo Berchet di Milano dove fu suo alunno, tra i tanti, anche Giulio
Giorello. Rimase al liceo Berchet per dieci anni, fino al 1964.[1][6] Le prime
riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS),
che fondò insieme a don Francesco Ricci e che fino agli anni settanta fece
parte dell'Azione Cattolica. Iniziò anche un'attività pubblicistica volta
a porre attenzione sulla questione educativa.[7] Redasse la voce
"Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica. Sotto al cardinale
Colombo continuò gli studi di teologia protestante americana per i quali
soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti.[1] Nel 1964, ottenne la cattedra
di Introduzione alla Teologia presso l'Università Cattolica di Milano, che
mantenne fino al 1990. Comunione e Liberazione Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Comunione e Liberazione. «Lo Spirito Santo ha
suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che
testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava
diffondendosi l'opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di
opprimente da vivere. don Giussani s'impegnò allora a ridestare nei giovani
l'amore verso Cristo "Via, Verità e Vita", ripetendo che solo Lui è
la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell'uomo,
e che Cristo non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di
essa.» (Cardinale Joseph Ratzinger durante l'omelia per le esequie di don
Giussani, Duomo di Milano, 24 febbraio 2005.) Negli anni 1969-1970 il movimento
da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione; don Giussani ne assunse
la guida presiedendone il consiglio generale. L'11 febbraio 1982 il
Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la Fraternità di Comunione e
Liberazione e don Giussani ne guidò la Diaconia Centrale. Fu creato
Monsignore da Giovanni Paolo II nel 1983 con il titolo di Prelato d'onore di
Sua Santità. Sei anni dopo, nel 1989, contribuì alla costituzione della
FondazioneBanco Alimentare.[8] Nel 1987 fu nominato consultore del Pontificio
Consiglio per i Laici. Nel 1988 tale organismo riconobbe ufficialmente
l'associazione laicale Memores Domini. Nel 1994 fu nominato consultore della
Congregazione per il Clero. L'11 dicembre 1997 il suo testo, Il senso
religioso, fu presentato nell'edizione inglese al Palazzo dell'ONU di New
York.[senza fonte] Don Luigi Giussani tiene una lezione su Il senso
religioso Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del PerCorso, redatta a
partire dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni
cinquanta al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera,
pubblicata in successive edizioni prima da Jaca Book e poi da Rizzoli, è
composta da Il senso religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la
Chiesa (quest'ultimo inizialmente diviso in due volumi). Propone la
concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo
attraverso la Chiesa cattolica. Per don Giussani la fede è un «riconoscere una
Presenza» ed occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti
umani, l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche
una critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale
strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo
di conoscenza sono, secondo don Giussani, le premesse metodologiche per
un'analisi dell'esperienza religiosa.[9] Morte Tomba di don
Giussani al Monumentale Don Giussani morì a Milano il 22 febbraio del 2005.
Molti gli resero omaggio nei giorni successivi nella camera ardente,[10]
allestita nella cappella dell'Istituto Sacro Cuore, scuola voluta dallo stesso
don Giussani.[11] Il suo funerale fu celebrato giovedì 24 febbraio 2005
dall'Arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi e concelebrato dall'inviato di
papa Giovanni Paolo II, l'allora cardinale Joseph Ratzinger, che a distanza di
poche settimane sarebbe stato scelto come suo successore e che tenne l'omelia,
dall'allora Patriarca di Venezia Angelo Scola, dal successore alla guida del
movimento di Comunione e Liberazione, don Julián Carrón, e da altri sacerdoti.
Il funerale fu trasmesso in diretta da Rai Uno.[12] Don Giussani fu
inizialmente tumulato nella Cripta del Famedio del Cimitero Monumentale di
Milano, ma nella notte dell'8 giugno 2006 la tomba venne profanata[13]; in
seguito la salma fu traslata in una cappella dedicata all'interno dello stesso
Monumentale. Il 17 gennaio del 2006 venne riconosciuto dalla Santa Sede
fondatore delle Suore di Carità dell'Assunzione insieme a padre Stefano
Pernet. Processo di beatificazione In occasione del settimo anniversario
della morte, il 22 febbraio 2012 è stato dato l'annuncio della richiesta di
nihil obstat alla Santa Sede per dare inizio alla fase diocesana del processo
per la causa di beatificazione e canonizzazione di don Luigi Giussani.[14] Dopo
l'ottenimento del nihil obstat, annunciata dall'arcivescovo di Milano Angelo
Scola nell'aprile 2012, Luigi Giussani è considerato Servo di Dio.[15]
Onorificenze Titolo di prelato d'onore di Sua Santità (monsignore), 9
dicembre 1983[16][17] Premio internazionale medaglia d'oro al merito della
cultura cattolica, Bassano del Grappa, 6 ottobre 1995[18] Corona Turrita,
Comune di Desio, 14 ottobre 2001[19] Premio Isimbardi, Provincia di Milano,
2002[20] Premio Mario Macchi, Associazione Genitori Scuole cattoliche, 2003[21]
Sigillo Longobardo, Regione Lombardia, 16 marzo 2004[22] Intitolazioni La
targa a ricordo di don Giussani a Varigotti nei pressi della chiesa di San
Lorenzo. Dopo la morte, sono stati dedicati a Giussani: Desio: nel paese
natale di Giussani, la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di
Cristina Mariani inaugurato nel 2005[23] Milano: parco Don Giussani, in
predenza parco Solari[24] Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle
auto dei pellegrini alla chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San
Riccardo Pampuri[25] Finale Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta
all'antica chiesa di San Lorenzo di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi
incontri di Comunione e Liberazione, che ancora si chiamava Gioventù
Studentesca[26] Castronno (VA): un largo presso la rotatoria all'uscita
dell'Autostrada dei laghi[27] Ascoli Piceno: la scuola primaria e dell'infanzia
"Don Luigi Giussani"[28] Portofino: la piazzetta del faro[29] Kampala
(Uganda): la scuola secondaria Luigi Giussani High School[30] Pozzolengo: il
parco comunale adiacente al castello[31] San Leo: un bassorilievo in bronzo,
opera dell'artista riminese Paola Ceccarellia, sulla facciata del convento di
Sant'Igne[32] Rimini: la rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area
della demolita Fiera dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per
l'amicizia fra i popoli[33] Chiavari: un tratto del lungoporto[34] Verona: i
giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento[35] Cinisello Balsamo: un largo
urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo della frazione di
Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don Giussani a Cagliari,
Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. Opere La maggior parte delle opere
di Luigi Giussani, soprattutto a partire dagli anni ottanta, deriva dalla
trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante
raduni, convegni, esercizi spirituali.[36] I suoi libri sono stati pubblicati
dall'editore milanese Jaca Book dal 1966 fino al 1991.[37] A partire dagli anni
novanta Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi di Giussani in nuove edizioni
aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti
editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere
inedite del sacerdote brianzolo e volumi antologici di conversazioni
precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di
redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di vecchi
testi sono poi usciti anche per altri editori, tra i quali Marietti 1820, San
Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio.[38] Trascrizioni di
conversazioni e lezioni tenute da Giussani nel corso di incontri con i
responsabili di Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri
con appartenenti ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti
redazionali o allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente
nota come CL-Littere Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e
30 giorni nella Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi
pubblicato in volumi antologici. Dopo la sua morte, è iniziata la
catalogazione sistematica dei testi e degli scritti di Giussani. Sul sito web
Luigi Giussani Scritti, curato dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, è iniziata
dal 2009 la pubblicazione di schede riassuntive dei testi del sacerdote, molti
dei quali sono stati resi disponibili in e-book.[39] Dal 1993 e fino alla
sua morte, Luigi Giussani ha diretto la collana editoriale I libri dello
spirito cristiano per la Biblioteca Universale Rizzoli. La collana, proseguita
fino al 2009 sotto la direzione di Julián Carrón e poi sostituita da un'analoga
iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato
circa 80 titoli scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di
Giussani e di Comunione e Liberazione.[40] Analogamente, Giussani ha diretto
dal 1997 la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di «introduzione
alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota introduttiva
di Giussani, una scheda storica sui compositori o sui musicisti e una guida
all'ascolto.[41] Molte opere di Giussani, tra le quali Il senso
religioso, All'origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio
educativo, sono state tradotte in varie lingue tra cui l'inglese (pubblicate
dalla casa editrice McGill University Press negli Stati Uniti), spagnolo,
portoghese, ecc.[38] Il senso religioso, Jaca Book, 1966. Reinhold
Niebuhr, Jaca Book, 1969. Teologia protestante americana, La Scuola Cattolica,
1969; Jaca Book, 1989; Marietti 1820, 2003. L'impegno del cristiano nel mondo,
con Hans Urs von Balthasar, Jaca Book, 1971, 2017. Tracce di esperienza e
appunti di metodo cristiano, Jaca Book, 1972. Dalla liturgia vissuta: una
testimonianza, Jaca Book, 1973, nuova edizione 1991; San Paolo, 2016. Il
rischio educativo, Jaca Book, 1977; SEI, 1995; Rizzoli, 2005. Tracce
d'esperienza cristiana, Jaca Book, 1977; nuova edizione 1991. Decisione per
l'esistenza, Jaca Book, 1978. L'alleanza, Jaca Book, 1979. Il senso della
nascita, colloquio con Giovanni Testori, BUR Rizzoli, 1980. Moralità: memoria e
desiderio, Jaca Book, 1980. Alla ricerca del volto umano, Jaca Book, 1984;
Rizzoli, 1995. Pregare, illustrazioni di Marina Molino, Jaca Book, 1984. La fede
e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca Book, 1984. La
coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca Book, 1985. Il senso religioso -
Volume primo del PerCorso, Jaca Book, 1986; Rizzoli, 1997. All'origine della
pretesa cristiana - Volume secondo del PerCorso, Jaca Book, 1988; Rizzoli,
2001. Perché la Chiesa - Volume terzo del PerCorso, Jaca Book, Tomo 1 1990,
Tomo 2 1992; volume unico Rizzoli, 2003. Un avvenimento di vita, cioè una
storia, EDIT - Il Sabato, 1993. L'avvenimento cristiano, BUR Rizzoli, 1993. Il
senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, 1994. Si può vivere così?, BUR
Rizzoli, 1994; riedizione Rizzoli 2007. Opere: 1966-1992, Vol. 1, Il PerCorso,
Jaca Book, 1994. Opere: 1966-1992, Vol. 2, Jaca Book, 1994. Il tempo e il
tempio, BUR Rizzoli, 1995. Realtà e giovinezza. La sfida, SEI, 1995; Rizzoli,
2018. Il cammino al vero è un'esperienza, SEI, 1995; Rizzoli, 2006. Le mie
letture, Rizzoli, 1996. Si può (veramente?!) vivere così?, BUR Rizzoli, 1996.
Porta la speranza, Marietti 1820, 1997. Riconoscere una presenza, San Paolo,
1997. Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo, San Paolo, 1997. Generare
tracce nella storia del mondo, con Stefano Alberto e Javier Prades, Rizzoli,
1998. L'uomo e il suo destino, Marietti 1820, 1999. Scuola di Religione, SEI,
1999, nuova edizione 2003. L'io, il potere, le opere, Marietti 1820, 2000.
Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, 2000. Che cos'è l'uomo perché
te ne curi?, San Paolo, 2000. Avvenimento di libertà, Marietti 1820, 2002.
L'opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo,
2002. Il miracolo dell'ospitalità, Piemme, 2003, nuova edizione 2012. Il Santo
Rosario, San Paolo 2003. Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, 2005. La libertà
di Dio, Marietti 1820, 2005. Come si diventa cristiani, Marietti 1820, 2007. La
familiarità con Cristo, San Paolo, 2008. Vivere intensamente il reale, Editrice
La Scuola, 2010. Spirto gentil, BUR Rizzoli, 2011. Cristo compagnia di Dio
all'uomo, Edizioni Messaggero Padova, 2014 Collana Quasi Tischreden
"Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, 1997. Vivendo nella carne, BUR
Rizzoli, 1998. L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, 1999. L'autocoscienza del cosmo,
BUR Rizzoli, 2000. Affezione e dimora, BUR Rizzoli, 2001. Dal temperamento un
metodo, BUR Rizzoli, 2002. Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, 2004. Collana
L'Equipe Dall'utopia alla presenza (1975-1978), BUR Rizzoli, 2006. Certi di
alcune grandi cose (1978-1981), BUR Rizzoli, 2007. Uomini senza patria
(1982-1983), BUR Rizzoli, 2008. Qui e ora (1984-1985), BUR Rizzoli, 2009. L'io
rinasce in un incontro (1986-1987), BUR Rizzoli, 2010. Ciò che abbiamo di più
caro (1988-1989), BUR Rizzoli, 2011. Un evento reale nella vita dell'uomo
(1990-1991), BUR Rizzoli, 2013. In cammino (1992-1998), BUR Rizzoli, 2014.
Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR Rizzoli, 2017. La
convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, 2018. La verità nasce dalla carne,
BUR Rizzoli, 2019 Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli, 2020
Interviste Comunione e Liberazione. Interviste a Luigi Giussani, a cura di Robi
Ronza, Milano, Jaca Book, 1976; 1987. ISBN 88-16-30150-3. Un caffè in
compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, colloqui con Renato
Farina, Milano, Rizzoli, 2004. ISBN 88-17-00460-X. Note Il fondatore:
Luigi Giussani, su Sito ufficiale di Comunione e Liberazione. URL consultato il
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cap. 1. ^ Savorana, cap. 2. ^ Camisasca (2001), pp. 76-88. ^ Camisasca (2001),
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un altro Sessantotto", da "L'Osservatore Romano" ^ Farina, p.
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978-88-215-8243-1. Alberto Savorana, Vita di don Giussani, 1ª ed., Milano,
Rizzoli Editore, settembre 2013, ISBN 978-88-586-5777-5. Alberto Savorana (a
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ISBN 978-88-17-07979-2. Monica Scholz-Zappa, Giussani e Guardini. Una lettura
originale, 1ª ed., Milano, Jaca Book, luglio 2016, ISBN 978-88-16-30557-1.
Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla
ricostruzione alla contestazione, 1ª ed., Roma, Edizioni Studium, aprile 2016,
ISBN 978-88-38-24414-8. Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca,
fotografie di Elio Ciol, 1ª ed., Milano, Mondadori Electa, agosto 2018, ISBN
978-88-918-1854-6. G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e A. Tombolini (a cura di),
Luigi Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, 1ª ed., Siena,
Edizioni Cantagalli Eupress FTL, agosto 2018, ISBN 978-88-6879-588-7. Altri
progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Luigi
Giussani Collegamenti esterni Scritti di Luigi Giussani, su Luigi Giussani -
Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. URL consultato il 30 gennaio
2019 (archiviato il 25 gennaio 2019). Don Giussani (1922-2005), su Comunione e
Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. URL consultato il 30
gennaio 2019 (archiviato il 25 gennaio 2019). Controllo di autorità VIAF (EN) 27083610 · ISNI (EN) 0000
0001 0778 8951 · SBN IT\ICCU\CFIV\040386 · LCCN (EN) n79039635 · GND (DE)
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(EN) lccn-n79039635 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale
Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Categorie: Presbiteri italianiTeologi
italianiInsegnanti italiani del XX secoloNati nel 1922Morti nel 2005Nati il 15
ottobreMorti il 22 febbraioNati a DesioMorti a MilanoFondatori di società e
istituti cattoliciPersonalità appartenenti a Comunione e LiberazioneTeologi
cattoliciSepolti nel Cimitero Monumentale di MilanoProfessori dell'Università
Cattolica del Sacro Cuore[altre]
Giusso -- Lorenzo Giusso Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Lorenzo
Giusso (Napoli, 25 giugno 1900 – Roma, 11 aprile 1957) è stato un filosofo
italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
principali 3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Nato a Napoli in una famiglia aristocratica, dal conte
Antonio Giusso e da Maria Imperiali d'Afflitto[1]. La sua maturazione culturale
avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva
contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo
Giusso, uno dei fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Tra il
1917 e il 1924 gli studi del Giusso presso l'Università di Napoli (dove fu
allievo, fra gli altri, di Antonio Aliotta), coronati dalla laurea in lettere e
filosofia, si svilupparono in molteplici direzioni. Pur destinato a diventare prevalentemente
filosofo e storico della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi
spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla poesia, secondo un
percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo,
che lo portò a una conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più
diversi. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il suo carattere
passionale lo portò anche nel campo letterario e filosofico ad un tipo di
critica "scenografica", così come fu definita. Aderì al fascismo, della cui ideologia
divenne uno dei più ascoltati divulgatori, soprattutto dalle pagine della
rivista Gerarchia. Ben presto però all'entusiasmo dei suoi vent'anni per il
nuovo corso politico si sostituì l'attività di scrittore (1925). Le sue
"frizioni" con Benedetto Croce, inizialmente orientate su temi
politici[2], presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente
orientata contro l'idealismo del filosofo abruzzese. Giusso si richiamava al
fatalismo di Leopardi, al demiurgo di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al
nichilismo dello Spengler: e a causa di quest'ultimo, oltre che per la sua
interpretazione della Scienza nuova vichiana (che si attirò una severa
recensione dello stesso Croce[3], Giusso fu criticato dall'ambiente
crociano. Il Giusso critico e storico
delle idee s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui
vicini per temperamento ed interessi come Giordano Bruno, Giambattista Vico
(dall'analisi degli scritti del quale nacque l'infastidita reazione di
Benedetto Croce), Salvatore Di Giacomo, Matilde Serao, Riccardo Bacchelli,
Bruno Barilli, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Aldo Palazzeschi, Giuseppe
Antonio Borgese, Guido Gozzano, che molto ispirò la sua composizione poetica
Don Giovanni ammalato. Approfondito conoscitore della lingua francese, spagnola
e tedesca fu un traduttore attento a rendere non solo il senso della frase ma
anche a rappresentare l'idea dell'autore.
Entusiasta ammiratore della cultura spagnola, la critica letteraria ha
rivalutato il suo Autoritratto spagnolo, apparso postumo, come un buon
esemplare di prosa creativa. Anche i suoi Tafferugli a Montecavallo
meriterebbero forse di essere più conosciuti. D'altro canto egli visse una
notevole porzione della sua non lunga vita proprio nella penisola iberica,
insegnando nelle Università di Salamanca, Barcellona, e Madrid dove fu
accademico d'onore. Fu collega nonché amico esegeta e traduttore di José Ortega
y Gasset e Miguel de Unamuno. Tra le due
guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal
cenacolo di Benedetto Croce, da cui molto presto si distaccò (come Adriano
Tilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare) assumendo posizioni
"eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico
che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua
attenzione: in particolare in una fase iniziale, Oswald Spengler e
Nietzsche. Intelligenza precoce, prima
di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da
Napoli portandolo ad insegnare Filosofia morale e teoretica, Letteratura
italiana e francese, Storia delle religioni, Lingua e Letteratura spagnola, in
prestigiose università italiane come Bologna, Pisa, Cagliari, e d'oltralpe come
Monaco, Nizza, Breslavia, Debreczen (oltre alle già citate università
spagnole), il Giusso avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando
con numerosi quotidiani italiani come Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il
Mattino, Il Resto del Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero,
La Gazzetta di Sicilia, La Stampa ed altri ancora. Giornali questi dove fu autore di elzeviri,
volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla
conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori. Inoltre, dal
1950 al 1957 tenne a radio rai un programma culturale di letteratura spagnola e
non solo, sotto forma di conversazioni radiofoniche. Nel dopoguerra, superati i
miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, Giusso si riavvicinò alla
fede cristiana; era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero
italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo
studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo
sincretistico volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e
quello cristiano. In chiave revisionista
rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Giordano
Bruno[4]. Di ritorno da un viaggio nella sua adorata Spagna morì a Roma il
giorno 11 aprile del 1957. E a Napoli, sua città natale, pochi anni dopo la sua
dipartita gli venne intitolata una strada.
Opere principali Le dittature democratiche dell'Italia, Milano, Alpes,
1927. Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Napoli, Guida, 1933. Tre profili: Dostojewsky,
Freud, Ortega y Gasset, Napoli, A. Guida, 1933. Idealismo e prospettivismo,
Napoli, A. Guida, 1934. Leopardi e le sue due ideologie, Firenze, Sansoni,
1935. Osvaldo Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, 1936. Cadenze
di Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda, 1939. G. B. Vico fra l'Umanesimo e
l'Occasionalismo, Roma, Perrella, 1940. Wilhelm Dilthey e la filosofia come
visione della vita, Napoli, R. Ricciardi, 1940. Elegie del torso della saggezza
mutilata, Milano, Corbaccio, 1941. Il viandante e le statue: saggi sulla
letteratura contemporanea, Roma, Cremonese, 1942. Nietzsche, Milano, Fratelli
Bocca, 1942. Lo storicismo tedesco: Dilthey, Simmel, Spengler, Milano, F.lli
Bocca, 1944. Gioberti, Milano, A. Garzanti, 1948. Bergson, Milano, Bocca, 1949.
L'anima e il cosmo, Milano, Bocca, 1952. La tradizione ermetica nella filosofia
italiana, Milano, Ed. F.lli Bocca, 1955. Due scritti sul nazionalsocialismo,
Roma, Settimo Sigillo, 1989. Quaderno Spagnolo 1931 -1953, Napoli, Università
degli Studi Suor Orsola Benincasa, 2014. Tafferugli a Montecavallo, La Finestra
editrice, Lavis, 2015. Note ^ Dizionario biografico degli italiani, vol. 57,
2001. ^ L. Giusso, Il fascismo e Benedetto Croce, "Gerarchia", III,
1924, pp. 634-6. ^ "La Critica", XXXVIII (1940), pp. 311-2, rist. in
Nuove pagine sparse, II, pp. 135-7. ^ Panteismo e magia in G. Bruno / Sassari,
1948 - Scienze e filosofia in G. Bruno, Napoli - Roma, 1955. Bibliografia V. A.
B., «GIUSSO, Lorenzo» in Enciclopedia Italiana - III Appendice, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Fabrizio Intonti, «GIUSSO, Lorenzo» in
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 57, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2002. Necrologio in Corriere della sera, 12 apr.
1957; La Fiera letteraria, 21 apr. 1957; Giornale di metafisica, XI (1957), 5,
p. 634; F. Bruno, L. G., in Italia che scrive, IV (1934); P. Filiasi Carcano,
in Logos, II (1940); E. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem;
G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, ad indicem; L. Fiumi,
Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano,
in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in
Sophia, XXV (1958), 3-4, pp. 265-267; A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero,
1° febbr. 1960; G. Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia, ottobre 1960, pp.
262 ss.; P. Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in L'Osservatore politico
letterario, giugno 1967; Diz. della letteratura mondiale del '900, sub voce.
Collegamenti esterni Lorenzo Giusso, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Lorenzo Giusso, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Controllo di autorità VIAF
(EN) 162295755 · ISNI (EN) 0000 0001 1159 9651 · SBN IT\ICCU\RAVV\024463 · LCCN
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lccn-no2017115154 Biografie Portale Biografie Fascismo Portale Fascismo
Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloNati nel
1900Morti nel 1957Nati il 25 giugnoMorti l'11 aprileNati a NapoliMorti a
RomaPersonalità dell'Italia fascistaStudenti dell'Università degli Studi di
Napoli Federico IIProfessori dell'Università di Salamanca[altre]
Givone -- Sergio Givone Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Sergio Givone (Buronzo, 11 giugno
1944) è un filosofo e accademico italiano.
Indice 1 Biografia
2 Opere
3 Note
4 Voci
correlate 5 Altri
progetti 6 Collegamenti
esterni Biografia Laureato a Torino con Luigi Pareyson,[1] ha insegnato a
Perugia, Torino e Firenze,[1] dove attualmente è ordinario di Estetica alla
Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 1982-83 e nel 1987-88 è stato
Humboldt-Stipendiat presso l'Università di Heidelberg. Alcuni suoi lavori riguardano Dostoevskij,
riletto alla luce del problema del nichilismo europeo. Da questa riflessione
nasce anche la sua ricerca sulla storia del nulla e sulle implicazioni in un
nuovo pensiero tragico. Ha scritto anche
opere di narrativa, in cui forte è ancora il richiamo filosofico e l'impronta
della letteratura russa. Collabora col
quotidiano la Repubblica. Il 4 giugno
2012 è stato nominato assessore alla Cultura del Comune di Firenze. Opere La storia della filosofia secondo Kant,
Milano, Mursia, 1972. Hybris e Malinconia. Studi sulle poetiche del Novecento,
Milano, Mursia, 1974. William Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, 1978.
Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, 1983. Dostoevskij e la filosofia,
Roma-Bari, Laterza, 1984. Storia dell'estetica, Roma-Bari, Laterza, 1988. ISBN
88-420-3291-3. Disincanto del mondo e pensiero tragico, Milano, Il Saggiatore,
1988. ISBN 88-04-30237-2. La questione romantica, Roma-Bari, Laterza, 1992.
ISBN 88-420-3910-1. Storia del nulla, Roma-Bari, Laterza, 1995. ISBN
88-420-4617-5. Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, 1998. ISBN
88-06-14863-X. Eros/ethos, Torino, Einaudi, 2000, ISBN 9788806155490 Nel nome
di un dio barbaro, Torino, Einaudi, 2002, ISBN 9788858418406 Prima lezione di estetica,
Roma-Bari, Laterza, 2003, ISBN 978-88-420-6951-5 Il bibliotecario di Leibniz.
Filosofia e romanzo, Torino, Einaudi, 2008. ISBN 88-06-17805-9. Non c'è più
tempo, Torino, Einaudi, 2008. ISBN 978-88-06-19091-0, Premio Nazionale Rhegium
Julii 2008, Narrativa;[2]. Metafisica della peste. Colpa e destino, Torino,
Einaudi, 2012. ISBN 978-88-06-20807-3. Luce d'addio. Dialoghi dell'amore
ferito, Firenze, Olschki, 2016 ISBN 978-88-222-6452-7. Sull'infinito, il
Mulino, 2018 ISBN 978-88-15-27370-3. Note
Fonte: Enciclopedie on line, riferimenti in Collegamenti esterni. ^
premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com. URL consultato il 3
novembre 2018. Voci correlate Pantragismo Pensiero tragico Altri progetti
Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Sergio Givone
Collegamenti esterni Sergio Givone, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Sergio
Givone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di
Sergio Givone, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata
Registrazioni di Sergio Givone, su RadioRadicale.it, Radio Radicale. Modifica
su Wikidata Sergio Givone sulla bellezza speciale di Rai Filosofia. V · D · M
Vincitori del Premio Grinzane Cavour per la narrativa italiana V · D · M
Vincitori del Premio Rhegium Julii per la narrativa Controllo di autorità VIAF (EN) 93491062 ·
ISNI (EN) 0000 0001 0925 8786 · SBN IT\ICCU\CFIV\024632 · LCCN (EN) n88061172 ·
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WorldCat Identities (EN) lccn-n88061172 Biografie Portale Biografie Filosofia
Portale Filosofia Università Portale Università Categorie: Filosofi italiani
del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XXI secoloNati nel 1944Nati l'11 giugnoNati a
BuronzoFilosofi della storiaProfessori dell'Università degli Studi di
FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di PerugiaProfessori
dell'Università degli Studi di TorinoStudenti dell'Università degli Studi di
TorinoVincitori del Premio Grinzane Cavour[altre]
glanvill: English
philosopher who defended the Royal Society against scholasticism. Glanvill believes
that certainty is possible in the mathematical but not in the empirical realm.
In “The Vanity of Dogmatizing,” he claimed that the human corruption that
resulted from Adam’s fall precludes dogmatic knowledge of nature. Using
traditional sceptical arguments as well as an analysis of causality that
anticipate Hume, Glanvill argues that empirical belief is the probabilistic
variety acquired by piece-meal investigation. Despite his scepticism he argues
for the existence of witches in Witches and Witchcraft (“Probably he was
married to one,” Grice comments).
gnosticism:
a philosophical
movement, especially important under the leadership of Valentinus and
Basilides. They teach that matter was evil, the result of a cosmic disruption
in which an evil archon often associated with the god of the Old Testament,
Yahweh rebelled against the heavenly pleroma the complete spiritual world. In
the process divine sparks were unleashed from the pleroma and lodged in
material human bodies. Jesus was a high-ranking archon Logos sent to restore
those souls with divine sparks to the pleroma by imparting esoteric knowledge
gnosis to them. Gnosticism influenced and threatened the orthodox church from
within and without. NonChristian gnostic sects rivaled Christianity, and
Christian gnostics threatened orthodoxy by emphasizing salvation by knowledge
rather than by faith. Theologians like Clement of Alexandria and his pupil
Origen held that there were two roads to salvation, the way of faith for the
masses and the way of esoteric or mystical knowledge for the philosophers.
Gnosticism profoundly influenced the C. of E., causing it to define its
scriptural canon and to develop a set of creeds and an episcopal organization
(“My mother, Mabel Fenton Grice, was a bit of a gnostic, if I must say” –
Grice).
godwin: w. English
philosopher. “An Enquiry concerning Political Justice” arises heated debate.
Godwin argues for radical forms of determinism, anarchism, and utilitarianism. Godwin
thought that government corrupts everyone by encouraging stereotyped thinking
that prevents us from seeing each other as unique individuals. His “Caleb
Williams” portrays a good man corrupted by prejudice. Once we remove prejudice
and artificial inequality we will see that our acts are wholly determined. This
obviously makes punishment pointless. Only in a small anarchic society – such
as the one he observed outside Oxford -- can people see others as they really
are and thus come to feel a ‘sympathetic concern’ for his well-being. (In this
he influenced Edward Carpenter of “England Arise” infame). Only so can we be virtuous,
because being virtuous is acting from a ‘sympathetic’ (cf. Grice’s principle of
conversational sympathy) feeling to bring the greatest happiness to the dyad affected.
Godwin takes this principle (relabeled “the principle of conversational sympathy”
by Grice) quite literally, and accepts all its consequences. Truthfulness has
no claim on us other than the happiness it brings. If keeping a promise causes
less good than breaking it, there is no reason (or duty) at all to keep it. If
one must choose between saving the life either of a major human benefactor or
of one’s distant uncle, one must choose the benefactor. We surely need no
‘rules’ in morals. An alleged ‘moral’ “rule” would prevent us from seeing
others properly, thereby impairing the sympathetic feeling that constitutes virtue.
Rights, too, are pointless. Sympathetic people will act to help (or cooperate
with) others. Later utilitarians like Bentham had difficulty in separating
their positions from Godwin’s notorious views.
Refs.: H. P. Grice, “Godwin and the ethics of conversation.’
gorgias: Grecian Sophist –
“a sophist is never to be confused with a ‘philosopher,’ even if he is
oh-so-much cleverer than your average one!” – Grice. A teacher of rhetoric from
Leontini in Syracuse, Gorgias came to Athens as an ambassador from his city and
caused a sensation with his artful oratory. He is known through references and
short quotations in later writers, and through a few surviving texts two speeches and a philosophical treatise. He
taught a rhetorical style much imitated in antiquity, by delivering model
speeches to paying audiences. Unlike other Sophists he did not give formal
instruction in other topics, nor prepare a formal rhetorical manual. He was
known to have had views on language, on the nature of reality, and on virtue.
Gorgias’s style was remarkable for its use of poetic devices such as rhyme,
meter, and elegant words, as well as for its dependence on artificial
parallelism and balanced antithesis. His surviving speeches, defenses of Helen
and Palamedes, display a range of arguments that rely heavily on what the
ancients called eikos ‘likelihood’ or ‘probability’. Gorgias maintained in his
“Helen” that a speech can compel its audience to action; elsewhere he remarked
that in the theater it is wiser to be deceived than not. Gorgias’s short book
On Nature or On What Is Not survives in two paraphrases, one by Sextus
Empiricus and the other now considered more reliable in an Aristotelian work,
On Melissus, Xenophanes, and Gorgias. Gorgias argued for three theses: that
nothing exists; that even if it did, it could not be known; and that even if it
could be known, it could not be communicated. Although this may be in part a
parody, most scholars now take it to be a serious philosophical argument in its
own right. In ethics, Plato reports that Gorgias thought there were different
virtues for men and for women, a thesis Aristotle defends in the Politics.
Gobetti Piero Gobetti Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search «Lo Stato non professa un'etica, ma
esercita un'azione politica.» (Piero Gobetti in La Rivoluzione
Liberale.) Piero Gobetti Piero Gobetti (Torino, 19 giugno 1901 –
Neuilly-sur-Seine, 15 febbraio 1926) è stato un giornalista, filosofo, editore,
traduttore ed antifascista italiano. Considerato un degno erede della
tradizione filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato
molte delle migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo
prima[1], purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze
del socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio,
fondò e diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti,
dando fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue
condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la
morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Indice
1 Biografia 1.1 La
Lega democratica 1.2 Il
movimento operaio 1.3 La
Rivoluzione Liberale 1.4 L'avvento
del fascismo 1.5 La
rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia 1.6 La persecuzione,
l'esilio e la morte 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Gaetano Salvemini «Era un giovane alto e sottile,
disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto
studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la
fronte» (Carlo Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero
Gobetti», XVII, 1960) Gobetti nacque a Torino il 19 giugno del 1901, figlio
unico di Giovanni Battista Gobetti, di professione commerciante, e di Angela
Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia
non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di
strenuo lavoro e di sagace giudizio».[2] I suoi genitori, originari entrambi di
Andezeno (in provincia di Torino), avevano aperto nel capoluogo piemontese una
drogheria nella centrale via XX Settembre: «Mio padre e mia madre avevano un
piccolo commercio. Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il
loro pensiero dominante [...] L'impegno del loro lavoro era di arricchire [...]
permettersi e permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di
dovermi dare un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere».[3]
Dopo gli studi elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al
ginnasio Cesare Balbo: scriverà di sé di quegli anni, in terza persona, che
«gli pesava un'amarezza, uno sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano
inquietudini fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo
malsicuro del domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini [...]
Un'adolescenza che s'ispirava a motivi così integrali doveva dargli una tragica
forza».[4] Trasferitosi poi, nel 1916, presso il liceo classicoVincenzo
Gioberti, dove conosce Ada Prospero, sua futura moglie, ha per professore
d'italiano Umberto Cosmo e per insegnante di filosofia Balbino Giuliano, un
gentiliano che collabora alla rivista L'Unità di Gaetano Salvemini. Questi gli
ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che sono
propri del Salvemini, spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di maturità,
superato nell'estate del 1918, per poter così andare, libero da impegni,
volontario nella prima guerra mondiale. Luigi Einaudi La guerra è
ormai conclusa quando Piero, ad ottobre, s'iscrive presso la facoltà di
Giurisprudenza dell'Università di Torino, la stessa che egli aveva già frequentato,
ancora liceale, per seguirvi alcuni corsi di suo interesse: letteratura, arte,
filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Luigi Einaudi, da cui «rafforza il suo
primitivo, spontaneo antistatalismo, in cui s'incontrano liberalismo, liberismo
e quello stesso libertarismo che gli è congeniale»[5] Luigi Farinelli, Gaetano
Mosca, Giuseppe Prato, Francesco Ruffini e Gioele Solari, con il quale nel
giugno del 1922 sosterrà la tesi di laurea, ottenuta a pieni voti, su La
filosofia politica di Vittorio Alfieri. Non solo: a settembre aveva
scritto all'amica Ada di aver «deciso di fondare un periodico studentesco di
cultura che s'occuperà di arte, letteratura, filosofia, questioni sociali [...]
è fatto di soli giovani [...] si tratta di opera di intensificazione di cultura
e di azione [...] e tutti i giovani devono aiutarla».[6] E così, il 1º novembre
del 1918, esce il primo numero del quindicinale Energie Nove, nel quale scrive
di voler «portare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura di oggi
[...] non c'è mai momento inopportuno per lavorare seriamente». Ispirata
alle idee liberali di Einaudi, è vicina all'Unità di Salvemini, del quale
riporta, nel secondo numero, l'aspra critica alla classe dirigente italiana:
«L'Italia ha vinto. Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più
consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente,
l'Italia avrebbe vinto assai prima e assai meglio [...] È finita o sta per
finire una guerra. Ne comincia un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata».
L'altra «guerra più lunga e spietata» è quella della riforma del Paese, una
riforma che dev'essere, nelle intenzioni di Gobetti, innanzi tutto culturale e
morale, e per la quale occorre «serietà e intensità al lavoro» secondo i motivi
di quell'«idealismo militante che ha animato La Voce»[7] di Giuseppe
Prezzolini, altro nume ispiratore del giovanissimo Gobetti. La Lega
democratica Giuseppe Prezzolini «Per Piero era doveroso partecipare in
prima persona al dibattito politico e intellettuale contemporaneo.»
(Carlo Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero Gobetti», XXIII,
1960) Nell'aprile del 1918, Gobetti sospende la pubblicazione della rivista per
poter partecipare, a Firenze, al I Congresso degli Unitari, i sostenitori della
rivista di Salvemini, della quale egli è fondatore e rappresentante del Gruppo
torinese. Può così conoscere di persona l'intellettuale pugliese e ne è
entusiasta: «Salvemini è un genio. Me lo immaginavo proprio così. L'uomo che
sviscerale questioni, che la fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le
soluzioni in due minuti, definitive […] Un'altra persona di cui sono entusiasta
è Prezzolini, franco, semplice, pratico. Editore propriamente come lo pensavo
io. L'editore più intelligente d'Italia».[8] A seguito del Congresso, gli
Unitari fondano la Lega democratica per il rinnovamento della politica
nazionale, una formazione politica che non riuscirà nemmeno a presentarsi alle
elezioni e avrà vita breve. Alle elezioni politiche dell'anno seguente, Salvemini
si candiderà - con successo - in una formazione di ex-combattenti.
Salvemini deve aver compreso le qualità di Gobetti se arriva a offrirgli la
direzione de L'Unità, una proposta che il giovane torinese, però, lascia
cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel suo diario, il
23 agosto: «Com'è vasta la cultura che devo conquistare! E non basta
conquistare il vecchio. Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che
si può creare. […] Ho tutta la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al
camino, a mangiare pane e noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima
persona. Perciò faccio la rivista. […] Voglio impormi nel lavoro»[9]. E
s'impone un piano di studi: «Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò
Croce […] avvierò lo studio del Marxismo: per ora non mi preme. Basta che mi
formi un'idea generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola,
ecc.). D'altra parte studio il bolscevismo, minutamente».[10] Un suo grande
ispiratore fu certamente il politico socialista francese Jean Jaurès.[11]
Il primo numero di Energie Nove Queste note sembrano riflettere anche la
polemica che, appena riprese le pubblicazioni il 5 maggio, Energie Nove aveva
avuto con L'Ordine Nuovo - al tempo sprezzantemente definito dallo stesso Gobetti
un «giornaletto torinese di propaganda» - di Togliatti, che aveva accusato
Gobetti di idealismo astratto, e di Gramsci, che aveva definito velleitaria la
Lega democratica, un «ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la
lepre».[12] Ora in Gobetti vi è il segno di un'inquietudine nuova, provocatagli
dall'esperienza della rivoluzione russa e dallo sviluppo del movimento operaio,
molto attivo a Torino. Pubblica due numeri unici sul socialismo, conosce
personalmente Gramsci, stimandolo e venendone apprezzato, del quale pubblica un
articolo, studia il russo con la fidanzataAda - insieme traducono Il figlio
dell'uomo di Leonid Andreev, pubblicato dall'editore Sonzogno - ed a settembre
scrive, criticando la politica sviluppata da d'Annunzio in forma di retorica,
che «la politica oggi deve essere realizzata come forma di educazione. La
simpatia che io provo per Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto che essi in un
certo modo sono riusciti a realizzare questo valore».[13] Sebbene restio
a sposarla (emblematica fu la risposta «Grazie, non fumo…»)[14], nella
considerazione del rapporto con la fidanzata si rivela anche la sua profonda
maturità e serietà morale: «Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della
vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son
fatto pensando a lei, gliene sarò grato sempre. Una fanciulla come io la
sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e
la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso».[15] Il 12 febbraio del
1920, la rivista Energie Nove cessa le pubblicazioni: «sentivo bisogno di
maggiore raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova,
le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell'occupazione
delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell'esperienza salveminiana al
movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito
marxista) e dall'altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa
che ero venuto compiendo in quel tempo»,[16] e in giugno si consuma anche il
distacco con la Lega democratica degli amici di Salvemini. Continua le
traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese dei modernisti
cattolici Blondel e Laberthonnière - lo studio sulla filosofia di quest'ultimo
gli è suggerito dal suo professore Gioele Solari - e cerca di rintracciare le
radici del Risorgimento italiano studiando la cultura piemontese del
Sette-Ottocento. Il movimento operaio Antonio Gramsci «Io seguo con
simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un ordine nuovo.
Non sento in me la forza di seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par
di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia
del secolo. Allora il mio posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e
spirito di sacrificio» (Piero Gobetti, lettera ad Ada Prospero, 1920)
Quando, ai primi di settembre, la FIAT e le altre maggiori fabbriche torinesi
sono occupate dagli operai, Gobetti scrive: «Qui siamo in piena rivoluzione. Io
seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo
nuovo [...] il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più
religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si pone oggi in tutto il
suo carattere religioso [...] Si tratta di un vero e proprio grande tentativo
di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro in cui gli
operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli
industriali».[17] Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non
rinnoverà gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo
Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se
la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente
da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di
espansione».[18] La presa di distanza dall'azione politica di Salvemini -
la sua ammirazione personale nei suoi confronti resterà comunque intatta - è
ora piena: gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione
politica unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo
«moralismo solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il
segreto delle sue debolezze [...] La sua concezione razionalista si risolve in
un'azione di illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una
società di cultura, non a un partito».[19] Prosegue i suoi studi sul
Risorgimento e sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la
volontà di comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al
cui centro è sempre il problema della formazione della classe politica che
diriga un Paese e dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il
Risorgimento non può considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che
i dirigenti politici che espresse rimasero estranei rispetto al popolo,
diversamente dalla rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso
dirigenti come Lenin e Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma
«uomini d'azioni che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e,
del resto, la creazione dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia
fiducia proprio in quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente
un'affermazione di liberalismo» Sono concetti ripresi, il 30 novembre, in
un articolo pubblicato su L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori
di Energie Nove, nel quale individua nel movimento operaio un «valore
nazionale»: la novità, venuta dalla Russia e che sembra farsi strada anche in
Italia, consiste nel fatto che «il popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del
nostro passato ci può impedire la visione del miracolo. Questo non avrebbero
fatto i liberali, questo non possono fare dei marxisti. Il movimento operaio è
un'affermazione che ha trasceso tutte le premesse. È il primo movimento laico
d'Italia. È la libertà che s'instaura».[20] Il suo avvicinamento alle
posizioni dei giovani comunisti dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto
di una collaborazione e, dal gennaio del 1921, Gobetti diventa il critico
teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere gli obblighi di
leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi e di tutte le
meschinità [...] la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si riduce a
elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero».[21] La
Rivoluzione Liberale La Rivoluzione Liberale Il 12 febbraio del 1922,
esce il primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione
liberale, in cui collaboreranno spesso anche Giustino Fortunato, Antonio
Gramsci e Luigi Sturzo: l'obiettivo, come indicato nell'Avviso ai lettori, è
pur sempre quello di Energie Nove, ossia di formare una classe politica nuova
ma, ora si aggiunge, che sia cosciente «delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione
del popolo alla vita dello Stato». E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le
pubblicazioni nel dicembre scorso, La Rivoluzione Liberale intende proseguire
quegli «sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si avvertirono».
E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista: «La Rivoluzione
Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e rigorosa
del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei falsi
realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni
con gli elementi tradizionali della vita italiana; [...] e inverando le formule
empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma una
coscienza moderna dello Stato, [...] che prenda in considerazione anche i più
sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della
storia».[22] Il 26 marzo vi pubblica la Storia dei comunisti torinesi
scritta da un liberale e a maggio dedica un numero intero all'emergente
movimento fascista; il mese successivo consegue la laurea e, l'anno seguente,
pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. Gobetti è vivamente colpito dagli scritti
del patriota e federalista italiano Carlo Cattaneo, del quale è uscita in quei
giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a Torino il 10
agosto: «su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho
espresso».[23] Su Cattaneo scrive, il 17 agosto, un articolo sull'Ordine
Nuovo - sono i giorni della devastazione fascista della sede della rivista comunista
- firmandosi Giuseppe Baretti: rappresentante della critica del processo
unitario risorgimentale, Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente
moderata. Eppure il Cattaneo «avversò non l'unità, ma l'illusione di risolvere
con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano intendere
soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale [...] senza
atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo, capì che il fondare una
nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un
linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela [...] E lo condannarono
alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo e realista,
un ufficio di Cassandra, predicante al deserto». L'avvento del
fascismo Piero Gobetti e Ada Prospero Favorito dall'inerzia dei Savoia e
dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo procede alla conquista del
potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa venire a compromessi e lo
si possa acquistare alla causa democratica. Il 23 novembre scrive L'elogio
della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che la
reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la
ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo [...] Chiediamo le
frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder
chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri
ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando
possibile»[24]. L'11 gennaio del 1923, sposa Ada Prospero: vanno ad
abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60, che diviene anche la sede
della casa editrice che egli fonda, col suo nome, ad aprile: la Piero Gobetti
editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli[25]. In
qualità d'editore, Gobetti porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e
degli autori simbolo del pensiero liberale classico, come John Stuart Mill. È
tra i primi a pubblicare i libri di Luigi Einaudi ed è lui a pubblicare, nel
1925, la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose raccolte di
poesia di Eugenio Montale. I libri editi da Gobetti furono in molti casi dati
alle fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono
in molti casi introvabili, come il volume dedicato al deputato socialista
Giacomo Matteotti, di cui esistono pochissime copie. Tutti i suoi libri
riportano in copertina un motto liberale, scritto in greco antico in modo
circolare, che recita testualmente "Cosa ho a che fare io con gli
schiavi?". Gobetti e la Prospero si trasferiranno poi in via Fabro 6,
attuale sede del Centro di studi a lui intitolato. Il 6 febbraio è arrestato
perché sospetto di «appartenenza a gruppi sovversivi che complottano contro lo
Stato»: rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo arresto il 29 maggio,
provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo risponde che
Gobetti «era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale
antinazionale; la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro
le istituzioni e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in
diritto di far operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di
ordine pubblico». Gobetti replica con una lettera ai giornali, ribadendo
la sua funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati
dalle sue edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver
preso le distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al
fascismo, rinnega anche il suo originario gentilismo: il Gentile è incapace «di
dar ragione di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia
gentiliana mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al
reale».[26] La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in
Italia Le tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima
sistemazione in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
frutto maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe
nell'aprile del 1924. L'opera è divisa in quattro parti: L'eredità del
Risorgimento, La lotta politica in Italia, La critica liberale, Il fascismo. La
fretta con cui vuol dare alle stampe questo libro di lucida analisi politica
gli impedisce di curare bene le parti marginali. Così succede che
"L'eredità del Risorgimento" venga solo abbozzata: «Il problema
italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu
attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe
dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe
tecnica progredita». Un Risorgimento calato dall'alto, che di popolare non
aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le istituzioni liberali
formalmente create. Nel primo dopoguerra Gobetti assiste a qualcosa di
assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito Popolare (PPI) e
Partito Comunista (PCd'I) saranno una prima versione dei due partiti più
importanti della cosiddetta Prima Repubblica). Ma questo non basta. «Per
quattro anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta
sociale». Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali,
ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino
astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo».[27] La
seconda parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della
lotta politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le
figure di Giuseppe Toniolo, Filippo Meda e Luigi Sturzo), socialisti, comunisti
(grande spazio dato a Antonio Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero
di Alfredo Rocco) e repubblicani. Gobetti attorno al 1920 La terza
parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare politica
senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti strumento di
formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare. Insomma, la
lotta politica deve essere lotta sociale. In politica ecclesiastica, Gobetti si
rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come necessità da mantenere
(cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi). Per la discussione sulle
modalità d'elezione, Gobetti è convinto fautore della proporzionale. Il
collegio uninominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno. Solo
con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga
elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al
problema dei contribuenti: «Il contribuente italiano paga bestemmiando lo
Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione
sovrana. L'imposta gli è imposta. [...] Una rivoluzione di contribuenti in
Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non
esistono contribuenti». Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore
maturità economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di
contribuire nello Stato, e imparare il "valore dell'onestà". Per
questo richiamava attenzione sul problema scolastico: in un mondo fatto per
grossa parte da analfabeti o semianalfabeti, la questione era fondamentale.
Mancava un numero sufficiente di maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare
chiunque in grado di saper insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così
via). La questione non evitava di trattare l'aspetto economico: contro il
parassitismo pensava che fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da
distinguere la vocazione all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In
politica estera prospettava un ruolo importante per l'Italia a Versailles. Era
convinto della possibilità di ottenere un buon accordo attraverso una
mediazione. Nella quarta ed ultima parte vi è una rapida esposizione del perché
Gobetti si oppone con ogni mezzo al fascismo. Si è detto che per l'autore la
lotta sociale deve essere portata in Parlamento e dar vita a una lotta politica
efficiente ed efficace. Benito Mussolini invece fece in modo da soffocare
la lotta politica, quando questa più di ogni altra cosa era necessaria
all'Italia. Così il Duce, per Gobetti, era «l'eroe rappresentativo di questa
stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel tacito
consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica nella
nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel qual
era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del potere
a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica serva-signore, ipotizzando
una guerra civile imminente.[28] Il saggio è fortemente militante. Nella nota a
conclusione dell'edizione, Gobetti è chiaro: cerca collaboratori, non lettori.
Gobetti vuole la "rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo;
nutre una forte avversione per il fascismo, anche perché non è qualcosa di
nuovo ma, anzi, il risultato ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è
quindi una condanna della vecchia classe dirigente liberale. Il fascismo
nasce dall'invadenza del cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale:
"Fascismo come autobiografia della nazione", il fascismo è, insomma,
solo l'incancrenirsi dei mali tradizionali della società italiana. La
società tradizionale italiana reagisce sostenendo una forza conservatrice come
quella del fascismo, anche se in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo
dopoguerra vi era stato: il proletariato (soprattutto quello torinese) che
tenta di assumere su di sé la responsabilità di mutare lo stato delle cose. La
borghesia ha perso ogni funzione propositiva, è una classe parassitaria che si
è adagiata e aspetta tutto dallo Stato; si blocca così ogni istanza di
rinnovamento: la funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le
considerazioni politiche di Gobetti risentono della sua opinione sulla storia
italiana, in Risorgimento senza eroi, Gobetti descrive questo periodo come
un'epopea patriottarda di cui simbolo è Giuseppe Mazzini (tante parole, pochi
fatti): al Risorgimento sono mancati il pragmatismo e il realismo. Ci
sono due eroi nel Risorgimento per Gobetti e sono Carlo Cattaneo e Cavour, due
figure assai distanti tra loro ma accomunabili per il loro pragmatismo:
Cattaneo piace a Gobetti per la sua volontà di operare, per la capacità di
propugnare istanze pragmatiche e vuote di retorica; Cavour è uomo che media per
raggiungere degli obiettivi, ha mire di lungo periodo. Il Risorgimento di
Cattaneo è sconfitto, ma non quello di Cavour; entrambi, però, hanno instillato
nella società italiana lo spirito della competizione e l'ideale di assunzione
di responsabilità. La società italiana si regge su ruoli e cariche già
predefiniti, è statica e stagnante: il proletariato, però, si ribella a ciò,
rifugge situazioni già prestabilite per costruire una società nuova in cui
ciascuno sarà libero di esprimersi. La persecuzione, l'esilio e la
morte Giacomo Matteotti Nel maggio del 1924 Gobetti si reca in Francia, a
Parigi e poi in Sicilia, a Palermo, per incontrare alcuni amici conosciuti
durante il recente viaggio di nozze. I suoi spostamenti sono seguiti dalla
polizia italiana e, il 1º giugno, Mussolini telegrafa al prefetto di Torino,
Enrico Palmieri: «Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a
Parigi e che oggi sia in Sicilia. Prego informarmi e vigilare per rendere
nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo e fascismo». Il
prefetto obbedisce e, il 9 giugno, Gobetti viene percosso, la sua abitazione
perquisita e le sue carte sequestrate. Come scrive a Emilio Lussu, la polizia
sospetta che egli intrattenga rapporti in Italia e all'estero per organizzare
le forze antifasciste. È il giorno che precede la scomparsa di Giacomo
Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato solo in agosto, ma subito si ha la
certezza che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari fascisti. Gobetti ne
traccia un profilo il 1º luglio: «Non ostentava presunzioni teoriche:
dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici
perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori
socialisti [...] vide nascere nel Polesine il movimento fascista come
schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li
pagava; come medievale crudeltà e torbido oscurantismo [...] Sentiva che per
combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorreva opporgli esempi
di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di
intransigenza, di rigorismo». Auspica, dalle colonne della sua rivista,
la formazione di "Gruppi della Rivoluzione Liberale", formati da
uomini di tutti i partiti antifascisti, che combattano il fascismo, questo
fenomeno politico che trae i motivi del suo successo e della sua conservazione
dalla creazione di «un esercito di parassiti dello Stato». Occorre, a questo
scopo, formare un'economia moderna con un'industria «libera da ogni
protezionismo e da ogni paternalismo di Stato» e con «una classe proletaria
politicamente intransigente[29] [...] aiutare i partiti seri e moderni a
liberarsi dei costumi giolittiani [...] La guerra al fascismo è questione di
maturità storica, politica, economica».[30] Questi articoli e quello in
cui accusa il deputato fascista, grande invalido di guerra, Carlo Delcroix, di
manovre parlamentari definite «aborti morali», provocano il sequestro della
rivista ed una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino
un articolo di Tommaso Fiore contro il criminale fascista Amerigo Dumini,
apparso su La Rivoluzione Liberale del 23 settembre, fornisce il pretesto al
prefetto di Torino di sequestrare la rivista[31]. Con il Fiore e con Guido
Dorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto all'altro Parlamento
appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta un'opposizione
intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi parlamentari
italiani. Il 23 dicembre del 1924, Gobetti fonda una nuova rivista, Il
Baretti, alla quale collaborano, tra gli altri, Augusto Monti, Natalino
Sapegno, Benedetto Croce e Eugenio Montale. Come La Rivoluzione Liberale è
dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista vuole essere riservata
alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a Giuseppe Baretti,
letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta letteraria,
esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive Gobetti nel
numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia
contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle
frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie». In ossequio alle
direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista: «rimedieremo
ai sequestri rifacendo l'edizione» - scrive Gobetti il 1º febbraio del 1925 - e
anche quel numero viene sequestrato con il pretesto di «scritti diffamatori dei
poteri dello Stato e tendenti a screditare le forze nazionali». Pubblica la
traduzione de La Libertà di John Stuart Mill, con la prefazione di Luigi
Einaudi, il quale scrive che «quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si
assevera dai dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi
libri sulla libertà». Anche produrre «citazioni di scrittori del passato» che
non collimino col pensiero del Regime può essere «tendenzioso» e perciò
provocare, l'8 marzo, il sequestro della rivista, come accade anche il 21 marzo
e il 7 giugno: l'8 giugno è arrestato Gaetano Salvemini, che ha pubblicato sul
foglio clandestino Non Mollare l'articolo Mussolini il mandante. Altri sequestri
de La Rivoluzione Liberale avvengono il 28 giugno e il 19 luglio. Un
periodo di serenità per Piero e la moglie Ada - che aspetta un bambino - è
rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra; nella capitale francese,
Gobetti pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi,
solo in francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano
possa fare con utilità un'opera pratica di intelligenza europea.
S'intende senza chauvinisme francese». D'altra parte, Gobetti intende ancora
rimanere in Italia: «rimarrò in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare
l'esule».[32] La tomba di Gobetti A metà agosto fanno ritorno a
Torino e il 5 settembre è nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è
ancora intenzionato a rimanere in Italia: «Bisogna amare l'Italia con orgoglio
di europei e con l'austera passione dell'esule in patria» - scrive
nell'articolo Lettera a Parigi del 18 ottobre - «per capire con quale serena
tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi viviamo nella presente realtà
fascista [...] le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo
curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la
nostra dignità di antifascisti: per essere europei dobbiamo su questo argomento
sembrare, comunque la parola ci disgusti, nazionalisti». Il 27 ottobre,
poiché «i ripetuti sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola,
sotto l'aspetto di critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e
religiose, che vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi
dottrinari, mira in realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle
Istituzioni Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il
prestigio nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per
l'ordine pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti
decreti sulla stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile
del periodico La Rivoluzione Liberale, Prof. Piero Gobetti, ai sensi e per gli
effetti di cui all'art. 2 del R. D. 15 luglio 1923, n. 3288, e del R. D. 10
luglio 1924, n. 1081», ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché l'8
novembre la rivista disattende l'ordine, l'11 novembre il prefetto ingiunge la
cessazione definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa
editrice per «attività nettamente antinazionale». D'ora in avanti «sarò
palesatamente costretto all'infelice dissenso [...] . La libertà d'opinione è
stata soppressa come una rete che viene sradicata: senza possibilità di
dialogare sono destinato ad essere sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare
finta?»[33] Gobetti, che ora soffre anche di scompensi cardiaci,
provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per
proseguire in Francia l'attività editoriale. Il 28 dicembre, nasce a Torino il
figlio Paolo (1925-1995), che durante la seconda guerra mondiale diventerà
partigiano e poi giornalista per l'Unità, oltreché storico del cinema. Nel
gennaio del 1926 scrive una lettera al suo mentore Giustino Fortunato: «Parto
per Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi
è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica
spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di cultura,
nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna».[34] Il 3
febbraio del 1926, Gobetti parte da solo per Parigi: alla stazione di Genova
viene a salutarlo Eugenio Montale. L'11 febbraio si ammala di una bronchite,
che esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci: trasportato il 13 del mese in
una clinica di Neuilly-sur-Seine, vi muore alla mezzanotte del 15 febbraio del
1926, assistito da Francesco Fausto e Francesco Saverio Nitti, da Prezzolini e
da Luigi Emery. È sepolto nel cimitero parigino di Père-Lachaise. Opere
La filosofia politica di Vittorio Alfieri, Torino, Gobetti, 1923. La frusta
teatrale, Milano, Corbaccio, 1923. (Leggi su Wikisource) Felice Casorati.
Pittore, Torino, Gobetti, 1923. Dal bolscevismo al fascismo. Note di cultura
politica, Torino, Gobetti, 1923. Il teatro di Enrico Pea, in Enrico Pea, Rosa
di Sion, Torino, Gobetti, 1923. Matteotti, Torino, Gobetti, 1924 - Postfazione
di Marco Scavino, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, ISBN 9788863726541 -
col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo, Genova, 1994. La
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1924. Opere di Piero Gobetti edite e inedite I, Risorgimento senza eroi. Studi
sul pensiero piemontese nel Risorgimento, Torino, Edizioni del Baretti, 1926.
II, Paradosso dello spirito russo, Torino, Edizioni del Baretti, 1926. Opera
critica I, Arte, religione, filosofia, Torino, Baretti, 1927. II, Teatro,
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1945. Coscienza liberale e classe operaia, a cura di Paolo Spriano, Torino,
Einaudi, 1951. Opere complete di Piero Gobetti I, Scritti politici, a cura di
Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1960. II, Scritti storici, letterari e
filosofici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi, 1969. III, Scritti di
critica teatrale, a cura di Giorgio Guazzotti e Carla Gobetti, Torino, Einaudi,
1974. L'editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, a cura di
Franco Antonicelli, Milano, All'insegna del pesce d'oro, 1966. (Leggi su
Wikisource) Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, 1976. Il Baretti, Torino,
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Chimirri, introduzione di Nicola Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale,
1988. Nella tua breve esistenza. Lettere 1918-1926, con Ada Gobetti, a cura di
Ersilia Alessandrone Perona, Collana NUE n.205, Torino, Einaudi, 1991, ISBN
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Biblioteca.Nuova serie, Einaudi, 2017, ISBN 9788806233389. Con animo di
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ho a che fare io con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti,
2011. ISBN 978-88-7424-818-6. Il giornalista arido Articoli (1918-1926),
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una nuova dottrina dello Stato e del colpo di Stato, in «L'Ordine Nuovo», I, 5
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88-86425-57-0 ^ L'editore ideale, cit., p. 51 ^ P. Gobetti, Rivoluzione
liberale, 18 gennaio 1923 ^ Nella tua breve esistenza, cit., l. 375-376 ^ Ivi,
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Ghigliottina, 1922 ^ Corrado Malandrini, Gobetti, Piero, in Dizionario
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pp. 3233–3251 AA. VV., Piero Gobetti e gli intellettuali del Sud, Napoli,
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Benedetto Croce, Urbino, Quattroventi, 1996 ISBN 88-392-0389-3 Alberto Cabella,
Elogio della libertà. Biografia di Piero Gobetti, Torino, Il Punto, 1998 ISBN
88-86425-57-0 Marco Gervasoni, L'intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le
culture del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 2000 ISBN 88-221-4240-3 Paolo
Bagnoli, Il metodo della libertà. Piero Gobetti tra eresia e rivoluzione,
Reggio Emilia, Diabasis, 2003 ISBN 88-8103-388-7 Bartolo Gariglio, Progettare
il postfascismo. Gobetti e i cattolici, Milano, Franco Angeli, 2003 ISBN
978-88-464-4437-0 Giuseppe Virgilio, Piero Gobetti. La cultura etico-politica
del primo Novecento tra consonanze e concordanze leopardiane,
Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2004 ISBN 88-88546-36-7 Angelo Fabrizi, «Che ho a
che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri, Firenze, Società Editrice
Fiorentina, 2007 ISBN 978-88-6032-040-7 Flavio Aliquò Mazzei, Piero Gobetti.
Profilo di un rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese, 2008 ISBN
88-86974-16-7 Bartolo Gariglio (a cura di), L'autunno delle libertà - Lettere
ad Ada in morte di Piero Gobetti, Torino, Bollati Boringhieri, 2009 ISBN
9788833919980 Nunzio Dell'Erba, Piero Gobetti, in Id., Intellettuali laici nel
'900 italiano, Padova, Vincenzo Grasso editore, 2011 ISBN 978-88-95352-35-0
Danilo Ciampanella, Senza illusioni e senza ottimismi. Piero Gobetti.
Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, 2012 ISBN
88-548-4613-9 Voci correlate Socialismo liberale Liberalismo sociale Gaetano Salvemini
Giovanni Amendola Benedetto Croce Vittorio Alfieri Giacomo Matteotti Il Baretti
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dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Piero Gobetti, in Enciclopedia
Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Piero
Gobetti, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.
Modifica su Wikidata Piero Gobetti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Piero Gobetti, su
Liber Liber. Modifica su Wikidata Opere di Piero Gobetti, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Piero Gobetti, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Il Centro Studi Piero Gobetti,
su centrogobetti.it. «La Rivoluzione Liberale» online, su erasmo.it. P.
Gobetti, Il liberalismo in Italia, su polyarchy.org. G. Iacchini, Quando la
libertà è rivoluzionaria: Piero Gobetti, su radicalsocialismo.it. La casa di
Gobetti in via XX Settembre a Torino [collegamento interrotto], su
multimedia.lastampa.it. V · D · M Antifascismo (1919-1943) Controllo di
autorità VIAF
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Categorie: Giornalisti italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX
secoloEditori italianiNati nel 1901Morti nel 1926Nati il 19 giugnoMorti il 15
febbraioNati a TorinoMorti a Neuilly-sur-SeineAntifascisti
italianiLiberaliVittime di dittature nazifascisteFondatori di riviste italianeTraduttori
italianiDirettori di periodici italianiStudenti dell'Università degli Studi di
TorinoTraduttori all'italianoTraduttori dal russoTraduttori dal
franceseTraduttori dall'inglese all'italiano[altre]
Gobbo -- Federico
Gobbo – esperantista – He has collaborated with philosophers.
Gonnella -- Patrizio Gonnella
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aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso
delle fonti. Patrizio Gonnella durante l'incontro su privacy e
sorveglianza con Edward Snowden Patrizio Gonnella (Bari, 1966) è un attivista e
giurista italiano. Dal 2005 è presidente dell'Associazione Antigone[1],
che dal 1991 si occupa di giustizia penale, carceri, diritti umani e
prevenzione della tortura. È docente di Sociologia del Diritto presso il
Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università Roma Tre. È esperto del
Consiglio d’Europa nel monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà. Fa
parte dell’Assessment Committee dell’Npm Observatory. È editorialista del
Manifesto, cura un blog sul sito de l’Espresso e conduce, insieme a Susanna
Marietti, la trasmissione Jailhouse Rock su Radio Popolare che incrocia i temi
della musica con quelli delle prigioni. Tra il 2014 e il 2019 è stato
presidente della Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti
civili[2]. Indice 1 Attivismo
in materia di giustizia, diritti umani e carceri 2 Attività giornalistica 3 Attività
accademica 4 Opere
4.1 Monografie
4.2 Volumi
curati 5 Note
6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Attivismo in materia di giustizia, diritti umani e carceri Si è sempre
occupato di giustizia, carceri e diritti umani. Dal 2005 è presidente nazionale
dell'Associazione Antigone. È stato fondatore dell'Osservatorio europeo sulle
condizioni di detenzione, rete di organizzazioni non governative e
universitarie che coinvolge partner di otto paesi europei. Tra il 2014 e
il 2019 è presidente della Coalizione Italiana per i Diritti e le Libertà
Civili (Cild), un'organizzazione di secondo livello composta da oltre quaranta
associazioni, nata per rafforzare l'attività di advocacy e di contenzioso
giudiziario strategico su tutte le libertà civili in Italia. Attualmente è
componente del direttivo della Coalizione. Ha partecipato in qualità di
esperto a missioni di monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà per
conto del Consiglio d’Europa. Ha svolto diversi incarichi attinenti al
mondo della giustizia e dei diritti umani. Dal 1993 al 1998 ha ricoperto
incarichi di direzione degli istituti penali di Padova, Pisa, Pianosa e San
Gimignano. Dal 1998 al 2001 ha svolto le funzioni di collaboratore parlamentare
occupandosi principalmente di diritti umani e giustizia. Tra il 2001 e il 2010
ha ricoperto incarichi presso amministrazioni locali, regionali e nazionali
occupandosi principalmente di welfare, giustizia e diritti umani. Attività
giornalistica È editorialista dal 1999 del quotidiano Il Manifesto sui temi
della giustizia, della pena e dei diritti umani. Ha scritto per vari quotidiani
e periodici. Cura il blog “Libertà civili” sul sito dell'Espresso. Ha scritto
tra il 1998 e il 2010 sui temi del carcere e della giustizia per il quotidiano
di informazione economica Italia Oggi. È autore e conduttore, insieme a Susanna
Marietti, di una trasmissione radiofonica di musica e informazione su e dal
carcere – Jailhouse Rock - che va in onda su un network di radio locali.
Attività accademica Laureatosi in giurisprudenza nel 1990, si è specializzato
nel 1996 in Istituzioni e Tecniche di promozione e tutela dei diritti umani
presso l'Università degli Studi di Padova, per poi divenire Dottore di Ricerca
nel 2014 in Diritto europeo su base storico comparatistica presso l'Università
di Roma Tre. È ricercatore presso il Dipartimento di Giurisprudenza
dell’Università Roma Tre, dove insegna sociologia del diritto. È
animatore della clinica legale in ambito penitenziario che gestisce propri
sportelli di informazione legale presso le carceri romane. Ha partecipato
in qualità di relatore a centinaia di seminari in Italia e all’estero presso
Università, istituti di formazione, istituzioni. Ha periodicamente svolto
attività di formazione sui temi della pena anche per l’amministrazione
penitenziaria e per la Scuola superiore della magistratura. Opere
Monografie Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto, 2017 Detenuti stranieri
in Italia. Norme, numeri e diritti, Editoriale Scientifica, 2014. Carceri. I
confini della dignità, Jacabook, 2014. La tortura in Italia, Derive Approdi,
2013. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre, (insieme a Susanna
Marietti), Arcana, 2012. Il carcere spiegato ai ragazzi, (insieme a Susanna
Marietti), Il Manifesto libri, 2010. Patrie galere, (insieme a Stefano
Anastasia), Carocci, 2005. Sviluppo urbano e criminalità a Roma, (insieme a
Massimiliano Bagaglini e Francesca Vianello), Sinnos, 2003. Il collasso delle
carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, (insieme a Laura
Astarita e Susanna Marietti), Sapere 2000-Consiglio d'Europa, 2003. Volumi
curati Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti
(insieme a Dario Ippolito), Edizioni dell’Asino, 2019. I paradossi del diritto.
Scritti in omaggio a Eligio Resta (insieme a Stefano Anastasia), Roma
TrE-Press, 2019 Giustizia e carceri secondo papa Francesco (insieme a Marco
Ruotolo), Jaca Book, 2016. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme
internazionali contro la tortura, (insieme ad Antonio Marchesi), Sinnos, 2006.
Inchiesta sulle carceri italiane, (insieme a Stefano Anastasia), Carocci, 2002.
Il Carcere trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione
(insieme a Stefano Anastasia e Mauro Palma), Castelvecchi, 2000. Bisogna aver
visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti (insieme a Dario
Ippolito), Edizioni dell’Asino, 2019. I paradossi del diritto. Scritti in
omaggio a Eligio Resta (insieme a Stefano Anastasia), Roma TrE-Press, 2019
Giustizia e carceri secondo papa Francesco (insieme a Marco Ruotolo), Jaca
Book, 2016. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme internazionali contro la
tortura, (insieme ad Antonio Marchesi), Sinnos, 2006. Inchiesta sulle carceri
italiane, (insieme a Stefano Anastasia), Carocci, 2002. Il Carcere trasparente.
Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione (insieme a Stefano
Anastasia e Mauro Palma), Castelvecchi, 2000. Note ^ Benvenuto sul sito
dell'Associazione Antigone ^ Homepage Cild Italia - Coalizione Italiana Libertà
e Diritti Civili Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
citazioni di o su Patrizio Gonnella Collegamenti esterni Sito ufficiale
dell'Associazione Antigone, su associazioneantigone.it. Sito ufficiale della
Coalizione Italiana per le Libertà e i Diritti civili, su cilditalia.org.
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Diritto Filosofia Portale Filosofia Categorie: Attivisti italianiNati nel
1966Nati a BariDiritto penitenziario[altre]
Goretti -- Cesare Goretti Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Cesare
Goretti (Torino, 26 aprile 1886 – Pozzo d'Adda, 14 maggio 1952) è stato un
filosofo e giurista italiano. Indice 1 Biografia 2 L'animale
come soggetto di diritto 3 L'istitutismo
giuridico 4 Opere
4.1 Monografie
4.2 Altre
opere 5 Scritti
su Cesare Goretti 6 Note
7 Voci
correlate 8 Altri
progetti 9 Collegamenti
esterni Biografia Laureatosi in Giurisprudenza all'Università di Torino nel
1909 (relatore è il filosofo del diritto Gioele Solari), Goretti frequenta
successivamente l'Accademia scientifico-letteraria di Milano (che sarebbe
confluita nel 1924 nell'Università di Milano), dove incontra Piero Martinetti;
lì nel 1921 si laurea in Filosofia. Nel 1926 è segretario del VI
Congresso Nazionale di Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana
e presieduto da Piero Martinetti; il Congresso è sciolto dalle autorità
fasciste dopo appena due giorni. Il 31 marzo 1926 Martinetti e Goretti firmano
la lettera di protesta indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli[1], nel quale
si "protesta in nome della libertà degli studi e della tradizione italiana
contro un atto di violenza che impedisce l'esercizio della discussione
filosofica ed invano pretende di vincolare la vita del pensiero".
Nel 1931, al momento del giuramento di fedeltà al Fascismo, necessario per
entrare nella carriera universitaria o per proseguirla, Goretti si rifiuta e
resta così al di fuori della carriera accademica; svolge attività professionale
a Milano, effettua traduzioni di testi filosofici e collabora alla
"Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato
direttivo)[2]. Frequenta, come altri filosofi antiscolastici ed antifascisti la
casa di Luigi Fossati (1871-1945, bibliofilo ex sacerdote e docente, poi
allievo del Martinetti e direttore di Rivista di filosofia) in Via Ciro Menotti
a Milano.[3][4][5][6] In prossimità della morte, avvenuta nel 1943, Piero
Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a Nina Ruffini (nipote di
Francesco Ruffini), Gioele Solari e Cesare Goretti. La Biblioteca verrà poi
conferita dai rispettivi eredi nel 1955 alla "Fondazione Piero Martinetti
per gli studi di storia filosofica e religiosa" di Torino; oggi è posta
nel palazzo del Rettorato dell'Università di Torino, presso la Biblioteca della
Facoltà di Lettere e Filosofia.[7] Solo nel secondo dopoguerra Goretti è
riammesso nel mondo universitario e nel 1948 assume per concorso la cattedra di
Filosofia del diritto; insegna all'Università di Ferrara fino alla
morte.[8] Il Comune di Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti,
"filosofo - patriota". L'animale come soggetto di diritto
Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley,
traduttore di varie opere filosofiche (Afrikan Špir, Bradley, Thomas Hill
Green), a Goretti si deve il primo intervento[9] che qualifica l'animale come “soggetto
di diritto”. Nel 1926 Piero Martinetti aveva pubblicato “La psiche degli
animali” in cui aveva sottolineato che gli animali possedevano intelletto e
coscienza e, in generale, un vita interiore, come emergeva dagli
“atteggiamenti, i gesti, la fisionomia”; questa vita interiore è “forse
estremamente diversa e lontana” da quella umana” ma “ha anch'essa i caratteri
della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo
fisiologico”.[10] Nel 1928 Goretti va oltre, fino ad affermare che gli animali
sono veri e propri “soggetti di diritto” e che l'animale ha una “coscienza
giuridica” e una percezione del giuridico.[11] In tal modo ha anticipato
tematiche proprie della bioetica e dell'etologia; nonostante l'originalità e
l'innovatività delle posizioni assunte, il suo scritto non ha avuto fortuna ed
è stato del tutto trascurato dal dibattito animalista e negli studi di
etologia.[12][13] «Come non possiamo negare all'animale in modo sia pure
crepuscolare l'uso della categoria della causalità, così non possiamo escludere
che l'animale partecipando al nostro mondo non abbia un senso oscuro di quello
che può essere la proprietà, l'obbligazione. Casi innumerevoli dimostrano come
il cane sia custode geloso della proprietà del suo padrone e come ne compartecipi
all'uso. Oscuramente deve operare in esso questa visione della realtà esteriore
come cosa propria, che nell'uomo civile arriva alle costruzioni raffinate dei
giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende un servizio al suo padrone
che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. [...] Deve pure sentire in sé
per quanto oscuramente e in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e
scambiati. Naturalmente l'animale non potrà arrivare al concetto di ciò che è
la proprietà, l'obbligazione; basta che dimostri esteriormente di fare uso di
questi principî che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.»
(Cesare Goretti, L’animale quale soggetto di diritto, 1928) L'istitutismo
giuridico Cesare Goretti è ritenuto – unitamente al filosofo del diritto
francese Jean Ray - esponente dell’istitutismo giuridico.[14] Nella
filosofia del diritto occidentale del XX secolo, si individuano tre teorie
dell'"istituzionalità nel giuridico" (Lorini):[15][16]
istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istituti giuridici; gli
istituti sono concepiti in Goretti "come una sorta di azioni coordinate,
costituenti un equilibrio tipico e costante di finalità che si fissano in un
complesso di mezzi" e in Ray "come costruzioni giuridiche"[16][17][18]
istituzionalismo: teoria del diritto quale istituzione[15][17] (Santi Romano,
Maurice Hauriou). neo-istituzionalismo: il diritto è rappresentato da fatti
istituzionali (Neil McCormick, Ota Weinberger).[16][19][20] Opere Monografie Il
carattere formale della filosofia giuridica kantiana, Casa Editrice Isis,
Milano, 1922; Il sentimento giuridico nell'opera di Giorgio Sorel, Casa
Editrice "Il Solco", Città di Castello, 1922; Sorel, Athena, Milano,
1928; I fondamenti del diritto, Libreria Editrice Lombarda, Milano, 1930; Il
liberalismo giuridico di Maurice Hauriou, Tip. Editrice L. Di Pirola, Milano,
1933; Contributo allo studio della norma giuridica in relazione agli atti
giuridici, Tip. G. Bianciardi, Lodi, 1938; Concetti ed istituti giuridici, Tip.
G. Bianciardi, Lodi, 1940; La normatività giuridica, CEDAM, Padova, 1950. Altre
opere L'opera ed il pensiero di Thomas Hill Green, in A. C. Bradley, Thomas
Green Hill, Etica, Bocca, Torino, 1925 Il trattato politico di Spinoza,
"Rivista di filosofia", 1927, 235 L'animale quale soggetto di
diritto, "Rivista di filosofia", 1928, 348 Recensione di Carl
Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis
zum proletarischen Klassenkampf, Duncher & Humblot, München-Leipzig,
ed. 1928, "Rivista di Filosofia", 1929, 375 Recensione di R. Smend,
Verfassung und Verfassungsrecht, 1926, "Rivista di Filosofia", 1929,
386 Introduzione a A. Spir, La giustizia, Libreria Editrice Lombarda, Milano,
1930 Il saggio politico sulla costituzione del Württenberg, "Rivista di filosofia",
1931, 408 Sul valore della distinzione tra legge e norma, "Rivista di
filosofia", 1932, 125 La filosofia pratica - W. Schuppe, "Rivista di
filosofia", 1933, 124 Il valore della filosofia di F. H. Bradley,
"Rivista di filosofia", 1933, 332 Il saggio del Brentano sull'origine
della conoscenza etica, "Rivista di filosofia", 1934, 141 L'idea di
patria, "Rivista di filosofia", 1935, 68 L'idealismo rappresentativo
di O. Hamelin, "Rivista di filosofia", 1935, 325 Recensione di Piero
Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, in "Rivista di
filosofia", 1936, 187 La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green,
"Rivista di filosofia", 1936, 97 Il dolore nel pessimismo di A. Spir,
"Rivista di filosofia", 1937, 227 Il valore dell'individualità,
"Rivista di filosofia", 1938, 226 Dal Saint-Simon al
neo-saintsimonismo, "Rivista di filosofia", 1939, 312 Diritti e
doveri giuridici in relazione alla norma giuridica, "Archivio della
Cultura italiana", 1941, 251 L'istituzione dell'eforato, "Archivio
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tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", 1943, 5
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1943, 81 L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed il valore della
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Università di Ferrara", vol. VII, parte III (Facoltà di Giurisprudenza),
1947-48, 87 Recensione di Aurelio Candian, Avvocatura, Milano, 1949 in "Annali
della Università di Ferrara", vol. VII, parte III (Facoltà di
Giurisprudenza), 1947-48, 163 Il liberalismo di Emile Faguet, "Rivista
internazionale di filosofia del diritto", 1949, 163 Istituzioni in senso
tecnico ed istituti giuridici nella concezione realistica di Santi Romano,
"Annali della Università di Ferrara", Vol. VIII, anni accademici
1948-49 e 1949-50, 183 Il valore delle massime di equità, "Scritti
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generale del diritto, Cedam, Padova, 1950, 295 L'umanesimo critico di Anatole
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Recensione di Rudolf Muller-Erzbach, "Rivista trimestrale di diritto e
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di Piero Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto
di Bologna. Classe di Scienze Morali", Serie V, Vol. II, Bologna, 1951, 1
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Università di Ferrara", Sezione X. Scienze Giuridiche. Vol. I, 1950-51 e
1951-52, 1 Il valore dell'acquisto ideale nella filosofia giuridica di Kant,
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Diritti degli animali Filosofia del diritto Piero Martinetti Gioele Solari Jean
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nel 1886Morti nel 1952Nati il 26 aprileMorti il 14 maggioNati a TorinoFilosofi
del dirittoTeorici dei diritti animaliProfessori dell'Università degli Studi di
Ferrara[altre]
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Gino Gori (terzo da sinistra) con Giuseppe Navone (quinto da sinistra),
Luciano Folgore (sesto da sinistra), Nicola Moscardelli (settimo da sinistra,
in piedi). Gino Gori (Roma, 7 luglio 1876 – Sant'Ilario Ligure, 24 dicembre
1952) è stato uno scrittore, poeta e filosofo italiano. È noto soprattutto come
autore di narrativa, come critico e come teorico dell'arte teatrale e
specificamente del suo rinnovamento in chiave modernista. Opere Il mantello di Arlecchino (Roma 1913);
Er libbro rosso de la guera (Roma 1915); Le bruttezze della Divina Commedia
(Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano 1921); Studi di
estetica dell'irrazionale (Milano 1921); Il mulino della luna (Milano 1924);
L'irrazionale, in due volumi: Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova
scienza del bello; L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura
europea dalle origini ai nostri giorni (Foligno 1924); Cagliostro (Milano
1925); Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e
di vita nelle varie nazioni (Torino-Milano-Roma 1924); L'oca azzurra (Roma
1925); Il grande amore (Firenze 1926); Scenografia. La tradizione e la
rivoluzione contemporanea (Roma 1926); Il grottesco nell'arte e nella
letteratura (Milano 1927). Bibliografia P.D. Giovanelli, Gino Gori.
L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, 1978. U. Piscopo, Gino Gori, in E.
Godoli (a cura di), Dizionario del futurismo, Firenze, 2001. Collegamenti
esterni U. Piscopo, Gori, Gino, in Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 19 marzo 2017. Controllo
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del XX secoloPoeti italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX secoloNati
nel 1876Morti nel 1952Nati il 7 luglioMorti il 24 dicembreNati a Roma[altre]
grammaticum: Grice: “strictly, I’m a grammarian, for I’m a B. A. and M.
A. in litterae humaniores, and litterae is nothing but a rought transliteration
of Grecian ‘grammatike tekhne’ -- Is there a ‘grammar’ of gestures? How loose
can an Oxonian use ‘grammar’? Sometimes geography, sometimes botany – “Grammatica”
the Romans never cared to translate. Although ‘literature’ is the cognate. –
For some reasons, the Greeks were obsessed with the alphabet – It was a trivial
‘art’. Like ‘logic,’ and philosophy is NOT an art or ‘techne.’ A philosopher is
not a technician – and hardly an artist like William Morris (his ‘arts and
crafts’ is a joke since it translates in Latin to ‘ars et ars,’ and ‘techne kai
techne’). The sad thing is that at MIT, as Grice knew, Chomsky is appointed
professor of philosophy, and he mainly writes about ‘grammar’! Later, Chomsky
tries to get more philosophical, but chooses the wrong paradigm – Cartesianism,
the ghost in the machine, in Ryle’s parlance. Odly, Oxonians, who rarely go to
grammar schools, see ‘grammar’ as a divinity, and talk of the logical grammar
of a Ryleian agitation, say. It sounds high class because there is the irony
that an Oxonian philosopher is surely not a common-or-garden grammarian,
involved in the grammar of, say, “Die Deutsche Sprache.” The Oxonian is into
the logical grammar. It is more of a ‘linguistic turn’ expression than the
duller ‘conceptual analysis,’ or ‘linguistic philosophy.’ cf. logical form, and
Russell, “grammar is a pretty good guide to logical form.” while philosophers
would use grammar jocularly, Chomsky didnt. The problem, as Grice notes, is
that Chomsky never tells us where grammar ends (“or begins for that matter.”)
“Consider the P, karulising elatically.” When Carnap introduces the P, he talks
syntax, not grammar. But philosophers always took semiotics more seriously than
others. So Carnap is well aware of Morriss triad of the syntactics, the
semantics, and the pragmatics. Philosophers always disliked grammar, because
back in the days of Aelfric, philosophia was supposed to embrace dialectica and
grammatica, and rhetorica. “It is all part of philosophy.” Truth-conditional
semantics and implicatura. grammar, a system of rules specifying a language. The
term has often been used synonymously with ‘syntax’, the principles governing
the construction of sentences from words perhaps also including the systems of
word derivation and inflection case
markings, verbal tense markers, and the like. In modern linguistic usage the
term more often encompasses other components of the language system such as
phonology and semantics as well as syntax. Traditional grammars that we may
have encountered in our school days, e.g., the grammars of Latin or English,
were typically fragmentary and often prescriptive basically a selective catalog of forms and
sentence patterns, together with constructions to be avoided. Contemporary
linguistic grammars, on the other hand, aim to be descriptive, and even
explanatory, i.e., embedded within a general theory that offers principled
reasons for why natural languages are the way they are. This is in accord with
the generally accepted view of linguistics as a science that regards human
language as a natural phenomenon to be understood, just as physicists attempt
to make sense of the world of physical objects. Since the publication of Syntactic
Structures 7 and Aspects of the Theory of Syntax 5 by Noam Chomsky, grammars
have been almost universally conceived of as generative devices, i.e.,
precisely formulated deductive systems
commonly called generative grammars
specifying all and only the well-formed sentences of a language together
with a specification of their relevant structural properties. On this view, a
grammar of English has the character of a theory of the English language, with
the grammatical sentences and their structures as its theorems and the grammar
rules playing the role of the rules of inference. Like any empirical theory, it
is subject to disconfirmation if its predictions do not agree with the
facts if, e.g., the grammar implies that
‘white or snow the is’ is a wellformed sentence or that ‘The snow is white’ is
not. The object of this theory construction is to model the system of knowledge
possessed by those who are able to speak and understand an unlimited number of
novel sentences of the language specified. Thus, a grammar in this sense is a
psychological entity a component of the
human mind and the task of linguistics
avowedly a mentalistic discipline is to determine exactly of what this
knowledge consists. Like other mental phenomena, it is not observable directly
but only through its effects. Thus, underlying linguistic competence is to be
distinguished from actual linguistic performance, which forms part of the
evidence for the former but is not necessarily an accurate reflection of it,
containing, as it does, errors, false starts, etc. A central problem is how
this competence arises in the individual, i.e., how a grammar is inferred by a
child on the basis of a finite, variable, and imperfect sample of utterances
encountered in the course of normal development. Many sorts of observations
strongly suggest that grammars are not constructed de novo entirely on the
basis of experience, and the view is widely held that the child brings to the
task a significant, genetically determined predisposition to construct grammars
according to a well-defined pattern. If this is so, and since apparently no one
language has an advantage over any other in the learning process, this inborn
component of linguistic competence can be correctly termed a universal grammar.
It represents whatever the grammars of all natural languages, actual or
potential, necessarily have in common because of the innate linguistic
competence of human beings. The apparent diversity of natural languages has
often led to a serious underestimation of the scope of universal grammar. One
of the most influential proposals concerning the nature of universal grammar
was Chomsky’s theory of transformational grammar. In this framework the
syntactic structure of a sentence is given not by a single object e.g., a parse
tree, as in phrase structure grammar, but rather by a sequence of trees
connected by operations called transformations. The initial tree in such a
sequence is specified generated by a phrase structure grammar, together with a
lexicon, and is known as the deep structure. The final tree in the sequence,
the surface structure, contains the morphemes meaningful units of the sentence
in the order in which they are written or pronounced. For example, the English
sentences ‘John hit the ball’ and its passive counterpart ‘The ball was hit by
John’ might be derived from the same deep structure in this case a tree looking
very much like the surface structure for the active sentence except that the
optional transformational rule of passivization has been applied in the
derivation of the latter sentence. This rule rearranges the constituents of the
tree in such a way that, among other changes, the direct object ‘the ball’ in
deep structure becomes the surface-structure subject of the passive sentence.
It is thus an important feature of this theory that grammatical grammar grammar
352 352 relations such as subject,
object, etc., of a sentence are not absolute but are relative to the level of
structure. This accounts for the fact that many sentences that appear superficially
similar in structure e.g., ‘John is easy to please’, ‘John is eager to please’
are nonetheless perceived as having different underlying deep-structure
grammatical relations. Indeed, it was argued that any theory of grammar that
failed to make a deep-structure/surface-structure distinction could not be
adequate. Contemporary linguistic theories have, nonetheless, tended toward
minimizing the importance of the transformational rules with corresponding
elaboration of the role of the lexicon and the principles that govern the
operation of grammars generally. Theories such as generalized phrase-structure
grammar and lexical function grammar postulate no transformational rules at all
and capture the relatedness of pairs such as active and passive sentences in
other ways. Chomsky’s principles and parameters approach 1 reduces the
transformational component to a single general movement operation that is
controlled by the simultaneous interaction of a number of principles or
subtheories: binding, government, control, etc. The universal component of the
grammar is thus enlarged and the contribution of languagespecific rules is
correspondingly diminished. Proponents point to the advantages this would allow
in language acquisition. Presumably a considerable portion of the task of
grammar construction would consist merely in setting the values of a small
number of parameters that could be readily determined on the basis of a small
number of instances of grammatical sentences. A rather different approach that
has been influential has arisen from the work of Richard Montague, who applied
to natural languages the same techniques of model theory developed for logical
languages such as the predicate calculus. This so-called Montague grammar uses
a categorial grammar as its syntactic component. In this form of grammar,
complex lexical and phrasal categories can be of the form A/B. Typically such
categories combine by a kind of “cancellation” rule: A/B ! B P A something of
category A/B combines with something of category B to yield something of
category A. In addition, there is a close correspondence between the syntactic
category of an expression and its semantic type; e.g., common nouns such as
‘book’ and ‘girl’ are of type e/t, and their semantic values are functions from
individuals entities, or e-type things to truth-values T-type things, or
equivalently, sets of individuals. The result is an explicit, interlocking
syntax and semantics specifying not only the syntactic structure of grammatical
sentences but also their truth conditions. Montague’s work was embedded in his
own view of universal grammar, which has not, by and large, proven persuasive
to linguists. A great deal of attention has been given in recent years to
merging the undoubted virtues of Montague grammar with a linguistically more
palatable view of universal grammar. Refs.: One source is an essay on ‘grammar’ in the H. P. Grice
Papers, BANC.
gramsci: a. political
leader whose imprisonment by the Fascists for his involvement with the Communist
Party had the ironical result of sparing him from Stalinism and enabling him to
better articulate his distinctive political philosophy. Gramsci welcomes the
Bolshevik Revolution as a “revolution against Capital” rather than against
capitalism: as a revolution refuting the deterministic Marxism according to
which socialism could arise only by the gradual evolution of capitalism, and
confirming the possibility of the radical transformation of social
institutions. In 1 he supported creation of the
Communist Party; as its general secretary from 4, he tried to reorganize
it along more democratic lines. In 6 the Fascists outlawed all opposition
parties. Gramsci spent the rest of his life in various prisons, where he wrote
more than a thousand s of notes ranging from a few lines to chapterlength
essays. These Prison Notebooks pose a major interpretive challenge, but they
reveal a keen, insightful, and open mind grappling with important social and
political problems. The most common interpretation stems from Palmiro
Togliatti, Gramsci’s successor as leader of the
Communists. After the fall of Fascism and the end of World War II,
Togliatti read into Gramsci the so-called
road to socialism: a strategy for attaining the traditional Marxist
goals of the classless society and the nationalization of the means of
production by cultural means, such as education and persuasion. In contrast to
Bolshevism, one had to first conquer social institutions, and then their
control would yield the desired economic and political changes. This democratic
theory of Marxist revolution was long regarded by many as especially relevant
to Western industrial societies, and so for this and other reasons Gramsci is a
key figure of Western Marxism. The same theory is often called Gramsci’s theory
of hegemony, referring to a relationship between two political units where one
dominates the other with the consent of that other. This interpretation was a
political reconstruction, based primarily on Gramsci’s Communist involvement
and on highly selective passages from the Notebooks. It was also based on
exaggerating the influence on Gramsci of Marx, Engels, Lenin, and Gentile, and
minimizing influences like Croce, Mosca, Machiavelli, and Hegel. No new
consensus has emerged yet; it would have to be based on analytical and
historical spadework barely begun. One main interpretive issue is whether
Gramsci, besides questioning the means, was also led to question the ends of
traditional Marxism. In one view, his commitment to rational persuasion,
political realism, methodological fallibilism, democracy, and pluralism is much
deeper than his inclinations toward the classless society, the abolition of
private property, the bureaucratically centralized party, and the like; in
particular, his pluralism is an aspect of his commitment to the dialectic as a
way of thinking, a concept he adapted from Hegel through Croce. Antonio Gramsci,
nome completo, così come registrato nell'atto di battesimo, Antonio Sebastiano
Francesco Gramsci[1] (Ales, 22 gennaio 1891 – Roma, 27 aprile 1937), è stato un
politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario
italiano. Nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia,
divenendone esponente di primo piano e segretario dal 1924 al 1927, ma nel 1926
venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi. Nel 1934, in seguito
al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà
condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di
vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei
suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, Gramsci
analizzò la struttura culturale e politica della società. Elaborò in
particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti
impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società,
con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune
condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli
antenati paterni di Antonio Gramsci erano originari della città di Gramshi in
Albania, e potrebbero essere giunti in Italia fin dal XVI secolo, durante la
diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti d'archivio attestano
che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato con Domenica Blajotta,
possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari,
delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci (1769-1824). Questi sposò Maria
Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci Gennaro Gramsci
(1812-1873), che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del Regno di
Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia di un
avvocato napoletano di origini spagnole. Il loro secondo figlio fu Francesco
(1860-1937), il padre di Antonio Gramsci.[2][3] Le origini albanesi erano
conosciute dallo stesso Antonio Gramsci, che tuttavia le immaginava più
recenti, come scriverà alla cognata Tatiana Schucht dal carcere di Turi, il 12
ottobre del 1931: «[...] io stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma
si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana,
fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere
dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco
perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.»
Ghilarza: casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge
quando morì il padre; dovendo trovare subito un lavoro, nel 1881 partì per la
Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese,
che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Giuseppina Marcias
(1861-1932), figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune
terre. La sposò nel 1883, malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in
Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla
propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino
alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro (1884-1965) e, dopo che
Francesco Gramsci fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta (1887-1962),
Emma (1889-1920).[1] Antonio Gramsci nasce ad Ales secondo il registro delle
nascite dello stato civile del comune il 22 gennaio 1891 e registrato con i nomi
di Antonio, Francesco; secondo il registro dei battesimi della parrocchia di
San Pietro e Paolo nasce il giorno dopo, il 23 gennaio 1891, e viene registrato
con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco.[4] Sette mesi dopo la
nascita di Antonio, Francesco Gramsci fu trasferito, come gerente dell'Ufficio
del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario (1893-1945),
Teresina (1895-1976) e Carlo (1897-1968).[5] Antonio a due anni si ammalò del
morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna
vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, Gramsci non supererà il
metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la
conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione.
Ebbe sempre una salute delicata: a quattro anni, soffrendo di emorragie e
convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la
bara e il vestito per la sepoltura.[6] Il padre Francesco fu arrestato il
9 agosto 1898, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e il 27
ottobre 1900 venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve
valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta; priva del
sostegno dello stipendio del padre, la famiglia Gramsci trascorse anni di
estrema miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità,
tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo
camicie.[7] Proprio per le sue delicate condizioni di salute Antonio cominciò
a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse nel 1903
con il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di
iscriversi al ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo
contributo all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del
catasto di Ghilarza per 9 lire al mese - l'equivalente di un chilo di pane al
giorno - smuovendo «registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di
nascosto perché mi doleva tutto il corpo».[8] Antonio Gramsci nel
1906 Il 31 gennaio 1904 Francesco Gramsci, grazie a un'amnistia, anticipò di
tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario
in un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura
e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove
lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali
sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio
comunale di Santu Lussurgiu, a 18 chilometri da Ghilarza, «un piccolo ginnasio
in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto
l'insegnamento delle cinque classi».[9] Con tale preparazione un poco
avventurosa, riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano
nell'estate del 1908 e a iscriversi al Liceo classico Giovanni Maria Dettori di
Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo
24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro,
il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al
mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo. La modesta
preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire, perché inizialmente Gramsci
nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma riuscì a recuperare in
fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi impegni costanti. Non si
concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe potuto permettersele solo
con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito che possedeva, per lo più
liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici, né i locali pubblici.[10]
A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline umanistiche e per lo
studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto in
matematica gli fece perdere l'interesse per la materia[11]. Nel
frattempo, il giovane Gramsci, iniziò a seguire le vicende politiche. Il
fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, ai primi
del 1911 divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione
socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico,
libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava
le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva
poco a leggere quei libri e quei giornali».[12] Leggeva anche i romanzi
popolari di Carolina Invernizio, di Anton Giulio Barrili e quelli di Grazia
Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la
visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La
Voce di Giuseppe Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima alle sue
raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli
nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini».[13] Alla fine della
seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì il
professor Raffa Garzia, radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda,
quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Francesco
Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero di Luigi
Luzzatti.[14] Gramsci instaurò con il Garzia un buon rapporto, che andava oltre
il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del
giornale, ricevette nell'estate del 1910 la tessera di giornalista, con
l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse»: e il 25 luglio
Gramsci ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto
pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese
di Aidomaggiore.[15] In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è
conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il
commercio, non per la civiltà [...] la Rivoluzione francese ha abbattuto molti
privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una
classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i
privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della
natura, possono essere sorpassate».[16] La sua concezione socialista, qui
chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione
all'indipendentismo sardo[17], nel quale egli esprimeva, insieme con la
denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze
sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali
venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli
stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori
salariati.[18][19] Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà
operaia di una grande città del Nord: nell'estate del 1911, il conseguimento
della licenza liceale con una buona votazione - tutti otto e un nove in
italiano - gli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università.
Nell'autunno del 1911, il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso,
riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo
39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per
poter frequentare l'Università di Torino: Gramsci fu uno dei due studenti di
Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino. «Partii per Torino come
se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire
per il viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Il 27 ottobre 1911
conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno
studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si iscrive alla
Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese
di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve pagare venticinque
lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare
quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce, della pulizia della
biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i pasti - «non meno di due
lire alla più modesta trattoria» - e la legna e il carbone per il
riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi
permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi
oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
gelata».[20] Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da
parte sua, non se la passava di certo molto meglio. L'Università degli
Studi di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione:
Luigi Einaudi, Francesco Ruffini, Vincenzo Manzini, Pietro Toesca, Achille
Loria, Gioele Solari e poi il giovane linguista Matteo Bartoli,[21] che si legò
di amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana
Umberto Cosmo, contro il quale, nel 1920, indirizzò però un articolo
violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere,
continuò comunque a ricordarlo con simpatia - «serbo del Cosmo un ricordo pieno
di affetto e direi di venerazione [...] era e credo sia tuttora di una grande
sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che
è propria dei grandi eruditi e studiosi»[22] - ricordando anche che, con questi
e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado
divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in
tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in
Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno
può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro
si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla
cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani».[23]
Angelo Tasca Gramsci si ritrovò a casa per le elezioni politiche del 26
ottobre 1913, dopo la fine della guerra italo-turca contro l'Impero ottomano
per la conquista della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti,
ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti.
In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i
socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro
i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In
quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti" si trovarono
d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di quest'esperienza
elettorale al compagno di studi Angelo Tasca, giovane dirigente socialista
torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla
trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse
contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi
per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di
esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista».[24] Tornò a
Torino ai primi di novembre del 1913, andando ad affittare una stanza
all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale;
dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si
trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della
borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la
memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che
mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso
per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto
«afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella
sessione di primavera.[25] Prese anche lezioni private di filosofia dal
professore Annibale Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era
originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché
staccarsi [...] voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli
scopi della rivoluzione [...] come fa il pensare a far agire [...] come le idee
diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la
necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello
che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo
di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche
«di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla
rovescia della palla di piombo [come il Sud Italia era generalmente considerato
nel Nord] che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e
corporativa del movimento socialista».[26] L'iscrizione al partito gli
permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i
giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini:
«uscivamo spesso dalle riunioni di partito [...] mentre gli ultimi nottambuli
si fermavano a sogguardarci [...] continuavamo le nostre discussioni,
intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel
regno dell'impossibile e del sogno».[27] Nell'Italia che ha dichiarato la
propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corso - neutralità affermata
anche dal Partito socialista - scrive per la prima volta sul settimanale
socialista torinese Il Grido del Popolo, il 31 ottobre 1914, l'articolo
Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre
sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e
operante,[28] senza però poter comprendere quale svolta politica stesse
preparando l'allora importante e popolare esponente socialista. Sostenne
il 13 aprile 1915 quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo
esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente con l'entrata
in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese
dell'Avanti!. Dal 1916 Gramsci trascorse gran parte delle sue giornate
all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di
corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la
sezione giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo
e del foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca
torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto,
dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di
partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle
recensioni dei libri alla critica teatrale.[29] Dirà più tardi di aver scritto
in dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti
volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano
morire dopo la giornata»[30] e di aver contribuito «molto prima di Adriano
Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul
Pirandello, dal 1915 al 1920, tanto da mettere insieme un volumetto di duecento
pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: il
Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso».[31] Della
commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di
virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi.[32] I tre atti
corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto
che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più
che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la
caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia,
più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con
l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista
e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che
visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà[33] «il prodotto migliore
dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per
partito preso [...] troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria,
e di molta verbosità inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è
una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica
della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che
si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo
corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare [...] è una vita
ingenua, rudemente sincera [...] una efflorescenza di paganesimo naturalistico,
per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la
fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica». Severo fu
invece il giudizio sul Così è (se vi pare):[34] dalla tesi - pseudologistica -
che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma [...] e
neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone
vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di
Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [...] puro e semplice
aggregato di parole che non creano né una verità né un'immagine [...] il vero
dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che
non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro
atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione
logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del
giornale dei giovani socialisti La Città futura, uscito l'11 febbraio 1917. Qui
mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo» - scriverà - «il
concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro
in me e io ero tendenzialmente crociano».[35] Nel marzo 1917 lo zar di
Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni
popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell'autocrazia:
viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i
Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente
Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i
quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo
di democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese,
mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è [...] un atto proletario
ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista [...] i rivoluzionari
socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente
il compito di controllare che gli organismi borghesi [...] non facciano essi
del giacobinismo».[36] Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito
il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la
lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato
energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi
che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega
esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obiettive affinché una
rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero
marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario
nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze
intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano
avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale».[37] È
l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia
del successo della Rivoluzione d'ottobre. Anche in Italia la guerra
interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la
penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco
provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino
sfociarono, il 23 agosto 1917, in un'autentica sommossa spontanea duramente
repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città
dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale,
arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma,
indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente
l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla
rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione
della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici
persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore
de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni il 19 ottobre 1918.
Gramsci nel 1922 I bolscevichi avevano preso il potere in Russia il 7
novembre 1917, ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate,
confuse e censurate, finché il 24 novembre l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì
con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da
Gramsci:[38] «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più
che di fatti [...] essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il
Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari.
Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse
una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di
tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua
riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti
hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici
entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni
del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni
del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non
sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una
dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche».[39] In realtà Marx,
almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse
giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico:[40] ma qui
interessa rilevare tanto la visione di Gramsci ancora idealistica,
volontaristica, dell'azione politica, quanto la critica che di fatto Gramsci
rivolgeva ai dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di
concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico. Finita la guerra e
usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, dal 5 dicembre 1918
Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'Avanti!, che allora si
stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe
Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri
giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano
ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove
nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione
nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre
riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura
proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un
orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando
pareva immediato il cataclisma della società italiana».[41] Il 1º maggio 1919
uscì il primo numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e
animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il
programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga
aspirazione ai problemi concreti [...] nessuna idea centrale, nessuna
organizzazione intima del materiale letterario pubblicato» Tasca intendeva
farne una pubblicazione culturale: «per "cultura" intendeva "ricordare",
non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose
fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio [...] fu una rassegna
di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare
novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine
nuovo nei suoi primi numeri [...]».[42] Gramsci intendeva invece
definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno
la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio,
i consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e
Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne
fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna [...] il problema dello
sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea
dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione
operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo
divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di
fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo [...] perché negli articoli
del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se
stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso
loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come
possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non
erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra
con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni
reali».[42] Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti
all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti
ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da
tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto
occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al
problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica,
sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i
primi Consigli. La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale del
marzo 1920, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro
attinga in se stessa [...] il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e
illusioni»[43] e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De
Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di
ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le
continue esorbitanti pretese degli operai».[44] Così quando in occasione
di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle
commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo
sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo
con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo
sciopero generale proclamato a Torino il 15 aprile e in alcune province
piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati.
I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta
l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine
d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere
ottenuto nulla. Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma
anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti
riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito
socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò
sull'Ordine Nuovo una sua relazione,[45] approvata dalla Federazione torinese,
che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che
era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di
distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai
industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si
opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato,
Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e
di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito
socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di
sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale
periodo [...] il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli
eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere [...] non lancia parole
d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale,
unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria [...] il Partito socialista è
rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna,[46] un mero partito parlamentare,
che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese
[...]». Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di
omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere
presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III
Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non
ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà
nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono
fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito
per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali [...] se il Partito
non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un
mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia
istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze
anarchiche [...]». Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di
educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale,
dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni
dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!.
Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste:
«valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto,
secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e
distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito
del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società
comunista [...] i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito
[...] ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve
essere immediatamente commentata [...] per trarne argomenti di propaganda
comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie [...] le sezioni
devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative,
nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti [...] l'esistenza di un
Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [...] è la condizione
fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet [...]
il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del
potere politico sia posta in modo esplicito [...]».[47] La risoluzione
dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti
l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista
Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli
ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso
dell'Internazionale,[48] alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di
Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano
riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel
dopoguerra. In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie
dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli
industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa
Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò
l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche
d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse
l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio
di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo
milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla
FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni Agnelli
prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica
decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica
poteva funzionare anche in assenza del proprietario. Giovanni
Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della
Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide
riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi
ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito,
che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la
proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del
paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un
accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla
fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche. Quell'esperienza dimostrò
tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto
l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali
occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII
Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse[49] che «la costituzione del
Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera
nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli
irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del
Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le
loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e
la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al
lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di
organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà».
Nell'ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di
un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari,
Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il
Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista. La
fondazione del Partito comunista Il congresso di Livorno La scissione si
realizzò il 21 gennaio 1921, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita
del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale». Il
comitato centrale fu composto dagli astensionisti (Amadeo Bordiga, Ruggero
Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia e Bruno Fortichiari),
dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni, Egidio Gennari,
Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi Polano) e dagli
ordinovisti Gramsci e Terracini. Dal 1º gennaio 1921 Gramsci diresse
l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il
Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da
Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni del 15 maggio: Gramsci non
ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non
lo agevola nell'apprezzamento di molti elettori. Alla fine di maggio
partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo
dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato
in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa,
Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del
Pcus e amico personale di Lenin,[50] che aveva vissuto alcuni anni in Italia e,
attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka) (1896-1980) che, violinista, aveva
abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia.
Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è
conquistato: ricorderà «il primo giorno che [...] non osavo entrare nella tua
stanza perché mi avevi intimidito [...] al giorno che sei partita a piedi e io
ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto
tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da
viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile [...] ho
molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi
hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e
torbido».[51] E quell'immagine di lei, viandante in un mondo grande e
terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal carcere:
«Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento [...] ti ho accompagnata fino
all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare
[...] così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una
mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca».[52] Si sposano nel
1923 e avranno due figli, Delio, nato il 10 agosto 1924, e Giuliano, nato il 30
agosto 1926. Il figlio di quest'ultimo (nato nel 1965), porta il nome del
nonno, vive a Mosca e pratica la musica medievale.[53] Giulia diverrà nel 1924
membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico.[54] La moglie
di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a
salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a
qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci
guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le
contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano
rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di
Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è
allora tra i maggiori rappresentanti.[55] Tuttavia nei suoi scritti fino al
1926 ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese
e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano
critiche al regime sovietico. Nel III Congresso dell'Internazionale
comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle
sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la
tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei
dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base
programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma nel marzo del 1922.
Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse
erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale
comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così
unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse
fare ad Amadeo questa concessione [...] senza nuove crisi e nuove minacce di
scissione nel seno del nostro movimento».[56] Nel IV Congresso
dell'Internazionale, tenutosi dal 5 novembre al 5 dicembre 1922, di fronte
all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con
ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli
internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un
nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni
accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio
1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del
nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e nel
novembre del 1923 si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione
italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di
Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci
obbliga [...] a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro
di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di
principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la
polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad
ogni evenienza».[57] Il 12 febbraio 1924 uscì a Milano il primo numero
del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del
quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne
giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al
partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno,
unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».Alle elezioni
del 6 aprile venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a
Roma, protetto dall'immunità parlamentare, il 12 maggio 1924. Quello stesso
mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle
Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di
un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti
e inni a Mussolini,[58] mentre, a parte, discutevano dei problemi del
partito. Nel convegno si affrontò il «caso Bordiga», il quale aveva
rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza
dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze
politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre
correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di
Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della
grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il
rivoluzionario napoletano godeva nel Partito. Il 10 giugno un gruppo di
fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora
che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei
giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la
linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta
Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia,
che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e
questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al
«Comitato dei sedici» - il nucleo dirigente dei gruppi aventiniani - la
proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti
uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo
Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi
prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la
riunione».[59] Giacomo Matteotti Malgrado le divisioni
dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del regime fosse
imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad
arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie
iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella
rovina della piccola e media azienda [...] il monopolio del credito, il regime
fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa
commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è
verificato dalla piccola e media alla grande borghesia [...] L'apparato
industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un
abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione
dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro [...] La disgregazione
sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di
massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in
minoranza nella zona industriale [...] Le elezioni del 6 aprile [...] segnarono
l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente
successivi all'assassinio dell'on. Matteotti [...] le opposizioni avevano
acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse
condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità
del governo fascista [...] si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito
nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita
campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario
[...]» «Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non
riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non
possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose
esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di
folklore paesano, destinato a passare alla storia nell'ordine delle diverse
maschere provinciali italiane, più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar,
dei Garibaldi».[60] S'ingannava, perché l'inerzia dell'opposizione non
riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme
il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e
ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante viene aggredito anche Gobetti.
E dopo il 12 settembre, quando il militante comunista Giovanni Corvi uccide in
un tram il deputato fascista Armando Casalini, per vendicare la morte di
Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente
che l'opposizione aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da
segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli
fascisti; il 26 partì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale
del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre,
che non avrebbe più rivisto. Benito Mussolini Il 12 novembre 1924
il deputato comunista Luigi Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i
deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto
il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista,
a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il 27 dicembre 1924 il
quotidiano di Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare
Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti:
«Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per
l'approvazione o per la complicità del duce» e il 3 gennaio 1925 Mussolini, in
un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla
Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica
di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva.
In febbraio Gramsci andò a Mosca, per stare con la moglie e conoscere
finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a maggio, il 16 tenne il suo
primo - e unico - discorso in Parlamento[61], davanti all'ex compagno di
partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un
capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore
e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero [...] Conosciamo quel viso:
conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con
la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al
proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia [...] Mussolini
[...] è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce
impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione
degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato;
divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa
borbonica».[62][63] Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo
aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di
associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il
pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al
Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge
voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e
contadine». E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente
gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista,
e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi
fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e
un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è
qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti
marxisti». Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare
i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma
in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive
in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il
proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso
nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e
alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie
italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a
realizzarsi». Dal 20 al 26 gennaio 1926 si svolse clandestinamente a Lione
il III Congresso del Partito.[64] Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i
maggiori responsabili, Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti,
Scoccimarro: vi era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito
socialista di cui era stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome
dell'Internazionale, Jules Humbert-Droz.[65] Gramsci presentò le Tesi
congressuali elaborate insieme con Togliatti.[66] Con un capitalismo
debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in Italia si assiste al
compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni
degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato,
in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia
urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come
l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e
coordinatrice di tutta la società.»[67] Secondo Gramsci il fascismo non
è, come invece ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma
è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli
agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza
imperialistica è l'espressione della necessità, da parte delle classi
industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per
la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per
la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle
contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a
questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del
Mezzogiorno.[68] A questo scopo, il Partito andrà bolscevizzato, ossia
organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una "disciplina di
ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle
frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre il
90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario del Partito.[69] Da
allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito.
Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con una certa durezza le
posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base
sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia
e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala
destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come
tale deve essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la
cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione
predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista… La
organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita
del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale
non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve
regnare nelle sue file… La centralizzazione e la compattezza del partito
esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano
carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo
profondamente dai partiti socialdemocratici».[70] Tornato a Roma - da via
Vesalio si era trasferito in via Morgagni - ebbe il tempo di passare alcuni
mesi con la famiglia - la moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate
Eugenia e Tatiana - che abitano tuttavia in un altro appartamento, in via
Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal
delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente
coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; il 4 ottobre, a Firenze,
era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di
Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli
esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione -
Gobetti, che muore il 6 febbraio 1926, venticinquenne, a Parigi, in conseguenza
delle bastonate squadriste, Amendola, Salvemini - un processo farsa condannava
a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista
Roberto Farinacci. La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio
Giuliano, lasciò l'Italia il 7 agosto e il mese dopo fu la volta della cognata
Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe più
rivisto. Giustino Fortunato Elaborando temi già affrontati nelle
Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione
meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui
analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti
dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall'insurrezione di Milano repressa
a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana,
impersonata politicamente da Giovanni Giolitti, di fronte all'insofferenza delle
classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto
che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una
politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il
blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo
doganale, unita a concessione di libertà sindacali. Di fronte alla
persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti
socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del
Centro-Nord. Il problema è allora, per Gramsci, di perseguire una politica di
opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi
ultimi in un'alleanza con la classe operaia. La società meridionale, secondo
Gramsci, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini
poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano
la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in
città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il
lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini
poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a
loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con
personalità del valore di Benedetto Croce e di Giustino Fortunato e sono, con
quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo
blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per Gramsci, «i reazionari più operosi della
penisola»,[71] «le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo
senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana».[72] Per
poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di
intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi
estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato
urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui contadini, nel 1926
scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è
l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito»[73] «Non ho mai
voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non
solo a stare in prigione [...] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho
dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli
qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono
conservare il loro onore e la loro dignità di uomini» (Antonio Gramsci,
Lettera alla madre, 10 maggio 1928) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra
la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito
comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica
della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e
la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del
«socialismo in un solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento
rivoluzionario.[74] Il dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev
dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con
la costituzione in frazione della minoranza[75] e si era esteso anche
all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. [senza
fonte] Il 18 ottobre 1926 il New York Times, forse su ispirazione di Lev
Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul
carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la
carica di segretario del Partito gli concedeva.[76] Su incarico
dell'Ufficio politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato
centrale del Partito sovietico.[77] Egli si mostra preoccupato per «l'acutezza
delle polemiche» che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più
gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la
massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di
Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti
che sono superiori a tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti
sovietici il merito di essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore
delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi», li rimprovera di star
«distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare
la funzione dirigente che il partito comunista dell'URSS aveva conquistato per
l'impulso di Lenin: ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi
faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe
stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e
debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato
internazionale». Palmiro Togliatti Nel merito del fondamento del
contrasto - la contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in
URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata» -
Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare
della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione
è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del
leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato [...] è in questo
elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei
pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella
pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della
socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato
occidentale di organizzarsi in classe dirigente». Gramsci concludeva
esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito
potentemente a educarci per la rivoluzione [...] sono stati tra i nostri
maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili
dell'attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del
comitato centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella
lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito
fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze
rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista
deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto
dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una
prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e
mortali».[78] Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano
all'Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure
in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella
illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo
avviso, invece, «d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà
più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo».[79] Non ci
sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui
il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, il 31
ottobre 1926, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze
personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire il
convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli
ultimi, minimi residui di democrazia: il 5 novembre il governo sciolse i
partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8 novembre,
in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua
casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli.[80] Il giorno successivo fu
dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani.[81] Dopo un
periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, il 7
febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette,
in agosto, la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche erano state
opposte alle sue - già federale di Varese, ora si occupava di commercio - e,
soprattutto, quella della cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre,
per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe,
perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto
avvicinare da due agenti provocatori - prima un tale Dante Romani e poi un
certo Corrado Melani - ma senza successo.[82] Il processo a ventidue
imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni
Roveda, iniziò finalmente a Roma il 28 maggio 1928; Mussolini aveva istituito
il 1º febbraio 1927 il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale,
Alessandro Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista,
relatore l'avvocato Giacomo Buccafurri e accusatore l'avvocato Michele Isgrò,
tutti in uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto
nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna»[83]
Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile,
apologia di reato e incitamento all'odio di classe.[84] Il pubblico ministero
Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna
impedire a questo cervello di funzionare per venti anni»;[85] e infatti
Gramsci, il 4 giugno, venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque
giorni di reclusione;[86] il 19 luglio raggiunse il carcere di Turi, in
provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, Gramsci
era intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche
soggetto» che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore».[87] L'8
febbraio 1929, nel carcere di Turi, il detenuto 7.047 ottenne finalmente
l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il
primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali
saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte.
Caratteristico era il suo modo di lavorare: quasi tutti i giorni, per alcune
ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle frasi da scrivere e
poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato
sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare.[88] A fare da tramite
tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Piero Sraffa e tramite
questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la moglie di
Gramsci tornata in Unione Sovietica. Intanto, il VI Congresso
dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca dal luglio al settembre 1928,
aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la socialdemocrazia, che veniva
anzi assimilata allo stesso fascismo.[89] Era la tesi di Stalin il quale,
liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche l'influenza di Bucharin
che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo
principale oppositore da destra.[90] Al nuovo orientamento dell'Internazionale,
riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo nel luglio 1929, dovevano
adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti.[89] Il
Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte dell'Internazionale,
espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di
trotskismo, prima, il 30 marzo del 1930, Bordiga,[91] poi, il 9 giugno, fu la
volta di Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli.[92] Gramsci
teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni
di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da
Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire
un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos
Lisa, amnistiato nel 1933, inviò subito al Centro estero comunista.[93] Secondo
quella relazione, Gramsci riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra
operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi
Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato
cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di
questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento
rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariato - la classe operaia - debba
allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene conto delle
particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico
degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile comprendere come
la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare
azione [...]» Foto segnaletica di Gramsci del 1933 «La lotta per la
conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno
solo accedere per gradi [...] il primo passo attraverso il quale bisogna
condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul
problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai
compresa da tutti i lavoratori [...] a questo obiettivo deve improntarsi la
tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua
prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della
Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare tutti i
programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola
soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria». La
richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse
obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per
quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare
tale linea politica come «socialdemocratica», durante le discussioni nel
cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai
fuori del Partito comunista: probabilmente le reazioni di alcuni «erano
esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni di Gramsci dovevano apparire
«in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito
comunista».[94] È in questo periodo che Gramsci venne a contatto con
Sandro Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di
Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici
e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il
compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano[95].
Dal 1931 Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu
colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di
reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni
politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono
a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa e grave emorragia. La
tomba di Gramsci nel Cimitero acattolico di Roma Anche la moglie Giulia, in
Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare erano le sue
lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva
crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scriveva alla
cognata: «Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi
getti nella disperazione [...] io non ho mai sentito il bisogno di un apporto
esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita [...] tanto meno
oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado
di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso
di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la
grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà».[96] Quando la
madre morì, il 30 dicembre 1932, i familiari preferirono non informarlo; il 7
marzo 1933 ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese
a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro: «Fino a qualche tempo
fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la
volontà [...] Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di
arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita
concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze».[97] Eppure
lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevedeva la concessione
della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi
si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Romain Rolland e
Henri Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici,
ma solo il 19 novembre Gramsci venne trasferito nell'infermeria del carcere di
Civitavecchia e poi, il 7 dicembre, nella clinica del dottor Cusumano a Formia,
sorvegliato in camera e all'esterno. Il 25 ottobre 1934 Mussolini accolse
finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase libero
nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi altrove,
perché il governo temeva una sua fuga all'estero; solo il 24 agosto 1935 poté
essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma, dove giunse in
gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffriva
di ipertensione e di gotta. Il 21 aprile 1937 Gramsci passò dalla libertà
condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì
all'alba del 27 aprile, a quarantasei anni, di emorragia cerebrale, nella
stessa clinica Quisisana.[98] Il giorno seguente la cremazione si svolsero i
funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana: le
ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite l'anno seguente nel
Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del carcere, non
destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti
elaborati durante la reclusione; iniziati l'8 febbraio 1929, furono
definitivamente interrotti nell'agosto 1935 a causa della gravità delle sue
condizioni di salute. Furono numerati, senza tener conto della loro cronologia,
dalla cognata Tatiana Schucht, che li affidò all'Ambasciata sovietica a Roma da
dove furono inviati a Mosca e, successivamente, consegnati a Palmiro
Togliatti.[99] Dopo la fine della guerra i Quaderni, curati dal dirigente
comunista Felice Platone sotto la supervisione di Palmiro Togliatti, furono
pubblicati dall'editore Einaudi – unitamente alle sue Lettere dal carcere
indirizzate ai familiari – in sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con
i titoli: Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, nel
1948 Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, nel 1949 Il
Risorgimento, nel 1949 Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato
moderno, nel 1949 Letteratura e vita nazionale, nel 1950 Passato e presente,
nel 1951 Nel 1975 i Quaderni furono pubblicati a cura di Valentino Gerratana
secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in
volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci nell'Avanti!, ne Il Grido
del Popolo e ne L'Ordine Nuovo. Il pensiero di Gramsci L'egemonia
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Egemonia
culturale. Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le
forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica
di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si
oppongono: significa ottenere l'egemonia. Vi è distinzione fra direzione
– egemonia intellettuale e morale – e dominio – esercizio della forza
repressiva: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a
liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi
affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima
di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali
per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche
se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere
anche dirigente».[100] La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche
mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non
riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a
risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione
del mondo. A quel punto, la classe sociale subalterna, se riesce a indicare
concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può
diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad
altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova
alleanza di forze sociali, divenendo egemone. Il cambiamento dell'esercizio
dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello
della sovrastruttura – in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale,
morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la
struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che in Gramsci
indica l'insieme della struttura e della sovrastruttura, ossia i rapporti
sociali di produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia
italiana e il Risorgimento in particolare, Gramsci rileva che la classe popolare
non trovò un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica
dei liberali di Cavour concepì «l'unità nazionale come allargamento dello Stato
piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal
basso, ma come conquista regia».[101] Gramsci ritiene che l'azione della
borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse
acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che
costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione
borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito
giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione,
furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione
aristocratica. Cavour Il partito politico italiano allora più
avanzato fu il Partito d'Azione di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare
il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe
contadina: Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma
gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni
latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati da Cavour,
il Partito d'Azione avrebbe dovuto «legarsi alle masse rurali, specialmente
meridionali, essere giacobino [...] specialmente per il contenuto
economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali che si
realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali
legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova
formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui
contadini di base, accettandone le rivendicazione di base [...] e sugli
intellettuali degli strati medi e inferiori».[102] Al contrario, i
cavourriani seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo
tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché
i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che
erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione: ma «questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora: volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte», che ebbe una
funzione paragonabile a quella di un partito. «Questo fatto è della
massima importanza per il concetto di rivoluzione passiva, che cioè non un
gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno Stato, sia pure
limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere
dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza
politica-diplomatica». Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali
nel dirigere la lotta di rinnovamento «è uno dei casi in cui si ha la funzione
di dominio e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia».[103]
E dunque per Gramsci il concetto di egemonia si distingue da quello di
dittatura: questa è solo dominio, quella è capacità di direzione. Nei suoi
scritti tuttavia Gramsci non prese mai posizione contro la dittatura del
proletariato né espresse critiche significative al regime sovietico in
Russia. Le classi subalterne Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le
classi subalterne - sottoproletariato, proletariato urbano, rurale e anche
parte della piccola borghesia - non sono unificate e la loro unificazione
avviene solo quando giungono a dirigere lo Stato, altrimenti svolgono una
funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli
Stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si
ribellano. Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi
sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri,
classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo
attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e
un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di
interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi
dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di
potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed
è stata parziale: tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale
blocco sociale è la Chiesa cattolica, che si batte per mantenere l'unione dottrinale
tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e
dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che
essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare: «la Chiesa
romana è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente
si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime
semplici », una lotta che ha fatto risaltare «la capacità organizzatrice nella
sfera della cultura del clero» che ha dato «certe soddisfazioni alle esigenze
della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le
mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano
"rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti"
».[104] Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata
dalle scuole filosofiche crociane e gentiliane, non ha «saputo creare una unità
ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali», tanto
che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha
nemmeno «tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la
religione nell'educazione infantile», e questi pedagogisti, pur essendo non
religiosi, non confessionali e atei, «concedono l'insegnamento della religione perché
la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni
infanzia non metaforica».[105] La cultura laica dominante utilizza la religione
proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello
di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di
subalternità. Le classi dominanti hanno derubricato a folklore la cultura
delle classi subalterne. Gramsci annota l'8 febbraio 1929, nel I Quaderno, che
il folklore «non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una
cosa ridicola, una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come
una cosa molto seria e da prendere sul serio», e va studiato in quanto
«concezione del mondo e della vita [...] di certi strati della società [...]
determinati nel tempo e nello spazio», cioè del popolo inteso come «l'insieme
delle classi strumentali e subalterne di ogni forma di società finora
esistita». È dunque necessario «mutare lo spirito delle ricerche folkloriche,
oltre che approfondirle ed estenderle».[106][107] La coscienza di
classe Karl Marx La frattura tra gli intellettuali e i semplici può
essere sanata da quella politica che «non tende a mantenere i semplici nella
loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una
concezione superiore della vita». L'azione politica realizzata dalla «filosofia
della prassi» - così Gramsci chiama il marxismo, non solo per l'esigenza di
celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria - opponendosi alle
culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni a
una «superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali».[108] La via
che conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma
culturale e morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa - cioè
la classe operaia, - non è, in generale, consapevole né della funzione che può
svolgere né della sua condizione reale di subordinazione, Il proletariato,
scrive Gramsci, «non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che
pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica
anzi può essere in contrasto col suo operare»; esso opera praticamente e nello
stesso tempo ha una coscienza teorica ereditata dal passato, accolta per lo più
in modo acritico. La reale comprensione critica di sé avviene «attraverso una
lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale». La coscienza politica, cioè l'essere parte di
una determinata forza egemonica, «è la prima fase per una ulteriore e
progressiva autocoscienza dove teoria e pratica finalmente si
unificano».[108] Ma autocoscienza critica significa creazione di un
gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché per distinguersi e
rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza
intellettuali, «uno strato di persone specializzate nell'elaborazione concettuale
e filosofica».[109] Già Machiavelli indicava nei moderni Stati
unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. Il Principe di Machiavelli «non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva, ma era una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del
capo, del condottiero ideale; ma gli elementi passionali, mitici [...] si
riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe
realmente esistente».[110] Niccolò Machiavelli In Italia non si
ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione
della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa,
politicamente «la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno
progressiva e più stagnante: mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza
giacobina efficiente, la forza appunto che nelle altre nazioni ha suscitato e
organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato gli Stati
moderni».[111] A questa forza progressiva si oppose in Italia la
«borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo
sfacelo, come classe, della borghesia comunale». Forze progressive sono i
gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non
sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, «se
le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella
vita politica. Ciò intendeva il Machiavelli attraverso la riforma della
milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese; in questa
comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe,
più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione
nazionale».[111] Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non
può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e «questo organismo è
già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in
cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire
universali e totali»; il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale
e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica,
divenendo così «la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione
di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume».[105] Perché un
partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre
elementi fondamentali: «Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la
cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo
spirito creativo ed altamente organizzativo [...] essi sono una forza in quanto
c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza
coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente»
«L'elemento coesivo principale [...] dotato di forza altamente coesiva,
centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva
[...] da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe
più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma
in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani» «Un
elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a
contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale».[112] Gramsci negli
scritti compresi fra il 1919 e il 1926 ribadì i principi espressi dalla Terza
Internazionale, insistendo sulla "disciplina ferrea" del partito e
contestando qualsiasi forma di "frazionismo". Socialisti e
sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del
regime fascista. Per Gramsci, tutti gli uomini sono intellettuali, dal
momento che «non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento
intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens»,[113] in
quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo
«un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del
mondo, ha una consapevole linea di condotta morale», ma non tutti gli uomini
hanno nella società la funzione di intellettuali. Storicamente si formano
particolari categorie di intellettuali, «specialmente in connessione coi gruppi
sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in
connessione col gruppo sociale dominante». Un gruppo sociale che tende
all'egemonia lotta «per l'assimilazione e la conquista ideologica degli
intellettuali tradizionali [...] tanto più rapida ed efficace quanto più il
gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali
organici».[111] L'intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo,
l'artista e perciò, nota Gramsci, «i giornalisti, che ritengono di essere
letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali»,
mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di
intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasore - ma non assolutamente
il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza «motrice esteriore e
momentanea degli affetti e delle passioni» - il quale deve giungere «dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente».[114] Il
gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende
a conquistare alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello
stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali
si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi
fanno riferimento: essi operano tanto nella società civile - l'insieme degli
organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie
all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi
masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante - quanto nella
società politica, dove si esercita il «dominio diretto o di comando che si
esprime nello Stato e nel governo giuridico». Gli intellettuali sono così «i
commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni subalterne
dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè: 1) del consenso spontaneo
dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita
sociale dal gruppo fondamentale dominante [...] 2) dell'apparato di coercizione
statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non
consentono».[115] Come lo Stato, nella società politica, tende a
unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella
società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente
dello Stato, elabora «i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e
sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici
qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni
inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e
politica».[109] Il compito della “riforma intellettuale e morale” non potrà che
essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la
determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni
pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito
comunista si pone, per Gramsci, come sintesi attiva di questo processo:
intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe
lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale
collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a
questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire
il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti,
ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono
mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto
cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto
riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali. In molte
lingue - in russo, in tedesco, in francese - il significato dei termini «nazionale»
e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato
molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare,
perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione
e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un
forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e
astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o
a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano».[116]
Dall'Ottocento, in Europa, si è assistito a un fiorire della letteratura
popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre
Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica,
alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola
e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Fëdor Michajlovič Dostoevskij e di
Lev Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia: qui la letteratura non si è
diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale
intellettuale e morale tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito
come più straniero degli stranieri stessi. Fa eccezione, per Gramsci, il
melodramma, che ha tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare
sostenuto altrove dalla letteratura. Alessandro Manzoni ritratto da
Francesco Hayez Il pubblico italiano cerca la sua letteratura all'estero perché
la sente più sua di quella nazionale: è questa la dimostrazione del distacco,
in Italia, fra pubblico e scrittori: «Ogni popolo ha la sua letteratura, ma
essa può venirgli da un altro popolo [...] può essere subordinato all'egemonia
intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più
stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e
repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si
accorge di essere oggetto di egemonie straniere; così come, mentre si fanno
piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialismi». Hanno
fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo
in esso un moderno umanesimo, tanto gli intellettuali laici quanto i cattolici:
la loro insufficienza è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura
che esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo
di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale; la religione è
rimasta allo stato di superstizione [...] l'Italia popolare è ancora nelle
condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la religione, tutt'al
più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo
stadio».[117] Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo
scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più
popolare, è una dimostrazione del carattere non nazionale-popolare della letteratura
italiana; ecco le parole dai Quaderni del carcere, confrontandolo con Tolstoj:
«Il carattere aristocratico del cattolicismo manzoniano appare dal compatimento
scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj),
come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese,
Perpetua, la stessa Lucia [...] i popolani, per il Manzoni, non hanno vita
interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali e il
Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una cattolica
società di protezione di animali [...] niente dello spirito popolare di
Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo.
L'atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della
Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di
immediatezza umana [...] vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede
con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità,
alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno
del popolo [...] non c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato [...]
Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato,
lo stesso don Rodrigo [...] il suo atteggiamento verso il popolo non è
popolare-nazionale ma aristocratico».[118] Una classe che muova alla
conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa
espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare
la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che
interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che
entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé
che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima
non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente».
Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà
letteraria presente, e Gramsci vede nella critica svolta da Francesco De
Sanctis un esempio privilegiato: Francesco De Sanctis ritratto da
Saverio Altamura «La critica del De Sanctis è militante, non frigidamente
estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra
concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica
della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle
masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta
culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del
De Sanctis [...] Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di
parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde». Il De
Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova
cultura: di qui la differenza con il Croce, che vive sì gli stessi motivi
culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui «la passione e il
fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza
piena di bonomia». Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono
messi in discussione, allora in Croce «subentra una fase in cui la serenità e
l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa:
fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con
quella del De Sanctis».[119] Per Gramsci, una critica letteraria
marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve
fondere, come De Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura
nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia
della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli
scrittori si trovavano a operare. Non a caso, Gramsci progettava nei suoi
Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani»,
dal nome del gesuita Antonio Bresciani (1798-1862), tra i fondatori e direttore
della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta
reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio
del De Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono, per Gramsci, gli
intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia
reazionaria, sia essa cattolica che laica, con un «carattere tendenzioso e
propagandistico apertamente confessato».[120] Fra i «nipotini» Gramsci
individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo
Ojetti - «la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale» -
Alfredo Panzini, Goffredo Bellonci, Massimo Bontempelli, Umberto Fracchia,
Adelchi Baratono - «l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria
morale e civile [...] Baratono teorizza solo la propria impotenza estetica e
filosofica e la propria coniglieria» - Riccardo Bacchelli - «nel Bacchelli c'è
molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda
fu una manifestazione di gesuitismo artistico» - Salvator Gotta, «di Salvator
Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare
e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca»,
Giuseppe Ungaretti. Secondo Gramsci «la vecchia generazione degli
intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una
giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti
promesse, Titta Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da
piccoletti».[121] Benedetto Croce, il più autorevole intellettuale
dell'epoca, secondo Gramsci aveva dato alla borghesia italiana gli strumenti
culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la
cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra;
è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior
rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita
nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, il Croce combatte il
marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come
decisivo: quello dell'economia; Il Capitale di Marx sarebbe per lui un'opera di
morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società
capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe
la piena moralità umana e sociale. La non scientificità dell'opera maggiore di
Marx sarebbe dimostrata dal concetto del plusvalore: per Croce, solo da un
punto di vista morale si può parlare di plusvalore, rispetto al valore,
legittimo concetto economico. Benedetto Croce Questa critica del
Croce è in realtà un semplice sofisma: il plusvalore è esso stesso valore, è la
differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della
forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx
deriva direttamente da quella dell'economista liberale inglese David Ricardo la
cui teoria del valore-lavoro «non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa,
perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una
constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di
educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, doveva
acquistarla solo con la Economia critica [Il Capitale di Marx]».[122] La
filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo il Vico, la
realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma,
conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia
dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazioni - storia della libertà,
della cultura, del progresso - non è la storia concreta delle nazioni e delle
classi: «La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme
letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità
critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e
registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in
quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto
economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella
ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione
polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia [...] la storia
del Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e
cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello
scrittore».[123] L'operazione conservatrice del Croce storico fa il paio
con quella del Croce filosofo: se la dialettica dell'idealista Hegel era una
dialettica dei contrari - uno svolgimento della storia che procede per
contraddizioni - la dialettica crociana è una dialettica dei distinti:
commutare la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione,
se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società,
si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche del Croce: la
sua Storia d'Europa, iniziando dal 1815 e tagliando fuori il periodo della
Rivoluzione francese e quello napoleonico, «non è altro che un frammento di
storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel
1789, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche,
dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo
immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica che durò fino al
1870».[124] Analoga è l'operazione operata dal Croce nella sua Storia d'Italia
dal 1871 al 1915 la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del
regime dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento
in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto [...] in cui
un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora [...] in cui un
sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si
afferma, e invece [Croce] assume placidamente come storia il momento
dell'espansione culturale o etico-politico» Gramsci, fin dagli anni
universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e
positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la
quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto
a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza politica del
partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa per la
conquista dell'egemonia. Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj
Bucharin, edito nel 1921, La teoria del materialismo storico manuale popolare
di sociologia, si colloca nel filone positivistico: «la sociologia è stata un
tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di
un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico [...] è
diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e
classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul
modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare
sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da
prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una
ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della
sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla
quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di
uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico».[125] La
comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile
utilizzando la dialettica marxiana - della quale non vi è traccia nel Manuale
del Bucharin - perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la
loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione
politica che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé:
già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui
soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa
si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono
implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i
rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi
delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. L'azione
politica rivoluzionaria, la prassi, per Gramsci è anche catarsi che segna «il
passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento
etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in superstruttura
nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo
al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore
che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo
di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine
di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così, mi pare,
il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico
coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento
dialettico». Friedrich Engels La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è
«dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della
scienza della politica» e può essere compresa solo concependo il marxismo «come
una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e
nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli
elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione
delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata
che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica,
nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime».[126] Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma per Gramsci va rifiutata «la concezione
della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e
acritica» dal momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di
misticismo».[127] Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi
stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un
divenire. Come potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed
extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? «La formulazione di Engels che
l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e
laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il
germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per
dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente
oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo
[...] . L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto
il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma
questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle
contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono
la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie
[...]. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie
parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione
culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un
punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire
verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un
presupposto unitario».[128] La formazione linguistica di Antonio Gramsci
inizia durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle
lezioni di linguistica generale del prof. Matteo Bartoli. Dal Bartoli Gramsci
apprende che la lingua è un "prodotto sociale" e che non può essere
studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è
possibile comprendere i mutamenti di una data lingua senza riflettere sui
mutamenti sociali, culturali e politici del popolo che la parla.[129] È stato
notato che Gramsci fece aderire le teorie apprese dal Bartoli alle letture
filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo all'Ideologia
Tedesca di Karl Marx, dove il filosofo affermava che la lingua, come la
coscienza, appartiene alla sfera degli istituti sovrastrutturali, cioè al mondo
dell'organizzazione politica e giuridica della società.[129] Le più
interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni
del carcere e riguardano da una parte la questione della lingua in Italia,
ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una
lingua nazionale italiana, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico
nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza
per Gramsci, perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi
masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare
ogni forma di particolarismo regionale. L'indagine storica I Quaderni del
carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a
problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria
storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito
alla cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si
riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle
responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito
nazionale unitario. A tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la
lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come
manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali,
questo studio non sia ozioso e puramente erudito».[130] Nell'affrontare
una ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane Gramsci cerca dei
termini di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia
il volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un
documento ufficiale di carattere politico-istituzionale, in Italia il volgare
appare per la registrazione di documenti privati legati al commercio o a
questioni giuridiche: «l'origine della differenziazione storica tra
Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo
(verso l'841), cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia
(il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati tra i
discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce giurando in volgare,
cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione
politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento
di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di
appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per
comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la
monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono
dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei
conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de le
putte»).» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Torino,
Einaudi, 1975, p. 646.) In Francia i gruppi dirigenti si rendono conto
dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di cui parla
Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche come un
nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà statale
integrale»,[131] in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e
governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo
giuramento. Gramsci ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del
volgare si diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione
di documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la
creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della
borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Gramsci scrive:
«fino al Cinquecento Firenze esercita una egemonia culturale, connessa alla sua
egemonia commerciale e finanziaria (papa Bonifazio VIII diceva che i fiorentini
erano il quinto elemento del mondo) e c'è uno sviluppo linguistico unitario dal
basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi scrittori
fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre
più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata
storica».[132] Da questo momento si verifica una cristallizzazione della
lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non
scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non
intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi «vengono
assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi,
ma aulici».[133] In questo senso, Gramsci vede sciupata l'occasione di una
diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione
compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal
carattere elitario dei ceti intellettuali italiani. Gramsci affronta con
maggior vigore la questione della lingua italiana in relazione al periodo post-unitario;
nella seconda metà dell'Ottocento il nuovo Stato Italiano era per gran parte
dialettofono, mentre l'italiano veniva usato solo a livello letterario e come
lingua delle istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua nazionale
testimoniava la frammentazione politica e culturale del popolo italiano; questo
fenomeno veniva avvertito come un problema politico, soprattutto da molti
intellettuali di tendenze democratiche come Alessandro Manzoni. Nella sua
ricostruzione storica Gramsci scrive che «anche la questione della lingua posta
dal Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e
morale della nazione e dello Stato, ricercato nell'unità della lingua»;[134]
eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver compreso la questione linguistica
italiana come una questione politica e sociale, si distingue dall'autore
lombardo nel modo di interpretare la risoluzione del problema.
Graziadio Isaia Ascoli Durante il suo apprendistato glottologico presso
il professor Bartoli a Torino Gramsci aveva avuto modo di confrontare le
posizioni del Manzoni con quelle di Graziadio Isaia Ascoli, autore del Proemio
al primo numero dell'Archivio Glottologico italiano del 1873. Mentre Manzoni
prevedeva la diffusione di una lingua nazionale sul modello fiorentino imposta
per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di origine toscana, Ascoli
concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto di un'unificazione
culturale prima ancora che linguistica. Secondo Ascoli l'unità culturale
e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un
determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui provengono gli elementi
essenziali della vita nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode,
ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato
municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico e culturale su
tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza, il suo
particolare idioma. Per Ascoli «una lingua nazionale altro non può e non deve
essere, se non l'idioma vivo di una data città; deve cioè per ogni parte
coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di
quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi
stromento livellatore, dell'intiera nazione».[135] Ascoli, nel suo Proemio,
prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi; infatti l'unità
linguistica francese corrisponde all'egemonia politico-culturale della città di
Parigi: «La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché
Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della
Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni
impulso dell'universa civiltà francese; [...] viene da Parigi il nome, perché
da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio l'unità
assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dell'animo suo; e
non solo studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la
metropoli vuole; e quindi è necessariamente dell'intiera Francia l'intiera
favella di Parigi».» (G. I. Ascoli, Proemio, AGI, n. I, 1873, p. X)
Gramsci ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni, dove scrive: «poiché il
processo di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale
unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile
avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in
grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo
intervento non bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini
proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una
determinata lingua unitaria: si otterrà una lingua unitaria, se essa è una
necessità e l'intervento organizzato accelererà i tempi del processo già
esistente; quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire
[...]».[136] L'insegnamento linguistico Gramsci, nel Quaderno 29 alla
nota Focolai di irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo
nazionale linguistico nelle grandi masse compila un elenco di tutti gli
strumenti utili alla diffusione di una lingua unitaria: «1) La scuola; 2) i
giornali; 3) gli scrittori d'arte e quelli popolari; 4) il teatro e il
cinematografo sonoro; 5) la radio; 6) le riunioni pubbliche di ogni genere,
comprese quelle religiose; 7) i rapporti di conversazione tra i vari strati
della popolazione più colti e meno colti [...] ; 8) i dialetti locali, intesi
in sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano
complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per l'Italia
meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc.)».[137] Al
primo posto di questo elenco troviamo la scuola; per tradizione, a scuola, gli
insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la
grammatica normativa. Gramsci definisce la grammatica normativa come una «fase
esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la
lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e
tipi o schemi che esistono già [...]».[138] Le riflessioni gramsciane in
materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola
realizzata da Giovanni Gentile nel 1923. La riforma, in linea con l'impianto
filosofico idealista gentiliano, prevedeva che l'apprendimento della lingua
nazionale nelle classi elementari si basasse sull'espressione viva o parlata e
non sulla grammatica, considerata questa come una disciplina astratta e
meccanica. Nell'ottica gramsciana questo metodo apparentemente liberale
racchiude uno spiccato carattere classista, in quanto gli scolari appartenenti
alle classi sociali più alte sono avvantaggiati dal fatto che apprendono
l'italiano in famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su
una comunicazione familiare realizzata esclusivamente in dialetto. In questo
senso lo studio della grammatica si presenta come uno strumento in grado di
livellare le differenze sociali degli scolari permettendo a tutti la conoscenza
della lingua nazionale. Secondo Gramsci la conoscenza della lingua
nazionale presso le classi subalterne è fondamentale per la loro organizzazione
politica. Un proletariato dialettofono non può partecipare alla vita politica
di una nazione e non può sperare di crearsi un ceto intellettuale in grado di
competere con i ceti intellettuali tradizionali. I dialetti non devono sparire,
ma restare funzionali a un tipo di comunicazione familiare che non può
garantire, per cause interne al suo sistema, «la comunicazione di contenuti
culturali universali, caratteristici della nuova cultura esercitata dal
proletariato»[139] Gramsci prestò attenzione anche alle lingue
morte. Da giovane espresse in più occasioni l'idea che lo studio del latino e
del greco fosse particolarmente utile nella formazione scolastica degli
individui, in quanto esse potevano abituare gli alunni allo studio rigoroso ed
educarli a pensare storicamente. Inoltre, contestò il nazionalismo degli studi
e criticò ripetutamente gli intellettuali che, durante la prima guerra
mondiale, chiedevano che fossero messe al bando le edizioni dei testi antichi e
le grammatiche greche e latine compilate da autori tedeschi[140]. Anche
nei Quaderni del carcere si soffermò sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca
del latino e del greco, osservando che erano strumenti importanti nella fase
della formazione scolastica nella quale è necessario un insegnamento
"disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Gramsci,
però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe
dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma
necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di
intellettuale.[141] Scrisse nel Quaderno 12: Bisognerà sostituire il
latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non
sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine
didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale
della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta
professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggio re dello
studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè
scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se
«istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete. (A. Gramsci, Quaderni del
Carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1546)Influenze sul
pensiero di Gramsci Fiabe intrecciate, 2007, Omaggio a Antonio Gramsci,
di Maria Lai, Piazzale del Museo Stazione dell'arte Niccolò Machiavelli —
influenzò fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Karl Marx — filosofo,
storico, critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico
Friedrich Engels Lenin Antonio Labriola — primo notevole teorico marxista
italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse quella
di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia Georges Sorel —
sindacalista francese e scrittore che ha respinto il principio dell'inevitabilità
del progresso storico. Vilfredo Pareto — economista e sociologo italiano, noto
per la sua teoria sull'interazione fra masse ed élite. Benedetto Croce —
liberale italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu
sottoposto da Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati
da Gramsci Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio:
Gramscianesimo. Zackie Achmat · Eqbal Ahmad · Jalal Al-e-Ahmad · Louis
Althusser · Perry Anderson · Giulio Angioni · Michael Apple · Giovanni Arrighi
· Zygmunt Bauman · Homi K. Bhabha · Gordon Brown · Alberto Burgio · Judith
Butler · Alex Callinicos · Partha Chatterjee · Marilena Chauí · Noam Chomsky ·
Alberto Mario Cirese · Hugo Costa · Robert W. Cox · Alain de Benoist · Biagio de
Giovanni · Ernesto de Martino · Umberto Eco · John Fiske · Michel Foucault ·
Paulo Freire · Eugenio Garin · Eugene D. Genovese · Stephen Gill · Paul
Gottfried · Stuart Hall · Michael Hardt · Chris Harman · David Harvey · Hamish
Henderson · Eric Hobsbawm · Samuel P. Huntington · Alfredo Jaar · Bob Jessop ·
Ernesto Laclau · Subcomandante Marcos · José Carlos Mariátegui · Chantal Mouffe
· Antonio Negri · Luigi Nono · Michael Omi · Pier Paolo Pasolini · Antonio
Pigliaru · Michelangelo Pira · Juan Carlos Portantiero · Nicos Poulantzas ·
Gyan Prakash · William I. Robinson · Edward Saïd · Ato Sekyi-Otu · Gayatri
Chakravorty Spivak · Piero Sraffa · Edward Palmer Thompson · Giuseppe Vacca ·
Paolo Virno · Cornel West · Raymond Williams · Howard Winant · Ludwig Wittgenstein
· Eric Wolf · Howard Zinn Gramsci al cinema e in televisione Il delitto
Matteotti, regia di Florestano Vancini, (1973) Antonio Gramsci - I giorni del
carcere, regia di Lino Del Fra, (1977) Vita di Antonio Gramsci, regia di
Raffaele Maiello - serie TV (1981) Gramsci, film in forma di rosa, regia di
Gabriele Morleo - cortometraggio (2005) Gramsci 44, regia di Emiliano Barbucci
(2016) Nel mondo grande e terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia
Perria e Laura Perini (2017) Gramsci nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla
Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla Boggio, (1971-72) Gramsci nella musica
Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un
uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973) Piazza Fontana, canzone
dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente (1975) Nino, canzone
dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere (2015) Gramsci, il teatro e la
musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica, che si può
leggere nelle lettere scritte a Tania[142]. Egli ha scritto circa il melodrama
“verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una
funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci
l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove si
esercitava parte del conflitto politico. Una frase quasi ironica di
Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia:
“siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto
d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo
melodrammatizzino”[143]. Nelle sue lettere si può leggere anche riguardo
alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa musica aveva conquistato
uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero fanatismo[144].Opere Alcuni
temi della questione meridionale, in Lo Stato Operaio, a. IV, n. 1, gennaio
1930, ma ottobre 1926. Opere di Antonio Gramsci (12 voll.) Lettere dal carcere,
Torino, Einaudi, 1947; premio Viareggio[145], con centodiciannove lettere
inedite, 1965. I quaderni dal carcere Il materialismo storico e la filosofia di
Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1948. Gli intellettuali e l'organizzazione
della cultura, Torino, Einaudi, 1948. Il Risorgimento, Torino, Einaudi, 1949.
Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi,
1949. Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950. Passato e presente,
Torino, Einaudi, 1951. L'Ordine Nuovo. 1919-1920, Torino, Einaudi, 1954.
Scritti giovanili. 1914-1918, Torino, Einaudi, 1958. Sotto la mole. 1916-1920,
Torino, Einaudi, 1960. Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo 1921-1922, Torino,
Einaudi, 1966. La costruzione del Partito comunista. 1923-1926, Torino,
Einaudi, 1971. L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1948. Americanismo e
fordismo, Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, 1949. Ultimo discorso alla
Camera. 16 maggio 1925, Padova, R. Guerrini, 1958. Antologia popolare degli
scritti e delle lettere di Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1957. Il
Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, 1961. Note sulla situazione
italiana 1922-1924, Milano, Rivista storica del socialismo, 1962. 2000 pagine
di Gramsci Nel tempo della lotta. 1914-1926, Milano, Il Saggiatore, 1964.
Lettere edite e inedite. 1912-1937, Milano, Il Saggiatore, 1964. Elementi di
politica, Roma, Editori Riuniti, 1964. La formazione dell'uomo. Scritti di
pedagogia, Roma, Editori Riuniti, 1967. Scritti politici La guerra, la
rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, 1916-1919, Roma,
Editori Riuniti, 1967. Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita
del Partito comunista, 1919-1921, Roma, Editori Riuniti, 1967. Il nuovo partito
della classe operaia e il suo programma. La lotta contro il fascismo,
1921-1926, Roma, Editori Riuniti, 1973. Scritti 1915-1921, Milano, I quaderni
de Il corpo, 1968. Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La nuova sinistra,
1971. Paolo Spriano (a cura di), Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, 1971.
L'alternativa pedagogica, Firenze, La nuova Italia, 1972. I consigli e la
critica operaia alla produzione, Milano, Servire il popolo, 1972. La lotta per
l'edificazione del Partito comunista, Milano, Servire il popolo, 1972. Il
pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti, 1972. Il pensiero filosofico e
storiografico di Antonio Gramsci, Palermo, Palumbo, 1972. Resoconto dei lavori
del III congresso del P.C.D.I. (Lione, 26 gennaio 1926), Milano, Cooperativa
editrice distributrice proletaria, 1972. Scritti sul sindacato, Milano, Sapere,
1972. Sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973. Quaderni del carcere Quaderni
1-5. (1929-1932), Torino, Einaudi, 1975. Quaderni 6-11. (1930-1933), Torino,
Einaudi, 1975. Quaderni 12-29. (1932-1935), Torino, Einaudi, 1975. Apparato
critico, Torino, Einaudi, 1975. La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton,
1976. Arte e folclore, Roma, Newton Compton, 1976. Scritti 1915-1921. Inediti
da Il Grido del Popolo e dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo,
Milano, Moizzi, 1976. Ricordi politici e civili, Pavia 1977. Scritti nella
lotta. Dai consigli di fabbrica, alla fondazione del partito, al Congresso di
Lione, Livorno, Edizioni Gramsci, 1977. Scritti sul sindacato, Roma, Nuove
edizioni operaie, 1977. A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano, 1978. I consigli
di fabbrica, Milano, Amici della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese,
1978. Favole di libertà, Firenze, Vallecchi, 1980. Scritti 1913-1926 Cronache
torinesi. 1913-1917, Torino, Einaudi, 1980. La città futura. 1917-1918, Torino,
Einaudi, 1982. Il nostro Marx. 1918-1919, Torino, Einaudi, 1984. L'Ordine
nuovo, 1919-1920, Torino, Einaudi, 1987. Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con
altre lettere di Piero Sraffa, Roma, Editori Riuniti, 1986. Forse rimarrai
lontana.... Lettere a Iulca, 1922-1937, Roma, Editori Riuniti, 1987. Gramsci al
confino di Ustica. Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma,
Editori Riuniti, 1987. Le sue idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, 1987.
Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte inedite, 2 voll., Roma,
l'Unità, 1988. Il rivoluzionario qualificato. Scritti 1916-1925, Roma, Delotti,
1988. Il giornalismo, Roma, Editori Riuniti, 1991. Lettere, 1908-1926, Torino,
Einaudi, 1992. Per una preparazione ideologica di massa: introduzione al primo
corso della scuola interna di partito, aprile-maggio 1925, Napoli, Laboratorio
politico, 1994. Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
Vita attraverso le lettere, 1908-1937, Torino, Einaudi, 1994. Disgregazione
sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, 1996. Piove,
Governo ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori
Riuniti, 1996. Contro la legge sulle associazioni segrete, Roma,
Manifestolibri, 1997. Lettere, 1926-1935, Torino, Einaudi, 1997. Le opere,
Roma, Editori Riuniti, 1997. Critica letteraria e linguistica, Roma, Lithos,
1998. Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma, Carocci,
2004. La nostra città futura. Scritti torinesi, 1911-1922, Roma, Carocci, 2004.
Pensare l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, 2004. Scritti sulla
Sardegna. La memoria familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso,
2008. Scritti rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione
(1919-1926), a cura di Orlando Micucci, Camerano, Gwynplaine, 2008. Quaderni
del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, 18 voll., Roma, Istituto
della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, 2009. Epistolario
1906-1922, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Epistolario
gennaio-novembre 1923, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2011.
Antologia, a cura di Antonio A. Santucci, prefazione di Guido Liguori, Roma,
Editori Riuniti university press, 2012. Il teatro lancia bombe nei cervelli.
Articoli, critiche, recensioni 1915-1920, a cura di Fabio Francione, Mimesis
Edizioni 2017. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione,
NovaEuropa Edizioni, 2018.Note Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco
Gramsci, Marmilla Cultura, 28 gennaio 2018. URL consultato il 17 aprile 2019. ^
International Gramsci Society, su internationalgramscisociety.org. ^ Genealogia
dei Gramsci (JPG), su albanianews.it. ^ Luigi Manias, Ma quando è nato Antonio
Gramsci?, Marmilla Cultura, 21 gennaio 2018. URL consultato il 17 aprile 2019.
^ Luigi Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, 14
marzo 2018. URL consultato il 17 aprile 2019. ^ Così Gramsci ricordava con
ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata Tatiana, il 7
settembre 1931, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando
lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e
perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava
aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita» ^ «Noi eravamo tutti
molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per
i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella
Teresina Gramsci, in Fiori, 1995, p. 18 ^ Lettera a Tatiana Schucht, 3 ottobre
1932: così Gramsci scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue
preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho
conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono
sempre cavata, bene o male» ^ Lettera a Tatiana Schucht, 12 settembre 1932 ^
Numerose sono le richieste di denaro al padre: il 10 febbraio 1910 gli scrive
di essere «proprio indecente con questa giacca che ha già due anni ed è
spelacchiata e lucida [...] oggi non sono andato a scuola perché mi son dovuto
risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio, che «per non farvi vergognare non sono
uscito di casa per dieci giorni interi» ^ Fonzo, pp. 15-22. ^ Testimonianza in
Fiori, 1995, p. 65 ^ Testimonianza della sorella Teresina in Fiori, 1995, p. 66
^ Fiori, 1995, p. 66. ^ L'articolo è riportato in Fiori, 1995, p. 69. ^
Riportato in A. Gramsci, Scritti politici, p. 53-55. ^ Antonio Gramsci,
Dizionario di Storia, Treccani ^ [...] «io pensavo allora che bisognava lottare
per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare i continentali".
Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò
che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità
intellettuale». Cfr. A. Gramsci, lettera a Giulia Schucht, 6 marzo 1924, in A.
Gramsci, Lettere 1908-1926, 1992, pp. 271-273. ^ Gramsci e l'isola laboratorio,
La Nuova Sardegna ^ A. Gramsci. Lettere. 1908-1926, p. 55 ^ Progettando, in
carcere, uno studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera
dal carcere del 19 marzo 1927 alla cognata Tatiana, ricorda come «uno dei
maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore profondo
che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Università di Torino, il
quale era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente
i "neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già nel 2003
l'economista Amartya Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi
linguistici di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato
ispirato dai Quaderni dal carcere. Nel suo recente studio Gramsci and
Wittgenstein: an intriguing connection, Franco Lo Pipero ha aggiunto nuovi
elementi che dimostrano il collegamento fra Gramsci e Wittgenstein tramite
Piero Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a conoscenza del Quaderno 29
nel 1935, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto a Cambridge
nel 1929 ^ Lettera dal carcere del 23 febbraio 1931: in essa Gramsci ricorda
ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta ala fine del
1920, a causa di quell'articolo che fece «piangere come un bambino e stette
chiuso in casa [il Cosmo] per alcuni giorni», essi s'incontrarono nel 1922
nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore era segretario: «il
Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a
ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in preda a una
commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli avessi
procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi di scuola»
^ Lettera dal carcere a Tatiana Schucht del 17 agosto 1931 ^ In Fiori, 1995, p.
103 ^ In Fiori, 1995, p. 105 ^ In Fiori, 1995, pp. 108-9 ^ In Fiori, 1995, p.
112 ^ In A. Gramsci, Scritti politici, I, p. 56-59 ^ Davico, p. 12. ^ Lettera
dal carcere a Tatiana Schucht del 7 settembre 1931 ^ Lettera dal carcere a
Tatiana Schucht del 19 marzo 1927 ^ Recensione del 24 marzo 1917 ^ Recensione
del 4 aprile 1917 ^ Recensione del 5 ottobre 1917 ^ Spriano, 1972, pp. 373. ^
Note sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, 29 aprile 1917, in
Gramsci, 1971, pp. 59-60 ^ I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, 28
luglio 1917, in Gramsci, 1971, p. 66 ^ Spriano, 1972, p. 260. ^ La rivoluzione
contro il «Capitale», nell'Avanti!, 24 novembre 1918, in Gramsci, 1971, pp.
80-1 ^ Nella lettera dell'8 marzo 1881 Marx scriveva a Vera Zasulič che la
tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata dalla distruzione
minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici: «Per salvare la comune
russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione scoppierà a tempo
opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze «vive del paese»
nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento, allora la comune
ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della società russa e,
insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico».
Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto del 1882, Marx ed
Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di partenza
per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso della
lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il contenuto,
perché il documento sarebbe stato reso pubblico solo nel 1924. (Cfr. Ettore
Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, 2014, pp.142-143). ^
A. Gramsci, Ordine Nuovo, 14 agosto 1920 A. Gramsci, ibidem ^ Corriere
della Sera, 9 marzo 1920 ^ Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen.
PS, 1920, C 2, b 50 ^ Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, II, pp.
102-108 ^ Concluso l'8 ottobre 1919 con un ordine del giorno che prospettava la
conquista violenta del potere e la dittatura del proletariato ^ Per un
rinnovamento del Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in
Gramsci, 1971, pp. 315-21 ^ Il 30 luglio Lenin, nel suo discorso
all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista
l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista
corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo
dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo
parlamentare». Lenin, Opere, XXV, p.355 ^ Ordine Nuovo, 4 dicembre 1920, in
Scritti politici, II, p. 172 ^ GRAMSCI La sposa mandata da Lenin ^ Lettera del
30 giugno 1924, in A. Gramsci, Lettere 1908-1926 ^ Lettera dal carcere del 18
aprile 1927 ^ Un profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru. ^
Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogot - che sosteneva, fra
l'altro, di essere a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della
monarchia italiana da parte di Nitti in accordo con i socialisti - lo storico
Jaroslav Leontiev ha sostenuto nel 1999 che la conoscenza tra Gramsci e la
Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in persona: cfr. Link archivio
del Corriere ^ Amendola, pp. 13 e 97. ^ In Togliatti, 1974, pp. 272-3 ^ In
Togliatti, 1974, p. 255 ^ Lettera di Gramsci a Giulia Schucht, 21 luglio 1924 ^
Lettera a Giulia Schucht, 22 giugno 1924 ^ La crisi italiana, ne L’Ordine
Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, 1971, pp. 577-9 ^ Camera dei Deputati,
XXVII legislatura del Regno d'Italia, Tornata di sabato 16 maggio 1925 (PDF). ^
"Capo" (PDF), in L'Ordine Nuovo, 1º marzo 1924; pubblicato
successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, 6 novembre
1924. ^ «Capo», ne L’ordine Nuovo, 1º marzo 1924, in Gramsci, 1971, pp. 540-3 ^
Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso. Sul III
Congresso, P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, I, capp. 29-30 ^
Spriano, 1976(1), pp. 498-500. ^ Spriano, 1976(1), p. 490. ^ Spriano, 1976(1),
pp. 491-2. ^ Spriano, 1976(1), pp. 492-4. ^ Spriano, 1976(1), p. 511. ^ Antonio
Gramsci, Tesi di Lione, Lione, 1925. ^ Antonio Gramsci, La questione
meridionale, Editori Riuniti, 2005, p.184 ^ «Alcuni temi della quistione
meridionale». Stato operaio, gennaio 1930. Citato in Rosario Villari, Il Sud
nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari,
Laterza, 1981, p. 480 ^ Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito,
L'Unità, 1926. ^ Fiori, 1995, p. 247. ^ Spriano, 1976(2), pp. 43-5. ^ Aurelio
Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, 1998, p.
84. ^ La lettera, non datata, si ritiene scritta il 14 ottobre: fu pubblicata
per la prima volta in Francia da Tasca nel 1938. Su tutta la questione della
lotta interna nel partito comunista sovietico di questo periodo, P. Spriano,
cit., II, capp. 3 e 5 ^ A. Gramsci, Lettere 1908-1926, cit., pp. 455-462. ^
Lettera di Togliatti a Gramsci, 18 ottobre 1926 ^ Commissione di assegnazione
al confino di Roma, ordinanza del 18.11.1926 contro Antonio Gramsci (“Dirigenti
e deputati del PCd'I dichiarati decaduti il 2 novembre 1926”). In: Adriano Dal
Pont, Simonetta Carolini, L'Italia al confino 1926-1943. Le ordinanze di
assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali dal novembre 1926
al luglio 1943, Milano 1983 (ANPPIA/La Pietra), vol. IV, p. 1312 ^ Tornata di
martedì 9 novembre 1926 (PDF), Camera dei deputati, p. 6389-6394. URL
consultato il 23 marzo 2015. ^ Fiori, 1995, cap. 23. ^ In Fiori, 1995, cap. 24
^ Sentenza n. 58 del 20.2.1928 contro Antonio Gramsci e altri (“Ricostituzione
di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione alla lotta armata
ecc.”). In: Adriano Dal Pont, Simonetta Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di
antifascismo dall'anno 1927 al 1943, Milano 1980 (ANPPIA/La Pietra), vol. I, p.
260-261 ^ Amendola, p. 142. ^ Spriano, 1977, p. 41. ^ Lettera a Tatiana Schucht
del 19 marzo 1927 ^ Fiori, 1995, cap. 26. Fiori, 1995, p. 289. ^ Fiori,
1995, p. 288. ^ Risoluzione per l'espulsione di Amedeo Bordiga ^ Fiori, 1995,
p. 291. ^ Pubblicato in «Rinascita», 12 dicembre 1964 ^ In «Rinascita», cit. ^
Dalla biografia di Pertini pubblicata nel sito web del Circolo Sandro Pertini
di Genova: «Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta se
poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me ne
rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato Antonio Gramsci,
un uomo che avevo sempre ammirato per il suo coraggio». «A Turi incontrai
Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava un'aiuola di fiori; era piccolo
di statura e con due gobbe: una davanti ed una di dietro. Mi avvicinai a lui,
mi presentai, gli affermai che venivo da Santo Stefano e che ero onorato di
fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo chiamavo Onorevole Gramsci. Lui
si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi dai del lei? Siamo antifascisti,
vittime del Tribunale speciale tutti e due", "Io gli ricordai che per
loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori". Gramsci disse di
lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e Gramsci
parlò di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con
durezza. Il giorno dopo Gramsci si scusò, dicendo che il suo era un giudizio
politico, non aveva avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia
reazione in favore di due compagni che si trovavano in Francia. Da allora
diventammo buoni amici. Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato
isolato dai suoi. Per certi versi costoro lo consideravano un traditore e
chiedevano la sua espulsione dal partito, come poi fecero anche con Camilla
Ravera. In cella Gramsci era perseguitato dai carcerieri: credo che l'ordine di
non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da Roma. Io andai dal direttore
del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni volta che Gramsci si
addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei
bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per
un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione non fosse cambiata, avrei
scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che Gramsci, già gravemente
malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie proteste costrinsero il
direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci anche alcuni quaderni,
delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono nascere i quaderni dal
carcere. La mia amicizia con Gramsci mi mise in contrasto con il direttore del
carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa, all'inizio del
1932». ^ Lettera a Tatiana Schucht, 3 agosto 1931 ^ Lettera a Tatiana Schucht,
29 maggio 1933 ^ Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce
secondo la quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede
cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che
l’aveva inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della
smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare
argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta
da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove
testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata
dagli storici. Cfr. S.Fio., Antonio Gramsci e il sacerdote pentito, La
Repubblica, 27 novembre 2008. URL consultato il 17 giugno 2019. e Il Vaticano:
«Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, 25 novembre 2008. URL
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cit., p. 7 ^ Quaderni del carcere, cit., pp. 23-24 ^ Quaderni del carcere, Gli
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cit., p. 132 ^ Quaderni del carcere, cit., pp. 141-142 ^ Quaderni del carcere,
cit., p. 142 L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli
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il 16 ottobre 2012 (archiviato dall'url originale il 21 dicembre 2012).
Fondazione Istituto Gramsci, su fondazionegramsci.org. Opere di Gramsci, su
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letteratura.rai.it. "I Quaderni del carcere" con link intertestuali
ai nomi, agli eventi, ai movimenti culturali e politici e note di lettura a
cura di Luigi Anepeta M. Vincenzi, Gramsci a New York, su repubblica.it.
Gramsci, La questione meridionale, su archive.org. Antonio Gramsci, il grande
intellettuale dimenticato, in Il fascino degli intellettuali, 31 luglio 2016.
URL consultato il 01-10-2016 Gramsci, pagina web di note e articoli di
argomento gramsciano a cura di Francesco Aqueci PredecessoreSegretario del
Partito Comunista d'ItaliaSuccessore Amadeo Bordiga1924 - 1927Palmiro Togliatti
V · D · M Segretari del Partito Comunista V · D · M Antifascismo (1919-1943) V
· D · M Flag of Italian Committee of National Liberation.svg Resistenza italiana
Flag of Italian Committee of National Liberation.svg V · D · M Vincitori del
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degli Studi di TorinoSecession isti dell'Aventino[altre]
green: t. h., Grice:
“The rather idiotic German philosopher at Oxford, Schiller, thought that
Dodgson meant Green when he said that the snark may be served with greens.” -- absolute idealist and social philosopher. The
son of a clergyman, Green studied and taught at Oxford. His central concern was
to resolve what he saw as the spiritual crisis of his age by analyzing
knowledge and morality in ways inspired by Kant and Hegel. In his lengthy
introduction to Hume’s Treatise, he argued that Hume had shown knowledge and morality
to be impossible on empiricist principles. In his major work, “Prolegomena to
Ethics,” Green contended that thought imposed relations on sensory feelings and
impulses whose source was an eternal consciousness to constitute objects of
knowledge and of desire. Furthermore, in acting on desires, rational agents
seek the satisfaction of a self that is realized through their own actions.
This requires rational agents to live in harmony among themselves and hence to
act morally. In Lectures on the Principles of Political Obligation Green
transformed classical liberalism by arguing that even though the state has no
intrinsic value, its intervention in society is necessary to provide the
conditions that enable rational beings to achieve self-satisfaction.
gregorio
il grande: Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the
sad thing is he lost!” -- I, Saint, called
Gregory the Great, a pope and Roman
political leader. Born a patrician, he was educated for public office and
became prefect of Rome in 570. In 579, he was appointed papal representative in
Constantinople, returning to Rome as counselor to Pope Pelagius II in 586. He
was elected Pope Gregory I in 590. When the Lombards attacked Rome in 594,
Gregory bought them off. Constantinople would neither cede nor defend Italy,
and Gregory stepped in as secular ruler of what became the Papal States. He
asserted the universal jurisdiction of the bishop of Rome, and claimed
patriarchy of the West. His writings include important letters; the Moralia, an
exposition of the Book of Job summarizing Christian theology; Pastoral Care,
which defined the duties of the clergy for the Middle Ages; and Dialogues,
which deals chiefly with the immortality of the soul, holding it could enter
heaven immediately without awaiting the Last Judgment. His thought, largely
Augustinian, is unoriginal, but was much quoted in the Middle Ages. Grice takes
inspiration on Shropshire’s argument for the immortality of the soul from
Gregorio Magno (Dialogo, IV). Papa Gregorio I, detto
papa Gregorio Magno ovvero il Grande (Roma, 540 circa – Roma, 12 marzo 604), è
stato il 64º vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica, dal 3 settembre 590
fino alla sua morte. La Chiesa cattolica lo venera come santo e dottore della
Chiesa. Anche le Chiese ortodosse lo venerano come santo. gregorio magnus
papa Gregorio Magno Sebbene il suo pontificato si sia svolto in uno dei periodi
più bui della storia italiana, conservò una incrollabile fiducia nella forza
del Cristianesimo; anima tra le più luminose del Medioevo europeo, svolse il
suo ministero racchiuso in un corpo minuto e sempre malato, ma dotato di una
grandissima forza morale[1]. Gregorio Magno nacque verso la metà del VI
secolo [540?] da Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana, e da
Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante
dell'antica Roma che aveva mantenuto prestigio economico e sociale, nonostante
la caduta dell'Impero. Non è affatto dimostrata, invece, la sua relazione di
parentela con la Gens Anicia, che spesso è stata richiamata per sottolineare le
nobili origini del futuro Gregorio I[2]. La sua formazione culturale non
è di elevato livello. A differenza di Agostino e Cassiodoro, non si formò con
lo studio dei grandi autori dell'aetas aurea (Sallustio, Orazio, Virgilio,
Ovidio), bensì con quella tradizione letteraria impoverita che era propria
della sua epoca, dell'età tardo-antica. Perciò la sua "ars
grammatica" fu limitata e lo stile che denota i suoi scritti è in linea
con quello degli scrittori tardo-antichi del V e VI secolo. Di questi imitava,
in particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto
dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante[3]. La sua conoscenza del diritto era
limitata allo studio di Cicerone, da cui riprende anche definizioni e nozioni
filosofiche della scuola stoica e, per come era già stato fatto dalla
tradizione patristica, le inserisce nella dottrina morale cristiana. A
Roma si stava diffondendo la fama di Benedetto da Norcia, monaco e fondatore di
una nuova Regola. Espresse l'intenzione di farsi monaco egli stesso. Ma i
parenti e gli amici, per tenerlo vicino a sé, ottennero dall'imperatore
Giustino II la prestigiosa carica di praefectus urbi Romae (prefetto della
città di Roma)[4], la carica istituzionale più importante di nomina imperiale
in Italia dopo quella di esarca. In questa veste è citato in un documento
databile all'anno 573[5][6]. Devoto ammiratore di Benedetto da Norcia,
Gregorio impegnò tutte le sue notevoli sostanze per l'assistenza ai bisognosi e
per trasformare i suoi possedimenti a Roma e in Sicilia in altrettanti
monasteri. Egli stesso si fece monaco rinunciando all'altissima carica
pubblica; fondò un monastero nella propria abitazione sul colle Celio
intitolandolo a S. Andrea ad Clivum Scauri. Nella vita cenobitica si dedicò con
assiduità alla contemplazione dei misteri di Dio nella lettura della Bibbia.
Non poté dimorare a lungo nel convento perché nel 578 ricevette un altro
incarico importante: divenne, per nomina di papa Benedetto I, uno dei sette
diaconi della Chiesa di Roma. L'anno dopo il successore Pelagio II lo inviò
come apocrisario[7] presso la corte di Costantinopoli per chiedere aiuti contro
i Longobardi. Lì restò per sei anni e si guadagnò la stima della famiglia imperiale
e dello stesso imperatore Maurizio, salito al trono nel 582, di cui tenne a
battesimo il figlio Teodosio. Nel 584 ottenne per Roma l'aiuto che il papa
aveva chiesto, ma fu di tale modesta entità che non servì a risolvere i
problemi per i quali era stato invocato[8]. Al rientro a Roma, nel 586,
Gregorio tornò nel monastero sul Celio; vi rimase però per pochi anni, perché
morto il 7 febbraio 590 papa Pelagio II, vittima di una pestilenza, fu chiamato
al soglio pontificio dall'entusiasmo dei credenti e dalle insistenze del clero
e del senato di Roma. Gregorio cercò di resistere alle insistenze del popolo,
inviando una lettera all'imperatore Maurizio in cui lo pregava di intervenire
non ratificando l'elezione, ma il praefectus urbi di Roma, di nome Germano, o
forse il fratello di Gregorio[9], intercettò la lettera e la sostituì con la
petizione del popolo che chiedeva la ratifica della sua elezione a pontefice.
In attesa della risposta, Gregorio si astenne da ogni attività propria del suo
ruolo, che venne svolta da una sorta di triumvirato ecclesiastico.
L'arcangelo Michele (detto l'Angelo di Castello), opera (1753) di Peter
Anton von Verschaffelt (1710-1793) L'inverno 589-590 fu particolarmente funesto
per la penisola italiana. Alle violenze perpetrate dai Longobardi si aggiunse
una stagione eccessivamente inclemente, con nubifragi e inondazioni che
colpirono particolarmente il settentrione, causando vittime e danni
incalcolabili[10]. Ma anche il Tevere ebbe una piena particolarmente
consistente, che inondò gran parte della città provocando vittime e danni
ingenti; ne seguì un'epidemia di peste (Pelagio II morì di peste in questo
periodo). Poiché ancora nell'estate del 590 la situazione non accennava a
tornare alla normalità, in una predica del 29 agosto Gregorio esortò i fedeli
alla penitenza, e per implorare l'aiuto divino organizzò una solenne
processione per tre giorni consecutivi alla basilica di Santa Maria
Maggiore[11]. Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversava, alla
testa della processione, il ponte che collegava l'area del Vaticano con il
resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o "Ponte di
Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ebbe la visione dell'Arcangelo Michele
che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione (che
secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i partecipanti alla processione)
venne interpretata come un segno celeste preannunciante l'imminente fine
dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i romani cominciarono
a chiamare la Mole Adriana "Castel Sant'Angelo" e, a ricordo del
prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto
di rinfoderare la spada[12]. Ancora oggi nel Museo Capitolino è conservata una
pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero
quelle lasciate dall'Arcangelo quando si fermò per annunciare la fine della
peste[13]. Finalmente arrivò da Costantinopoli la ratifica all'elezione
pontificale; sebbene Gregorio (che probabilmente non sapeva che la sua lettera era
stata sostituita) rinnovasse le sue reticenze alla missione a cui era
chiamato[14], il 3 settembre 590 venne consacrato papa. L'ascesa quasi
"forzata" al soglio pontificio lo turbò profondamente e provocò in
lui una sincera contrarietà, che solo la fede incrollabile e la convinzione di
poter svolgere un ruolo di guida per la redenzione dell'umanità intera,
riuscirono a fargli superare[15][16]. Nonostante le riserve
all'accettazione del compito che lo attendeva, fu amministratore energico, sia
nelle questioni sociali e politiche per supportare i bisognosi di aiuto e
protezione, sia nelle questioni interne della Chiesa; sebbene fosse fisicamente
piuttosto esile e cagionevole di salute, si dimostrò uomo di azione, pratico e
intraprendente. E infatti uno dei primi doveri che si impose fu la
moralizzazione ed epurazione della Curia romana, in cui erano presenti troppi
personaggi, laici ed ecclesiastici, che avevano interessi ben diversi da quelli
spirituali e di carità; molti incarichi furono dunque attribuiti a monaci
benedettini. L'altro dovere primario cui si dedicò fu quello insito nel ruolo
di vescovo di Roma, utilizzando i beni propri e quelli derivanti dalle
donazioni dei privati, non a beneficio di vescovi e diaconi, ma in favore del
popolo della città di Roma che, come lamenta in una sua predica, è
"oppressa da uno smisurato dolore, si spopola di cittadini; assalita dal
nemico, non è più che un cumulo di macerie"[16]. Molti furono i
provvedimenti intesi a un riordino dell'istituzione monastica e alla regolamentazione
dei rapporti di quella con l'organizzazione ecclesiastica e i vescovi in
particolare. Assicurò una maggiore autonomia giuridica per i monasteri, la cui
vita economica non doveva in alcun modo subire l'ingerenza dei vescovi,
chiamati a compiti spirituali; regolamentò i rapporti tra scelta monacale e
vita familiare, generalmente dando la priorità ai diritti della seconda;
sottrasse, quanto più possibile, gli ecclesiastici ai tribunali civili, non
solo in ossequio a una tradizione radicata, ma soprattutto perché non aveva
alcuna fiducia delle autorità longobarde e bizantine, particolarmente
corruttibili; molti vescovi forse non erano da meno, ma su di loro poteva
comunque esercitare la sua autorità[17]. Preoccupato del sussistere
dell'eresia ariana nel 594 rivolse accorate lettere ai vescovi Costanzo di
Milano e Venanzio di Luni per esortarli a porvi rimedio[18]. Tentativi di
pace con i Longobardi Gregorio compì anche mosse politiche. Nonostante avesse
più volte invocato invano l'aiuto militare dell'Impero, i Longobardi
continuavano a devastare l'Italia facendo fuggire il clero e catturando
prigionieri che dovette riscattare direttamente con le sue sostanze personali.
Inoltre nel 591 il duca longobardo di Spoleto Ariulfo intraprese una politica espansionistica
ai danni dei Bizantini, conquistando le città del corridoio che collegava Roma
con Ravenna e assediando la stessa Roma, da cui si ritirò solo dopo aver
estorto un tributo. Nonostante le richieste, nessun aiuto venne
dall'esarca di Ravenna, che «...rifiuta di combattere i nostri nemici e vieta a
noi di concludere la pace»[19]. Papa Gregorio, infatti, premeva per una tregua
tra Imperiali e Longobardi affinché ritornasse la pace nella penisola e si
ponesse fine alle devastazioni belliche, ma Romano, l'esarca, non era d'accordo
e fece di tutto per ostacolarlo[20], al punto che l'anno successivo si mosse
per rompere le trattative che Gregorio aveva intavolato con il duca di Spoleto
per una pace separata[21], riconquistando le città del corridoio umbro[22] e
rompendo le trattative di pace che Gregorio aveva avviato con i
Longobardi. La campagna di Romano provocò la reazione di re Agilulfo, che
riprese Perugia e poi nel 593 pose l'assedio a Roma. Gregorio si trovò a dover
provvedere, a fronte di un inefficiente esercito imperiale (oltretutto mal
pagato) il cui aiuto latitava, alla difesa di Roma, e per evitare ulteriori
sofferenze e lutti alla città si vide costretto a convincere Agilulfo a levare
l'assedio pagando di tasca propria 5 000 libbre d'oro e offrendo al re
longobardo l'assicurazione del pagamento annuo di un ingente tributo[23][24].
In questo modo Gregorio si sostituiva, arbitrariamente, all'autorità civile
cittadina e al senato, che di fatto non avevano ormai più alcun ruolo politico
riconosciuto; e se al re longobardo interessava solo il denaro, il popolo
romano riconobbe in Gregorio l'unico salvatore[25]. Questa, e le
continue, successive, inutili insistenze per una pace, subirono la
disapprovazione dell'imperatore Maurizio che, concordando con la politica
dell'esarca, accusò il papa d'infedeltà all'Impero e di stupidità per i suoi
tentativi di negoziazione. Gregorio scrisse all'imperatrice per ricordarle come
dopo tanti anni di oppressione da parte dei Longobardi, gli imperatori d'Oriente
ben poco avevano fatto e speso in favore di Roma (e molto invece per Ravenna,
loro ultimo avamposto in terra italiana), mentre la città e la Chiesa avevano
bisogno di sopravvivere in pace; ma scrisse anche all'imperatore: «...Mi
è stato detto di essere stato ingannato da Ariulfo, e sono stato definito
"sempliciotto",... che significa indubbiamente che sono uno sciocco.
E io stesso debbo confessare che avete ragione... Se non lo fossi, non avrei
mai accettato di patire tutti i mali che ho sofferto qui per le spade dei
Longobardi. Voi non credete a quello che dico riguardo ad Ariulfo,
riguardo al fatto che sarebbe disposto a passare dalla parte della Repubblica,
accusandomi di dire menzogne. Dato che una delle responsabilità di un prete è
di servire la verità, è un grave insulto essere accusati di menzogna. Sento,
inoltre, che viene riposta più fiducia nelle asserzioni di Leone e Nordulfo,
invece che alle mie... Ma quello che mi affligge è che la stessa tempra che mi
accusa di falsità permette ai Longobardi di condurre giorno dopo giorno tutta
l'Italia prigioniera sotto il loro giogo, e mentre nessuna fiducia è riposta
nelle mie asserzioni, le forze del nemico crescono sempre di più...»
(Papa Gregorio Magno, Epistole, V,40.[26].) E non risparmia le accuse all'esarca
Romano, «la cui malizia è persino peggiore delle spade dei Longobardi, tanto
che i nemici che ci massacrano sembrano dolci in comparazione con i giudici
della Repubblica che ci consumano con la rapina...»[27] Le trattative con
i Longobardi, comunque, continuarono, e subirono un'accelerazione grazie anche
all'aiuto del nuovo esarca di Ravenna Callinico. Alla fine del 598, Longobardi
e Imperiali firmarono finalmente una pace, che probabilmente però era solo una
tregua armata che durò solo tre anni, nonostante Paolo Diacono la definisca
"fermissima". Gregorio ne approfittò immediatamente per estendere i
suoi interventi in favore dei bisognosi anche a province lontane da Roma che
dunque, prive ormai di un vero potere centrale (a parte quello longobardo che
poco si curava di problemi economici e sociali delle popolazioni italiche),
erano sempre più portate a riconoscere come unica guida di riferimento quella
del vescovo di Roma, la cui azione "non è tuttavia indirizzata al
rafforzamento dell'autorità politica della Chiesa", chiarisce Rosario
Villari, in quanto "Gregorio non ha programmi di potere; aspira anzi in
conformità con la sua vocazione monacale al distacco dal mondo, a convertire il
maggior numero di non credenti, a riformare la Chiesa per renderla più attiva e
capace di svolgere in pieno questo compito urgente"[28]. La
regina Teodolinda in una miniatura delle Cronache di Norimberga Icona di
papa Gregorio I In coerenza con questa visione della missione della Chiesa si
pone il suo programma di evangelizzazione e conversione dei Visigoti di Spagna
di re Recaredo I, e dei Longobardi, coi quali, dopo la pace del 598, riuscì a
stabilire rapporti di buon vicinato avviando la loro conversione dall'eresia
ariana grazie anche all'influente sostegno della regina Teodolinda. Analogo
sforzo missionario svolse in favore dei Britanni, presso i quali Gregorio inviò
40 monaci benedettini per cristianizzare le popolazioni; fu infatti grazie
all'aiuto dei re dei Franchi, con i quali Gregorio fu in continui rapporti e in
eccellente relazione, e in particolare della regina Brunechilde, che riuscì a
ottenere la conversione della Britannia, affidandola ad Agostino, priore del
convento di Sant'Andrea a Roma, poi consacrato vescovo di Canterbury. Non
sono chiari i motivi che spinsero Gregorio all'opera di cristianizzazione di un
paese tanto lontano (e da tanto tempo perso alla romanità), quando c'erano
altri popoli più vicini a Roma, e mentre era in corso l'emergenza longobarda.
Le fonti medievali hanno tentato di fornire una spiegazione ricorrendo alla
leggenda secondo la quale Gregorio, quand'era ancora monaco, si sarebbe
convinto della necessità di convertire la Britannia per aver visto alcuni
giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto e pagani,
tanto da aver esclamato, rammaricato: "Non Angli, ma Angeli dovrebbero
esser chiamati…". Comunque in meno di due anni diecimila Angli, compreso
il re del Kent Ethelbert, si convertirono[29]. Era questo un grande successo
della politica di Gregorio, che mirava a eliminare gli avversari della Chiesa e
ad accrescere l'autorità del papato con la conversione dei
"barbari". Rapporti con Costantinopoli San Gregorio in
cattedra, lo scriba e la colomba, da una miniatura del Registrum Gregorii Oltre
che per i problemi connessi alla pace con i Longobardi, i rapporti con
l'imperatore Maurizio non sempre furono cordiali per vari altri motivi.
Quando l'Imperatore, per fermare la fuga dei decurioni i quali, per sfuggire
alle loro responsabilità sicuramente onerose, entravano in monastero, promulgò
un editto con cui vietava ai funzionari pubblici e ai soldati privati di farsi
monaci, Gregorio protestò: se non aveva nulla da obiettare sulla prima parte
della legge (quella riguardante i funzionari pubblici), obiettò invece sulla
proibizione ai soldati imperiali di diventare «soldati di Cristo», ovvero di
entrare a far parte del clero[30]. Dal 594 al 599 il motivo della disputa
fu Massimo, vescovo di Salona, accusato dal papa di simonia; Massimo, favorito
dalla corte imperiale, poté mantenere il seggio e arrivò addirittura ad
accusare Gregorio di aver fatto uccidere il vescovo dalmata Malco, inviato in
Italia per rendere conto su una presunta cattiva amministrazione del patrimonio
papale e deceduto improvvisamente in esilio[31]. Lo scontro con
l'imperatore divenne particolarmente aspro nel 595. quando il Patriarca di
Costantinopoli Giovanni IV Nesteutes si proclamò "Patriarca
ecumenico", dichiarandosi di autorità pari al papa. Di fronte alle
proteste di Gregorio, il patriarca cercò il sostegno dell'Imperatore, che
scrisse al papa esortandolo a porre fine alla questione, avendo la Chiesa
bisogno di pace, e non di controversie religiose. Gregorio rispose lodando
l'Imperatore per la volontà di riportare la pace nella Chiesa, ma precisando,
con toni decisi, che della contesa era responsabile il Patriarca, che aveva
usurpato un titolo non suo: "Quando noi lasciamo la posizione che ci
spetta, e assumiamo noi stessi onori indecenti, alleiamo i nostri peccati con
le forze dei barbari... Maestri di umiltà e generali di superbia, noi
nascondiamo i denti da lupo dietro un volto da pecora. … Colui che ricevette le
chiavi del Regno dei Cieli... non fu mai chiamato Apostolo Universale; e ora il
più Santo Uomo, il mio vescovo collega Giovanni rivendica il titolo di Vescovo
Universale. … Tutta l'Europa è nelle mani dei Barbari... e, malgrado tutto, i
preti ... cercano ancora per se stessi e fanno sfoggio di nuovi e profani
titoli di superbia!"[32]. Ma da Costantinopoli non giunse alcun segnale
distensivo, e anzi il successore di Giovanni Nesteutes, Ciriaco II, mantenne il
titolo di "Patriarca ecumenico" che i patriarchi di Costantinopoli
non abbandonarono più nonostante un decreto dell'Imperatore Foca (successore di
Maurizio) avesse riconosciuto il primato della Chiesa di Roma. Gregorio reagì
assumendo il titolo di Servus Servorum Dei, che da allora fu mantenuto dai
pontefici romani. Amministrazione interna Nei territori dell'Esarcato
d'Italia che ricadevano sotto la responsabilità amministrativa della Sede di
Pietro, i cosiddetti Patrimonia, Gregorio seppe far fronte, aiutato da una rete
di funzionari, ai problemi di approvvigionamento alimentare che le continue
alluvioni, carestie e pestilenze rendevano particolarmente gravi; ebbe cura degli
acquedotti e favorì l'insediamento dei coloni eliminando ogni residuo di
servitù della gleba. Riuscì a intrattenere rapporti epistolari anche con il re
della Barbagia, Ospitone, e cercò di dissuadere quella popolazione
dall'idolatria e dal paganesimo, convertendo Ospitone stesso al Cristianesimo.
L'interesse per le popolazioni delle isole tirreniche, Sicilia, Sardegna e
Corsica[33], lo indusse a intercedere in loro favore presso l'imperatrice
Costantina affinché venisse ridotta l'elevata pressione fiscale e fosse posto
un freno alla rapacità dei funzionari, che costringevano i genitori a vendere i
figli e molti a emigrare in territorio longobardo, mentre le proprietà venivano
arbitrariamente confiscate[34]. Gregorio Magno protesse la Colonna Traiana.
Il monumento, nonostante fosse stato eretto per celebrare le imprese militari
di un imperatore pagano, fu salvaguardato e conservato per i
posteri[35] Papa Gregorio riorganizzò a fondo la liturgia romana,
ordinando le fonti anteriori e componendo nuovi testi. L'epistolario (ci sono
pervenute 848 lettere) e le omelie al popolo documentano ampiamente sulla sua
molteplice attività e dimostrano la sua grande familiarità con i Testi
sacri. Promosse quella modalità di canto tipicamente liturgico che da lui
prese il nome di "gregoriano": il canto rituale in lingua latina
adottato dalla Chiesa cattolica, che comportò, di conseguenza, l'ampliamento
della Schola cantorum. Paolo Diacono (scrive verso il 780), pur ricordando
molte tradizioni giunte fino a lui, non ha una parola sul canto né sulla
Schola. Alcune illustrazioni di manoscritti dal IX al XIII secolo tramandano
una leggenda secondo la quale Gregorio avrebbe dettato i suoi canti a un
monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe
scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per
vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo
di una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una
spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti all'orecchio. In realtà i
manoscritti più antichi contenenti i canti del repertorio gregoriano risalgono
al IX secolo e pertanto non si sa se lui stesso ne abbia composto
qualcuno. Opere Pagina delle Homiliae in Evangelia Scritti
esegetici Expositio super Cantica canticorum - opera che si compone di un
prologo e di un commento ai primi otto versetti del Cantico dei cantici;
Moralia in Job – opera costituita da 35 libri in cui viene commentato il libro
veterotestamentario di Giobbe; La paternità di un commento al primo libro dei
Re originariamente attribuito a Gregorio è stata recentemente riconosciuta a
Pietro Divinacellus, un monaco di Cava de' Tirreni morto intorno al 1156
[36]. Scritti omiletici Homiliae in Evangelia- opera costituita da 40
omelie sui Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam - opera costituita da
22 omelie su Ezechiele; Altre opere Sacramentarium Gregorianum - con cui
riformò il canone della messa, rendendola più semplice ma più solenne;
Antiphonarius cento - la nuova redazione del libro dei canti liturgici
(attribuzione dubbia); Dialoghi – opera costituita da 4 libri: Libro su santi
italiani a lui coevi; Libro monografico su san Benedetto da Norcia; Libro su
santi italiani a lui coevi; Libro sul destino dell'anima dopo la morte e su
alcune profezie. Regula Pastoralis – un manuale per la vita e l'opera dei
vescovi e in generale di coloro che ricoprono il ministero pastorale; Le
Epistolae - un registrum di circa 850 lettere, fonte primaria di informazioni
sull'epoca di Gregorio[37]; Il Liber Pontificalis, il testo ufficiale che ha
riportato per secoli l'attività dei pontefici di Roma, presenta Gregorio
esclusivamente sotto l'aspetto dell'attività religiosa, stranamente tacendo su
tutti i contatti e le scelte politiche da lui effettuate, sia con i Longobardi
sia con i Bizantini[38]. Papa Gregorio I morì il 12 marzo 604 dopo aver
sofferto per vari anni di gotta e fu sepolto nella Basilica di San
Pietro. Nel rito romano la sua memoria liturgica ricorre il 3 settembre;
in rito bizantino il giorno del suo ricordo è il 12 marzo. Dal
Martirologio Romano (ed. 2001): «12 marzo - A Roma presso san Pietro,
deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il
3 settembre, giorno della sua ordinazione.» «3 settembre - Memoria di san
Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita
monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi
in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo
dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare
la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita
monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine
celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.» Il Proprio del
santo in rito romano contiene la seguente colletta:[39] «Deus, qui
pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae,
intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de
proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum
Iesum Christum» San Gregorio Magno è patrono principale di:
Valdobbiadene (provincia di Treviso e diocesi di Padova), San Gregorio Magno
(provincia di Salerno), San Gregorio di Catania (provincia e arcidiocesi di
Catania), Manduria (provincia di Taranto e diocesi di Oria), la cui chiesa
madre custodisce la reliquia di un frammento d'osso del suo braccio destro,
Vizzini (provincia di Catania e diocesi di Caltagirone), San Gregorio da
Sassola (provincia di Roma e diocesi di Tivoli), Crispano (città metropolitana
di Napoli e diocesi di Aversa), Roverbella (provincia e diocesi di Mantova),
San Gregorio nelle Alpi (provincia di Belluno e diocesi di Belluno-Feltre), San
Gregorio d'Ippona (provincia di Vibo Valentia), Configni (provincia di Rieti),
Casola, frazione del comune di Domicella (provincia di Avellino e diocesi di
Nola), dove sarebbe custodita una reliquia d'osso della sua mano destra. San
Gregorio, fazione del comune di Veronella (provincia di Verona e diocesi di
Vicenza) Note ^ G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia, 1971, pag. 117. ^
Sofia Boesch Gajano, GREGORIO I, papa, santo, in Dizionario Biografico degli
Italiani - Volume 59, Roma 2002 ^ Claudio Mareschini, Gregorio Magno e la
cultura classica, in "Studi Classici e Orientali", vol. 56, 2010, pp.
87-107 ^ Bernardo Maria Amico, Leggendario de’ Santi benedettini in cui si
espongono le vite di cento Santi dell’Ordine di S. Benedetto, Venezia, 1726, p.
126 e segg. ^ Gregorio I santo, in Enciclopedia dei Papi, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2000. URL consultato il 1º settembre 2015. ^
Gregorio scrisse di sé «ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter
subscripsi», ma poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da
praefecturam, dalle sue epistole non è possibile sapere con esattezza se fu
"prefetto dell'Urbe" o piuttosto "pretore dell'Urbe". ^
L'apocrisario era il rappresentante permanente della Santa Sede presso la corte
di Costantinopoli; la carica fu istituita da papa Leone I. ^ C. Rendina, I
Papi. Storia e segreti, pagg. 157 e segg. ^ La fonte, Gregorio di Tours (X, 1),
è ambigua: è incerto se Germanus vada interpretato come il nome proprio del
prefetto urbano, oppure in questo caso significhi "fratello". ^
"Dal tempo di Noè non si ricordava un diluvio simile", commenterà
Paolo Diacono (come riportato in C. Rendina, op. cit., pag. 160). ^ La
processione e le modalità di svolgimento sono riferite puntualmente dal
Gregorovius in base a quanto riportato nelle cronache di Gregorio di Tours e di
Paolo Diacono (C. Rendina, op. cit., pag. 160). ^ Willy Pocino, Le curiosità di
Roma, Roma, Tradizioni italiane Newton, 2009, pp. 91-92. - C. Rendina, op.
cit., pp. 160 e segg. - Indro Montanelli e Roberto Gervaso L'Italia dei secoli
bui, Rizzoli, 1965, p. 235. ^ Castel Sant'Angelo, www.activitaly.it. ^ Secondo
una tradizione leggendaria risalente all'XI secolo tentò anche la fuga,
nascondendosi nei boschi della Sabina, dove i Romani lo scovarono e lo
riportarono indietro, accolto trionfalmente in città (C. Rendina, op. cit., p.
162). ^ Lo storico tedesco Franz Xaver Seppelt rileva che nella sua
"riluttanza ad accedere alla sede di San Pietro non si dovrà però scorgere
solamente quella modestia convenzionale, che si ha modo di notare in
innumerevoli elezioni di vescovi nel Medio Evo, non sempre sincera. La
tristezza di Gregorio e la sua scarsa condiscendenza ad accettare
l'importantissima carica erano dovute essenzialmente al dover abbandonare
definitivamente la vita di solitudine del monastero, …; i sentimenti di
Gregorio erano senza dubbio radicati profondamente e rispondevano alla natura
del suo animo" (come riportato in C. Rendina, op. cit., p. 162). C.
Rendina, op. cit., p. 162. ^ G. Pepe, op. cit., p. 127. ^ G.Montefinale, Guida
turistica alle antiche chiese ed ai resti cenobitici di Porto Venere ^ G.
Ravegnani, I Bizantini in Italia, 2004, p. 95. ^ G. Ravegnani, op. cit., pp.
95-99. ^ Romano non poteva tollerare l'insubordinazione del Pontefice, sia
perché stava trattando con il nemico senza alcuna autorizzazione imperiale, sia
perché la pace in quel momento avrebbe riconosciuto il possesso longobardo del
corridoio umbro ^ Paolo Diacono, Historia Langobardorum, IV, 8. ^ Nell'occasione
scrisse poi all'imperatore Maurizio: «Con i miei stessi occhi, ho visto i
romani legati come cani da una corda al collo che venivano condotti via per
essere venduti come schiavi in Francia» (G. Ravegnani, op. cit., pag. 98). ^ I.
Montanelli – R. Gervaso, op. cit., pp. 238 e segg. – P. Brezzi, La civiltà del
Medioevo europeo, 1978, p. 116. ^ G. Pepe, op. cit., p. 137. ^ Come riportato
in G. Ravegnani, op. cit., p. 99. ^ Papa Gregorio Magno, Epistole, V, 42. ^ C.
Rendina, op. cit., pp. 162 e segg. ^ C. Azzara, Le invasioni barbariche, Il
Mulino, 1999, pp. 110 e segg. ^ Papa Gregorio Magno, Epistole, III, 66. ^ Papa
Gregorio Magno, Epistole, IV, 47. ^ Papa Gregorio Magno, Epistole, V,20. ^
Queste ultime erano comprese nell'Esarcato d'Africa. ^ Papa Gregorio Magno,
Epistole, V,41 ^ Foro di Traiano, su romasegreta.it. URL consultato il 31
maggio 2017. ^ G. I. Gargano, Introduzione, in Gregorio Magno, Commento al
primo libro dei Re, Roma, Città Nuova, 2007, ISBN 978-88-311-9413-6, pp. 7-11.
^ edizione critica: Dag Norberg, S. Gregorii Magni registrum epistularum libri
I-VII, Corpus Christianorum Series Latina 140, Brepols, Turnhout, 1982 - Dag
Norberg, S. Gregorii Magni registrum epistularum libri VII-XIV, Corpus
Christianorum Series Latina 140A, Brepols, Turnhout, 1982 ^ S. Gasperri, Italia
longobarda, Laterza, 2012, pag. 76. ^ Missale Romanum cum lectionibus ex
decreto sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate
Pauli PP. VI promulgatum (PDF), 4: tempus per annum: hebdomadae XXII-XXXIV, Roma,
Libreria Editrice Vaticana, 1977, p. 688. Bibliografia (LA) Papa Gregorio I,
Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, 1924. URL consultato il 16 aprile 2015.
(LA) Papa Gregorio I, Dialogi. 1, Palermo, Scuola Tip. Boccone Del Povero,
1913. URL consultato il 16 aprile 2015. (LA) Papa Gregorio I, Dialogi. 3,
Palermo, Scuola Tip. Boccone Del Povero, 1932. URL consultato il 16 aprile
2015. Papa Gregorio I, Homiliae in Evangelia, Impresso a Mediolano, mediante la
gratia di Dio de li prudenti homini Leonardo Pachel e Uldericho scinzcenceller
de allamagna per loro industria, MCCCCLXXVIIII adi XX del mese de augusto. URL
consultato il 16 aprile 2015. Paolo Brezzi, La civiltà del Medioevo europeo,
vol. I, Eurodes, Roma, 1978. Indro Montanelli-Roberto Gervaso, L'Italia dei
secoli bui, Rizzoli, Milano, 1965. Gabriele Pepe, Il Medio Evo barbarico
d'Italia, Einaudi, Torino, 1971. Giorgio Ravegnani, I Bizantini in Italia,
Mulino, Bologna, 2004. Claudio Rendina, I Papi. Storia e segreti, Newton
Compton, Roma, 1983. Voci correlate Messe gregoriane Evangeliario di Teodolinda
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Latina con indici analitici. Sofia Boesch Gajano, Papa Gregorio I, in
Enciclopedia dei Papi, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000. Udienza
Generale, 4 giugno 2008, Benedetto XVI, su vatican.va. Fana idolorum destrui
minime debeant. Gregorio Magno e la conversione dei templi pagani al culto
cristiano, Palladio, NS, XXVI, 52, 2013, pp. 5-20., su academia.edu. (ES)
Scheda di San Gregorio. Incisione di Anton Wierix. Collezione De Verda, su
colecciondeverda.com. Moralia in Iob (Msc.Bibl.41), una digitalizzazione del
manoscritto dalla Biblioteca di Stato di Bamberga PredecessorePapa della Chiesa
cattolicaSuccessoreEmblem of the Papacy SE.svg Papa Pelagio II3 settembre 590 -
12 marzo 604Papa Sabiniano V · D · M Papi della Chiesa cattolica V · D · M
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marzoNati a RomaMorti a RomaPapa Gregorio ICardinali nominati da Benedetto
IDottori della Chiesa cattolicaPapi della Chiesa cattolicaPapi canonizzatiPadri
della ChiesaPraefecti urbiSanti per nome[altre]
gregory
of
Nyssa, Saint, Grecian theologian and mystic who tried to reconcile Platonism
with Christianity. As bishop of Cappadocia in eastern Asia Minor, he championed
orthodoxy and was prominent at the First Council of Constantinople. He related
the doctrine of the Trinity to Plato’s ideas of the One and the Many. He
followed Origen in believing that man’s material great chain of being Gregory
of Nyssa 354 354 nature was due to the
fall and in believing in the Apocatastasis, the universal restoration of all
souls, including Satan’s, in the kingdom of God.
grice: as a count noun –
“Lots of grice in the fields.” – One Scots to another -- count noun, a noun
that can occur syntactically a with quantifiers ‘each’, ‘every’, ‘many’, ‘few’,
‘several’, and numerals; b with the indefinite article, ‘an’; and c in the
plural form. The following are examples of count nouns CNs, paired with
semantically similar mass nouns MNs: ‘each dollar / silver’, ‘one composition /
music’, ‘a bed / furniture’, ‘instructions / advice’. MNs but not CNs can occur
with the quantifiers ‘much’ and ‘little’: ‘much poetry / poems’, ‘little bread
/ loaf’. Both CNs and MNs may occur with ‘all’, ‘most’, and ‘some’.
Semantically, CNs but not MNs refer distributively, providing a counting
criterion. It makes sense to ask how many CNs?: ‘How many coins / gold?’ MNs
but not CNs refer collectively. It makes sense to ask how much MN?: ‘How much
gold / coins?’ One problem is that these syntactic and semantic criteria yield
different classifications; another problem is to provide logical forms and
truth conditions for sentences containing mass nouns. grice: English
philosopher, born in Harborne, “in the middle of nowhere,” as Strawson put it –
(“He was from London, Strawson was”) -- whose work concerns perception and
philosophy of language, and whose most influential contribution is the concept
of a conversational implicaturum and the associated theoretical machinery of
conversational ‘postulates.’ The concept of a conversational implicaturum is
first used in his ‘presentation’ on the causal theory of perception and
reference. Grice distinguishes between the ‘meaning’ of the words used in a
sentence and what is implied by the utterer’s choice of words. If someone says
“It looks as if there is a red pillar box in front of me,” the choice of words
implies that there is some doubt about the pillar box being red. But, Grice
argues, that is a matter of word choice and the sentence itself does not ‘impl’ that there is doubt. The term ‘conversational
implicaturum’ was introduced in Grice’s William James lectures published in 8
and used to defend the use of the material implication as a logical translation
of ‘if’. With Strawson “In Defence of Dogma”, Grice gives a spirited defense of
the analyticsynthetic distinction against Quine’s criticisms. In subsequent
systematic papers Grice attempts, among other things, to give a theoretical
grounding of the distinction. Grice’s oeuvre is part of the Oxford ordinary language
tradition, if formal and theoretical. He also explores metaphysics, especially
the concept of absolute value. There is the H. P. Grice Society – Other
organisations Grice-related are “The Grice Club,” “The Grice Circle,” and “H.
P. Grice’s Playgroup.” grice’s complexe significabile, plural: -- Grice used to
say jocularly that he wasn’t commited to propositions; only to propositional
complexes -- complexe significabilia, also called complexum significabile, in
medieval philosophy, what is signified only by a complexum a statement or
declarative sentence, by a that-clause, or by a dictum an accusative !
infinitive construction, as in: ‘I want him to go’. It is analogous to the
modern proposition. The doctrine seems to have originated with Adam de Wodeham
in the early fourteenth century, but is usually associated with Gregory of
Rimini slightly later. Complexe significabilia do not fall under any of the
Aristotelian categories, and so do not “exist” in the ordinary way. Still, they
are somehow real. For before creation nothing existed except God, but even then
God knew that the world was going to exist. The object of this knowledge cannot
have been God himself since God is necessary, but the world’s existence is
contingent, and yet did not “exist” before creation. Nevertheless, it was real
enough to be an object of knowledge. Some authors who maintained such a view
held that these entities were not only signifiable in a complex way by a
statement, but were themselves complex in their inner structure; the term
‘complexum significabile’ is unique to their theories. The theory of complexe
significabilia was vehemently criticized by late medieval nominalists. Refs.: The main reference is in ‘Reply to
Richards.’ But there is “Sentence semantics and propositional complexes,” c.
9-f. 12, BANC. grice’s combinatory logic,
a branch of logic that deals with formal systems designed for the study of
certain basic operations for constructing and manipulating functions as rules,
i.e. as rules of calculation expressed by definitions. The notion of a function
was fundamental in the development of modern formal or mathematical logic that
was initiated by Frege, Peano, Russell, Hilbert, and others. Frege was the
first to introduce a generalization of the mathematical notion of a function to
include propositional functions, and he used the general notion for formally
representing logical notions such as those of a concept, object, relation,
generality, and judgment. Frege’s proposal to replace the traditional logical
notions of subject and predicate by argument and function, and thus to conceive
predication as functional application, marks a turning point in the history of
formal logic. In most modern logical systems, the notation used to express
functions, including propositional functions, is essentially that used in
ordinary mathematics. As in ordinary mathematics, certain basic notions are
taken for granted, such as the use of variables to indicate processes of
substitution. Like the original systems for modern formal logic, the systems of
combinatory logic were designed to give a foundation for mathematics. But
combinatory logic arose as an effort to carry the foundational aims further and
deeper. It undertook an analysis of notions taken for granted in the original
systems, in particular of the notions of substitution and of the use of
variables. In this respect combinatory logic was conceived by one of its
founders, H. B. Curry, to be concerned with the ultimate foundations and with
notions that constitute a “prelogic.” It was hoped that an analysis of this
prelogic would disclose the true source of the difficulties connected with the
logical paradoxes. The operation of applying a function to one of its
arguments, called application, is a primitive operation in all systems of combinatory
logic. If f is a function and x a possible argument, then the result of the
application operation is denoted fx. In mathematics this is usually written fx,
but the notation fx is more convenient in combinatory logic. The G. logician M.
Schönfinkel, who started combinatory logic in 4, observed that it is not
necessary to introduce color realism combinatory logic functions of more than
one variable, provided that the idea of a function is enlarged so that
functions can be arguments as well as values of other functions. A function
Fx,y is represented with the function f, which when applied to the argument x
has, as a value, the function fx, which, when applied to y, yields Fx,y, i.e.
fxy % Fx,y. It is therefore convenient to omit parentheses with association to
the left so that fx1 . . . xn is used for
. . . fx1 . . . xn. Schönfinkel’s main result was to show how to make
the class of functions studied closed under explicit definition by introducing
two specific primitive functions, the combinators S and K, with the rules Kxy %
x, and Sxyz % xzyz. To illustrate the effect of S in ordinary mathematical
notation, let f and g be functions of two and one arguments, respectively; then
Sfg is the function such that Sfgx % fx,gx. Generally, if ax1, . . . ,xn is an
expression built up from constants and the variables shown by means of the
application operation, then there is a function F constructed out of constants
including the combinators S and K, such that Fx1 . . . xn % ax1, . . . , xn.
This is essentially the meaning of the combinatory completeness of the theory
of combinators in the terminology of H. B. Curry and R. Feys, Combinatory Logic
8; and H. B. Curry, J. R. Hindley, and J. P. Seldin, Combinatory Logic, vol. II
2. The system of combinatory logic with S and K as the only primitive functions
is the simplest equation calculus that is essentially undecidable. It is a
type-free theory that allows the formation of the term ff, i.e.
self-application, which has given rise to problems of interpretation. There are
also type theories based on combinatory logic. The systems obtained by
extending the theory of combinators with functions representing more familiar
logical notions such as negation, implication, and generality, or by adding a
device for expressing inclusion in logical categories, are studied in illative
combinatory logic. The theory of combinators exists in another, equivalent
form, namely as the type-free l-calculus created by Church in 2. Like the
theory of combinators, it was designed as a formalism for representing
functions as rules of calculation, and it was originally part of a more general
system of functions intended as a foundation for mathematics. The l-calculus
has application as a primitive operation, but instead of building up new functions
from some primitive ones by application, new functions are here obtained by
functional abstraction. If ax is an expression built up by means of application
from constants and the variable x, then ax is considered to define a function
denoted lx.a x, whose value for the argument b is ab, i.e. lx.a xb % ab. The
function lx.ax is obtained from ax by functional abstraction. The property of
combinatory completeness or closure under explicit definition is postulated in
the form of functional abstraction. The combinators can be defined using
functional abstraction i.e., K % lx.ly.x and S % lx.ly.lz.xzyz, and conversely,
in the theory of combinators, functional abstraction can be defined. A detailed
presentation of the l-calculus is found in H. Barendregt, The Lambda Calculus,
Its Syntax and Semantics 1. It is possible to represent the series of natural
numbers by a sequence of closed terms in the lcalculus. Certain expressions in
the l-calculus will then represent functions on the natural numbers, and these
l-definable functions are exactly the general recursive functions or the Turing
computable functions. The equivalence of l-definability and general
recursiveness was one of the arguments used by Church for what is known as
Church’s thesis, i.e., the identification of the effectively computable
functions and the recursive functions. The first problem about recursive
undecidability was expressed by Church as a problem about expressions in the l
calculus. The l-calculus thus played a historically important role in the
original development of recursion theory. Due to the emphasis in combinatory
logic on the computational aspect of functions, it is natural that its method
has been found useful in proof theory and in the development of systems of
constructive mathematics. For the same reason it has found several applications
in computer science in the construction and analysis of programming languages.
The techniques of combinatory logic have also been applied in theoretical
linguistics, e.g. in so-called Montague grammar. In recent decades combinatory
logic, like other domains of mathematical logic, has developed into a
specialized branch of mathematics, in which the original philosophical and
foundational aims and motives are of little and often no importance. One reason
for this is the discovery of the new technical applications, which were not
intended originally, and which have turned the interest toward several new
mathematical problems. Thus, the original motives are often felt to be less
urgent and only of historical significance. Another reason for the decline of
the original philosophical and foundational aims may be a growing awareness in
the philosophy of mathematics of the limitations of formal and mathematical
methods as tools for conceptual combinatory logic combinatory logic
clarification, as tools for reaching “ultimate foundations.” grice’s
“The Three-Year-Old’s Guide to Russell’s Theory of Types,” with an advice to
parents by P. F. Starwson -- type theory, broadly, any theory according to
which the things that exist fall into natural, perhaps mutually exclusive,
categories or types. In most modern discussions, ‘type theory’ refers to the
theory of logical types first sketched by Russell in The Principles of
Mathematics 3. It is a theory of logical types insofar as it purports only to
classify things into the most general categories that must be presupposed by an
adequate logical theory. Russell proposed his theory in response to his
discovery of the now-famous paradox that bears his name. The paradox is this.
Common sense suggests that some classes are members of themselves e.g., the
class of all classes, while others are not e.g., the class of philosophers. Let
R be the class whose membership consists of exactly those classes of the latter
sort, i.e., those that are not members of themselves. Is R a member of itself?
If so, then it is a member of the class of all classes that are not members of
themselves, and hence is not a member of itself. If, on the other hand, it is
not a member of itself, then it satisfies its own membership conditions, and
hence is a member of itself after all. Either way there is a contradiction. The
source of the paradox, Russell suggested, is the assumption that classes and
their members form a single, homogeneous logical type. To the contrary, he
proposed that the logical universe is stratified into a regimented hierarchy of
types. Individuals constitute the lowest type in the hierarchy, type 0. For
purposes of exposition, individuals can be taken to be ordinary objects like
chairs and persons. Type 1 consists of classes of individuals, type 2 of
classes of classes of individuals, type 3 classes of classes of classes of
individuals, and so on. Unlike the homogeneous universe, then, in the type
hierarchy the members of a given class must all be drawn from a single logical
type n, and the class itself must reside in the next higher type n ! 1.
Russell’s sketch in the Principles differs from this account in certain
details. Russell’s paradox cannot arise in this conception of the universe of
classes. Because the members of a class must all be of the same logical type,
there is no such class as R, whose definition cuts across all types. Rather,
there is only, for each type n, the class Rn of all non-self-membered classes
of that type. Since Rn itself is of type n ! 1, the paradox breaks down: from
the assumption that Rn is not a member of itself as in fact it is not in the
type hierarchy, it no longer follows that it satisfies its own membership
conditions, since those conditions apply only to objects of type n. Most formal
type theories, including Russell’s own, enforce the class membership
restrictions of simple type theory syntactically such that a can be asserted to
be a member of b only if b is of the next higher type than a. In such theories,
the definition of R, hence the paradox itself, cannot even be expressed.
Numerous paradoxes remain unscathed by the simple type hierarchy. Of these, the
most prominent are the semantic paradoxes, so called because they explicitly
involve semantic notions like truth, as in the following version of the liar
paradox. Suppose Epimenides asserts that all the propositions he asserts today
are false; suppose also that that is the only proposition he asserts today. It
follows immediately that, under those conditions, the proposition he asserts is
true if and only if it is false. To address such paradoxes, Russell was led to
the more refined and substantially more complicated system known as ramified
type theory, developed in detail in his 8 paper “Mathematical Logic as Based on
the Theory of Types.” In the ramified theory, propositions and properties or
propositional functions, in Russell’s jargon come to play the central roles in
the type-theoretic universe. Propositions are best construed as the metaphysical
and semantical counterparts of sentences
what sentences express and
properties as the counterparts of “open sentences” like ‘x is a philosopher’
that contain a variable ‘x’ in place of a noun phrase. To distinguish
linguistic expressions from their semantic counterparts, the property expressed
by, say, ‘x is a philosopher’, will be denoted by ‘x ^ is a philosopher’, and
the proposition expressed by ‘Aristotle is a philosopher’ will be denoted by
‘Aristotle is a philosopher’. A property . . .x ^ . . . is said to be true of
an individual a if . . . a . . . is a true proposition, and false of a if . . .
a . . . is a false proposition where ‘. . . a . . .’ is the result of replacing
‘x ^ ’ with ‘a’ in ‘. . . x ^ . . .’. So, e.g., x ^ is a philosopher is true of
Aristotle. The range of significance of a property P is the collection of
objects of which P is true or false. a is a possible argument for P if it is in
P’s range of significance. In the ramified theory, the hierarchy of classes is
supplanted by a hierarchy of properties: first, properties of individuals i.e.,
properties whose range of significance is restricted to individuals, then
properties of properties of individuals, and so on. Parallel to the simple
theory, then, the type of a property must exceed the type of its possible
arguments by one. Thus, Russell’s paradox with R now in the guise of the
property x ^ is a property that is not true of itself is avoided along analogous lines. Following
the mathematician Henri Poincaré,
Russell traced the type theory type theory 935
935 source of the semantic paradoxes to a kind of illicit
self-reference. So, for example, in the liar paradox, Epimenides ostensibly
asserts a proposition p about all propositions, p itself among them, namely
that they are false if asserted by him today. p thus refers to itself in the
sense that it or more exactly, the
sentence that expresses it quantifies
over i.e., refers generally to all or some of the elements of a collection of
entities among which p itself is included. The source of semantic paradox thus
isolated, Russell formulated the vicious circle principle VCP, which proscribes
all such self-reference in properties and propositions generally. The liar
proposition p and its ilk were thus effectively banished from the realm of
legitimate propositions and so the semantic paradoxes could not arise. Wedded
to the restrictions of simple type theory, the VCP generates a ramified
hierarchy based on a more complicated form of typing. The key notion is that of
an object’s order. The order of an individual, like its type, is 0. However,
the order of a property must exceed the order not only of its possible
arguments, as in simple type theory, but also the orders of the things it
quantifies over. Thus, type 1 properties like x ^ is a philosopher and x ^ is
as wise as all other philosophers are first-order properties, since they are
true of and, in the second instance, quantify over, individuals only.
Properties like these whose order exceeds the order of their possible arguments
by one are called predicative, and are of the lowest possible order relative to
their range of significance. Consider, by contrast, the property call it Q x ^
has all the first-order properties of a great philosopher. Like those above, Q
also is a property of individuals. However, since Q quantifies over first-order
properties, by the VDP, it cannot be counted among them. Accordingly, in the
ramified hierarchy, Q is a second-order property of individuals, and hence
non-predicative or impredicative. Like Q, the property x ^ is a first-order
property of all great philosophers is also second-order, since its range of
significance consists of objects of order 1 and it quantifies only over objects
of order 0; but since it is a property of first-order properties, it is
predicative. In like manner it is possible to define third-order properties of
individuals, third-order properties of first-order properties, third-order
properties of second-order properties of individuals, third-order properties of
secondorder properties of first-order properties, and then, in the same
fashion, fourth-order properties, fifth-order properties, and so on ad
infinitum. A serious shortcoming of ramified type theory, from Russell’s
perspective, is that it is an inadequate foundation for classical mathematics.
The most prominent difficulty is that many classical theorems appeal to
definitions that, though consistent, violate the VCP. For instance, a wellknown
theorem of real analysis asserts that every bounded set of real numbers has a
least upper bound. In the ramified theory, real numbers are identified with
certain predicative properties of rationals. Under such an identification, the
usual procedure is to define the least upper bound of a bounded set S of reals
to be the property call it b some real number in S is true of x ^ , and then
prove that this property is itself a real number with the requisite
characteristics. However, b quantifies over the real numbers. Hence, by the
VCP, b cannot itself be taken to be a real number: although of the same type as
the reals, and although true of the right things, b must be assigned a higher
order than the reals. So, contrary to the classical theorem, S fails to have a
least upper bound. Russell introduced a special axiom to obviate this difficulty:
the axiom of reducibility. Reducibility says, in effect, that for any property
P, there is a predicative property Q that is true of exactly the same things as
P. Reducibility thus assures that there is a predicative property bH true of
the same rational numbers as b. Since the reals are predicative, hence of the
same order as bH, it turns out that bH is a real number, and hence that S has a
least upper bound after all, as required by the classical theorem. The general
role of reducibility is thus to undo the draconian mathematical effects of
ramification without undermining its capacity to fend off the semantic
paradoxes. grice’s play group -- H. P. Grice’s playgroup: after the death of
J. L. Austin, Grice kept the routine of the Saturday morning with a few new
rules. 1. Freedom. 2. Freedom, and 3. Freedom.grice’s theory-theory: Grice’s word for ‘first philosophy.’ – ‘striking
originality, eh?’ grice’s
personalism: Grice: “I finished the thing and did not know what to title – my
mother said, “Try ‘personal identity.’ She was a personal trinitarian.” -- a
version of personal idealism that flourished in the United States principally
at Boston from the late nineteenth
century to the mid-twentieth century. Its principal proponents were Borden
Parker Bowne 1847 0 and three of his students: Albert Knudson 18733; Ralph
Flewelling 18710, who founded The Personalist; and, most importantly, Edgar
Sheffield Brightman 43. Their personalism was both idealistic and theistic and
was influential in philosophy and in theology. Personalism traced its
philosophical lineage to Berkeley and Leibniz, and had as its foundational
insight the view that all reality is ultimately personal. God is the
transcendent person and the ground or creator of all other persons; nature is a
system of objects either for or in the minds of persons. Both Bowne and
Brightman considered themselves empiricists in the tradition of Berkeley.
Immediate experience is the starting point, but this experience involves a
fundamental knowledge of the self as a personal being with changing states.
Given this pluralism, the coherence, order, and intelligibility of the universe
are seen to derive from God, the uncreated person. Bowne’s God is the eternal
and omnipotent being of classical theism, but Brightman argued that if God is a
real person he must be construed as both temporal and finite. Given the fact of
evil, God is seen as gradually gaining control over his created world, with
regard to which his will is intrinsically limited. Another version of
personalism developed in France out of the neo-Scholastic tradition. E. Mounier
550, Maritain, and Gilson identified themselves as personalists, inasmuch as
they viewed the infinite person God and finite persons as the source and locus
of intrinsic value. They did not, however, view the natural order as
intrinsically personal.grice’s personhood: Grice: “I finished the thing and did
not know how to title. My mother, a confessed personal trinitarian, suggested,
‘personal identity.’’ -- the condition or property of being a person,
especially when this is considered to entail moral and/or metaphysical
importance. Personhood has been thought to involve various traits, including
moral agency; reason or rationality; language, or the cognitive skills language
may support such as intentionality and self-consciousness; and ability to enter
into suitable relations with other persons viewed as members of a self-defining
group. Buber emphasized the difference between the I-It relationship holding
between oneself and an object, and the IThou relationship, which holds between
oneself and another person who can be addressed. Dennett has construed persons
in terms of the “intentional stance,” which involves explaining another’s
behavior in terms of beliefs, desires, intentions, etc. Questions about when
personhood begins and when it ends have been central to debates about abortion,
infanticide, and euthanasia, since personhood has often been viewed as the
mark, if not the basis, of a being’s possession of special moral status. griceian.
Grice disliked the spelling “Gricean” that some people in the New World use.
“Surely my grandmother was right when she said she had become a Griceian by
marrying a Grice!” grice: g. r. –
Welsh philosopher who taught at Norwich. Since H. P. Grice and G. R. Grice both
wrote on the contract and morality, one has to be careful. Griceian elenchus: a cross-examination or refutation. Typically in
Plato’s early dialogues, Socrates has a conversation with someone who claims to
have some sort of knowledge, and Socrates refutes this claim by showing the
interlocutor that what he thinks he knows is inconsistent with his other
opinions. This refutation Grice calls a ‘conversational elenchus.’ “It is not
entirely negative, for awareness of his own ignorance is supposed to spur one’s
conversational interlocutor to further inquiry, and the concepts and
assumptions employed in the refutations serve as the basis for positive
Griceian, and implicatural, treatments of the same topic.” “Now, in contrast,
I’ll grant you that a type of “sophistic elenchi” that one sometimes sees at
Oxford, usually displayed by Rhode
scholars from the New World or the Colonies, under the tutelage of me or others
in my group, may be merely eristic.” “They aim simply at the refutation of an
opponent by any means.” “That is why, incidentally, why Aristotle calls a
fallacy that only *appear* to be a refutation a “sophistici elenchi.” Cf. ‘eristic.’ And Grice on the
epagoge/diagoge distinction. Grice’s “sc.”: as the elliptical
disimplicaturum -- ellipsis as implicaturum: an expression from which a ‘part’
has been deleted.. “I distinguish between the expression-whole and the
expression-part.” The term Grice uses for ‘part’ is ‘incomplete’ versus
‘complete,’ and it’s always for metabolical ascriptions primarily. Thus Grice
has "x (utterance-type) means '. . .' " which is a specification of
timeless meaning for an utterance-type ad which can be either (i a) “complete”
or (i b) non-complete (partial) or incomplete]. He also has "x
(utterance-type) meant here '...'", which is a specification of applied
timeless meaning for an utterance-type which again can be either (2a) complete
or (2b) partial, non-complete, or incomplete. So ellipsis can now be redefined
in terms of the complete-incomplete distinction. “Smith is” is incomplete.
“Smith is clever” is complete. “Uusually
for conciseness.” As Grice notes, “an elliptical or incomplete sentence is
often used to answer a questions without repeating material occurring in the question;
e. g. ‘Grice’ may be the answer to the
question of the authorship of “The grounds of morality” or to the question of
the authorship of “Studies in the Way of Words.” ‘Grice’ can be seen as an
‘elliptical’ name when used as an ellipsis of ‘G. R. Grice’ or “H. P. Grice”
and “Grice” can be seen as an elliptical *sentence* when used as an ellipsis
for ‘G. R. Grice is the author of ‘The Grounds of Morality”” or “H. P. Grice is
the author of Studies in the Way of Words.’Other typical elliptical sentences
are: ‘Grice is a father of two [+> children]’, ‘Grice, or Godot, arrived for
the tutorial past twelve [+> midnight]’. A typical ellipsis that occurs in
discussion of ellipses involves citing the elliptical sentences with the
deleted material added in brackets often with ‘sc.’ or ‘scilicet’ – “Grice is a
father of two (sc. Children),” Grice, or Godot, as we tutees call him, arrived
for the tutorial past twelve (sc. midnight)” -- instead of also presenting the
complete sentence. As Grice notes, ellipsis can also occurs above the
sentential level, e.g. where well-known premises are omitted in the course of
argumentation, as in “Grice is an Englishman; he is, therefore, brave.”
‘Enthymeme,’ literally, ‘in-the-breast,’ designates an elliptical argument
expression from which one or more premise-expressions have been deleted, “or
merely implicated.” -- ‘elliptic ambiguity’ designates ambiguity arising from
ellipsis, as does ‘elliptic implicaturum.’ “Sc.” Grice calls “elliptical
disimplicaturum.”Grice’s ego:
“Oddly, while I and we, and thou and you are persons, ‘it’ is not – the “THIRD”
person is a joke!” -- “I follow Buber in distinguishing ‘ego’ from ‘tu.’ With
conversation, there’s the ‘we,’ too.”
“If you were the only girl in the world, there would not be a need for
the personal pronoun ‘ego’” – Grice to his wife, on the day of their
engagement. “I went to Oxford. You went to Cambridge. He went to the London
School of Economics.” egocentric particular, a word whose denotation is
determined by identity of the speaker and/or the time, place, and audience of
his utterance. Examples are generally thought to include ‘I,’ ‘you’, ‘here’,
‘there’, ‘this’, ‘that’, ‘now’, ‘past’, ‘present’, and ‘future’. The term
‘egocentric particular’ was introduced by Russell in An Inquiry into Meaning
and Truth 0. In an earlier work, “The Philosophy of Logical Atomism” Monist,
819, Russell called such words “emphatic particulars.” Some important questions
arise regarding egocentric particulars. Are some egocentric particulars more
basic than others so that the rest can be correctly defined in terms of them
but they cannot be correctly defined in terms of the rest? Russell thought all
egocentric particulars can be defined by ‘this’; ‘I’, for example, has the same
meaning as ‘the biography to which this belongs’, where ‘this’ denotes a
sense-datum experienced by the speaker. Yet, at the same time, ‘this’ can be
defined by the combination ‘what I-now notice’. Must we use at least some
egocentric particulars to give a complete description of the world? Our ability
to describe the world from a speaker-neutral perspective, so that the
denotations of the terms in our description are independent of when, where, and
by whom they are used, depends on our ability to describe the world without
using egocentric particulars. Russell held that egocentric particulars are not
needed in any part of the description of the world. -- egocentric predicament, each person’s
apparently problematic position as an experiencing subject, assuming that all
our experiences are private in that no one else can have them. Two problems
concern our ability to gain empirical knowledge. First, it is hard to see how
we gain empirical knowledge of what others experience, if all experience is
private. We cannot have their experience to see what it is like, for any experience
we have is our experience and so not theirs. Second, it is hard to see how we
gain empirical knowledge of how the external world is, independently of our
experience. All our empirically justified beliefs seem to rest ultimately on
what is given in experience, and if the empirically given is private, it seems
it can only support justified beliefs about the world as we experience it. A
third major problem concerns our ability to communicate with others. It is hard
to see how we describe the world in a language others understand. We give
meaning to some of our words by defining them by other words that already have
meaning, and this process of definition appears to end with words we define
ostensively; i.e., we use them to name something given in experience. If
experiences are private, no one else can grasp the meaning of our ostensively
defined words or any words we use them to define. No one else can understand
our attempts to describe the world.
Egoism: cf. H. P. Grice, “The principle of conversational self-love and
the principle of conversational benevolence,” any view that, in a certain way,
makes the self central. There are several different versions of egoism, all of
which have to do with how actions relate to the self. Ethical egoism is the
view that people ought to do what is in their own selfinterest. Psychological
egoism is a view about people’s motives, inclinations, or dispositions. One
statement of psychological egoism says that, as a matter of fact, people always
do what they believe is in their self-interest and, human nature being what it
is, they cannot do otherwise. Another says that people never desire anything
for its own sake except what they believe is in their own self-interest.
Altruism is the opposite of egoism. Any ethical view that implies that people
sometimes ought to do what is in the interest of others and not in their
self-interest can be considered a form of ethical altruism. The view that,
human nature being what it is, people can do what they do not believe to be in
their self-interest might be called psychological altruism. Different species
of ethical and psychological egoism result from different interpretations of
self-interest and of acting from self-interest, respectively. Some people have
a broad conception of acting from self-interest such that people acting from a
desire to help others can be said to be acting out of self-interest, provided
they think doing so will not, on balance, take away from their own good. Others
have a narrower conception of acting from selfinterest such that one acts from
self-interest only if one acts from the desire to further one’s own happiness
or good. Butler identified self-love with the desire to further one’s own
happiness or good and self-interested action with action performed from that
desire alone. Since we obviously have other particular desires, such as the
desires for honor, for power, for revenge, and to promote the good of others,
he concluded that psychological egoism was false. People with a broader
conception of acting from self-interest would ask whether anyone with those
particular desires would act on them if they believed that, on balance, acting
on them would result in a loss of happiness or good for themselves. If some
would, then psychological egoism is false, but if, given human nature as it is,
no one would, it is true even if self-love is not the only source of motivation
in human beings. Just as there are broader and narrower conceptions of acting
from self-interest, there are broader and narrower conceptions of self-interest
itself, as well as subjective and objective conceptions of self-interest.
Subjective conceptions relate a person’s self-interest solely to the
satisfaction of his desires or to what that person believes will make his life
go best for him. Objective conceptions see self-interest, at least in part, as
independent of the person’s desires and beliefs. Some conceptions of
self-interest are narrower than others, allowing that the satisfaction of only
certain desires is in a person’s self-interest, e.g., desires whose
satisfaction makes that person’s life go better for her. And some conceptions
of self-interest count only the satisfaction of idealized desires, ones that
someone would have after reflection about the nature of those desires and what
they typically lead to, as furthering a person’s self-interest. See index to all Grice’s books with index –
the first three of them.Grice’s
genitorial programme – A type of ideal observer theory -- demiurge from
Grecian demiourgos, ‘artisan’, ‘craftsman’, a deity who shapes the material
world from the preexisting chaos. Plato introduces the demiurge in his Timaeus.
Because he is perfectly good, the demiurge wishes to communicate his own
goodness. Using the Forms as a model, he shapes the initial chaos into the best
possible image of these eternal and immutable archetypes. The visible world is
the result. Although the demiurge is the highest god and the best of causes, he
should not be identified with the God of theism. His ontological and
axiological status is lower than that of the Forms, especially the Form of the
Good. He is also limited. The material he employs is not created by him.
Furthermore, it is disorderly and indeterminate, and thus partially resists his
rational ordering. In gnosticism, the demiurge is the ignorant, weak, and evil
or else morally limited cause of the cosmos. In the modern era the term has
occasionally been used for a deity who is limited in power or knowledge. Its
first occurrence in this sense appears to be in J. S. Mill’s Theism 1874. gricese: While
Grice presented Gricese as refutation of Vitters’s idea of a private language
“I soon found out that my wife and my two children were speaking Gricese, as
was my brother Derek!” -- english, being English or the genius of the ordinary.
H. P. Grice refers to “The English tongue.” A refusal to rise above the facts
of ordinary life is characteristic of classical Eng. Phil. from Ireland-born Berkeley to Scotland-born
Hume, Scotland-born Reid, and very English Jeremy Bentham and New-World Phil. ,
whether in transcendentalism Emerson, Thoreau or in pragmatism from James to
Rorty. But this orientation did not become truly explicit until after the
linguistic turn carried out by Vienna-born Witters, translated by C. K. Ogden,
very English Brighton-born Ryle, and especially J. L. Austin and his best
companion at the Play Group, H. P. Grice, when it was radicalized and
systematized under the name of a phrase Grice lauged at: “‘ordinary’-language
philosophy.” This preponderant recourse to the ordinary seems inseparable from
certain peculiar characteristics of the English Midlanders such as H. P. Grice,
such as the gerund that often make it difficult if not impossible to translate.
It is all the more important to emphasize this paradox because English Midlander
philosopher, such as H. P. Grice, claims to be as simple as it is universal,
and it established itself as an important philosophical language in the second
half of the twentieth century, due mainly to the efforts of H. P. Grice.
English, but especially Oxonian Phil.
has a specific relationship to ‘ordinary’ language (even though for
Grice, “Greek and Latin were always more ordinary to me – and people who came
to read Eng. at Oxford were laughed at!”), as well as to the requirements of
everyday life, that is not limited to the theories of the Phil. of language, in which an Eng. philosopher
such as H. P. Grice appears as a pioneer. It rejects the artificial linguistic
constructions of philosophical speculation that is, Met. and always prefers to
return to its original home, as Witters puts it: the natural environment of
everyday words Philosophical Investigations. Thus we can discern a continuity
between the recourse to the ordinary in Scots Hume, Irish Berkeley, Scots Reid,
and very English Jeremy Bentham and what will become in Irish London-born G. E.
Moore and Witters after he started using English, at least orally and then J.
L. Austin’s and H. P. Grice’s ‘ordinary’-language philosophy. This continuity
can be seen in several areas. First, in the exploitation of all the resources
of the language, which is considered as a source of information and is valid in
itself. Second, in the attention given to the specificities—and even the
defects, or ‘implicatura,’ as Grice calls them —of the vernacular -- which become so many philosophical
characteristics from which one can learn. Finally, in the affirmation of the
naturalness of the distinctions made in and by ordinary language, seeking to
challenge the superiority of the technical language of Philosophy —the former
being the object of an agreement deeper than the latter. Then there’s The
Variety of Modes of Action. The passive. There are several modes of agency, and
these constitute both part of the genius of the language and a main source of
its problems in tr.. Agency is a strange intersection of points of view that
makes it possible to designate the person who is acting while at the same time
concealing the actor behind the act—and thus locating agency in the passive
subject itself v. AGENCY. A classic difficulty is illustrated by the following
sentence from J. Stuart Mill’s To gauge the naturalness of the passive
construction in English, it suffices to examine a couple of newspaper
headlines. “Killer’s Car Found” On a retrouvé la voiture du tueur, “Kennedy Jr.
Feared Dead.” On craint la mort du fils Kennedy; or the titles of a
philosophical essay, “Epistemology Naturalized,” L’Épistémologie naturalisée;
Tr. J. Largeault as L’Épistémologie
devenue naturelle; a famous article by Quine that was the origin of the
naturalistic turn in American Phil. and
“Consciousness Explained” La conscience expliquée by Daniel Dennett. We might
then better understand why this PASSIVE VOICE kind of construction—which seems
so awkward in Fr. compared with the
active voice— is perceived by its Eng. users as a more direct and effective way
of speaking. More generally, the ellipsis of the agent seems to be a tendency
of Eng. so profound that one can maintain that the phenomenon Lucien Tesnière
called diathèse récessive the loss of the agent has become a characteristic of
the Eng. language itself, and not only of the passive. Thus, e. g. , a Fr. reader irresistibly gains the impression that
a reflexive pronoun is lacking in the following expressions. “This book reads
well.” ce livre se lit agréablement. “His poems do not translate well.” ses
poèmes se traduisent difficilement. “The door opens.” la porte s’ouvre. “The
man will hang.” l’homme sera pendu. In reality, here again, Eng. simply does
not need to mark by means of the reflexive pronoun se the presence of an active
agent. Do, make, have Eng. has several terms to translate the single Fr. word faire, which it can render by to do, to
make, or to have, depending on the type of agency required by the context.
Because of its attenuation of the meaning of action, its value as emphasis and
repetition, the verb “to do” has become omnipresent in English, and it plays a
particularly important role in philosophical texts. We can find a couple of
examples of tr. problems in the Oxonian seminars by J. L. Austin. In Sense and
Considerations on Representative Government: “I must not be understood to say
that” p. To translate such a passive construction, Fr. is forced to resort to the impersonal pronoun
on and to put it in the position of an observer of the “I” je as if it were
considered from the outside: On ne doit pas comprendre que je dis que p. But at
the same time, the network of relations internal to the sentence is modified,
and the meaning transformed. Necessity is no longer associated with the subject
of the sentence and the author; it is made impersonal. Philosophical language
also makes frequent use of the diverse characteristics of the passive. Here we
can mention the crucial turning point in the history of linguistics represented
by Chomsky’s discovery Syntactic Structures,
of the paradigm of the active/ passive relation, which proves the
necessity of the transformational component in grammar. A passive utterance is
not always a reversal of the active and only rarely describes an undergoing, as
is shown by the example She was offered a bunch of flowers. In particular,
language makes use of the fact that this kind of construction authorizes the
ellipsis of the agent as is shown by the common expression Eng. spoken. For a
philosopher, the passive is thus the privileged form of an action when its
agent is unknown, indeterminate, unimportant, or, inversely, too obvious. Thus
without making his prose too turgid, in Sense and Sensibilia Austin can use
five passives in less than a page, and these can be translated in Fr. only by on, an indeterminate subject defined
as differentiated from moi. “It is clearly implied, that “Now this, at least if
it is taken to mean The expression is here put forward We are given, as
examples, familiar objects The expression is not further defined On sous-entend
clairement que Quant à cela, du moins si on l’entend au sens de On avance ici
l’expression On nous donne, comme exemples, des objets familiers On
n’approfondit pas la définition de l’expression . . . 1 Langage, langue,
parole: A virtual distinction. Contrary to what is too often believed, the Eng.
language does not conflate under the term language what Fr. distinguishes following Saussure with the
terms langage, langue, and parole. In reality, Eng. also has a series of three
terms whose semantic distribution makes possible exactly the same trichotomy as
Fr. : First there’s Grice’s “tongue,”which serves to designate a specific
language by opposition to another; speech, which refers more specifically to parole
but which is often translated in Fr. by
discours; and language in the sense of faculté de langage. Nonetheless, Fr. ’s
set of systematic distinctions can only remain fundamentally virtual in
English, notably because the latter refuses to radically detach langue from
parole. Thus in Chrestomathia, Bentham uses “tongue” (Bentham’s tongue – in
Chrestomathia) and language interchangeably and sometimes uses language in the
sense of langue: “Of all known languages the Grecian [Griceian] is assuredly,
in its structure, the most plastic and most manageable. Bentham even uses
speech and language as equivalents, since he speaks of parts of speech. But on
the contrary, he sometimes emphasizes differences that he ignores here. And he
proceeds exactly like Hume in his essay Of the Standard of Taste, where we
find, e. g. , But it must also be allowed, that some part of the seeming
harmony in morals may be accounted for from the very nature of language. The
word, virtue, with its equivalent in every tongue, implies praise; as that of
vice does blame. REFS.: Bentham, Jeremy. ChrestomathiEd. by M. J. Smith and W. H. Burston. Oxford:
Clarendon, . Hume, D. . Of the Standard of Taste. In Four Dissertations.
London: Thoemmes Continuum, . First published in 175 Saussure, F. de. Course in
General Linguistics. Ed. by Bally and
Sechehaye. Tr. R. Harris. LaSalle, IL:
Open Court, . First published in circulation among these forms. This formal
continuity promotes a great methodological inventiveness through the interplay
among the various grammatical entities that it enables. The gerund: The form of -ing that is the most
difficult to translate Eng. is a nominalizing language. Any verb can be
nominalized, and this ability gives the Eng. philosophical language great
creative power. “Nominalization,” as Grice calls it, is in fact a
substantivization without substantivization: the verb is not substantivized in
order to refer to action, to make it an object of discourse which is possible
in any language, notably in philosophical Fr.
and G. , but rather to nominalize the verb while at the same time
preserving its quality as a verb, and even to nominalize whole clauses.
Fr. can, of course, nominalize faire,
toucher, and sentir le faire, le toucher, even le sentir, and one can do the
same, in a still more systematic manner, in G. . However, these forms will not
have the naturalness of the Eng. expressions: the making and unmaking the doing
and undoing, the feeling, the feeling Byzantine, the meaning. Above all, in
these languages it is hard to construct expressions parallel to, e. g. , the
making of, the making use of, my doing wrongly, “my meaning this,”
(SIGNIFICATUM, COMMUNICATUM), his feeling pain, etc., that is, mixtures of noun
and verb having—and this is the grammatical characteristic of the gerund — the
external distribution of a nominal expression and the internal distribution of
a verbal expression. These forms are so common that they characterize, in
addition to a large proportion of book titles e. g. , The Making of the Eng.
Working Class, by E. P. Thomson; or, in Phil. , The Taming of Chance, or The
taming of the true, by I. Hacking, the language of classical Eng. Phil. . The
gerund functions as a sort of general equivalent or exchanger between
grammatical forms. In that way, it not only makes the language dynamic by
introducing into it a permanent temporal flux, but also helps create, in the
language itself, a kind of indeterminacy in the way it is parsed, which the
translator finds awkward when he understands the message without being able to
retain its lightness. Thus, in A Treatise of Human Nature, Hume speaks,
regarding the idea, of the manner of its being conceived, which a Fr. translator might render as sa façon d’être
conçue or perhaps, la façon dont il lui appartient d’être conçue, which is not
quite the same thing. And we v. agency and the gerund connected in a language
like that of Bentham, who minimizes the gaps between subject and object, verb
and noun: much regret has been suggested at the thoughts of its never having yet
been brought within the reach of the Eng. reader ChrestomathiTranslators often
feel obliged to render the act expressed by a gerund by the expression le fait
de, but this has a meaning almost contrary to the English. With its gerund,
Eng. avoids the discourse of fact by retaining only the event and arguing only
on that basis. The inevitable confusion suggested by Fr. when it translates the Eng. gerund is all the
more unfortunate in this case because it becomes impossible to distinguish when
Eng. uses the fact or the case from when it uses the gerund. The importance of
the event, along with the distinction between trial, case, and event, on the
one hand and happening on the other, is Sensibilia, he has criticized the claim
that we never perceive objects directly and is preparing to criticize its
negation as well: I am not going to maintain that we ought to embrace the
doctrine that we do perceive material things. Je ne vais pas soutenir que nous
devons embrasser la doctrine selon laquelle nous percevons vraiment les choses
matérielles. Finally, let us recall Austin’s first example of the performative,
which plays simultaneously on the anaphoric value of do and on its sense of
action, a duality that v.ms to be at the origin of the theory of the performative,
I do take this woman to be my lawful wedded wife—as uttered in the course of
the marriage ceremony Oui à savoir: je prends cette femme pour épouse’énoncé
lors d’une cérémonie de mariage; How to Do Things with Words. On the other
hand, whereas faire is colored by a causative sense, Eng. uses to make and to
have—He made Mary open her bags il lui fit ouvrir sa valise; He had Mary pour
him a drink il se fit verser un verre—with this difference: that make can
indicate, as we v., coercion, whereas have presupposes that there is no
resistance, a difference that Fr. can
only leave implicit or explain by awkward periphrases. Twentieth-century Eng.
philosophers from Austin to Geach and Anscombe have examined these differences
and their philosophical implications very closely. Thus, in A Plea for Excuses,
Austin emphasizes the elusive meaning of the expression doing something, and
the correlative difficulty of determining the limits of the concept of
action—Is to sneeze to do an action? There is indeed a vague and comforting
idea that doing an action must come down to the making of physical movements.
Further, we need to ask what is the detail of the complicated internal
machinery we use in acting. Philosophical Papers No matter how partial they may
be, these opening remarks show that there is a specific, intimate relation
between ordinary language and philosophical language in English language Phil.
. This enables us to better understand why the most Oxonian philosophers are so
comfortable resorting to idiomatic expressions cf. H. Putnam and even to
clearly popular usage: “Meanings ain’t in the head.” It ain’t necessarily so.As
for the title of Manx-ancestry Quine’s famous book From a Logical Point of
View, which at first seems austere, it is taken from a calypso song: “From a
logical point of view, Always marry women uglier than you. The Operator -ing:
Properties and Antimetaphysical Consequences -ing: A multifunctional operator
Although grammarians think it important to distinguish among the forms of
-ing—present participles, adjectives, the progressive, and the gerund—what
strikes the reader of scientific and philosophical texts is first of all the
free in Phil. , You are v.ing something Austin, Sense and Sensibilia, regarding
a stick in water; I really am perceiving the familiar objects Ayer, Foundations
of Empirical Knowledge. The passage to the form be + verb + -ing indicates,
then, not the progressiveness of the action but rather the transition into the
metalanguage peculiar to the philosophical description of phenomena of
perception. The sole exception is, curiously, to know, which is practically
never used in the progressive: even if we explore the philosophical and
epistemological literature, we do not find “I am knowing” or he was knowing, as
if knowledge could not be conceived as a process. In English, there is a great
variety of what are customarily called aspects, through which the status of the
action is marked and differentiated in a more systematic way than in Fr. or G. , once again because of the -ing ending:
he is working / he works / he worked / he has been working. Unlike what happens
in Slavic languages, aspect is marked at the outset not by a duality of verbal
forms but instead by the use of the verb to be with a verb ending in -ing
imperfect or progressive, by opposition to the simple present or past perfect.
Moreover, Grice mixes several aspects in a single expression: iterativity,
progressivity, completion, as in it cannot fail to have been noticed Austin,
How to Do Things. These are nuances, or implicate, as Labov and then Pinker
recently observed, that are not peculiar to classical or written Eng. but also
exist in certain vernaculars that appear to be familiar or allegedly
ungrammatical. The vernacular seems particularly sophisticated on this point,
distinguishing “he be working” from “he working” —that is, between having a
regular job and being engaged in working at a particular moment, standard usage
being limited to “he is working” Pinker, Language Instinct. Whether or not the
notion of aspect is used, it seems clear that in Eng. there is a particularly
subtle distinction between the different degrees of completion, of the
iterativity or development of an action, that leads Oxonian philosophers to pay
more attention to these questions and even to surprising inventions, such as
that of ‘implicaturum,’ or ‘visum,’ or ‘disimplicaturum.’ The linguistic
dissolution of the idea of substance
Fictive entities Thus the verb + -ing operation simply gives the verb
the temporary status of a noun while at the same time preserving some of its
syntactic and semantic properties as a verb, that is, by avoiding
substantivization. It is no accident that the substantiality of the I think
asserted by Descartes was opposed by virtually all the Eng. philosophers of the
seventeenth century. If a personal identity can be constituted by the making
our distant perceptions influence each other, and by giving us a present
concern for our past or future pains or pleasures Hume, Treatise of Human
Nature, it does not require positing a substance: the substantivization of
making and giving meets the need. We can also consider the way in which Russell
Analysis of Matter, ch.27 makes his reader understand far more easily than does
Bachelard, and without having to resort to the category of an epistemological
obstacle, that one can perfectly well posit an atom as a series of events
without according it the status of a substance. crucial in discussions of
probability. The very definition of probability with which Bayes operates in An
Essay towards Solving a Problem, the first great treatise on subjective
probability, is based on this status of the happening, the event conceived not
in terms of its realization or accomplishment but in terms of its expectation:
The probability of any event is the ratio between the value at which an
expectation depending on the happening of the event ought to be computed, and
the value of the thing expected upon its happening. The progressive: Tense and aspect If we now
pass from the gerund to the progressive, another construction that uses -ing, a
new kind of problem appears: that of the aspect and temporality of actions. An
interesting case of tr. difficulty is, e. g. , the one posed by Austin
precisely when he attempts, in his presentation of performatives, to
distinguish between the sentence and the act of saying it, between statement
and utterance: there are utterances, such as the uttering of the sentence is,
or is part of, the doing of an action How to Do Things. The tr. difficulty here
is caused by the combination in the construction in -ing of the syntactical
flexibility of the gerund and a progressive meaning. Does the -ing construction
indicate the act, or the progressiveness of the act? Similarly, it is hard to
choose to translate “On Referring” P. F. Strawson as De la référence rather
than as De l’action de référer. Should one translate On Denoting Russell as De
la dénotation the usual tr. or as Du dénoter? The progressive in the strict
sense—be + verb + -ing— indicates an action at a specific moment, when it has
already begun but is not yet finished. A little farther on, Austin allows us to
gauge the ease of Eng. in the whole of these operations. “To utter the sentence
is not to describe my doing of what I should be said in so uttering to be doing.
The Fr. tr. gives, correctly: Énoncer la
phrase, ce n’est pas décrire ce qu’il faut bien reconnaître que je suis en
train de faire en parlant ainsi, but this remains unsatisfying at best, because
of the awkwardness of en train de. Moreover, in many cases, en train de is
simply not suitable insofar as the -ing does not indicate duration: e. g. , in
At last I am v.ing . It is interesting to examine from this point of view the
famous category of verbs of perception, verbum percipiendi. It is remarkable
that these verbs v., hear can be in some cases used with the construction be +
verb + -ing, since it is generally said even in grammar books that they can be
used only in the present or simple past and not in the progressive. This rule
probably is thought to be connected with something like the immediacy of
perception, and it can be compared with the fact that the verbs to know and to
understand are also almost always in the present or the simple past, as if the
operations of the understanding could not be presented in the progressive form
and were by definition instantaneous; or as if, on the contrary, they
transcended the course of time. In reality, there are counterexamples. “I don’t
know if I’m understanding you correctly”; You are hearing voices; and often Oxonian
Phil. , which makes their tr. particularly indigestible, especially in Fr. ,
where -ismes gives a very Scholastic feel to the classifications translated. In
addition to the famous term realism, which has been the object of so many
contradictory definitions and so many debates over past decades that it has
been almost emptied of meaning, we may mention some common but particularly
obscure for anyone not familiar with the theoretical context terms:
“cognitivism,” noncognitivism, coherentism, eliminativism, consequentialism,
connectionism, etSuch terms in which moral Phil. is particularly fertile are in general
transposed into Fr. without change in a
sort of new, international philosophical language that has almost forgone tr..
More generally, in Eng. as in G. , words can be composed by joining two other
words far more easily than in Fr. —without specifying the logical connections
between the terms: toothbrush, pickpocket, lowlife, knownothing; or, for more
philosophical terms: aspect-blind, language-dependent, rule-following,
meaning-holism, observer-relative, which are translatable, of course, but not
without considerable awkwardness.
Oxonian philosophese. Oxonian
Phil. seems to establish a language that
is stylistically neutral and appears to be transparently translatable. Certain
specific problems—the tr. of compound words and constructions that are more
flexible in Eng. and omnipresent in current philosophical discourse, such as
the thesis that la thèse selon laquelle, the question whether la question de
savoir si, and my saying that le fait que je dise que—make Fr. tr.s of contemporary Eng. philosophical texts
very awkward, even when the author writes in a neutral, commonplace style.
Instead, these difficulties, along with the ease of construction peculiar to
English, tend to encourage non-Oxonian analytical philosophers to write
directly in Gricese, following the example of many of their European
colleagues, or else to make use of a technical vernacular we have noted the
-isms and compounds that is frequently heavy going and not very inventive when
transRomang terms which are usually transliterated. This situation is certainly
attributable to the paradoxical character of Gricese, which established itself
as a philosophical language in the second half of the twentieth century: it is
a language that is apparently simple and accessible and that thus claims a kind
of universality but that is structured, both linguistically and
philosophically, around major stumbling blocks to do, -ing, etthat often make
it untranslatable. It is paradoxically this untranslatability, and not its
pseudo-transparency, that plays a crucial role in the process of
universalization. . IThe Austinian Paradigm: Ordinary Language and Phil. The proximity of ordinary language and philosophical
language, which is rooted in classical English-language Phil. , was theorized
in the twentieth century by Austin and can be summed up in the expression
“‘ordinary’-language philosophy”. Ordinary language Phil. is interested This sort of overall
preeminence in Eng. of the verbal and the subjective over the nominal and the
objective is clear in the difference in the logic that governs the discourse of
affectivity in Fr. and in English. How
would something that one is correspond to something that one has, as in the
case of fear in Fr. avoir peur? It
follows that a Fr. man—who takes it for granted that fear is something that one
feels or senses—cannot feel at home with the difference that Eng. naturally
makes between something that has no objective correlative because it concerns
only feeling like fear; and what is available to sensation, implying that what
is felt through it has the status of an object. Thus in Eng. something is
immediately grasped that in Fr. v.ms a
strange paradox, viz. that passion, as Bentham notes in Deontology, is a
fictive entity. Thus what sounds in Fr.
like a nominalist provocation is implicated in the folds of the Eng.
language. A symbolic theory of affectivity is thus more easily undertaken in
Eng. than in Fr. , and if an ontological conception of affectivity had to be
formulated in English, symmetrical difficulties would be encountered. Reversible derivations Another particularity
of English, which is not without consequences in Phil. , is that its poverty
from the point of view of inflectional morphology is compensated for by the
freedom and facility it offers for the construction of all sorts of
derivatives. Nominal derivatives based on adjectives and using suffixes such as
-ity, -hood, -ness, -y. The resulting compounds are very difficult to
differentiate in Fr. and to translate in
general, which has led, in contemporary Fr.
tr.s, to various incoherent makeshifts. To list the most common stumbling
blocks: privacy privé-ité, innerness intériorité, not in the same sense as
interiority, vagueness caractère vague, goodness bonté, in the sense of
caractère bon, rightness justesse, “sameness,” similarité, in the sense of
mêmeté, ordinariness, “appropriateness,” caractère ordinaire, approprié,
unaccountability caractère de ce dont il est impossible de rendre compte.
Adjectival derivatives based on nouns, using numerous suffixes: -ful, -ous, -y,
-ic, -ish, -al e.g., meaningful, realistic, holistic, attitudinal, behavioral.
Verbal derivatives based on nouns or adjectives, with the suffixes -ize, -ify,
-ate naturalize, mentalize, falsify, and even without suffixes when possible
e.g., the title of an article “How Not to Russell Carnap’s Aufbau,” i.e., how
not to Russell Carnap’s Aufbau. d. Polycategorial derivatives based on verbs,
using suffixes such as -able, -er, -age, -ismrefutable, truthmaker. The
reversibility of these nominalizations and verbalizations has the essential
result of preventing the reification of qualities or acts. The latter is more
difficult to avoid in Fr. and G. , where
nominalization hardens and freezes notions compare intériorité and innerness,
which designates more a quality, or even, paradoxically, an effect, than an
entity or a domain. But this kind of ease in making compounds has its flip
side: the proliferation of -isms in liberties with the natural uses of the
language. The philosophers ask, e. g. , how they can know that there is a real
object there, but the question How do I know? can be asked in ordinary language
only in certain contexts, that is, where it is always possible, at least in
theory, to eliminate doubt. The doubt or question But is it a real one? has
always must have a special basis, there must be some reason for suggesting that
it isn’t real, in the sense of some specific way in which it is suggested that
this experience or item may be phoney. The wile of the metaphysician consists
in asking Is it a real table? a kind of object which has no obvious way of
being phoney and not specifying or limiting what may be wrong with it, so that
I feel at a loss how to prove it is a real one. It is the use of the word real
in this manner that leads us on to the supposition that real has a single
meaning the real world, material objects, and that a highly profound and
puzzling one. Austin, Philosophical Papers This analysis of real is taken up
again in Sense and Sensibilia, where Austin criticizes the notion of a sense
datum and also a certain way of raising problems supposedly on the basis of
common opinion e. g. , the common opinion that we really perceive things—but in
reality on the basis of a pure construction. To state the case in this way,
Austin says, is simply to soften up the plain man’s alleged views for the
subsequent treatment; it is preparing the way for, by practically attributing
to him, the so-called philosophers’ view. Phil. ’s frequent recourse to the ordinary
is characterized by a certain condescension toward the common man. The error or
deception consists in arguing the philosopher’s position against the ordinary
position, because if the in what we should say when. It is, in other words, a
Phil. of language, but on the condition
that we never forget that we are looking not merely at words or ‘meanings,’
whatever they may be but also at the realities we use the words to talk about,
as Austin emphasizes A Plea for Excuses, in Philosophical Papers. During the
twentieth century or more precisely, between the 1940s and the s, there was a
division of the paradigms of the Phil.
of language between the logical clarification of ordinary language, on
the one hand, and the immanent examination of ordinary language, on the other.
The question of ordinary language and the type of treatment that it should be
given—a normative clarification or an internal examination—is present in and
even constitutive of the legacy of logical positivism. Wittgenstein’s work
testifies to this through the movement that it manifests and performs, from the
first task of the Phil. of language the
creation of an ideal or formal language to clarify everyday language to the
second the concern to examine the multiplicity of ordinary language’s uses. The
break thus accomplished is such that one can only agree with Rorty’s statement
in his preface to The Linguistic Turn that the only difference between Ideal
Language Philosophers and Ordinary Language Philosophers is a disagreement
about which language is ideal. In the renunciation of the idea of an ideal
language, or a norm outside language, there is a radical change in perspective
that consists in abandoning the idea of something beyond language: an idea that
is omnipresent in the whole philosophical tradition, and even in current
analytical Phil. . Critique of language and Phil. More generally, Austin criticizes traditional
Phil. for its perverse use of ordinary
language. He constantly denounces Phil. ’s abuse of ordinary language—not so
much that it forgets it, but rather that it exploits it by taking 2 A defect in
the Eng. language? Between according to Bentham Eng. philosophers are not very
inclined toward etymology—no doubt because it is often less traceable than it
is in G. or even in Fr. and discourages a certain kind of commentary.
There are, however, certain exceptions, like Jeremy Bentham’s analysis of the
words “in,” “or,” “between,” “and,” etc., -- cf. Grice on “to” and “or” – “Does
it make sense to speak of the ‘sense’ of ‘to’?” -- through which Eng.
constructs the kinds of space that belong to a very specific topiLet us take
the case of between, which Fr. can
render only by the word entre. Both the semantics and the etymology of entre
imply the number three in Fr. , since what is entre intervenes as a third term
between two others which it separates or brings closer in Lat., in-ter; in Fr.,
en tiers; as a third. This is not the case in English, which constructs between
in accord with the number two in conformity with the etymology of this word, by
tween, in pairs, to the point that it can imagine an ordering, even when it
involves three or more classes, only in the binary mode: comon between three?
relation between three?—the hue of selfcontradictoriness presents itself on the
very face of the phrase. By one of the words in it, the number of objects is
asserted to be three: by another, it is asserted to be no more than two. To the
use thus exclusively made of the word between, what could have given rise, but
a sort of general, howsoever indistinct, perception, that it is only one to one
that objects can, in any continued manner, be commodiously and effectually
compared. The Eng. language labours under a defect, which, when it is compared
in this particular with other European langues, may perhaps be found peculiar
to it. By the derivation, and thence by the inexcludible import, of the word
between i.e., by twain, the number of the objects, to which this operation is
represented as capable of being applied, is confined to two. By the Roman
inter—by its Fr. derivation entre—no
such limitation v.ms to be expressed. Chrestomathia REFS.: Bentham, Jeremy.
ChrestomathiEd. by M. J. Smith and W. H.
Burston. Oxford: Clarendon, To my mind, experience proves amply that we do come
to an agreement on what we should say when such and such a thing, though I
grant you it is often long and difficult. I should add that too often this is
what is missing in Phil. : a preliminary datum on which one might agree at the
outset. We do not claim in this way to discover all the truth that exists
regarding everything. We discover simply the facts that those who have been
using our language for centuries have taken the trouble to notice.
Performatif-Constatif Austinian agreement is possible for two reasons: Ordinary language cannot claim to have the
last word. Only remember, it is the first word Philosophical Papers. The
exploration of language is also an exploration of the inherited experience and
acumen of many generations of men ibid..
Ordinary language is a rich treasury of differences and embodies all the
distinctions men have found worth drawing, and the connections they have found
worth marking, in the lifetimes of many generations. These are certainly more
subtle and solid than any that you or I are likely to think up in our
arm-chairs of an afternoon ibid.. It is this ability to indicate differences
that makes language a common instrument adequate for speaking things in the
world. Who is we? Cavell’s question It is clear that analytical Phil. ,
especially as it has developed in the United States since the 1940s, has moved
away from the Austinian paradigm and has at the same time abandoned a certain
kind of philosophical writing and linguistic subtlety. But that only makes all
the more powerful and surprising the return to Austin advocated by Stanley
Cavell and the new sense of ordinary language Phil. that is emerging in his work and in
contemporary American Phil. . What right do we have to refer to our uses? And
who is this we so crucial for Austin that it constantly recurs in his work? All
we have, as we have said, is what we say and our linguistic agreements. We
determine the meaning of a given word by its uses, and for Austin, it is
nonsensical to ask the question of meaning for instance, in a general way or looking
for an entity; v. NONSENSE. The quest for agreement is founded on something
quite different from signification or the determination of the common meaning.
The agreement Austin is talking about has nothing to do with an intersubjective
consensus; it is not founded on a convention or on actual agreements. It is an
agreement that is as objective as possible and that bears as much on language
as on reality. But what is the precise nature of this agreement? Where does it
come from, and why should so much importance be accorded to it? That is the
question Cavell asks, first in Must We Mean What We Say? and then in The Claim
of Reason: what is it that allows Austin and Witters to say what they say about
what we say? A claim is certainly involved here. That is what Witters means by
our agreement in judgments, and in language it is based only on itself, on the
latter exists, it is not on the same level. The philosopher introduces into the
opinion of the common man particular entities, in order then to reject, amend,
or explain it. The method of ordinary language: Be your size. Small Men.
Austin’s immanent method comes down to examining our ordinary use of ordinary
words that have been confiscated by Phil. , such as ‘true’ and ‘real,’ in order
to raise the question of truth: Fact that is a phrase designed for use in
situations where the distinction between a true statement and the state of
affairs about which it is a truth is neglected; as it often is with advantage
in ordinary life, though seldom in Phil. . So speaking about the fact that is a
compendious way of speaking about a situation involving both words and world.
Philosophical Papers We can, of course, maintain along with a whole trend in
analytical Phil. from Frege to Quine
that these are considerations too small and too trivial from which to draw any
conclusions at all. But it is this notion of fact that Austin relies on to
determine the nature of truth and thus to indicate the pertinence of ordinary
language as a relationship to the world. This is the nature of Austin’s
approach: the foot of the letter is the foot of the ladder ibid.. For Austin,
ordinary words are part of the world: we use words, and what makes words useful
objects is their complexity, their refinement as tools ibid.: We use words to inform
ourselves about the things we talk about when we use these words. Or, if that
v.ms too naïve: we use words as a way of better understanding the situation in
which we find ourselves led to make use of words. What makes this claim
possible is the proximity of dimension, of size, between words and ordinary
objects. Thus philosophers should, instead of asking whether truth is a
substance, a quality, or a relation, take something more nearly their own size
to strain at ibid.. The Fr. translators
render size by mesure, which v.ms excessively theoretical; the reference is to
size in the material, ordinary sense. One cannot know everything, so why not
try something else? Advantages of slowness and cooperation. Be your size. Small
Men. Conversation cited by Urmson in A Symposium Austin emphasizes that this
technique of examining words which he ended up calling linguistic phenomenology
(and Grice linguistic botany) is not new and that it has existed since
Socrates, producing its slow successes. But Grice is the first to make a
systematic application of such a method, which is based, on the one hand, on
the manageability and familiarity of the objects concerned and, on the other
hand, on the common agreement at which it arrives in each of its stages. The
problem is how to agree on a starting point, that is, on a given. This given or
datum, for Grice, is Gricese, not as a corpus consisting of utterances or
words, but as the site of agreement about what we should say when. Austin
regards language as an empirical datum or experimental dat -- Bayes, T. . An
Essay towards Solving a Problem in the Doctrine of Chances, with Richard
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195 we, as Cavell says in a passage that illustrates many of the difficulties
of tr. we have discussed up to this point: We learn and teach words in certain
contexts, and then we are expected, and expect others, to be able to project
them into further contexts. Nothing ensures that this projection will take
place in particular, not the grasping of universals nor the grasping of books
of rules, just as nothing ensures that we will make, and understand, the same
projections. That we do, on the whole, is a matter of our sharing routes of
interest and feeling, modes of response, senses of humor and ‑of significance
and of fulfillment, of what is outrageous, of what is similar to what else,
what a rebuke, what forgiveness, of when an utterance is an assertion, when an
appeal, when an explanation—all the whirl of organism Witterscalls forms of
life. Human speech and activity, sanity and community, rest upon nothing more,
but nothing less, than this. It is a vision as simple as it is and because it
is terrifying. Must We Mean What We Say?
The fact that our ordinary language is based only on itself is not only a
reason for concern regarding the validity of what we do and say, but also the
revelation of a truth about ourselves that we do not always want to recognize:
the fact that I am the only possible source of such a validity. That is a new
understanding of the fact that language is our form of life, precisely its
ordinary form. Cavell’s originality lies in his reinvention of the nature of
ordinary language in American thought and in the connection he
establishes—notably through his reference to Emerson and Thoreau, American
thinkers of the ordinary—between this nature of language and human nature,
finitude. It is also in this sense that the question of linguistic agreements
reformulates that of the ordinary human condition and that the acceptance of
the latter goes hand in hand with the recognition of the former. In Cavell’s
Americanization of ordinary language Phil.
there thus emerges a radical form of the return to the ordinary. But
isn’t this ordinary, e. g. , that of Emerson in his Essays, precisely the one
that the whole of Eng. Phil. has been
trying to find, or rather to feel or taste, since its origins? Thus we can
compare the writing of Emerson or James, in texts like Experience or Essays in
Radical Empiricism, with that of the British empiricists when they discuss
experience, the given, and the sensible. This is no doubt one of the principal
dimensions of philosophical writing in English: always to make the meaning more
available to the senses. J.-Pierre Cléro Sandra Laugier REFS.: Austin, J. L.
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J. O. Urmson and G. J. Warnock. Oxford: Clarendon, . . Sense and
SensibiliOxford: Clarendon, . Ayer, J. The Foundations of Empirical Knowledge.
London: Macmillan, 1940. ENTREPRENEUR 265 form the basis of the kingdom by
means of calculated plans; to the legal domain: someone who contravenes the
hierarchical order of the professions and subverts their rules; finally, to the
economic domain: someone who agrees, on the basis of a prior contract an
established price to execute a project collection of taxes, supply of an army,
a merchant expedition, construction, production, transaction, assuming the
hazards related to exchange and time. This last usage corresponds to practices
that became more and more socially prominent starting in the sixteenth century.
Let us focus on the term in economics. The engagement of the entrepreneur in
his project may be understood in various ways, and the noun entrepreneur
translated in various ways into English: by contractor if the stress is placed
on the engagement with regard to the client to execute the task according to
conditions negotiated in advance a certain time, a fixed price, firm price,
tenant farming; by undertaker now rare in this sense when we focus on the
engagement in the activity, taking charge of the project, its practical
realization, the setting in motion of the transaction; and by adventurer,
enterpriser, and projector, to emphasize the risks related to speculation. At
the end of the eighteenth century, the Fr.
word entreprise acquired the new meaning of an industrial establishment.
Entrepreneur accordingly acquired the sense of the head or direction of a
business of production superintendent, employer, manager. In France, at the
beginning of the eighteenth century, the noun entrepreneur had strong political
connotations, in particular in the abundant pamphlets containing mazarinades
denouncing the entrepreneurs of tax farming. The economist Pierre de
Boisguilbert wrote the Factum de la France, the largest trial ever conducted by
pen against the big financiers, entrepreneurs of the wealth of the kingdom, who
take advantage of its good administration its political economy in the name of
the entrepreneurs of commerce and industry, who contribute to the increase in
its wealth. Boisguilbert failed in his project of reforming the tax farm, or
tax business, and it was left to a clever financier, Richard Cantillon, to
create the economic concept of the entrepreneur. Chance in Business: Risk and
Uncertainty There is no trace of Boisguilbert’s moral indignation in
Cantillon’s Essai sur la nature du commerce en générale Essay on the nature of
commerce in general. Having shown that all the classes and all the men of a
State live or acquire wealth at the expense of the owners of the land bk. 1,
ch.12, he suggests that the circulation and barter of goods and merchandise,
like their production, are conducted in Europe by entrepreneurs and haphazardly
bk. 1, of ch.1 He then describes in detail what composes the uncertain aspect
of the action of an entrepreneur, in which he acts according to his ideas and
without being able to predict, in which he conceives and executes his plans
surrounded by the hazard of events. The uncertainty related to business profits
turns especially on the fact that it is dependent on the forms of consumption
of the owners, the only members of society who are independent—naturally
independent, Cantillon specified. Entrepreneurs are those who are capable of
breaking ÉNONCÉ Énoncé, from the Roman enuntiare to express, divulge; from ex
out and nuntiare to make known; a nuntius is a messenger, a nuncio, ranges over
the same type of entity as do proposition and phrase: it is a basic unit of
syntax, the relevant question being whether or not it is the bearer of truth
values. An examination of the differences among these entities, and the
networks they constitute in different languages especially in English:
sentence, statement, utterance, appears under PROPOSITION. V. also DICTUM and
LOGOS, both of which may be acceptably Tr.
énoncé. Cf. PRINCIPLE, SACHVERHALT, TRUTH, WORD especially WORD,
Box The essential feature of an énoncé
is that it is considered to be a singular occurrence and thus is paired with
its énonciation: v. SPEECH ACT; cf. ENGLISH, LANGUAGE, SENSE, SIGN,
SIGNIFIER/SIGNIFIED, WITTICISM. v.
DISCOURSE ENTREPRENEUR FR. ENG.
adventurer, contractor, employer, enterpriser, entrepreneur, manager,
projector, undertaker, superintendent v.
ACT, AGENCY, BERUF, ECONOMY, LIBERAL, OIKONOMIA, PRAXIS, UTILITY. Refs.:
G. J. Warnock, “English philosophy,” H. P. Grice, “Gricese,” BANC. griceian casuistry: the case-analysis
approach to the interpretation of general moral rules. Casuistry starts with
paradigm cases of how and when a given general moral rule should be applied,
and then reasons by analogy to cases in which the proper application of the
rule is less obvious e.g., a case in
which lying is the only way for a priest not to betray a secret revealed in confession.
The point of considering the series of cases is to ascertain the morally
relevant similarities and differences between cases. Casuistry’s heyday was the
first half of the seventeenth century. Reacting against casuistry’s popularity
with the Jesuits and against its tendency to qualify general moral rules,
Pascal penned a polemic against casuistry from which the term never recovered
see his Provincial Letters, 1656. But the kind of reasoning to which the term
refers is flourishing in contemporary practical ethics. grice’s
handwave. A sort of handwave can mean in a
one-off act of communication something. It’s the example he uses. By a sort of
handwave, the emissor communicates either that he knows the route or that he is
about to leave the addressee. Handwave signals. Code. Cfr. the Beatles’s HELP.
Explicatum: We need some body – Implicaturum: Not just Any Body. Why does this
matter to the philosopher? The thing is as follows. Grice was provoked by
Austin. To defeat Austin, Grice needs a ‘theory of communication.’ This theory
applies his early reflections on the intentional side to an act of
communication. This allows him to explain the explicatum versus the implicaturum.
By analysing each, Grice notes that there is no need to refer to linguistic
entities. So, the centrality of the handwave is an offshoot of his theory
designed to defeat Austin. Gice: “Blame Paget for my obsession with the hand.”
– Refs.: Paget, “Ta-ta: when the hands are full, use your mouth.” – H. P.
Grice, The utterer’s hand-wave.”grice’s creatures: the pirots. The programme he calls ‘creature construction.’ “I could
have used the ‘grice,’ which was extinct by the time I was born.” grice’s myth. Or Griceian myths – The
Handbook of Griceian mythology. At one point Grice suggests that his
‘genitorial programme’ a kind of ideal-observer theory is meant as ‘didactic,’
and for expository purposes. It seems easier, as , as Grice and
Plato would agree, to answer a question about the genitorial programme rather
than use a first-person approach and appeal to introspection. Grice refers to the social contract as a ‘myth,’ which may
still explain, as ‘meaning’ does. G. R. Grice built his career on this myth. This
is G. R. Grice, of the social-contract fame. Cf. Strawson and Wiggins comparing
Grice’s myth with Plato’s, and they know what they are talking about. grice’s
martian chronicle -- Twin-Earth – as
opposed to Mars -- a fictitious planet first visited by Hilary Putnam in a
thought experiment inspired by H. P. Grice in “Some remarks about the senses”
-- designed to show, among other things, that “ ‘meanings’ just ain’t in the
head” “The Meaning of ‘Meaning’,” 5. Twin-Earth is exactly like Earth with one
notable exception: ponds, rivers, and ice trays on Twin-Earth contain, not H2O,
but XYZ, a liquid
superficially indistinguishable from water but with a different chemical
constitution. According to Putnam, although some inhabitants of Twin-Earth
closely resemble inhabitants of Earth, ‘water’, when uttered by a
Twin-Earthling, does not mean water. Water is H2O, and, on Twin-Earth, the word
‘water’ designates a different substance, XYZ, Twin-water. The moral drawn by
Putnam is that the meanings of at least some of our words, and the significance
of some of our thoughts, depend, in part, on how things stand outside our
heads. Two “molecular duplicates,” two agents with qualitatively similar mental
lives, might mean very different things by their utterances and think very
different thoughts. Although Twin-Earth has become a popular stopping-off place
for philosophers en route to theories of meaning and mental content, others
regard Twin-Earth as hopelessly remote, doubting that useful conclusions can be
drawn about our Earthly circumstances from research conducted there. Suppose that long-awaited invasion of the
Martians takes place, that they turn out to be friendly creatures and teach us
their language. We get on all right, except that we find no verb in their
language which unquestionably corresponds to our verb “see.” Instead we find
two verbs which we decide to render as “x” and “y”: we find that (in their
tongue) they speak of themselves as x-ing, and also as y-ing, things to be of
this and that color, size, and shape. Further, in physical appearance they are
more or less like ourselves, except that in their heads they have, one above the
other, two pairs of organs, not perhaps exactly like one another, but each pair
more or less like our eyes: each pair of organs is found to be sensitive to
light waves. It turns out that for them x-ing is dependent on the operation of
the upper organs, and y-ing on that of the lower organs. The question which it
seems natural to ask is this: Are x-ing and y-ing both cases of seeing, the
difference between them being that x-ing is seeing with the upper organs, and
y-ing is seeing with the lower organs? Or alternatively, do one or both of
these accomplishments constitute the exercise of a new sense, other than that
of sight? If we adopt, to distinguish the senses, a combination of suggestion
(I) with one or both of suggestions (III) or (IV), the answer seems clear: both
x-ing and y-ing are seeing, with different pairs of organs. But is the question
really to be settled so easily? Would we not in fact want to ask whether x-ing
something to be round was like y-ing it to be round, or whether when something
x-ed blue to them this was like or unlike its y-ing blue to them? If in answer
to such questions as these they said, “Oh no, there’s all the difference in the
world!” then I think we should be inclined to say that either x-ing or y-ing
(if not both) must be something other than seeing: we might of course be quite
unable to decide which (if either) was seeing. (I am aware that here those
whose approach is more Wittgensteinian than my own might complain that unless
something more can be said about how the difference between x-ing and y-ing
might “come out” or show itself in publicly observable phenomena, then the
claim by the supposed Martians that x-ing and y-ing are different would be one
of which nothing could be made, which would leave one at a loss how to understand
it. First, I am not convinced of the need for “introspectible” differences to
show themselves in the way this approach demands (I shall not discuss this
point further); second, I think that if I have to meet this demand, I can. One
can suppose that one or more of these Martians acquired the use of the lower
y-ing organs at some comparatively late date in their careers, and that at the
same time (perhaps for experimental purposes) the operation of the upper x-ing
organs was inhibited. One might now be ready to allow that a difference between
Some Remarks about the Senses 47 x-ing and y-ing would have shown itself if in
such a situation the creatures using their y-ing organs for the first time were
unable straightaway, without any learning process, to use their “color”-words
fluently and correctly to describe what they detected through the use of those
organs.) It might be argued at this point that we have not yet disposed of the
idea that the senses can be distinguished by an amalgam of suggestions (I), (III),
and (IV); for it is not clear that in the example of the Martians the condition
imposed by suggestion (I) is fulfilled. The thesis, it might be said, is only
upset if x-ing and y-ing are accepted as being the exercise of different
senses; and if they are, then the Martians’ color-words could be said to have a
concealed ambiguity. Much as “sweet” in English may mean “sweet-smelling” or
“sweet-tasting,” so “blue” in Martian may mean “blue-x-ing” or “blue-y-ing.”
But if this is so, then the Martians after all do not detect by x-ing just
those properties of things which they detect by y-ing. To this line of argument
there are two replies: (1) The defender of the thesis is in no position to use
this argument; for he cannot start by making the question whether x-ing and
y-ing are exercises of the same sense turn on the question (inter alia) whether
or not a single group of characteristics is detected by both, and then make the
question of individuation of the group turn on the question whether putative
members of the group are detected by one, or by more than one, sense. He would
be saying in effect, “Whether, in x-ing and y-ing, different senses are
exercised depends (inter alia) on whether the same properties are detected by
x-ing as by y-ing; but whether a certain x-ed property is the same as a certain
y-ed property depends on whether x-ing and y-ing are or are not the exercise of
a single sense.” This reply seems fatal. For the circularity could only be
avoided by making the question whether “blue” in Martian names a single
property depend either on whether the kinds of experience involved in x-ing and
y-ing are different, which would be to reintroduce suggestion (II), or on
whether the mechanisms involved in x-ing and y-ing are different (in this case
whether the upper organs are importantly unlike the lower organs): and to adopt
this alternative would, I think, lead to treating the differentiation of the
senses as being solely a matter of their mechanisms, thereby making suggestion
(I) otiose. (2) Independently of its legitimacy or illegitimacy in the present
context, we must reject the idea that if it is accepted that in x-ing and y-ing
different senses are being exercised, then Martian color-words will be
ambiguous. For ex hypothesi there will be a very close correlation between
things x-ing blue and their y-ing blue, far closer 48 H. P. Grice than that
between things smelling sweet and their tasting sweet. This being so, it is
only to be expected that x-ing and y-ing should share the position of arbiters concerning
the color of things: that is, “blue” would be the name of a single property,
determinable equally by x-ing and y-ing. After all, is this not just like the
actual position with regard to shape, which is doubly determinable, by sight
and by touch? While I would not wish to quarrel with the main terms of this
second reply, I should like briefly to indicate why I think that this final
quite natural comparison with the case of shape will not do. It is quite
conceivable that the correlation between x-ing and y-ing , in the case
supposed, might be close enough to ensure that Martian color-words designated
doubly determinable properties, and yet that this correlation should break down
in a limited class of cases: for instance, owing to some differences between
the two pairs of organs, objects which transmitted light of a particular
wavelength might (in standard conditions) x blue but y black. I suggest, then,
that given the existence of an object which, for the Martians, standardly x-ed
blue but y-ed black (its real color being undecidable), no conclusion could be
drawn to the effect that other objects do, or could as a matter of practiSome
Remarks about the Senses 51 cal possibility be made to, x one way and y another
way either in respect of color or in respect of some other feature within the
joint province of x-ing and y-ing. Refs.: H. P. Grice, “Some remarks about the
senses,” in WoW --. Coady, “The senses of the Martians.” Grice’s folksy psychology: Grice loved Ramsey, “But Ramsey was born
before folk-psychology, so his ‘Theories’ is very dense.”” one sense, a
putative network of principles constituting a commonsense theory that allegedly
underlies everyday explanations of human behavior; the theory assigns a central
role to mental states like belief, desire, and intention. Consider an example
of an everyday commonsense psychological explanation: Jane went to the
refrigerator because she wanted a beer and she believed there was beer in the
refrigerator. Like many such explanations, this adverts to a so-called
propositional attitude a mental state,
expressed by a verb ‘believe’ plus a that-clause, whose intentional content is
propositional. It also adverts to a mental state, expressed by a verb ‘want’
plus a direct-object phrase, whose intentional content appears not to be
propositional. In another, related sense, folk psychology is a network of
social practices that includes ascribing such mental states to ourselves and
others, and proffering explanations of human behavior that advert to these
states. The two senses need distinguishing because some philosophers who
acknowledge the existence of folk psychology in the second sense hold that
commonsense psychological explanations do not employ empirical generalizations,
and hence that there is no such theory as folk psychology. Henceforth, ‘FP’
will abbreviate ‘folk psychology’ in the first sense; the unabbreviated phrase
will be used in the second sense. Eliminativism in philosophy of mind asserts
that FP is an empirical theory; that FP is therefore subject to potential
scientific falsification; and that mature science very probably will establish
that FP is so radically false that humans simply do not undergo mental states
like beliefs, desires, and intentions. One kind of eliminativist argument first
sets forth certain methodological strictures about how FP would have to
integrate with mature science in order to be true e.g., being smoothly
reducible to neuroscience, or being absorbed into mature cognitive science, and
then contends that these strictures are unlikely to be met. Another kind of
argument first claims that FP embodies certain strong empirical commitments
e.g., to mental representations with languagelike syntactic structure, and then
contends that such empirical presuppositions are likely to turn out false. One
influential version of folk psychological realism largely agrees with
eliminativism about what is required to vindicate folk psychology, but also
holds that mature science is likely to provide such vindication. Realists of
this persuasion typically argue, for instance, that mature cognitive science
will very likely incorporate FP, and also will very likely treat beliefs,
desires, and other propositional attitudes as states with languagelike
syntactic structure. Other versions of folkpsychological realism take issue, in
one way or another, with either i the eliminativists’ claims about FP’s
empirical commitments, or ii the eliminativists’ strictures about how FP must
mesh with mature science in order to be true, or both. Concerning i, for instance,
some philosophers maintain that FP per se is not committed to the existence of
languagelike mental representations. If mature cognitive science turns out not
to posit a “language of thought,” they contend, this would not necessarily show
that FP is radically false; instead it might only show that propositional
attitudes are subserved in some other way than via languagelike
representational structures. Concerning ii, some philosophers hold that FP can
be true without being as tightly connected to mature scientific theories as the
eliminativists require. For instance, the demand that the special sciences be
smoothly reducible to the fundamental natural sciences is widely considered an
excessively stringent criterion of intertheoretic compatibility; so perhaps FP
could be true without being smoothly reducible to neuroscience. Similarly, the
demand that FP be directly absorbable into empirical cognitive science is
sometimes considered too stringent as a criterion either of FP’s truth, or of
the soundness of its ontology of beliefs, desires, and other propositional
attitudes, or of the legitimacy of FP-based explanations of behavior. Perhaps
FP is a true theory, and explanatorily legitimate, even if it is not destined
to become a part of science. Even if FP’s ontological categories are not
scientific natural kinds, perhaps its generalizations are like generalizations
about clothing: true, explanatorily usable, and ontologically sound. No one
doubts the existence of hats, coats, or scarves. No one doubts the truth or
explanatory utility of generalizations like ‘Coats made of heavy material tend
to keep the body warm in cold weather’, even though these generalizations are
not laws of any science. Yet another approach to folk psychology, often wedded
to realism about beliefs and desires although sometimes wedded to
instrumentalism, maintains that folk psychology does not employ empirical
generalizations, and hence is not a theory at all. One variant denies that folk
psychology employs any generalizations, empirical or otherwise. Another variant
concedes that there are folk-psychological generalizations, but denies that
they are empirical; instead they are held to be analytic truths, or norms of
rationality, or both at once. Advocates of non-theory views typically regard
folk psychology as a hermeneutic, or interpretive, enterprise. They often claim
too that the attribution of propositional attitudes, and also the proffering
and grasping of folk-psychological explanations, is a matter of imaginatively
projecting oneself into another person’s situation, and then experiencing a
kind of empathic understanding, or Verstehen, of the person’s actions and the
motives behind them. A more recent, hi-tech, formulation of this idea is that
the interpreter “runs a cognitive simulation” of the person whose actions are
to be explained. Philosophers who defend folk-psychological realism, in one or
another of the ways just canvassed, also sometimes employ arguments based on
the allegedly self-stultifying nature of eliminativism. One such argument
begins from the premise that the notion of action is folk-psychological that a behavioral event counts as an action
only if it is caused by propositional attitudes that rationalize it under some
suitable actdescription. If so, and if humans never really undergo
propositional attitudes, then they never really act either. In particular, they
never really assert anything, or argue for anything since asserting and arguing
are species of action. So if eliminativism is true, the argument concludes, then
eliminativists can neither assert it nor argue for it an allegedly intolerable pragmatic paradox.
Eliminativists generally react to such arguments with breathtaking equanimity.
A typical reply is that although our present concept of action might well be
folk-psychological, this does not preclude the possibility of a future
successor concept, purged of any commitment to beliefs and desires, that could
inherit much of the role of our current, folk-psychologically tainted, concept
of action. grice’s computatio sive logica -- computability, roughly, the
possibility of computation on a Turing machine. The first convincing general
definition, A. N. Turing’s 6, has been proved equivalent to the known plausible
alternatives, so that the concept of computability is generally recognized as
an absolute one. Turing’s definition referred to computations by imaginary
tape-processing machines that we now know to be capable of computing the same
functions whether simple sums and products or highly complex, esoteric functions
that modern digital computing machines could compute if provided with
sufficient storage capacity. In the form ‘Any function that is computable at
all is computable on a Turing machine’, this absoluteness claim is called
Turing’s thesis. A comparable claim for Alonzo Church’s 5 concept of
lcomputability is called Church’s thesis. Similar theses are enunciated for
Markov algorithms, for S. C. Kleene’s notion of general recursiveness, etc. It
has been proved that the same functions are computable in all of these ways.
There is no hope of proving any of those theses, for such a proof would require
a definition of ‘computable’ a
definition that would simply be a further item in the list, the subject of a
further thesis. But since computations of new kinds might be recognizable as
genuine in particular cases, Turing’s thesis and its equivalents, if false,
might be decisively refuted by discovery of a particular function, a way of
computing it, and a proof that no Turing machine can compute it. The halting problem
for say Turing machines is the problem of devising a Turing machine that
computes the function hm, n % 1 or 0 depending on whether or not Turing machine
number m ever halts, once started with the number n on its tape. This problem
is unsolvable, for a machine that computed h could be modified to compute a
function gn, which is undefined the machine goes into an endless loop when hn,
n % 1, and otherwise agrees with hn, n. But this modified machine Turing machine number k, say would have contradictory properties: started
with k on its tape, it would eventually halt if and only if it does not. Turing
proved unsolvability of the decision problem for logic the problem of devising
a Turing machine that, applied to argument number n in logical notation, correctly
classifies it as valid or invalid by reducing the halting problem to the
decision problem, i.e., showing how any solution to the latter could be used to
solve the former problem, which we know to be unsolvable. computer theory, the theory of the design,
uses, powers, and limits of modern electronic digital computers. It has
important bearings on philosophy, as may be seen from the many philosophical
references herein. Modern computers are a radically new kind of machine, for
they are active physical realizations of formal languages of logic and
arithmetic. Computers employ sophisticated languages, and they have reasoning
powers many orders of magnitude greater than those of any prior machines.
Because they are far superior to humans in many important tasks, they have
produced a revolution in society that is as profound as the industrial
revolution and is advancing much more rapidly. Furthermore, computers
themselves are evolving rapidly. When a computer is augmented with devices for
sensing and acting, it becomes a powerful control system, or a robot. To
understand the implications of computers for philosophy, one should imagine a
robot that has basic goals and volitions built into it, including conflicting
goals and competing desires. This concept first appeared in Karel C v apek’s
play Rossum’s Universal Robots 0, where the word ‘robot’ originated. A computer
has two aspects, hardware and programming languages. The theory of each is
relevant to philosophy. The software and hardware aspects of a computer are
somewhat analogous to the human mind and body. This analogy is especially
strong if we follow Peirce and consider all information processing in nature
and in human organisms, not just the conscious use of language. Evolution has
produced a succession of levels of sign usage and information processing:
self-copying chemicals, self-reproducing cells, genetic programs directing the
production of organic forms, chemical and neuronal signals in organisms,
unconscious human information processing, ordinary languages, and technical
languages. But each level evolved gradually from its predecessors, so that the
line between body and mind is vague. The hardware of a computer is typically
organized into three general blocks: memory, processor arithmetic unit and
control, and various inputoutput devices for communication between machine and
environment. The memory stores the data to be processed as well as the program
that directs the processing. The processor has an arithmetic-logic unit for
transforming data, and a control for executing the program. Memory, processor,
and input-output communicate to each other through a fast switching system. The
memory and processor are constructed from registers, adders, switches, cables,
and various other building blocks. These in turn are composed of electronic
components: transistors, resistors, and wires. The input and output devices
employ mechanical and electromechanical technologies as well as electronics.
Some input-output devices also serve as auxiliary memories; floppy disks and
magnetic tapes are examples. For theoretical purposes it is useful to imagine
that the computer has an indefinitely expandable storage tape. So imagined, a
computer is a physical realization of a Turing machine. The idea of an
indefinitely expandable memory is similar to the logician’s concept of an
axiomatic formal language that has an unlimited number of proofs and theorems.
The software of a modern electronic computer is written in a hierarchy of
programming languages. The higher-level languages are designed for use by human
programmers, operators, and maintenance personnel. The “machine language” is
the basic hardware language, interpreted and executed by the control. Its words
are sequences of binary digits or bits. Programs written in intermediate-level
languages are used by the computer to translate the languages employed by human
users into the machine language for execution. A programming language has
instructional means for carrying out three kinds of operations: data operations
and transfers, transfers of control from one part of the program to the other,
and program self-modification. Von Neumann designed the first modern
programming language. A programming language is general purpose, and an
electronic computer that executes it can in principle carry out any algorithm
or effective procedure, including the simulation of any other computer. Thus
the modern electronic computer is a practical realization of the abstract
concept of a universal Turing machine. What can actually be computed in
practice depends, of course, on the state of computer technology and its
resources. It is common for computers at many different spatial locations to be
interconnected into complex networks by telephone, radio, and satellite
communication systems. Insofar as users in one part of the network can control
other parts, either legitimately or illegitimately e.g., by means of a
“computer virus”, a global network of computers is really a global computer.
Such vast computers greatly increase societal interdependence, a fact of
importance for social philosophy. The theory of computers has two branches,
corresponding to the hardware and software aspects of computers. The
fundamental concept of hardware theory is that of a finite automaton, which may
be expressed either as an idealized logical network of simple computer
primitives, or as the corresponding temporal system of input, output, and
internal states. A finite automaton may be specified as a logical net of
truth-functional switches and simple memory elements, connected to one another
by computer theory computer theory idealized wires. These elements function
synchronously, each wire being in a binary state 0 or 1 at each moment of time
t % 0, 1, 2, . . . . Each switching element or “gate” executes a simple truth-functional
operation not, or, and, nor, not-and, etc. and is imagined to operate
instantaneously compare the notions of sentential connective and truth table. A
memory element flip-flop, binary counter, unit delay line preserves its input
bit for one or more time-steps. A well-formed net of switches and memory
elements may not have cycles through switches only, but it typically has
feedback cycles through memory elements. The wires of a logical net are of
three kinds: input, internal, and output. Correspondingly, at each moment of
time a logical net has an input state, an internal state, and an output state.
A logical net or automaton need not have any input wires, in which case it is a
closed system. The complete history of a logical net is described by a
deterministic law: at each moment of time t, the input and internal states of
the net determine its output state and its next internal state. This leads to
the second definition of ‘finite automaton’: it is a deterministic finite-state
system characterized by two tables. The transition table gives the next
internal state produced by each pair of input and internal states. The output
table gives the output state produced by each input state and internal state.
The state analysis approach to computer hardware is of practical value only for
systems with a few elements e.g., a binary-coded decimal counter, because the
number of states increases as a power of the number of elements. Such a rapid
rate of increase of complexity with size is called the combinatorial explosion,
and it applies to many discrete systems. However, the state approach to finite
automata does yield abstract models of law-governed systems that are of
interest to logic and philosophy. A correctly operating digital computer is a
finite automaton. Alan Turing defined the finite part of what we now call a
Turing machine in terms of states. It seems doubtful that a human organism has
more computing power than a finite automaton. A closed finite automaton
illustrates Nietzsche’s law of eternal return. Since a finite automaton has a
finite number of internal states, at least one of its internal states must
occur infinitely many times in any infinite state history. And since a closed
finite automaton is deterministic and has no inputs, a repeated state must be
followed by the same sequence of states each time it occurs. Hence the history
of a closed finite automaton is periodic, as in the law of eternal return.
Idealized neurons are sometimes used as the primitive elements of logical nets,
and it is plausible that for any brain and central nervous system there is a
logical network that behaves the same and performs the same functions. This
shows the close relation of finite automata to the brain and central nervous
system. The switches and memory elements of a finite automaton may be made
probabilistic, yielding a probabilistic automaton. These automata are models of
indeterministic systems. Von Neumann showed how to extend deterministic logical
nets to systems that contain selfreproducing automata. This is a very basic
logical design relevant to the nature of life. The part of computer programming
theory most relevant to philosophy contains the answer to Leibniz’s conjecture
concerning his characteristica universalis and calculus ratiocinator. He held that
“all our reasoning is nothing but the joining and substitution of characters,
whether these characters be words or symbols or pictures.” He thought therefore
that one could construct a universal, arithmetic language with two properties
of great philosophical importance. First, every atomic concept would be
represented by a prime number. Second, the truth-value of any logically
true-or-false statement expressed in the characteristica universalis could be
calculated arithmetically, and so any rational dispute could be resolved by
calculation. Leibniz expected to do the computation by hand with the help of a
calculating machine; today we would do it on an electronic computer. However,
we know now that Leibniz’s proposed language cannot exist, for no computer or
computer program can calculate the truth-value of every logically true-orfalse
statement given to it. This fact follows from a logical theorem about the
limits of what computer programs can do. Let E be a modern electronic computer
with an indefinitely expandable memory, so that E has the power of a universal
Turing machine. And let L be any formal language in which every arithmetic
statement can be expressed, and which is consistent. Leibniz’s proposed
characteristica universalis would be such a language. Now a computer that is
operating correctly is an active formal language, carrying out the instructions
of its program deductively. Accordingly, Gödel’s incompleteness theorems for
formal arithmetic apply to computer E. It follows from these theorems that no
program can enable computer E to decide of an arbitrary statecomputer theory
computer theory 166 166 ment of L
whether or not that statement is true. More strongly, there cannot even be a
program that will enable E to enumerate the truths of language L one after
another. Therefore Leibniz’s characteristica universalis cannot exist.
Electronic computers are the first active or “live” mathematical systems. They
are the latest addition to a long historical series of mathematical tools for
inquiry: geometry, algebra, calculus and differential equations, probability
and statistics, and modern mathematics. The most effective use of computer
programs is to instruct computers in tasks for which they are superior to
humans. Computers are being designed and programmed to cooperate with humans so
that the calculation, storage, and judgment capabilities of the two are
synthesized. The powers of such humancomputer combines will increase at an
exponential rate as computers continue to become faster, more powerful, and
easier to use, while at the same time becoming smaller and cheaper. The social
implications of this are very important. The modern electronic computer is a
new tool for the logic of discovery Peirce’s abduction. An inquirer or
inquirers operating a computer interactively can use it as a universal
simulator, dynamically modeling systems that are too complex to study by
traditional mathematical methods, including non-linear systems. Simulation is
used to explain known empirical results, and also to develop new hypotheses to
be tested by observation. Computer models and simulations are unique in several
ways: complexity, dynamism, controllability, and visual presentability. These
properties make them important new tools for modeling and thereby relevant to some
important philosophical problems. A humancomputer combine is especially suited
for the study of complex holistic and hierarchical systems with feedback cf.
cybernetics, including adaptive goal-directed systems. A hierarchical-feedback
system is a dynamic structure organized into several levels, with the compounds
of one level being the atoms or building blocks of the next higher level, and
with cyclic paths of influence operating both on and between levels. For
example, a complex human institution has several levels, and the people in it
are themselves hierarchical organizations of selfcopying chemicals, cells,
organs, and such systems as the pulmonary and the central nervous system. The
behaviors of these systems are in general much more complex than, e.g., the
behaviors of traditional systems of mechanics. Contrast an organism, society,
or ecology with our planetary system as characterized by Kepler and Newton.
Simple formulas ellipses describe the orbits of the planets. More basically,
the planetary system is stable in the sense that a small perturbation of it
produces a relatively small variation in its subsequent history. In contrast, a
small change in the state of a holistic hierarchical feedback system often
amplifies into a very large difference in behavior, a concern of chaos theory.
For this reason it is helpful to model such systems on a computer and run
sample histories. The operator searches for representative cases, interesting
phenomena, and general principles of operation. The humancomputer method of
inquiry should be a useful tool for the study of biological evolution, the
actual historical development of complex adaptive goal-directed systems.
Evolution is a logical and communication process as well as a physical and
chemical process. But evolution is statistical rather than deterministic,
because a single temporal state of the system results in a probabilistic
distribution of histories, rather than in a single history. The genetic
operators of mutation and crossover, e.g., are probabilistic operators. But
though it is stochastic, evolution cannot be understood in terms of limiting
relative frequencies, for the important developments are the repeated emergence
of new phenomena, and there may be no evolutionary convergence toward a final
state or limit. Rather, to understand evolution the investigator must simulate
the statistical spectra of histories covering critical stages of the process.
Many important evolutionary phenomena should be studied by using simulation
along with observation and experiment. Evolution has produced a succession of
levels of organization: selfcopying chemicals, self-reproducing cells,
communities of cells, simple organisms, haploid sexual reproduction, diploid
sexuality with genetic dominance and recessiveness, organisms composed of
organs, societies of organisms, humans, and societies of humans. Most of these
systems are complex hierarchical feedback systems, and it is of interest to
understand how they emerged from earlier systems. Also, the interaction of
competition and cooperation at all stages of evolution is an important subject,
of relevance to social philosophy and ethics. Some basic epistemological and
metaphysical concepts enter into computer modeling. A model is a well-developed
concept of its object, representing characteristics like structure and
funccomputer theory computer theory 167
167 tion. A model is similar to its object in important respects, but
simpler; in mathematical terminology, a model is homomorphic to its object but
not isomorphic to it. However, it is often useful to think of a model as
isomorphic to an embedded subsystem of the system it models. For example, a gas
is a complicated system of microstates of particles, but these microstates can
be grouped into macrostates, each with a pressure, volume, and temperature
satisfying the gas law PV % kT. The derivation of this law from the detailed
mechanics of the gas is a reduction of the embedded subsystem to the underlying
system. In many cases it is adequate to work with the simpler embedded
subsystem, but in other cases one must work with the more complex but complete
underlying system. The law of an embedded subsystem may be different in kind
from the law of the underlying system. Consider, e.g., a machine tossing a coin
randomly. The sequence of tosses obeys a simple probability law, while the
complex underlying mechanical system is deterministic. The random sequence of
tosses is a probabilistic system embedded in a deterministic system, and a
mathematical account of this embedding relation constitutes a reduction of the
probabilistic system to a deterministic system. Compare the compatibilist’s
claim that free choice can be embedded in a deterministic system. Compare also
a pseudorandom sequence, which is a deterministic sequence with adequate
randomness for a given finite simulation. Note finally that the probabilistic
system of quantum mechanics underlies the deterministic system of mechanics.
The ways in which models are used by goaldirected systems to solve problems and
adapt to their environments are currently being modeled by humancomputer
combines. Since computer software can be converted into hardware, successful
simulations of adaptive uses of models could be incorporated into the design of
a robot. Human intentionality involves the use of a model of oneself in
relation to others and the environment. A problem-solving robot using such a
model would constitute an important step toward a robot with full human powers.
These considerations lead to the central thesis of the philosophy of logical
mechanism: a finite deterministic automaton can perform all human functions.
This seems plausible in principle and is treated in detail in Merrilee Salmon,
ed., The Philosophy of Logical Mechanism: Essays in Honor of Arthur W. Burks,0.
A digital computer has reasoning and memory powers. Robots have sensory inputs
for collecting information from the environment, and they have moving and
acting devices. To obtain a robot with human powers, one would need to put
these abilities under the direction of a system of desires, purposes, and
goals. Logical mechanism is a form of mechanism or materialism, but differs
from traditional forms of these doctrines in its reliance on the logical powers
of computers and the logical nature of evolution and its products. The modern
computer is a kind of complex hierarchical physical system, a system with
memory, processor, and control that employs a hierarchy of programming
languages. Humans are complex hierarchical systems designed by evolution with structural levels of chemicals, cells,
organs, and systems e.g., circulatory, neural, immune and linguistic levels of
genes, enzymes, neural signals, and immune recognition. Traditional
materialists did not have this model of a computer nor the contemporary
understanding of evolution, and never gave an adequate account of logic and
reasoning and such phenomena as goaldirectedness and self-modeling. grice’s four conversational categories – the category
of conversational mode:
Only Kant would call it function. While Grice could be jocular, in an English
way, about the number of maxims within each category – he surely would not like
to joke as far as to be cavalier about the NUMBER of categories: Four was the
number of functions from which the twelve categories rramify, Kant, or “Ariskant,”
but Grice takes the function for the category -- four is for Ariskantian Grice.
This is Aristotle’s hexis. This category posed a special conceptual problem to
Grice. Recall that his categories are invoked only by their power to generate
conversational implciata. But a conversational implicaturum is non-detachable.
That is, being based on universalistic principles of general rationality, it
cannot attach to an EXPRESSION, less so to the ‘meaning’ of an EXPRESSION: “if”
and “provided” are REALISATIONS of the concept of the conditionality. Now, the
conversational supra-maxim, ‘be perspicuous’ [sic], is supposed to apply NOT to
the content, or matter, but to the FORM. (Strictly, quantitas and qualitas
applies to matter, RELATIO applies to the link between at least two matters).
Grice tweaks things in such a way that he is happy, and so am I. This is a pun
on Aristkant’s Kategorie (Ammonius, tropos, Boëthius,
modus, Kant Modalitat). Gesichtspuncte der Modalität in assertorische,
apodiktische und problematische hat sich aus der Aristotelischen Eintheilung
hervorgebildet (Anal. Dr. 1, 2): 7@ợc gócois atv n 100 incozy h kỹ kvayxns
Úndozav û toù {VJÉZEo fai Úndozev: Doch geht diese Aristotelische Stelle
vielmehr auf die analogen objectiven Verhältnisse, als auf den subjectiven
Gewissheitsgrad. Der Zusatz Svvatóv, įvsezóuevov, és åviyans, jedoch auch eine
adverbiale Bestimmung wie taméws in dem Satze ý σελήνη ταχέως αποκαθίσταται,
heisst bei Ammonius τρόπος (zu περί ερμ. Cap. 12) und bei Boëthius modus. Kant
(Kritik der r. Vern. § 9-11; Prolegom. $ 21, Log. § 30) gründet die Eintheilung
nach der Modalität auf die modalen Kategorien: Möglichkeit und Unmöglichkeit,
Dasein und Nichtsein, Nothwendigkeit und Zufälligkeit, wobei jedoch die
Zusammenstellung der Unmöglichkeit, die eine negative Nothwendigkeit ist, mit
der Möglichkeit, und ebenso der Zufälligkeit, die das nicht als nothwendig
erkannte Dasein bezeichnet, mit der Nothwendigkeit eine Ungenauigkeit enthält:
die Erkenntniss der Unmöglichkeit ist nicht ein problematisches, sondern ein
(negativ-) apodiktisches Urtheil (was Kant in der Anwendung selbst anerkennt,
indem er z. B. Krit. der r. V. S. 191 die Formel: es ist unmöglich etc. als
Ausdruck einer apodiktischen Gewissheit betrachtet), und die Erkenntniss des
Zufälligen ist nicht ein apodiktisches, sondern ein assertorisches Urtheil.
Ausserdem aber hat Kant das subjective und objective Element in den Kategorien
der Qualität und Modalität nicht bestimmt genug unterschieden.grice’s four conversational categories –
the category of conversational quality: Only Kant would call it ‘function.’
While Grice could be cavalier about the number of maxims falling under the
category of conversational quality, he surely would not be cavalier about the
number of categories themselves. Four were the functions from which the twelve
categories ramify for Ariskant, and four were for Grice: he takes the function
from Kant, but the spirit from Aristotle.
This is Aristotle’s universal, poiotes. This was originally the
desideratum of conversational candour. At that point, there was no Kantian
scheme of categories in the horizon. Candour Grice arbitrarily contrasts with
clarity – and so the desideratum of conversational candour sometimes clashes
with the desideratum of conversational clarity. One may not be able to provide
a less convoluted utterance (“It is raining”) but use the less clear, but more
candid, “It might be raining, for all I know.” A pun on Aristkan’s Kategorie,
poiotes, qualitas, Qualitat. Expressions
which are in no way composite signify substance, quantity, quality, relation,
place, time, position, state, action, or affection. To sketch my meaning
roughly, examples of substance are 'man' or 'the horse', of quantity, such
terms as 'two cubits long' or 'three cubits long', of quality, such attributes
as 'white', 'grammatical'.grice’s four
conversational categories – the category of conversational quantity: Only
Kant would call it function. While Grice could be cavalier about the number of
maxims falling under quantity, he was not about the number of categories
itself. Four was the number of functions out of which the twelve categories
spring for Ariskant, and four was for Grice. He takes the function (the letter)
from Kant, but the spirit from Aristotle. This is Aristotle’s universal, posotes.
Grice would often use ‘a fortiori,’ and then it dawned on him. “All I need is a
principle of conversational fortitude. This will give the Oxonians the
Graeco-Roman pedigree they deserve.’ a
pun on Ariskant’s Kategorie, posotes, quantitas, Quantitat. Grice expands this
as ‘quantity of information,’ or ‘informative content’ – which then as he
recognises overlaps with the category of conversational quality, because ‘false
information’ is a misnomer. Expressions which are in no way composite signify
substance, quantity, quality, relation, place, time, position, state, action,
or affection. To sketch my meaning roughly, examples of substance are 'man' or
'the horse', of quantity, such terms as 'two cubits long' or 'three cubits
long'grice’s four conversational
categories – the category of conversational relation: Only Kant would call
it function. While Grice could be cavalier about the number of maxims under the
category of relation, he was not about the number of categories: four were the
number of functions out of which the twelve categories spring for Ariskant and
four were for Grice: he takes the letter (function) from Kant, and the spirit
from Aristotle. This is Aristotle’s ‘pros ti.’ f there are categories of being,
and categories of thought, and categories of expression, surely there is room
for the ‘conversational category.’ A pun on Ariskant’s Kategorie (pros ti, ad
aliquid, Relation). Surely a move has to relate to the previous move, and
should include a tag as to what move will relate. Expressions which are in no
way composite signify substance, quantity, quality, relation, place, time,
position, state, action, or affection. To sketch my meaning roughly, examples
of substance are 'man' or 'the horse', of quantity, such terms as 'two cubits
long' or 'three cubits long', of quality, such attributes as 'white',
'grammatical'. 'Double', 'half', 'greater', fall under the category of
relation.grice’s predicament. S draws a pic- "one-off predicament"). ... Clarendon, 1976); and Simon Blackburn, Spreading the Word
(Oxford: Clarendon, 1984) ... But there is an obvious way of emending the
account. Grice points
out. ... Blackburn helpfully
suggests that we can cut through much of this complexity by ... The above
account is intended to capture the notion of one-off meaning. Walking in a
forest, having gone some way ahead of the rest of the party, I draw an arrow at
a fork of a path, meaning that those who are following me should go straight
on. Gricean considerations
may be safely ignored. Only when trying to communicate by nonconventional means
("one-off predicament," Blackburn,
1984, chap. Blackburn's mission
is to promote the philosophy of language as a pivotal enquiry ... and
dismissed; the Gricean model
might be suitable to explain one-off acts. The Gricean mechanism
with its complex communicative intentions has a clear point in what Blackburn calls
“a one-off predicament”
- a situation in which an ...grice’s shaggy-dog story: While Grice would like to say that it should be in the
range of a rational creature to refer and to predicate, what about the hand
wave? By his handwave, the emissor means that _HE_ (subject) is a knower of the
road (or roate), the predicate after the copula or that he, the emissor,
subject, is (the copula) about to leave his emissee – but there is nothing IN
THE MATTER (the handwave) that can be ‘de-composed’ like that. The FORM
attaches to the communicatum directly. This is strange, but not impossible, and
shows Grice’s programme. Because his idea is that a communicatum need not a
vehicile which is syntactically structured (as “Fido is shaggy”). This is the
story that Grice tells in his lecture. He uses a ‘shaggy-dog’ story to explain
TWO main notions: that of ‘reference’ or denotatio, and that of predicatio. He
had explored that earlier when discussing, giving an illustration “Smith is
happy”, the idea of ‘value,’ as correspondence, where he adds the terms for
‘denote’ and ‘predicatio,’ or actually, ‘designatio’ and ‘indicatio’, need to
be “explained within the theory.” In the utterance ‘Smith is happy,’ the
utterer DESIGNATES an item, Smith. The utterer also INDICATES some class,
‘being happy.’ Grice introduces a shorthand, ‘assign’, or ‘assignatio,’
previous to the value-satisfaction, to involve both the ‘designatio’ and the
‘indicatio’. U assigns the item Smith to the class ‘being happy.’ U’s intention
involves A’s belief that U believes that “the item belongs to the class, or
that he ASSIGNS the item to the class. A predicate, such as
'shaggy,' in my shaggy-dog story, is a part of a bottom-up, or top-bottom, as I
prefer, analysis of this or that sentences, and a predicate, such as 'shaggy,'
is the only indispensable 'part,' or 'element,' as I prefer, since a
predicate is the only 'pars orationis,' to use the old phrase, that must
appear in every sentence. In a later lecture he ventures with ‘reference.’ Lewis
and Short have “rĕferre,” rendered as “to bear, carry, bring, draw, or give
back,” in a “transf.” usage, they render as “to make a reference, to refer
(class.),” asa in “de rebus et obscuris et incertis ad Apollinem censeo
referendum; “ad quem etiam Athenienses publice de majoribus rebus semper
rettulerunt,” Cic. Div. 1, 54, 122.” While Grice uses ‘Fido,’ he could have
used ‘Pegasus’ (Martin’s cat, as it happens) and apply Quine’s adage: we could
have appealed to the ex hypothesi unanalyzable, irreducible attribute of being
Pegasus, adopting, for its expression, the verb 'is-Pegasus', or 'pegasizes'.
And Grice could have played with ‘predicatio’ and ‘subjectio.’ Grice on
subject. Lewis and Short have “sūbĭcĭo,” (less correctly subjĭcĭo ;
post-Aug. sometimes sŭb- ), jēci, jectum, 3, v. a. sub-jacio. which they render as “to throw, lay, place,
or bring under or near (cf. subdo),” and in philosophy, “subjectum , i, n. (sc.
verbum), as “that which is spoken of, the foundation or subject of a
proposition;” “omne quicquid dicimus aut
subjectum est aut de subjecto aut in subjecto est. Subjectum est prima
substantia, quod ipsum nulli accidit alii inseparabiliter, etc.,” Mart. Cap. 4,
§ 361; App. Dogm. Plat. 3, p. 34, 4 et saep.—.” Note that for Mart. Cap. the
‘subject,’ unlike the ‘predicate’ is not a ‘syntactical category.’ “Subjectum
est prima substantia,” The subject is a prote ousia. As for correlation, Grice
ends up with a reductive analysis. By uttering utterance-token V, the
utterer U correlates predicate P1 with (and only with) each member of
P2 ≡ (∃R)(∃R') (1) U effects that (∀x)(R P1x ≡
x ∈ P1) and (2) U
intends (1), and (3) U intends that (∀y)(R'
P1y ≡ y ∈
P1), where R' P1 is an expression-type such that utterance-token V is a
sequence consisting of an expression-token p1 of expression-type P1 and an
expression-token p2 of expression-type P2, the R-co-relatum of which is a
set of which y is a member. And he is back with ‘denotare. Lewis and Short have
“dēnŏtare,” which they render as “to mark, set a mark on, with chalk, color,
etc.: “pedes venalium creta,”
It is interesting to trace Grice’s earliest investigations on this. Grice and
Strawson stage a number of joint seminars on topics related to the notions of
meaning, categories, and logical form. Grice and Strawson engage in systematic
and unsystematic philosophical exploration. From these discussions springs work
on predication and categories, one or two reflections of which are acknowledge
at two places (re: the reductive analysis of a ‘particular,’ “the tallest man
that did, does, or will exist” --) in Strawson’s “Particular and general” for
The Aristotelian Society – and “visible” as Grice puts it, but not
acknowledged, in Strawson’s “Individuals: an essay in descriptive
metaphysics.””grice’s theory-theory:
“I am perhaps not too happy with the word ‘theory,’ as applied to this, but
that’s Ramsey for you” (WoW: 285). Grice’s
theory-theory: A theory of mind concerning how we come to know about the
propositional attitudes of others. It tries to explain the nature of ascribing
certain thoughts, beliefs, or intentions to other persons in order to explain
their actions. The theory-theory holds that in ascribing beliefs to others we
are tacitly (check) applying a theory that enables us to make inferences about
the beliefs behind the actions of others. The theory that is applied is a set
of rules embedded in folk psychology. Hence, to anticipate and predict the
behavior of others, one engages in an intellectual process moving by inference from one set of beliefs
to another. This position contrasts with another theory of mind, the simulation
theory, which holds that we need to make use of our own motivational and
emotional resources and capacities for practical reasoning in explaining
actions of others. “So called ‘theory-theorists’ maintain that the ability to
explain and predict behaviour is underpinned by a folk-psychological theory of
the structure and functioning of the mind – where the theory in question may be
innate and modularised, learned individually, or acquired through a process of
enculturation.” Carruthers and Smith (eds.), Theories of Theories of Mind. Grice
needs a theory. For those into implicatura and conversation as rational cooperation,
when introducing the implicaturum he mentions ‘pre-theoretical adequacy’ of the
model. So he is thinking of the conversational theory as a theory in the strict
sense, with ‘explanatory’ and not merely taxonomical power. So one task is to
examine in which way the conversational theory is a theory that explains,
rather than merely ad hoc ex post facto commentary. Not so much for his approach to mean. He
polemises with Rountree, of Somerville, that you dont need a thory to analyse
mean. Indeed, you cannot have a theory to analyse mean, because mean is a
matter of intuition, not a theoretical concept. But Grice appeals to theory,
when dealing with willing. He knows what willing means because he relies on a
concept of folk-science. In this folk-science, willing is a theoretical
concept. Grice arrived at this conclusion by avoiding the adjective souly, and
seeing that there is no word to describe willing other than by saying it is a
psychoLOGICAL concept, i.e. part of a law within that theory of folk-science.
That law will include, by way of ramsified naming or describing willing as a
predicate-constant. Now, this is related to metaphysics. His liberal or
ecunmenical metaphysics is best developed in terms of his ontological marxism
presented just after he has expanded on this idea of willing as a theoretical
concept, within a law involving willing (say, Grices Optimism-cum-Pesimism
law), within the folk-science of psychology that explains his behaviour. For
Aristotle, a theoria, was quite a different animal, but it had to do with
contemplatio, hence the theoretical (vita contemplativa) versus the practical
(vita activa). Grices sticking to Aristotle’srare use of theory inspires him to
develop his fascinating theory of the theory-theory. Grice realised that there is no way to refer
to things like intending except with psychological, which he takes to mean,
belonging to a pscyhological theory. Grice was keen to theorise on
theorising. He thought that Aristotle’s first philosophy (prote
philosophia) is best rendered as Theory-theory. Grice kept using Oxonian
English spelling, theorising, except when he did not! Grice calls himself
folksy: his theories, even if Subjects to various types of Ramseyfication, are
popular in kind! And ceteris paribus! Metaphysical construction is
disciplined and the best theorising the philosopher can hope for! The way
Grice conceives of his theory-theory is interesting to revisit. A route by
which Grice hopes to show the centrality of metaphysics (as prote philosophia)
involves taking seriously a few ideas. If any region of enquiry is to be
successful as a rational enterprise, its deliverance must be
expressable in the shape of one or another of the possibly different types of
theory. A characterisation of the nature and range of a possible kind of
theory θ is needed. Such a body of characterisation must itself
be the outcome of rational enquiry, and so must itself exemplify
whatever requirement it lays down for any theory θ in
general. The characterisation must itself be expressible as a
theory θ, to be called, if you like, Grice politely puts it,
theory-theory, or meta-theory, θ2. Now, the specification and
justification of the ideas and material presupposed
by any theory θ, whether such account falls within the bounds of
Theory-theory, θ2 would be properly called prote philosophia (first
philosophy) and may turn out to relate to what is generally accepted as
belonging to the Subjects matter of metaphysics. It might, for example,
turn out to be establishable that any theory θ has to relate to a
certain range of this or that Subjects item, has to attribute to each item this
or that predicate or attribute, which in turn has to fall within one or another
of the range of types or categories. In this way, the enquiry might lead
to recognised metaphysical topics, such as the nature of being, its range of
application, the nature of predication and a systematic account of
categories. Met. , philosophical eschatology, and Platos Republic,
Thrasymachus, social justice, Socrates, along with notes on Zeno, and topics
for pursuit, repr.in Part II, Explorations in semantics and metaphysics
to WOW , metaphysics, philosophical eschatology, Platos Republic, Socrates,
Thrasymachus, justice, moral right, legal right, Athenian dialectic.
Philosophical eschatology is a sub-discipline of metaphysics concerned with
what Grice calls a category shift. Grice, having applied such a technique to
Aristotle’s aporia on philos (friend) as alter ego, uses it now to tackle
Socratess view, against Thrasymachus, that right applies primarily to morality,
and secondarily to legality. Grice has a specific reason to include this in his
WOW Grices exegesis of Plato on justice displays Grices take on the fact that
metaphysics needs to be subdivided into ontology proper and what he calls
philosophical eschatology, for the study of things like category shift and
other construction routines. The exploration of Platos Politeia thus becomes an
application of Grices philosophically eschatological approach to the item just,
as used by Socrates (morally just) and Thrasymachus (legally just). Grice has
one specific essay on Aristotle in PPQ. So he thought Plato merited his own
essay, too! Grices focus is on Plato’s exploration of dike. Grice is concerned
with a neo-Socratic (versus neo-Thrasymachean) account of moral justice as
conceptually (or axiologically) prior to legal justice. In the proceeding, he
creates philosophical eschatology as the other branch to metaphysics, along
with good ol ontology. To say that just crosses a categorial barrier (from
the moral to the legal) is to make a metaphysical, strictly eschatological,
pronouncement. The Grice Papers locate the Plato essay in s. II, the Socrates essay in s. III, and the Thrasymachus essay, under social
justice, in s. V. Grice is well aware that in his account of fairness, Rawls
makes use of his ideas on personal identity. The philosophical elucidation of
fairness is of great concern for Grice. He had been in touch with such
explorations as Nozicks and Nagels along anti-Rawlsian lines. Grices ideas on
rationality guide his exploration of social justice. Grice keeps revising the
Socrates notes. The Plato essay he actually dates. As it happens, Grices most
extensive published account of Socrates is in this commentary on Platos Republic:
an eschatological commentary, as he puts it. In an entertaining fashion, Grice
has Socrates, and neo-Socrates, exploring the logic and grammar of just against
the attack by Thrasymachus and neo-Thrasymachus. Grices point is that, while
the legal just may be conceptually prior to the moral just, the moral just is
evaluationally or axiologically prior. Refs.: There is a specific essay on
‘theorising’ in the Grice Papers, but there are scattered sources elsewhere,
such as “Method” (repr. in “Conception”), BANC.grice’s three-year-old’s guide to
Russell’s theory of types, with an advice to parents by Strawson: Grice put forward the empirical hypothesis that a
three-year old CAN understand Russell’s theory of types. “In more than one
way.” This brought confusion in the household, with some members saying they
could not – “And I trust few of your tutees do!” Russell’s influential solution
to the problem of logical paradoxes. The theory was developed in particular to
overcome Russell’s paradox, which seemed to destroy the possibility of Frege’s
logicist program of deriving mathematics from logic. Suppose we ask whether the
set of all sets which are not members of themselves is a member of itself. If
it is, then it is not, but if it is not, then it is. The theory of types
suggests classifying objects, properties, relations, and sets into a hierarchy
of types. For example, a class of type 0 has members that are ordinary objects;
type 1 has members that are properties of objects of type 0; type 2 has members
that are properties of the properties in type 1; and so on. What can be true or
false of items of one type can not significantly be said about those of another
type and is simply nonsense. If we observe the prohibitions against classes
containing members of different types, Russell’s paradox and similar paradoxes
can be avoided. The theory of types has two variants. The simple theory of
types classifies different objects and properties, while the ramified theory of
types further sorts types into levels and adds a hierarchy of levels to that of
types. By restricting predicates to those that relate to items of lower types
or lower levels within their own type, predicates giving rise to paradox are
excluded. The simple theory of types is sufficient for solving logical paradoxes,
while the ramified theory of type is introduced to solve semantic paradoxes,
that is, paradoxes depending on notions such as reference and truth. “Any
expression containing an apparent variable is of higher type than that
variable. This is the fundamental principles of the doctrines of types.”
Russell, Logic and Knowledge. Grice’s commentary in “In defense of a
dogma,” The H. P. Grice Papers, BANC. grice’s
complementary class:
the class of all things not in a given class. For example, if C is the class of
all red things, then its complementary class is the class containing everything
that is not red. This latter class includes even non-colored things, like
numbers and the class C itself. Often, the context will determine a less
inclusive complementary class. If B 0 A, then the complement of B with respect
to A is A B. For example, if A is the
class of physical objects, and B is the class of red physical objects, then the
complement of B with respect to A is the class of non-red physical
objects. griceism. Gricese. At Oxford, it was usual to refer to Austin’s
idiolect as Austinese. In analogy with Grecism, we have a Gricism, a Griceian
cliché. Cf. a ‘grice’ and ‘griceful’ in ‘philosopher’s lexicon.’ Gricese is a
Latinism, from -ese, word-forming element, from Old French -eis (Modern French -ois, -ais), from Vulgar Latin, from Latin -ensem, -ensis "belonging
to" or "originating in." Grice’s
grue and grellow, -- and bleen: H. P. Grice was fascinated by Goodman’s
‘grue’ paradox and kept looking for the crucial implicaturum. “The paradox is
believed to be mainly as arising within the theory of induction, but I’ve seen
Strawson struggling with gruesome consequences in his theory of deduction,
too.” According to Nelson Goodman, “a philosopher from the New World,” every
intuitively acceptable inductive argument, call it A, may be mimicked by
indefinitely many other inductive arguments
each seemingly quite analogous to A and therefore seemingly as
acceptable, yet each nonetheless intuitively *unacceptable*, and each yielding
a conclusion contradictory to that of A, given the assumption that sufficiently
many and varied of the sort of things induced upon exist as yet unexamined
which is the only circumstance in which A is of interest. “Goodman then asks us
to suppose an intuitively acceptable inductive argument.”A1 every hitherto
observed EMERALD is GREEN; therefore, every emerald is green. Now introduce the
totally unnatural colour predicate ‘grue’ – a portmanteau of blue and green –
as in Welsh ‘glas’ -- where for some given, as yet wholly future, temporal
interval T an object is ‘grue’ provided it has the property of being green and
first examined before T OR blue and NOT
first examined before T. Then consider the following inductive argument: A2
every hitherto observed EMERALD is GRUE; therefore, every emerald is grue. The
premise is true, and A2 is formally analogous to A1. But A2 is intuitively
unacceptable. If there is an emerald UNexamined before T, he conclusion of A2
says that this emerald is blue, whereas the conclusion of A1 says that every
emerald is green! Granted, other counter-intuitive competing arguments could be
given, e.g.: A3. Every hitherto observed emerald is grellow; therefore, every
emeralds is grellow. where an object is ‘grellow’ provided it is green and
located on the earth or yellow otherwise. It would seem, therefore, that some
restriction on induction is required. “Goodman’s alleged of induction offers
two challenges. First, state the restriction
i.e., demarcate the intuitively acceptable inductions from the
unacceptable ones, in some general way, without constant appeal to
intuition.”“Second, justify our preference for the one group of inductions over
the other.”“These two parts of the paradox are, alas, often conflated.”But it
is at least conceivable that one might solve the analytical, demarcative part
without solving the justificatory part, and, perhaps, vice versa. It will not
do to rule out, a priori gruesome” variances in nature. H2O varies in its
physical state along the parameter of temperature. If so, why might not one
emerald vary in colour along the parameter of time of first examination? One
approach to the problem of restriction is to focus on the conclusions of
inductive arguments e.g., every emerald is green, every emerald is grue and to
distinguish those which may legitimately so serve called “projectible
hypotheses” from those which may not. The question then arises whether only
non-gruesome hypotheses those which do not contain gruesome predicates are
projectible. Aside from the task of defining ‘gruesome predicate’ which could
be done structurally relative to a preferred language, the answer is no.
Consider the predicate ‘x is solid and less than 0; C, or liquid and more than
0; C but less than 100; C, or gaseous and more than 100; C.’This is gruesome on
any plausible structural account of gruesomeness. Note the similarity to the
‘grue’ equivalent: green and first examined before T, or blue and not first
examined before T. Nevertheless, where nontransitional water is pure H2O at one
atmosphere of pressure save that which is in a transitional state, i.e.,
melting/freezing or boiling/condensing, i.e., at 0°C or 100; C, we happily
project the hypothesis that all non-transitional water falls under the above
gruesome predicate. Perhaps this is because, if we rewrite the projection about
non-transitional water as a conjunction of non-gruesome hypotheses i water at less than 0; C is solid, ii water
at more than 0; C but less than 100; C is liquid, and iii water at more than
100; C is gaseous we note that iiii are
all supported there are known positive instances; whereas if we rewrite the
gruesome projection about the emerald as a conjunction of non-gruesome
hypotheses i* every emerald first
examined before T is green, and ii* every emerald NOT first examined before T
is blue we note that ii* is as yet
unsupported. It would seem that, whereas a non-gruesome hypothesis is
projectible provided it is unviolated and supported, a gruesome hypothesis is
projectible provided it is unviolated and equivalent to a conjunction of
non-gruesome hypotheses, each of which is supported. Grice’s formalists: Hilbert, D. – G. mathematician and philosopher
of mathematics. Born in Königsberg, he also studied and served on the faculty
there, accepting Weber’s chair in mathematics at Göttingen in 1895. He made
important contributions to many different areas of mathematics and was renowned
for his grasp of the entire discipline. His more philosophical work was divided
into two parts. The focus of the first, which occupied approximately ten years
beginning in the early 1890s, was the foundations of geometry and culminated in
his celebrated Grundlagen der Geometrie (1899). This is a rich and complex work
that pursues a variety of different projects simultaneously. Prominent among
these is one whose aim is to determine the role played in geometrical reasoning
by principles of continuity. Hilbert’s interest in this project was rooted in
Kantian concerns, as is confirmed by the inscription, in the Grundlagen, of Kant’s
synopsis of his critical philosophy: “Thus all human knowledge begins with
intuition, goes from there to concepts and ends with ideas.” Kant believed that
the continuous could not be represented in intuition and must therefore be
regarded as an idea of pure reason – i.e., as a device playing a purely
regulative role in the development of our geometrical knowledge (i.e., our
knowledge of the spatial manifold of sensory experience). Hilbert was deeply
influenced by this view of Kant’s and his work in the foundations of geometry
can be seen, in large part, as an attempt to test it by determining whether (or
to what extent) pure geometry can be developed without appeal to principles
concerning the nature of the continuous. To a considerable extent, Hilbert’s
work confirmed Kant’s view – showing, in a manner more precise than any Kant
had managed, that appeals to the continuous can indeed be eliminated from much
of our geometrical reasoning. The same basic Kantian orientation also governed
the second phase of Hilbert’s foundational work, where the focus was changed
from geometry to arithmetic and analysis. This is the phase during which
Hilbert’s Program was developed. This project began to take shape in the 1917
essay “Axiomatisches Denken.” (The 1904 paper “Über die Grundlagen der Logik
und Arithmetik,” which turned away from geometry and toward arithmetic, does
not yet contain more than a glimmer of the ideas that would later become
central to Hilbert’s proof theory.) It reached its philosophically most mature
form in the 1925 essay “Über das Unendliche,” the 1926 address “Die Grundlagen
der Mathematik,” and the somewhat more popular 1930 paper “Naturerkennen und
Logik.” (From a technical as opposed to a philosophical vantage, the classical
statement is probably the 1922 essay “Neubegründung der Mathematik. Erste
Mitteilung.”) The key elements of the program are (i) a distinction between
real and ideal propositions and methods of proof or derivation; (ii) the idea
that the so-called ideal methods, though, again, playing the role of Kantian
regulative devices (as Hilbert explicitly and emphatically declared in the 1925
paper), are nonetheless indispensable for a reasonably efficient development of
our mathematical knowledge; and (iii) the demand that the reliability of the
ideal methods be established by real (or finitary) means. As is well known,
Hilbert’s Program soon came under heavy attack from Gödel’s incompleteness
theorems (especially the second), which have commonly been regarded as showing
that the third element of Hilbert’s Program (i.e., the one calling for a
finitary proof of the reliability of the ideal systems of classical
mathematics) cannot be carried out. Hilbert’s Program, a proposal in the
foundations of mathematics, named for its developer, the German
mathematician-philosopher David Hilbert, who first formulated it fully in the
1920s. Its aim was to justify classical mathematics (in particular, classical
analysis and set theory), though only as a Kantian regulative device and not as
descriptive science. The justification thus presupposed a division of classical
mathematics into two parts: the part (termed real mathematics by Hilbert) to be
regulated, and the part (termed ideal mathematics by Hilbert) serving as
regulator. Real mathematics was taken to consist of the meaningful, true
propositions of mathematics and their justifying proofs. These proofs –
commonly known as finitary proofs – were taken to be of an especially
elementary epistemic character, reducing, ultimately, to quasi-perceptual intuitions
concerning finite assemblages of perceptually intuitable signs regarded from
the point of view of their shapes and sequential arrangement. Ideal
mathematics, on the other hand, was taken to consist of sentences that do not
express genuine propositions and derivations that do not constitute genuine
proofs or justifications. The epistemic utility of ideal sentences (typically
referred to as ideal propositions, though, as noted above, they do not express
genuine propositions at all) and proofs was taken to derive not from their
meaning and/or evidentness, but rather from the role they play in some formal
algebraic or calculary scheme intended to identify or locate the real truths.
It is thus a metatheoretic function of the formal or algebraic properties
induced on those propositions and proofs by their positions in a larger
derivational scheme. Hilbert’s ideal mathematics was thus intended to bear the
same relation to his real mathematics as Kant’s faculty of pure reason was
intended to bear to his faculty of understanding. It was to be a regulative
device whose proper function is to guide and facilitate the development of our
system of real judgments. Indeed, in his 1925 essay “Über das Unendliche,”
Hilbert made just this point, noting that ideal elements do not correspond to
anything in reality but serve only as ideas “if, following Kant’s terminology,
one understands as an idea a concept of reason which transcends all experience
and by means of which the concrete is to be completed into a totality.” The
structure of Hilbert’s scheme, however, involves more than just the division of
classical mathematics into real and ideal propositions and proofs. It uses, in
addition, a subdivision of the real propositions into the problematic and the
unproblematic. Indeed, it is this subdivision of the reals that is at bottom
responsible for the introduction of the ideals. Unproblematic real
propositions, described by Hilbert as the basic equalities and inequalities of
arithmetic (e.g., ‘3 ( 2’, ‘2 ‹ 3’, ‘2 ! 3 % 3 ! 2’) together with their
sentential (and certain of their bounded quantificational) compounds, are the
evidentially most basic judgments of mathematics. They are immediately
intelligible and decidable by finitary intuition. More importantly, they can be
logically manipulated in all the ways that classical logic allows without
leading outside the class of real propositions. The characteristic feature of
the problematic reals, on the other hand, is that they cannot be so
manipulated. Hilbert gave two kinds of examples of problematic real
propositions. One consisted of universal generalizations like ‘for any
non-negative integer a, a ! 1 % 1 ! a’, which Hilbert termed hypothetical
judgments. Such propositions are problematic because their denials do not bound
the search for counterexamples. Hence, the instance of the (classical) law of
excluded middle that is obtained by disjoining it with its denial is not itself
a real proposition. Consequently, it cannot be manipulated in all the ways
permitted by classical logic without going outside the class of real
propositions. Similarly for the other kind of problematic real discussed by
Hilbert, which was a bounded existential quantification. Every such sentence
has as one of its classical consequents an unbounded existential quantification
of the same matrix. Hence, since the latter is not a real proposition, the
former is not a real proposition that can be fully manipulated by classical
logical means without going outside the class of real propositions. It is
therefore “problematic.” The question why full classical logical manipulability
should be given such weight points up an important element in Hilbert’s
thinking: namely, that classical logic is regarded as the preferred logic of
human thinking – the logic of the optimally functioning human epistemic engine,
the logic according to which the human mind most naturally and efficiently
conducts its inferential affairs. It therefore has a special psychological
status and it is because of this that the right to its continued use must be
preserved. As just indicated, however, preservation of this right requires
addition of ideal propositions and proofs to their real counterparts, since
applying classical logic to the truths of real mathematics leads to a system
that contains ideal as well as real elements. Hilbert believed that to justify
such an addition, all that was necessary was to show it to be consistent with
real mathematics (i.e., to show that it proves no real proposition that is
itself refutable by real means). Moreover, Hilbert believed that this must be
done by finitary means. The proof of Gödel’s second incompleteness theorem in
1931 brought considerable pressure to bear on this part of Hilbert’s Program
even though it may not have demonstrated its unattainability. Grice and the humboldts: Born in
Potsdam, Wilhelm, with his brother Alexander, was educated by private tutors in
the enlightened style thought suitable for a Prussian philosopher.This included
Grice’s stuff: philosophy and the two classical languages, with a bit of
ancient and modern history. After his university studies in law at Frankfurt an
der Oder and Göttingen, Humboldt’s career was divided among assorted posts,
philosophising on a broad range of topics, notably his first loves, like
Grice’s: philosophy and the classical languages. Humboldt’s broad-ranging works
reveal the important influences of Herder in his conception of history and
culture, Kant and Fichte in philosophy, and the French “Ideologues” in
semiotics. His most enduring work has proved to be the Introduction to his
massive study of language. Humboldt maintains that language, as a vital and
dynamic “organism,” is the key to understanding both the operations of the
soul. A language such as Latin possesses a distinctive inner form that shapes,
in a way reminiscent of Kant’s more general categories, the subjective
experience, the world-view, and ultimately the institutions of Rome. While all
philosophers are indebted to both his empirical studies and his theoretical
insights on culture, such philosophers as Dilthey and Cassirer acknowledge him
as establishing the Latin language as a central concern for the humanities. H.
P. Grice, “Alexander and all the Humboldts.” Griceian ideology: a term used by Ernest Gellner to refer to
Grice’s Clifton/Corpus Christi background. generally a disparaging term used to
describe someone else’s political views which one regards as unsound. This use
derives from Marx’s employment of the term to signify a false consciousness
shared by the members of a particular social class. For example, according to
Marx, members of the capitalist class share the ideology that the laws of the
competitive market are natural and impersonal, that workers in a competitive
market are paid all that they can be paid, and that the institutions of private
property in the means of production are natural and justified.
grecianism: why was Grice obsessed with Socrates’s convesations? He
does not say. But he implicates it. For the Athenian dialecticians, it is all a
matter of ta legomena. Ditto for the Oxonian dialecticians. Ta legomena becomes
ordinary language. And the task of the philosopher is to provide reductive
analysis of this or that concept in terms of necessary and sufficient
conditions. Cf. Hospers. Grices review of the history of philosophy (Philosophy
is but footnotes to Zeno.). Grice enjoyed Zenos answer, What is a friend? Alter
ego, Allego. ("Only it was the other Zeno." Grice tried to apply the
Socratic method during his tutorials. "Nothing like a heartfelt dedication
to the Socratic art of mid-wifery, seeking to bring forth error and to strangle
it at birth.” μαιεύομαι (A.“μαῖα”), ‘to serve as a midwife, act a; “ἡ
Ἄρτεμις μ.” Luc. D Deor.26.2. 2. cause delivery to take place, “ἱκανὴ ἔκπληξις
μαιεύσασθαι πρὸ τῆς ὥρας” Philostr. VA1.5. 3. c. acc., bring to the birth,
Marin.Procl.6; ὄρνιθας μ. hatch chickens, Anon. ap. Suid.; αἰετὸν κάνθαρος
μαιεύσομαι, prov. of taking vengeance on a powerful enemy, Ar. Lys.695 (cf.
Sch.). 4. deliver a woman, esp. metaph. in Pl. of the Socratic method, Tht.
149b. II. Act., Poll. 4.208, Sch. OH.4.506. Pass., τὰ ὑπ᾽ ἐμοῦ μαιευθέντα
brought into the world by me, Pl. Tht. 150e, cf. Philostr.VA5.13. Refs.: the
obvious references are Grice’s allusions to Aristotle, Plato, Socrates, Zeno,
The H. P. Grice Papers, BANC.
grosseteste: Grice was a
member of the Grosseteste Society. Like Grice’s friend, G. J. Warnock,
Grosseteste was chancellor of Oxford. Only that by the time of Warnock, the
monarch is the chancellor by default, so “Warnock had to allow to be called
‘vice-chancelor’ to Elizabeth II.” “I would never have read Aristotle had it
not been by this great head that grosseteste (“Greathead” is a common surname
in Suffolk).” – H. P. Grice. English philosopher who began life on the bottom
rung of feudal society in Suffolk and became one of the most influential
figures in pre-Reformation England. He studied at Oxford, obtaining an “M. A.,”
like Grice. Sometime after this period he joined the household of William de
Vere, of Hereford. Grosseteste associated with the elite at Hereford, several
of whose members were part of an advanced philosophical tradition. It was a
centre for the study of liberal arts. This explains his interest in dialectics.
After a sojourn in Paris, he becomes the first chancellor of Oxford. He was a secular
lecturer in theology to the recently established Franciscan order at Oxford. It
was during his tenure with the Franciscans that he studied Grecian an unusual endeavour for an Oxonian schoolman
then. He later moved to Lincoln. As a
scholar, Grosseteste is an original thinker who used Aristotelian and
Augustinian theses as points of departure. Grosseteste (or “Greathead,” as he
was called by the town – if not the gown) believes, with Aristotle, that sense
is the basis of all knowledge, and that the basis for sense is our discovery of
the cause of what is experienced or revealed by experiment. He also believes,
with Augustine, that light plays an important role in creation. Thus he
maintained that God produced the world by first creating prime matter (“materia
prima”) from which issued a point of light lux, the first corporeal form or
power, one of whose manifestations is visible light. The diffusion of this
light resulted in extension or tri-dimensionality in the form of the nine concentric
celestial spheres and the four terrestrial spheres of fire, air, water, and
earth. According to Grosseteste, the diffusion of light takes place in
accordance with laws of mathematical proportionality geometry. Everything,
therefore, is a manifestation of light, and mathematics is consequently
indispensable to science and knowledge generally. The principles Grosseteste
employs to support his views are presented in, e.g., his commentary on
Aristotle’s Posterior Analytics, the De luce, and the De lineis, angulis et
figuris. He worked in areas as seemingly disparate as optics and angelology.
Grosseteste is one of the first to take an interest in and introduce into the
Oxford curriculum newly recovered Aristotelian texts, along with commentaries
on them. His work and interest in natural philosophy, mathematics, the Bible,
and languages profoundly influenced Roger Bacon, and the educational goals of
the Franciscan order. It also helped to stimulate work in these areas.
Grandi
-- Luigi Guido Grandi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Luigi Guido
Grandi Luigi Guido Grandi, pseudonimo di Francesco Lodovico Grandi (Cremona, 1º
ottobre 1671[1] – Pisa, 4 luglio 1742), è stato un matematico e filosofo
italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Riconoscimenti
4 Note
5 Bibliografia
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Nato a Cremona da Caterina Legati e Piero Martire Grandi,
ricamatore, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida del giovane
letterato Giambattista Canneti e poi nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe
come maestro il futuro matematico Giovanni Girolamo Saccheri. All'età di 16
anni entrò nel monastero camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome
Guido in sostituzione degli originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò
l'antico maestro divenuto abate Pietro Canneti.
Proseguiti gli studi teologici a Roma e quelli geometrici e matematici a
Firenze, nel 1700 divenne professore di filosofia nel monastero camaldolese di
Firenze. Nel 1703 pubblicò il libro La quadratura del cerchio e dell'iperbole,
al cui interno scoprì lo stesso paradosso matematico intuito anche da Leibniz,
ossia che la somma parziale di una serie a segni alterni di numeri può non
convergere (serie di Grandi), e qualche anno dopo, durante una sua visita in
Inghilterra (1709), entrò a far parte della Royal Society. Nel 1714 divenne matematico di corte presso
il granduca di Toscana e più tardi professore di matematica nell'Università di
Pisa[2]. Fu anche sovrintendente alle acque del granducato, contribuendo ai
lavori di drenaggio per la bonifica della Val di Chiana. Collaborò con Tommaso
Buonaventuri all'edizione fiorentina delle Opere di Gaileo Galilei (1718),
studiò la curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che
ricorda il rosone delle chiese romaniche e gotiche (1725 circa)[3] e fu autore
degli Elementi di Geometria di Euclide, pubblicati postumi a Venezia (Savioni,
1780). Frontespizio del De infinitis
infinitorum Fu il primo a usare e a diffondere in Italia la nuova analisi degli
infiniti. Scrisse l'opera De infinitis infinitorum... nella quale applicò, tra
i primi in Italia, i metodi di Leibniz e Newton. Opere
Frontespizio di Trattato delle resistenze di Vincenzo Viviani completato
da Guido Grandi (Firenze, 1718) Geometrica demonstratio Vivianeorum
problematum, Florentiae, ex Typographia Iacobi de Guiduccis propè Conductam,
1699. De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus disquisitio
geometrica, Pisis, ex Typographia Francisci Bindi impress. archiepisch., 1710.
Epistola mathematica de momento gravium in planis inclinatis, Lucae, typis
Peregrini Frediani, 1711. Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro dal
sig. Alessandro Marchetti, In Lucca, ad istanza di Francesco Maria Gaddi
librajo in Pisa, 1712. Prostasis ad exceptiones clari Varignonii libro De
infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum
plusquam-infinitarum Vallisii defensionem et anguli contactus, Pisis, ex
Typographia Francisci Bindi impress. archiepisch., 1713. Del movimento
dell'acque trattato geometrico, Firenze. Relazione delle operazioni fatte circa
il padule di Fucecchio, In Lucca, per Leonardo Venturini, 1718. Trattato delle
resistenze, Firenze, per Tartini e Franchi, 1718?. Compendio delle Sezioni
coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni, In
Firenze, nella Stamperia di S.A.R. per gli Tartini e Franchi, 1722.
Instituzioni meccaniche, In Firenze, nella Stamperia di S.A.R. per Gio: Gaetano
Tartini e Santi Franchi, 1739. Istituzioni di aritmetica pratica, In Firenze,
nella Stamperia di S.A.R. per Gio: Gaetano Tartini e Santi Franchi, 1740.
Sectionum conicarum synopsis, Florentiae, ex typographio Ioannis Paulli
Giovannelli, 1750. Riconoscimenti Membro della Royal Society - nastrino per
uniforme ordinaria Membro
della Royal Society Note ^ Baldini, op. cit., indica la data del 10 ottobre
1671. ^ Mario Di Fidio, Claudi Gandolfi, Idraulici italiani (PDF), Fondazione
Biblioteca Europea di Informazione e Cultura, 2015, pp. 141-142. ^ Il termine
"rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva rodonea è anche
chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. Bibliografia Giammaria Ortes,
Vita del padre D. Guido Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio
Pisano, Venezia, Giambatista Pasquali, 1744. Consultabile su Google libri.
Nicola Mangini, Guido Grandi, in Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 20 luglio 2018. Amedeo
Agostini, Guido Grandi, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1933,
guido-grandi_res-a72acdb9-8baf-11dc-8e9d-0016357eee51. URL consultato il 20
luglio 2018.Modifica su Wikidata Voci correlate Rodonea Sofisma algebrico Altri
progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Luigi
Guido Grandi Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini
o altri file su Luigi Guido Grandi Collegamenti esterni Luigi Guido Grandi, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Accademia della Crusca. Modifica su Wikidata (EN) Luigi Guido Grandi, su
MacTutor, University of St Andrews, Scotland. Modifica su Wikidata Opere di
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su Wikidata (EN) Luigi Guido Grandi, in Galileo Project, Rice University.
Carteggi del padre camaldolese matematico Guido Grandi, su
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italiani del XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloNati nel 1671Morti
nel 1742Nati il 1º ottobreMorti il 4 luglioNati a CremonaMorti a PisaBenedettini
italianiMembri della Royal Society[altre]
Grassi -- Ernesto Grassi
(filosofo) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Ernesto Grassi (Milano, 2 maggio 1902 – Monaco di Baviera, 22 dicembre
1991) è stato un filosofo italiano.
Indice 1 Biografia
2 Il
pensiero 3 Opere
principali e traduzioni italiane 4 Studi
su Ernesto Grassi 5 Voci
correlate 6 Collegamenti
esterni Biografia Ernesto Grassi a
Berlino nel 1942 Grassi si laureò a Milano il 30 giugno 1925; in quegli anni egli
aveva trovato il suo maestro in Piero Martinetti, professore dell'Università
Statale di Milano. Già prima della laurea, Grassi sentì il bisogno di stringere
rapporti con la cultura tedesca e nel 1924 si era recato a Friburgo in
Brisgovia per presentarsi al filosofo Edmund Husserl. Alla ricerca di un luogo
dove poter continuare gli studi, partì per la Provenza nel 1927 dove conobbe
Maurice Blondel; nel 1928 ritornò in Germania, dove incontrò Martin Heidegger.
Questo fu l'inizio di una lunga collaborazione che segnò il destino filosofico
di Grassi; egli continuò la sua attività in Germania, prima come lettore
d'italiano a Friburgo, poi come incaricato di filosofia umanistica ed infine
come professore onorario, titolo grazie al quale poté insegnare a Berlino tra
il 1938 e il 1943. Fu presidente del "Centro Internazionale di Studi
Umanistici" di Monaco ed in seguito professore di "Filosofia
dell'Umanesimo" (Philosophie des Humanismus) presso la
Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco. Fu anche il curatore della Rowohlts
Deutsche Enzyklopädie, la famosa "RDE", la prima collana scientifica
tascabile in Germania, e della Rowohlts Klassiker. Il pensiero Pensatore di grande valore e
critico ingegnoso della filosofia dell'Umanesimo, cercò di ricondurre la
filosofia contemporanea ad una riflessione radicale intorno al suo statuto
epistemologico e a un ripensamento riguardante il valore del suo linguaggio,
ormai specialistico e spesso sterile, per affermare la valenza filosofica del
linguaggio poetico, metaforico e fantastico.
Opere principali e traduzioni italiane Il problema della metafisica
platonica, Laterza, Bari 1932, 227 pp. Dell'apparire e dell'essere (seguito da
Linee della filosofia tedesca contemporanea), La Nuova Italia, Firenze 1933, 97
pp. Von Vorrang des Logos. Das Problem der Antike in der Auseinandersetzung
zwischen italienischer und deutscher Philosophie, Beck, München 1939, 218 pp.
Gedanken zum Dichterischen und Politischen. Zwei Vorträge zum Bestimmung der
geistigen Tradition Italiens, Küpper, Berlin 1939, 48 pp. Wirklichkeit als
Geheimnis und Auftrag. Die Exaktheit der Naturwissenschaften und die
philosophische Erfarung, in collaborazione con Thure von Uexküll, Francke, Bern
1945, pp. 130. Verteidigung des Individuellen Lebens. Studia humanitatis als
Philosophische Überlieferung, Francke, Bern 1946, 176 pp. Von Ursprung und
Grenzen der Geisteswissenschaften und Naturwissenschaften, in collaborazione
con Thure von Uexküll, Verlag A. Francke, Bern 1950, 254 pp. Die Einheit
unseres Wirklichkeitsbildes und die Grenzen der Einzelwissenschaften, a cura di
Ernesto Grassi e Thure von Uexküll, Lehnen, München 1951, 196 pp. Reisen ohne
anzukommen. Südamerikanische Meditationen, Rowohlt, Hamburg 1955, 144 pp. Kunst
und Mythos, Rowohlt, Hamburg 1957, 167 pp. Die zweite Aufklärung: Enzyklopädie
heute. Mit lexikalischem Register zu Band 1-75, Rowohlt, Hamburg 1958, 304 pp.
Die Theorie des Schönen in der Antike, DuMont Schauberg, Köln 1962, 287 pp.
Macht des Bildes. Ohnmacht der rationalen Sprache. Zur Rettung des Rhetorisches,
DuMont Schauberg, Köln 1970, 231 pp. Arte come antiarte. Teoria del bello nel
mondo antico, traduzione di Carlo Hermanin, Paravia, Torino 1972, pp. 133.
Humanismus und Marxismus. Zur Kritik der Verselbständigung von Wissenschaft
[Mit einem Anhang “Texte italienischer Humanisten”], Rowohlt, Hamburg 1973, 274
pp. Die Macht der Phantasie. Zur Geschichte abendländischen Denkens, Athenäum,
Königstein/Ts. 1979, 267 pp. Macht des Bildes. Ohnmacht der rationalen Sprache.
Zur Rettung des Rhetorischen, Fink, München 1979, 231 pp. Rhetoric as
Philosophy. The Humanist Tradition, traduzione di John Michael Krois e Azized
Azodi, The Pennsylvania State University Press, University Park and London
1980, 122 pp. (ristampa 2001) Heidegger and the Question of Renaissance
Humanism. Four Studies, traduzione di Ulrich Hemel-John Michael Krois, State
University of New York at Binghamthon, Binghamton/N.Y. 1983, in Medieval and
Renaissance Texts and Studies, vol. XXI, 103 pp. Heidegger e il problema
dell'umanesimo, traduzione di Enrichetta Valenziani-Giovanna Barbantini, Guida,
Napoli 1985, 105 pp. Einführung in philosophische Probleme des Humanismus,
Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1986, 171 pp. Folly and Insanity
in Renaissance Literature, in collaborazione con Maristella Lorch, traduzione
di John Michael Krois e Mario A. Di Cesare, University Center at Binghamtom,
Binghamton/N.Y. 1986, in Medieval and Renaissance Texts and Studies, vol XLII,
128 pp. La preminenza della parola metaforica. Heidegger, Meister Eckhart,
Novalis, Mucchi editore, Modena 1987, 77 pp. La filosofia dell'umanesimo. Un
problema epocale, traduzione di Enrichetta Valenziani, Tempi Moderni, Napoli
1988, 218 pp. Renaissance Humanism. Studies in Philosophy and Poetics,
traduzione di Walter Veit, Center for Medieval and Early Renaissance Studies,
Bimhamton/N.Y. 1988, 145 pp. Umanesimo e retorica. Il problema della follia,
traduzione di Enrichetta Valenziani e Giovanna Barbantini, Mucchi, Modena 1988,
119 pp. Potenza dell'immagine. Rivalutazione della retorica, traduzione di
Liliana Croce e Massimo Marassi, Guerini e associati, Milano 1989, 267 pp. La
metafora inaudita, a cura di Massimo Marassi, Aestetica, Palermo 1990, 167 pp.
Potenza della fantasia. Per una storia del pensiero occidentale, a cura di
Claudio Gentili, Guida, Napoli 1990, 264 pp. Vico and Humanism. Essays on Vico,
Heidegger and Rhetoric, Peter Lang, New York 1990, pp. 217. Filosofare noetico
non metafisico. L'Alcesti e il Don Chisciotte, in collaborazione con Emilio
Hidalgo y Serna, Congedo Editore, Galatina, 1991, 55 pp. Vico e l'umanesimo,
traduzione di Antonio Verri, Guerini e associati, Milano 1992, 244 pp. Il
dramma della metafora. Euripide, Eschilo, Sofocle, Ovidio, a cura di Massimo
Marassi, L'officina tipografica, Roma 1992, 177 pp. Die unerhörte Metapher,
traduzione di Emilio Hidalgo y Serna, Hain, Frankfurt a. M. 1992, 280 pp. Arte
e mito, edizione riveduta ed ampliata dall'Autore, traduzione e cura di Carlo
Gentili, La Città del Sole, Napoli 1996, 240 pp. Retorica come filosofia. La
tradizione umanistica, traduzione di Roberta Moroni, a cura di Massimo Marassi,
La Città del Sole, Napoli 1999, 199 pp. Viaggiare ed errare. Un confronto con
il Sudamerica, traduzione di Cristina De Santis, a cura di Massimo Marassi, La
Città del Sole, Napoli 1999, 201 pp. Studi su Ernesto Grassi Eberhard Bons, Der
Philosoph Ernesto Grassi, Fink, München 1990. Wilhelm Büttemeyer, Ernesto
Grassi – Humanismus zwischen Faschismus und Nationalsozialismus, Alber,
Freiburg 2010. Emilio Hidalgo-Serna (cur.), Studi in memoria di Ernesto Grassi,
2 vol., Edizione La Città del Sole, Napoli 1996 (con bibliografia estesa).
Robert Josef Kozljanic, Ernesto Grassi, Fink, München 2003. Anna Di Somma, La
prospettiva filosofica di Ernesto Grassi tra antropologia, logica e ontologia,
La scuola di Pitagora, Napoli 2018. Ead., Meditazioni sudamericane: la tappa
sudamericana dell'onto-antropo-logia di Ernesto Grassi, in Studi
Interculturali, 1, 2017. Ead., La realtà umana tra disvelamento e fondazione:
l'incidenza di Vico e Leopardi nell'antropologia di Ernesto Grassi, in ISPF Lab
2017. Ead., Il ruolo di Platone nell’onto-antropo-logia di Ernesto Grassi, in
cds in A. Muni (a cura di), Platone nel pensiero moderno e contemporaneo,
Limina mentis, 2017. Ead., La Hora de Pan en Reisen ohne anzukommen. Eine
Konfrontation mit Sudamerika de Ernesto Grassi, in AA. VV, Magister et
discipuli. Filosofìa, historia, politica y cultura, Penguin Random House,
Bogotà 2016. Voci correlate Umanesimo Collegamenti esterni Biografia su Rai Educational,
su emsf.rai.it. URL consultato il 3 aprile 2006 (archiviato dall'url originale
il 10 ottobre 2006). Piergiorgio Donatelli, «GRASSI, Ernesto» in Dizionario
Biografico degli Italiani, Volume 58, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2002. Claudia Razza, Ernesto Grassi: l'umile potenza del suo
umanesimo nel sito dell'Università Ludwig Maximilian di Monaco, Facoltà di
filosofia. Controllo di autorità VIAF
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Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloNati nel 1902Morti nel
1991Nati il 2 maggioMorti il 22 dicembreNati a MilanoMorti a Monaco di
Baviera[altre]
Grassi -- Leonardo Grassi Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Leonardo Grassi Leonardo Grassi (Mascali, 1º
maggio 1873 – Catania, 27 gennaio 1961) è stato un filosofo e pedagogista
italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere e collaborazioni 3 Premi e
riconoscimenti 4 Note
5 Bibliografia
6 Collegamenti
esterni Biografia Iniziò gli studi ginnasiali presso il seminario di Acireale
fino alla terza ginnasiale, proseguendoli poi a Catania, presso il liceo
"Nicola Spedalieri". Assiduo
frequentatore della sala lettura dell'Università di Catania, conobbe il poeta
Mario Rapisardi, allora nella piena maturità del suo ingegno, cui lo legò una
profonda stima ed affinità intellettuale.
Seguendo le orme paterne, conseguì la prima laurea in medicina e
chirurgia all'Università di Napoli (1898), con una tesi in psicologia
sperimentale dal titolo Intorno alla memoria delle immagini acustiche e visive
delle parole in rapporto specialmente al tempo di "fissazione",
suggeritagli da Leonardo Bianchi[1] e pubblicata poi sulla Rivista Sperimentale
di Freniatria[2]. Si trasferì, dunque, a
Messina dove divenne assistente di Giovanni Weiss, docente di patologia
generale in quella Università. Tuttavia
cominciò a provare le prime grosse delusioni per l'inconciliabile contrasto fra
le esigenze pratiche della professione, che rischiavano di piegarlo a umilianti
compromessi, e le alte aspirazioni della sua anima. Mutò bruscamente indirizzo, iscrivendosi alla
facoltà di scienze naturali, conseguendo così la seconda laurea con Pio
Mingazzini sostenendo una tesi intorno ai pesci di Ganzirri e Faro, che poi fu
pubblicata su una rivista veneziana. Mingazzini, chiamato alla cattedra di
Bologna, era felice di averlo come assistente, ma di lì a poco morì
improvvisamente. Il suo spirito inquieto
cercò altre vie ed altri sbocchi, e così intraprese a frequentare le lezioni
che si tenevano nella facoltà di lettere e filosofia dell'Università di
Catania, profondamente influenzato dalle precedenti frequentazioni messinesi
dove campeggiavano figure come Giovanni Pascoli, col quale strinse amicizia,
Giovanni Cesca, Michele Barbi, Augusto Mancini, Roberto Ardigò, del suo
discepolo Giovanni Dandolo ed infine dello storico Gaetano Salvemini. Nel 1904 conseguiva la sua terza ed ultima
laurea in filosofia presso l'ateneo catanese, con una tesi pubblicata
dall'editore Muglia di Messina, dal titolo L'unità dei fatti psichici
fondamentali. Quindi vinse la cattedra
di filosofia nei licei e fu assegnato a Caltagirone dove conobbe e sposò il 25
aprile del 1909 la giovane Giacomina Gerbino appena laureata in lettere
classiche alla quale lo legò un profondo amore ed un'intensa affinità
d'intelletti. Fu capitano medico e
nell'ultima parte della prima guerra mondiale ebbe la direzione di un ospedale
militare di riserva in cui rimase fino alla primavera del 1919. Ritornato all'insegnamento, venne trasferito
a Catania dove fu professore di filosofia presso il liceo "N.
Spedalieri" [3]. Nel 1920 conseguì
la libera docenza presso l'Università di Catania dove insegnò filosofia
morale. Iniziò, dunque, un'intensa
attività scientifica che vide tra i suoi maggiori corrispondenti Giovanni
Gentile e Luigi Sturzo - con i quali intrattenne un copioso carteggio - oltre
al letterato Villaroel, Arturo Farinelli, Bernardino Varisco, Giuseppe Fausto
Majelli, Pantaleo Carabellese e Luigi Fassò.
Dal 1945 al 1946 fu ideatore e direttore responsabile della rivista
Prisma a cui collaborò, tra gli altri, anche Manlio Sgalambro. Si spense a Catania il 27 gennaio 1961 a 87
anni, nel suo palazzo in Via Firenze.
Opere e collaborazioni Tra le opere più significative: Leonardo Grassi, Preludi a un commento alla
vita del Faust, Catania, Studio Editoriale Moderno, 1928. Leonardo Grassi,
Commento alla vita di Faust, Torino, F.lli Bocca Editori, 1932. Leonardo
Grassi, Preludi storico attualistici alla Critica della ragion pratica,
Catania, Crisafulli Editore, 1943. Leonardo Grassi, Storia di un medico
mancato, Catania, Studio editoriale La Legione, 1935. Leonardo Grassi, voce
assoluto, Roma, Enciclopedia Treccani, 1930. Leonardo Grassi, voce assoluto,
Roma, Enciclopedia De Carlo, 1942. Collaboratore del Giornale critico della
filosofia italiana diretto da Giovanni Gentile Direttore responsabile di Prisma
una delle riviste culturali-filosofiche catanesi dell'immediato secondo
dopoguerra. Traduzione inedita, della Critica della ragion pratica di Kant e della
Logik und Metafysik del Fischer. Premi e riconoscimenti Socio della Fondazione
Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici. Socio onorario del Centro di Studi
Anglo-Franco-Americani sezione per l'Oriente e componente del comitato
nazionale. Socio onorario del Centro Italiano Studi Internazionali. Nel 1966
gli sono state intitolate due scuole medie, una a Mascali in provincia di
Catania e l'altra a Catania, tutt'oggi attive ed operanti[4] Dal 2007 è stato
creato il premio "Leonardo Grassi" per la legalità le cui edizioni
annuali o biennali si svolgono presso l'istituto comprensivo "Leonardo
Grassi" di Mascali.[4] Note ^
Biografia di Leonardo Bianchi ^ Rivista di freniatria diretta da Tamburini ^ La
Storia Istituto Leonardo Grassi
Archiviato il 19 dicembre 2014 in Internet Archive. Bibliografia Rosario
Fisichella, La musica e le idee, Giannotta editore, Catania, 1966. Rosario
Fisichella, Un filosofo dall'anima di poeta, in Ausonia 4 XIX luglio-Agosto
1964 ed. MAIA Ermanno Scuderi, Poesia e coscienza critica, Edigraf, Catania,
1970. Ermanno Scuderi, Scrittori e critici di Sicilia, Cedam, Padova, 1970.
Mario Sipala, Da Carducci a Quasimodo, Cedam, Padova 1970. Salvatore Latora, Il
pensiero di Leonardo Grassi in Teoresi Rivista di cultura Filosofica, diretta da
Vincenzo La Via, anno XXIX, 1974. Rosario Vittorio Cristaldi, in Rivista di
Studi Crociani XII, 1975, fasc.IV, pp. 471–472, "Leonardo Grassi"
Collegamenti esterni Istituto Comprensivo Statale "Leonardo Grassi",
su grassimascali.it. La Musica e le idee, su openlibrary.org. Comune di
Mascali, su comune.mascali.ct.it. Rivista Sperimentale di Freniatria, su
rivistafreniatria.it. Controllo di autorità VIAF
(EN) 306063355 · ISNI (EN) 0000 0004 2517 9334 · SBN IT\ICCU\PALV\002306 ·
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Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloPedagogisti
italianiNati nel 1873Morti nel 1961Nati il 1º maggioMorti il 27 gennaioNati a
MascaliMorti a Catania[altre]
Grataroli -- Guglielmo Grataroli Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Guglielmo Grataroli Guglielmo Grataroli o Gratarolo (Bergamo, 16 maggio 1516 –
Basilea, 16 aprile 1568) è stato un medico e filosofo italiano.
Indice 1 Biografia 2 Pensiero
3 Opere
4 Note
5 Bibliografia
6 Voci
correlate 7 Altri
progetti 8 Collegamenti
esterni Biografia Ritratto di Grataroli da Giovanni Battista
Gallizioli, Della vita degli studi e degli scritti di Gulielmo Grataroli
filosofo e medico, In Bergamo, dalla Stamperia Locatelli, 1788. Il Grataroli
nacque all'inizio del XVI secolo a Bergamo, in una famiglia benestante dedita
al commercio di tessuti di lana con la città di Venezia. Questa, originaria del
borgo di Oneta, frazione di San Giovanni Bianco in val Brembana, oltre a
possedere gran parte della contrada e dei terreni circostanti (tra cui anche
l'edificio che attualmente ospita la casa di Arlecchino), annoverava tra i suoi
membri una folta schiera di medici (al tempo chiamati "phisici"), tra
i quali si segnalarono Simone, fondatore del collegio dei medici di Bergamo, e
Pellegrino, medico presso la città orobica, rispettivamente nonno e padre di
Guglielmo. Gli studi del giovane Guglielmo furono quindi indirizzati fin
dall'inizio verso l'arte esercitata dal padre, che lo educò e lo indirizzò allo
studio della stessa. Proseguì quindi gli studi a Padova presso la locale
facoltà di medicina, dove nel 1536 si laureò e l'anno seguente vi assunse la
cattedra. Nella città veneta, oltre a pubblicare la sua prima opera, una
piccola dispensa inerente osservazioni sul mondo della natura, entrò in
contatto con studenti e docenti provenienti da ogni parte d'Europa, venendo
contagiato dalle dottrine religiose predicate da Lutero e Calvino. Si
dedicò quindi alla professione esercitando prima a Milano e poi a Bergamo dove
nel 1539 si iscrisse al locale ordine dei medici. Dopo aver pubblicamente
manifestato le proprie idee in ambito religioso, che stridevano non poco con il
pensiero cattolico e che si avvicinavano notevolmente a quelle proprie della
Riforma protestante, si dedicò attivamente ad un gruppo eterodosso, del quale
prese la guida in seguito all'arresto, con l'accusa di eresia, di don Pietro
Pesenti, il precedente reggente. Anch'egli venne più volte redarguito
dalle gerarchie cattoliche e costretto a comparire davanti ai tribunali
ecclesiastici di Bergamo e Milano. Questi lo invitarono a ritrattare tutte le
sue affermazioni considerate eretiche tanto da costringerlo, il 4 febbraio
1544, ad abiurare. Non rinunciando alle proprie idee, fu nuovamente sottoposto
al giudizio dell'autorità canonica nel 1550. Il degenerare della
situazione lo obbligò a fuggire dalla città, riparando a Tirano nel Canton
Grigioni, dove dichiarò di non riconoscere l'autorità dell'inquisizione. Qui
trovò ospitalità da esponenti della nobiltà locale presso i quali ebbe la
possibilità di insegnare e praticare la propria disciplina. Nel
frattempo, il 23 gennaio 1551 il tribunale ecclesiastico di Bergamo lo
dichiarò, in contumacia, eretico colpevole di «aver molto straparlato de
le cose pertinenti a la fede et di essa fede et de la autorità del papa...
negare il purgatorio, le indulgenze, i suffragi per i defunti, la venerazione
dei santi, la presenza del corpo di Cristo nell'eucaristia... heretico pertinace
et scandaloso et infame… peste contra la fede» [1] vietandogli il
ritorno nella città orobica, pena la decapitazione ed il rogo, ponendo sulla
sua testa una somma pari a cinquecento lire e confiscando tutti i beni suoi e
della moglie, nel frattempo rimasta in città. Il Grataroli cominciò
quindi a spostarsi in numerose città d'Europa, tutte poste in ambienti
riformati. Si stabilì prima a Strasburgo ed in seguito a Basilea, città nella
quale ebbe modo sia di praticare medicina (salvando la vita, tra gli altri, a
Girolamo Cardano[2]), che di assumere la cattedra nella locale università,
presso l'ingresso della quale ancor oggi è presente un suo busto che ne
testimonia l'importanza ricoperta. Morì in terra elvetica, che nel
frattempo era diventata la sua nuova patria, nel 1568. Pensiero Le sue
teorie, che gli valsero la fama di medico e scienziato tra i più illustri
dell'Europa del XVI secolo, toccavano numerosi punti in ambito medico. Noti
sono i suoi trattati sul potenziamento e il mantenimento della memoria, sulle
epidemie di peste, sulle proprietà del vino, su erboristeria e veterinaria. Vi
sono anche alcuni scritti inerenti all'alchimia, disciplina abbondantemente
sviluppata da Paracelso, che insegnò nell'università di Basilea soltanto
qualche anno prima del Grataroli. Si segnalò nel medesimo ateneo sia per
le ricerche che per gli elaborati sulla teoria fisiognomica, in seguito
sviluppata, nel corso del XIX secolo da Cesare Lombroso[3]. Menzionato
anche in poesie del conterraneo Padre Donato Calvi, scrisse un totale di 25
opere mediche e filosofiche. Tra le altre si segnalano argomentazioni sulle
dottrine del medico greco Galeno di Pergamo e del filosofo ed umanista italiano
Pietro Pomponazzi, consigli medici per letterati e magistrati, ma anche indicazioni
sia per il mantenimento della salute che per l'utilizzo dei bagni termali,
nonché un saggio in cui vengono raccontati i suoi viaggi e forniti consigli ai
viaggiatori di quel tempo[4]. Opere De memoria reparanda, augenda
ser-vandaque. De salute tuenda. De regimine iter argentium, vel aequitum, vel
peditum, vel navi, vel curru, seu rheda. Turba Philosophorum. De literatorum et
eorum qui magistratibus funguntur conservanda praeservandaeque valetitudine
compendium, Pietro Perna, Basilea, 1555. Veræ alchemiæ artisque metallicae,
citra aenigmata, doctrina, certusque..., Pietro Perna, Basilea, 1561. De fato,
libero arbitrio et providentia Dei (in 5 libri) Pietro Perna, Basilea, 1567.
Alchemiae, quam vocant, artisque metallicae, doctrina, certusque modus,... (in
53 volumi) Pietro Perna, Basilea, 1561. De balneis, Bergamo, 1582. Note ^
Quaderni brembani[collegamento interrotto] ^ Storia di Milano ^ Flavio Caroli,
Storia della fisiognomica Arte e psicologia da Leonardo a Freud ^ Marco Meriggi
e Alessandro Pastore (a cura di), Le regole dei mestieri e delle professioni:
secoli XV-XIX, pp. 259-260. Bibliografia Alberto Castoldi (coordinamento di),
Bergamo ed il suo territorio. Dizionario enciclopedico, pp. 447–448, Bergamo,
Bolis edizioni 2004. ISBN 88-7827-126-8. Giovanni Battista Gallizioli, Della
vita degli studi e degli scritti di Gulielmo Grataroli filosofo e medico, In
Bergamo, dalla Stamperia Locatelli, 1788. URL consultato l'11 luglio 2015.
Marco Meriggi, Le regole dei mestieri e delle professioni: secoli XV-XIX, pp.
259–260. Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, p. 457. Tarcisio Bottani
e Wanda Taufer, Storie del Brembo. Fatti e personaggi dal Medioevo al
Novecento, Ferrari editrice, 1998. Girolamo Tiraboschi, Storia della
letteratura italiana, Napoli, Nella Stamperia de' classici, 1836-1840, p. 542.
Maclean, Ian. "Heterodoxy in Natural Philosophy and Medicine: Pietro
Pomponazzi, Guglielmo Gratarolo, Girolamo Cardano," in Heterodoxy in Early
Modern Science and Religion, edited by John Brooke and Ian Maclean. Oxford:
Oxford University Press, 2005. Voci correlate Fisiognomica Mnemotecnica Peste
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in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Medicina Categorie: Medici italianiFilosofi italiani del XVI secoloNati nel
1516Morti nel 1568Nati il 16 maggioMorti il 16 aprileNati a BergamoMorti a
BasileaScienziati italiani[altre]
GraziaDe -- Vincenzo De Grazia
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Vincenzo
De Grazia Deputato del Parlamento delle Due Sicilie Durata mandato 1848 -
1849 Circoscrizione Catanzaro Considerazioni di m. Vincenzo Di Grazia
(1613). Vincenzo De Grazia (Mesoraca, 19 febbraio 1785 – Napoli, 20 novembre
1856) è stato un filosofo e politico italiano.
Indice 1 Biografia
2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Studiò a Napoli dove venne condotto, dalla natia Calabria, da
uno zio dell'ordine dei Teatini all'età di 5 anni. Si laureò in ingegneria e
nel 1811, durante il regno di Gioacchino Murat, si arruolò nel genio militare
nell'esercito delle Due Sicilie. Si dedicò alla filosofia da autodidatta: il
suo pensiero ebbe poca diffusione mentre era in vita, e non riuscì a succedere
a Pasquale Galluppi all'università di Napoli dopo la morte di quest'ultimo
(1846). Nel 1848 fu eletto deputato al
Parlamento Napoletano per il distretto di Catanzaro. De Grazia si oppose al Criticismo kantiano e
all'Idealismo hegeliano[1] in nome dell'esperienza[2]. Negli ultimi anni cercò
di conciliare il suo realismo gnoseologico con la filosofia tomistica[3]. Opere Vincenzo de Grazia, Discorso su
l'architettura del teatro moderno, di Vincenzo De Grazia. Napoli : dai torchi
di Saverio Giordano, 1825. Vincenzo de Grazia, Saggio su la realtà della
scienza umana, di Vincenzo de Grazia. Napoli : Dalla tipografia Flautina, 1839
(on-line). Vincenzo de Grazia, Su la logica di Hegel e su la filosofia
speculativa, discorsi. Napoli : Dalla tipografia de' Gemelli, 1850 (on-line).
Vincenzo de Grazia, Prospetto della filosofia ortodossa, di Vincenzo de Grazia.
Napoli : Stab. tip. del Poliorama pittoresco, 1851. Vincenzo Di Grazia,
Considerazioni di m. Vincenzo Di Grazia sopra 'l discorso di Galileo Galilei
intorno alle cose che stanno su l'acqua, e che in quella si muouono.
All'Illustriss. ed Eccellentiss. Sig. don Carlo Medici, In Firenze, presso
Zanobi Pignonj, 1613. Note ^ Su la logica di Hegel e su la filosofia
speculativa, 1850 ^ Saggio su la realtà della scienza umana, 1839-42 ^
Prospetto della filosofia ortodossa, 1851 Bibliografia Tancredi De Riso, Cenni
biografici del filosofo calabrese Vincenzo De Grazia. Genova : Lodovico
Lavagnino, 1858. Biagio Miraglia, "Vincenzo de Grazia, filosofo
calabrese". In: Introduzione alla scienza della storia: con altri scritti
editi ed inediti. Torino : Unione Tipografico-Editrice, 1866, pp. 197–202
(on-line). Francesco Fiorentino, Della vita e delle opere di Vincenzo De
Grazia, memoria di Francesco Fiorentino, Catanzaro, Centro Bibliografico
Calabrese, 1989. R. Grita, «DE GRAZIA, Vincenzo». In: Dizionario Biografico
degli Italiani, Vol. XXXVI (on-line). Collegamenti esterni Vincenzo De Grazia,
in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Portale Due Sicilie Filosofia Portale Filosofia Politica Portale Politica
Categorie: Filosofi italiani del XIX secoloPolitici italiani del XIX secoloNati
nel 1785Morti nel 1856Nati il 19 febbraioMorti il 20 novembreNati a
MesoracaMorti a Napoli[altre]
Gregory -- Tullio Gregory Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Tullio
Gregory (Roma, 28 gennaio 1929 – Roma, 2 marzo 2019) è stato un filosofo,
storico della filosofia e accademico italiano. Indice 1 Biografia 2 Studi 3 Opere
4 Onorificenze
5 Note
6 Bibliografia
7 Collegamenti
esterni Biografia Nato a Roma nel 1929, si laureò in filosofia nel 1950 presso
la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Roma "La
Sapienza" con Bruno Nardi. Di questo ateneo fu professore ordinario dal
1962 come titolare della cattedra di Storia della filosofia medievale e dal
1967 di quella di Storia della filosofia. Fu anche direttore del Dipartimento
di Ricerche storico-filosofiche e pedagogiche della stessa Università.
Dal 1951 fu collaboratore dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
contribuendo tra l'altro alla pubblicazione del Dizionario Enciclopedico
Italiano. In seguito divenne direttore della sezione di Storia della filosofia
e del cristianesimo del Lessico Universale Italiano, collaborò alla Terza
Appendice, al Dizionario Biografico degli Italiani, alla Dantesca, alla
Virgiliana e diresse la redazione dell’Enciclopedia della moda. Presso
l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, del cui Consiglio scientifico era
membro, fu direttore dell’Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere e Arti
(Treccani). Dai primi anni sessanta fu consulente della Casa editrice Laterza
per la filosofia; in tale ruolo, fra le molte altre iniziative, diresse la
collana "I filosofi", divenuta ormai una vera e propria enciclopedia
filosofica d’alto livello. Fu fondatore e direttore, dal 1964, del Centro
di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo del Consiglio Nazionale delle
Ricerche, che diresse dal 1970. Inoltre era membro del Comitato direttivo del
Centro italiano di studi sull'alto medioevo e del Consiglio direttivo
dell'Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento di Firenze.
Condirettore, prima con Paul Dibon, poi con Marc Fumaroli e Marta Fattori,
delle Nouvelles de la République des Lettres, era membro del Consiglio
scientifico dell'Institut de la Langue Française di Parigi, directeur d'études
all'École Pratique des Hautes Études della Sorbona e della Société
Internationale pour l'Etude de la Philosophie Médiévale; di questa era
Presidente dal 1987. Accademico Ordinario dell'Accademia delle Arti del
Disegno di Firenze e socio nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei e
dell'Accademia Pontaniana, fu anche fellow della British Academy di Londra dal
1993 e dell'American Academy of Arts and Sciences dal 1994. È stato anche
consigliere d'amministrazione della Rai nel 1993-1994, all'epoca dei cosiddetti
"Professori". Collaborò con l'Istituto dell'Enciclopedia
Italiana e con l'inserto domenicale de Il Sole 24 ore. In questo inserto
espresse il proprio punto di vista su Wikipedia (18 e 25 febbraio 2007); negli
articoli sopra citati si rileva che a suo giudizio, in Wikipedia, «le singole
voci sono un coacervo di notizie che, mancando di sistemazione critica, non
offrono neppure una sicura informazione»[1]. È morto a Roma il 2 marzo
2019 a novant'anni.[2] Studi Si occupò soprattutto delle fasi di trapasso
del pensiero filosofico, scientifico e teologico europeo dal medioevo al XVII
secolo. Opere Scritti principali: Anima mundi. La filosofia di
Guglielmo di Conches e la scuola di Chartres, Firenze, Sansoni, 1955. Platonismo
medievale. Studi e ricerche, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo,
1958. Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Bari, Laterza, 1961. L'idea
di natura nella filosofia medievale prima dell'ingresso della fisica di
Aristotele. Il secolo XII, in III Congresso Internazionale di Filosofia
medievale, La filosofia della natura nel Medioevo (Passo della Mendola, 31
agosto-5 settembre 1964), Firenze, Sansoni, 1964; poi in La filosofia della
natura nel Medioevo. Atti del Terzo Congresso internazionale di filosofia
medioevale. Passo della Mendola (Trento), 31 agosto-5 settembre 1964, Milano,
Vita e pensiero, 1966, pp. 27–65. Studi sull'atomismo del Seicento, in
"Giornale critico della filosofia italiana", XVIII, 1964, pp. 38–65;
XX, 1966, pp. 44–63; XXI, 1967, pp. 528–541 Aristotelismo, in Grande antologia
filosofica, VI, Il pensiero della rinascenza e della riforma. Protestantesimo e
riforma cattolica, Milano, Marzorati, 1964. Dio ingannatore e genio maligno.
Nota in margine alle "Meditationes" di Descartes, in "Giornale
critico della filosofia italiana", anno LIII (LV), fasc. IV (ott.-dic.
1974), pp. 477–516; poi in Mundana sapientia. Theophrastus redivivus.
Erudizione e ateismo nel Seicento, Napoli, Morano, 1979. Il libertinismo della
prima metà del Seicento. Stato attuale degli studi e prospettive di ricerca, in
Ricerche su letteratura libertina e letteratura clandestina nel Seicento. Atti
del Convegno di studio di Genova, 30 ottobre-1 novembre 1980, Firenze, La Nuova
Italia, 1981, pp. 3–47. Etica e religione nella critica libertina, Napoli,
Guida, 1986. ISBN 88-7042-833-8. Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella
cultura medievale, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1992. ISBN
88-87114-21-8. Genèse de la raison classique de Charron à Descartes, Paris,
Presses Universitaires de France, 2000. ISBN 2130483135. Lo spazio come
geografia del sacro nell'Occidente altomedievale, in “Giornale critico della
filosofia italiana”, Anno LXXXI (LXXXIII), Fasc. II, Maggio-Agosto 2002. Noè
ovvero della sobria ebbrezza, in L'ebbrezza di Noè. Sedici artisti per San
Gimignano, Cesena, Il Vicolo, 2003. ISBN 88-87369-23-2. Origini della
terminologia filosofica moderna. Linee di ricerca, Firenze, Olschki, 2006. ISBN
88-222-5566-6. Speculum naturale. Percorsi del pensiero medievale, Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura, 2007. ISBN 978-88-8498-338-1. Principe di
questo mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari, Laterza, 2013. ISBN
978-88-581-0654-9. Michel de Montaigne, o Della modernità, Pisa, Edizioni della
Normale, 2016, ISBN 978-88-7642-583-7. Vie della modernità, Firenze, Le Monnier
Università, 2016. ISBN 978-88-00-74761-5. Onorificenze Cavaliere di gran croce
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme
ordinaria Cavaliere di gran
croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 1º giugno 2002[3]
Inoltre Gregory fu nominato Chevalier officier de l'ordre des arts et des
lettres de France. Note ^ Il Sole 24 ore, 25 febbraio 2007 ^ Morto Tullio
Gregory, filosofo e storico della filosofia. Aveva 90 anni, su Corriere della
Sera, 3 marzo 2019. ^ Presidenza della Repubblica. Le onorificenze. Dettaglio
decorato Bibliografia Vincenzo Cappelletti, GREGORY, Tullio, in Enciclopedia
Italiana, V Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1992,
tullio-gregory. Collegamenti esterni Tullio Gregory, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
Opere di Tullio Gregory, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Tullio Gregory, su Open Library, Internet Archive.
Modifica su Wikidata Registrazioni di Tullio Gregory, su RadioRadicale.it,
Radio Radicale. Modifica su Wikidata Cenni biografici e pubblicazioni dal sito
dell'Università La Sapienza - Roma. Pagina personale nel sito di ILIESI., su
iliesi.cnr.it. Archivio Tullio Gregory, Biografia, Bibliografia, Biblioteca
digitale CNR-ILIESI Controllo di autorità VIAF
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Università Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI
secoloStorici della filosofia italianiAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XXI secoloNati nel 1929Morti nel 2019Nati il 28
gennaioMorti il 2 marzoNati a RomaMorti a RomaStudenti della Sapienza -
Università di RomaProfessori della Sapienza - Università di Roma[altre]
Grice, H. P. “A Philosophical Grand Tour to Italy – in search of
Vico!” --.
Griffero -- Tonino Griffero Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Niente fonti! Questa
voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o
quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo
citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle
fonti. Tonino Griffero Tonino Griffero (Asti, 1958) è un filosofo
italiano, professore ordinario di estetica presso l'Università di Roma
"Tor Vergata". Biografia Ha studiato presso l'Università di
Torino, dove si è laureato in filosofia sotto la guida di Gianni Vattimo nel
1982 con una tesi sull'ermeneutica di E. D. Hirsch. Insegnante nelle
scuole medie inferiori dal 1984 al 1987 e superiori dal 1987 al 1994, ha
conseguito il dottorato presso l'Università di Bologna nel 1992 e condotto una
ricerca post-dottorato ad Heidelberg come Humboldt-Fellow (1998-1999). È stato
ricercatore presso l'Università di Vercelli (1994-1999), poi dal 1999
professore associato di estetica presso l'Università di Roma "Tor
Vergata" e dal 2002 ivi professore ordinario. È direttore di
"Sensibilia. Colloquium on Perception and Experience" e del Master in
"Comunicazione estetica e museale" (IAD-Università di Roma "Tor
Vergata), delle collane editoriali "Oltre lo sguardo. Itinerari di
Filosofia" (Armando Editore, Roma, 2007-2012), "Percezioni. Estetica
& Fenomenologia" (Christian Marinotti, Milano, dal 2010),
"Sensibilia" (Mimesis, Milano dal 2007), della rivista
"Lebenswelt. Aesthetics and Philosophy of Experience" [1], del blog
"Atmospheric Spaces" (https://atmosphericspaces.wordpress.com/) e
della collana "Atmospheric Spaces" (Mimesis International).
Durante la formazione, si dedica inizialmente allo studio di alcune figure e
problemi della storia dell'ermeneutica, in particolare ai lavori di Emilio
Betti (Interpretare. La teoria di Emilio Betti e il suo contesto, Rosemberg
& Sellier, Torino 1988) e di Eduard Spranger (Spirito e forme di vita. La
filosofia della cultura di Eduard Spranger, Franco Angeli, Milano 1990).
Come dottorando (1988/1992), si dedica al rapporto tra arte e mito nel pensiero
di Schelling, scrivendo poi Senso e immagine. Simbolo e mito nel primo
Schelling (Guerini & Associati, Milano 1994), Cosmo Arte Natura. Itinerari
schellinghiani (Cuem, Milano 1995), nel quale si concentra sulle
caratteristiche del primo real-idealismo di Schelling, e infine una ricostruzione
dell'apporto dato da questo autore all'estetica filosofica, L'estetica di
Schelling (Laterza, Roma-Bari 1996). La nozione di "immaginazione
transitiva", è invece affrontata nel libro Immagini Attive. Breve storia
dell'immaginazione transitiva (Le Monnier, Firenze, 2003). Il libro
ricostruisce la storia della "credenza" secondo cui una fantasia
particolarmente forte sarebbe in grado di agire, cambiando o addirittura
generando la realtà esterna. Nel libro Oetinger e Schelling. Teosofia e
realismo biblico alle origini dell'Idealismo tedesco (Nike, Segrate 2000)
analizza l'influenza di Friedrich Christoph Oetinger e del Pietismo Speculativo
settecentesco sullo sviluppo del pensiero di Schelling. Il tema della
"corporeità spirituale", che è per Oetinger il "fine ultimo
delle opere di Dio", è ciò a cui si rifà anche lo Schelling nel suo
periodo intermedio (teosofico). L'ampia storia del concetto di
Geistleiblichkeit è esposta nella monografia Il corpo spirituale. Ontologie
"sottili" da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger (Mimesis,
Milano 2006). La ricerca sulla fenomenologia del corpo e della percezione
e l'estetica delle atmosfere è affrontata nel libro Atmosferologia. Estetica
degli spazi emozionali (Laterza, Roma, 2010), tr. inglese di S. De Sanctis,
Atmospheres. Aesthetics of Emotional Spaces (Ashgate, Farnham 2014). Nel
libro Quasi-cose. La realtà dei sentimenti (Bruno Mondadori, Milano 2013)
Griffero indica e analizza sulla scorta dei un'estetica neofenomenologica i
sentimenti atmosferici, il dolore, la vergogna, lo sguardo, il crepuscono, il
corpo vissuto come quasi-cose, entità aggressive e decisive per la nostra
esistenza senza essere riducibili al paradigma cosale tipico della tradizione
occidentale Il libro Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica
(Guerini & Associati, Milano 2016) delinea, a partire dalla nozione
estetico-neofenomenologica di “atmosfera”, i contorni di un'estetica orientata
non allo gnosico ma al patico, che non tematizza oggetti speciali come le opere
d'arte ma il modo in cui “ci si sente” quando ci si espone, soprattutto
involontariamente, ai sentimenti presenti nell'ambiente circostante. Il
tema è ulteriormente sviluppato, esteso a considerazioni sull'atmosfericità
dell'educazione e della politica, sulla presenza e la soggettività
reinterpretate in chiave neofenomenologica nel libro Places, Affordances,
Atmospheres. A Pathic Aesthetics (Routledge, London-New York 2019). Libri
Interpretare. La teoria di Emilio Betti e il suo contesto, prefazione di F.
Moiso, Rosenberg & Sellier, Torino 1988, ISBN 88-7011-319-1; Spirito e
forme di vita. La filosofia della cultura di Eduard Spranger, Franco Angeli,
Milano 1990, ISBN 88-204-6387-3; Senso e immagine. Simbolo e mito nel primo
Schelling, Guerini, Milano 1994, ISBN 88-8107-001-4; Cosmo Arte Natura.
Itinerari schellinghiani, Cuem, Milano 1995; L'estetica di Schelling, Laterza,
Roma-Bari 1996, ISBN 88-420-5033-4; Oetinger e Schelling. Teosofia e realismo
biblico alle origini dell'idealismo tedesco, Nike, Segrate-Milano 2000, ISBN
88-87004-17-X; Immagini attive. Breve storia dell'immaginazione transitiva, Le
Monnier, Firenze 2003, ISBN 88-00-86071-0; Il corpo spirituale. Ontologie
“sottili” da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger, Mimesis, Milano
2006, ISBN 978-88-8483-413-3; Storia dell'estetica moderna, Edizioni Nuova
Cultura, Roma 2008, ISBN 978-88-6134-163-0; Atmosferologia. Estetica degli
spazi emozionali, Laterza, Rome-Bari 2010, ISBN 978-88-420-9392-3; 2 ed.
riveduta e con nuova pref., Mimesis, Milano-Udine 2017, ISBN 978-88-5754-180-8.
Quasi-cose. La realtà dei sentimenti, Bruno Mondadori, Rome 2013, ISBN
978-88-6159-769-3. Atmospheres. Aesthetics of emotional spaces, Ashgate,
Farnham 2014, ISBN 978-1-4724-2172-2. Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica
patica, Guerini & Associati, Milano 2016, ISBN 978-88-6250-599-4.
Quasi-Things. The Paradigm of Atmospheres, Suny Press, New York 2017, ISBN
978-1-4384-6405-3 Places, Affordances, Atmospheres. A Pathic Aesthetics,
Routledge, London-New York 2019, ISBN 978-1-138-38937-3 Collegamenti esterni
Griffero, Facoltà di Scienze della Comunicazione, Università di Roma Tor
Vergata. [2], Atmospheric Spaces. Aura Stimmung Ambiance bibliografia completa
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Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati
nel 1958Nati ad Asti[altre]
Grimaldi -- Costantino
Grimaldi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Costantino Grimaldi Costantino
Grimaldi (Cava de' Tirreni, 30 gennaio 1667[1] – Napoli, 16 ottobre 1750) è
stato un filosofo, giurista, politico e noto anticurialista italiano. Indice 1 Biografia
2 Note
3 Bibliografia
4 Voci
correlate 5 Collegamenti
esterni Biografia Nacque a La Cava (attuale Cava de' Tirreni) da nobile
famiglia locale di origini genovesi. Compì i suoi studi avvicinandosi a
Cartesio, di cui fu seguace e fece parte del gruppo chiamato degli epigoni
dell'Accademia degli Investiganti (che comprendeva anche Giuseppe Valletta e Francesco
D'Andrea). Fu anche famoso giurista e Consigliere Regio. Scrisse numerose opere, raccolte poi in
"Istoria dei libri di don Costantino Grimaldi. Scritta da lui
medesimo". Tra quelle più note si possono elencare le Considerazioni
intorno alle rendite ecclesiastiche del Regno di Napoli (Napoli 1708), le
Discussioni istoriche teologiche e filosofiche (Lucca 1725), le Dissertazione
sulle tre magie, naturale, artificiale e diabolica (Roma 1751, postumo). Morì a Napoli nel 1750. Il figlio Gregorio (1695-1767), noto
giurista, gli dedicò "Ragioni genealogiche a' favore della Famiglia
Grimaldi del Sig. Cons. D. Costantino Grimaldi. Colli signori Grimaldi di
Seminara, e con quelli patrizj di Catanzaro" (1700). Altro suo figlio fu Ginesio, anch'egli noto
giurista. Note ^ F. A. Meschini, nel
Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in Bibliografia, indica
Napoli come città natale. Bibliografia Memorie di un anticurialista del
Settecento. Testo, introduzione note a cura di V.I. Comparato. Firenze, Olschki,
Biblioteca dell'«Archivio storico italiano», vol. 15, 1964. 8vo, pp. xxiv-144.
Franco Aurelio Meschini, «GRIMALDI, Costantino», in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 59, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2003. Voci
correlate Anticurialismo Collegamenti esterni Costantino Grimaldi, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Opere di Costantino Grimaldi, su openMLOL, Horizons
Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Costantino Grimaldi, su Open
Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autorità VIAF (EN) 47595480 ·
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Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XVII secoloFilosofi italiani del
XVIII secoloGiuristi italiani del XVII secoloGiuristi italiani del XVIII secoloPolitici
italiani del XVII secoloPolitici italiani del XVIII secoloNati nel 1667Morti
nel 1750Nati il 30 gennaioMorti il 16 ottobreNati a Cava de' TirreniMorti a
NapoliPersonalità dell'anticurialismo[altre]
Grimaldi -- Domenico Grimaldi
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Domenico
Grimaldi (Seminara, 15 febbraio 1734 – Reggio Calabria, 5 novembre 1805) è
stato un economista, imprenditore e filosofo italiano, esponente
dell'illuminismo napoletano. Indice 1 Biografia 1.1 Giovinezza
e formazione 1.2 Saggio
di economia campestre per la Calabria Ultra 1.3 L'imprenditore
1.4 Il
politico 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Giovinezza e formazione Francesco Mario Pagano Nato in
una famiglia aristocratica che faceva risalire le proprie origini alla nota
famiglia di Genova, ricevette la prima educazione dal padre, il marchese Pio
Grimaldi, un uomo colto che aveva cominciato a introdurre criteri di conduzione
innovativi nelle sue proprietà terriere, peraltro non molto estese, di
Seminara. Non essendo molto ricco, il padre lo avviò agli studi giuridici, in
previsione di una possibile professione forense, all'Università di Napoli.
Nella capitale napoletana Domenico fu raggiunto dal fratello minore Francescantonio
Grimaldi (1741-1784), fece parte con il fratello dell'Accademia
dell'Arboscello, a cui appartenevano anche Domenico Diodati, Andrea Serrao e
Andrea Leone, frequentò le lezioni di economia di Antonio Genovesi, e divenne
amico di giovani intellettuali come Mario Pagano, Melchiorre Delfico e Antonio
Jerocades[1]. Nel 1765 Domenico Grimaldi si trasferì a Genova, dove nel
1766 ottenne la riammissione nel patriziato della Repubblica di Genova,
ottenendo così il permesso di esercitare alcune magistrature. In Liguria,
tuttavia, Grimaldi ebbe modo di approfondire gli aspetti tecnici, economici e
sociali legati all'agricoltura il cui studio lo spinse a viaggi in Francia,
specie in Provenza, in Piemonte e in Svizzera. Si interessò in particolare alla
colture dell'ulivo e del gelso per l'allevamento dei bachi da seta. Venne
accolto fra l'altro nell'Accademia dei Georgofili, che premiò una memoria,
nella Società economica di Berna, un centro di cultura fisiocratica, e nella
Société royale d'agriculture di Parigi[2]. Saggio di economia campestre
per la Calabria Ultra François Quesnay, maggior rappresentante della
fisiocrazia Frutto delle sue ricerche fu il Saggio di economia campestre per la
Calabria Ultra (1770), esposizione di un piano che, partendo dalle condizioni
di arretratezza dell'economia calabrese del XVIII secolo, secondo la dottrina
fisiocratica, ne indica i mezzi atti a la trasformare situazione economica
della Calabria. All'epoca il settore produttivo più importante era
l'agricoltura in quanto i posti nell'industria erano pochi, le alternative
limitate all'edilizia, ai lavori pubblici e al settore terziario; l'agricoltura
era tuttavia quasi esclusivamente di sussistenza, e lo scarso reddito
determinava un esodo massivo dalle campagne. Per Grimaldi l'ammodernamento
dell'agricoltura e l'integrazione tra agricoltura e allevamento erano le
condizioni prime per avviare la produzione industriale e il commercio. il
successivo aumento del reddito agrario avrebbe dovuto essere reinvestito
nell'industria tessile e in quelle serica, lattiero-casearia e olearia. La
presenza di industrie avrebbe innescato un circolo virtuoso in quanto avrebbe
potuto richiamare un afflusso di capitali per la ristrutturazione fondiaria e
l'aumento delle dimensioni delle aziende agricole, con successiva formazione e
sviluppo di attività miste agricolo-manifatturiere, specialmente alimentari,
con impiego di mano d'opera locale. L'imprenditore Vecchio frantojo
ligure dismesso Attorno al 1770 Grimaldi si impegnò a tradurre in pratica
questi progetti, con l'aiuto finanziario del padre, impegnandosi nel
miglioramento della coltivazione degli olivi, chiamate dalla Liguria maestranze
e tecnici per creare a Seminara nuovi frantoi "alla genovese"; rese
poi pubblici i progetti e i risultati delle sue innovazioni con un'opera del
1773, edita nuovamente nel 1777 con una dedica a Giuseppe Beccadelli, marchese
della Sambuca[3]. Si dedicò più tardi, attorno al 1780, alla produzione
della seta. Grimaldi, che inizialmente intendeva assegnare l'ammodernamento
dell'agricoltura all'iniziativa privata, si rese conto che l'approccio
utilizzato per l'ammodernamento dell'industria olearia (in questo caso,
introduzione in Calabria della lavorazione della seta alla
"piemontese") non sarebbe stato sufficiente nella lavorazione della
seta per ostacoli di natura fiscale nel regno di Napoli, ossia del dazio sulla
seta calabrese. Diede pertanto inizio a vivace polemica nei confronti dei
controlli oppressivi doganali e dei monopoli statali nei settori delle
manifatture e del commercio[4]. Il politico Sir John Acton La
riflessione sull'influenza dello stato nel mercato della seta, diede avvio al
dibattito sul problema della libertà nel commercio internazionale, in
particolare nel commercio del grano che aveva assunto una notevole importanza
dopo la carestia del 1764. Una delle proposte più importanti di Domenico
Grimaldi fu la costituzione, nella Calabria Ultra, di società economiche
concepite come centri promotori il miglioramento della tecnica agraria; ma la
proposta non trovò il necessario sostegno né nei proprietari terrieri né nel
clero[5]. In seguito allargò lo sguardo dalla Calabria Ultra all'intero Regno,
proponendo di svolgere un'attività conoscitiva sulla struttura economica del
Regno mediante la predisposizione di piani di visite alle province napoletane
affidati a ispettori di nomina regia[6], con proposte di azione sulle
"cause fisiche" dell'arretratezza, principalmente la mancanza di
strutture per l'irrigazione innanzitutto nelle Puglie, per le quali suggeriva
il ricorso anche al lavoro coatto[7]. Gaetano Filangieri Grazie
alla notorietà raggiunta con i suoi saggi Grimaldi fu nominato dal primo
ministro John Acton assessore al neocostituito Supremo Consiglio delle Finanze
assieme a Filangieri, Palmieri, Delfico e Galanti. Il terremoto del 1783, che
causò gravi danni e lutti alla famiglia Grimaldi. Grimaldi fu favorevole
all'istituzione della Cassa sacra, proponendo che ricostruzione fosse eseguita
secondo un piano pubblico che prevedesse iniziative strutturali per
l'ammodernamento della produzione agricola e industriale. Si adoperò per
l'apertura a Reggio Calabria di un istituto professionale nel quale si
insegnasse "l'arte di tirar la seta alla piemontese"; la scuola,
diretta dal Grimaldi, ebbe un certo successo[8], ma venne chiusa nel
1786. L'interruzione negli anni novanta dell'attività riformatrice di
Ferdinando IV di Napoli in seguito alla crisi collegata alla rivoluzione
francese comportò un atteggiamento di sospetto, da parte del governo
napoletano, nei confronti dell'intellettualità progressista. A Grimaldi venne
rifiutata la nomina, proposta dal Galanti, di presidente della costituenda
Società patriottica per la Calabria in quanto massone. Nel dicembre 1798 fu
addirittura arrestato, come gran parte dei massoni reggini (una cinquantina
circa) in seguito all'assassinio del governatore di Reggio, Giovanni Pinelli,
avvenuto il 12 settembre 1797, e trasferito nel carcere di Messina dove si
trovava alla nascita della Repubblica Napoletana (1799)[9]. Suo figlio Francescantonio
aderì alla Repubblica Napoletana e fu giustiziato il 22 ottobre 1799.
Opere Memoria diretta all'Accademia de' Gergofili da Genova, 12 settembre 1766,
sopra di una certa specie di pianta pratense chiamata sulla, Firenze, 1768.
Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra, Napoli: presso Vincenzo
Orsini, 1770 Istruzione sulla nuova manifattura dell'olio introdotta nella
Calabria, In Napoli: presso Raffaele Lanciano, 1773 Osservazioni economiche
sopra la manifattura e commercio delle sete del Regno di Napoli alle sue
finanze, scritte dal marchese Domenico Grimaldi; con alcune riflessioni
critiche sopra del Bando delle Sete del 1754, Napoli: presso Giuseppe Maria
Porcelli, 1780 Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno
di Napoli, e per l'agricoltura delle Due Sicilie, scritto dal marchese d.
Domenico Grimaldi,, Napoli: presso Giuseppe Maria Porcelli librajo, 1780 (Rist.
anastatica, Cosenza: Brenner, 1992) Piano per impiegare utilmente i forzati, e
col loro travaglio assicurare ed accrescere le raccolte del grano nella Puglia,
e nelle altre provincie del Regno scritto dal marchese d. Domenico Grimaldi di
Messimeri patrizio genovese.., Napoli: a spese di Giuseppe-Maria Porcelli, 1781
Memoria del marchese Domenico Grimaldi di Messimeri patrizio genovese, diretta
al supremo consiglio di finanze per lo ristabilimento dell'industria olearia, e
dell'agricoltura nelle Calabrie, ed altre provincie del Regno di Napoli,
Napoli: presso Giuseppe-Maria Porcelli, 1783 Memoria sulla economia olearia
antica e moderna e sull'antico frantoio da olio trovato negli scavamenti di
Stabia, In Napoli: nella Stamperia Reale, 1783 (Cosenza: L. Pellegrini, 2000)
Relazione d'un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria con alcune
osservazioni economiche relative a quella provincia, Napoli: Giuseppe Maria
Porcelli, 1785 Note ^ Franco Venturi (a cura di), Illuministi italiani, Vol. V:
Riformatori napoletani, Napoli : Ricciardi, p. 571 e segg., 1971, ISBN
88-7817-127-1, ISBN 88-7817-128-X ^ Antonio Piromalli, La letteratura
calabrese, Vol. I, Dalle origini al posivitismo, Cosenza : LPE, 1996, ISBN
88-810-1013-5, pp. 206-210 (Google Libri) ^ Istruzioni sulla nuova manifattura
dell'olio introdotta nel Regno di Napoli dal marchese Domenico Grimaldi di Messimeri
patrizio genovese, socio ordinario, e corrispondente dell'Accademia de'
Georgofili di Firenze, della Società di Agricoltura di Parigi, e di Berna, In
Napoli : presso Vincenzo Orsini, a spese di Giuseppe Maria Porcelli, 1777 ^
Osservazioni economiche sopra la manifattura e commercio delle sete del Regno
di Napoli alle sue finanze, scritte dal marchese Domenico Grimaldi, con alcune
riflessioni critiche sopra del Bando delle Sete del 1754, Napoli : Porcelli,
1780 ^ Relazione d'un disimpegno fatto nella Ulteriore Calabria con alcune
osservazioni economiche relative a quella provincia, Napoli : Porcelli, 1785 ^
Piano di riforma per la pubblica economia delle provincie del Regno di Napoli,
e per l'agricoltura delle Due Sicilie, scritto dal marchese don Domenico
Grimaldi, Napoli : Porcelli, 1780; ristampa anastatica, Cosenza : Brenner, 1992
^ Piano per impiegare utilmente i forzati, e col loro travaglio assicurare ed
accrescere le raccolte del grano nella Puglia, e nelle altre provincie del
Regno scritto dal marchese don Domenico Grimaldi di Messimeri patrizio
genovese, Napoli : Porcelli, 1781 ^ Relazione d'una scuola da tirar la seta
alla piemontese stabilita in Reggio per ordine di Sua Maestà, sotto la
direzione del M. Grimaldi, e l'approvazione del Vicario generale delle Calabrie
don Francesco Pignatelli, Messina per Giuseppe di Stefano 1785. L'opera apparve
anonima ed è attribuita a Domenico Grimaldi dal Melzi (Gaetano Melzi, Note
bibliografiche del fu D. Gaetano Melzi, edite per cura di un bibliofilo milanese
con altre notizie, Vol. 2: H-R, Milano : Tip. Bernardoni, 1863, p. 426
,on-line) ^ Giuseppe Maria Galanti, Giornale di viaggio in Calabria;
introduzione di Luca Addante, Soveria Mannelli : Rubbettino, 2008, ISBN
9788849819052, p.306-7, n. 1 Bibliografia A. Ubbidiente, Il pensiero e l'opera
di Domenico e Francescantonio Grimaldi. Testi di Laurea. Università degli Studi
di Salerno, Facoltà di Magistero. 1986. M.L. Perna, «GRIMALDI, Domenico». In:
Dizionario Biografico degli Italiani, Vol. LIX, Roma: Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 1998. A. Basile, «Un illuminista calabrese:
Domenico Grimaldi da Seminar»a, in: Archivio Storico per la Calabria e la
Lucania, A. XIII (1943), f. III, pp. 154-156. Gaetano Cingari, Giacobini e
Sanfedisti in Calabria nel 1799, rist. dell'ed. 1957, Reggio Cal., "Casa
del libro", 1978, pp. 113-114. Cesare Morisani, Massoni e Giacobini a
Reggio Calabria (1740-1800), Reggio Cal., F. Morello, 1907, pp.27-47. Domenico
Romeo, Alcune precisazioni su Domenico Grimaldi: un riformatore Calabrese del
'700, in "Historica", A. XXXVIII (1985), f. 4, pp. 195-205. Antonio
Piromalli (a cura di), L'attualità del pensiero e delle opere del marchese
Domenico Grimaldi, Cosenza: L. Pellegrini, 2001, ISBN 88-810-1111-5. Domenico
Luciano (a cura di), Domenico Grimaldi e la Calabria nel '700, Salerno,
Beniamino Carucci, 1974. Collegamenti esterni Grimaldi, Domenico la voce nella
Treccani.it L'Enciclopedia Italiana. URL visitato il 9 gennaio 2013. V · D · M
Illuministi italiani Controllo di autorità VIAF
(EN) 61704440 · ISNI (EN) 0000 0000 6129 1826 · LCCN (EN) n79143031 · BNF (FR)
cb13522866g (data) · BAV (EN) 495/149339 · CERL cnp01368327 · WorldCat
Identities (EN) lccn-n79143031 Agricoltura Portale Agricoltura Biografie
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