rossi
rossi tomasso rossi Tommaso Rossi (filosofo) Da
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delle fonti. Tommaso Rossi (San Giorgio la Montagna, 21 dicembre 1673 –
Benevento, 19 settembre 1743) è stato un filosofo italiano. Biografia Il contemporaneo e celebre filosofo
napoletano Giambattista Vico lo definì "il più grande e puro
metafisico". Rossi, che fu ordinato prete nel 1697, esercitò il suo
ministero a Montefusco in qualità di abate di Santa Maria della Piazza. Studiò
teologia e giurisprudenza a Napoli fino al 1730. Scrisse diverse opere tra cui
la più importante rimane Della mente sovrana del mondo. Opere Considerazioni di alcuni misteri
divini, raccolti in tre dialoghi (1724), Dell'animo dell'uomo, terminata nel
1730, e pubblicata nel 1736, Della mente sovrana del mondo, pubblicata nel
1743. Edizione moderna Opere
filosofiche, con un saggio a cura di Angelomichele De Spirito, Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura, 2006, ISBN 88-8498-257-X. Della mente sovrana del
mondo, a cura e con un saggio di Roberto Evangelista, Napoli, ISPF-Lab, Collana
"quaderni dell'ISPF" Consiglio Nazionale delle Ricerche, 2014, ISBN
9788890871207, http://www.ispf-lab.cnr.it/quaderni/2014_q01
http://www.doabooks.org/doab?func=publisher&pId=1264&uiLanguage=
Collegamenti esterni Tommaso Rossi, in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Tommaso
Rossi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di
Tommaso Rossi, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Tommaso
Rossi dal sito "la voce di Fiore". Controllo di autorità VIAF
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Filosofi italiani del XVII secoloFilosofi italiani del XVIII secoloNati nel
1673Morti nel 1743Nati il 21 dicembreMorti il 19 settembreNati a San Giorgio
del SannioMorti a Benevento[altre]
rossi pietro rossi Pietro Rossi (filosofo) Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Pietro Rossi
(Torino, 07 novembre 1930) è un filosofo italiano. È stato docente di Filosofia della storia nell'Università
di Torino. Indice 1 Biografia 2 Note 3 Bibliografia
4 Altri
progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia Ha studiato presso l'Università di Torino, laureandosi in
Filosofia nel 1952 sotto la guida di Nicola Abbagnano e compiendo
successivamente studi di perfezionamento all'Istituto Italiano per gli Studi
storici di Napoli, a Milano e a Heidelberg. Libero docente dal 1956, è stato
nel 1959-61 "fellow" della Rockefeller Foundation a Parigi.
Professore ordinario dal 1963 a Cagliari, e dal 1967 a Torino, dopo esser stato
titolare della Cattedra di storia della filosofia e, in seguito, di filosofia
della storia, in questa Università, ne è stato nominato professore emerito a
seguito del congedo. Nel 1975-76 è stato preside della Facoltà di Lettere e
Filosofia, mentre nel triennio 1983-86 ha fatto parte del Consiglio
Universitario Nazionale. Nel semestre estivo 1985 è stato
Max-Weber-Gastprofessor nell'Università di Heidelberg. È socio nazionale
residente dell'Accademia delle Scienze di Torino e socio fondatore dell'Accademia
Europea. Nel 2009 è divenuto - per la seconda volta - Presidente dell'Accademia
delle Scienze di Torino, carica da cui si è dimesso il 6 aprile 2012[1]. Pietro Rossi ha cominciato con lo studio
dello storicismo contemporaneo, specialmente di Dilthey e di Max Weber di cui
ha curato la traduzione italiana delle opere più importanti (Dilthey, Critica
della ragione storica, Einaudi, Torino 1954: Max Weber, Il metodo delle scienze
storico-sociali, Einaudi, Torino 1958) dedicandosi in seguito da un lato allo
studio della filosofia illuministica della storia e della concezione
positivistica della società, dall'altro all'analisi dei problemi teorici della
ricerca storica e delle scienze sociali contemporanee. Nel corso degli anni
ottanta ha nuovamente rivolto la sua attenzione all'opera di Max Weber. Ha
organizzato vari convegni e coordinato importanti ricerche su diversi temi di
storiografia filosofica. Fra le sue
opere più importanti sono da menzionare: Lo storicismo tedesco contemporaneo,
Einaudi, Torino 1956, 2ª ed. 1971, ora Edizioni di Comunità, Milano 1994;
Storia e storicismo nella filosofia contemporanea, Lerici, Milano 1960; 2ª ed.
Il Saggiatore, Milano 1991; La teoria della storiografia oggi, Il Saggiatore,
Milano 1983; ed. tedesca Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1987; Vom Historismus zur
historischen Sozialwissenschten, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1987; Max Weber:
oltre lo storicismo, Il Saggiatore, Milano 1988; da Enrico Mistretta, direttore
editoriale della Laterza, gli fu affidata, congiuntamente a Carlo Augusto
Viano, la direzione di una fondamentale Storia della filosofia in sette volumi,
che iniziò a essere pubblicata a partire dal 1993. Note ^ Consiglio di presidenza 2009-2012
Archiviato il 13 marzo 2013 in Internet Archive., dal sito ufficiale (url consultato
il 24 ottobre 2012) Bibliografia Realino Marra, Pietro Rossi e l'opera di Weber
in Italia, in «Sociologia del diritto», XXXVI-1, 2009, pp. 183-93. Altri
progetti Collegamenti esterni Pietro
Rossi, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Pietro Rossi, su Open Library,
Internet Archive. Modifica su Wikidata Controllo di autorità VIAF (EN)
100189635 · ISNI (EN) 0000 0001 2142 4329 · SBN IT\ICCU\UBOV\001818 · LCCN (EN)
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lccn-n79069835 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia
Università Portale Università Categorie: Filosofi italiani del XX secoloNati
nel 1930Nati a TorinoMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino[altre]
rosso Valerio Rosso Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Abbozzo medici italiani Questa voce
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Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Valerio Rosso
(Corleone, 1572[1] – 1602) è stato un medico e filosofo italiano. Nato a Corleone, visse a Palermo[1]. Scrisse
tre manoscritti, il primo fu Varie cose notabili occorse in Palermo ed in
Sicilia, composto tra il 1587 e il 1601[2], il secondo, nel 1590, pubblicato
dall'editore Libro Sei, con il titolo Descrizione di tutti i Luoghi Sacri della
felice Città di Palermo, descriveva le chiese di Palermo[3], questa opera fu
ricordata in vari altri manoscritti, anche negli anni novanta[4] e duemila[5],
il terzo fu pubblicato nel 1596 con il titolo Diario Palermitano [6] Il comune di Palermo gli ha dedicato una via
cittadina. Note Biblioteca storica e letteraria di Sicilia:
Volumi 1-2, 1869 ^ Mira/bibl Siciliana V1 ^ Diego Ciccarelli e Marisa Dora
Valenza, La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni. Atti del convegno, 2006,
549 pagine ^ Teresa Pugliatti, Pittura del Cinquecento in Sicilia, Electa, 1998,
336 pagine ^ Università di Roma. Istituto di studi bizantini e neoellenici,
Rivista di studi bizantini e neoellenici, 2006 ^ Gioacchino Di Marzo,
Biblioteca storica e letteraria di Sicilia: Opere storiche inedite, 1874
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biografie Categorie: Medici italianiFilosofi italiani del XVII secoloNati nel
1572Morti nel 1602Nati a Corleone[altre]
rota: Italian philosopher – Gian-Carlo Rota From
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confused with Carlo Rota. Gian-Carlo Rota Gian-Carlo Rota blackboard Nizza
1970.jpg Rota in 1970. Born April 27,
1932 Vigevano, Italy Died April 18, 1999 (aged 66) Cambridge, Massachusetts,
U.S. Alma mater Princeton University (A.B.) Yale University (Ph.D.) AwardsLeroy
P. Steele Prize (1988) Scientific career Fields Mathematics, philosophy
Institutions Massachusetts Institute of Technology Los Alamos National
Laboratory The Rockefeller University Doctoral advisor Jacob T. Schwartz
Notable students Thomas H. Brylawski William Y.C. Chen Daniel I. A. Cohen
Henry Crapo Peter Duren Richard Ehrenborg Mark Haiman Patrick O'Neil Richard P.
Stanley Walter Whiteley Catherine Yan Gian-Carlo Rota (April 27, 1932 – April
18, 1999) was an Italian-American mathematician and philosopher.
Contents 1 Early life and education 2 Career 3 Death 4 See also 5 Notes 6
External links Early life and education Rota was born in Vigevano, Italy. His
father, Giovanni, a prominent antifascist, was the brother of the mathematician
Rosetta, who was the wife of the writer Ennio Flaiano.[1][2] Gian-Carlo's
family left Italy when he was 13 years old, initially going to
Switzerland. Rota attended the Colegio Americano de Quito in Ecuador, and
graduated with an A.B. in mathematics from Princeton University in 1953 after
completing a senior thesis, titled "On the solubility of linear equations
in topological vector spaces", under the supervision of William Feller. He
then pursued graduate studies at Yale University, where he received a Ph.D. in
mathematics in 1956 after completing a doctoral dissertation, titled
"Extension Theory Of Ordinary Linear Differential Operators", under
the supervision of Jacob T. Schwartz.[3][4] Career Much of Rota's career was
spent as a professor at the Massachusetts Institute of Technology (MIT), where
he was and remains the only person ever to be appointed Professor of Applied
Mathematics and Philosophy. Rota was also the Norbert Wiener Professor of
Applied Mathematics. In addition to his professorships at MIT, Rota held
four honorary degrees, from the University of Strasbourg, France (1984); the
University of L'Aquila, Italy (1990); the University of Bologna, Italy (1996);
and Brooklyn Polytechnic University (1997). Beginning in 1966 he was a
consultant at Los Alamos National Laboratory, frequently visiting to lecture,
discuss, and collaborate, notably with his friend Stanisław Ulam. He was also a
consultant for the Rand Corporation (1966–71) and for the Brookhaven National
Laboratory (1969–1973). Rota was elected to the National Academy of Sciences in
1982, was vice president of the American Mathematical Society (AMS) from
1995–97, and was a member of numerous other mathematical and philosophical
organizations.[5] He taught a difficult but very popular course in
probability. He also taught Applications of Calculus, differential equations,
and Combinatorial Theory. His philosophy course in phenomenology was offered on
Friday nights to keep the enrollment manageable. Among his many eccentricities,
he would not teach without a can of Coca-Cola, and handed out prizes ranging
from Hershey bars to pocket knives to students who asked questions in class or
did well on tests.[6][7] Rota began his career as a functional analyst,
but switched to become a distinguished combinatorialist. His series of ten
papers on the "Foundations of Combinatorics" in the 1960s is credited
with making it a respectable branch of modern mathematics.[dubious – discuss]
He said that the one combinatorial idea he would like to be remembered for is
the correspondence between combinatorial problems and problems of the location
of the zeroes of polynomials.[8] He worked on the theory of incidence algebras
(which generalize the 19th-century theory of Möbius inversion) and popularized
their study among combinatorialists, set the umbral calculus on a rigorous
foundation, unified the theory of Sheffer sequences and polynomial sequences of
binomial type, and worked on fundamental problems in probability theory. His
philosophical work was largely in the phenomenology of Edmund Husserl.
Death Rota died of atherosclerotic cardiac disease on April 18, 1999,
apparently in his sleep at his home in Cambridge, Massachusetts. See also
Kallman–Rota inequality Rota's conjecture Rota's basis conjecture Rota–Baxter
algebra Joint spectral radius, introduced by Rota in the early 1960s Cyclotomic
identity Necklace ring Twelvefold way List of American philosophers Notes
O'Connor, John J.; Robertson, Edmund F., "Gian-Carlo Rota", MacTutor
History of Mathematics archive, University of St Andrews. Palombi,
Fabrizio (2011). The Star and the Whole: Gian-Carlo Rota on Mathematics and
Phenomenology. CRC Press. pp. 6–7. His aunt, Rosetta Rota (1911–2003), was a
mathematician associated with the renowned Rome university Institute of Physics
in Via Panispenra… "American Mathematical Society | Gian-Carlo Rota
(1932–1999)" (PDF). Rota, Gian Carlo (1956). Extension Theory Of
Ordinary Linear Differential Operators (Thesis). New Haven, Connecticut: Yale
University. "MIT professor Gian-Carlo Rota, mathematician and
philosopher, is dead at 66". April 22, 1999. Wesley T. Chan
(December 5, 1997). "To Teach or Not To Teach: Professors Might Try a New
Approach to Classes – Caring about Teaching". The Tech. 117 (63). Retrieved
2008-02-10. "Gian-Carlo Rota". The Tech. 119 (21). April 23,
1999. Retrieved 2008-02-10. "Mathematics, Philosophy, and Artificial
Intelligence: a dialogue with Gian-Carlo Rota and David Sharp". Archived
from the original on August 11, 2007. Retrieved 2007-08-11. External links
Gian-Carlo Rota at the Mathematics Genealogy Project O'Connor, John J.;
Robertson, Edmund F., "Gian-Carlo Rota", MacTutor History of
Mathematics archive, University of St Andrews. Kung, Joseph; Rota, Gian-Carlo;
Yan, Catherine (2009). Combinatorics: The Rota Way. Cambridge Mathematical
Library. Cambridge University Press. ISBN 978-0-521-73794-4. Archived from the
original on 2016-03-03. Retrieved 2010-03-19. The Forbidden City of Gian-Carlo
Rota (a memorial site) at the Wayback Machine (archived June 30, 2007) This
page at www.rota.org was not originally intended to be a memorial web site, but
was created by Rota himself with the assistance of his friend Bill Chen in
January 1999 while Rota was visiting Los Alamos National Laboratory.
Mathematics, Philosophy, and Artificial Intelligence: a dialogue with
Gian-Carlo Rota and David Sharp at the Wayback Machine (archived August 11,
2007) "Fine Hall in its golden age: Remembrances of Princeton in the early
fifties" by Gian-Carlo Rota. Tribute page by Prof. Catherine Yan (Texas
A&M University), a former student of Rota Scanned copy of Gian-Carlo Rota's
and Kenneth Baclawski's Introduction to Probability and Random Processes
manuscript in its 1979 version. Gian-Carlo Rota (1996). Indiscrete Thoughts.
Birkhäuser Boston. ISBN 0-8176-3866-0., ISBN 0-8176-3866-0; review at MAA.org
The Digital Footprint of Gian-Carlo Rota: International Conference in memory of
Gian-Carlo Rota, organized by Ottavio D'Antona, Vincenzo Marra and Ernesto Damiani
at the University of Milan (Italy) Gian-Carlo Rota on Analysis and Probability,
ISBN 978-0-8176-4275-4. Biographical Memoir of Gian-Carlo Rota, National
Academy of Science Authority control Edit this at Wikidata IBNF: cb12279061m
(data)GND: 119286416ISNI: 0000 0001 0928 3340LCCN: n79018095MGP: 7721NKC:
skuk0004876NLI: 000224293NTA: 068390920ICCU: IT\ICCU\CFIV\054252SELIBR:
396279SNAC: w6gc4r4cSUDOC: 031608558VIAF: 98388126WorldCat Identities:
lccn-n79018095 Categories: 1932 births1999 deathsPeople from Vigevano20th-century
Italian mathematiciansItalian mathematicians20th-century Italian
philosophers20th-century American mathematiciansAmerican
philosophersCombinatorialistsAmerican people of Italian descentPrinceton
University alumniYale University alumniMassachusetts Institute of Technology
facultyPhenomenologists. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Rota," per il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Rotondi Amedeo
Rotondi Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
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espositiva, logica e/o bibliografica dei contenuti. Nella discussione puoi
collaborare con altri utenti alla risistemazione. Amedeo Rotondi, anche
conosciuto con gli pseudonimi di Amadeus Voldben e Vico di Varo[1] (Vicovaro,
27 ottobre 1908 – Roma, 11 ottobre 1999), è stato uno scrittore e filosofo
italiano, studioso di tematiche spirituali ed esoteriche, autore di 26 testi.
Ha svolto anche attività di libraio ed editore. Amedeo Rotondi
negli anni '60 davanti alla Libreria delle Occasioni da lui fondata a Roma nel
1941 Indice 1 Biografia
1.1 I
primi anni e la nascita della "Libreria delle Occasioni"
("Libreria Rotondi") 1.2 Gli
anni dello studio e della crescita spirituale. Le prime opere pubblicate in
proprio 1.3 La fase
della maturità letteraria e spirituale. I “Volontari del Bene” 1.4 Gli ultimi anni
2 Opere
2.1 Altre
opere non in commercio 3 Note
4 Altri
progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia I primi anni e la nascita della "Libreria delle
Occasioni" ("Libreria Rotondi") Amedeo Rotondi nasce a Vicovaro,
piccolo centro in provincia di Roma, il 27 ottobre 1908. Nella seconda metà
degli anni trenta si trasferisce a Roma dove svolge la sua attività di
insegnante. Il 1941 è l'anno in cui, insieme alla moglie Annamaria, rileva una
preesistente libreria di testi usati che chiamerà “Libreria delle Occasioni”,
intendendo con questo nome l'opportunità per gli appassionati di reperire opere
rare, curiose e introvabili[2]. La “Libreria delle Occasioni” si trova tuttora
nel suo luogo originario di fondazione e cioè in via Merulana al civico 82. Tra
gli amanti di rarità bibliografiche e tematiche spirituali è anche nota come
“Libreria Rotondi” in omaggio alla fama del suo fondatore. I primi anni di
attività della libreria sono piuttosto travagliati in quanto le autorità fasciste,
infastidite dalla tipologia eterodossa dei testi in vendita, operano diversi
sequestri e infliggono sanzioni. Nell'autunno del 1943 Amedeo è costretto a
chiudere la libreria per evitare il richiamo alle armi della Repubblica Sociale
Italiana. Considerato disertore, si rifugia con la famiglia a Vicovaro.
Individuato in seguito ad una delazione, riesce fortunosamente a sfuggire alla
cattura e si allontana verso le montagne che circondano il paese, inseguito
dappresso da tedeschi e fascisti. Disperando di potersi salvare, si nasconde
nei pressi di una casa abbandonata, popolarmente ritenuta “abitata dagli
spiriti” e qui avviene l'evento fondamentale sopra descritto che cambierà la
sua vita e le sue convinzioni, aprendolo alla conoscenza del mondo spirituale.
Improvvisamente ha una visione folgorante nel cielo: << Sedetti a
contemplare la scena: una catena di globi luminosi dall'alto scendevano fin
giù, penetravano nella terra, poi altri che risalivano e poi ridiscendevano
come per riunirsi in un misterioso convegno. Si sentivano delle voci indistinte
[3]>> Amedeo si trattiene ad osservare tale spettacolo misterioso
salvandosi, in questo modo, dal rastrellamento in corso nel vicino paese di
Roccagiovine. Questo primo decisivo contatto con la realtà del paranormale e
altre esperienze consimili saranno poi ampiamente raccontate nel libro "Il
protettore invisibile". Tale evento rappresenterà l'inizio del suo studio
e del suo interesse nei confronti del mondo dell'esoterismo e della
spiritualità, che l'accompagnerà per tutta la vita. Gli anni dello studio
e della crescita spirituale. Le prime opere pubblicate in proprio Amedeo
Rotondi, rientrato a Roma dopo la Liberazione e desideroso di conoscere la
reale natura dello straordinario fenomeno accadutogli, inizia a concentrare i
suoi studi sulle discipline esoteriche e spirituali facendo della “Libreria
delle Occasioni” una delle prime e più importanti librerie in Italia,
specializzate nel settore. Inizia un periodo molto fervido fatto di conferenze,
riunioni e dibattiti che ne alimentano la fama. Antesignano delle tendenze
moderne, nel 1946 fonda il “Corriere Librario”, periodico mensile per
bibliofili contenente recensioni, curiosità e approfondimenti bibliografici,
oltre che inserzioni per la compravendita di libri, che si diffonde rapidamente
a livello nazionale e internazionale. All'inizio degli anni ‘60 pubblica in
proprio i suoi primi titoli, dando forma scritta a quasi due decenni di studi e
riflessioni. Si tratta dei cinque libri della collana “Le Perle”, raccolte di
massime, proverbi e aforismi dell'Oriente, dell'antica Grecia, di Roma antica e
del Cristianesimo. Nel ’64 dà alle stampe “L’arte del silenzio e l’uso della
parola”, un originale e lungimirante saggio il cui intento si manifesta già
dalla dedica, firmato con lo pseudonimo di Vico di Varo, derivato chiaramente
dal suo paese natale. Nel 1965 viene incaricato di redigere un opuscolo
commemorativo in occasione dell'inaugurazione in Vicovaro del Monumento in
onore delle vittime della strage nazista delle Pratarelle del giugno 1944.
Amedeo Rotondi e la sua libreria hanno svolto una funzione di aggregazione e
catalizzazione culturale in anni difficili in cui certi ambiti di studio
venivano guardati con sospetto, quando non con manifesta ostilità. La fase
della maturità letteraria e spirituale. I “Volontari del Bene” Negli anni
settanta partecipa e svolge un ruolo tutt'altro che secondario nel Cerchio
Firenze 77[4], una delle più importanti esperienze parapsicologiche collettive
italiane. Amedeo Rotondi e la sua libreria, nella quale collabora anche la sua
unica figlia Vera, sono ormai un punto di riferimento di tutto un mondo
culturale in espansione e finalmente libero da ogni censura. Tra il 1972 e il
1997 Amedeo Rotondi pubblica sedici titoli presso diverse case editrici
(Mediterranee, Astrolabio, Sugarco, S.A.S.), firmandoli oltre che con il suo
vero nome con l'amato pseudonimo Amadeus Voldben, acronimo di Volontario del
Bene. Tale nome d’arte sta ad indicare la missione che Amedeo si era prefisso e
che delineò nel libriccino “I volontari del bene”, vera e propria bibbia per
tutti coloro che si riconoscono nel progetto di diffusione del Bene, stampato
in proprio per la prima volta nel '72. I suoi libri sono stati tradotti in
molte lingue: esistono tuttora edizioni in inglese[5], tedesco[6], spagnolo[7],
portoghese[8], greco e polacco[9]. Oltre al valore intrinseco degli scritti,
sono le riunioni e la sua stessa presenza in libreria a suscitare curiosità e
interesse presso un pubblico molto ampio che vede in Amedeo Rotondi una guida
spirituale in grado di fornire suggerimenti mai banali e, da vecchio educatore,
sempre comprensibili[10]. Dietro la sua apparente severità, che è semplicemente
rifiuto della superficialità, traspare la disponibilità e l'umanità,
accessibili a chiunque si sforzi di varcare il civico 82 di via Merulana.
Gli ultimi anni Gli anni ottanta e novanta sono caratterizzati da una
produzione culturale ancora intensa ma, questi ultimi, anche dal profondo
dolore per la perdita dell'amata figlia Vera e dell'adorata moglie Anna Maria,
dolore che non intacca, anzi, semmai rafforza la sua serena consapevolezza
della morte come momento di passaggio verso l'eterna felicità. Nonostante i
problemi fisici che lo tormentano, continua a scrivere e a regalare gemme di
saggezza e consigli fino a pochi giorni prima della morte: Amedeo Rotondi muore
per questa vita e per questo mondo l'11 ottobre 1999. Oltre ai testi pubblicati
in vita Amedeo lascia altri scritti, alcuni pronti per la stampa altri bisognosi
di revisione, che vengono pubblicati postumi a partire dal 2003 su iniziativa
del nipote Aldo e dei pronipoti Francesco e Barbara, i quali si sono impegnati,
secondo la volontà dello zio, a proseguire l'attività in libreria, mantenendosi
fedeli all'impostazione originaria da lui delineata. La libreria Rotondi ha
ricevuto nel 2004 il riconoscimento di "negozio storico" da parte del
Comune di Roma. Opere Saggezza dell'Oriente, Amedeo Rotondi, 1962, (vol.
I della collana Le Perle, ristampato da Astrolabio nel 1981). L'arte del
silenzio e l'uso della parola, Amedeo Rotondi, 1964 (ristampato dalla Libreria
Rotondi nel 2004 e 2017). Saggezza di Roma antica, Amedeo Rotondi, 1965, (vol.
II della collana Le Perle). Saggezza dell'antica Grecia, Amedeo Rotondi, 1966,
(vol. III della collana Le Perle). Amore e saggezza nel pensiero Cristiano,
Amedeo Rotondi, 1966, (vol. IV della collana Le Perle). Il giardino della
saggezza, Amedeo Rotondi, 1967, (vol. V della collana Le Perle). Dopo
Nostradamus: le grandi profezie sul futuro dell'umanità, Mediterranee, 1972.
Un'arte di vivere: via segreta alla serenità, Mediterranee, 1976. La coppa
d'oro: insegnamenti dei maestri, fonte di luce e di energia, SAS, 1979,
(ristampato dalle Mediterranee nel 2000). Le influenze negative: come
neutralizzarle, SugarCo, 1984, (ristampato dalle Mediterranee nel 2000). Il
protettore invisibile: la guida che ci aiuta nei momenti difficili della vita,
Mediterranee, 1985. La voce misteriosa, Astrolabio, 1986. (ristampato dalla
Libreria Rotondi nel 2015) Lo scopo e il significato della vita: perché si
nasce, perché si vive, perché si muore, Mediterranee, 1988. I prodigi del
pensiero positivo: il suo potere e la sua azione a distanza, Mediterranee,
1989. Il destino nella vita dell'uomo, Mediterranee, 1990. La reincarnazione:
verità antica e moderna, Mediterranee, 1991. La potenza del credere… e la gioia
d'amare: i prodigi della fede e dell'amore, Mediterranee, 1992. Una luce nel
tuo dolore, Mediterranee, 1993. Guida alla padronanza di sé, Mediterranee,
1994. La magica potenza della preghiera, Mediterranee, 1995. La chiave della
vita, Mediterranee, 1996. La presenza divina in noi, Mediterranee, 1997. Le
leggi del pensiero: l'energia mentale e l'azione della volontà, Mediterranee,
pubblicato postumo nel 2003. Le grandi profezie sul futuro dell'umanità,
Mediterranee, pubblicato postumo nel 2006. La potenza creatrice del pensiero,
Mediterranee, pubblicato postumo nel 2007. Pensieri per una vita serena,
Mediterranee, pubblicato postumo nel 2008. Altre opere non in commercio Ricordo
dei nostri martiri. Commemorazione in occasione dell'inaugurazione del
monumento ai martiri delle Pratarelle - Vicovaro, 24 ottobre 1965, Tipografia
Seti, Roma, 1965. I Volontari del Bene, Libreria Rotondi Editrice, Roma, 1972.
Reincarnazione e fanciulli prodigio, Mediterranee, Roma, 1972, (testo esaurito
e ristampato con il titolo La reincarnazione: verità antica e moderna,
Mediterranee, 1991). Note ^ Col suo nome di battesimo ha scritto La voce
misteriosa e i cinque volumi della collana Le Perle. Con lo pseudonimo di “Vico
di Varo” ha scritto L’arte del silenzio e l’uso della parola. Con lo pseudonimo
di “Amadeus Voldben” ha scritto tutti gli altri testi. ^ La Libreria Rotondi è
segnalata in molte pubblicazioni, tra cui la Guida ragionata alle librerie
antiquarie e d'occasione d'Italia, Claudio Maria Messina, Roma, che ha avuto
varie edizioni a partire dal 1987. ^ Amadeus Voldben, Il protettore invisibile,
Edizioni Mediterranee, Roma, 1985. ^ La partecipazione di Amedeo Rotondi agli incontri
del Cerchio Firenze 77 è ricordata nei libri Oltre l'illusione, Roma,
Mediterranee, 1978 e Oltre il silenzio, a cura di Luciana Campani Setti, Roma,
Mediterranee, 1984. ^ Edizioni inglese e americana di Dopo Nostradamus: After
Nostradamus. Great Prophecies for the Future of Mankind, Neville Spearman,
London, 1973; After Nostradamus. Great Prophecies for the Future of Mankind,
The Citadel Press, Secaucus, 1974. ^ Edizione tedesca di Dopo Nostradamus: Die
großen weissagungen über die zukunft der menschheit, Langen Muller,
München-Wien, 1975. ^ Queste le edizioni in lingua spagnola di Dopo
Nostradamus, I prodigi del pensiero positivo, Le influenze negative, Il
protettore invisibile: Dopo Nostradamus. Las profecias par el año 2000,
Ediciones Picazo, Barcelona, 1974; Nostradamus: las grandes profecias sobre el
futuro de la humanidad, Editorial Edicomunicación, Barcelona, 1990; El milagro
del pensamiento positivo, Susaeta Ediciones, Madrid, 1996; El prodigio del
pensamiento positivo, Panamericana Editorial, Bogotà, 2000; Las influencias
negativas, Panamericana Editorial, Bogotà, 2007; El protector invisible,
Panamericana Editorial, Bogotà, 2007. ^ Queste le edizioni in lingua portoghese
di Dopo Nostradamus e Le influenze negative: Nostradamus. As grandes profecias
sobre o futuro da humanidade, Editora Lider, São Paulo; Depois de Nostradamus.
As grandes profecias sobre o futuro da humanidade, Editora Artenova, São
Cristóvão, 1984; Como evitar as influências negativas, Pensamento, São Paulo,
1984. ^ Edizione polacca di Dopo Nostradamus: Wielke przepowiednie. Nostradamus
i inni, Wojciech Pogonowski, Warszawa, 1992. ^ Molte persone si rivolgevano ad
Amedeo Rotondi per ricevere consigli. Una testimonianza letteraria di questa
consuetudine si trova nel romanzo di Paola Giovetti Weimar per sempre,
(Edizioni Mediterranee, Roma, 2000) in cui si narra l'episodio di un giovane
che si reca presso la Libreria delle Occasioni per ricevere suggerimenti su
questioni spirituali e libri. Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote
contiene citazioni di o su Amedeo Rotondi Collegamenti esterni Libreria Rotondi
- Libreria delle Occasioni (La libreria fondata da Amedeo Rotondi) La piccola
miniera di Amedeo Rotondi (da Il Corriere della Sera) Il libraio di via
Merulana e i globi luminosi (da La Repubblica) Cerchio Firenze 77 (Esperienza
parapsicologica collettiva) Andiamo alla scoperta di Amedeo Rotondi, illustre
vicovarese del '900 (da La Piazza di Castel Madama, pag. 25) Controllo di
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18642022 · ISNI (EN) 0000 0001 0958 0636 · LCCN (EN) n85017430 · WorldCat
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Categorie: Scrittori italiani del XX secoloFilosofi italiani del XX secoloNati
nel 1908Morti nel 1999Nati il 27 ottobreMorti l'11 ottobreNati a VicovaroMorti
a RomaSaggisti italiani del XX secoloEditori italianiSpiritualità[altre]
Rovatti
Rovatti Pier
Aldo Rovatti Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Pier Aldo Rovatti Pier Aldo Rovatti (Modena, 19 aprile 1942) è un
docente e filosofo italiano, ha insegnato Filosofia contemporanea
all’Università di Trieste. Ha studiato fenomenologia a Milano con Enzo
Paci iniziando fin dagli anni sessanta a collaborare con la rivista di
filosofia e cultura «aut aut», di cui è direttore dal 1976. È
editorialista di "Il Piccolo" di Trieste e collaboratore di "la
Repubblica" e "l'Espresso". Coordina il Laboratorio di filosofia
contemporanea di Trieste, attraverso cui ha fondato la Scuola di filosofia di
Trieste. È membro del comitato scientifico di Vicino/lontano (Udine). Nel
2010 è uscito un volume a lui interamente dedicato (René Scheu, Il soggetto
debole. Sul pensiero di Pier Aldo Rovatti, Mimesis, Milano 2010).
Indice 1 Pubblicazioni 2 Bibliografia
3 Altri
progetti 4 Collegamenti
esterni Pubblicazioni Nel 1969 pubblica una monografia su Whitehead.
Successivamente si occupa dei rapporti tra fenomenologia e marxismo pubblicando
nel 1973 Critica e scientificità in Marx, e poi focalizzando in vari saggi il
tema dei bisogni con riferimento anche alla psicoanalisi. Cura anche
un'edizione delle Opere di Bergson. Nel 1983 fa uscire con Gianni Vattimo
il reading Il pensiero debole che sarà ristampato molte volte e tradotto in
varie lingue, e da cui è nato un ampio dibattito, all'inizio sulle pagine di
«Alfabeta» (di cui era redattore), poi in diverse altre sedi non solo italiane,
e che continua tuttora. Le questioni concernenti tale forma nuova di pensiero
(che hanno a che fare soprattutto con Nietzsche e Heidegger) diventano il punto
di partenza della sua successiva produzione con una serie di volumi (La posta
in gioco, Abitare la distanza, Il paiolo bucato, La follia in poche parole,
Guardare ascoltando, L'esercizio del silenzio, Possiamo addomesticare l'altro?,
Inattualità del pensiero debole). Queste questioni riguardano soprattutto la
possibilità di una «logica paradossale» e si articolano intorno ai temi del
gioco, dell'ascolto e dell'alterità, tutti collegati alla questione attuale
della soggettività. Altri suoi scritti e interventi hanno introdotto
opere di Whitehead, Sartre, Habermas, Hume, Edmond Jabès, Oskar Negt, Alexander
Kluge, Ágnes Heller, Roger Caillois (ossia I giochi e gli uomini), Philippe
Sollers (il libro Sul materialismo), Nicos Poulantzas, Gilles Deleuze, Jacques
Derrida (nel suo rapporto con Freud), Emmanuel Lévinas, Gregory Bateson e del
suo mentore Enzo Paci. Dalla riflessione sul gioco nascono anche i libri
Per gioco (con Alessandro Dal Lago, 1993), La scuola dei giochi (con Davide
Zoletto, 2005) e Il gioco di Wittgenstein (2009). Si è anche interessato
alla consulenza filosofica, con La filosofia può curare? (2006). Ha
curato, nel 2011, l'antologia Il coraggio della filosofia, sui sessant'anni
della rivista «aut aut». Da anni, al venerdì, tiene una rubrica sul
quotidiano "Il Piccolo" di Trieste col titolo di Etica minima. Ha
raccolto questi "scritti corsari" (cfr. Pasolini) in vari libri:
Etica minima (2010), Noi, i barbari (2011), Un velo di sobrietà (2012).
Accanto a una sensibile sintonia con le riflessioni di Jacques Derrida, si è
manifestata nella sua ricerca una particolare attenzione per il pensiero di
Jacques Lacan e di Michel Foucault (in particolare sul rapporto tra potere e
sapere). Bibliografia Gli egosauri, Elèuthera, Milano 2019. Le nostre
oscillazioni, Collana 180, Edizioni alpha beta Verlag, Merano 2019.
L’intellettuale riluttante, Elèuthera, Milano 2018. Restituire la soggettività.
Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia, alphabeta, Merano 2013. Un velo di
sobrietà, il Saggiatore, Milano 2012. Noi, i barbari. La sottocultura
dominante, Raffaello Cortina, Milano 2011 ISBN 978-88-6030-409-4 Inattualità
del pensiero debole, Forum, Udine 2011 ISBN 978-88-8420-714-2 Cura di Il
coraggio della filosofia. aut aut, 1951-2011, il Saggiatore, Milano 2011 ISBN
978-88-428-1760-4 Etica minima. Scritti quasi corsari sull'anomalia italiana,
Cortina, Milano 2010 ISBN 88-6030-328-1 La posta in gioco. Heidegger, Husserl,
il soggetto, Mimesis, Milano-Udine 2010 ISBN 978-88-575-0123-9 prima edizione:
Bompiani, Milano 1987 Cura di Consulente e filosofo. Osservatorio critico sulle
pratiche filosofiche, Mimesis, Milano 2009 ISBN 978-88-8483-985-5 Il gioco di
Wittgenstein, EUT, Trieste 2009 ISBN 978-88-8303-245-5 Possiamo addomesticare
l'altro? La condizione globale, Forum, Udine 2007 ISBN 978-88-8420-415-8
Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Raffaello Cortina, Milano
2007 ISBN 978-88-6030-119-2 prima edizione: Feltrinelli, Milano 1994 ISBN
88-07-09042-2 La filosofia può curare? La consulenza filosofica in questione,
Raffaello Cortina, Milano 2006 ISBN 88-6030-040-1 La scuola dei giochi (con
Davide Zoletto), Bompiani, Milano 2005 ISBN 88-452-3355-3 Cura di Scenari
dell'alterità, Bompiani, Milano 2004 ISBN 88-452-3273-5 Guardare ascoltando:
filosofia e metafora, Bompiani, Milano 2003 ISBN 88-452-5403-8 prima edizione:
Il declino della luce, Marietti, Genova 1988 ISBN 88-211-8640-7 L'università
senza condizione (con Jacques Derrida), Raffaello Cortina, Milano 2002 ISBN
88-7078-788-5 La follia in poche parole, Bompiani, Milano 2000 ISBN
88-452-4337-0 Fare la differenza, atti del convegno del 1996, curati con Pietro
Derossi, Triennale di Milano, Milano, 1998 ISBN 88-8158-157-4 Il paiolo bucato.
La nostra condizione paradossale, Raffaello Cortina, Milano 1998 ISBN
88-7078-495-9 Introduzione alla filosofia contemporanea, Bompiani, Milano 1996
ISBN 88-452-2820-7 Lettere dall'università (con Luisa Muraro), Filema, Napoli
1996 ISBN 88-86358-12-1 Per gioco: piccolo manuale dell'esperienza ludica (con
Alessandro Dal Lago), Raffaello Cortina, Milano 1993 ISBN 88-7078-256-5
Trasformazioni del soggetto: un itinerario filosofico, Il poligrafo, Padova
1992 ISBN 88-7115-036-8 Dizionario dei filosofi contemporanei, Bompiani, Milano
1990 ISBN 88-452-1641-1 Elogio del pudore. Per un pensiero debole (con
Alessandro Dal Lago), Feltrinelli, Milano 1989 ISBN 88-07-09020-1 Intorno a
Lévinas, Unicopli, Milano 1987 ISBN 88-400-0080-1 Cura di Effetto Foucault,
Feltrinelli, Milano 1986 ISBN 88-07-08041-9 Cura di Henri Bergson, Opere
1889-1896, Mondadori, Milano 1986 Il pensiero debole (con Gianni Vattimo),
Feltrinelli, Milano 1983 ISBN 88-07-09001-5 Bisogni e teoria marxista (con
Roberta Tomassini e Amedeo Vigorelli), Mazzotta, Milano 1976 Critica e
scientificità in Marx: per una lettura fenomenologica di Marx e una critica del
marxismo di Althusser, Feltrinelli, Milano 1973 Che cosa ha veramente detto
Sartre, Ubaldini, Roma 1969 La dialettica del processo. Saggio su Whitehead,
prefazione di Enzo Paci, il Saggiatore, Milano 1969 Altri progetti Collabora a
Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Pier Aldo Rovatti Collegamenti
esterni aut aut, su autaut.ilsaggiatore.com. Scuola di filosofia di Trieste, su
www.scuolafilosofia.it Laboratorio di filosofia contemporanea, su filolab.it.
URL consultato il 15 luglio 2020 (archiviato dall'url originale il 25 dicembre
2019). Università di Trieste - Facoltà di lettere e filosofia, su
www2.units.it. URL consultato il 22 dicembre 2009 (archiviato dall'url
originale l'11 giugno 2008). Vicino Lontano, su vicinolontano.it. Pier Aldo
Rovatti: il pensiero debole, sul portale RAI Filosofia, su filosofia.rai.it.
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(EN) 9871063 · ISNI (EN) 0000 0001 2276 2661 · SBN IT\ICCU\CFIV\000704 · LCCN
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XX961180 (data) · WorldCat Identities (EN) lccn-n87877214 Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Insegnanti italiani del XX
secoloFilosofi italiani del XX secoloNati nel 1942Nati il 19 aprileNati a
Modena[altre]
rousseau: philosopher, best known for his theories on
social freedom and societal rights, education, and religion. Born in Geneva, he
was largely self-educated and moved to France as a teenager. Throughout much of
his life he moved between Paris and the provinces with several trips abroad
including a Scottish stay with Hume and a return visit to Geneva, where he
reconverted to Protestantism from his earlier conversion to Catholicism. For a
time he was a friend of Diderot and other philosophes and was asked to
contribute articles on music for the Encyclopedia. Rousseau’s work can be seen
from at least three perspectives. As social contract theorist, he attempts to
construct a hypothetical state of nature to explain the current human
situation. This evolves a form of philosophical anthropology that gives us both
a theory of human nature and a series of pragmatic claims concerning social
organization. As a social commentator, he speaks of both practical and ideal
forms of education and social organization. As a moralist, he continually
attempts to unite the individual and the citizen through some form of universal
political action or consent. In Discourse on the Origin and Foundation of
Inequality Among Mankind 1755, Rousseau presents us with an almost idyllic view
of humanity. In nature humans are first seen as little more than animals except
for their special species sympathy. Later, through an explanation of the
development of reason and language, he is able to suggest how humans, while
retaining this sympathy, can, by distancing themselves from nature, understand
their individual selves. This leads to natural community and the closest thing
to what Rousseau considers humanity’s perfect moment. Private property quickly
follows on the division of labor, and humans find themselves alienated from
each other by the class divisions engendered by private property. Thus man, who
was born in freedom, now finds himself in chains. The Social Contract or
Principles of Political Right 1762 has a more ambitious goal. With an account
of the practical role of the legislator and the introduction of the concept of
the general will, Rousseau attempts to give us a foundation for good government
by presenting a solution to the conflicts between the particular and the
universal, the individual and the citizen, and the actual and the moral.
Individuals, freely agreeing to a social pact and giving up their rights to the
community, are assured of the liberties and equality of political citizenship
found in the contract. It is only through being a citizen that the individual
can fully realize his freedom and exercise his moral rights and duties. While
the individual is naturally good, he must always guard against being dominated
or dominating. Rousseau finds a solution to the problems of individual freedoms
and interests in a superior form of moral/political action that he calls the
general will. The individual as citizen substitutes “I must” for “I will,”
which is also an “I shall” when it expresses assent to the general will. The
general will is a universal force or statement and thus is more noble than any
particular will. In willing his own interest, the citizen is at the same time willing
what is communally good. The particular and the universal are united. The
individual human participant realizes himself in realizing the good of all. As
a practical political commentator Rousseau knew that the universal and the
particular do not always coincide. For this he introduced the idea of the
legislator, which allows the individual citizen to realize his fulfillment as
social being and to exercise his individual rights through universal consent.
In moments of difference between the majority will and the general will the
legislator will instill the correct moral/political understanding. This will be
represented in the laws. While sovereignty rests with the citizens, Rousseau
does not require that political action be direct. Although all government
should be democratic, various forms of government from representative democracy
preferable in small societies to strong monarchies preferable in large
nation-states may be acceptable. To shore up the unity and stability of
individual societies, Rousseau suggests a sort of civic religion to which all
citizens subscribe and in which all members participate. His earlier writings
on education and his later practical treatises on the governments of Poland and
Corsica reflect related concerns with natural and moral development and with
historical and geographical considerations. Refs.: Luigi Speranza, “Rousseau
and Grice and Grice on the explanatory myth of the contract,” per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Rovella Giuseppe Rovella Da
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suggerimenti del progetto di riferimento. Giuseppe Rovella Giuseppe
Rovella (Palazzolo Acreide, 12 dicembre 1926 – Palazzolo Acreide, 26 marzo
1989) è stato un insegnante, scrittore, drammaturgo e filosofo italiano.
Biografia Giuseppe Rovella nacque a Palazzolo Acreide, in provincia di
Siracusa, il 12 dicembre del 1926. Apparteneva ad una famiglia contadina di
solida fede cristiana. Tre fratelli ed una sorella erano sopravvissuti a 12
gravidanze. Dopo la scuola elementare frequentò la scuola media ad Ispica, in
provincia di Ragusa, nel convento dei cappuccini, alla scuola dello zio
cappuccino. Questa esperienza lasciò tracce indelebili nella formazione e nello
sviluppo intellettuale di Giuseppe che visse all'insegna della contraddizione
nella ricerca della sua strada. Contraddizione che visse sempre in termini
positivi, come caratteristica dell'uomo che pensa. A Catania si iscrisse in
Lettere e Filosofia e fu tra gli alunni più stimati del prof. Cleto Carbonara
che insegnava filosofia teoretica. Si laureò il 2 giugno 1948 con una tesi di
estetica, sul rapporto fra contenuto e forma in arte. Gli interessi per
l'estetica rimasero permanenti. Insegnò storia e filosofia nei licei, di Noto e
Palazzolo, dove per un breve periodo, fu anche preside, incarico dal quale si
dimise per tornare all'insegnamento. Morì nella sua casa natale il 26 marzo
1989. Opere Dopo alcune recensioni di filosofia nella rivista Sophia,
rivista fondata da Carmelo Ottaviano e due raccolte di poesie pubblicate da
Gastaldi Editore Milano, il suo vero esordio fu L'uomo, una filosofia, opera di
filosofia teoretica, pubblicata da Giannini Napoli, nel 1975, con prefazione di
Cleto Carbonara. In quest'opera Rovella in un serrato confronto con i grandi
della filosofa affronta, in termini critici, la metafisica ed espone il suo
convincimento che la ricerca senza condizioni, attraverso l'intelligenza attiva
e creatrice può aprire all'uomo orizzonti creativi, nuovi, seppur rischiosi. La
metafisica, sostiene Rovella, imprigiona in schemi rigidi e vincolanti.
Pervenire all'autocoscienza è il compito più degno del pensiero, che pur
problematico in sé non rimane imprigionato nel problematicismo. Il rapporto con
Spirito e Carbonara fu stimolo attivo e personale nella ricerca di
Rovella. Deneb, romanzo, fu pubblicato nel 1977 da Salvatore Sciascia
Caltanissetta - Roma con prefazione di Francesco Gallo. Si tratta di un romanzo
filosofico che narra la pulsione verso l'oltre, attenuando, così, la precedente
critica verso la metafisica e aprendo verso il mistero che, nel romanzo
comporta il confronto con tre donne che rappresentano tre volti diversi della
verità. La stella Deneb è metafora della pulsione verso l'alto. In quest'opera
abbondano i riferimenti autobiografici da cui emerge l'attaccamento alla casa
natia, che non abbandonerà finché visse, alla famiglia e soprattutto ad un
modello di vita contadina morigerata e sobria. Lo stile narrativo è affabulante.
L'autocoscienza e il "trionfo della morte" nell'ultima opera di
Giovanni Gentile in AA.VV, Il pensiero di Giovanni Gentile, Enciclopedia
Italiana, Roma, 1977. Qui si esamina il momento finale della vicenda umana e
filosofica di Gentile al cui pensiero il nostro fu sempre legato.
L'errore del cerchio, romanzo del 1979, che sarà pubblicato postumo nel 2003
dalla Provincia Regionale Siracusa, con prefazione di Emanuele Messina.
Predomina il colloquio interiore, lo scavo nella coscienza e nella memoria.
Procede come un giallo; un tema attraversa gli avvenimenti, la libertà e la
necessità di un suo contenimento. La Fattoria delle Querce, romanzo
scritto tra il 1977 e il 1981, edito da M. Selvaggio Caruso Editore Siracusa,
nel 1981. Rovella considerò questo romanzo l'espressione più piena del suo
pensiero e della sua capacità di scrittura. È come un'epopea, quella della
famiglia siciliana Capobianco, governata da una donna e sviluppata attraverso
un intrigo di personaggi e di vicende collocate in un non luogo e in un non
tempo. I discendenti Capobianco sono identici agli antenati, e la ricerca della
genealogia è il problema più assillante per i personaggi. Il mito dell'eterno
ritorno dell'identico fu caro al Rovella che rimase sempre legato ai miti.
Fisiognomica, astrologia, venti, odori e turbamenti fanno di questo lavoro un
esempio di scrittura immaginifica e personale. Scrittura di non di facile
consumo. Rovella dice che con quest'opera ha tracciato una nuova “Imago
Siciliae”. Nella stessa aura de La fattoria sono scritti i Racconti.
Rovella cambia di nuovo argomento, inizia quella che lui chiama la fase
cristica. Scrive opere in cui la figura di Cristo e il rapporto fra le
religioni sono il tema dominante. L'ora del destino, dramma in due atti è
pubblicato dall'Accademia Casentinese di Lettere, Arti, Scienze ed economia,
Castello di Borgo alla Collina, Arezzo, 1986. L'Ora in persona di una donna
consola il Crocifisso che muore quando una congiuntura astrale perviene al suo
compimento. Vita di Gesù, pubblicato nel 1987 con Prospettive d'Arte
Milano, con prefazione di Ugo Ronfani. Gesù è visto nella sua umanità, la
narrazione segue lo sviluppo dei vangeli sinottici, con qualche incursione
negli apocrifi. L'autore, che pur ne ha le competenze,si tiene lontano dalle
problematiche gesuologiche e cristologiche. Vuole narrare un Gesù “così come
parla al cuore”. L'Angelo e il Re, pubblicato nello stesso 1987, con
prefazione di Roberto Pazzi per i tipi di Palomar Bari.I nove mesi di
gravidanza di Maria vergine sono narrati con un andamento che si mescola di
esoterismo e sapienza umana. Maria spesso, nel mistero del suo concepimento,
nella sua realtà quotidiana, vive le vicende del suo quartiere, con le sue
amiche, con qualche momento di gioia esaltata e prorompente, con un tratto
zingaresco. Rovella fu sempre attratto, nella sua narrativa da zingari e
vagabondi di passaggio, come incarnazione di una libertà che abbiamo
smarrita. Le Madri Racconto, Utopia Edizione, Chiaramonte Gulfi, 1988. Vi
si sente l'eco di J. Bachofen. Breve raro capolavoro, pieno di mistero e
poesia, di un potere magico, come scrive Guy Tosi. Asvamedha pubblicato
nel 1997 da Utopia Edizioni, Chiaramonte Gulfi, con prefazione di Ester
Monachino. Raccoglie 15 racconti inediti. Inizio d'amore pubblicato nel
2007, a cura dell'Istituto Studi Acrensi di Palazzolo Acreide. Raccoglie altri
20 racconti che l'autore pubblicò in varie riviste letterarie nazionali, a cura
dell'Istituto Studi Acrensi Palazzolo Acreide. I racconti, dice l'autore,
vivono nell'aura dei romanzi di questo periodo. La vigna di Nabot, dramma
in quattro quadri inedito, pubblicato nel 2013 a cura dell'Associazione Amici
di G. Rovella, Palazzolo Acreide. Narra le vicende di Nabot, personaggio
biblico che incontriamo nel primo libro dei Re Cap. 21. La prepotenza dei
potenti e la sacralità della terra dei padri sono il filo conduttore del
dramma. Nabot muore per una questione di coerenza. Bibliografia minima
Ermanno Scuderi, La fattoria delle Querce, in Le Ragioni critiche, luglio-dicembre
1981; Giancarlo Menichelli in Esperienze letterarie, aprile-giugno 1984;
Ruggero Jacobbi, Il miracolo Deneb, in Arenaria, Palermo, gennaio-aprile 1985
Vittorio Vettori, Il miracolo di Deneb e le profezie di Ruggero, Arenaria,
gennaio- dicembre 1985; Monachino Ester, Considerazioni su un romanzo di
Rovella, in Le Ragioni critiche, Catania 1986; Emanuele Messina, Dal bagolaro
alla sequoia,, La vita e l'opera di Giuseppe Rovella, Emanuele Romeo editore,
Siracusa 2008; Emanuele Messina, Alle radici del pensiero di Giuseppe Rovella.
La presenza dei suoi maestri, Emanuele Romeo, 2013. Controllo di autorità VIAF (EN) 68049767 · ISNI (EN) 0000
0000 2965 7920 · SBN IT\ICCU\CFIV\016148 · LCCN (EN) n88651996 · BNF (FR)
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Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie:
Insegnanti italiani del XX secoloScrittori italiani del XX secoloDrammaturghi
italiani del XX secoloNati nel 1926Morti nel 1989Nati il 12 dicembreMorti il 26
marzoNati a Palazzolo AcreideMorti a Palazzolo AcreideFilosofi italiani del XX
secolo[altre]
rovere: essential Italian
philosopher – His family originates in Albalonga, Savona, Liguria. Terenzio Mamiani Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Jump to navigationJump to search Terenzio Mamiani Terenzio Mamiani della
Rovere (1799 – 1885), filosofo, politico e scrittore italiano.
Indice 1 Citazioni di Terenzio Mamiani 2 Antonio Oroboni alla sua
fidanzata 2.1 Incipit 2.2 Citazioni 3 D'un nuovo diritto europeo 3.1 Incipit
3.2 Citazioni 4 Dell'ottima congregazione umana 4.1 Incipit 4.2 Citazioni 5
Mario Pagano, ovvero, della immortalità 5.1 Incipit 5.2 Citazioni 6 Prose
letterarie 6.1 Avvertenza 6.2 Prefazione alla scelta dei poeti italiani dell'età
media 7 Citazioni su Terenzio Mamiani 7.1 Candido Mamini 8 Bibliografia 9 Altri
progetti Citazioni di Terenzio Mamiani [...] Testimonio essendo il Pontefice
[della insurrezione dell'Italia contro l'Austria] e d'altra parte abborrendo
egli, pel suo ministero santissimo, dalle guerre e dal sangue ha pensato...
d'interporsi fra i combattenti, e di fare intendere ai nemici della nostra
comune patria, quanto crudele ed inutile impresa riesca ormai quella di
contendere agli italiani le naturali frontiere... (9 giugno 1848; citato in
Giuseppe Fumagalli, Chi l'ha detto?, Hoepli, 1921, p. 631) Antonio Oroboni alla
sua fidanzata Incipit Dallo Spielberg, ai 5 d'Aprile. Del soave amor tuo,
nobile spirto | Ed infelice, io vissi altera e santa: | Di quel vivrò, giuro
all'eterno Iddio, | Si che il dolor nol chiuda entro al sepolcro. | Tai celesti
parole in picciol foglio | Vergate, o cara, ebb'io da te quel giorno | Che
tramutai le dolci aure lombarde | Con queste ignote al Sol tombe di vivi.
Citazioni Io muojo, ed al suo fine affretta | questa lunga agonia che chiaman
vita | qui per istrazio. Quando suonarne il certo annunzio udrai, | non pianger
tu, non piangere, o diletto | spirto d'amor, ché del mio ben migliore |
Lacrimar ti disdice. [...] Il misero | che gemea quivi giù, poiché il dolore |
soverchiò troppo, disperatamente | diè del capo nel sasso e del diffuso |
Cerebro il tinse. [...] d'ogni affetto umano affinatrice | fiamma è il dolore,
e di virtù maestra | la morte. D'un nuovo diritto europeo Incipit Il giure
civile di ciascun popolo ha nel testo delle leggi positive e speciali autorità
sufficiente da soddisfare la giustizia ordinaria e da risolvere i dubii e
acquetare le controversie intorno agli interessi e agli ufficii d'ogni privato
cittadino. Di quindi nasce che possono alcuni curiali riuscire segnalati e
famosi al mondo con la sola abilità del pronto ricordare, dell' acuto
distinguere e dell'interpretare acconcio e discreto. Al giure delle genti
occorre, invece, assai di frequente la discussione delle verità astratte.
Perocché esso è indipendente e superiore all'autorità delle sopra citate leggi;
si connette immediatamente al giure naturale che è al tutto razionale e
speculativo; spesso gli è forza di riandar col pensiero sulle fondamenta
medesime dell'ordine sociale umano, e spesso altresì non rinviene modo migliore
per risolvere i dubii e acquetare le discrepanze tra popolo e popolo fuor che
indagare i grandi pronunziati della ragione perpetua del diritto, chiariti,
dedotti e applicati mercé della scienza. Citazioni Poco importa se i
metafisici e i letterati si bisticciano; ma non va senza danno del genere umano
il discordare e il traviare de' pubblicisti. E già si disse che il fine
criterio degli uomini illuminati coglie il certo e il sodo della scienza, ma
non la crea e non l'ordina. (p. 5) La demenza degli uonini fa talvolta
scandalosa la verità; laonde ella ebbe a pronunziare di se medesima: non venni
a recare la pace in mezzo di voi, sibbene la spada. (p. 11) Lo Stato essere
certa congregazione di famiglie la qual provvede con leggi e con tribunali al
bene proprio e alla propria tutela; tanto che sieno competentemente adempiuti i
fini generali della socialità e i particolari di essa congregazione. (p. 13) Lo
Stato non esiste per la contiguità sola delle terre e delle abitazioni, ma per
certo congiungimento e unità delle menti e degli animi. (p. 15) La libera città
di Amburgo è così autonoma come l'impero di Moscovia. Il che riconosciuto e
fermato, se ne ritrae ciò che pel diritto internazionale è primo principio ed
assioma, non potersi da niuno e sotto niuna ragione arrogare la facoltà di
offendere e menomare l'autonomia interna ed esterna di qualchesia Stato insino
a tanto che questo non provoca gli altri ad assalirlo con giusta guerra; ed
eziandio in tal caso è lecito di occupare temporalmente il suo territorio e
dominare il suo popolo nei limiti della difesa e dell'equo rifacimento dei
danni. (p. 20-21) Le varie provincie spagnuole o francesi e i tre regni
britanni congiunti ed unificati per la conquista o l'eredità palesarono in
lungo volgere d'anni la volontà loro ferma ed unanime di perseverare in quella
identità e unità di vita sociale e politica. Per lo contrario, l'incorporamento
delle provincie basche nell'unità politica degli Spagnuoli fu con violenza
adempiuta e poi mantenuta. Voleva ragione e giustizia che per l'azione lenta
del tempo e della civiltà riconoscessero quei popoli da se medesimi la utilità
di vivere al tutto vita comune coi popoli iberici. Similmente, era iniqua la
condizione degl'Irlandesi quando l'irosa Inghilterra per la diversità del culto
li segregava dal godimento dei diritti politici. (p. 22) L'uomo individuo può
nel servaggio e nelle catene serbare con isforzo la libertà dello spirito e
compiere in altro modo e sotto altre condizioni certa eroica purgazione e certo
mirabile perfezionamento della sua parte interiore e immortale. Ma ciò è
impossibile ad un popolo intero, il quale nel servaggio di necessità si
corrompe ed abbietta, e quindi Gian Vincenzo Gravina chiamò assai giustamente
la libertà delle nazioni sacrosanta cosa e di giure divino. (p. 25) L'anima non
è vendibile e non è nostra, dicevano i teologanti per dimostrare da più parti
la iniquità del contratto. E neppure la libertà è vendibile; e se l'usarla e
abusarla è nostro, non è tale la facoltà e il principio infuso da Dio con
l'alito suo divino e che al dire di Omero vale una mezza anima. (p. 30) Lo
Stato possiede onninamente se stesso; niuno fuori di lui può attribuirsene la
padronanza. Quindi i popoli o vivono in se od in altri; cioè a dire, o
provedono ai propri fini con leggi e ordini propri e componendo un individuo
vero e perfetto della universa famiglia umana; ovvero entrano a parte d'altra
maggior comunanza con ugualità di diritto e d'ufficio, come quelle riviere che
ne' più larghi e reali fiumi confondono le acque e perdono il nome. Questa è la
generale e astratta dottrina che danno la ragione e la scienza. (p. 32) Patria,
impertanto, significa quella determinata contrada e quella peculiare
congregazione di uomini a cui ciascuno degli abitanti e ciascuno dei congregati
sentesi legato per tutti i doveri, gl'istinti, i diritti, le speranze e gli
affetti del vivere comune. (p.) La patria considerata nella sua morale e
profonda significazione è il compiuto sodamento di ciascuno verso di tutti e di
tutti verso ciascuno. (p. 36-37) Se la patria non ha debito né possibilità di
nudrire del suo ogni giorno tutti i suoi indigenti, spietata cosa sarebbe
inibire a questi di procacciarsi altrove la sussistenza. (p. 39) Prediletta
opera delle mani di Dio sono le nazioni. (p. 41) Qual nazione è pura, domandano
essi, e tutta omogenea, e quale Stato in Europa non è straniero a qualche
porzione de' sudditi proprii? L'Inghilterra pesa sul popolo Jonio, la Francia
sull' Algerino, la Spagna sul Basco. Non nacquero forse Italiani i Corsi e
Tedeschi i popoli dell'Alsazia? I Polacchi di Posen son forse Prussiani; e non
è mezzo slava la Silesia? Chiameremo Russi i Lituani o i Finlandesi o gli
abitanti di Riga e della Curlandia? E se tinti vediamo della medesima pece
tutti i governi, se niuno, a rispetto del puro principio di nazionalità, è
incolpevole, qual profitto si può dedurre d'una teorica non mai applicabile; ed
anzi, come può essere teorica e vera, se i fatti in ogni luogo e tempo la
contradicono? (p. 45) Lo Stato dipendente come si sia da un altro non è, a
propriamente parlare, autonomo; e perciò, a rigore di definizione, neppure la
denominazione di Stato gli si compete. (p. 61) I prìncipi non sono, del certo,
scelti da Dio immediatamente, ma sono da Dio immediatamente investiti di loro
sovranità. Il popolo indica l'uomo a cui vuole obbedire e in quell'uomo è
subito la pienezza della sovranità che da Dio gli proviene. Perocché come da
Dio è istituito il fine della socievole comunanza, così è istituito il mezzo
nella autorità del comando. (p. 71) È sicuro che nella lunghezza dei secoli le
volontà e i giudizi umani si accostano all'assoluto del bene sociale, quanto
che la via che viene trascorsa non procede diritta e spedita ma declina e torce
continuo fra molti errori e molte misere concussioni. (p. 75) La libertà,
essendo naturale ed essenziale agli uomini e necessaria concomitanza d'ogni
bontà, è doveroso per tutti il serbarla integra nella sostanza; e perciò, né il
privato individuo si può vendere ad altro privato, né tutto il corpo de'
cittadini assoggettarsi pienamente e perpetuamente al dominio d'alcuno, sia
forestiere o nativo. (p. 80) Poco o nessun valore ha il dissentimento dei
piccioli e deboli, quando anche piglino ardire di esprimerlo; e chi investiga
la Storia, ritrova che delle proteste loro giacciono grandi fasci dimenticati
negli archivi delle Cancellerie. (p. 98) Dacché siete i più forti, correte poco
rischio di vivere ex lege alla maniera dei Ciclopi. Ma confessare il diritto e
contro il diritto procedere, non è conceduto a nessuno; e parlavano meglio
quegli Ateniesi che alle querele dei Milesi rispondevano senza sturbarsi : il
diritto è cosa pei deboli e non già pei forti e pei valorosi. (p. 113) Ogni
popolo è autonomo; o con altri vocaboli, ogni Stato vero è libero ed
inviolabile inverso tutti i popoli e tutti gli Stati. (p. 121) E patria nel
significato morale e politico è sinonimo di Stato, in quanto questo compone uno
stretto e nativo consorzio in cui ciascun cittadino ha debito e desiderio
insieme di effettuare il grado massimo di unimento sociale e civile. (p. 122)
S'incominci dall'avvisare chi sono costoro che si querelano dell'abusata
libertà degli Stati e ne temono danni così spaventevoli. Costoro sono i
medesimi da cui si alzano lagni e rimproveri cotidiani per qualunque libertà,
eccetto la propria loro. Vogliono limitare la stampa, limitare la libera
concorrenza, limitare i Parlamenti e in fine ogni cosa col pretesto volgare ed
ovvio che i parlamenti, il commercio, la stampa abusano di loro facoltà e
trasvanno più d'una volta e in più cose. (p. 207) La volontà umana, dite, è
corrotta e inchinevole al male. Può darsi; ma privata di libertà so che
depravasi molto di più e i padroni non meno che i servi. (p. 208) Non è lecito
agli uomini di esercitare nessun diritto qualora difettino pienamente delle
facoltà e dei mezzi correlativi. Perciò il fanciullo, il mentecatto, l'idiota
cade naturalmente sotto l'altrui tutela, e per ciò medesimo la parte meno
educata del volgo ed offesa di troppa ignoranza, o posta in condizione troppo
servile, non ha nel generale facoltà e mezzi proporzionati ad esercitare
diritti politici. (p. 219) Dell'ottima congregazione umana Incipit Esaminato il
fine del viver comune, fatta rassegna d'alcuni principii direttivi, più
bisognevoli al nostro intento e poco o nulla noti agli antichi, segue senza più
che noi trapassiamo a contemplare l'ottimo ordinamento civile. Della qual
materia stragrande fermammo in principio del libro che sarebbero da noi segnate
alquante linee soltanto, scegliendo quelle che più hanno riferimento con
l'indole speciale de' tempi nostri. E pur questi pochi lineamenti noi
cercheremo di descriverli, come suoi fare l'artista, secondo il concetto d'una
bellezza ideale ricavata e desunta con fedeltà squisita dall'essere delle cose
e figurandola in mente come e quale uscirebbe dalle mani della natura, quando
non la perturbassero gli scorretti accidenti. Cosi noi delineeremo qnalche
fattezza dell'incivilimento umano, contemplandolo nella natura primitiva ed
universale dei popoli, ed avvisandoci di non iscambiare l'alterato e il
mutabile col permanente ed inalterato; e per converso, di non dar nome d'errore
emendabile e di accidente transitorio a ciò che appartiene alle condizioni salde
e durevoli della comunanza civile. Chè nel primo difetto cadono i troppo
retrivi ed i pusillanimi; nel secondo, i novatori audaci e
leggeri. Citazioni Aristotile con molto senno incomincia dall'insegnar
quello che spetta al buono stato della famiglia, perché della comunanza umana
l'individuo compiuto non è lo scapolo, ma l'ammogliato con prole o vogliam dire
la famiglia, rimossa la quale, come fu scritto nell'aforismo XIV, non rimane
intermezzo alcuno che tempri l'amor proprio e la fiera e violenta natura nostra.
(p. 400, I) L'organizzazione tanto è più eccellente quanto meno cede alle
esterne azioni ed impressioni ed anzi modifica con maggior efficacia ed
appropria a sé quelle azioni. (p. 401, I) È da confessare che un gran trovato
fece lo spirito umano e giovevole soprammodo alla prosperità del viver sociale,
quando mise in atto quello che fu domandato governo rappresentativo o
parlamentare. (p. 404, I) Se dirai: carattere di nazione è la continuità e
circoscrizione del suolo, i Tedeschi di qua del Reno sarebber Francesi, e non è
Grecia l'Asia minore, e gli Ebrei non compongono nazione, e malamente la
compongono le genti slave. Se dirai la lingua; i Baschi non sono spagnuoli, né
francesi i Bretoni e quei dell' Alsazia, e non ha niente di nazione la Svizzera
né l'Ungheria dove più lingue sono parlate. Se la religione; troppe smentite ci
danno Germania, Inghilterra e gli Stati Uniti americani; d'altra parte, sotto
il rispetto dell'unità religiosa, farebber nazione insieme Siciliani e
Messicani, Irlandesi e Abissini. Se il governo; i Lombardi sono austriaci, sono
turchi i Greci, francesi gli Arabi e via discorrendo. Se la letteratura e le
arti ; non fanno nazione quei popoli a cui mancano lettere e arti proprie e le
accattano dai forestieri, come usavano poco fa i Russi, i Boemi, gli Ungaresi
ed altri, e tuttora non cessano. Se le origini e la schiatta; le colonie sono
tal membro e così vivace del corpo della patria onde uscirono, da non potersene
mai dispiccare, e la guerra americana fu dalla banda dei sollevati iniqua e
parricida. Gran questione poi insorge sulle genti di confine, le quali
compongonsi il più delle volte di schiatte anfibie, a cosi chiamarle. Quindi
noi vogliamo, per via d'esempio, i Nizzardi essere italiani e i Francesi li
fanno dei loro. Né minor controversia nasce circa cento popolazioni per la
terra disseminate, che è impossibile di ben definire a qual generazione
appartengano, né per sé bastano a far nazione, come Bosniaci, Bulgari,
Albanesi, Illirii, Maltesi e innumerevoli altri. (p. 429, V) La compagnia
civile comincia là solamente dove gli animi si accostano, e sorge desiderio di
regolato e comune operare. (p. 2, VI) La Giustizia, secondo Omero, apre e
chiude i congressi degli Dei, non quelli degli uomini. (p. 2, VI) La voce
nazione nel suo peculiare e pieno significato vuol dire unimento e società
d'uomini che la natura stessa con le sue mani à fatta e costituita mediante la
mescolanza del sangue e la singolarità delle condizioni interiori ed
estrinseche; per talché quella società distinguesi da tutte le altre per tutti
gli essenziali caratteri che possono diversificare le genti in fra loro, come
la schiatta, la lingua, la religione, l'indole, il territorio, le tradizioni,
le arti, i costumi. (p. 2, VI) Nazione vuol significare certo novero di genti
per comunanza di sangue, conformità di genio, medesimezza di linguaggio atte e
preordinate alla massima unione sociale. (p. 2, VI) Gli Svizzeri varii di
lingua, di schiatta, di religione e d'usanza sonosi costituiti artificialmente
e politicamente in nazione, mediante una grande e maravigliosa unità morale che
turbata e rotta alcune volte di dentro è sempre riuscita gagliarda di fuori a
fronte degli stranieri. (p. 5, VI) I Greci ed i Musulmani dell'Asia Minore o
d'altra contrada, i quali tuttoché nati e cresciuti nel suolo stesso, pur non
si chiamano concittadini, e vivono e sempre vivranno stranieri l'uno accanto
dell'altro. (p. 8, VII) Lo stipite umano è ordinato esso pure a spandere
discosto da sé le propagini e i semi; e ogni germe nuovo dee nudrirsi del
terreno ove cade, non del tronco da cui si origina. (p. 11, VII) Sieno rese
grazie publicamente da tutta l'Italia a voi, o Valdesi, che l'antica madre mai
non avete voluto e potuto odiare e sconoscere insino al giorno glorioso che fu
da Dio coronata la vostra costanza, e un patto comune di libertà vi
riconciliava con gli emendati persecutori. (p. 13, VII) S'io credessi quelle
armi che assiepano il Foro, dicea Cicerone, starsene qui a minacciare e non a
proteggere, cederei al tempo e mi terrei silenzioso. Ma il fatto fu che quelle
armi nel Foro inducevano per se sole una fiera minaccia, tanto ch'egli parlò
poco e male, e la paura ammazzò l'eloquenza. (p. 18, VIII) Dal riscontro, per
tanto, di tutte le storie, senza timore mai d'eccezione, e più ancora dalla
ripugnanza intima di certi termini, quali sono felicità a servitù, spontaneità
e costrizione, ricavasi questa assoluta sentenza che tra le nazioni civili il
governo straniero non può vantarsi mai né della legittimità che abbiamo
chiamata interiore, né della esteriore che emana dall'assentimento espresso o
tacito delle popolazioni. (p. 20-21, IX) Non può aver luogo prescrizione, dove
i diritti innati o fondamentali dell'uomo ricevono sostanziale ingiuria ed
offesa; e di si fatti è per appunto la indipendenza o dimezzata o distrutta.
(p. 21, IX) Ogni cosa nell'uomo è principiata dalla natura e poi dalla ragione
e dall'arte è compiuta. (p. 30, XI) Mario Pagano, ovvero, della
immortalità Incipit Francesco Pignatelli — Giuseppe Poerio Pignatelli: Voi stesso
l'avete udito? Poerio: E come nò, se rinchiuso era con lui in una prigione
medesima? Pignatelli: E fu la vigilia della sua morte? Poerio: Appunto fu la
vigilia. Sapete che valica la mezzanotte, una voce improvvisa e sepolcrale
veramente rompevane il sonno chiamando forte per nome alcuno di noi; e quella
chiamata voleva dire: vieni, ti aspetta il carnefice. La notte pertanto che
seguitò quel mirabil discorso di Mario Pagano gli sgherri gridarono il nome
suo, e fu menato al patibolo. Pignatelli: Stava per mezzo a voi quell'omerica
figura del conte di Ruvo? Poerio: Nò, ma in Castello dell'Uovo insieme con
altri uffiziali e con l'intrepido Mantonè. Nel Castel Nuovo e in quella carcere
proprio dove era Francesco Mario Pagano, stava il fratel vostro maggiore, principe
di Strangoli, stava io, il Conforti, Cirillo, Granali, Eusebio Palmieri,
Vincenzo Russo e due giovinetti amorevoli e cari, cioè l'ultimo figliuolo dello
Spanò ed un marchese di Genzano, bello come l'Appollino e di cui sentiva il
Pagano particolare compassione. Citazioni Poerio: V'à una cagione suprema
di tutte le cose, cagione assoluta e però insofferente di limiti e incapace
d'aumento e di defficienza. Ma se niun difetto può stare in lei, ella è il bene
infinito e comprende infinitamente ogni specie di bene. Ciò posto, la cagione
suprema è altresì infinita bontà che raggia il bene fuor di sé stessa e ne
riempie la creazione ed ogni ente se ne satura, a dir così, per quanto fu fatto
capace. Tale contenenza di bene è poi sempre difettiva perché sempre è finita.
Di quindi si origina il male. Non si chieda dunque perché Dio è permettitore
del male, ma chiedasi in quella vece perché piacque a Dio, oltre all'infinito,
che sussistesse pure il finito. (p. 16) Poerio: Se il vivere nostro presente
fosse condito di molto diletto e noi incapaci di conoscere e desiderare con
ismania istintiva l'eternità, forse potrebbesi giudicare senza paradosso aver
noi sortito quella porzioncella sola e frammento di beatitudine, brevissima ma
sincera e inconsapevole della propria caducità. (p. 17) Poerio: Col presupposto
della immortalità, bene avvertiva il Bruno, alcun desiderio naturale non è
indarno e alcuna lacrima non cade senza conforto. Con la immortalità non è
affetto generoso perduto, non ferita dell'animo a cui non si apparecchi altrove
copioso balsamo. Per entro il corso interminato e magnifico de'nostri destini,
ogni male vien riparato, ogni speranza risorge, ogni bellezza rifiorisce, ogni
felicità si rinnova e giganteggia ne'secoli. (p. 18) Poerio: Quando fosse possibile
strappare dal cuor dell'uomo il concetto e la speranza della immortalità, il
consorzio civile medesimo pericolerebbe di sciogliersi e i piaceri e le utilità
stesse della vita presente verrebbero gran parte impedite o affatto levate di
mezzo. (p. 18) Prose letterarie Avvertenza I dotti e i legisti
barbareggiavano sempre peggio, e pareva in loro una sorta di necessità
tramutata in diritto, e niun discepolo mai se ne querelava; e le lettere
cadevano in tale grettezza, che nelle prose del Giordani si appuntavano
parecchie mende di stile, ma nessuno accusava la tenuità dei concetti e la
critica angusta e slombata. Il Colletta era stimato dai più uno storico sovrano
e poco meno che un Tacito redivivo, ed altri istituivano paragone tra il
Guicciardini e il Botta, tra il Goldoni ed Alberto Nota. Tale il gusto e il
criterio comune. Pochi grandi intelletti non mancavano neppure a quei giorni.
Basti ricordare Bartolini nella scultura; Leopardi e Niccolini nella poetica;
Rossini, Bellini, Donizetti nella musica. In Italia scemando il sapere e la
potenza meditativa, crebbe l'amore spasimato ed irragionevole della bellezza
dell'abito esterno, lasciando a digiuno la mente e poco nudriti e mal governati
gli affetti. Letteratura vasta, soda e ben definita, e parimente larghe scuole
e ben tratteggiate e scolpite mancano alla patria nostra da quasi tre secoli e
piuttosto ne abbiamo avuto cenni e frammenti, e ogni cosa a pezzi, a sbalzi e a
modo d'assaggio. Miei degni signori, il cibo che v'apparecchio è scarso,
scondito e di povera mensa, ma è letteratura e non metafisica. Non appena
l'esilio mi astrinse a lasciare l'Italia e fui spettatore d'altro ordine di
civiltà e uditore d'altri maestri, subito mi si aprì dentro l'animo l'occhio
doloroso della coscienza, ed ebbi della mia ignoranza una paura ed una vergogna
da non credere. Per giudicare alla prima prima che tutto è vecchio e trito in
un libro convien sapere dell'autore se nel generale à l'abito di pensar di suo
capo. IX. — Ed egli evoca nuovi spiriti di più sublime natura, i quali entrano
a uno a uno dentro la torre. Spirito del mare. Che vuoi ? Barone. Sapere
l'essenza del bene e la fonte della felicità. Spirito del mare. Perché lo
chiedi al mare ? Barone. Perché tu sai o puoi sapere ogni cosa; tu nei silenzj
della notte tieni misteriosi colloquj con la luna e con le stelle che in te si
riflettono ; e tu pur ricevi nell ' ampio tuo seno i fiumi tutti del mondo, i
quali ti raccontano le geste antiche dei popoli e le più antiche vicende dei
continenti per mezzo a cui essi fluiscono senza posa. Spirito del mare. lo non
so nulla (sparisce). Barone. Che tu venga malmenato in eterno dallo spirito
delle procelle, e che i tuoi membri immortali sieno rotti e squarciati mai
sempre dalle taglienti creste degli ardui scogli. La coda del cavallo
bianco dell' Apocalisse. Che vuoi ? Barone. Sapere in che consiste il bene, e
dove è la fonte della felicità. La coda. Perché lo chiedi a me ? Barone. Tu sai
la fine ultima delle cose, e tu comparirai poco innanzi della consumazione del
secolo. La coda. Quando io comparirò, io ondeggerò nelle sfere, simile alla
caduta del Niagara e più tremenda della coda delle comete. Ogni mio crine
rinserra un destino ; e ogni mio moto è un cenno di oracolo ; ò trascorsi tutti
i cieli di Tolomeo e i cieli di Galileo e i cieli di Herschel; ò lambita con la
mia criniera la faccia delle stelle, e l'ò distesa sulle penne de' turbini;
molte cose ò conosciute, ma non quel che tu cerchi: io non so nulla (sparisce).
Prefazione alla scelta dei poeti italiani dell'età media Dagli Arabi si travasò
il mal gusto ne' Catalani e ne' Provenzali, e una vena non troppo scarsa ne fu
derivata ne' primi nostri verseggiatori. Dante egli pure non se ne astenne
affatto; e noi peniamo a credere che a quel genio sovrano venisse scritta la
canzone lambiccatissima della Pietra. (II) Sa ognuno che nel seicento, con lo
scadere dell' arte, ricomparvero quelle freddure e mattie, e ogni cosa fu piena
di acrostici, d'anagrammi, d'allitterazioni e altrettali sciempiezze. Ma per
buona ventura cotesta sorta vanissima di pedanteria non sembra ai moderni
pericolosa; e dico ai moderni italiani, perché appresso gli stranieri non ne
mancano esempj ; e molti anno letto in un vivente poeta francese di gran nomea
certi capricci di metri e di rime i quali dimostrano come in lui siensi venuti
rinnovando tutti gli umori e le vertigini dei seicentisti. E nemmanco ci pare
immune dalle stranezze di cui parliamo quel concepimento del Goethe di ordire
la tragedia del Fausto con questa singolar legge che ogni scena fosse dettata
in metro diverso ed una altresì in nuda prosa, onde potesse affermarsi che
niuna maniera del verseggiare ed anzi dello scrivere umano (per quanto ne è
capace il tedesco idioma) mancasse a quel dramma ; nuova maniera e poco assai
naturale e graziosa di porgere idea e figura del panteismo. (II) Non può né
deve il poeta scompagnarsi mai troppo dalle opinioni e dai sentimenti comuni
dell'età sua; chè da questi principalmente è suscitato l'estro di lui, con
questi accende e innamora le moltitudini. D'ogni altro pensiero ed affetto, ove
li possieda e li senta egli solo, avrà pochi intenditori, pochissimi lodatori ;
e la favella delle Muse langue e muor sulle labbra se non suona ad orecchie
benevole e a cuori profondamente commossi. (VI) In Inghilterra il Milton
fierissimo repubblicano e segretario eloquente del gran Cromvello, à quasi
sempre poetato di cose mistiche e teologiche e nulla v'à di politico, nulla
d'inglese e di patrio, né nel Paradiso perduto, né in altri suoi canti. (VI)
Riuscirà sempre a gloria grande e invidiata d'Italia che la Gerusalemme del
Tasso compaja tanto più bella e mirabile quanto più in lei si contempla e
considera intentivamente la perfezione del tutto. (VII) Certo, il Valvasone è
meno forbito ed armonioso del Tansillo, meno fluido del Tasso seniore, meno
corretto, proprio e limato de' più corretti e limati rimatori toscani; ma non
per ciò si capisce come questa minor perfezione di forma, abbia potuto oscurare
nel giudicio de' raccoglitori e de' critici il gran merito dell'invenzione. Che
il Milton siasi giovato dell' Angeleide non so, quantunque fra i due poemi si
vengan trovando molti e singolari riscontri che non è facile a credere casuali;
ma questo io so bene che a rispetto della guerra degli angeli episodicamente
introdotta nel Paradiso perduto, il Valvasone non perde nulla ad esser letto
dopo l'Inglese e con quello essere paragonato; il che non avviene del sicuro né
per l' Adamo dell'Andreini né per la Strage degl'Innocenti del cavaliere
Marino, due componimenti che dicesi aver suggerito a Milton parecchi pensieri e
l'ideal grandezza del suo Lucifero. (VIII) L'ingegno poetico, in versificare
ciascuno di quei subbietti, tende a spiegare una novità, un' altezza e una
leggiadria suprema di concetto, di sentimento, di fantasia e di stile. Dove
mancasse l'una di tali eccellenze, l'arte sarebbe difettosa e quindi
increscevole. (IX) Ci venne osservato (cosa che per addietro non ben sapevamo)
la critica letteraria incominciata in Italia con Dante essere morta col Tasso e
gli amici suoi; e come cadde con quel mirabile intelletto la nostra primazia
nel ministero delle Muse, così venne meno la filosofia estetica; e il nuovo
dell' arte non fu capito, l'antico fu dalla pedanteria svisato e agghiadato.
L'arte critica antica ebbe ultimi promulgatori due grandi ingegni, il Muratori
e il Gravina. Della critica nata dipoi con le nuove speculazioni e con le nuove
forme di poesia, non conosciamo in Italia alcun degno scrittore e
rappresentatore. (X) Dopo Omero nessun poeta, per mio giudicio, può alzarsi a
competere con l'Alighieri, salvo Guglielmo Shakspeare, gloria massima
dell'Inghilterra. E per fermo, ne' drammi di lui l'animo e la vita umana vengon
ritratti così al vero e scandagliati e disaminati così nel profondo, che mai
nol saranno di più. Ma le condizioni peculiari della drammatica e l'indole
propria degl' ingegni settentrionali impedirono a Shakspeare di raggiungere
quella perfetta unione sì delle diverse materie poetiche e sì di tutte
l'eccellenze e prerogative onde facciamo discorso. E veramente nelle
composizioni sue la religione si mostra sol di lontano e molto di rado; e tra
le specie differenti e delicatissime d'amore ivi entro significate, manca
quella eccelsa e spiritualissima di cui si scaldò l'amante di Beatrice. (XI) Il
poeta è dall'ispirazione allacciato e padroneggiato sì forte, da non saper bene
sottomettersi all'arte ed alla meditazione. (XII) Il troppo incivilirsi dei
popoli aumentando di soverchio l'osservazione e la critica e affinandovisi
l'arte ogni giorno di più per effetto medesimo dell' esercizio e dell'
esperienza e per desiderio di novità, mena il poeta a scordar forse troppo
l'aurea semplicità degli antichi, il sincero aspetto della natura e i veri e
spontanei moti dell'animo. (XII) Il compiuto e l'ottimo della poesia consiste
in racchiudere dentro ai poemi con vaga e proporzionata unità di composizione
tutto quanto il visibile ed il pensabile umano per ciò che in ambedue è più
bello e più commovente. Consiste inoltre nel figurare e ritrarre cotesto
subbietto amplissimo e universale con la maggior novità e la maggiore sublimità
e leggiadria di concepimento, di fantasia, d'affetto e d'elocuzione che sia
fattibile di conseguire. Laonde poi il concepimento, così nel complesso come
nelle sentenze particolari, dee riuscir succoso, vario ed inaspettato e pieno
di recondita dottrina e saggezza; l'affetto dee correre, quanto è possibile,
per tutti i gradi e le differenze, e toccare il sommo della tenerezza e
commiserazione e il sommo della terribilità. (XIII) Il Tasso, anima pia e
generosa, ma in cui (non so dir come) nulla v'era di popolare. Quindi egli
s'infervorò della maestà teocratica dei pontefici e aderì alla nuova cavalleria
cortigiana e feudale; quindi pure accettò con zelo e con osservanza scrupolosa
l' ortodossia cattolica, e nella vita intellettuale quanto nella civile, fu
dall' autorità dei metodi e degli esempj signoreggiato. Da ciò prese nudrimento
e moto il divino estro suo e uscirono le maraviglie della Gerusalemme (XIX) Nel
Tasso poi sono tutti i pregi e tutta quanta la luce e magnificenza della poesia
classica, e spiccano altresì in lui alcuni attributi speciali del genio
italiano in ordine al bello. In perpetuo si ammirerà nella Liberata ciò che
l'arte, i precetti, l'erudizione e la scienza possono fare, ajutati e avvivati
da una stupenda natura poetica. (XX) L'Ariosto significò la commedia umana
quale la veggiamo rappresentarsi nel mondo, laddove Dante fece primo subbietto
suo il soprammondano, e in esso figurò e simboleggiò le cose terrene. E come il
gran Fiorentino nelle fogge variatissime de' tormenti e delle espiazioni
dipinse i variatissimi aspetti delle indoli e delle passioni, il simile
adempiva l'Ariosto sotto il velo dei portenti magici e delle strane avventure.
Ma certo qual narrazione di fatti umani riuscirà più vasta, più immaginosa e
più moltiforme di quella dell' Orlando furioso? Quivi sono guerre tra più
nazioni, nascimenti e ruine di molti regni, conflitto sanguinoso di religione e
di culto, infinita diversità e singolarità di costumi, e tutto il Ponente e il
Levante offrono larga scena e strepitoso teatro a cotali imprese e catastrofi.
Quivi sono dipinte la vita privata e la pubblica, le corti e le capanne, i
castelli ed i romitaggi; quivi s'intrecciano gradevolmente la cronica, la
novella e la storia, e ciò che il dramma à di patetico, l'epopeia di maestoso,
il romanzo di fantastico. (XXI) Non credo che in veruna straniera letteratura
possa come nella nostra volgare annoverarsi una sequela così sterminata di
poemi eroici e di romanzeschi, parecchj de' quali brillerebbero di gran luce,
ove fossero soli e non li soverchiasse la troppa chiarezza di Dante,
dell'Ariosto e del Tasso. Né reputo presontuoso il dire che, per esempio, la
Croce racquistata del Bracciolini o il Conquisto di Granata di Girolamo
Graziane sostengono bene assai il paragone o con l'Araucana dell' Ercilla o coi
medesimi Lusiadi [di Luís Vaz de Camões] ai quali ànno accresciuta non poca
fama le sventure e le virtù del poeta ; e per simile, io giudico che l' Amadigi
del Tasso il vecchio o l'Orlando innamorato del Berni, non temono di gareggiare
con la Regina Fata di Spenser e con quanto di meglio in tal genere ànno
prodotto l'altre nazioni. Ma non è da tacere che in quasi tutti questi nostri
poemi riconoscesi agevolmente l'uno o l'altro dei tipi che nel Furioso e nella
Gerusalemme ricevettero perfezione, ed a cui poca giunta di novità e poche
profonde mutazioni si fecero dagl'ingegni posteriori; e ne' poemi eroici
singolarmente a niuno è riuscito di ben cantare i difetti del Tasso, molti in
quel cambio li esagerarono. (XXII) Scusabile mi si fa il Marino e scusabili
gl'Italiani, quand'io considero lo stato di lor nazione sotto il crudele
dominio degli Spagnuoli, e fieramente mi sdegno con questi medesimi che nella
patria loro ancor sì potente e sì fortunata, plaudivano a que' delirj e
incensavano il Gongora, meno ingegnoso assai del Marino e di lui più strano e
affettato. In fine, gioverà il ricordare che all'Italia serva, scaduta e
dilapidata, rimaneva pur tanto ancora di prevalenza intellettuale appresso
l'altre nazioni che de' trionfi più insigni e delle lodi più sperticate del
cavalier Marino furono autori i Francesi ; e per lungo tempo assai nessuno de'
lor poeti seppe al tutto purgarsi della letteraria corruzione venuta d'oltre
Alpe ; testimonio lo stesso Cornelio, alto e robustissimo ingegno, ma nel cui
stile nondimeno avria dovuto il Boileau ritrovare assai spesso di quel medesimo
talco del quale parevangli luccicare i versi del Tasso. (XXIII) Dal Marino
incominciò a propagarsi nel mondo una poesia fantastica e meramente
coloritrice, la quale cerca l'arte solo per l'arte, fassi specchio indifferente
al falso ed al vero, alle cose buone ed alle malvage, alle vane e giocose come
alle grandi e instruttive; sente tutti gli affetti e nessuno con profondità, e
nell'essere suo naturale od abituale, canta di Adone, come di Erode e così
delle favole greche come delle bibliche narrazioni. (XXIV) [Dal cinquecento al
secolo XVII] [...] Fiorirono in tale intervallo tre ingegni eminenti che forse
mantennero alla lirica nostra una spiccata maggioranza su quella d'altre
nazioni. Ognuno, io penso, à nominato ad una con me il Chiabrera, il Filicaja
ed il Guidi. (XXV) Dal solo Chiabrera fu l'Italia regalata di tre nuove corone
poetiche ; mercechè veramente nelle sue mani nacque e grandeggiò prima la
canzone pindarica, poi la canzone anacreontica e infine il sermone oraziano ;
né mal s' apporrebbe colui che attribuisse al Chiabrera eziandio la
rinnovazione del Ditirambo. (XXV) Il Filicaja venne a tempi ancora più
disavventurati, e quando più non era possibile discoprire ne' suoi Fiorentini
un segno e un vestigio pure dell'antica fierezza repubblicana. Ma il senso del
bene morale e la pietà religiosa fervevano così profondi nell'animo suo che
bastarono a farlo poeta. (XXVI) Mai né in questa nostra patria, né fuori sonosi
udite canzoni così ben temperate di splendore pindarico e di maestà scritturale
come quelle del Filicaja. (XXVI) Nel Guidi allato a concetti ed a sentimenti
spesso comuni e rettorici, splende una forma non superabile di novità, di
bellezza e magnificenza. (XXVI) Certo, se ad Alessandro Guidi fosse toccato di
vivere in seno di una nazione forte e gloriosa, non ostante la poca fecondità e
vastità di pensieri, io non so bene a qual grado di eccellenza non sarebbe
salita la lirica sua; perché costui propriamente sortì da natura Yos magna
sonaturum, e ce ne porge sicura caparra la sua canzone alla Fortuna. (XXVI) A
me sonerà sempre caro ed insigne il nome di Alfonso Varano, perché da lui
segnatamente, a quello che io giudico, s'iniziò il corso della poesia moderna
italiana ; e forse la patria non gli si mostra ricordevole e grata quanto
dovrebbe. (XXVIII) Chi trovasse non poca similitudine tra la mente del Varano e
quella del Young, credo che male non si apporrebbe. Anime pie e stoiche
ambidue, e dischiuse non pertanto agli affetti gentili, diffondono ne' lor
versi un religioso terrore e un' ascetica melanconia che nell'Inglese riescono
cupi, inconsolati e monotoni, e nell'Italiano s'allegrano spesso alla vista del
nostro bel sole, e dai pensieri del sepolcro volano con gran fede alla pace e
serenità della gloria immortale. (XXVIII) Varano poi insieme col Gozzi restituì
alla Divina Commedia il debito culto; il Gozzi con li scritti polemici, egli
con la virtù dell' esempio; ed ebbe arbitrio di dire a Dante ciò che questi a
Virgilio : Tu séi lo mio maestro e il mio autore. Se non che il cantore delle
Visioni chiuse e conchiuse l'intero universo nel sentimento della pietà e nei
misteri del dogma, e non ben seppe imitare del suo modello la nervosa brevità e
parsimonia, la varietà inesauribile e la peregrina eleganza.
(XXVIII) Citazioni su Terenzio Mamiani Se taluno dei suoi piuttosto
scarsi scolari volle talora celebrare nel conte Terenzio Mamiani della Rovere
(1799-1885) l'ultimo anello della catena che dal Galluppi si continuò in
Rosmini e Gioberti, unanime fu il consenso dei suoi maggiori contemporanei e
dei posteri nell'affermare il valore pressoché nullo della sua vasta produzione
filosofica. (Eugenio Garin) Candido Mamini La teoria del Rosmini fu più
scolastica, quella del Mamiani più civile; quella quasi sterile in politica,
questa molto feconda, risolvendo i problemi più ardui e interessanti della vita
sociale. Quella fu timida, questa coraggiosa; quella arrivò a rifiutare sul
terreno pratico le-conseguenze de' suoi principii per un pregiudizioso rispetto
di casta non evitando il disonore di una ritirata e la deformità del sofisma;
questa per lo contrario tutta intrepida si sostenne colla gloria di una
vittoria, colla dignità di una rigorosa coerenza, e colla bellezza di una vera
argomentazione. Rosmini in un bel momento di sua ragione scrive stupende pagine
sulla riforma del clero; poi ha la debolezza di ritirarle, impaurito dalle
minaccia dell'Indice; Mamiani è oggi quel che era ne' primi giorni della sua
vita pubblica, e non sa temere altro autorevole indice che quello del buon
senso. Nel suo ultimo libro, intitolalo Di un nuovo diritto europeo, si ammira
il coraggio della coscienza di un filosofo, e la prudenza d'un uomo di Stato.
Riguardo poi ai pregi della forma, Rosmini fu semplicemente filosofo, Mamiani
un filosofo-oratore; nel primo spicca la pura meditazione, nel secondo si
unisce il genio che feconda il deserto delle speculazioni metafisiche, delle
avanzate astrazioni. Nel primo vi ha una ricchezza povera, cioè una
stiracchiatura di poche idee in molte parole, quasi diffidi della memoria, e
dell'abilità del lettore; nel secondo vi ha una povertà ricca, cioè molte idee
in poche parole; il che appaga l'amor proprio del lettore, e ne fa liete tutte
le potenze della ritentiva e della ragione. Bibliografia Terenzio Mamiani,
Antonio Oroboni alla sua fidanzata, da un libro anonimo del 1929. Terenzio
Mamiani, D'un nuovo diritto europeo, Tipografia Scolastica, Torino, 1861.
Terenzio Mamiani, Dell'ottima congregazione umana e del principio di
nazionalità, Rivista contemporanea, vol. 2-3, Pelazza Tipografia Subalpina,
Torino, 1855. Terenzio Mamiani, Mario Pagano, ovvero, della immortalità, Dai
Torchi della Signora De Lacombe, Parigi, 1845. Terenzio Mamiani, Prose
letterarie, G. Barbera Editore, Firenze, 1867. Altri progetti Collabora a
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italiani. Refs.: Luigi Speranza,
"Grice e della Rovere," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Rucellai Orazio Ricasoli
Rucellai Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to
search Orazio Ricasoli Rucellai Orazio
Ricasoli Rucellai (Firenze, 23 aprile 1604 – Firenze, 6 febbraio 1673) è stato
un letterato, filosofo e scienziato italiano.
Stemma Rucellai Indice 1 Biografia 2 Opere 3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Fu il Rucellai discepolo di Galileo e in certa guisa il
depositario e spositore delle opinioni metafìsiche professate dal suo
maestro.[1] Di più: Quell'Orazio Ricasoli Rucellai in cui la scuola di Galileo
ebbe uno dei maggiori lumi.[2] Rucellai
affermava di essere amico e confidente di Galileo Galilei ma ciò non
corrisponde al vero. In verità si erano incontrati solo una volta quando era
stato suo ospite, con altri, nella villa di Arcetri[3]. Men che meno era stato
suo studente. Quanto poi alla metafisica di Galileo, i Dialoghi Filosofici parlano
da soli. Quando cominciò a comporre i
Dialoghi a Firenze presero persino a chiamarlo "il nostro sapientissimo
Socrate". Ma anche questa era una bufala. Il fatto è che Rucellai, ogni
volta che componeva un dialogo, amava recitarlo a casa sua davanti a un
pubblico scelto di personaggi del bel mondo fiorentino. Che a casa
Ricasoli-Rucellai, una delle più ricche di Firenze, mangiavano e bevevano
gratis[4]. Quindi più dialoghi recitava, più si gozzovigliava: per questo lo
incitavano a continuare. La verità è che
Orazio Rucellai, in filosofia, non volle, non seguitò la ragione; chiudendo gli
occhi alla scienza, in qualunque punto, non dice nero né bianco[5]. Altro che
discepolo di Galileo anche se a Firenze, a questa panzana, ci credevano in
molti. Non è un caso dunque se i
Dialoghi furono pubblicati per la prima volta solo nel 1823 e non per meriti
filosofici ma soltanto linguistici. Tali dialoghi vengon citati dal vocabolario
della Crusca ed ottimo avviso sarebbe stato il farne spoglio abbondante perché
la loro favella è veramente d'oro e, se lo stile procede talvolta prolisso, è
sempre chiarissimo ed elegante e à [sic] gran ricchezza di voci e frasi
convenienti agli studj speculativi[6].
Forse è proprio per la sua grande abilità nel farsi credere che, nel Granducato,
la sua stella sembro' non tramontare mai. Nel 1634 fu ambasciatore toscano
prima presso Ladislao IV di Polonia e poi alla corte dell'imperatore Ferdinando
III. Nel 1657 venne nominato soprintendente della Biblioteca Laurenziana,
successivamente gli fu affidata la direzione degli studi del principe Francesco
Maria, e infine, il 27 settembre 1667, fu acclamato Priore dell'Accademia della
Crusca con lo pseudonimo di Imperfetto. Strano perché lui, invece, era un
perfetto: un perfetto bugiardo. Opere In
ordine di prima pubblicazione:
Descrizione della presa d'Argo e de gli amori di Linceo con Hipermestra,
1658 Opuscoli inediti di celebri autori toscani, 1807 Prose e rime inedite
d'Orazio Rucellai a cura di Tommaso Buonaventura, 1822 Saggio dei dialoghi
filosofici d'Orazio Rucellai: testo di lingua; inedito, 1823 Saggio di lettere
d'Orazio Rucellai a cura di Anton Maria Salvini, 1826 Degli officii per la
società umana; dialogo filosofico inedito d'Orazio Rucellai, 1848 Della
provvidenza: dialoghi filosofici, 1868 Della morale; dialogo filosofico inedito
d'Orazio Ricasoli-Rucellai, 1849 Prose e rime inedite d'Orazio Rucellai a cura
di Tommaso Buonaventura, 1822 Note ^ Terenzio Mamiani della Rovere, Dialoghi di
scienza prima, Parigi, 1846, Vol. I, pag. 128 ^ Cesare Guasti, I dialoghi di
Torquato Tasso, Firenze, 1858, Vol. I, pag. 60. ^ Antonio Maria Salvini, Saggio
di lettere d'Orazio Rvcellai e di testimonianze autorevoli in lode e difesa
dell'Accademia della Crusca, Firenze, 1826, pag. 72 ^ Antonio Maria Salvini,
cit. pag. 70 ^ Rivista universale: pubblicazione periodica, Vol. 18, Firenze,
1873, Pag. 371 ^ Terenzio Mamiani della Rovere, cit. Vol. I, pag. 128
Bibliografia Giovan Battista Clemente Nelli, Vita e commercio letterario di
Galileo Galilei, Losanna, 1793 Augusto Alfani, Della Vita E Degli Scritti Di
Orazio Ricasoli Rucellai: Studio Critico, Firenze, 1872 Terenzio Mamiani della
Rovere, Dialoghi di scienza prima, Parigi, 1846 Cesare Guasti, I dialoghi di
Torquato Tasso, Firenze, 1858 Antonio Maria Salvini, Saggio di lettere d'Orazio
Rvcellai e di testimonianze autorevoli in lode e difesa dell'Accademia della
Crusca, Firenze, 1826 Rivista universale: pubblicazione periodica, Vol. 18,
Firenze, 1873 Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena,
1796, Vol. VIII Voci correlate Galileo Galilei Altri progetti Collabora a
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su Orazio Ricasoli Rucellai Collegamenti esterni Orazio Ricasoli Rucellai, su
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47111431 · ISNI (EN) 0000 0000 6142 5601 · LCCN (EN) n97875096 · ULAN (EN)
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Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale
Letteratura Categorie: Letterati italianiFilosofi italiani del XVII
secoloScienziati italianiNati nel 1604Morti nel 1673Nati il 23 aprileMorti il 6
febbraioNati a FirenzeMorti a FirenzeRucellai[altre]
Ruffolo Nicola
Ruffolo Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Nicola Ruffolo (Cosenza, 2 aprile 1914 – Roma, 31 gennaio 1995) è stato un
notaio, scrittore e filosofo italiano. Nipote del pianista e compositore
Alfonso Rendano e fratello del designer Sergio Ruffolo e dell'economista e uomo
politico Giorgio Ruffolo. Indice 1 Biografia
2 Opere
Letterarie 3 Premi
e riconoscimenti 4 Note
Biografia Tornato a Roma nel 1942 dal fronte della Campagna Greco-Albanese
della Seconda Guerra pluridecorato con 4 medaglie al valore per diverse
intrepide azioni contro il nemico, in cui venne ferito con arma da fuoco
trapassante il petto, organizzò in seno al Ministero dell'Interno una cellula
di resistenza partigiana, che gli valse l'attestazione di Partigiano
combattente e una medaglia di bronzo al valore Partigiano. Per via della
delazione di un componente del gruppo di Resistenza del fratello Sergio, fu
arrestato insieme al fratello, all'alba dell'8 maggio dalla Banda
Pollastrini-Koch e incarcerato dapprima alla Pensione Jaccarino in via Romagna,
poi trasferito verso metà maggio 1944, in Regina Coeli insieme al fratello
Sergio, dove ebbero a condividere la cella con Pintor e Salinari discutendo del
dopo liberazione. Trasferito sempre insieme al fratello Sergio, a via
Tasso fu interrogato da Herbert Kappler e separato dal fratello. L'iniziale
sentenza di morte venne commutata in deportazione. La mattina del 4 giugno,
qualche ora prima dell'ingresso degli alleati in Roma, all'abbandono di Roma da
parte dei Tedeschi, fu fatto uscire dal carcere insieme a un centinaio di
prigionieri, per essere avviato su uno dei 3 torpedoni in attesa a Piazza San
Giovanni per essere deportato in Germania. Il quarto torpedone fu invece quello
destinato all'eccidio di La Storta dove venne ucciso Bruno Buozzi. A questo
proposito riferisce nel suo resconto, che quella mattina del 4 giugno, le SS
gli impedirono il suo proposito di salire proprio su quel 4° torpedone,
scostato dagli altri, avvalorando la tesi che l'eccidio era premeditato e non
una reazione impulsiva del comandante. Quindi costretto a salire su uno dei
restanti 3 torpedoni, Nicola Ruffolo si gettò da uno di essi, mentre il
convoglio era in marcia, nella notte tra il 4 e il 5 giugno. Riuscì a far
perdere le tracce e a liberarsi nonostante le SS avessero fermato il convoglio
e lo avessero inseguito nella campagna nei pressi di Ficulle . Di tale
arresto e prigionia è dato conto in un suo racconto "Roma 1944 , storia
della mia cattura e fuga dalle SS" pubblicato nel 2014 su ilmiolibro.it a
cura del figlio Andrea Ruffolo. Al termine della guerra, avviò la
carriera di Notaio a Grosseto. Fu uomo colto, conversatore brillante con
battute spesso umoristiche. Nell'estate 1958 fu operato alle corde vocali per
un tumore e si trasferì con la famiglia a Roma. Nel 1972 in occasione
della trasmissione RAI "Testimoni oculari" di Sergio Zavoli, circa la
detenzione a Via Tasso, venne intervistato il fratello Sergio. La sua
condizione di laringectomizzato per il tumore alle corde vocali, fu probabile
causa della mancata intervista. Tuttavia egli non è citato nella
trasmissione, in quanto il fratello Sergio omise di nominarlo nell'intervista,
causando uno spiacevole dissapore familiare, tenuto conto delle drammatiche e
indimenticabili circostanze di quei momenti vissuti insieme. Fu amico e
intrattenne corrispondenza tra gli altri, con Ruggero Orlando, Carlo Levi,
Ludovico Ragghianti, Iolena Baldini (giornalista di Paese Sera come Berenice),
Antonello Trombadori, Franca Valeri, Marcello Morante ( fratello di Elsa),
Carlo Cassola, il giornalista dell'Unità Mario Melloni ( Fortebraccio) per idee
e per la comune patologia tumorale, Antonio del Guercio, Angelo Maria
Ripellino, Francesco Gabrielli, Mario Rigoni Stern. Notevole la mole dei
suoi scritti rimasti inediti e il cui interesse di pensiero, investe gli
argomenti più disparati . Nicola Ruffolo è stato uno scrittore e filosofo
italiano, vincitore del premio Presidenza del Consiglio dei Ministri 1978 con
l'opera poetico filosofica 'La Cosmologica'. Fondatore del pensiero
metafisico possibilista basato sulle nuove teorie della relatività generale di
Albert Einstein e della fisica dei quanti di Niels Bohr. Tra le sue opere
letterarie pubblicate: "America... come pretesto" con la prefazione
di Ruggero Orlando, "Il possibilismo" con la prefazione di Walter
Mauro, "Guazzabuglio" con prefazione dell'orientalista Francesco
Gabrieli e illustrazioni di Andrea Ruffolo. Opere Letterarie Quadri di
una esposizione, Roma, Barone 1972 Cosmologica, Roma, A. Signorelli, 1977
Guazzabuglio, Roma, Remo Croce 1982 Il possibilismo: suggerimento filosofico
eutimistico-terapeutico, Roma, C. Mancosu 1991 Oltre le ali di Icaro, Roma, C.
Mancosu 1991 America... come pretesto, Roma, Il ventaglio 1993 Roma 1944:
storia della mia cattura e fuga dai nazisti, ilmiolibro, 2012, ristampato da
Feltrinelli nel 2014 con revisione a cura di Andrea Ruffolo[1] Premi e
riconoscimenti 1978 - premio Nazionale Presidenza del Consiglio dei Ministri
con l'opera poetico filosofica La Cosmologica Note ^ Roma 1944. Storia della
mia cattura e fuga | LaFeltrinelli. URL consultato il 2 novembre 2016.
Categorie: Notai italianiScrittori italiani del XX secoloFilosofi italiani del
XX secoloNati nel 1914Morti nel 1995Nati il 2 aprileMorti il 31 gennaioNati a
CosenzaMorti a Roma[altre]
Ruggiero Guido De
Ruggiero Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Guido De Ruggiero Guido De Ruggiero.jpg Ministro della Pubblica Istruzione del
Regno d'Italia Durata mandato 18
giugno 1944 – 10 dicembre 1944 Presidente Ivanoe
Bonomi Predecessore Adolfo
Omodeo Successore Vincenzo
Arangio Ruiz Deputato della Consulta Nazionale Italiana Durata mandato 25 settembre 1945 – 25 giugno
1945 Legislature Consulta
nazionale Sito istituzionale Dati generali Partito politico Partito d'Azione
Professione Docente
universitario Guido De Ruggiero (Napoli, 23 marzo 1888 – Roma, 29 dicembre
1948) è stato uno storico della filosofia, professore universitario e politico
italiano. Indice 1 Biografia 2 Opere
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Figlio di Eugenio De Ruggiero e di Filomena d'Aiello, si
laureò nel 1910 in giurisprudenza all'Università di Napoli. Egli era
particolarmente versato per gli studi filosofici e poté collaborare in riviste
specializzate come «La Cultura», la «Rivista di filosofia» e «La Critica» di
Benedetto Croce, il quale favorì la pubblicazione, nel 1912, del suo primo
lavoro d'impegno, La filosofia contemporanea.
Collaboratore del Resto del Carlino di Mario Missiroli e della «Voce» di
Giuseppe Prezzolini, nel 1914 pubblicò in volume la Critica del concetto di
cultura, cui Croce rimproverò la mancata distinzione tra cultura e falsa
cultura.[1] In filosofia, De Ruggiero fu sempre idealista, senza aderire né
allo storicismo crociano né all'attualismo di Gentile, e in politica fu
liberale, pur non risparmiando critiche alla classe politica espressa dal
Partito liberale. De Ruggiero tenne
l'insegnamento di storia della filosofia prima presso l'Università di Messina
(dal 1923), quindi presso la facoltà di magistero della Università di Roma (dal
1925). Avendo aderito all'idealismo con
Giovanni Gentile e Benedetto Croce, la sua rivendicazione insieme a
quest'ultimo dei valori del liberalismo lo rese un esponente di spicco
dell'opposizione al fascismo nell'ambito intellettuale. Nel novembre del 1924
aderì all'Unione Nazionale di Giovanni Amendola; nel 1925 fu tra i firmatari
del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce. Per
non perdere la cattedra universitaria, nel 1931 prestò il giuramento di fedeltà
al fascismo[2] ma ciò non gli impedì di essere destituito dall'insegnamento
alcuni anni dopo (1942) e poi arrestato. Fu liberato alla caduta del fascismo
(luglio 1943). In seguito fu rettore
dell'Università di Roma dal 1943 al 1944. Il suo impegno politico si manifestò
nel Partito d'Azione, del quale fu tra i primi ad aderire. Ricoprì l'incarico
di Ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Bonomi II (1944) e
successivamente fu nominato deputato della Consulta Nazionale (giugno-settembre
1945). Fu autore, tra le altre opere, di
una imponente Storia della filosofia in 13 volumi, pubblicata tra il 1918 e il
1948, e di una Storia del liberalismo europeo pubblicata nel 1925, entrambe
presso Laterza. È stato anche presidente
generale del Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani (CNGEI). In seguito alla sua morte avvenuta a Roma, il
29 dicembre 1948, le spoglie mortali furono portate e tuttora riposano nella
cappella gentilizia di Brusciano (Napoli), luogo d'origine della famiglia De
Ruggiero, sulla sua tomba è ancora possibile leggere l'epitaffio scritto da
Benedetto Croce: «Dalla cattedra e con
gli scritti indagò nella storia del pensiero la potenza di libertà costruttrice
del mondo degli uomini, e, auspicando in tempi oscuri il ritorno alla ragione
fu alle nuove generazioni d'Italia maestro ed apostolo di fede nell'umanità.» Opere Storia della filosofia. Parte I. La
filosofia greca', voll. I-II, Bari, Laterza, 1918 Storia della filosofia. Parte
II. La filosofia del Cristianesimo, voll. I-II-III, Bari, Laterza, 1920 Storia
della filosofia. Parte III. Rinascimento, riforma e controriforma, voll. I-II,
Bari, Laterza, 1930 Storia della filosofia, Parte IV. La filosofia moderna.,
vol. I: L'età cartesiana, Bari, Laterza, 1933 Storia della filosofia, Parte IV.
La filosofia moderna., vol. II: L'età dell'Illuminismo, Bari, Laterza, 1939
Storia della filosofia, Parte IV. La filosofia moderna., vol. III: Da Vico a
Kant, Bari, Laterza, 1941 Storia della filosofia, Parte IV. La filosofia
moderna., vol. IV: L'età del Romanticismo, Bari, Laterza, 1943 Storia della
filosofia. Parte IV. La filosofia moderna, vol. V, Hegel, Bari, Laterza, 1947
La filosofia contemporanea, Bari, Laterza, 1912 Critica del concetto di
cultura, Catania, Battiato, 1914 La filosofia contemporanea, 2 voll., 2ª
edizione, Bari, Laterza, 1920 Il pensiero politico meridionale nel secolo XVIII
e XIX, Bari, Laterza, 1921 L'impero britannico dopo la guerra, Firenze,
Vallecchi, 1921 Storia del liberalismo europeo, Bari, Laterza, 1925 La
filosofia contemporanea, 2 voll., 3ª edizione, Bari, Laterza, 1929 Filosofi del
Novecento, Bari, Laterza, 1934 L'esistenzialismo, Bari, Laterza, 1942 Scritti
politici, 1912-1926, a cura di R. De Felice, Bologna, Cappelli, 1963 Lezioni
sulla libertà, a cura di F. Mancuso, Napoli, Guida Editore, 2007 ISBN
978-88-6042-281-1 Carteggio Croce-De Ruggiero, a cura di A. Schinaia e N.
Ruggiero, Bologna, Il Mulino, 2009 ISBN 978-88-15-12860-7 Note ^ B. Croce, La
Critica, 12, 1914, p. 312. ^ Simonetta Fiori, I professori che dissero
"NO" al Duce, in La Repubblica, 16 aprile 2000. URL consultato il 18
febbraio 2016. Bibliografia Clementina Gily Reda, Guido De Ruggiero: un
ritratto filosofico, Napoli, Società editrice napoletana, 1981 Maria Luisa
Cicalese, L'impegno di un liberale. Guido De Ruggiero tra filosofia e politica,
Firenze, Le Monnier, 2007 ISBN 880084149X Voci correlate Deputati della
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di Guido De Ruggiero, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata
(EN) Opere di Guido De Ruggiero, su Open Library, Internet Archive. Modifica su
Wikidata Guido De Ruggiero, su storia.camera.it, Camera dei deputati. Modifica
su Wikidata M. Griffo, Guido De Ruggiero, la coscienza critica del liberalismo,
su loccidentale.it. URL consultato l'11 maggio 2011 (archiviato dall'url
originale il 4 marzo 2016). V. Sgambati, Guido de Ruggiero tra pensiero e
azione, tra ethos e pathos, su lacropoli.it. URL consultato l'11 maggio 2011
(archiviato dall'url originale il 4 marzo 2016). Predecessore Rettore dell'Università "La
Sapienza" Successore Sapienza
stemma.png Pietro De Francisci 1943
- 1944 Giuseppe
Carania
V · D · M Giovanni Gentile Controllo di autorità VIAF (EN) 120694790 · ISNI (EN) 0000
0001 0939 7081 · SBN IT\ICCU\CFIV\054605 · LCCN (EN) n50052067 · GND (DE)
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495/71688 · WorldCat Identities (EN) lccn-n50052067 Biografie Portale Biografie
Filosofia Portale Filosofia Storia Portale Storia Categorie: Nati nel 1888Morti
nel 1948Nati il 23 marzoMorti il 29 dicembreNati a NapoliMorti a
RomaAntifascisti italianiFilosofi italiani del XX secoloPolitici del Partito
d'AzioneRettori della SapienzaMinistri della pubblica istruzione del Regno
d'ItaliaDeputati della Consulta nazionaleGoverno Bonomi II[altre]
rule of law, the largely formal or procedural
properties of a well-ordered legal system. Commonly, these properties are
thought to include: a prohibition of arbitrary power the lawgiver is also
subject to the laws; laws that are general, prospective, clear, and consistent
capable of guiding conduct; and tribunals courts that are reasonably accessible
and fairly structured to hear and determine legal claims. Contemporary
discussions of the rule of law focus on two major questions: 1 to what extent
is conformity to the rule of law essential to the very idea of a legal system;
and 2 what is the connection between the rule of law and the substantive moral
value of a legal system?
Russell: “not really a philosopher,” as Grice puts it,
by either education or practice, he was born of Celtic Highland stock into an
aristocratic family in Wales (then part of England), Russell always divided his
interests between politics, philosophy, and the ladies (he married six times). Orphaned
at four, he was brought up by his grandmother, who educated him at home with
the help of “rather dull” tutors. He studied mathematics at Cambridge and then,
as his grandmother says, ‘out of the blue,’ he turned to philosophy. At home he
had absorbed J. S. Mill’s liberalism, but not his empiricism. At Cambridge he
came under the influence of neo-Hegelianism, especially the idealism of
McTaggart, Ward his tutor, and Bradley. His earliest logical views were
influenced most by Bradley, especially Bradley’s rejection of psychologism.
But, like Ward and McTaggart, he rejected Bradley’s metaphysical monism in
favor of pluralism or monadism. Even as an idealist, he held that scientific
knowledge was the best available and that philosophy should be built around it.
Through many subsequent changes, this belief about science, his pluralism, and
his anti-psychologism remained constant. In 5, he conceived the idea of an
idealist encyclopedia of the sciences to be developed by the use of
transcendental arguments to establish the conditions under which the special
sciences are possible. Russell’s first philosophical book, An Essay on the
Foundations of Geometry 7, was part of this project, as were other mostly
unfinished and unpublished pieces on physics and arithmetic written at this
time see his Collected Papers, vols. 12. Russell claimed, in contrast to Kant,
to use transcendental arguments in a purely logical way compatible with his
anti-psychologism. In this case, however, it should be both possible and
preferable to replace them by purely deductive arguments. Another problem arose
in connection with asymmetrical relations, which led to contradictions if
treated as internal relations, but which were essential for any treatment of
mathematics. Russell resolved both problems in 8 by abandoning idealism
including internal relations and his Kantian methodology. He called this the
one real revolution in his philosophy. With his Cambridge contemporary Moore,
he adopted an extreme Platonic realism, fully stated in The Principles of
Mathematics 3 though anticipated in A Critical Exposition of the Philosophy of
Leibniz 0. Russell’s work on the sciences was by then concentrated on pure
mathematics, but the new philosophy yielded little progress until, in 0, he
discovered Peano’s symbolic logic, which offered hope that pure mathematics could
be treated without Kantian intuitions or transcendental arguments. On this
basis Russell propounded logicism, the claim that the whole of pure mathematics
could be derived deductively from logical principles, a position he came to
independently of Frege, who held a similar but more restricted view but whose
work Russell discovered only later. Logicism was announced in The Principles of
Mathematics; its development occupied Russell, in collaboration with Whitehead,
for the next ten years. Their results were published in Principia Mathematica
013, 3 vols., in which detailed derivations were given for Cantor’s set theory,
finite and transfinite arithmetic, and elementary parts of measure theory. As a
demonstration of Russell’s logicism, Principia depends upon much prior
arithmetization of mathematics, e.g. of analysis, which is not explicitly
treated. Even with these allowances much is still left out: e.g., abstract
algebra and statistics. Russell’s unpublished papers Papers, vols. 45, however,
contain logical innovations not included in Principia, e.g., anticipations of
Church’s lambda-calculus. On Russell’s extreme realism, everything that can be
referred to is a term that has being though not necessarily existence. The
combination of terms by means of a relation results in a complex term, which is
a proposition. Terms are neither linguistic nor psychological. The first task
of philosophy is the theoretical analysis of propositions into their
constituents. The propositions of logic are unique in that they remain true
when any of their terms apart from logical constants are replaced by any other
terms. In 1 Russell discovered that this position fell prey to self-referential
paradoxes. For example, if the combination of any number of terms is a new
term, the combination of all terms is a term distinct from any term. The most
famous such paradox is called Russell’s paradox. Russell’s solution was the
theory of types, which banned self-reference by stratifying terms and
expressions into complex hierarchies of disjoint subclasses. The expression
‘all terms’, e.g., is then meaningless unless restricted to terms of specified
types, and the combination of terms of a given type is a term of different
type. A simple version of the theory appeared in Principles of Mathematics
appendix A, but did not eliminate all the paradoxes. Russell developed a more
elaborate version that did, in “Mathematical Logic as Based on the Theory of
Types” 8 and in Principia. From 3 to 8 Russell sought to preserve his earlier
account of logic by finding other ways to avoid the paradoxes including a well-developed substitutional
theory of classes and relations posthumously published in Essays in Analysis,
4, and Papers, vol. 5. Other costs of type theory for Russell’s logicism
included the vastly increased complexity of the resulting sysRussell, Bertrand
Arthur William Russell, Bertrand Arthur William 802 802 tem and the admission of the
problematic axiom of reducibility. Two other difficulties with Russell’s
extreme realism had important consequences: 1 ‘I met Quine’ and ‘I met a man’
are different propositions, even when Quine is the man I met. In the
Principles, the first proposition contains a man, while the second contains a
denoting concept that denotes the man. Denoting concepts are like Fregean
senses; they are meanings and have denotations. When one occurs in a
proposition the proposition is not about the concept but its denotation. This
theory requires that there be some way in which a denoting concept, rather than
its denotation, can be denoted. After much effort, Russell concluded in “On
Denoting” 5 that this was impossible and eliminated denoting concepts as
intermediaries between denoting phrases and their denotations by means of his
theory of descriptions. Using firstorder predicate logic, Russell showed in a
broad, though not comprehensive range of cases how denoting phrases could be
eliminated in favor of predicates and quantified variables, for which logically
proper names could be substituted. These were names of objects of acquaintance represented in ordinary language by ‘this’
and ‘that’. Most names, he thought, were disguised definite descriptions.
Similar techniques were applied elsewhere to other kinds of expression e.g.
class names resulting in the more general theory of incomplete symbols. One
important consequence of this was that the ontological commitments of a theory
could be reduced by reformulating the theory to remove expressions that
apparently denoted problematic entities. 2 The theory of incomplete symbols
also helped solve extreme realism’s epistemic problems, namely how to account
for knowledge of terms that do not exist, and for the distinction between true
and false propositions. First, the theory explained how knowledge of a wide
range of items could be achieved by knowledge by acquaintance of a much
narrower range. Second, propositional expressions were treated as incomplete
symbols and eliminated in favor of their constituents and a propositional
attitude by Russell’s multiple relation theory of judgment. These innovations
marked the end of Russell’s extreme realism, though he remained a Platonist in
that he included universals among the objects of acquaintance. Russell referred
to all his philosophy after 8 as logical atomism, indicating thereby that
certain categories of items were taken as basic and items in other categories
were constructed from them by rigorous logical means. It depends therefore upon
reduction, which became a key concept in early analytic philosophy. Logical
atomism changed as Russell’s logic developed and as more philosophical
consequences were drawn from its application, but the label is now most often
applied to the modified realism Russell held from 5 to 9. Logic was central to
Russell’s philosophy from 0 onward, and much of his fertility and importance as
a philosopher came from his application of the new logic to old problems. In 0
Russell became a lecturer at Cambridge. There his interests turned to
epistemology. In writing a popular book, Problems of Philosophy 2, he first
came to appreciate the work of the British empiricists, especially Hume and
Berkeley. He held that empirical knowledge is based on direct acquaintance with
sense-data, and that matter itself, of which we have only knowledge by
description, is postulated as the best explanation of sense-data. He soon
became dissatisfied with this idea and proposed instead that matter be
logically constructed out of sensedata and unsensed sensibilia, thereby
obviating dubious inferences to material objects as the causes of sensations. This
proposal was inspired by the successful constructions of mathematical concepts
in Principia. He planned a large work, “Theory of Knowledge,” which was to use
the multiple relation theory to extend his account from acquaintance to belief
and inference Papers, vol. 7. However, the project was abandoned as incomplete
in the face of Vitters’s attacks on the multiple relation theory, and Russell
published only those portions dealing with acquaintance. The construction of
matter, however, went ahead, at least in outline, in Our Knowledge of the
External World 4, though the only detailed constructions were undertaken later
by Carnap. On Russell’s account, material objects are those series of
sensibilia that obey the laws of physics. Sensibilia of which a mind is aware
sense-data provide the experiential basis for that mind’s knowledge of the
physical world. This theory is similar, though not identical, to phenomenalism.
Russell saw the theory as an application of Ockham’s razor, by which postulated
entities were replaced by logical constructions. He devoted much time to
understanding modern physics, including relativity and quantum theory, and in
The Analysis of Matter 7 he incorporated the fundamental ideas of those
theories into his construction of the physical world. In this book he abandoned
sensibilia as fundamental constituents of the world in favor Russell, Bertrand
Arthur William Russell, Bertrand Arthur William 803 803 of events, which were “neutral” because
intrinsically neither physical nor mental. In 6 Russell was dismissed from
Cambridge on political grounds and from that time on had to earn his living by
writing and public lecturing. His popular lectures, “The Philosophy of Logical
Atomism” 8, were a result of this. These lectures form an interim work, looking
back on the logical achievements of 510 and emphasizing their importance for
philosophy, while taking stock of the problems raised by Vitters’s criticisms
of the multiple relation theory. In 9 Russell’s philosophy of mind underwent
substantial changes, partly in response to those criticisms. The changes
appeared in “On Propositions: What They Are and How They Mean” 9 and The
Analysis of Mind 1, where the influence of contemporary trends in psychology,
especially behaviorism, is evident. Russell gave up the view that minds are
among the fundamental constituents of the world, and adopted neutral monism,
already advocated by Mach, James, and the
New Realists. On Russell’s neutral monism, a mind is constituted by a
set of events related by subjective temporal relations simultaneity,
successiveness and by certain special “mnemic” causal laws. In this way he was
able to explain the apparent fact that “Hume’s inability to perceive himself
was not peculiar.” In place of the multiple relation theory Russell identified
the contents of beliefs with images “imagepropositions” and words
“word-propositions”, understood as certain sorts of events, and analyzed truth
qua correspondence in terms of resemblance and causal relations. From 8 to 4
Russell lived in the United States, where he wrote An Inquiry into Meaning and
Truth 0 and his popular A History of Western Philosophy 5. His philosophical
attention turned from metaphysics to epistemology and he continued to work in
this field after he returned in 4 to Cambridge, where he completed his last
major philosophical work, Human Knowledge: Its Scope and Limits 8. The
framework of Russell’s early epistemology consisted of an analysis of knowledge
in terms of justified true belief though it has been suggested that he
unintentionally anticipated Edmund Gettier’s objection to this analysis, and an
analysis of epistemic justification that combined fallibilism with a weak
empiricism and with a foundationalism that made room for coherence. This
framework was retained in An Inquiry and Human Knowledge, but there were two
sorts of changes that attenuated the foundationalist and empiricist elements
and accentuated the fallibilist element. First, the scope of human knowledge
was reduced. Russell had already replaced his earlier Moorean consequentialism
about values with subjectivism. Contrast “The Elements of Ethics,” 0, with,
e.g., Religion and Science, 5, or Human Society in Ethics and Politics, 4.
Consequently, what had been construed as self-evident judgments of intrinsic value
came to be regarded as non-cognitive expressions of desire. In addition,
Russell now reversed his earlier belief that deductive inference can yield new
knowledge. Second, the degree of justification attainable in human knowledge
was reduced at all levels. Regarding the foundation of perceptual beliefs,
Russell came to admit that the object-knowledge “acquaintance with a
sensedatum” was replaced by “noticing a perceptive occurrence” in An Inquiry
that provides the non-inferential justification for a perceptual belief is
buried under layers of “interpretation” and unconscious inference in even the
earliest stages of perceptual processes. Regarding the superstructure of
inferentially justified beliefs, Russell concluded in Human Knowledge that
unrestricted induction is not generally truthpreserving anticipating Goodman’s
“new riddle of induction”. Consideration of the work of Reichenbach and Keynes
on probability led him to the conclusion that certain “postulates” are needed
“to provide the antecedent probabilities required to justify inductions,” and
that the only possible justification for believing these postulates lies, not
in their self-evidence, but in the resultant increase in the overall coherence
of one’s total belief system. In the end, Russell’s desire for certainty went
unsatisfied, as he felt himself forced to the conclusion that “all human
knowledge is uncertain, inexact, and partial. To this doctrine we have not
found any limitation whatever.” Russell’s strictly philosophical writings of 9
and later have generally been less influential than his earlier writings. His
influence was eclipsed by that of logical positivism and ordinary language
philosophy. He approved of the logical positivists’ respect for logic and
science, though he disagreed with their metaphysical agnosticism. But his
dislike of ordinary language philosophy was visceral. In My Philosophical
Development 9, he accused its practitioners of abandoning the attempt to
understand the world, “that grave and important task which philosophy
throughout the ages has hitherto pursued.”
RECTVM
-- DE-RECTUM -- directum. “Searle thought he
was being witty when adapting my implicaturum to what he called an Indirect
Austinian thing. Holdcroft was less obvious!” – Grice. – indirectum -- indirect
discourse, also called oratio obliqua, the use of words to report what others
say, but without direct quotation. When one says “John said, ‘Not every doctor
is honest,’ “ one uses the words in one’s quotation directly – one uses direct
discourseto make an assertion about what John said. Accurate direct discourse
must get the exact words. But in indirect discourse one can use other words
than John does to report what he said, e.g., “John said that some physicians
are not honest.” The words quoted here capture the sense of John’s assertion
(the proposition he asserted). By extension, ‘indirect discourse’ designates
the use of words in reporting beliefs. One uses words to characterize the
proposition believed rather than to make a direct assertion. When Alice says,
“John believes that some doctors are not honest,” she uses the words ‘some
doctors are not honest’ to present the proposition that John believes. She does
not assert the proposition. By contrast, direct discourse, also called oratio
recta, is the ordinary use of words to make assertions. Grice struggled for
years as to what the ‘fundamentum distinctionis’ is between the central and the
peripheric communicatum. He played with first-ground versus second-ground. He
played with two different crtieria: formal/material, and dictive-non-dictive.
Refs.: H. P. Grice, “Holdcroft on direct and indirect communication.”
Rusca Pietro
Martire Rusca (1615-1674) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando
il teologo domenicano, vedi Pietro Martire Rusca (1480-1578). Pietro Martire
Rusca, O.F.M.Conv. vescovo della Chiesa cattolica Template-Bishop.svg
Incarichi ricoperti Vescovo
di Caorle (1656-1674) Nato 1615
circa a Venezia Nominato vescovo 10
gennaio 1656 da papa Alessandro VII Consacrato vescovo 20 febbraio 1656 dal cardinale Marcantonio
Bragadin Deceduto 29
aprile 1674 a Venezia Manuale Pietro Martire Rusca (Venezia, 1615 –
Venezia, 29 aprile 1674) è stato un vescovo cattolico, filosofo e scrittore
italiano. Indice 1 Biografia
1.1 Gioventù
e carriera ecclesiastica 1.2 Vescovo
di Caorle 2 Genealogia
episcopale 3 Note
4 Voci
correlate 5 Collegamenti
esterni Biografia Gioventù e carriera ecclesiastica Nasce a Venezia intorno al
1615[1], figlio di Giovanni Rusca, nativo di Lugano che si era trasferito nella
città lagunare, cugino di Girolamo Rusca, padre domenicano e vescovo di Cattaro
e Capodistria, appartenenti all'antica famiglia comasca dei Rusca[2]. Altre
fonti lo indicano di «famiglia padovana»[3], riferendosi probabilmente alla sua
carriera religiosa. Entrò infatti a far parte dei frati francescani
conventuali, sebbene non del convento padovano ma di quello veneziano dei
frari[4], conseguì la laurea in teologia e in filosofia e servì come vicario
generale di Padova della Congregazione del Sant'Uffizio[2][5]. Ricoprì quindi
il ruolo di Inquisitore di Adria-Rovigo[2][6][7], e in questo periodo diede
alle stampe l'opera Syllogistica methodus, dedicata a Pietro Ottobono, e fece
stampare diverse opere di Matteo Ferchio (il De caelesti substantia, il De
fabulis palaestini stagni ad aures Aristotelis peripateticorum principis e l'
Epitome theologica)[5]. Lo stemma araldico della famiglia Rusca, il
cui scudo fu anche utilizzato da Pietro Martire Rusca per il suo stemma
episcopale[8]. Vescovo di Caorle Il 10 gennaio 1656, papa Alessandro VII nomina
il Rusca vescovo di Caorle[9][7][8], sebbene il Gauchat collochi la nomina il
14 febbraio dello stesso anno[10]. Fu consacrato il successivo 20 febbraio dal
cardinale Marcantonio Bragadin[1]. In qualità di vescovo di Caorle, fu
uno dei presuli che più si spese per le necessità della sua diocesi. È infatti
ricordato per gli imponenti restauri della cattedrale che volle fossero
eseguiti per salvare l'edificio dall'imminente rovina[10][6][7]. Durante questi
restauri ricoprì il soffitto della cattedrale con stucchi e diede all'edificio
una struttura barocca[8]. Quindi, non esistendo notizia storica della data
della precedente consacrazione della cattedrale[11], provvide a riconsacrarla,
apponendo alle pareti dodici croci in cotto, tuttora conservate. Inoltre fece
completare la realizzazione dei nuovi reliquiari per le insigne reliquie dei
santi patroni (Santo Stefano protomartire, Santa Margherita di Antiochia e San
Gilberto di Sempringham), fatti iniziare dal predecessore Giorgio Darmini, e
provvide al rinforzo della struttura del campanile[8]. Al completamento di
tutti i lavori, nel 1665, volle che alle solenni celebrazioni presenziassero
musici provenienti da Venezia[7]. A memoria di tutto ciò, resta la lapide, ora
affisse alla parete sinistra del duomo (un tempo posta sopra il portone
d'ingresso), che recita: «D.O.M. LÆVITÆ STEPHANO PROTOMARTYRI FR·PETRVS
MARTYR RVSCA EPVS· CONSECRAVIT· MARINO VIZZAMANO PRÆTORE M·D·C·L·XV·III CAL
SEP·» (A Dio ottimo massimo - al levita Stefano protomartire - fra'
Pietro Martire Rusca vescovo - consacrò - essendo podestà Marino Vizzamano -
1665, 3 (giorni alle) calende di settembre.) L'interpretazione della data è da
sempre stata dubbia; alcuni infatti ritengono che si riferisca al 1º settembre,
attaccando il III all'anno, che così diverrebbe il 1668. Tuttavia la versione
oggi comunemente accettata è quella riportata sopra, cosicché il giorno della
dedicazione della chiesa è celebrato il 30 agosto. Questa è anche la versione
esplicitamente riportata dal Gams[12]. Il vescovo Rusca è anche ricordato
per la sua premura nel risollevare le sorti economiche della diocesi.
Ripristinò la mensa episcopale[5] e provvide al sostentamento dei sacerdoti
istituendone la confraternita[9][8]. Inoltre, come si evince dai suoi atti, si
adoperò per correggere i comportamenti dei fedeli e dei sacerdoti stessi[7]. Il
14 gennaio 1671 fece erigere nella cattedrale un altare dedicato a Sant'Antonio
di Padova, in seguito ricostruito dal vescovo Francesco Trevisan Suarez, poi
asportato all'inizio del 1900 ed oggi conservato nel Santuario della Madonna di
Monte Santo di Gorizia[7][8]. In Duomo a Caorle resta la pala d'altare del
Santo con la lapide, affissa alla parete destra dove sorgeva l'altare, che
recita: «ILL.MI ET RMI EPI CAPRVLEN. VNAM MISSAM LECTAM QVOTIDIE, ET DVAS
CANTATAS QVOLIBET MENSE AD HOC ALTARE S. ANTONII CELEBRARI CVRANTO TENENTVR VT
IN ACTIS D. OCTAVII RODVLPHI NOT. VEN. DIEI XIV MENSIS IAN. MDCLXXI AB INCAR.
FR. PETRVS MARTYR RVSCA EPVS CAPRVLEN. EREXIT VNIVIT DISPOSVIT»
(Illustrissimi e reverendissimi vescovi caprulensi, abbiate cura che una messa
letta quotidiana e due cantate in qualsivoglia mese siano celebrate a questo altare
di S. Antonio, ne sono tenuti come dagli atti del signor Ottavio Rodolfo notaio
veneziano del giorno 14 mese di gennaio 1671 dall'Incarnazione. Fra' Pietro
Martire Rusca vescovo di Caorle eresse, unì, dispose.) Sempre nello stesso anno
consacrò la chiesa di Santa Maria Elisabetta al Lido di Venezia[7]. Morì
il 29 aprile 1674 nel convento dei Frari a Venezia, tra le lacrime di molti
fedeli[9][5][7][8]. Genealogia episcopale Cardinale Guillaume
d'Estouteville, O.S.B.Clun. Papa Sisto IV Papa Giulio II Cardinale Raffaele
Riario Papa Leone X Papa Paolo III Cardinale Francesco Pisani Cardinale Alfonso
Gesualdo Papa Clemente VIII Cardinale Pietro Aldobrandini Cardinale Laudivio
Zacchia Cardinale Antonio Marcello Barberini, O.F.M.Cap. Cardinale Marcantonio
Bragadin Pietro Martire Rusca, O.F.M.Conv. Note Bishop Pietro Martire
Rusca O.F.M. Conv., su catholic-hierarchy.org. Roberto Rusca, Il Rusco,
overo dell'historia della famiglia Rusca, Nicola Giacinto Marta, Venezia, 1675
^ Bonaventura Perissuti, Notizie divote ed erudite intorno alla Vita ed all'
insigne Basilica di S. Antonio di Padova, Padova, 1796 ^ Flaminio Corner,
Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia, e di Torcello, Giovanni
Manfrè, Padova, 1758 (LA) Giovanni Giacinto Sbaraglia, Supplementum et
castigatio ad scriptores trium ordinum S. Francisci, S. Michaelis ad ripam apud
Linum Contedini, Romae 1806 Trino Bottani, Saggio di Storia della Città
di Caorle, nella Tipografia di Pietro Bernardi, Venezia, 1811 Giovanni
Musolino, Storia di Caorle, La Tipografica, Venezia, 1970 Paolo Francesco
Gusso e Renata Candiago Gandolfo, Caorle Sacra, Marcianum Press, Venezia,
2012 (LA) Ferdinando Ughelli, Italia sacra sive de episcopis Italiæ, et
insularum adjacentium, Venezia, apud Sebastianum Coleti, 1720 Patrick
Gauchat, Hierarchia Catholica Medii Et Recentioris Aevi (Vol IV), Münster,
Libraria Regensbergiana, 1935 ^ Riporta l'Ughelli che la data di costruzione è
il 1038, ma non è riportato l'atto di consacrazione dell'edificio ^ (LA) Pius Bonifacius
Gams, Series episcoporum Ecclesiae Catholicae, Leipzig, 1931, p. 781 Voci
correlate Rusca (famiglia) Duomo di Caorle Diocesi di Caorle Collegamenti
esterni (EN) David M. Cheney, Pietro Martire Rusca, in Catholic Hierarchy.
Modifica su Wikidata Predecessore Vescovo
di Caorle Successore BishopCoA
PioM.svg Giorgio Darmini 10
gennaio 1656 - 29 aprile 1674 Francesco
Antonio Boscaroli Biografie
Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Categorie: Vescovi
cattolici italiani del XVII secoloFilosofi italiani del XVII secoloScrittori
italiani del XVII secoloNati nel 1615Morti nel 1674Morti il 29 aprileNati a
VeneziaMorti a VeneziaRuscaVescovi di Caorle[altre]
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Rusconi Gian Enrico Rusconi Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Gian Enrico Rusconi
(Meda, 10 febbraio 1938) è uno storico, politologo e filosofo italiano. Indice 1 Biografia
2 Vita
privata 3 Opere
4 Altri
progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia Professore emerito di Scienze politiche presso l'Università
di Torino, laureato in filosofia, esordì come docente di Sociologia nel 1968
presso la facoltà di sociologia di Trento. Nel 1975 fu chiamato, per la
medesima materia, presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università di
Torino, dove poi si trasferì alla cattedra di Scienza della politica. Dopo una
monografia dal titolo La teoria critica della società, si è dedicato
soprattutto allo studio della società tedesca e della storia della Germania nel
Novecento, in un continuo raffronto con la situazione italiana. Tra il 1980 e il 1983 fu tra gli animatori
della rivista Laboratorio politico. È stato direttore dell'Istituto storico
italo-germanico di Trento dal 2005 al 2010.
Editorialista del quotidiano La Stampa, è stato anche Visiting Professor
presso la Freie Universität di Berlino.
Vita privata È sposato con la sociologa Chiara Saraceno. Opere La crisi di Weimar. Crisi di sistema e
sconfitta operaia, (Einaudi 1977) Scambio, minaccia, decisione. Elementi di sociologia
politica (Il Mulino 1984) Capire la Germania. Un diario ragionato sulla
questione tedesca (Il Mulino 1990) Se cessiamo di essere una nazione (Il Mulino
1993), in cui ripercorre il dibattito italiano e europeo sulla nazione e il suo
rapporto con l'etnia (osservando come da certi punti di vista la nazione
italiana è plurietnica) Resistenza e postfascismo (Il Mulino 1995) Come se Dio
non ci fosse (Einaudi 2000) Germania Italia Europa. Dallo Stato di potenza alla
«potenza civile» (Einaudi 2003) Cefalonia. Quando gli italiani si battono (Gli
struzzi 583. Einaudi 2005) L'azzardo del 1915 (Il Mulino 2005) Cavour e
Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo (Il Mulino 2009) Cosa resta
dell'Occidente (Laterza 2012) Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica
(Feltrinelli 2013) 1914: Attacco a occidente (Il Mulino 2014) Altri progetti
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Enrico Ruta (Belmonte Castello, 1869 – Napoli, 1939) è stato un filosofo,
studioso di dottrine politiche e scrittore italiano. Visse prevalentemente a Napoli, dove conobbe
e frequentò Benedetto Croce, e dove nel 1930 lo troviamo docente di dottrina politica
presso l'Istituto superiore di scienze economiche e commerciali. Ingegno
versatile, ha lasciato opere di narrativa e di scienze politiche e sociali.
Importante è stata anche la sua opera di traduttore di testi di Nietzsche e
Treitschke. Fu collaboratore del quotidiano napoletano Il Mattino. Negli anni
trenta sviluppò teorie politiche in armonia con l'ideologia del regime
fascista. Opere Narrativa Il gusto d'amare, 1895. (Nuova ed.
Millennium, 2006) Insaniapoli, 1911. (Nuova ed. Edizioni Campus, 1999) Il
segreto di Partenope, Napoli, 1924. (Nuova ed. Millennium, 2003) Saggi Visioni d'oriente e d'occidente: saggi di
scienza della storia e della poesia , 1894 e 1924. La psiche sociale.
Milano-Palermo-Napoli, Sandron Editore, 1909. Il ritorno del genio: a proposito
di una nuova edizione della "Scienza Nuova" di G.B. Vico. Bari, 1913.
Politica e ideologia. 2 voll., Milano, Corbaccio, 1929. La necessità storica
dell'Italia nuova, Napoli 1931. Traduzioni
Otto Braun, Diario e lettere, traduzione e preparazione di E.R. Bari,
1923. Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia ovvero Ellenismo e
pessimismo, traduzione e prefazione di E.R. Bari, 1919. Heinrich von
Treitschke, La Francia dal primo impero al 1871, traduzione di E.R. Bari, 1916.
Heinrich von Treitschke, La politica, traduzione di E.R. Bari, 1916. Altri
progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a
Enrico Ruta Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o
altri file su Enrico Ruta Collegamenti esterni Anche i filosofi si innamorano
di Ezio Pelino, 6 marzo 2011, sito "Cultura in Abruzzo". Controllo di
autorità VIAF (EN)
29665154 · ISNI (EN) 0000 0000 6131 6341 · LCCN (EN) n2001154101 · BNF (FR)
cb12993405d (data) · BAV (EN) 495/260356 · WorldCat Identities (EN)
lccn-n2001154101 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia
Letteratura Portale Letteratura Categorie: Filosofi italiani del XX secoloNati
nel 1869Morti nel 1939Nati a Belmonte CastelloMorti a NapoliSociologi
italianiScrittori italiani del XX secolo[altre]
ryle: the waynflete professor of metaphysical philosophy,
known especially for his contributions to the philosophy of mind and his
attacks on Cartesianism. His best-known work is the masterpiece The Concept of
Mind 9, an attack on what he calls “Cartesian dualism” and a defense of a type
of logical behaviorism. This dualism he dubs “the dogma of the Ghost in the
Machine,” the Machine being the body, which is physical and publicly
observable, and the Ghost being the mind conceived as a private or secret arena
in which episodes of sense perception, consciousness, and inner perception take
place. A person, then, is a combination of such a mind and a body, with the
mind operating the body through exercises of will called “volitions.” Ryle’s
attack on this doctrine is both sharply focused and multifarious. He finds that
it rests on a category mistake, namely, assimilating statements about mental
processes to the same category as statements about physical processes. This is
a mistake in the logic of mental statements and mental concepts and leads to
the mistaken metaphysical theory that a person is composed of two separate and
distinct though somehow related entities, a mind and a body. It is true that
statements about the physical are statements about things and their changes.
But statements about the mental are not, and in particular are not about a
thing called “the mind.” These two types of statements do not belong to the
same category. To show this, Ryle deploys a variety of arguments, including
arguments alleging the impossibility of causal relations between mind and body
and arguments alleging vicious infinite regresses. To develop his positive view
on the nature of mind, Ryle studies the uses and hence the logic of mental
terms and finds that mental statements tell us that the person performs
observable actions in certain ways and has a disposition to perform other
observable actions in specifiable circumstances. For example, to do something
intelligently is to do something physical in a certain way and to adjust one’s
behavior to the circumstances, not, as the dogma of the Ghost in the Machine
would have it, to perform two actions, one of which is a mental action of
thinking that eventually causes a separate physical action. Ryle buttresses
this position with many acute and subtle analyses of the uses of mental terms.
Much of Ryle’s other work concerns philosophical methodology, sustaining the
thesis which is the backbone of The Concept of Mind that philosophical problems
and doctrines often arise from conceptual confusion, i.e., from mistakes about
the logic of language. Important writings in this vein include the influential
article “Systematically Misleading Expressions” and the book Dilemmas. Ryle was
also interested in Grecian philosophy throughout his life, and his last major
work, Plato’s Progress, puts forward novel hypotheses about changes in Plato’s
views, the role of the Academy, the purposes and uses of Plato’s dialogues, and
Plato’s relations with the rulers of Syracuse. Refs: H. P. Grice, “What neither
Ryle nor Austin ever taught me!” --. “What I mislearned from ‘The Concept of
Mind.’”
idem, ipse, sui, de se -- Same -- Sameness -- Griceian
– One of Grice’s favourite essays ever was Wiggins’s “Sameness and substance”
-- Griceian différance, a coinage
deployed by Derrida in De la Grammatologie 7, where he defines it as “an
economic concept designating the production of differing/deferring.” Différance
is polysemic, but its key function is to name the prime condition for the
functioning of all language and thought: differing, the differentiation of
signs from each other that allows us to differentiate things from each other.
Deferring is the process by which signs refer to each other, thus constituting
the self-reference essential to language, without ever capturing the being or
presence that is the transcendent entity toward which it is aimed. Without the
concepts or idealities generated by the iteration of signs, we could never
identify a dog as a dog, could not perceive a dog or any other thing as such.
Perception presupposes language, which, in turn, presupposes the ideality
generated by the repetition of signs. Thus there can be no perceptual origin
for language; language depends upon an “original repetition,” a deliberate
oxymoron that Derrida employs to signal the impossibility of conceiving an
origin of language from within the linguistic framework in which we find
ourselves. Différance is the condition for language, and language is the
condition for experience: whatever meaning we may find in the world is
attributed to the differing/ deferring play of signifiers. The notion of
différance and the correlative thesis that meaning is language-dependent have
been appropriated by radical thinkers in the attempt to demonstrate that
political inequalities are grounded in nothing other than the conventions of
sign systems governing differing cultures.
Sacchi Defendente Sacchi Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search
Defendente Sacchi Defendente Sacchi (Casa Matta di Siziano, 22 ottobre
1796 – Milano, 20 ottobre 1840) è stato un giornalista, filosofo e scrittore
italiano. La sua produzione fu molto
abbondante e abbracciò i campi più diversi, dalla filosofia agli studi storici,
alla letteratura, alla storia e critica d'arte, senza trascurare la scrittura
di romanzi e novelle. A differenza di altri poligrafi del tempo la sua
scrittura era basata su una solida formazione e un sapere quasi enciclopedico,
per cui i suoi scritti, pur influenzati -soprattutto nella forma- dalle mode
culturali del tempo, mantengono anche oggi un indubbio valore. Indice 1 Biografia
1.1 Studi
1.2 Il
breve matrimonio 1.3 L'attività
editoriale 1.4 Ritratto
1.5 Gli
ultimi anni 2 Opere
3 Bibliografia
3.1 Su
Defendente Sacchi 3.2 Di
Defendente Sacchi 4 Altri
progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia Studi Nato nei pressi della città universitaria di Pavia, in
questa città condusse i suoi studi, che dapprincipio si indirizzarono
soprattutto alla filosofia. Tra i suoi maestri vi fu Gian Domenico Romagnosi;
fu corrispondente di Fauriel e di Melchiorre Gioia. Il breve matrimonio Il 14 gennaio 1829 si
sposò con Erminia Rossi, di Milano, e l'anno successivo la coppia si trasferì
nel capoluogo lombardo, dove però ben presto la sposa morì di parto (il 12
aprile 1831), il che costituì per lui una perdita che lo afflisse per il resto
dei suoi giorni. A riprova del grande affetto e dell'altrettanto grande dolore
che egli nutrì per la moglie, oltre a ciò che scrive esplicitamente nella
propria autobiografia (composta nel 1835), "Morì con la forza d'animo d'un
filosofo, colla soavità d'un angelo …Io l'amo ancora come se fosse viva, e
l'amo a segno che qualche momento mi pare di vederla e di parlarle…", si
può rilevare un personaggio di un suo racconto del 1832, in cui è facile
scorgere un ritratto della sua dolce Erminia, morta appena un anno prima: «Era
presente una zia, tutta buona, tutta soave, che amava tanto i fanciulli; e di
recente sposa e contenta, solo desiderava che il cielo anche di questi la
facesse beata a compenso delle afflizioni sostenute nella sua giovinezza; ma
l’infelice avea un desiderio, del quale l’essere esaudita dovea riescirle
mortale. (…) Una lagrima intanto di compiacenza spuntava sul ciglio dello
sposo, sventurato! e non sapeva essere foriera dell’interminato pianto che
l’attendeva, quando in breve, perdendola, dovea rimanere il più misero dei
viventi.» (Defendente SACCHI, Cose
inutili, Milano, 1832, vol. 1) L'attività editoriale Oltre ai romanzi ed alle
monografie maggiori, innumerevoli sono gli articoli da lui pubblicati nelle più
importanti riviste culturali del tempo: lo «Spettatore Italiano», la «Minerva
Ticinese», gli «Annali universali di Statistica», la «Gazzetta Privilegiata di
Milano», il «Pirata», il «Cosmorama pittorico», l'«Annotatore piemontese», la
«Vespa», la «Farfalla», l'«Eco», «Il Barbiere di Siviglia», l'«Indicatore
lombardo», il «Ricoglitore», la «Rivista Europea». In particolare, dal 1835 fino alla morte fu
direttore del «Cosmorama Pittorico»; inoltre era riconosciuto di fatto come
l'animatore e il personaggio di spicco della «Gazzetta Privilegiata di Milano»
(diretta da Angelo Lambertini). La sua
feconda attività e la sua facilità espositiva si spiegano anche col fatto che,
per problemi fisici alla mano, era solito dettare i suoi testi. Ritratto Un "Ritratto di Defendente
Sacchi", opera di Pelagio Palagi, è conservato presso la Galleria d'Arte
Moderna di Bologna. In esso l'autore ha alle spalle i volumi di quella che
doveva essere la sua ricca biblioteca, a sottolineare l'attaccamento di Sacchi
alle lettere e al sapere. L'immagine sembra confermare le impressioni sul suo
aspetto fisico da parte di G.B. Cremonesi nell'introduzione ad una ristampa del
1841 di L'albero dei sospiri: "Era piccolo di persona e non bello di
aspetto, benché i suoi lineamenti presentassero un non so che di piacevole nel
tutt'insieme e di sereno" (p. XXVI).
Gli ultimi anni La sua ricca e documentata attività editoriale gli valse
numerosi riconoscimenti (ad esempio, nel 1836 fu ammesso come socio nella
"Reale Accademia delle Scienze di Torino"). Nel 1840, a coronamento
dei suoi interessi artistici, istituì a Pavia una Civica Scuola di
Pittura. La sua prematura scomparsa
venne imputata alla gracilità del fisico, spesso malato e provato da dolori,
cui si aggiungevano le pene per la perdita della moglie e della figlia
("La natura gli aveva data un costituzione gracile; l'applicazione e più
sventure l'indebolirono" ... "Tre anni e più fu egli travagliato da
forti dolori" - Cremonesi 1841, p. XXI-XXIV) Opere Nella molteplicità della sua
produzione, si segnalano in particolare:
La Storia della filosofia greca in 6 volumi; La Collezione dei Classici
Metafisici pubblicata insieme al professore Rolla e all'avvocato Germani in 62
volumi; La Vita di Lorenzo Mascheroni, con la raccolta di alcuni suoi scritti
inediti; Il romanzo storico I Lambertazzi e i Geremei, (di cui vennero fatte
diverse edizioni); L'altro romanzo di successo, La pianta dei sospiri (due
edizioni; tradotta anche in francese) Le Antichità romantiche d'Italia, in due
volumi, (cui collaborò anche il cugino Giuseppe Sacchi); La traduzione del
Diritto pubblico universale, o sia Diritto di Natura e delle Genti di Giovanni
Maria Lampredi (voll. 8-12 della "Biblioteca Scelta di opere tradotte dal
latino") I Saggi su gli Uomini Utili e Benefattori del Genere Umano (voll.
417-418 della stessa "Biblioteca scelta") I suoi biografi ricordano
anche che egli si riproponeva di pubblicare un lavoro di grande respiro dal titolo
I voti dell'Italia, il cui manoscritto però avrebbe egli stesso dato alle
fiamme. Bibliografia Su Defendente
Sacchi Innocenzio De Cesare, Defendente Sacchi, in "L'Omnibus
Pittoresco", a.III (1841), n.48, pp. 377–379; "Defendente
Sacchi", Cenni di G. B. Cremonesi in: D. Sacchi La pianta dei sospiri,
Milano, Silvestri, 1841, pp. VII-XXVIII Autobiografia di Defendente Sacchi
(prefazione e commento di Maria Fanny Sacchi), Pavia, Bizzoni, 1899 Defendente
Sacchi. Filosofo, critico, narratore (presentazione di Emilio Gabba e Dante
Zanetti), Milano, Cisalpino, 1992 ["Fonti e studi storia dell'Università
di Pavia" - 18] (ISBN 88-205-0690-4) Di Defendente Sacchi Defendente
Sacchi, Storia della filosofia greca, Pavia, Capelli, 1818 - 6 voll. Defendente
Sacchi, Elogio di Condillac, Pavia, Bizzoni, 1819 Defendente Sacchi, Della
filosofia di Socrate (dissertazione), Pavia, Bizzoni, 1820 Defendente Sacchi, I
trovatori e le galanterie nel Medio evo, Milano, Ripamonti Carpano, 1820
Defendente Sacchi, Oriele o Lettere di due amanti, Pavia, Bizzoni, 1822 (rist.
Milano, Borroni e Scotti 1851; Genova, Dario Rossi 1851) Lorenzo Mascheroni,
Poesie edite ed inedite ... Raccolte e pubblicate per cura di Defendente
Sacchi, Pavia, Bizzoni, 1823 Defendente Sacchi, La pianta dei sospiri
(romanzo), Lodi, Orcesi, 1824; 2ª ed. Milano, Silvestri, 1841 facsimile del
testo online dalla Biblioteca Braidense (FR) Defendente Sacchi, Marcellina, ou
l'Arbre des soupirs, roman de Defendente Sacchi, traduit de l'italien, par M.
Camille de Lagracinière, Paris, C. Béchet, 1827 Defendente Sacchi, Geltrude.
Romanzo italiano con note storiche, Milano, Bettoni, 1825 Diritto pubblico
universale di Gio. Maria Lampredi volgarizzato da Defendente Sacchi, Milano,
Silvestri, 1828 Defendente Sacchi e Giuseppe Sacchi, "I fregi simbolici di
San Michele in Pavia", Antichita romaniche d'Italia, v. 1., 1828
Defendente Sacchi e Giuseppe Sacchi, Antichità romantiche d'Italia epoca prima
-seconda, Milano, Stella, 1828-1829 - 2 v. Defendente Sacchi e Giuseppe Sacchi,
Della condizione economica, morale e politica degli italiani nei bassi tempi.
Saggio primo intorno all'architettura simbolica, civile e militare, usata in
Italia nei secoli 6°, 7° e 8° e intorno all'origine de' Longobardi, alla loro
dominazione in Italia, alla divisione dei due popoli ed ai loro usi, culto e
costumi, Milano, Stella, 1828 Defendente Sacchi, Della condizione economica,
morale e politica degli Italiani ne' tempi municipali. Sulle feste, e
sull'origine, stato e decadenza de' municipii italiani nel Medioevo. Saggi due,
Milano, Stella, 1829 Defendente Sacchi, Della condizione, economica, morale e
politica degli Italiani nei tempi Municipali, Annali universali di statistica
economia pubblica, storia, viaggi e commercio (1830 giu, Serie 1, Volume 24,
Fascicolo 71 e 72) Defendente Sacchi, Intorno all'indole della letteratura
italiana nel sec. XIX, ossia della letteratura civile, con un'appendice intorno
alla poesia eroica, sacra e alle belle arti. Saggio, Pavia, Luigi Landoni, 1830
Defendente Sacchi e Giuseppe Sacchi, Intorno alle dighe marmoree o murazzi alla
laguna di Venezia ed alla istituzione del porto franco, Milano, Editori degli
Annali Universali delle Scienze e dell'Industria, 1830 Defendente Sacchi,
Miscellanea di lettere ed arti, Pavia, Bizzoni, 1830 Defendente Sacchi, I
Lambertazzi e i Geremei o le fazioni di Bologna nel secolo 13° : cronaca di un
trovatore, Milano, Stella, 1830 L'arca di Sant'Agostino : monumento in marmo
del secolo 14. ora esistente nella chiesa cattedrale di Pavia, colle
illustrazioni di Defendente Sacchi, Pavia, Fusi e C., 1832 Defendente Sacchi,
Varietà letterarie, o Saggi intorno alle costumanze, alle arti, agli uomini e
alle donne illustri d'Italia del secolo presente, Milano, Stella, 1832
Defendente Sacchi, A Cesare Cantu : intorno alla pasta, alla smania musicale
del secolo, a Volta e a' progetti pel monumento da erigersegli in Como ed a
qualche buona o cattiva moda della capitale: lettera inutile, Milano, Stella,
1832 Defendente Sacchi, Cose inutili, Milano, Visaj, 1832 Defendente Sacchi,
Teodote : storia del secolo VIII, Milano, Nervetti, 1832) Defendente Sacchi, Le
belle arti in Milano nell'anno 1832, Nuovo Raccoglitore nº 93 (settembre 1832)
Defendente Sacchi, "Nuove questioni sull'architettura rituale in relazione
alle opinioni del conte Cordero di San Quintino e dell'avvocato Robolini",
in Annali Universali di Statistica, gen. 1832 Defendente Sacchi e Giuseppe
Sacchi, Le arti e l'industria in Lombardia nel 1832, Milano, Visaj, 1833
Leopoldo Cicognara, Del bello: ragionamenti (con le notizie su la vita e le
opere dell'autore compilate da Defendente Sacchi), Milano, Silvestri, 1834
Defendente Sacchi, Instituti di beneficenza a Torino (relazione), Milano, a
Società degli editori degli annali universali delle scienze e dell'industria, 1835
- 54 p. Lezioni d'un parroco sul cholera pubblicate da Defendente Sacchi,
Milano, Bravetta, 1836 Defendente Sacchi (a cura di), Gli asili dell'infanzia:
loro utilità ed ordinamento. Memorie popolari italiane e tradotte, Milano,
Manini, 1836 Defendente Sacchi, Novelle e racconti, Milano, Manini, 1836, 2 v.
testo in pdf L' Arco della Pace a Milano descritto e illustrato da Defendente
Sacchi ... e pubblicato per la fausta inaugurazione fatta da S.M.I.R.A.
Ferdinando 1, Milano, Manini, 1838 Defendente Sacchi, Bernardino Luino,
Cosmorama pittorico n. 23 (1838) p. 178-182 Defendente Sacchi, Le streghe. Dono
del folletto alle signore, Milano, Manini, 1839 Defendente Sacchi, Uomini utili
e benefattori del genere umano (saggi), Milano, Silvestri, 1840, 2 v. Defendente
Sacchi, Amori e vicende dei quattro sommi poeti italiani: Dante, Petrarca,
Ariosto e Tasso. Studi storici-biografici, Milano, Vallardi, s. a. Altri
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Defendente Sacchi Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su
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Sacchi, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Defendente Sacchi, in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Defendente Sacchi, in
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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no89010231 · GND (DE) 119162075 · BNF (FR) cb104840087 (data) · BAV (EN)
495/120190 · CERL cnp00404341 · WorldCat Identities (EN) lccn-no89010231
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Giornalisti italiani del XIX secoloFilosofi italiani del XIX secoloScrittori
italiani del XIX secoloNati nel 1796Morti nel 1840Nati il 22 ottobreMorti il 20
ottobreNati a SizianoMorti a MilanoStudenti dell'Università degli Studi di
Pavia[altre]
Sacheli Calogero Angelo Sacheli Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Calogero Angelo Sacheli Calogero Angelo Sacheli
(Canicattì, 20 giugno 1890 – Taormina, 27 novembre 1946) è stato un filosofo,
scrittore e docente universitario italiano.
Indice 1 Biografia
2 Opere
3 Note
4 Altri
progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia Nato a Canicattì, in provincia di Girgenti, il 20 giugno 1890
da Vincenzo e Calogera Rinaldi, rimase orfano di padre a 13 anni[1], frequentò
le scuole primarie nella sua cittadina natale per poi trasferirsi a
Caltanissetta, dove, ospite di uno zio materno, frequentò il liceo.[1] Nel 1915 fu iniziato in Massoneria nella
loggia Felice Cavallotti di Agrigento, e nel 1917 divenne Maestro
massone.[2] Laureato in filosofia
all'Università di Palermo nel 1922 - dove fu allievo di Giovanni Antonio
Colozza e Cosmo Guastella[3] - fu dapprima insegnante di scuola superiore a
Bologna, Girgenti, Caltanissetta e Bressanone, e dal 1926 insegnante al Liceo
ginnasio Andrea D'Oria di Genova.[3] Nel capoluogo ligure, Sacheli iniziò nel
1934 la sua carriera accademica come libero docente di pedagogia all'Università
di Genova.[3] Successivamente insegnò la stessa disciplina alle università di
Cagliari e di Messina, dove nel 1940 conseguì la docenza ordinaria.[3] Morì a Taormina, in provincia di Messina, il
27 novembre 1946 all'età di 56 anni, dove si era stabilito per sfuggire ai
violenti bombardamenti alleati che colpirono Messina nel 1943.[3] Con i suoi saggi diede un apporto
all'approfondimento della pedagogia e all'interpretazione della filosofia di
Sant'Agostino, di San Tommaso e di Jean-Jacques Rousseau. Numerose sono le
opere filosofiche e pedagogiche da lui composte. "La carità del natio
loco" lo spinse anche a scrivere sulle tradizioni, i miti e le leggende di
Canicattì, collaborando con la rivista Sicania e pubblicando i risultati delle
sue ricerche nelle Linee di folklore canicattinese. Opere Linee di Folklore canicattinese,
Acireale, tip. Popolare, 1914 Indagini etiche: i criteri, il problema
dell'etica, Milano, Remo Sandron, 1920 Atto e valore, Firenze, Sansoni, 1938
Ragion pratica: preliminari critici, Firenze, Sansoni, 1938 Crisi della
Pedagogia, Roma, Perrella, 1940 Concetto di didattica, Messina, G. D'Anna, 1943
Note C. Ottaviano, Sophia: rassegna
critica di filosofia e storia della filosofia, CEDAM, 1946, p. 233. ^ V.
Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo, 2005, p. 245. Calogero Angelo Sacheli, su liberliber.it.
URL consultato il 05-06-2018. Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote
contiene citazioni di o su Calogero Angelo Sacheli Collegamenti esterni Opere
di Calogero Angelo Sacheli, su Liber Liber. Modifica su Wikidata G. Ferrante,
Biografia di Calogero Angelo Sacheli, su canicatti-centrodoc.it. URL consultato
il 05-06-2018. Controllo di autorità VIAF
(EN) 283924553 · ISNI (EN) 0000 0003 9029 7719 · SBN IT\ICCU\SBLV\235105 ·
WorldCat Identities (EN) viaf-283924553 Biografie Portale Biografie Filosofia
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Categorie: Filosofi italiani del XX secoloScrittori italiani del XX secoloNati
nel 1890Morti nel 1946Nati il 20 giugnoMorti il 27 novembreNati a
CanicattìMorti a TaorminaMassoni[altre]
Saitta Giuseppe Saitta Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Nota disambigua.svg Disambiguazione –
Se stai cercando l'omonimo vescovo, vedi Giuseppe Saitta (vescovo). Giuseppe Saitta. Giuseppe Saitta (Gagliano
Castelferrato, 7 novembre 1881 – Bologna, 20 dicembre 1965) è stato un filosofo
e storico della filosofia italiano[1]. Allievo di Gentile, fu seguace e interprete
del suo idealismo attuale.[2] Indice 1 Biografia
1.1 Direttore
della «Vita Nova» 1.2 L'idealismo
attuale di Saitta 1.3 Gli
ultimi anni 2 Opere
2.1 Storiografia
filosofica 3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Collegamenti
esterni Biografia Nato in provincia di Enna da Giovanni Saitta e Angela
Confalone, una famiglia di agricoltori e proprietari terrieri,[1] fu mandato a
studiare in seminario nel collegio di Nicosia e quindi nel liceo di Monreale,
per essere avviato alla carriera ecclesiastica. Ricevuti gli ordini sacri il 24
settembre 1904,[3] conseguì due anni dopo la laurea in lettere a Palermo, ma
dismetterà l'abito sacerdotale a seguito di una crisi interiore che lo indusse
ad allontanarsi dalla Chiesa cattolica.[1]
Frequentando le lezioni di Giovanni Gentile, si accostò al suo
idealismo, laureandosi in filosofia nel 1909 col massimo dei voti. Aveva
cominciato intanto a insegnare lettere nei licei di Terranova e Lucera, mentre
a partire dal 1910 divenne professore di filosofia nei licei statali di
Cagliari, Sassari, Fano, Faenza, e negli istituti Galvani e Minghetti di
Bologna, fino al 1923.[1] Nel periodo
scolastico 1923-24 ottenne una cattedra universitaria di filosofia nel Regio
Istituto di Magistero di Firenze,[1][4] per passare negli anni seguenti
all'università di Cagliari, di Pisa, e infine dal 1932 a quella di Bologna. Qui
insegnerà filosofia morale, poi teoretica, fino al 1952.[2] Direttore della «Vita Nova» Aveva inoltre
collaborato a varie riviste come il «Giornale critico della filosofia
italiana», «Levana»,[1] e poi soprattutto «Vita Nova», periodico mensile
bolognese fondato da Leandro Arpinati e vicino a Gentile, di cui Saitta assunse
la direzione il 15 marzo 1925, mantenendola fino alla sua soppressione nel
1933.[1] Della rivista, organo dell'Università fascista di Bologna,[5] curò la
rubrica Noi e gli altri – Spunto polemico, firmando i suoi interventi con lo
pseudonimo di "Rusticus",[6] distinguendosi per i toni accesi e le
posizioni anticlericali e anti-concordatarie, che lo portarono a scontrarsi con
esponenti cattolici della stessa scuola gentiliana, in particolare Armando
Carlini.[7] Saitta aderiva infatti a una
concezione movimentistica e rivoluzionaria del regime fascista del suo
tempo,[8] che interpretava come il compimento dei valori romantici del Risorgimento,
intendendo la nazione in senso hegeliano quale sintesi tra individuale e
universale.[9] Rispetto a Carlini che appariva più freddo e accademico,[10]
Saitta col suo attivismo riusciva a esercitare una forte capacità di attrazione
verso i giovani, tra cui un suo allievo universitario, Delio Cantimori,[11] che
ebbe come collaboratore alla «Vita Nova».[7]
«Così si sviluppò quella tendenza a preferire la scuola di storia della
filosofia [di Saitta] dove la preparazione di tipo scolastico e le esigenze tecniche
erano minori, ma dove si sentiva un calore ideale, una passione filosofica, un
fervore per la verità, e una forza di convinzione spesso dura, e più che dura,
ma più vicina a quei sentimenti e a quelle esigenze giovanili, una decisione
innovatrice suggestiva e che sembrava offrire un orientamento non meramente
accademico per la soluzione di quei problemi.»
(Delio Cantimori, articolo sul «Giornale critico della filosofia
italiana», XVI, pp. 86-88, 1935, ora in Politica e storia contemporanea, pag.
131, a cura di Luisa Mangoni, Einaudi, 1991[12]) L'idealismo attuale di Saitta
Saitta del resto, accogliendo la concezione gentiliana dell'atto come perenne
autocreazione del pensiero che tutto comprende, aveva sviluppato una visione
attualistica dell'idealismo non riducibile a una teoria statica, bensì intesa
come azione e continuo dinamismo, che lo portava a esaltare la libertà creativa
della ragione umana contro ogni forma di oggettività e di dogmatismo.[13] Da
qui la sua accentuazione della polemica anti-religiosa,[5] e la riscoperta, nel
solco delle tesi formulate da Bertrando Spaventa e dallo stesso Gentile, delle
correnti immanentistiche della filosofia rinascimentale italiana che egli
poneva a fondamento della genesi dell'idealismo moderno.[14] Questo immanentismo, per il quale Dio si
esprime nell'attività dello spirito umano, è per Saitta un «reale umanismo» che
rende possibile la libertà dell'individuo, nella quale consiste la «nuova
coscienza illuministica» della religione moderna da lui contrapposta a quella
tradizionale, oppressiva e decadente, della trascendenza.[15] Per difendere la libertà del soggetto da ogni
autoritarismo e sopraffazione, Saitta si è schierato tuttavia non solo contro
il dualismo platonico, la teologia di impianto tomistico e la neoscolastica, ma
in parte anche contro lo stesso idealismo di Hegel che ha finito per
oggettivare la ragione facendone un sistema assoluto da lui ritenuto
«all'origine degli schiavismi moderni».[16]
Persino nell'attualismo di Gentile sarebbe rimasto un retaggio della
vecchia teologia trascendente, quando esso attribuisce lo Spirito ad un Io
assoluto anziché ai singoli individui: sono costoro per Saitta i veri creatori
di valori spirituali, coloro cioè in cui va identificato il Soggetto
trascendentale.[16] Egli in tal modo intendeva preservare la portata stessa
dell'atto creativo del pensiero dell'idealismo gentiliano, rivestendolo di
significati empirici, positivistici, contigenti, ripresi anche da autori come
Rousseau e Feuerbach.[1] Gli ultimi anni
Dopo il ritiro dall'insegnamento, Saitta condusse negli ultimi anni una vita
sempre più appartata, durante i quali si sarebbe progressivamente riavvicinato
alla fede cattolica.[17] A Gagliano
Castelferrato, suo paese nativo, gli è stata intitolata una piazza dove è stato
collocato un parco giochi per bambini. Molti anni prima gli era stata
intitolata una strada che usualmente, però, ha continuato ad essere chiamata
Via Roma. Più tardi gli venne intitolato l'Istituto Professionale Femminile di
Stato. Opere Lo spirito come eticità
(Bologna, Zanichelli, 1921); 2ª ed. corretta e accresciuta La teoria dello
spirito come eticità (Bologna, Zanichelli, 1948)[18] La personalità umana e la
nuova coscienza illuministica (Genova, Emiliano Degli Orfini, 1938) La libertà
umana e l'esistenza (Firenze, Sansoni, 1940) Il problema di Dio e la filosofia
dell'immanenza (Bologna, Cesare Zuffi, 1953) Storiografia filosofica Oltre alle
opere di natura propriamente filosofica, Saitta si è a lungo occupato di storia
della filosofia, dai greci all'età moderna, soffermandosi sul Rinascimento e i
pensatori italiani, in particolare Ficino:[19]
La scolastica del secolo XVI e la politica dei Gesuiti (Torino, Bocca,
1911) Le origini del neotomismo nel secolo XIX (Bari, Laterza, 1912) Il pensiero
di Vincenzo Gioberti (Messina, Principato, 1917; 2ª Firenze, Vallecchi 1927) La
filosofia di Marsilio Ficino (Messina, Principato, 1923); riedita come Marsilio
Ficino e la filosofia dell'Umanesimo (Bologna, Fiammenghi & Nanni, 19543)
L'educazione dell'umanesimo in Italia (Venezia, La Nuova Italia, 1928)
Filosofia italiana ed umanesimo (Venezia, La Nuova Italia, 1928) Leone Ebreo,
su treccani.it, 1933. Gioberti Vincenzo, su treccani.it, 1933. Il carattere
della filosofia tomistica (Firenze, Sansoni, 1934) La teoria dell'amore e
l'educazione del Rinascimento (Bologna, U.P.E.B., 1947) L'illuminismo della
sofistica greca (Milano, Bocca, 1938) Il pensiero italiano nell'Umanesimo e nel
Rinascimento, in 3 volumi (Bologna, Cesare Zuffi, 1949-1951) Cusano e l'Umanesimo
italiano, con altri saggi sul Rinascimento (Bologna, Tamari, 1957) Note Ettore Centineo, Ricordo di Giuseppe Saitta,
articolo su «Giornale critico della filosofia italiana», XLV, n. 2, pp.
171-186, Firenze, Sansoni, aprile-giugno 1966.
Giuseppe Saitta, su treccani.it, 1961. ^ Albano Sorbelli,
L'Archiginnasio: bollettino della Biblioteca comunale di Bologna, pag. 379 e
segg., direzione di Franco Bergonzoni, Regia tipografia dei fratelli Merlani,
1981. ^ Università degli studi di Firenze, su siusa.archivi.beniculturali.it. Simona Salustri, L'Università fascista di
Bologna: un modello di Accademia per il regime?, in «Accademie e scuole:
istituzioni, luoghi, personaggi, immagini della cultura e del potere», pp.
386-388, a cura di Daniela Novarese, Milano, Giuffrè, 2011. ^ Vittore Pisani,
Paideia, vol. XXXI, pag. 13, Casa editrice Paideia, 1976. Roberto Pertici, Storia della storiografia,
vol. 31, pagg. 32 e 45, Jaca Book, 1997. ^ Luisa Mangoni, L'interventismo della
cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, pp. 186-194, Bari, Laterza,
1974. ^ Roberto Pertici, Storia della storiografia, op.cit., pag. 45. ^ Roberto
Pertici, Storia della storiografia, op.cit., pag. 32, nota 24. ^ Cantimori
ricorderà con commozione l'«irrequietezza spirituale della scuola di Saitta» e
la sua «attenzione volta ad argomenti quasi ignorati dalla cultura italiana»
(cit. da Bruno Valerio Bandini, Storia e storiografia: studi su Delio
Cantimori. Atti del convegno tenuto a Russi il 7-8 ottobre 1978, pag. 161,
Editori Riuniti, 1979). ^ Cit. in Roberto Pertici, Storia della storiografia,
op. cit., pag. 32, nota 24. ^ Eugenio Garin, Cronache di filosofia italiana
1900-1960, II volume, pag. 424 e segg., Bari, Laterza, 1966. ^ Gianfranco
Morra, L'immanentismo assoluto di Giuseppe Saitta, articolo sul «Giornale
critico della filosofia italiana», XXXIII, n. 3, pp. 392-400, 1954. ^ «Il
Saitta, forse meglio di ogni altro, intese dell'attualismo l'istanza realmente
umanistica, e di un "reale umanismo": e questa appunto volle
sottolineare e difendere contro ogni mistificazione. Così lo vediamo ridurre
tutta la dialettica gentiliana a lotta sempre risorgente fra ragione umana
liberatrice e costruttrice di una società di uomini liberi, e religione
tradizionale cristallizzata nelle oppressioni di strutture chiesastiche
portatrici di una "filosofia di morte"» (Eugenio Garin, Cronache di
filosofia italiana 1900-1960, op. cit., pag. 425). Roberto Melchiorre, Storiografi italiani del
Novecento, alla voce «Giuseppe Saitta», Aletti Editore, 2012. ^ Ricordo di
Giuseppe Saitta (PDF), su archiviostorico.unibo.it. ^ Sommario dei libri, su
gaglianocastelferrato.com. URL consultato il 13 giugno 2018 (archiviato
dall'url originale il 13 giugno 2013). ^ «La filosofia moderna come
celebrazione della soggettività è quasi tutta sbozzata con Marsilio Ficino. Con
lui, anziché col Campanella, come da altri è stato frequentemente ripetuto,
s'inizia quella teoria della conoscenza, che sbocca con profonda e potente
originalità in Kant» (Giuseppe Saitta, Marsilio Ficino e la filosofia
dell'Umanesimo, pag. 157, Bologna, Fiammenghi & Nanni, 19543). Bibliografia
Ettore Centineo, Ricordo di Giuseppe Saitta, su «Giornale critico della
filosofia italiana», XLV, n. 2, pp. 171–186, Firenze, Sansoni, aprile-giugno
1966 Gianfranco Morra, L'immanentismo assoluto di Giuseppe Saitta, su «Giornale
critico della filosofia italiana», XXXIII, n. 3, pp. 392–400, 1954 Eugenio
Garin, Cronache di filosofia italiana 1900-1960, volume II, Bari, Laterza, 1966
Roberto Melchiorre, Storiografi italiani del novecento (2010), Villalba di
Guidonia, Aletti Editore, 2012 Voci correlate Attualismo (filosofia) Filosofia
rinascimentale Idealismo italiano Delio Cantimori Giovanni Gentile Collegamenti
esterni Ricordo di Giuseppe Saitta (PDF), su archiviostorico.unibo.it. Giuseppe
Saitta, su treccani.it, 1961. Giuseppe Saitta, su bibliotecasalaborsa.it. V · D
· M Giovanni Gentile V · D · M Idealismo Controllo di autorità VIAF (EN) 21631386 · SBN
IT\ICCU\CFIV\044835 · LCCN (EN) nb91021640 · BNF (FR) cb11084978b (data) · BAV
(EN) 495/111669 · WorldCat Identities (EN) lccn-nb91021640 Biografie Portale
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Filosofi italiani del XX secoloStorici della filosofia italianiNati nel
1881Morti nel 1965Nati il 7 novembreMorti il 20 dicembreMorti a
BolognaIdealisti[altre]
Salutati Coluccio Salutati Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search (LA) «Video
ignoras quam sit dulcis amor patrie: si pro illa tutanda augendave expediret,
non videretur molestum nec grave vel facinus paterno capiti securim iniicere,
fratres obterere, per uxoris uterum ferro abortum educere...» (IT) «Vedo
che ignori quanto sia dolce l'amor di patria: se ciò fosse utile alla difesa e
all'ampliamento [della patria], non [ti] sembrerebbe un crimine penoso, nè un
delitto scellerato, il fracassare con la scure il capo del proprio padre, o
ammazzare i fratelli, o cavare con la spada dal grembo della moglie il figlio
prematuro...» (Epistolario, 1, X, a Ser Andrea di Conte, p. 28) Lino
Coluccio Salutati Raising of the Son of Teophilus and St. Peter Enthroned
16.jpg Masaccio, presunto ritratto di Coluccio Salutati, particolare tratto
dalla Resurrezione del figlio di Teofilo e san Pietro in cattedra, uno degli affreschi
che ornano la Cappella Brancacci a Santa Maria del Carmine, Firenze.
Cancelliere di Firenze Durata mandato 19
aprile 1375 – 4 maggio 1406 Predecessore Niccolò
Ventura Successore Leonardo
Bruni Dati generali Titolo di studio Studi
giuridici Università Università
di Bologna Professione politico,
notaio, letterato Lino Coluccio Salutati (Stignano, 16 febbraio 1332[N 1] –
Firenze, 4 maggio 1406) è stato un politico, letterato e filosofo italiano,
Cancelliere di Firenze dal 1375 al 1406. Figura culturale di riferimento
dell'umanesimo a Firenze, in qualità di discepolo del Boccaccio e precettore di
Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni. Considerato uno dei più importanti
uomini di governo tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo, Coluccio
Salutati, nei suoi trent'anni di cancelliere della Repubblica di Firenze,
svolse un importantissimo ruolo diplomatico nel frenare le ambizioni del duca
di Milano Gian Galeazzo Visconti, intenzionato a creare uno Stato comprendente
l'Italia centro-settentrionale. Nel contesto di questa lotta elaborò la sua
dottrina della libertas fiorentina. Oltre all'impegno politico, il Salutati
svolse un importante ruolo nella diffusione dell'umanesimo petrarchesco e
boccacciano, divenendone l'esponente più importante e il praeceptor della prima
generazionedegli umanisti[1]. Il suo lascito più importante presso i posteri fu
la codificazione "civile" dell'umanesimo, cioè l'uso dello spirito e
dei valori dell'antichità classica all'interno dell'agone politico
internazionale. Grazie a Salutati (autore tra l'altro di un vastissimo
epistolario e di trattati politici, filosofici e letterari), difatti, il mito
della florentina libertas, cioè di quel complesso di valori ispirati alla
libertà promosso dall'ordinamento politico fiorentino, si rafforzò enormemente
sotto il suo cancellierato, e fu utilizzato quale strumento diplomatico per
accrescere il prestigio di Firenze presso gli altri Stati della Penisola.
Indice 1 Biografia
1.1 Origini
e formazione giuridica 1.2 Cancelliere
di Firenze 1.2.1 Premesse
1.2.2 La
guerra degli Otto Santi (1375-1378) 1.2.3 Dal
tumulto dei Ciompi alla restaurazione oligarchica (1378-1382) 1.2.4 La guerra contro Gian
Galeazzo Visconti (1385-1402) 1.2.5 Gli
ultimi anni e la morte 2 Coluccio
umanista 2.1 La
guida dell'umanesimo italiano 2.1.1 La
formazione umanistica 2.1.2 Tra
Santo Spirito e la sua casa. L'educazione dei giovani umanisti 2.1.3 La fondazione della
cattedra di greco a Firenze (1397) 2.1.4 Il
pensiero 2.1.4.1 La
proposta etica e cristiana del Salutati 2.1.4.2 Le
humanae litterae non sono antitetiche agli studia divinitatis 2.1.4.3 La poesia vehiculum ad
Deum 2.1.5 L'attività
filologico-paleografica 2.1.5.1 La Biblioteca del Salutati 2.1.5.2 La questione
dell'Africa 2.1.5.3 L'inizio della scrittura umanistica 3 Opere 3.1 Epistolario
3.1.1 Premessa 3.1.2 Epistolario privato 3.1.3 Epistolario pubblico 3.2
Trattati 3.2.1 Politici 3.2.1.1 De Tyranno (1400) 3.2.1.2 Invectiva ad Antonium
Luschum (1403-1404) 3.2.2 Gli scritti filosofico-teologici 3.2.2.1 De seculo et
religione (1381-1382) 3.2.2.2 De fato et fortuna (1396-1397) 3.2.2.3 De
Nobilitate legum et medicine (1399) 3.2.3 De Laboribus Herculis (1383 e 1391)
3.2.4 Altre 3.2.4.1 Carmen de morte Francisci Petrarce 3.2.4.2 De verecundia
(1390) 4 Ascendenza e discendenza 5 Note 5.1 Esplicative 5.2 Riferimenti 6
Bibliografia 6.1 Antiche 6.2 Moderne 7 Voci correlate 8 Altri progetti 9
Collegamenti esterni Biografia La casa natale di Coluccio Salutati a Stignano,
frazione di Buggiano. Origini e formazione giuridica Nato a Stignano in
Valdinievole (oggi frazione di Buggiano, in provincia di Pistoia), Lino
Coluccio Salutati fu costretto, a pochi mesi dalla nascita, ad abbandonare il
luogo natìo per raggiungere il padre Piero (detto dal Villani «di buoni
costumi e di prudenzia laudabile»[2]) a Bologna, ove il genitore serviva il
signore della città Taddeo Pepoli[3], che a sua volta garantiva protezione alla
famiglia Salutati[4][5]. Nella città felsinea Coluccio compì, per volontà
paterna[2] (ma più probabilmente del Pepoli che, morto Piero Salutati nel 1341,
aveva preso sotto la sua protezione la famiglia e il giovane Coluccio in
particolare), studi giuridici, benché fosse maggiormente interessato alle
discipline letterarie[6], e seguì le lezioni di logica e di grammatica di
Pietro da Moglio[7][8]. Nel 1350 Coluccio, ormai diciannovenne, lascia
Bologna[9] a causa anche della caduta dei Pepoli[10] e ritorna a Stignano, dove
un rogito testimonia la sua presenza nel 1353[4]. Gli anni successivi
all'allontanamento da Bologna (1351-1367), videro Salutati esercitare il
mestiere di notaio in vari centri toscani (specialmente in Valdinievole)[11],
coltivando, come si vedrà nella sezione dedicata alla passione umanistica, lo
studio dei classici, come dimostra la lettera a Luigi de' Gianfigliazzi del
1362, colto politico fiorentino col quale Coluccio discute su Valerio Massimo e
altri autori antichi[12]. Cancelliere di Firenze Premesse Nel frattempo,
la carriera amministrativa del Salutati lo spinse ad intraprendere anche la carriera
politica: cancelliere del Comune di Todi prima (1367)[4][13], della Repubblica
di Lucca poi (1372), ed infine, dopo essere giunto nel 1374 a Firenze ed
avervi esercitato per breve periodo l'incarico di scriba omnium scrutinorum,
Cancelliere di quella città[N 2][11] proclamato il dì 19 aprile 1375. Coluccio
tenne, pertanto, nelle sue mani la carica più importante della diplomazia della
Repubblica fiorentina[14] dal 1375 fino alla morte, divenendo un personaggio di
spicco della politica italiana di fine Trecento[11]. Demetrio Marzi, importante
studioso di Coluccio per la sua attività istituzionale, sottolinea che, nei
trentun anni in cui tenne ininterrottamente la sua carica, Coluccio:
«Costantemente rieletto e confermato dal 1375 al 1406, con le stesse ingerenze,
lo stesso stipendio e i soliti privilegi, Coluccio lasciò nell'Ufficio un
numero grande di minutari e registri, di lettere e istruzioni, per lo più di
sua mano, e solo in parte de' suoi coadiutori, che non sembrano molti. Da
questi libri e da altri della Cancelleria, apparisce com'egli fosse
costantemente in Palazzo, presente a innumerevoli atti del Comune, dei
Consigli, degli uffici più svariati...» (Marzi, p. 134) L'Europa
Occidentale al principio dello Scisma d'Occidente. La frattura in seno alla Chiesa
Cattolica spinse il papa "romano" Urbano VI a firmare la pace coi
fiorentini. La guerra degli Otto Santi (1375-1378) Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Guerra degli Otto Santi. Nel 1375, le relazioni
tra Santa Sede (all'epoca ad Avignone) e la Repubblica fiorentina degenerarono
rapidamente a causa della volontà di papa Gregorio XI (1370-1378) di ritornare
a Roma e ripristinarvi l'autorità della Chiesa. La paura che si formasse, nel
centro Italia, un forte stato ecclesiastico allarmò sia Firenze (intimorita di
essere inglobata nel nuovo Stato) che le città degli Stati Pontifici, che a
causa della lontananza del Papato avevano acquisito una grande forza ed
indipendenza. La guerra, durata tre anni, finì frettolosamente a causa della
scissione interna alla Chiesa stessa tra cardinali francesi ed italiani, fatto
che portò alla nascita del gravoso Scisma d'Occidente (1378-1417). Il nuovo
papa, l'italiano Urbano VI (1378-1389), assolse Firenze dalla scomunica per
avere alleati contro l'antipapa Clemente VII[15]. Tra gli scomunicati,
c'era anche Coluccio Salutati, in quanto figura chiave della politica
dell'epoca. «Coluccium Pieri de Florentia, excellentissimum cancellarium comuni
Florentie»[16], ricevette l'assoluzione da parte del Papa tramite i legati
Simone Pagani, vescovo di Volterra, e Francesco d'Orvieto, frate
appartenente all'ordine degli Eremitani, il 26 ottobre del 1378[17]. Dal
tumulto dei Ciompi alla restaurazione oligarchica (1378-1382) Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Tumulto dei Ciompi e Storia di Firenze § L'ascesa degli Albizi.
Firenze, mentre stava stipulando la pace con papa Urbano VI, fu sconvolta dalla
rivolta del popolo minuto che, già soggiogato e perseguitato dalla prepotenza
politico-economica del popolo grasso, fu sobillato dagli operai salariati (i
ciompi) a rivoltarsi. Nell'estate del 1378 si ebbero i primi scontri e i
ciompi, risultati vincitori, imposero Michele di Lando quale gonfaloniere di
Giustizia e riformatore della Signoria in senso democratico. L'animosità degli
sconfitti si fece sentire molto presto: dopo aver chiuso gli opifici riducendo
alla fame gli operai, la grande borghesia e l'aristocrazia riuscirono a trarre
dalla loro parte Michele di Lando che, dopo aver disperso i capi dei ciompi, si
dimise dalla carica di gonfaloniere e ridando il potere ai magnati, tra i quali
primeggiarono gli Albizi che instaureranno un regime oligarchico durato fino
alla venuta di Cosimo de' Medici nel 1434[18]. Dall'epistolario di
Coluccio, sappiamo che egli informò Domenico Bandini di Arezzo dei tumulti
avvenuti in città e stimando gli uomini assurti al potere quali degni e pieni
di considerazione[19]. L'atteggiamento emerso in quest'epistola, datata il mese
d'agosto, si rivelerà contrario a quanto Coluccio in realtà pensasse del nuovo
governo. Marco Cirillo ci descrive lo stato d'animo del Cancelliere e la sua
scelta di rimanere in tale carica nonostante l'avversione per i Ciompi:
«Dalle lettere di Coluccio Salutati, riferite all'estate del 1378, si evince
come il cancelliere non fosse soddisfatto del governo instaurato dal Popolo
Minuto, ed è probabile che il cancelliere conoscesse anche i “piani politici”
di chi voleva ritornare al potere. Questo ci permette di ipotizzare che, la
decisione di ritornare al proprio ufficio si legava sia alle necessità
familiari dell'umanista, sia all'amore che egli nutriva per il proprio lavoro
ma anche, alla conoscenza dell'imminente ritorno del Popolo Grasso al
potere, unito alla convinzione della mancanza di conoscenze politiche adeguate
per governare una città come Firenze da parte dei Ciompi stessi.»
(Cirillo) Massima estensione dei domini viscontei alla morte del Duca
Gian Galeazzo nel 1402. La guerra contro Gian Galeazzo Visconti (1385-1402)
Coluccio ebbe un ruolo decisamente più attivo ed importante nell'animare
Firenze perché si difendesse dalle ambizioni di conquista di Gian Galeazzo
Visconti (1385-1402), duca di Milano, desideroso di sottomettere l'intera
Penisola al suo controllo schiacciando le resistenze delle Signorie dell'Italia
Settentrionale (1385-1390)[20]. Dopo il 1390, Galeazzo spostò infatti le sue
attenzioni sulla Repubblica di Firenze, e Coluccio giocò un ruolo importante in
questa situazione spronando il popolo fiorentino a difendere la sua
tradizionale libertà (la florentina libertas) e rispondendo egli stesso dalle
accuse dei nemici attraverso l'opera Invectiva in Antonium Loscum (1403-4). La
situazione per i fiorentini, all'inizio del conflitto, era alquanto drammatica,
in quanto si ritrovarono praticamente circondati dai domini di Gian
Galeazzo[21] e solo l'ausilio di bande mercenarie, guidate da Giovanni Acuto,
riuscirono a frenare i piani di dominio del Visconti. La guerra, che riprese
dopo una momentanea tregua a partire dal 1396, vide la formazione di una vasta
coalizione antiviscontea di cui fecero parte tutti gli stati italiani del
centro-nord, tenuti assieme dalla politica estera fiorentina e da quella
veneziana[22]. Nonostante gli alleati fossero stati gravemente surclassati
dalle forze milanesi, i fiorentini riuscirono a salvare la loro indipendenza
resistendo a dodici anni di guerra, cioè fino alla morte improvvisa di Gian
Galeazzo nel 1402 a causa della peste[23], lasciando Firenze in una posizione
di potenza nell'Italia centro-settentrionale. Gli ultimi anni e la morte
Coluccio trascorse gli ultimi anni della sua vita terrena celebrato sia per la
sua posizione di guida dell'umanesimo, sia per l'abilità politica dimostrata
contro il Visconti, ma anche in grandi amarezze a causa dei lutti (morte della
seconda moglie il 28 febbraio 1396 e la morte di alcuni dei suoi figli in
occasione della pestilenza del 1400)[24]. Quando poi morì, la sera del martedì
4 maggio 1406[25], la Signoria, il giorno successivo[25], gli fece celebrare
funerali solenni in Santa Maria del Fiore[26], ponendo sulla sua bara una
ghirlanda d'alloro per le sue virtù poetiche[27]. I suoi discepoli Leonardo
Bruni suo successore, Poggio Bracciolini, futuro cancelliere e Pier Paolo
Vergerio lo piansero amaramente, ricordandolo come un padre e come il più
grande decoro di Firenze[N 3]. Coluccio umanista La guida dell'umanesimo
italiano «[Salutati] fu per trent'anni, dopo la morte del Petrarca e del
Boccaccio, il più autorevole umanista italiano, unico erede di quei
grandi.» (Dionisotti) Miniatura che ritrae Coluccio Salutati,
proveniente da un codice della Biblioteca Laurenziana a Firenze. Alla
morte del Boccaccio (1375), Coluccio Salutati, sia per ragioni anagrafiche (era
di una generazione sita tra quella di Petrarca e Boccaccio e la successiva
degli umanisti del XV secolo), sia per la propria grandezza letteraria e
filosofica, fu il principale esponente dell'umanesimo italiano, come ricorda
infatti Carlo Dionisotti e altri studiosi[N 4], quel «trait d'union tra la
generazione che aveva vissuto in prima linea il rinnovamento petrarchesco e
quella dei nuovi umanisti già pienamente quattrocenteschi»[28]. Il Salutati
ebbe, sia per il ruolo istituzionale sia per quello culturale, rapporti anche
con i Paesi europei: tenne corrispondenza con un colto cortigiano di Carlo VI
di Francia, Jean de Montreuil[29][30], e con l'arcivescovo di Canterbury Thomas
Arundel, conosciuto mentre il presule inglese si trovava a Firenze[31]. Fecondo
scrittore, apologeta "diplomatico" della classicità contro gli
attacchi degli aristotelici e di alcuni ecclesiastici ostili all'antropologia
umanista, Coluccio alternerà il suo magistero culturale con quello politico,
difendendo la libertà repubblicana di Firenze adottando lo stile e il genere
degli antichi trattatisti. La formazione umanistica Nonostante Lino
avesse preso definitivamente l'attività notarile, come testimonia il suo primo
rogito effettuato nella nativa Stignano (1353), l'amore per la cultura e la
letteratura non venne meno. Anzi, a partire dalla fine degli anni sessanta,
Coluccio divenne il segretario di Francesco Bruni, amico a sua volta di
Francesco Petrarca[32]: iniziò, come esposto dalla Senile XI, 4[33] (datata 4
ottobre 1368[34]), un rapporto epistolare a distanza, che permise al Salutati
di avvicinarsi alle proposte umanistiche del poeta aretino[32]. Nel periodo che
intercorse tra questa prima epistola e la morte del Petrarca, Coluccio entrò
sempre più nella mentalità classicista del maestro, grazie anche ai contatti
che egli ebbe con l'altro grande umanista e allievo del Petrarca stesso,
Giovanni Boccaccio[35], quest'ultimo animatore del circolo umanista di Santo
Spirito a Firenze[36]. Tra Santo Spirito e la sua casa. L'educazione dei
giovani umanisti Seguendo la scia del maestro Boccaccio, sinceramente pianto
dal Salutati al momento del trapasso[37], il Cancelliere della Repubblica
continuò il suo magistero a Santo Spirito[N 5], tenendovi lezioni cui
partecipavano umanisti non solo fiorentini (si ricordano, tra i più importanti,
Niccolò Niccoli, Leonardo Bruni e Poggio Bracciolini), ma anche di altre
regioni italiane (quali il vicentino Antonio Loschi e il già ricordato Pier
Paolo Vergerio)[38][39]. Nel convento degli agostiniani Salutati, aiutato nel
suo magistero culturale dal coltissimo frate Luigi Marsili[40], non si fece
soltanto portavoce degli ideali dell'umanesimo classicista petrarchesco, ma
continuò a tenere in alta considerazione Dante Alighieri, deprecato da una
cerchia dei giovani umanisti in quanto scrittore volgare e pessimo latinista[N
6]. La fondazione della cattedra di greco a Firenze (1397) Oltre al suo
compito di formazione dei giovani umanisti che andranno a diffondere il nuovo
sapere presso gli altri centri culturali italiani, Salutati ebbe il merito non
solo di affidare le cattedre tradizionali dello Studium fiorentino ad umanisti
discepoli di Petrarca (quali Giovanni Malpaghini), ma soprattutto quello di far
rifiorire in Italia il greco classico. Grazie all'incontro avvenuto a Venezia
tra i giovani umanisti Roberto de' Rossi e Giacomo Angeli da Scarperia e i due
colti bizantini Manuele Crisolora e Demetrio Cidone[41], il Salutati iniziò,
usufruendo dei poteri di Cancelliere, ad intessere rapporti con Crisolora per
invitarlo ufficialmente a Firenze quale docente di greco classico nello
Studium[N 7]. Questi, giunto nell'Europa Occidentale per conto dell'imperatore
Manuele II Paleologo per cercare alleanze contro i turchi ottomani, cercò di
instaurare rapporti di amicizia con gli Stati che visitava trasmettendo la
conoscenza del greco classico ai nascenti circoli umanistici, edotti di latino
ma non della lingua di Omero[42]. Pertanto Crisolora accettò l'offerta del
Salutati, rimanendo nella città toscana dal 1397[43] al 1400 e lasciando in
eredità ai suoi discepoli (e amici) fiorentini gli Erotematà, compendi
linguistici di greco classico caratterizzati da una sinossi con la grammatica
latina[42]. Il pensiero La proposta etica e cristiana del Salutati
Beato Angelico, Giovanni Dominici, medaglione facente parte del ciclo La
crocifissione e i santi, situato nel Convento di San Marco, a Firenze.
L'umanesimo incontrò, durante la sua diffusione, il sospetto e l'ostilità di
alcuni ambienti religiosi a causa della libertà e responsabilità etica del singolo
uomo che Coluccio andava insegnando[N 8], e del suo progetto di conciliare la
natura della cultura classica con quella cristiana. I principali antagonisti
dell'umanesimo fiorentino, il camaldolese Giovanni di San Miniato e il
domenicano Giovanni Dominici (quest'ultimo poi cardinale), intendevano
sostanzialmente mantenere l'istruzione e la morale rigidamente nelle mani della
gerarchia, rifiutando la ventilata autonomia spirituale dei pagani e
riaffermando la loro interpretazione allegorica[N 9]. Le humanae litterae
non sono antitetiche agli studia divinitatis Coluccio, davanti a questi
attacchi, sostenne la necessità, anche da parte dei laici, di avere
coscienza di ciò che dicono e professano nella vita attiva, ribadendo il valore
positivo di questo modello di vita[44] e combattendo il vuoto nominalismo
tomista che la cultura ecclesiastica ufficiale difendeva strenuamente[45],
quest'ultimo visto come nocivo perché, avendo ormai intriso la stessa Bibbia di
sillogismi filosofici, allontanava dalla Verità gli uomini: «Senza la
capacità di intendere in fondo i termini, la lingua, non si dà conoscenza della
scrittura, della parola di Dio. Ogni conoscenza seria è comunicazione. In tal
modo gli studia humanitatis come mezzo per ritrovare nella lettera l'inseparabile
spirto, nel corpo l'anima indisgiungibile, sono strettamente connessi con gli
studia divinitatis.» (Garin, p. 39) La poesia vehiculum ad Deum La
disputa sulla verità teologica della poesia, genere privilegiato nella
conoscenza di Dio, è quello che impegnerà maggiormente Salutati. Seguendo il
tracciato delle Genealogie deorum gentilium del maestro Boccaccio, Coluccio
Salutati risponde alle accuse dell'immoralità della poesia a Giovanni di San
Miniato, in una lettera del 21 settembre del 1401, affermando non solo che ogni
verità proviene da Dio stesso[46], ma anche che Dio ha usufruito della poesia
attraverso i salmisti, Giobbe e Geremia: per cui la poesia è il genere
letterario più vicino a Dio[47]. Tale tesi verrà poi ulteriormente rinforzata
nell'incompiuto De laboribus Herculis, in cui si arriverà a sostenere una vera
e propria poesia teologica, per cui anche gli antichi poeti pagani, con le loro
opere, si avvicinavano a Dio. L'attività filologico-paleografica La
Biblioteca del Salutati Un'edizione a stampa veneziana dell'Affrica del
1501. Il poema epico del Petrarca, per la sua incompletezza e il latino ancora
un po' rozzo, suscitò delusione nei simpatizzanti dell'umanesimo. Salutati
formò, impiegando gran parte delle sue retribuzioni, una biblioteca di più di
100 volumi[48], collezione molto grande per l'epoca e simbolo del suo fervore
culturale. Coluccio possedette un manoscritto delle tragedie di Seneca
ricopiato ottimamente di suo pugno con l'aggiunta dell'Ecerinide del
preumanista padovano Albertino Mussato[48], ma anche esemplari di autori poco
conosciuti nel Medioevo quali Tibullo[49] e Catullo[N 10], ed una rarissima
copia d'età carolingia delle Ad familiares di Cicerone[50], scoperta
dall'amico e cancelliere milanese Pasquino Capelli a Vercelli[51]. A questa
scoperta in terra di Lombardia, si aggiunse negli anni seguenti anche le
Epistole ad Atticum, rendendo il Salutati «il primo dopo secoli a possedere
entrambe le raccolte di lettere [di Cicerone]»[52]. Remigio Sabbadini riporta
che, nella sua biblioteca, Coluccio «fu il primo a possedere il De agricultura
di Catone, il Centimeter di Servio, il commento di Pompeo all'Ars maior di
Donato, le Elegie di Massimiano e le Differentiae pseudociceroniane»[53],
mentre Francesco Tateo continua elencando «i Dialoghi di Gregorio Magno e
l'esame dei vari manoscritti di Cicerone, di Lattanzio, di Agostino, di Seneca,
di Ovidio [e] di Stazio»[54] in suo possesso. Nonostante questa passione
da bibliofilo, che rese la biblioteca del Salutati la più significativa dopo
quella del Petrarca agli albori del XV secolo, Coluccio non sfoggiò mai
eccellenti doti filologiche, al contrario del Petrarca stesso o del suo
discepolo Leonardo Bruni[55]. La questione dell'Africa Coluccio cercherà,
inoltre, di avere da parte di Lombardo della Seta, fedele discepolo del
Petrarca, una copia dell'Africa perché fosse poi pubblicata[56]. Gli sforzi di
Salutati e dei primi umanisti risultarono sempre più insistenti nel corso degli
anni settanta: Lombardo aveva timore a pubblicare un'opera «rimasta in un testo
incompiuto ed incerto», rischiando così di oscurare la gloria del Petrarca[57].
Quando poi, al principio del 1377, giunge a Firenze il sospirato poema epico
dell'Aretino, «...il Salutati è afflitto dalle sospensioni, dalle lacune e
certamente anche dalla pesantezza d'ala del poema tanto vantato e sognato»[58].
La delusione, trasmessa in una lettera a Francescuolo da Brossano, spinse il
Salutati a non farsi più editore e commentatore dell'opera[59]. L'inizio
della scrittura umanistica Coluccio intervenne anche nel campo della
paleografia. Nel vivo studio dei classici, Coluccio fece un'introduzione
fondamentale: dopo aver adottato, per gran parte della sua vita, «una scrittura
cancelleresca e una libraria 'semigotica'»[60], a partire dal 1400 lesse e
trascrisse un codice delle Lettere di Plinio il Giovane contenente nessi e
legature che si erano persi nel corso del Medioevo: «l'uso di -s diritta in
fine di parola, i nessi e le legature ae, ę e &, di cui si era persa
memoria. Con questo esperimento inizia la storia della scrittura
umanistica»[61]. Opere Cristofano Allori dell'Altissimo, Ritratto
di Coluccio Salutati, 1587, dipinto ad olio, Galleria degli Uffizi, Firenze
Epistolario Premessa Composto da 344 lettere[26], l'epistolario di Coluccio,
«documento fondamentale di questa lunga ed efficace opera di rinnovamento»[11]
culturale, tratta dei temi più disparati. Organicamente, la raccolta si divide
in due filoni: le lettere private, indirizzate ad amici e conoscenti, e quelle
pubbliche, scritte a nome della Repubblica diFirenze. Stilisticamente,
l'epistolario di Coluccio spicca per l'uso di uno stile che si allontana da
quello delle lettere medioevali, fitte della retorica della ars dictandi, per
lasciare il posto ad una serenità cordiale e stoica che si richiamava alle
Familiares di Cicerone[62] e al repertorio lessicale degli altri autori
classici, determinando così quello che è stato definito «latino
misto»[63]. Epistolario privato Nella prima categoria, le lettere scritte
a nome dell'umanista Coluccio mettono in mostra le tendenze socio-culturali del
primo umanesimo italiano. Da un lato, la percezione del divario cronologico tra
i contemporanei e gli antichi, eredità diretta della sensibilità petrarchesca;
dall'altro, l'esposizione in più punti del suo pensiero, dalla rivendicazione
del valore della vita attiva contro i monaci e quegli ecclesiastici che
sottolineavano invece l'eccellenza della vita claustrale al valore della
poesia[64]. Immancabile è la tematica politica, esposta nella lunga lettera a
Carlo di Durazzo[65] e ritenuta essere il sunto del pensiero politico del primo
umanesimo[N 11]. Epistolario pubblico Queste lettere, scritte in qualità
di cancelliere della Repubblica, sono di carattere puramente politico, in
quanto rivolte a contrastare l'azione egemonica di Gian Galeazzo Visconti.
Riprendendo i modelli dei classici latini (Seneca, Sallustio, Cicerone),
Coluccio additava Gian Galeazzo quale tiranno in contrasto con la florentina
libertas. Il tono di queste lettere doveva essere così grave e tagliente che,
secondo la tradizione, il duca di Milano rispondeva che un'epistola del
Salutati era più deleteria di una sconfitta militare di Milano in campo
aperto[66]. Dal punto di vista più tecnico, come fa notare Marco Cirillo:
«...il lavoro svolto presso la cancelleria di Firenze ha reso Coluccio Salutati
uno dei più noti cancellieri del Medioevo; tale notorietà si deve al metodo di
lavoro che egli ha adottato nel trentennio in cui ha ricoperto tale carica.
Effettivamente, i cambiamenti che il Salutati ha apportato, soprattutto nel
campo dell'epistolografia politica medievale, pur non essendo certo radicali,
ebbero una notevole influenza su molte corti d'Europa. La letteratura
sull'argomento è unanime nell'affermare che, Coluccio Salutati, pur utilizzando
la formula prevista dall'epistolografia cancelleresca medievale, che prevedeva:
la Salutatio, il Proverbium, la Narratio, la Petitio e la Conclusio; ebbe modo
di personalizzare ogni fase dell'epistola in base alle proprie esigenze
narrative. È frequente perciò trovare nelle sue lettere una Salutatio piuttosto
breve ed un Proverbium – soprattutto quando egli esprimeva teorie politiche –
piuttosto lungo.» (Cirillo) Trattati Politici
Vincenzo Camuccini, Morte di Giulio Cesare, particolare, olio su tela,
1798, Museo nazionale di Capodimonte, Napoli De Tyranno (1400)
Epistola-trattato inviata a Francesco Zabarella, filosofo padovano, il De
Tyranno (basato sull'omonimo trattato di Bartolo da Sassoferrato e sul
Polycraticus di Giovanni di Salisbury[67]) riflette sulla nascita della
tirannide e sulla liceità dell'assassinio del tiranno stesso. Indotto a fare
questa riflessione su spunto del giovane Antonio dell'Aquila, studente padovano
che aveva chiesto al Salutati la liceità dell'assassinio di Giulio Cesare, e
dalla volontà di difendere la scelta dantesca di porre Bruto e Cassio nelle
fauci di Lucifero[68], Coluccio ammette la liceità di un tale gesto nei
confronti di un despota, ma negandola però al generale romano, in quanto «fu un
benemerito capo di stato, che fu tradito dagli stessi uomini che erano stati da
lui beneficiati»[69][70]. Invectiva ad Antonium Luschum (1403-1404)
Scritta contro un suo ex discepolo, Antonio Loschi, cancelliere dell'ormai
defunto Gian Galeazzo (morto nel 1402) e autore di una perduta Invectiva in
florentinos[71], ha un tono più concreto rispetto al teorico De Tyranno.
Nell'Invectiva Coluccio mostra la partigianeria repubblicana sostenitrice della
florentina libertas, emula dell'Atene di Pericle fautrice della concordia
partium tra lei e i suoi alleati[72]. Salutati ricorda al Loschi come Firenze
sia nel giusto perché è sottoposta alle leggi, che non possono essere violate,
mentre a Milano il diritto è strumento arbitrario nelle mani di un vero e
proprio tiranno, che sta al di sopra delle leggi[73][74]. Gli scritti
filosofico-teologici De seculo et religione (1381-1382) Scritta all'amico
Niccolò di Lapo da Uzano (che prese poi il nome di Girolamo appena entrato
nell'ordine dei camaldolesi[11]) si articola in due libri[75] ed è datata 1381,
in quanto Coluccio inviò a Fra' Gerolamo da Uzzano una lettera
d'accompagnamento insieme al testo da lui realizzato[76]. L'opera tratta di una
esortazione assai fervida alla vita claustrale, ma rivendica anche la validità
della vita quale laico, in quanto strada «valida nell'ambito gerarchico delle
occupazioni umane, a cui egli rimane ancora legato»[11]. L'opera del Salutati,
esaltante la vita ritirata prendendo spunto anche da Cicerone, Livio, Macrobio
e Omero[75], tratta anche della condanna morale di cui è afflitta la Chiesa,
dai papi fino ai predicatori. De fato et fortuna (1396-1397)
Facsimile del codice Laurenziano Pl. CX sup. 41, Biblioteca Medicea
Laurenziana, Firenze, riportante una lettera del Salutati. Diviso in cinque
libri, il trattato espone l'argomento del libero arbitrio e del rapporto che
esiste tra quest'ultimo e gli avvenimenti che possono ostacolarne i progetti.
La tematica, assai complessa ed erede di una lunga tradizione
teologico-filosofica (i modelli sono Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e il De
bona fortuna di Aristotele), si sviluppa nel tentativo di dimostrare come
l'esistenza umana si inquadri in una “causa prima” (Dio), la quale opera in
comunione, talvolta incontrandosi, talvolta scontrandosi, con la volontà
dell'uomo[77]. De Nobilitate legum et medicine (1399) Trattato che
cerca di proporre una gerarchia dei saperi, proponendo la legge come valore
supremo sulla medicina, intesa come sapere tecnico-scientifico: come l'anima è
superiore al corpo, così le leggi (che si rifanno al campo spirituale) sono
superiori alla medicina, che fa parte della meccanica[78]. Le leggi, infatti,
regolano la vita sociale, determinano il convivere civile, stabiliscono
l'ordine e devono essere ottime perché possano produrre uomini migliori[79].
Coluccio continua affermando che le leggi, dal momento che appartengono alla
sfera spirituale e quindi celeste, sono legate direttamente a Dio: gli uomini,
perciò, possono collaborare con Dio nella costruzione perfetta della società
grazie al fatto che esse sono ispirate dalla divinità medesima[80]. De
Laboribus Herculis (1383 e 1391) Opera di grande impegno intellettuale,
Coluccio lavorò per più di vent'anni su questo vasto saggio di poesia, com'è
testimoniato dalla versione del 1383 e da quella del 1391[81]. Quest'ultima,
divisa in 4 libri e lasciata incompiuta, intende continuare il progetto
culturale di Boccaccio delle Genealogie, vale a dire una difesa della poesia a
livello universale basata sulle vicende terrene dell'eroe mitologico
Ercole[82], reinterpretate in senso allegorico e indirizzate verso la via della
virtù (Salutati si basò su Ercole anche per la radice etimologica del nome
greco, risalente ad ερος κλερος (heros cleos), cioè uomo forte e
glorioso[81]). Per Coluccio, come aveva già scritto a Giovanni di San
Miniato, infatti, la poesia ha un valore universale in quanto il senso
interpretativo di un testo classico supera la dimensione culturale in cui è
stato scritto: per cui le opere dei pagani, se piene di valori positivi, non
devono essere rigettate, ma accolte in quanto provenienti da Dio stesso[81].
Altre Carmen de morte Francisci Petrarce Carme in latino commemorativo del
Petrarca e accennato in varie epistole a Roberto Guidi conte di Battifolle, a
Benvenuto da Imola e a Francescuolo da Brossano, del quale è quasi dubbio il
completamento[83]. De verecundia (1390) Trattatello in forma epistolare
indirizzato ad Antonio Baruffaldi sulla natura positiva o negativa della
verecundia (cioè il rispetto)[82]. Ascendenza e discendenza Grazie agli
studi genealogici di Francesco Novati, si è potuti ricostruire l'ascendenza e
la discendenza del cancelliere fiorentino, appartenente al ramo dei
Salutati di Stignano. Qui sotto è riportato un albero genealogico che espone
l'ascendenza e la discendenza di Coluccio Salutati[N 12]: Ignota Coluccio Ignota,
figlia di un tal Lino Piero
Lino Coluccio ~ ① 1366, donna ignota; ~ ②
1372-73, Piera di Simone Riccomi[84] Andrea Corrado Giovanni Sorella
ignota, sposata a uno dei Giovannini di Stignano sorella ignota, sposata ad uno dei
Dreucci di Pistoia ① Piero (1371-1400), morto di peste ②
Andrea (1375-13 luglio/14 agosto 1400), morto di peste ② Bonifazio
(1376/77-pre 1427) ~ 1420 ca Monna Checca de' Baldovinetti ②
Arrigo (1378-1428/29) ~ 1416 Margherita d'Andrea de' Medici ②
Antonio (1º maggio 1381 - 1460/65) ~ ⓐ 1417
ca Duccia di Guernieri de' Rossi; ⓑ
Nonnina ②
Filippo (1383 ca-post 1407) ②
Simone (6 gennaio 1385- pre 1430) ②
Lionardo (1387 ca - 1437), chierico ②
Salutato (1391 ca - 1485/86), chierico Lorenzo
(incerto) Note Esplicative ^ A lungo si è ritenuta corretta la data del 1331,
Campana, (pp. 237-242), Martelli, (pp. 238-239 e p. 239, nota 1), Nuzzo, (p.
30, nota 5) e altri studiosi hanno dimostrato che la data corretta è 1332. ^
Villani, Coluccio Salutati, p. XXVII, nota 20 racconta l'ascesa politica di
Coluccio ad una delle più prestigiose cariche politiche fiorentine. Nominato
segretario grazie all'influenza del Gonfaloniere Bonaiuto Serragli, Coluccio fu
poi eletto Cancelliere (il 18 di aprile) in sostituzione di Niccolò Monaci,
uomo politico con cui il Serragli fu in disputa. ^ Si veda Epistolario, 4.2,
pp. 470-471 per le addolorate missive inviate dal Bruni e da Poggio all'amico
in comune Niccolò Niccoli («tali parente» nell'epistola di Bruni; «patris
nostri» in quella di Poggio). In Ivi, pp. 478-479, l'istriano Pier Paolo
Vergerio, in una lettera a Francesco Zabarella, lo descrive come il primo e
straordinario decoro di Firenze («...urbis illius primum atque precipuum decus,
Linum Colucium Salutatum»). ^ Della stessa opinione anche: Cappelli, p. 76, in
cui si ricorda, al momento dei funerali, il commosso addio dell'allievo Pier
Paolo Vergerio, che chiamò Salutati communis omnium magister («maestro comune
di tutti [noi]»); Vasoli, p. 40; Contini, p. 869; Gargan, p. 141. ^ Luogo
significativo per continuare le riunioni dei nuovi umanisti, in quanto vi
viveva quel fra' Martino da Signa erede universale degli scritti del Boccaccio.
Si vedano Contini, p. 869; e Petoletti, p. 42: «... [Boccaccio] dispose per
testamento di lasciare la sua biblioteca all'agostiniano Martino da Signa con
l'indicazione che alla morte del frate i volumi fossero negli armaria del
convento fiorentino di Santo Spirito. Così avvenne...» ^ La grandezza di
Dante, ma anche di Petrarca e dello stesso Boccaccio, furono messi in
discussione dal più acceso degli umanisti classicisti, Niccolò Niccoli,
all'interno dei Dialogi ad Petrum Histrum di Leonardo Bruni (1402). L'accusa
principale consisteva nella barbaria del loro latino e nel, caso di Dante, nel
fraintendimento del senso di alcuni passi virgiliani. Solamente l'intervento
del vecchio Salutati, nel I libro, riesce a capovolgere la situazione, salvando
Dante dalle accuse feroci del Niccoli: «Come anche risulta da un dialogo del
Bruni, che di quella polemica antidantesca è il documento principe,
l'intervento del S[alutati] riuscì ad assicurare la continuità, proporzionata
all'età nuova, della tradizione dantesca a Firenze.» (Dionisotti) ^ I
contatti tra Costantinopoli e Firenze erano facilitati dalla presenza, nella
capitale bizantina, dello stesso Giacomo da Scarperia, che decise di
riaccompagnare Crisolora in patria per apprendere greco da lui stesso. Si veda:
Tateo, p. 50. ^ La visione "laica" dell'umanesimo non si deve
confondere con la proposta "laicista", dal punto di vista etico e antropologico.
Mantenendo sempre un'attenzione ossequiosa verso la Chiesa e una sincera
devozione verso le Verità cristiane, Coluccio intende nel contempo «esaltare e
rivendicare la responsabilità umana al di fuori di qualsiasi determinismo
meccanicista e ponendo in valore la libertà personale del singolo» (Cappelli,
p. 85). Abbagnano, p. 19 sintetizza in modo più stringente il rapporto tra
libero arbitrio e volontà divina, affermando che il primo sia «conciliabile con
l'infallibile ordine del mondo stabilito da Dio». ^ Si è condensato, in questi
due punti, l'attacco generale del mondo ecclesiastico contro l'umanesimo. Come
sottolinea Cappelli, p. 78, la questione sul valore della poesia riguarda la
disputa con Giovanni di San Miniato tenutasi nel 1401 (cfr. Epistolario, 3,
Fratri Johanni de Angelis, XX, pp. 539-543); quella con Dominici riguarda il
valore positivo dell'umanesimo e risale al 1405 (cfr. Epistolario, 4, pp.
170-205). ^ Il codice di Catullo facente parte della biblioteca del Salutati
(cod. Paris. 14137) entrò nelle mani del cancelliere fiorentino il 19 ottobre
del 1375 grazie alle pressioni che esercitò sull'erudito veronese Gasparo de
Broaspini, secondo quanto riporta Sabbadini, p. 34. Della stessa opinione anche
Francesco Novati che, in Epistolario, 1, p. 222 nota 2, giunge alla stessa
conclusione del Sabbadini in quanto vi ha trovato delle postille autografe del
Salutati. ^ Così la definisce Cappelli, pp. 76-77. L'epistola, datata 1381, è
importante perché, dopo l'elogio di Carlo per la fortunata impresa militare
della conquista del Regno di Napoli e il paragone con gli eroi antichi,
Coluccio enumera i doveri di un buon sovrano: cercare l'unità religiosa della
Chiesa, spaccata dallo Scisma (cfr. Epistola, 2, pp. 27-28); gestire con
moderazione il potere e imparare a gestire le proprie emozioni (Epistola, 2, p.
32: «incipe prius tibi quam aliis imperare; rege te ipsum, noli regendorum
subditorum studium tuimet derelinquere moderamen.») per evitare di cadere nei
vizi e di essere classificato come un tiranno (Epistola, 2, p. 33). Esaltandolo
alla virtù, alla temperanza e alla giustizia, Coluccio insomma tratteggia il
modello del sovrano ideale, cavalleresco, formato sull'esempio dei classici
(continua è la comparazione con gli antichi statisti e sovrani) e timorato di
Dio. ^ Le informazioni, ricavate attraverso una minuziosissima ricerca
d'archivio da parte del Novati, sono prese in ordine sparso da Epistolario,
4.2, Tavole genealogiche dei Salutati, 384-408, ove vengono fornite indicazioni
biografiche sui nonni, genitori e figli di Coluccio. Per consultare le
informazioni sui fratelli del cancelliere, si consulti sempre Epistolario, 4.2,
pp. 409-412. Riferimenti ^ Dionisotti. Villani, Coluccio Salutati, p.
XXI, ^ Marzi, p. 113. Carrara. ^ Contini, p. 869. ^ Carrara: «Fu avviato
agli studî giuridici, inameni a lui che era "pierius" (così foggiò il
suo patronimico: figlio di Pietro, e devoto alle Pieridi, le Muse).» ^
Garin, p. 35. ^ Epistolario, 1, 1, Magistro Petro de Moglio, p. 3. ^
Epistolario, 1, 1, Petro da Moglio, p. 3, nota 1. ^ Marzi, p. 114, nota
1. Tateo, p. 43. ^ Epistolario, 1, 4, Eloquentissimo legum doctori domino
Loygio de Gianfigliaziis, pp. 9-12. ^ In Epistolario, 1, 16, Reverendo patri et
domino domino Francisci Bruni de Florentia summi pontificis secretario,
domino suo, p. 44, Coluccio si lamenta della sua mansione di cancelliere nella
cittadina umbra, così come farà nelle Ep. 1, 17 e 18. ^ Marzi, p. 14: «Vero è
che nel secolo XV invalse l'uso di chiamare Cancelleria Fiorentina l'ufficio
del quale era capo il Dettatore, che aveva la particolare ingerenza di scrivere
le lettere e di trattare le faccende della politica esterna...» ^ Per le
informazioni in generale, si veda Bosisio, p. 248. ^ Epistolario, 4.2, p. 441.
^ Epistolario, 4.2, p. 429 e Ibidem, nota 2. ^ Per l'intera vicenda, si veda
Bosisio, p. 249. ^ Epistolario, 2, p. 291: (LA) «Unum dicam, quod emerserunt et
ad tante sunt reipublice gubernacula sublimati, quos oportuit pro salute
cunctorum.» (IT) «Dirò una cosa, cioè che al governo di una così grande
repubblica emersero e vi sono [uomini], i quali bisognò [vi fossero] per la
salvezza di tutti.» Inoltre, sempre in Ivi, nota 2, il Novati annota che
Coluccio fu così favorevole al nuovo governo in quanto fu uno dei pochissimi a
non essere proscritto dalle cariche istituzionali. ^ Bosisio, pp. 259-260. ^
Come riporta Bosisio, p. 260, Siena si sottomise a Gian Galeazzo in funzione
anti-fiorentina, mentre il signore di Milano (dal 1395 duca per investitura
imperiale) si alleò con Lucca e altre città umbro-marchigiane. ^ Bosisio, p.
260. ^ Bosisio, p. 261. ^ Marzi, p. 133. Marzi, p. 148. Cappelli,
p. 76. ^ Villani, Coluccio Salutati, p. XXII, nota 5. ^ Cappelli, p. 86. ^
Marzi, pp. 145-146. ^ Epistolario, 4.2, pp. 331-332. ^ Marzi, p. 146.
Wilkins, p. 259. ^ Senili, 2, pp. 152-153. ^ Cesareo, p. 26, nota 20. ^ La
prima epistola riportata dal Novati in cui Coluccio risponde ad una missiva del
Certaldese risale al 20 dicembre 1367 (cfr. Epistolario 1, Lib. III, 28,
Facundissimo domino Iohanni Boccacci de Certaldo..., pp. 48-49) ma, come fa
notare lo stesso Novati, i toni sono troppo famigliari per essere la prima
epistola scambiata tra i due (Ivi, p. 48 n° 1). ^ Branca, p. 183. ^ (LA)
«Inclyte cur vates, humili sermone locutus, / de te pertransis? [...] te vulgo
mille labores / percelebrem faciunt: etas te nulla silebit.» (IT)
«Perché, o celebre poeta, che hai cantato nel volgare idioma, / avanzi nel
corso del tempo? [...] Mille fatiche ti rendono celebre presso il volgo / : nessuna
epoca tacerà sul tuo conto.» (Branca, p. 193) Si veda anche Epistolario,
1, Egrigio viro Franciscolo de Brossano domini Francisci Petrarce genero, Ep.
XXV, p. 225, ove Coluccio piange sia la scomparsa del Petrarca, ma annuncia
anche quella del Boccaccio: (LA) «Fallebar enim, et dum Franciscum fleo, dum
suis laudibus intentus decantantes, novo commento, veterum pene dimissa
sententia, depingo Camenas, ecce nove lacrime nobis merore novi funeris
occurrerunt, incepti cursum operis reprimentes. Vigesima quidem prima die
decembris Boccaccius noster interiit...» (IT) «Infatti ero ingannato, e
mentre piango Francesco e mentre, attento alle sue lodi, adorno le Camene con
un nuovo commento, quasi tralasciata la sentenza degli antichi, ecco che nuove
lacrime si aggiunsero a noi con il dolore di una nuova morte, frenando il corso
di un'opera che inizia. Il nostro Boccaccio spirò il ventuno di dicembre [del
1375]...» ^ Tateo, p. 41. ^ Cappelli, pp. 87-88, ricorda anche che
Salutati era solito mettere a disposizione dei suoi allievi la sua stessa
biblioteca personale. Pertanto, i luoghi di incontro erano due: Santo Spirito e
l'abitazione del Cancelliere, come dimostra anche Tateo, p. 42. ^ Tateo, p. 42:
«Gli animatori di questi incontri, il Salutati e il Marsili, l'uno nella
propria casa, l'altro nella sua cella di Santo Spirito, ricevevano i giovani
più promettenti della nobilità fiorentina, e li iniziavano al gusto delle
lettere antiche.» ^ Chines, pp. 204-205 riporta come data il 1391, mentre
Sabbadini, p. 43 il 1394. Cappelli, p. 109. ^ Sabbadini, p. 43 riporta
che l'erudito greco era già a Firenze il 2 febbraio del 1397. ^ Garin, p. 36
sintetizza, prendendo spunto dal De saeculo et religione e dall'Epistolario, 2,
pp. 303-307, l'ideale di vita attiva propria dell'essere umano inteso come
cittadino del mondo: «Terrestre è la vocazione umana. L'impegno nostro è nella
costruzione della città terrena, nella società». ^ Garin, pp. 38-39: «Il
Salutati...insisteva sul valore della educazione nuova [...] essa insegnava a ritrovare
sub corticem il valore intenzionale dei termini, smarrito nella consuetudo,
penetrando l'espressione nel suo significato intimo come direzione spirituale.
Parola e cosa, insiste il Salutati, non possono disgiungersi.» ^
Epistolario, 3, Fratri Johanni de Angelis, XX, pp. 539-540: (LA) «Noli,
venerabilis in Christo frater, sic austere me ab honestis studiis revocare.
Noli putare quod, cum vel in poetis vel aliis Gentilium libris veritas
queritur, in vias Domini non eatur. Omnis enim veritas a Deo est, imo, quo
rectius loquar, aliquid est Dei.» (IT) «Non volere, o venerabile fratello
in Cristo, allontanarmi in modo così austero da studi degni di ammirazione. Non
voler ritenere che, quando si cerca la verità o nei poeti o in altri libri
degli scrittori pagani, non si cammini lungo le vie del Signore. Ogni verità,
infatti, proviene da Dio e, per parlare fino in fondo rettamente, alcuna cosa è
propria di Dio.» ^ Epistolario, 3, XX, p. 541: (LA) «Nullum enim dicendi
genus maius habet cum divinis eloquiis et ipsa divinitate commertium
quam eloquium poetarum.» (IT) «Nessun genere letterario, infatti, ha
un maggior legame con le parole divine e con la stessa divinità quanto la
parola dei poeti.» Gargan, p. 141. ^ Sabbadini, p. 25. ^ Gargan, p.
142: «Il manoscritto di Vercelli fu alla fine portato a Firenze, ove rimane
(Laur. 49, 9), unica copia carolingia esistente delle Epistole di Cicerone.» ^
Sabbadini, p. 34. ^ Gargan, p. 142. ^ Sabbadini, pp. 34-35. ^ Tateo, p. 49. ^
Gargan, p. 140 ritiene che «la sua filologia non fu di altissima classe...». ^
Billanovich, p. 16. Fitta la corrispondenza tra Salutati e Della Seta, come
testimonia la prima lettera inviata dal cancelliere fiorentino il 25 gennaio
del 1376 (Epistolario, 1, Insigni viri Lombardo...optimo civi patavino, Lib.
IV, 1, pp. 229-241). ^ Billanovich, p. 11. ^ Billanovich, p. 52. ^ Epistolario,
1, Franciscolo de Brossano, Lib. IV, V, pp. 250-254. ^ Bischoff, p. 211. ^
Bischoff, pp. 211-212. ^ Cappelli, p. 77. ^ Cesareo, p. 289. ^ Cfr. la già
citata Epistolario, 3, Fratri Johanni de Angelis, XX, pp. 539-540. ^
Epistolario, 2, Epistola Coluci Salutati florentina ad Carolum regem
Neapolitanum, 1, 6, pp. 11-46. ^ Canfora, p. 13. Villani, Coluccio Salutati, p.
XXIII, nota 6 riporta la veemenza con cui Salutati "fulminava" Gian
Galeazzo con le sue lettere, riportando tra l'altro la testimonianza di Enea
Silvio Piccolomini cui quest'aneddoto è attribuita la paternità. ^ Canfora, pp.
14-15. ^ Pastore Stocchi, p. 68. ^ Sia la citazione che il contesto in cui fu
scritto il De Tyranno sono esposti in Canfora, pp. 14-16. ^ Così Cappelli, p.
82: «In altri termini, se Cesare, pur giunto al potere in modo
"tirannico" o violento, seppe poi legittimare tale potere attraverso
un esercizio virtuoso di esso (ex parte exercitii) in grado di suscitare
l'approvazione popolare, la sua uccisione non fu legittima, mentre lo sarebbe
quella di un tiranno che esercitasse come tale.» ^ Per la figura di
Loschi, si rimanda alla voce biografica a cura di Viti. ^ Canfora, pp. 13-14
ipotizza, a p. 14, l'aiuto di Leonardo Bruni nello sviluppare il paragone
Firenze-Atene, in quanto Coluccio Salutati «non [era] molto esperto di quella
lingua e di quella cultura». ^ Cappelli, p. 83. ^ Vasoli, p. 40: «Così il
Salutati, rivolgendosi al cancelliere milanese Antonio Loschi, nella Invectiva
in Antonium Luschum, dopo aver contrapposto i guasti del regime tirannico
milanese ai vantaggi di quello libero e repubblicano di Firenze, glorifica la
sua città come "fiore d'Italia" e come esempio di vita serena e
armoniosa.» Cappelli, p. 84. ^ Epistolario, 2, V, p. 15, di cui si
riporta interamente il breve messaggio d'accompagnamento: (LA) «Mitto tibi
munusculum istis paucis noctibus correctionis studio lucubratum. In quo si quid
proficies tu vel alii, laus sit omnium conditori Deo, cui placeat me in tuis
sanctis orationibus commendare. Vale felix et diu. Colucius tuus.» (IT)
«Ti mando un piccolo pensiero composto in queste poche notti dopo un'opera di
revisione. Attraverso questo [trattato], se tu o altri ne trarrete giovamento,
la lode di tutti voi sia per lodare Dio, al quale è piaciuto che io mi affidi
alle tue sante orazioni. Sta felice a lungo. Il tuo Coluccio.» ^
Cappelli, pp. 84-85, ^ Tateo, p. 46: «[Nel De Nobilitate Coluccio] ribadiva,
attraverso un discorso più ampio e articolato, la distinzione della medicina,
designata medievalmente come "arte meccanica", ossia tecnica, dalla
giurisprudenza, considerata scienza della vita spirituale e quindi superiore
all'altra.» ^ Cappelli, p. 81, ^ Garin, p. 40: «Le leggi...sono veramente
un sigillo divino, con cui dopo il primo peccato Dio ha offerto alle comunità
degli uomini la vita per riconquistare il bene...Ispirate da Dio agli uomini,
inscritte nell'anima umana, esse hanno un'altra superiorità, rispetto alle
leggi naturali: possono essere conosciute nella loro pienezza integrale, con
una certezza che non si troverà mai nelle scienze della natura.»
Cappelli, p. 80. Tateo, p. 46. ^ Cfr. Epistolario, 2, p. 224, nota
1 per la storia del codice contenente il carme. Si riporta, come testimonianza,
quanto scritto nell'epistola XVIII a pp. 200-201, in cui Coluccio annuncia a
Benvenuto da Imola il suo progetto: (LA) «Sed ut ad Franciscum nostrum redeam,
opusculum metricum de ipsius funere iam incepi...» (IT) «Ma per ritornare
al nostro Francesco, ho già iniziato [a stendere] un opuscolo metrico sulla
cerimonia funeraria dello stesso...» ^ Marzi, p.115. Bibliografia Antiche
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Si sono presi in considerazione: Francesco Tateo, La cultura umanistica e i
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Luca Carlo Rossi e Remo Ceserani, Milano, Feltrinelli, 2012 [1964], ISBN
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Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di Paolo Costantino
Pissavino, Milano, Mondadori, 2002, ISBN 88-424-9354-6. URL consultato il 1º
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Italiani, vol. 66, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2006, SBN
IT\ICCU\IEI\0248759. URL consultato il 7 maggio 2015. Voci correlate Palazzo
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esterni James Hankins, Coluccio Salutati e Leonardo Bruni, in Il contributo
italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 2012. Marco Cirillo, Il tiranno in Coluccio Salutati, umanista del Trecento,
Biblioteca dei Classici italiani di Giuseppe Bonghi, 2006. URL consultato il 10
gennaio 2016. V · D · M Giovanni Boccaccio Controllo di autorità VIAF
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Samuel -- Hillel ben Samuel -- Hillel ben
Samuel Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
Hillel ben Samuel da Verona (1220 – Forlì, 1295) è stato un rabbino, filosofo e
medico italiano, noto anche come Lelio di Samuele o Hillel di Forlì. Indice 1 Biografia
2 Note
3 Bibliografia
4 Voci
correlate 5 Collegamenti
esterni Biografia Prende parte attivamente alla polemica per l'accettazione o
meno dell'opera di Mosè Maimonide, da molti accusato di eccessivo razionalismo,
sostenendo a chiare lettere le posizioni del grande maestro, anche con l'opera
Tagmulé ha-Nefesh (o Tagmulei ha-Nefesh) (Retribuzioni dell'anima), che scrive
a Forlì, nel 1288-1291. In quest'opera, infatti, "si mantiene sulla stessa
linea del maestro [...] Per lui l'intelletto è la forma attuale dell'anima e ne
guida tutte le operazioni"[1]. Una presentazione schematica dell'opera si
trova, in lingua inglese, nella Jewish Virtual Library. Il Tagmulé ha-Nefesh
influenza, tra gli altri, anche il rabbino Shem Tov ben Yosef Falaquera. Sempre da Forlì, Hillel scrive due famose
lettere a Maestro Gaio (Isacco ben Mordecai), medico papale, chiedendo di non
aderire al movimento favorevole alla condanna di Maimonide. Hillel, oltre al pensiero ebraico, conosce
bene quello arabo e molto bene quello cristiano[2]: in particolare, è molto
attratto da Tommaso d'Aquino, tanto da essere definito "il primo tomista
ebreo della storia" [1]. Ad esempio, nel Tagmulé ha-Nefesh riporta
ampiamente una traduzione del De Unitate Intellectus di Tommaso, del quale
riprende anche gli argomenti per dimostrare l'immortalità individuale
dell'anima. Oltre alla traduzione della prima parte del De unitate
intellectus[3], Hillel si dimostrò a tal punto estimatore di Tommaso d'Aquino
da salutarlo come "il Maimonide della sua epoca, capace persino di
rispondere a domande che il Maestro aveva lasciato irrisolte"[4] Hillel probabilmente non è nato a Verona,
anche se la sua famiglia sembra provenirne, visto che suo nonno è Eliezer di
Verona, ma è comunque rappresentante di una cultura ghibellina, filoimperiale,
come quella della città scaligera. Lo dimostra anche il fatto che decide di
trascorrere gli ultimi anni della sua vita in quella roccaforte del
ghibellinismo italiano che è la Forlì degli Ordelaffi e del consigliere
imperiale Guido Bonatti. Hillel studia
il Talmud a Barcellona con Yonah ben Abraham Gerondi[5] e la medicina a
Montpellier. Secondo la maggior parte
degli storici, Hillel, a Capua, esercita una forte influenza sul celebre
mistico Abramo Abulafia, aiutandolo ad apprezzare Mosè Maimonide. È altresì
molto probabile che le sue opere ed il suo pensiero abbiano potuto influenzare
Dante Alighieri, a causa di alcuni parallelismi che sono stati riscontrati tra
la Divina Commedia e gli autori ebrei.
Hillel in effetti opera, dopo Capua, a Napoli, a Roma, a Ferrara, e
soprattutto a Forlì, città dove anche Dante vive per qualche tempo, pochi anni
dopo la sua morte. La circostanza è invocata a favore della possibilità che
Dante ne abbia conosciuto le opere [2].
Negli anni novanta del Duecento, in pieno periodo forlivese dunque,
disputa con Zeraḥyah Ḥen su quale sia la lingua originaria: per Hillel, si
tratta dell'ebraico[5]. La data della
morte non è sicura. Note ^ La cultura
ebraica (a c. di P. Reinach Sabbadini), Einaudi, Torini 2000, p. 139. ^ Cf. Die
Pseudo-aristotelische Schrift Ueber das reine Gute bekannt unter dem Namen
Liber de Causis (in tedesco), BiblioBazaar, 2009, pp. 308ss. ^ Jean-Pierre
Torrell, OP, Saint Thomas Aquinas, Volume I: The Person and His Work,
translated by Robert Royal, CUA Press, 2005, p. 316. ^ A. Wohlmann, Thomas
d'Aquin et Maïmonnide, pp. 325-326. and note 11, pp. 394-395, Cerf, 2007. M. Zonta in Dizionario Biografico degli
Italiani, riferimenti in Collegamenti esterni. Bibliografia Hillel ben
Shemu'el, Sefer Tagmulé ha-Nefesh, Jerusalem 1981 (a cura di G. Sermoneta, in ebraico).
W. Peeters, Hillel ben Samuel, philosophe du XIIIe siècle, in Revue
Philosophique de Louvain, 1946, Vol. 44, N. 2, pp. 271–290 (in francese). Voci
correlate Comunità ebraica di Forlì Collegamenti esterni (EN) Hillel ben
Samuel, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su
Wikidata Mauro Zonta, Hillel ben Samuel, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Opere
di Hillel ben Samuel, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata
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Biografie Portale Biografie Ebraismo Portale Ebraismo Categorie: Rabbini
italianiFilosofi italiani del XIII secoloMedici italianiNati nel 1220Morti nel
1295Morti a ForlìFilosofi medievaliTraduttori dal latino[altre]
sanction, anything whose function is to penalize or
reward. It is useful to distinguish between social sanctions, legal sanctions,
internal sanctions, and religious sanctions. Social sanctions are extralegal
pressures exerted upon the agent by others. For example, others might distrust
us, ostracize us, or even physically attack us, if we behave in certain ways.
Legal sanctions include corporal punishment, imprisonment, fines, withdrawal of
the legal rights to run a business or to leave the area, and other penalties.
Internal sanctions may include not only guilt feelings but also the sympathetic
pleasures of helping others or the gratified conscience of doing right. Divine
sanctions, if there are any, are rewards or punishments given to us by a god
while we are alive or after we die. There are important philosophical questions
concerning sanctions. Should law be defined as the rules the breaking of which
elicits punishment by the state? Could there be a moral duty to behave in a
given way if there were no social sanctions concerning such behavior? If not,
then a conventionalist account of moral duty seems unavoidable. And, to what
extent does the combined effect of external and internal sanctions make
rational egoism or prudence or self-interest coincide with morality?
sanctis: essential
philosopher. He considers philosophy as a branch of the belles lettres – and
his field of expertise is when stylists stopped using an artificial Roman, and
turned to ‘Italian.’ Refs.: Luigi Speranza, "Grice e de Sanctis," per
Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria,
Italia..
sanseverino Gaetano Sanseverino Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Gaetano Sanseverino Gaetano Sanseverino
(Napoli, 7 agosto 1811 – Napoli, 16 novembre 1865) è stato un presbitero,
teologo e filosofo italiano, considerato uno fra i massimi precursori del
neotomismo. Indice 1 Biografia 2 L'opera
3 Opere
pubblicate (selezione) 4 Bibliografia
5 Voci
correlate 6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Si trasferì in giovanissima età a Nola dalla natia Napoli per
frequentare il seminario diocesano dove suo zio era rettore. Dopo
l'ordinazione, continuò lo studio della filosofia con l'intento di confrontare
i vari sistemi filosofici, fra cui godeva particolare credito in Italia,
all'epoca, quello cartesiano. Lo studio comparato dei vari sistemi gli permise
una conoscenza più approfondita della Scolastica, soprattutto delle opere di
Tommaso d'Aquino, e del legame intimo tra la Scolastica e la Patristica. Da
allora, e fino alla fine della sua vita, la sua unica preoccupazione fu la
restaurazione della filosofia scolastica, non solo con scritti, ma anche con
lezioni, conferenze e discussioni. La sua preparazione in materie filosofiche
gli permise di divenire, non ancora trentenne, professore di logica e
metafisica presso il seminario di Napoli. Fu anche canonico della cattedrale
della propria città. Nel 1840 fondò la rivista La Scienza e la Fede che
continuò ad uscire fino al 1887, a cura dei suoi discepoli Nunzio Signoriello e
Antonio D'Amelio, a oltre vent'anni di distanza dalla morte del filosofo. Nel
1851 venne chiamato da Ferdinando II a insegnare filosofia morale
nell'Università di Napoli, e venne incaricato anche di preparare un manuale
"ufficiale" per le scuole del Regno delle Due Sicilie; Sanseverino
scrisse allo scopo il manuale "I principali sistemi della filosofia del
criterio, discussi colla dottrina de' Santi Padri e de' Dottori del Medio
Evo". Con l'unità d'Italia Sanseverino venne progressivamente emarginato e
messo in condizione di abbandonare l'insegnamento universitario. Continuò
tuttavia ad insegnare presso il seminario di Napoli. Morì nella città
partenopea nel corso di un'epidemia di colera all'età di 54 anni. L'opera Profondo conoscitore di San Tommaso e
della filosofia medievale, il Sanseverino diede alle stampe, negli anni
quaranta dell'Ottocento, alcuni interessanti saggi sui filosofi moderni, fra
cui Emanuele Kant e Baruch Spinoza. Nel 1849 iniziò ad occuparsi più
specificamente di San Tommaso e della dottrina tomista con La dottrina di S.
Tommaso sull'origine del potere e sul preteso diritto di resistenza, cui fece
seguito, otto anni più tardi, un Saggio di teologia scolastica in difesa
dell'angeologia di S. Tommaso d'Aquino contro i sofismi di G. Reynaud (1857). Fra il 1850 e il 1853, esce il ponderoso I
principali sistemi della filosofia del criterio, discussi colla dottrina de'
Santi Padri e de' Dottori del Medio Evo, un'ampia e dottissima disquisizione
sulla filosofia illuminista del Settecento e su quella a lui contemporanea (fra
cui quella dello stesso Gioberti) confutata sulla base della logica dei più
alti rappresentanti del cristianesimo medievale. Il suo capolavoro, in cinque volumi, fu però
pubblicato solo fra il 1862 e il 1865. Si tratta del celebre saggio, redatto in
lingua latina, Philosophia christiana cum antiqua et nova comparata, che ha per
oggetto la storia della logica nell'ambito della filosofia cristiana. Un sesto
volume, già progettato, non vide mai la luce a causa dell'improvviso decesso
dell'autore. L'opera fu ripresa in alcune sue parti dallo stesso Sanseverino ad
uso dei suoi studenti nel suo Philosophia christiana cum antiqua et nova
comparata in compendium redacta ad usum scholarum clericalium, uscita nel 1866.
Fra il (1865-1870), venne pubblicata a Napoli la versione definitiva degli
Elementa. L'opera, letta e molto citata nella seconda metà dell'Ottocento e
durante tutto il Novecento, si articola in quattro tomi, di cui gli ultimi due,
Antropologia e Teologia naturale, uscirono postumi rispettivamente tre e cinque
anni dopo la morte del filosofo grazie all'iniziativa di un suo allievo, Nunzio
Signoriello. Quest'ultimo si assunse anche l'onere di dirigere, dopo la
scomparsa del proprio fondatore (1865), le pubblicazioni della rivista di
Sanseverino La Scienza e la Fede, che, fino al 1887, mantenne vivo l'interesse,
a Napoli e in Italia, sulla filosofia cristiana medievale e sul tomismo. Opere pubblicate (selezione) Delle teorie
kantiane difese da O. Colecchi nella sua opera che per titolo: sopra alcune questioni
le più importanti della filosofia, Napoli, La Scienza e la fede, 1843-1844. Il
razionalismo teologico dei più celebri filosofi tedeschi e francesi da Kant
insino ai nostri giorni, in La Scienza e la Fede, 1843-1845. Spinoza e i
moderni razionalisti, Napoli, La Scienza e la fede, 1845-1847. La dottrina di
s. Tommaso sull'origine del potere e sul preteso diritto di resistenza, Napoli,
(I edizione, 1849), nuova edizione (con introduzione di F. Di Mieri), Napoli,
Giannini, 1997. Saggio di teologia scolastica in difesa dell'angeologia di S.
Tommaso d'Aquino contro i sofismi di G. Reynaud, Napoli, Tip. Manfredi (?),
1857. Elementa philosophiae theoreticae ad usum cleri neapolitani, Napoli,
Tipografia Manfredi, 1858. Philosophia christiana cum antiqua et nova
comparata, in cinque volumi, Napoli, Tip. Manfredi, 1862-1866. Institutiones
seu Elementa philosophiae christianae cum antiqua et nova comparata, in tre
volumi e 4 tomi, Napoli, Tip. Manfredi, 1865-1870. Philosophia christiana cum
antiqua et nova comparata in compendium redacta ad usum scholarum clericalium,
in 2 volumi, Napoli, Tip. Manfredi, 1866. Compendio della filosofia cristiana
comparata con le dottrine de' filosofi antichi e moderni, in 2 volumi (versione
italiana della precedente latina), Napoli, Biblioteca cattolica, 1872.
Bibliografia Ugo Dovere, Gaetano Sanseverino filosofo tomista, tentativo di
ricostruzione, in Doctor communis 31 (1978), pp. 374s. Ugo Dovere, Gli
orientamenti del periodico napoletano La scienza e la fede (1841-1880), in Campania
sacra, 1980-1981. Pasquale Naddeo, Le origini del neotomismo e la scuola di
Gaetano Sanseverino, in Storia della filosofia, Società editrice italiana,
Torino 1940, vol. II, pp. 354–362. Pasquale Orlando, Il neotomismo a Napoli e
G. Sanseverino, in Asprenas 9 (1962), pp. 277–303. Pasquale Orlando, Vita e
opere di Gaetano Sanseverino secondo i documenti, in Aquinas 8 (1965), pp.
222–228. Pasquale Orlando, L'Accademia tomista a Napoli, storia e filosofia
(pag. 141-219), in Saggi sulla rinascita del tomismo, Roma, Ed. Pontificia
Accademia teologica romana, 1974. Carmine Matarazzo, Per una "rivoluzione
del cuore". La visione dell'umano in Giacomo Leopardi nella lettura
critica di Gaetano Sanseverino tra antropologia cristiana e istanze pastorali,
Alessandro Polidoro Editore, Napoli 2015. Voci correlate Tomismo Neotomismo
Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Gaetano Sanseverino Collegamenti esterni Gaetano
Sanseverino, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Gaetano Sanseverino,
su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gaetano
Sanseverino, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Gaetano
Sanseverino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata Biografia di Gaetano Sanseverino, su dif.unige.it. Bibliografia di
Gaetano Sanseverino, su dif.unige.it. Controllo di autorità VIAF (EN) 19845661 · ISNI (EN)
0000 0001 1556 3963 · SBN IT\ICCU\TO0V\092884 · LCCN (EN) n79009223 · GND (DE)
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Identities (EN) lccn-n79009223 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo
Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Categorie: Presbiteri
italianiTeologi italianiFilosofi italiani del XIX secoloNati nel 1811Morti nel
1865Nati il 7 agostoMorti il 16 novembreNati a NapoliMorti a Napoli[altre]
santilli Angelo Santilli Da
Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Angelo
Andrea Silvestro Santilli Angelo Andrea Silvestro Santilli (Sant'Elia
Fiumerapido, 28 ottobre 1822 – Napoli, 15 maggio 1848) è stato un filosofo,
giornalista, poeta e patriota italiano. Biografia Angelo Santilli, nativo
di Sant'Elia Fiumerapido (oggi in provincia di Frosinone ma all'epoca solo
Sant'Elia, in Provincia di Terra di Lavoro), e figlio del medico santeliano
Silvestro, sindaco del paese dal 1827 al 1829, atredici anni si trasferì a
Napoli con la madre Giuseppa Mancini, figlia del medico Evangelista Mancini di
Picinisco ma residente a San Germano (oggi Cassino), e i tre fratelli, per
completare gli studi. A Napoli, il giovane Angelo Santilli seguì il corso
liceale presso la Scuola di Francesco Murro. All'Università fu discepolo del
filosofo Pasquale Galluppi e amico, fra gli altri, di Luigi Settembrini,
Giuseppe Fiorelli e Francesco De Sanctis. A soli venti anni, nel 1842, si
laureò in filosofia e giurisprudenza, aprendo anche una Scuola di Diritto
Morale e Costituzionale. Fervente giobertiano, fu attivo propugnatore,
nei circoli culturali napoletani, di un'Italia federata sotto la guida di papa
Pio IX. Ebbe frequenti rapporti epistolari con Terenzio Mamiani, con il
cardinale Gizzi e con il filosofo eclettico francese Victor Cousin.
Quest'ultimo lo introdusse nel giro culturale del socialismo utopistico europeo
e soprattutto francese, ma Santilli modulò il suo socialismo secondo i propri
valori cristiani ed umanitari, rifiutando la logica della lotta di classe.
Ebbe comunque a scrivere che nel Regno di Napoli occorreva "una savia
distribuzione della ricchezza"[1]. Fu presidente della Società Dantesca di
Napoli e prolifico filosofo, giornalista e poeta. Fondò e diresse i
giornali "L'Enciclopedico"[2] e il quotidiano giobertiano
"Critica e Verità" (9 marzo - 14 aprile 1848), fondato durante i moti
rivoluzionari del '48 napoletano in cui vivacemente sosteneva che occorreva
occuparsi della piaga della povertà meridionale, scrivendo il 20 marzo che:
"La nazione vuole pane e lo dimanda incessantemente, lo chiede nel pianto
dell'indigenza, tra le sciagure della desolazione, lo chiede non a titolo di
preghiera, ma diritto necessario, assoluto ... il popolo non capisce la
speculativa astrazione di alcune verità, non sa i titoli di libertà, di
costituzione, di uguaglianza ... una riforma che dimentica affatto la fisica
prosperità de' popoli non è che riforma di solo nome..."[3]. Fra le
sue opere filosofiche: "Le idee soggettive", che fu testo di studio
nelle scuole del Granducato di Toscana; "Sul realizzamento del
pensiero"; "Sviluppo filosofico dell'Autorità"; "Cenno
psicologico sull'attività e la passività dello spirito"; "Individuo e
Società"; "Princìpi dell'Umanità razionale"; "Il socialismo
in economia" e "Lavoro, industria e capitale". Le sue poesie le
pubblicava sul giornale "La Gazza". Dal 1847 si batté politicamente
per l'ottenimento della Costituzione da parte di re Ferdinando II di
Borbone. Malvisto e considerato individuo pericoloso dalla polizia
borbonica, per i suoi scritti, la sua attività politica e i suoi discorsi
pubblici, il cui numero di ascoltatori si andava infoltendo sempre di più,
Santilli fu ucciso a baionettate insieme al fratello Vincenzo di 27 anni,
all'amico e compaesano Filippo Picano di 18 anni e alla fantesca Carmela Rossi
detta Mega da soldati svizzeri che fecero irruzione nella sua abitazione di
Napoli, in Largo Monteoliveto, il 15 maggio 1848 durante i moti insurrezionali
di Napoli[2][4]. Secondo i ricordi di Luigi Settembrini venne ucciso a seguito
della delazione di una donna, che lo indicò come "il predicatore"
alla soldataglia[5]. I fratelli Giuseppe (21 anni) e Giovanni (13 anni), si
salvarono nascondendosi in casa della famiglia Leanza al piano superiore.
Lo ricordano due epigrafi: una sulla facciata della sua casa natia a Sant'Elia
Fiumerapido e una sulla facciata della palazzina in cui abitò a Napoli, in
Largo Monteoliveto, accanto al Palazzo Gravina. Di lui hanno scritto: Francesco
De Sanctis, Guglielmo Pepe, Luigi Settembrini, Atto Vannucci, Giuseppe Massari,
Vincenzo Grosso, Alberto Guzzardella, Mario Mandalari che volle raccogliere, in
un unico volume, su desiderio del grande Francesco De Sanctis, tutte le opere
di Santilli tramite il libro "Memorie e scritti di Angelo Santilli"
(Roma, 1893)[6]. Note ^ Franco Della Peruta - Il Giornalismo Italiano del
Risorgimento, pagina 162 cfr. pag 174 I. Ghiron, (1883) ^ cfr. pag 162
Della Peruta, (2011) ^ Storia del quindici maggio in Napoli - Pagina 63 ^ Vedi
pag.300 L. Settembrini (1880) ^ "Memorie e scritti raccolti da Mario
Mandalari" Bibliografia Mario Mandalari, Memorie su Angelo Santilli, Roma,
1893. Alberto Guzzardella, Angelo Santilli, un grande cattolico socialista e
martire del Risorgimento Italiano, Milano, 1973. Isaia Ghiron, Il valore italiano,
Volume 1, Tip. nazionale degli editori Ghione e Lovesio, 1883. Franco Della
Peruta, Il Giornalismo Italiano del Risorgimento, FrancoAngeli, 2011. Benedetto
Di Mambro, in Sant'Elia Fiumerapido, il Sannio, Casinum e dintorni (pag.
37-42), Roccasecca, 2017. Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, Volume
1, Antonio Morano, 1880. Controllo di autorità VIAF
(EN) 233249321 · ISNI (EN) 0000 0004 1978 8037 · SBN IT\ICCU\SBLV\313590 ·
WorldCat Identities (EN) viaf-233249321 Biografie Portale Biografie Filosofia
Portale Filosofia Risorgimento Portale Risorgimento Categorie: Filosofi
italiani del XIX secoloGiornalisti italiani del XIX secoloPoeti italiani del
XIX secoloNati nel 1822Morti nel 1848Nati il 28 ottobreMorti il 15 maggioNati a
Sant'Elia FiumerapidoMorti a NapoliPersonalità del Risorgimento[altre]
santorio Santorio Santorio Da Wikipedia, l'enciclopedia
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Santorio Santorio Santorio Santorio (Capodistria, 29 marzo 1561 –
Venezia, 22 febbraio 1636) è stato un medico, filosofo e fisiologo italiano
considerato il padre della fisiologia sperimentale moderna. Santorio fu il
primo a comprendere l'importanza dell'esperimento e dell'adozione dei parametri
quantitativi in medicina, per valutare i quali inventò alcuni dispositivi
ancora attualmente in uso nella pratica medica, tra cui il termometro e il
tachimetro. Oltre ai suoi meriti in medicina, Santorio fu filosofo e studiò
sperimentalmente la struttura della materia, di cui descrisse la struttura
corpusculare e meccanica sin dal 1603, anticipando le ricerche successive di
Galileo e Descartes. Indice 1 Biografia
2 Attività
scientifica 3 Opere
principali 4 Note
5 Bibliografia
6 Altri
progetti 7 Collegamenti
esterni Biografia Completati gli studi di medicina a Padova, nel 1582, esercitò
la professione per molti anni in Croazia, Polonia e Ungheria. Nel 1599 tornò a
Venezia dove fece amicizia con Paolo Sarpi (1552-1623), Giovanni Francesco
Sagredo (1571-1620) e Galileo Galilei (1564-1642). Il suo adattamento del pendolo
alla pratica medica precede gli esperimenti condotti da Galileo con i pendoli,
ed era noto ai professori dello studio di Padova sin dal 1600[1]. Fu un
pioniere nell'impiego delle misurazioni fisiche in medicina; il suo dispositivo
più famoso fu una grande bilancia usata per studiare l'equilibrio omeostatico e
le trasformazioni metaboliche Tra i soggetti che si prestarono alla
sperimentazione vi fu anche il collega Galileo Galilei. Nel 1611 fu nominato
professore di 'Medicina Teorica' (corrispondente all'attuale fisiologia
generale) a Padova. In quella città pubblicò descrizioni di congegni
termometrici e di precisione che divennero di largo uso nella pratica medica.
Nel 1624 rinunciò alla cattedra per dedicarsi alla pratica privata. Attività scientifica Fu un pioniere
nell'impiego delle misurazioni fisiche in medicina; il suo dispositivo più
famoso fu una grande bilancia (stadera medica) usata per studiare le
trasformazioni metaboliche in soggetti sperimentali tra i quali vi fu lo stesso
Galileo. Fu pioniere nell'uso del metodo sperimentale di cui comprese
l'importanza e la necessità replicando i suoi esperimenti per circa trent'anni.
Considerato a torto il fondatore della iatromeccanica, ne fu tuttavia
ispiratore con i suoi importanti studi sul metabolismo e sulla termoregolazione
umana. Fu il primo a quantificare la perspiratio insensibilis e ad introdurre
in medicina l'uso del termometro clinico che egli stesso ideò. Santorio inventò anche altri strumenti
(pulsilogio, igrometro, "letto artificioso", "eolopila
medica", "termometro lunare") intesi a tradurre in numero e
determinare con esattezza matematica i parametri vitali umani. Opere principali Le sue opere ebbero numerose
edizioni, diffusione europea e ampia popolarità fino al '700. Classico il De
statica medica: uno dei libri più importanti della storia della
fisiologia. (LA) Santorio Santorio,
Sanctorii Sanctorii ... Methodi vitandorum errorum omnium qui in arte medica
contingunt libri quindecim. Nunc primum accessit eiusdem authoris De inventione
remediorum liber, P. Aubert, 1630 [1603], p. PP5. (EN) Santorio Santorio, Ars
de statica medicina, Leida, David Lopes de Haro, 1642 [1612]. Commentaria in
artem medicinalem Galeni, 1614. Nova pulsuum praxis morborum omnium diagnosim
prognosim et medendi aegrotis rationem statuens, sine eorum relatione, 1624.
Commentaria in primam fen primi libri canonis Auicennae, 1625. Commentaria in
primam sectionem Aphorismorum Hippocratis, 1629. Opera omnia, 1660. Note ^
Fabrizio Bigotti e David Taylor, The Pulsilogium of Santorio: New Light on
Technology and Measurement in Early Modern Medicine, in Societate si politica,
vol. 11, n. 2, 2017, pp. 53–113. URL consultato il 7 aprile 2020. Bibliografia
Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di
scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della
Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza Creative Commons
CC-BY-3.0 Castiglioni A.,: Storia della Medicina, II, Mondadori, Milano, 1948.
Pazzini A.,: Storia della Medicina, II, Società Editrice Libraria, Milano,
1947, pp. 23, 46, 65, 81-85, 114, 124, 350, 532. Premuda L.,: Storia della
Medicina, Cedam, Padova, 1960, pp. 22, 81, 144, 154-155. Premuda L.,: Storia
della Fisiologia, Del Bianco Editore, Udine, 1966. Voce: Santorio Santorio in
Enciclopedia Italiana, XXII, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1936.
Voce Santorio Santorio in Enciclopedia Biografica Universale Treccani, XXVII,
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 2007, p. 215. Altri progetti Collabora
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su Santorio Santorio Collegamenti esterni (EN) Santorio Santorio, su
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Santorio Santorio, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Santorio Santorio, su
openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Santorio
Santorio, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Museo
Galileo, su catalogo.museogalileo.it. Un importante progetto di ricerca
internazionale su Santorio Santorio e la nascita della quantificazione in
medicina è attualmente organizzato e promosso dalla Wellcome Trust presso il
Centre for Medical History dell'Università di Exeter (UK) Un video in inglese
sulla vita e le opere di Santorio qui Controllo di autorità VIAF (EN) 29643046 · ISNI (EN) 0000 0001 0856
2954 · SBN IT\ICCU\PUVV\362758 · LCCN (EN) n86828439 · GND (DE) 124548881 · BNF
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Medicina Categorie: Medici italianiFilosofi italiani del XVI secoloFilosofi
italiani del XVII secoloFisiologi italianiNati nel 1561Morti nel 1636Nati il 29
marzoMorti il 22 febbraioNati a CapodistriaMorti a VeneziaPersone legate
all'Università degli Studi di Padova[altre]
santucci
sanzo Ubaldo Sanzo Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Jump to navigationJump to search Ubaldo Sanzo (Roma, 9 aprile 1934) è uno
storico e filosofo italiano. Indice 1 Biografia 2 Note
3 Bibliografia
4 Collegamenti
esterni Biografia Conseguita la laurea in filosofia insegna nei Licei Statali
della provincia di Brindisi. Nel 1969, ammesso alla Scuola di Perfezionamento
in Filosofia della Scienza dell'Università Statale di Milano, lavora alle
dirette dipendenze di Ludovico Geymonat. Consegue, quindi, tutti i gradi accademici
nell'Università del Salento, dove termina la carriera in qualità di professore
ordinario e Coordinatore del Corso di Dottorato in Sociologia.[1] Nel 2009, ha
fondato l'Associazione Culturale di Volontariato “Nel Segno di Apollo Licio”. Ha subito il fascino delle filosofie in auge
negli anni della sua giovinezza, esistenzialismo e neorazionalismo. Ha rivolto
la propria attenzione ai rapporti tra filosofia, scienza e società del periodo
a cavallo fra Otto e Novecento. Si è occupato di autori quali H. Becquerel, P.
Boutruox, O. M. Corbino, L. Couturat, P. e M. Curie, F. Enriques, E. Fermi, E.
Frola, L. Geymonat, E. Husserl, G. Peano, H. Poincaré, B. Russell, G.
Vailati. Note ^ Università del Salento -
Archivio dell'Ufficio Personale Docente - Fascicolo: Ubaldo SANZO - Matricola
n. 924. Bibliografia Jules-Henri Poincaré, Sui fondamenti della geometria, ed.
it. a cura di Ubaldo Sanzo, Brescia, Editrice La Scuola, Collana "Il
Pensiero", 1990, pp. 60, ISBN 88-350-8269-2. Ubaldo Sanzo, L’artificio
della lingua, Milano, Franco Angeli, Collana di Epistemologia diretta da Emilio
Agazzi, 1991, pp. 114, ISBN 88-204-6758-5. Guido Cimino; Ubaldo Sanzo;
Gabriella Sava (a cura di), Il nucleo filosofico della scienza, Galatina,
Congedo Editore, Collana di Filosofia diretta da G. Papuli, 1991, pp. 445, ISBN
88-7786-496-6. Jules-Henri Poincaré, Scritti di fisica-matematica, a cura di
Ubaldo Sanzo, Torino, UTET, I Classici della Scienza, Collana diretta da
Ludovico Geymonat, 19931, 19952, pp. 714, ISBN 88-02-04760-X. Ubaldo Sanzo,
Poincaré e i filosofi, Lecce, Edizioni Milella, 2000, pp. 121, ISBN
88-7048-364-9. Orso Mario Corbino, Scienza e società, Saggi raccolti e
commentati da Ubaldo Sanzo, Manduria, Barbieri, Collana di Filosofia
Hermes/hestia diretta da M. Castellana, 2003, pp. 160, ISBN 88-7533-002-6.
Jules-Henri Poincaré, Scritti di fisica-matematica, a cura di Ubaldo Sanzo,
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Collana "I Classici del pensiero",
pubblicata su licenza della Unione Tipografico - Editrice Torinese di Torino,
2009. Collegamenti esterni (EN) Opere di Ubaldo Sanzo, su Open Library,
Internet Archive. Modifica su Wikidata SCIENTIA - Rivista internazionale di
sintesi scientifica [collegamento interrotto], su apollolicio.it. Poincaré di
Ubaldo Sanzo [collegamento interrotto], su apollolicio.it. Philosophie et
science dans la pensée de Louis Couturat di Ubaldo Sanzo [collegamento
interrotto], su apollolicio.it. Associazione Culturale di Volontariato “Nel
Segno di Apollo Licio”, su apollolicio.it. Museo Galileo di Firenze - Catalogo
della Biblioteca Controllo di autorità VIAF
(EN) 24660543 · WorldCat Identities (EN) lccn-n93063586 Biografie Portale
Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie:
Storici italiani del XX secoloStorici italiani del XXI secoloFilosofi italiani
del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati nel 1934Nati il 9 aprileNati
a RomaFilosofi della scienza[altre]
SarloDe
Sarno Antonio Sarno Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Antonio Sarno (Napoli, 1887 – 25
febbraio 1932) è stato un filosofo italiano. Sconosciuto durante la sua vita,
interprete originale di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, fu riscoperto nel
1959 da Francesco Flora. Indice 1 Biografia 2 Pensiero
3 Opere
3.1 Traduzioni
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Si hanno poche notizie sulla sua vita, riportate da Benedetto
Croce nel volume Pensiero e Poesia.
Collaborò al Giornale critico della filosofia italiana con saggi su
Giordano Bruno, Tommaso Campanella e Giambattista Vico. Tradusse nel 1909, per
la Casa editrice Giuseppe Laterza e figli, l'opera di Georges Sorel,
Considerazioni sulla violenza. Si
suicidò il 25 febbraio 1932, con un colpo di rivoltella. Pensiero Antonio Sarno si interessò a Giordano
Bruno e Tommaso Campanella. Avrebbe trascorso la sua vita in incognito, se non
per l'interesse di Benedetto Croce e Francesco Flora. Croce stesso curò
l'edizione di alcuni scritti di Sarno con il titolo Pensiero e poesia (1943), a
cui Flora fece seguire una seconda edizione dal titolo Filosofia poetica
(1959), aggiungendovi testi esclusi da Croce e con un'antologia critica in
appendice. La riscoperta di Sarno è
dovuta al filosofo italiano Mario Perniola:
«“Il suo punto di partenza – egli scrive – è l’opposizione tra un
sentimento sempre identico a se stesso, essenzialmente interiore (sensus sui)
ed un sentire esteriore, che si tramuta nelle cose di cui ha esperienza, che si
presta e si dona tutt’intero alle cose, affinché esse vivano in lui”.» (M. Perniola, Enigmi. Il momento egizio nella
società e nell’arte) Una collezione dei testi più significativi che erano già
inclusi nell'edizionde del 1959 sono stati pubblicati sotto il titolo Filosofia
del sentire (1995) a cura di A. Marroni.
Opere Pensiero e poesia, a cura di B. Croce, Laterza, Bari 1943
Filosofia poetica, a cura di F. Flora, Laterza, Bari 1959. Filosofia del
sentire, a cura di A. Marroni, Pescara, Tracce, 1995. Traduzioni Giorgio Sorel,
Considerazioni sulla violenza, tradotte da Antonio Sarno, con introduzione di
Benedetto Croce, Bari, Giuseppe Laterza e figli, 1909. Bibliografia M.
Perniola, Enigmi. Il momento egizio nella società e nell'arte, Costa &
Nolan, Genova 1990, ISBN 88-7648-109-5. A. Marroni, Sarno filosofo del “farsi
altro” in A. Sarno, Filosofia del sentire, a cura di A. Marroni, Tracce,
Pescara 1995. P. D'Angelo, L'estetica italiana del Novecento, Laterza, Bari
1997, ISBN 88-420-5190-X . A. Marroni, Antonio Sarno e la passione per il
presente in Filosofie dell'intensità. Quattro maestri occulti del pensiero
italiano contemporaneo, Mimesis, Milano 1997, ISBN 88-85889-81-6. A. Marroni,
"Antonio Sarno e i carmina in foliis volitantia" in Agalma 14,
settembre 2007, p. 96-102. ISBN 88-8353-599-5 Collegamenti esterni Filosofia
del sentire, su lett.unitn.it. URL consultato il 28 settembre 2007 (archiviato
dall'url originale il 23 maggio 2007). Giornale Critico di Filosofia Italiana,
su lelettere.it. Controllo di autorità VIAF
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italiani del XX secoloNati nel 1887Morti nel 1932Morti il 25 febbraioNati a
NapoliSuicidi per arma da fuoco[altre]
sarpi: very important
Italian philosopher. Paolo Sarpi (n. Venezia, 14 agosto 1552 – Venezia, 15 gennaio
1623) è stato un religioso, teologo, storico e scienziato italiano cittadino
della Repubblica di Venezia, appartenente all'Ordine dei Servi di Maria.
Teologo, astronomo, matematico, fisico, anatomista, letterato e storico, fu
tanto versato in molteplici campi dello scibile umano da essere definito da
Girolamo Fabrici d'Acquapendente «Oracolo del secolo».[1] Autore della celebre
Istoria del Concilio tridentino, subito messa all'Indice, fu fermo oppositore
del centralismo monarchico della Chiesa cattolica, difendendo le prerogative
della Repubblica veneziana, colpita dall'interdetto emanato da Paolo V. Rifiutò
di presentarsi di fronte all'Inquisizione romana che intendeva processarlo e
subì un grave attentato che si sospettò essere stato organizzato dalla Curia
romana, "agnosco stilum Curiae romanae", che negò tuttavia ogni
responsabilità. Indice 1 Biografia 1.1 L'infanzia 1.2 A Mantova 1.3
Il ritorno a Venezia 1.4 Seconda denuncia all'Inquisizione 1.5 L'interdetto del
papa contro Venezia 1.6 Gli attentati 1.7 La corrispondenza europea e la morte
2 Sarpi nella storia della letteratura e della scienza 3 Sarpi e la Chiesa 4
Opere 4.1 Edizioni 4.2 Manoscritti 5 Note 6 Bibliografia 7 Voci correlate 8
Altri progetti 9 Collegamenti esterni Biografia L'infanzia «[ ... ] era una
ritiratezza in sé medesimo, un sembiante sempre penseroso, e più tosto
malinconico che serio, un silenzio quasi continuato anco co' coetanei, una
quiete totale, senza alcun di quei giuochi, a' quali pare che la natura stessa
ineschi i fanciulli, acciò che col moto corroborino la complessione: cosa
notabile che mai fosse veduto in alcuno. Poi, così servò in tutta la sua vita,
et all'occasioni diceva non poter capir il gusto e trattenimento di chi giuoca,
se non fosse affetto d'avarizia. Un'alienazione da ogni gusto, nissuna avidità
de' cibi, de' quali si nutriva così poco, che restava meraviglia come stasse
vivo» (F. Micanzio, Vita di padre Paolo) Istoria del Concilio
tridentino, 1935 Nell'anno in cui proseguivano le sedute del Concilio di
Trento, Carlo V era in guerra con i prìncipi protestanti tedeschi e il
Parlamento inglese adottava un Libro di preghiere d'ispirazione luterana,
Pietro, questo il nome secolare del Sarpi, nacque a Venezia da Francesco di
Pietro Sarpi, di famiglia di lontane origini friulane (precisamente di San Vito
al Tagliamento[2]) e mercante a Venezia eppure, scrive il biografo Micanzio,
per la sua indole violenta «più dedito all'armi ch'alla mercatura»;[3] la
madre, veneziana, «d'aspetto umile e mite»,[4] si chiamava Isabella Morelli.
Rimasta vedova, fu accolta con Pietro e l'altra figlia Elisabetta nella casa
del fratello Ambrosio Morelli, prete della collegiata di Sant'Ermagora.
Con lo zio, «uomo d'antica severità di costumi, molto erudito nelle lettere
d'umanità [...] addottrinando nella grammatica e retorica molti fanciulli della
nobiltà»,[4] fece i primi studi, imparando presto e con facilità. A dodici
anni, nel 1564, anno dell'istituzione, dopo la chiusura del Concilio,
dell'Indice dei libri proibiti - tra i tanti, vi finirono il Talmud e il
Corano, il De Monarchia di Dante e le opere di Rabelais, Folengo, Telesio,
Machiavelli ed Erasmo - passò alla scuola del padre Giovanni Maria Capella,
teologo cremonese dell'Ordine dei Servi di Maria, seguace delle dottrine di
Giovanni Duns Scoto, il quale gli insegnò logica, filosofia e teologia, finché
il ragazzo fece così rapidi progressi che «il maestro istesso confessava non
aver più che insegnargli».[5] Con altri maestri veneziani apprese la
matematica, la lingua greca e l'ebraica. «Con la familiarità e co' studii
entrò Pietro anco in desiderio di ricevere l'abito de' servi, o perché gli
paresse vita conforme alla sua inclinazione ritirata e contemplativa, o perché
vi fosse allettato dal suo maestro»,[6] malgrado l'opposizione della madre e
dello zio Ambrogio che lo voleva prete nella sua chiesa, il 24 novembre 1566
entrò nel monastero veneziano dei servi di Maria. A Mantova Qui continuò
ancora a studiare con il Capella, rimanendo alieno dalle distrazioni proprie
della sua età finché nel 1567, in occasione della riunione a Mantova del
capitolo generale dell'Ordine servita, fu mandato in quella città «ad onorar il
congresso e far vedere che gl'ordini non sono oziosi, ma spendono il tempo in
sante e lodevoli operazioni», difendendo «318 delle più difficili proposizioni
della sacra teologia e della filosofia naturale. Il qual carico con che
felicità lo sostenesse e con che giubilo e stupore di quella venerabile corona,
si può dall'evento argomentare».[7] Convento e chiesa di San
Barnaba a Mantova Essersi così distinto a soli quindici anni gli valse la
nomina a teologo da parte del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga - «prencipe di
grandissimo ingegno, così profondamente erudito nello scienze, che
difficilmente si discerneva qual fosse maggiore, o la prudenza di governare, o
l'erudizione di tutte le scienze et arti, sino nella musica» -[8] mentre il
vescovo Gregorio Boldrino gli affidò la cattedra di «teologia positiva di casi
di coscienza e delli sacri canoni».[9] Stabilito nel convento di San Barnaba,
perfezionò la conoscenza della lingua ebraica e iniziò, col puntiglio consueto,
ad applicarsi agli studi storici. Fu certo a motivo di quest'interesse
che a Mantova frequentò Camillo Olivo, già segretario di Ercole Gonzaga,
cardinale e legato pontificio nelle ultime sessioni del concilio di Trento, la
cui caduta in disgrazia presso Pio IV coinvolse anche l'Olivo che fu dagli
«inquisitori molto travagliato, col tenerlo longamente in carcere dopo la morte
del cardinale suo signore»,[10] ma che ora, dopo la morte del pontefice,
«viveva privatamente in Mantova. Il gusto principale che riceveva fra Paolo in
conversare con lui era perché lo trovava d'una moderazione singolare, erudito,
e che, per esser stato col cardinale a Trento, aveva avuto gran maneggio in
quelle azioni e sapeva tutte le particolarità de' negozii più secreti, et aveva
anco molte memorie, nell'intendere le quali fra Paolo riceveva molto
piacere».[8] Erano gli anni in cui in Italia continuava con vigore la
repressione inquisitoriale di Pio V: Pietro Carnesecchi venne decapitato nel
1567, nel 1569 gli ebrei furono espulsi dallo Stato pontificio - tranne che da
Roma e da Ancona, nei ghetti delle quali vennero costretti a risiedere - e nel
1570 fu impiccato l'umanista Aonio Paleario; il papa scomunicò Elisabetta
d'Inghilterra nel 1570, organizzò la Lega contro i turchi nel 1571, ottenendo
la vittoria navale di Lepanto e a Parigi, la notte del 23 agosto 1572 migliaia
di ugonotti furono massacrati: in quest'anno Sarpi fece la sua professione,
entrando ufficialmente nell'Ordine servita. Anche di lui l'Inquisizione si
occupò per la prima volta nel 1573, a seguito della denuncia di un confratello,
un tale Claudio, che lo accusò di sostenere che dal primo capitolo del Genesi
non si può ricavare l'articolo di fede della Trinità: ma, poiché effettivamente
di Trinità divina non vi è traccia nel Vecchio Testamento, l'Inquisizione gli
diede ragione, archiviando il caso. Il ritorno a Venezia Dopo aver
ricevuto nel convento mantovano il titolo di baccelliere, nel 1574 fu invitato
a Milano da Carlo Borromeo il quale, dopo aver ottenuto dalle autorità
spagnole, contro la volontà del Senato, il riconoscimento del tribunale e della
polizia diocesana, aveva avviato un processo di riforma del clero. L'anno
successivo ottenne di essere trasferito nel convento dell'Ordine servita di
Venezia, dove fu incaricato dell'insegnamento della filosofia e continuò i suoi
studi scientifici. Nella grande epidemia di peste, che imperversò a Venezia dal
1575 al 1577, facendo 50.000 vittime - tra le quali Tiziano - fra' Paolo rimase
immune dal contagio, ma perdette la madre. Nel 1578, dopo essersi
addottorato in teologia nell'Università di Padova, venne nominato reggente del
convento di Venezia e, l'anno dopo, priore della provincia veneta. Quello
stesso anno, durante il Capitolo generale tenutosi a Parma, nel quale venne
rieletto priore generale Giacomo Tavanti, tenne una dissertazione di fronte ai
cardinali protettori dell'Ordine, Alessandro Farnese e Giulio Antonio Santori.
Sarpi fu uno dei tre «saggi», insieme con Cirillo Franco e Alessandro Giani,
incaricati di preparare una riforma della regola: «il carico suo speziale fu
d'accommodare quella parte che toccava i sacri canoni, le riforme del concilio
di Trento, allora nuove, e la forma de' giudizii [...] quella parte tutta ove
si tratta de' giudizii accommodatamente allo stato claustrale [...] Lasciò in
questo carico in Roma fama di gran sapere e di molta prudenza, non solo nelle
corti de' due cardinali suddetti, co' quali, per ordine contenuto in un breve
apostolico di Gregorio XIII, conveniva conferire tutte le leggi che si
facevano, ma anco fu necessario molte volte trattar col pontefice medesimo.
Sbrigato da quale peso ritornò al suo governo».[11] Nel giugno del 1585
si tenne a Bologna il nuovo Capitolo dell'Ordine servita e Sarpi viene eletto
procuratore generale, «la suprema dignità di quell'ordine dopo il generale
[...] il carico porta seco di difender in Roma tutte le liti e controversie che
vengono promosse in tutta la religione»[12] Dovette pertanto trasferirsi a Roma
dove conobbe e «prese strettissima familiarità col padre Bellarmino [...] poi
cardinale, e durò l'amicizia sin al fine della vita», grazie al quale forse
poté prendere visione di diversa documentazione relativa alle istruzioni date
ai legati pontifici durante il Concilio di Trento. Conobbe anche il dottor
Navarro, teologo spagnolo difensore dell'arcivescovo di Toledo, Bartolomé
Carranza, accusato di eresia, il gesuita Nicolás Alfonso de Bobadilla e il
cardinale Castagna, che fu poi papa Urbano VII. Ebbe occasione di passare a
Napoli per presiedere Capitoli e «conversare con quel famoso ingegno Giovanni
Battista della Porta, il quale, anco nelle sue opere mandate in luce, fa
onorata menzione del padre Paolo come di non ordinario personaggio».[13]
Scaduto il periodo di carica a procuratore generale dell'Ordine servita, Sarpi
ritornò a Venezia nel 1589, frequentandovi i circoli intellettuali che si
riunivano nella bottega di Bernardo Sechini e nella casa del nobile veneziano
Andrea Morosini, dove conobbe anche Giordano Bruno, mentre a Padova frequentava
la casa di Gian Vincenzo Pinelli, «il ricetto delle muse e l'academia di tutte
le virtù in quei tempi»,[14] dove poté incontrare Galileo e forse ancora il
Bruno, il quale s'intrattenne a Padova più di tre mesi, poco prima di essere
arrestato a Venezia nel maggio del 1592. Seconda denuncia
all'Inquisizione Ottavio Leoni (?): papa Paolo V Nel 1594 si dovette
scegliere il nuovo generale dell'Ordine servita, e fra i due principali
candidati, Lelio Baglioni e Gabriele Dardano, Sarpi si espresse a favore del
primo. Il rancore spinse il Dardano a denunciare Paolo Sarpi al Sant'Uffizio,
accusandolo di negare efficacia allo Spirito Santo, di avere rapporti sospetti
con ebrei veneziani e allegando una lettera che fra' Paolo gli scrisse anni
prima da Roma, nella quale erano contenute «alcune parole in discredito della
corte, come che in quella si venisse alle dignità con male arti, e di tenerne
esso poco conto, anzi abominarla».[15] Sarpi, senza nemmeno essere
chiamato a Roma per discolparsi, fu subito prosciolto da ogni accusa ma il
cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Santori, protettore dell'Ordine e capo
del Sant'Uffizio, «mostrò però implacabile indignazione al padre» utilizzando
tutta la sua autorità per escludere gli amici del frate «dalli gradi et onori
[...] con maniere così strane e fini così bassi, ch'io non ardisco poner i casi
che mi sono stati dati in nota, perché troppo gran scandalo arrecherebbono al
mondo».[16] Sarpi continuò i suoi studi mentre non cessavano le rivalità
nell'Ordine servita, del quale venne eletto priore, il 1º giugno 1597, Angelo
Montorsoli, che morì tre anni dopo, succedendogli così, nel 1601, Gabriele
Dardano, accanito avversario del Sarpi. Questi, deciso a uscire dall'Ordine per
sottrarsi all'inimicizia dalla quale si sentiva circondato, cercò invano di
ottenere un vescovato, prima a Caorle e poi a Nona, in Dalmazia, che però gli
vennero rifiutati a causa delle negative informazioni che di lui il Dardano e
Ludovico Gagliardi, preposito della casa veneziana dei gesuiti, diedero al
papa: essi avrebbero «sentito mormorare alle volte che egli con alcuni facci
una scoletta piena d'errori».[17] Non solo: nel Capitolo, il Dardano accusò
padre Paolo di portare «una berretta in capo contra una forma che sino sotto
Gregorio XIV disse esser proscritta; che portasse le pianelle incavate alla
francese, allegando falsamente esserci decreto contrario, con privazioni
divote; che nel fine della messa non recitasse lo Salve Regina».[18] Ma Sarpi
fu assolto anche da queste accuse. L'interdetto del papa contro
Venezia Rivendicazioni sulla non validità dell'Interdetto, Venezia, 1606
La Repubblica veneziana, stretta a nord dall'Impero, in Italia dalla prevalenza
spagnola e papale, in Oriente dalla potenza turca, era ormai avviata a quel
lungo declino politico ed economico che avrà la sua sanzione alla fine del
Settecento. Alla prudente politica dei vecchi patrizi, rassegnati alla
compromissione con l'Impero e il papato, si sostituì quella degli innovatori, i
cosiddetti «Giovani», decisi a sottrarre la Serenissima all'invadenza
ecclesiastica nell'interno e a rilanciarne le fortune commerciali nell'Adriatico,
compromesse dal controllo dei porti esercitato dallo Stato pontificio e dalle
azioni degli Uscocchi, i pirati cristiani croati appoggiati dall'Impero.
Il 10 gennaio 1604 il Senato veneziano proibì la fondazione di ospedali gestiti
da ecclesiastici, di monasteri, chiese e altri luoghi di culto senza
autorizzazione preventiva della Signoria; il 26 marzo 1605 un'altra legge
proibiva l'alienazione di beni immobili dai laici agli ecclesiastici, già
proprietari, pur essendo solo un centesimo della popolazione, di quasi la metà
dei beni fondiari della Repubblica, e limitava le competenze del foro
ecclesiastico, prevedendo il deferimento ai tribunali civili degli
ecclesiastici responsabili di reati di particolare gravità. Avvenne che il
canonico vicentino Scipione Saraceno, colpevole di molestie a una nobile
parente, e l'aristocratico abate di Nervesa, Marcantonio Brandolini, reo di
omicidi e di stupri, fossero incarcerati. Il 10 dicembre 1605 il papa Paolo V
emanò due brevi richiedenti l'abrogazione delle due leggi e la consegna al
nunzio pontificio dei due ecclesiastici, affinché secondo il diritto canonico
fossero giudicati da un tribunale ecclesiastico. Il nuovo doge Leonardo
Donà fece esaminare il 14 gennaio 1606 i due brevi da giuristi e teologi, fra i
quali il Sarpi, affinché trovassero modo di controbattere alle richieste della
Santa Sede. Il 28 gennaio venne nominato teologo canonista proprio il Sarpi e
lo stesso giorno il suo scritto: Consiglio in difesa di due ordinazioni della
Serenissima Repubblica, venne inviato al Papa. Il Sarpi difese le ragioni della
Repubblica con numerosi scritti: sono di questi mesi la Scrittura sopra la
forza e validità delle scomuniche, il Consiglio sul giudicar le colpe di
persone ecclesiastiche, la Scrittura intorno all'appellazione al concilio, la
Scrittura sull'alienazione dei beni laici agli ecclesiastici e altri ancora,
poi raccolti nella sua successiva Istoria dell'interdetto. In quell'opera è
contenuta anche la traduzione in italiano, fatta dal Sarpi stesso, del trattato
di Jean Gerson sulla validità della scomunica, che fu attaccato dal cardinale
Bellarmino, al quale fra' Paolo rispose allora con l'Apologia per le
opposizioni del cardinale Bellarmino. Mentre il frate servita Fulgenzio
Micanzio - suo futuro biografo - iniziava a collaborare con Paolo Sarpi, il 6
maggio, dopo che il 17 aprile Paolo V aveva scomunicato il Consiglio veneziano
e fulminato con l'interdetto lo Stato veneto, Venezia pubblicò il Protesto del
monitorio del pontefice, scritto ancora da Sarpi, nel quale il breve papale
Superioribus mensibus è definito «nullo e di nessun valore», mentre impedì la
pubblicazione della bolla pontificia. Rubens; il cardinale Joyeuse
incorona Maria de' Medici. Obbedendo alle disposizioni del papa, il 9 maggio i
gesuiti rifiutarono di celebrare le messe a Venezia e la Repubblica reagì
espellendoli insieme con cappuccini e teatini: «partirono la sera alle doi di
notte, ciascuno con un Cristo al collo, per mostrare che Cristo partiva con
loro. Concorse moltitudine di populo [...] e quando il preposto, che ultimo
entrò in barca, dimandò la benedizione al vicario patriarcale [...] si levò una
voce in tutto il populo, che in lingua veneziana gridò loro dicendo "Andé
in malora!" [...]».[19] A Roma si sperava che l'interdetto provocasse una
sollevazione contro i governanti veneziani ma «li gesuiti scacciati, li
cappuccini e teatini licenziati, nissun altro ordine partì, li divini uffizi
erano celebrati secondo il consueto [...] il senato era unitissimo nelle
deliberazioni e le città e populi si conservarono quietissimi
nell'obbedienza»[20] Venezia era alleata, in funzione anti-spagnola, con
la Francia, ed era in buoni rapporti con l'Inghilterra e con la Turchia.
Fingendosi veneziani, il 10 agosto soldati spagnoli, per provocare la rottura
delle relazioni turco-veneziane, sbarcarono a Durazzo, saccheggiandola, ma la
provocazione fu facilmente scoperta e i turchi offrirono a Venezia l'appoggio
della loro flotta contro il papa e la Spagna. Il 30 ottobre l'Inquisizione intimò
a Sarpi di presentarsi a Roma per giustificare le molte cose «temerarie,
calunniose, scandalose, sediziose, scismatiche, erronee ed eretiche» contenute
nei suoi scritti ma il frate naturalmente si rifiutò. Invano il papa - che il 5
gennaio 1607 aveva scomunicato Sarpi e Micanzio - si dichiarava favorevole a
portare guerra a Venezia: la sua unica alleata, la Spagna, minacciata da
Francia, Inghilterra e Turchia, non poteva sostenerla in quest'impresa e si
giunse così alle trattative diplomatiche, favorite dalla mediazione del
cardinale francese François de Joyeuse. Il 21 aprile Venezia rilasciò i due
ecclesiastici incarcerati e ritirò il suo Protesto al papa in cambio della
revoca dell'interdetto, mentre le leggi promulgate dal Senato veneziano
restarono in vigore e i gesuiti non poterono rientrare nella Repubblica.
Gli attentati In quel tempo Sarpi ricevette la visita dell'ex-luterano ed
erudito tedesco Kaspar Schoppe, molto intimo dei segreti affari della Curia
romana, il quale gli confidò che «il papa, come gran prencipe, ha longhe le
mani, e che per tenersi da lui gravemente offeso non poteva succedergli se non
male, e che se sino a quell'ora avesse voluto farlo ammazzare, non gli
mancavano mezzi. Ma che il pensiero del papa era averlo vivo nelle mani e farlo
levare sin a Venezia e condurlo a Roma, offerendosi egli, quando volesse, di
trattare la sua riconciliazione, e con qual onore avesse saputo desiderare;
asserendo d'aver in carico anco molte trattazioni co' prencipi alemanni
protestanti e la loro conversione».[21] Monumento a Sarpi a
Venezia, in Campo Santa Fosca, presso il luogo dell'attentato Lo Schoppe,
ambiguo provocatore, intendeva convincere il frate a mettersi nelle mani
dell'Inquisizione come miglior partito che il Sarpi potesse prendere, tanto
«parvero strane le due proposte di far ammazzare o prender vivo il padre»,[22]
ma i disegni omicidi erano reali: il 5 ottobre 1607, «circa le 23 ore,
ritornando il padre al suo convento di San Marco a Santa Fosca, nel calare la
parte del ponte verso le fondamenta, fu assaltato da cinque assassini, parte
facendo scorta e parte l'essecuzione, e restò l'innocente padre ferito di tre
stilettate, due nel collo et una nella faccia, ch'entrava all'orecchia destra
et usciva per apunto a quella vallicella ch'è tra il naso e la destra guancia,
non avendo potuto l'assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l'osso, il
quale restò piantato e molto storto».[23] I sicari, fuggendo, trovarono
rifugio nella casa del nunzio pontificio e la sera s'imbarcarono per Ravenna,
da dove proseguirono per Ancona e di qui raggiunsero Roma. Si conoscono i loro
nomi: l'esecutore materiale dell'attentato fu Rodolfo Poma, già mercante
veneziano, poi trasferitosi a Napoli e di qui a Roma, dove divenne intimo del
cardinale segretario di Stato Scipione Caffarelli-Borghese e dello stesso Paolo
V. Fu coadiuvato da tre uomini d'arme, tali Alessandro Parrasio, Giovanni da
Firenze e Pasquale da Bitonto, mentre «la spia, o guida, fu un prete, Michiel
Viti bergamasco, solito offiziare in Santa Trinità di Venezia, che non lasciò
dubitare quanti mesi precedessero questo bel effetto prima che fosse mandato
alla luce; poi che questo prete la quadragesima antecedente, sotto specie
d'aver gusto delle predicazioni del padre maestro Fulgenzio, andava ogni
mattina in convento de' servi alla porta del pulpito, che risponde alla parte
di dentro, e cortesemente trattava con lui, ricercandolo anco di qualche dubbio
di coscienza. E continuò di poi sempre a salutarlo et anco andar in convento a
visitarlo, parlandogli sempre di cose spettanti all'anima».[24] Il
pugnale non aveva tuttavia leso organi vitali e il Sarpi riuscì a sopravvivere;
il noto chirurgo Girolamo Fabrici d'Acquapendente, che l'operò, disse di non
aver mai medicato una ferita più strana, rispondendo allora Sarpi con la famosa
espressione: «eppure il mondo vuole che sia data stilo Romanae Curiae».[25] Le
conseguenze furono la rottura della mascella e vistose cicatrici nel volto. Il
27 ottobre 1607 il Senato, dichiarando il Sarpi «persona di prestante dottrina,
di gran valore e virtù», gli concede una casa in piazza San Marco ove possa
risiedere con il Micanzio e altri frati, e una sovvenzione affinché possa
acquistare una barca e provvedere alla sua sicurezza personale. Sarpi rifiutò
la casa ma si servì da allora di una barca che gli evitasse i pericolosi
tragitti a piedi per le calli veneziane. Poco più di un anno dopo, nel
gennaio del 1609, fu sventato un secondo attentato, ordito, sembra su mandato
del cardinale Lanfranco Margotti, da due frati serviti, Giovanni Francesco da
Perugia e Antonio da Viterbo, i quali, fatta una copia della chiave della
camera di Sarpi, «volevano secretamente introdurre nel monasterio due o più
sicarii e la notte trucidare l'innocente padre».[26] La corrispondenza
europea e la morte Sarpi inizia a corrispondere con personalità soprattutto di
fede calvinista o gallicana: fra questi ultimi, Jacques Leschassier e Jacques
Gillot, che pubblicò nel 1607 gli Actes du concile de Trente en l'an 1562 e
1563, dimostrando le pressioni papali sui vescovi riuniti a concilio, e fra gli
altri l'italiano Francesco Castrino, i francesi Jean Hotman de Villiers, Isaac
Casaubon, Jacques-Auguste de Thou, Philippe Duplessis-Mornay, i tedeschi
Achatius e Christoph von Dohna. Attraverso il dialogo diretto con gli
intellettuali europei, Sarpi acquisì «quella straordinaria ampiezza di
orizzonti e di interessi, quella solida conoscenza dei problemi dello stato
moderno», che gli permise di «arricchire la sua cultura storica, giuridica e
scientifica» e lo condusse «a incidere sulla sua posizione religiosa, ad
approfondirne la crisi, risolvendola poi con l'accoglimento di nuove
prospettive e di nuove idealità; spalancandogli un mondo nuovo, che gli faceva
sentire più soffocante, più viziata, la vita italiana».[27] Incontrò a
Venezia nel 1607 l'inglese William Bedell, che riferì di lui e del Micanzio
come essi fossero «completamente dalla nostra parte nella sostanza della
religione» e, nel 1608, Cristoph von Dohna, inviato dal principe tedesco Cristiano
I di Anhalt-Bernburg, e il pastore ginevrino Giovanni Diodati, per valutare la
possibilità di introdurre a Venezia la Riforma. La traduzione in lingua
italiana, fatta da quest'ultimo, del Nuovo Testamento, viene diffusa a Venezia
proprio in questo periodo. Altre polemiche suscitano, nel marzo del 1609,
le prediche quaresimali di Fulgenzio Micanzio che vengono interpretate a Roma
come un attacco alla fede cattolica. Sarpi è anche preoccupato per la tregua
stipulata tra la Spagna e i Paesi Bassi, perché vede in essa un indebolimento
di questi ultimi «che, o prima o dopo, resteranno sopraffatti dalle arti
spagnole», mentre gli spagnoli ne potrebbero trarre beneficio anche in vista
del loro dominio in Italia.[28] Sarpi sperava in un'alleanza generale di Francia,
Inghilterra, principi protestanti, Paesi Bassi, Savoia e Venezia che portasse
alla guerra contro l'Impero cattolico ispano-tedesco e cancellasse il dominio
papale e spagnolo in Italia: «Se sarà guerra in Italia, va bene per la
religione; e questo Roma teme; l'Inquisizione cesserà e l'Evangelio avrà
corso».[29] E andrà bene anche per le libertà civili di Venezia: qui, anche se
«il giogo ecclesiastico è assai più mite che nel rimanente d'Italia, in quella
parte nondimeno che tocca la stampa è l'istesso appunto che negli altri luoghi.
Nessuna cosa si può stampare se non veduta e approvata dall'Inquisizione [...]
Dove si ragiona di alcun papa, non permettono che si dica alcuna di disonore,
se bene vera e notoria. Non permettono che alcuno separato dalla Chiesa romana
sia lodato di qualsivoglia virtù, né nominato se non con vituperio».[30]
Ai primi giorni del 1623 si ammalò gravemente, e morì il 15 gennaio. Secondo la
versione ufficiale l'8 gennaio, sebbene sfinito, volle alzarsi per il
mattutino, come al solito, e celebrare la Messa. La mattina del 12 gennaio,
fatto chiamare il priore del convento, lo pregò che lo raccomandasse alle
preghiere dei confratelli e che gli portasse il Viatico. Gli consegnò tutte le
cose concesse a suo uso. Si fece vestire, si confessò e passò il resto del
mattino facendosi leggere da fra Fulgenzio e da Fra Marco i Salmi e la Passione
di Cristo narrata dagli Evangelisti. Gli fu quindi amministrato dal priore,
alla presenza della Comunità, il Viatico. Il 14 mattina fu visitato dal medico
che gli disse che aveva poche ore di vita. Egli, sorridendo, rispose: Sia
benedetto Dio! A me piace ciò che a Lui piace. Col suo aiuto faremo bene anche
quest'ultima azione (quella di morire). Fu udito ripetere più volte, con
soddisfazione: Orsù, andiamo dove Dio ci chiama!. Secondo alcuni le sue ultime
parole sarebbero state: Esto perpetua, riferendosi a Venezia (v.
Bianchi-Giovini, 846, p. 340-344). Esistono tuttavia altre versioni della sua
morte che lo fanno apparire più vicino al culto protestante. Sarpi
nella storia della letteratura e della scienza Figura assai complessa di
pensatore, Sarpi occupa indubbiamente un posto di primo piano nella storia
della letteratura e della scienza. Fu uno dei più grandi scrittori del suo
secolo. «La sua prosa (è) una delle più maschie ed efficaci di tutta la
letteratura nostra, che non conosce lenocini né fronzoli, che scolpisce le
figure con raro risalto, che ha un magnifico potere rievocatore allorché
descrive dispute e contrasti, ch'è impareggiabile nel sarcasmo, tutto contenuto
in un'unica espressione, tre o quattro parole» (Arturo Carlo Jemolo.)
Giovanni Papini, parlando della Istoria del Concilio di Trento, l'ha
definita: «un modello di lucidità narrativa... e di prosa semplice,
esatta e rapida (Scritti filosofici inediti, p. 3)» Nel campo delle
scienze poi ha lasciato orme indelebili in vari campi: nella filosofia, nella
matematica, nell'ottica, nell'astronomia, nella medicina ecc. Galileo Galilei
fu suo grande amico, e non disdegnò di appellarlo: Mio Maestro. Dinanzi al
primo avvertimento a Galilei nel 1616, Sarpi (che non visse abbastanza a lungo
per assistere alla condanna del 1633) scrisse: «Verrà il giorno, e ne
sono quasi certo, che gli uomini, da studi resi migliori, deploreranno la disgrazia
di Galileo e l'ingiustizia resa a sì grande uomo.» Sarpi scoperse, per
primo, la dilatabilità della pupilla sotto l'azione della luce e le valvole
delle vene (Enciclopedia Treccani, vol. XXX, p. 879). I suoi biografi parlano
anche di scoperte nel campo dell'anatomia, dell'ottica, ecc. L'invenzione del
telescopio - dice Bianchi-Giovini - il Galilei la dovette per certo ai lumi
somministratigli dal Sarpi, se pure questi non ne fu il primo inventore, come
pensano alcuni (v. p. 74). Sopra la sua sapienza matematica si citava
l'autorevole giudizio di Galileo Galilei (Papini, p. 4). Robertson non ha
stentato ad appellare Sarpi il più grande dei veneziani. Daniel Georg Morhof ha
appellato Sarpi la Fenice del suo tempo. Galileo Galilei non esitò a
dire: Paolo de' Servi... del quale posso senza iperbole alcuna affermare che
niuno l'avanza in Europa in cognizione di queste scienze (matematiche) (contro
alle calunnie ed imposture di B. Capra, in ediz. naz., Firenze, 1932, II, 549).
La teoria di Galileo delle maree, successivamente dimostratasi erronea,
riprende idee di Sarpi, esposte nei Pensieri naturali, metafisici e matematici
(in particolare nei pensieri 569 e 571). Giovanni Battista Della Porta,
dopo aver dichiarato di avere appreso alcune cose da Fra Paolo, lo proclamò
splendore ed ornamento non solo della città di Venezia e dell'Italia, ma di
tutto il mondo. (Magia naturalis, L. VII, p. 127). Il cardinale Domenico
Passionei definì il Sarpi dottissimo oltre ogni espressione (cfr. Opuscoli, I,
p. 331-334). Un busto regalato alla città di Udine nel 1912 dai
Mazziniani italiani emigrati in Argentina. In uno studio il cui intento era
quello di misurare il Q.I. di 300 personaggi famosi vissuti tra il 1450 e il
1850, Sarpi si posizionò al quinto posto, al pari del più noto matematico
Pascal (cit. "The Early Mental Traits of Three Hundred Geniuses" di
Catharine M. Cox, in "Genetic Studies of Genius" di Lewis M. Terman.
Copyright 1926, Stanford University Press). Sarpi e la Chiesa Il Sarpi
alla grande intelligenza unì anche - come riconosciutagli da tutti -
un'esemplare integrità di vita. Arturo Carlo Jemolo, dopo essersi rivolto varie
domande intorno alla sua ortodossia, ha dato questa risposta: «Gli
elementi ci mancano per una risposta perentoria: noi non possiamo dissipare
l'alone di mistero che circonda Fra Paolo. - Questo non c'impedisce di ammirare
l'uomo e l'opera...» (Arturo Carlo Jemolo, p. (10).) Fondamentalmente lo
scontro di Paolo Sarpi con la Curia romana fu legato ad un progetto politico
volto a contenere il potere della Chiesa in ambito esclusivamente spirituale e
a promuovere un'alleanza tra Venezia e la Francia in un'ottica antimperiale e
fortemente antispagnola. Per questo intrattenne contatti con i riformati
(Lettere ai protestanti). Inoltre la sua visione della Chiesa era un vago
ritorno verso la chiesa primitiva: egli quindi era indotto a condannare il
potere temporale, il processo di mondanizzazione del clero, la superiorità del
papa sul Concilio. Nel 1616 il Sarpi strinse amicizia con Marcantonio de Dominis,
arcivescovo di Spalato, che tendeva all'apostasia. Quest'ultimo nel 1619
pubblicò a Londra, senza il consenso dell'autore, la sua Istoria del Concilio
Tridentino, che costituisce il suo capolavoro storico ed offre la prima
imponente ricostruzione del Concilio di Trento. Il 22 novembre 1619 l'opera fu
condannata dalla Congregazione dell'Indice e quindi posta all'Indice dei libri
proibiti. Nel 1611 furono intercettate dal nunzio pontificio a Parigi
mons. Roberto Ubaldini «compromettenti carteggi di Sarpi con l'ambasciatore
veneziano Antonio Foscarini e con l'ugonotto Francesco Castrino; carteggi ben
presto inviati a Roma per essere messi a disposizione del Sant'Uffizio, ma
anche da utilizzare per far ammettere una buona volta al governo veneziano quanto
da tempo da Roma si veniva denunciando, che quel frate, che si proclamava più
cattolico del Papa e come tale difeso ufficialmente dai responsabili politici
veneziani, altri non era che un protestante, al servizio delle forze ereticali
europee: dunque infedele e ipocrita. Una taccia di ipocrisia che non darà
tregua alla figura sarpiana lungo i secoli, come stanno a provare innumerevoli
esempi, dal dotto curiale Girolamo Aleandro, che ricevuta da Nicolas de Peiresc
nel 1624 la sarpiana Istoria dell'Interdetto appena edita rispondeva
all'illustre erudito francese con fare perentorio che quel fra Paolo
servita [...] era nero ministro del Diavolo che si dice esser padre delle
menzogna, se ben egli veramente non credeva né nel Diavolo né in Dio[31],
al prelato friulano Giusto Fontanini con la sua velenosa Storia arcana della
vita di Fra Paolo Sarpi servita, al celebre cardinal Domenico Passionei, che
credeva di avere le carte per dimostrare che l'idea del frate furfante era di
introdurre il calvinismo in Venezia, come ancora ricordava nel secolo scorso il
dotto cardinale Angelo Mercati.»[32] Un parere analogo si trova anche
nella recente Storia della Chiesa di Ludwig Hertling e Angiolino Bulla, dove
Sarpi viene definito: «un ipocrita che fino all'ultimo fece la parte del
religioso, sebbene nel suo intimo si fosse da tempo allontanato dalla
Chiesa.»[33] Opere Trattato dell'interdetto di Paolo V nel quale si
dimostra che non è legittimamente pubblicato, 1606. Apologia per le opposizioni
fatte dal cardinale Bellarmino ai trattati et risolutioni di G. Gersone sopra
la validità delle scomuniche, 1606. Considerationi sopra le censure della
santità del papa Paolo V contra la Serenissima Repubblica di Venezia, 1606.
Istoria del Concilio Tridentino, 1619. Il trattato dell'immunità delle chiese
(De iure asylorum), 1622. Discorso dell'origine, forma, leggi ed uso
dell'Uffizio dell'Inquisizione nella città e dominio di Venezia, 1638. Trattato
delle materie beneficiarie, 1676. Opinione del Padre Paolo Servita, come debba governarsi
la Repubblica Veneziana per havere il perpetuo dominio, Venezia, 1681. La
storiografia recente attribuisce lo scritto al patriziato veneziano
medesimo[34] Edizioni Scritti giurisdizionalistici, 1958 Istoria del
Concilio Tridentino, 1619. Istoria del Concilio tridentino, In Geneua, Pierre
Aubert, 1629. Istoria del Concilio Tridentino, 3 voll., Franco Pagnoni Editore,
Milano, 1895. Giovanni Gambarin (a cura di), Istoria del Concilio tridentino,
Scrittori d'Italia 151, vol. 1, Bari, Laterza, 1935. Giovanni Gambarin (a cura
di), Istoria del Concilio tridentino, Scrittori d'Italia 152, vol. 2, Bari,
Laterza, 1935. Giovanni Gambarin (a cura di), Istoria del Concilio tridentino,
Scrittori d'Italia 153, vol. 3, Bari, Laterza, 1935. Istoria del Concilio Tridentino,
2 voll., testo critico di Giovanni Gambarin, introduzione di Renzo Pecchioli,
Collana Biblioteca, Sansoni, Firenze, 1966, pp. 1086; II ed. 1982. Lettere
inedite di Fra Paolo Sarpi a Simone Contarini ambasciatore veneto in Roma,
1615, pubblicate dagli autografi, Monumenti storici pubblicati dalla R.
Deputazione veneta di storia patria. Serie 4, Miscellanea 12, Venezia, Fratelli
Visentini, 1892. Pagine scelte, a cura di Arturo Carlo Jemolo, Vallecchi,
Firenze, 1924, pp.71. Lettere ai protestanti, Scrittori d'Italia 136, vol. 1,
Bari, Laterza, 1931. Lettere ai protestanti, Scrittori d'Italia 137, vol. 2,
Bari, Laterza, 1931. Antologia degli scritti politici e storici. A cura di
Francesco T. Roffarè, CEDAM, Padova, 1937, pp. 118. Istoria dell'Interdetto e
altri scritti editi e inediti, Bari, Laterza, 1940. Istoria dell'interdetto,
Scrittori d'Italia 179, vol. 1, Bari, Laterza, 1940. Istoria dell'interdetto,
Scrittori d'Italia 180, vol. 2, Bari, Laterza, 1940. Istoria dell'interdetto,
Scrittori d'Italia 181, vol. 3, Bari, Laterza, 1940. Romano Amerio (a cura di),
Scritti filosofici e teologici, Scrittori d'Italia 202, Bari, Laterza, 1951.
Pensieri naturali, metafisici e matematici. Manoscritto dell'iride e del calore
- Arte di ben pensare - Pensieri medico-morali - Pensieri sulla religione -
Fabulae - Massime e altri scritti. Edizione integrale commentata a cura di
Luisa Cozzi e Libero Sosio, Ricciardi, Milano-Napoli, 1951-1956-1996, ISBN
978-88-78-17504-4, pp. XCIV-902. Scritti giurisdizionalistici, Scrittori
d'Italia 216, Bari, Laterza, 1958. Lettere ai Gallicani, a cura di Boris
Ulianich, Wiesbaden, F. Steiner, 1961. La Repubblica di Venezia la casa
d'Austria e gli Uscocchi, Bari, Laterza, 1965. Scritti scelti: Istoria
dell'Interdetto, Consulti, Lettere, a cura di Giovanni Da Pozzo, Collezione di
Classici Italiani n.14, UTET, Torino, I ed. 1968- 1974-1982, ISBN
978-88-02-01847-8, pp. 708. Storici, Politici, e Moralisti del Seicento, a cura
di Luisa e Gaetano Cozzi, Collana La Letteratura Italiana. Storia e Testi
vol.35, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969-1997. Istoria del Concilio Tridentino.
Seguita dalla «Vita del padre Paolo» di Fulgenzio Micanzio. A cura di Corrado
Vivanti, 2 voll., Collana NUE n.156, Einaudi, Torino, 1974, pp. CLX-XV-1472;
Collana Piccola Biblioteca. Nuova Serie, Einaudi, Torino, 2011, ISBN
978-88-06-20875-2. Pensieri. A cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Collana Classici
Ricciardi, Torino, 1976, ISBN 978-88-06-45039-7, pp. CXLVI-74. Considerazioni
sopra le censure di papa Paolo V contro la Repubblica di Venezia e altri
scritti sull'Interdetto, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Collana Classici
Ricciardi, Einaudi, Torino, 1977, ISBN 978-88-06-48223-7, pp. XIII-91. Lettere
a Gallicani e Protestanti, Relazione dello Stato della Relazione, Trattato delle
Materie Beneficiarie. A cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Collana Classici
Ricciardi, Einaudi, Torino, 1978, ISBN 978-88-06-10900-4, pp. 217. Gli ultimi
consulti. 1612-1623. A cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Collana Classici
Ricciardi n.100, Einaudi, Torino, 1979, ISBN 978-88-06-24976-2, pp. 122. Dai
«Consulti», il carteggio con l'ambasciatore inglese sir Dudley Carleston. A
cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Einaudi, Torino,
1979, ISBN 978-88-06-12971-2, pp. XIV-253. Dal «Trattato di pace et
accomodamento» e altri scritti sulla pace d'Italia. 1617-1620. A cura di
Gaetano e Luisa Cozzi, Collana Classici Ricciardi, Einaudi, Torino, 1979, pp.
XII-138. Consulti, 2 voll., a cura di Corrado Pin, Pisa-Roma, Istituti
Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2001. Letteratura e vita civile. Paolo
Sarpi, Collana I Classici del Pensiero Italiano n. 23, Edizione speciale per Il
Sole 24 Ore, Milano, 2006, pp. XIII-562. Della potestà de' prencipi, a cura di
Nina Cannizzaro, Collana I Giorni, Marsilio, Venezia, 2007. Scritti filosofici
inediti. Tratti da un manoscritto della Marciana a cura di G. Papini, Collana
Cultura dell'anima, Rocco Carabba, Editore Lanciano, 2008 (ristampa anastatica
del 1910), ISBN 978-88-63-44004-1, pp. 126. Manoscritti Consulti: incipit -
vol. III, p. 17, XVII secolo, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo
manoscritti, AG.X.3/11.1. Consulti: vol. III, p. 18 - vol. VI, p. 99, XVII
secolo, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, Fondo manoscritti, AG.X.3/11.2.
Consulti: vol. VI, p. 100 - explicit, XVII secolo, Milano, Biblioteca Nazionale
Braidense, Fondo manoscritti, AG.X.3/11.3. Note ^ O. Ceretti, Cinque pugnali
non bastarono a troncare la sua parola, in «Historia», 264, febbraio 1980 ^
Touring club italiano, Touring Editore, 1982 pp 450 ^ F. Micanzio, Vita del
padre Paolo, in «Istoria del Concilio tridentino», Torino 1974, p. 1275
F. Micanzio, cit., p. 1276 ^ F. Micanzio, cit., p. 1278 ^ F. Micanzio, cit.,
pp. 1277-78 ^ F. Micanzio, cit., p. 1279 Ibidem ^ F. Micanzio, cit., p.
1280 ^ F. Micanzio, cit., p. 1281 ^ F. Micanzio, cit., p. 1290 ^ F. Micanzio,
cit., p. 1295 ^ F. Micanzio, cit., p. 1296 ^ F. Micanzio, cit., p. 1308 ^ F.
Micanzio, cit., p. 1296. Scriveva tra l'altro Sarpi nella lettera: «E che
volete ch'io speri in Roma, ove li soli ruffiani, cenedi et altri ministri di
piaceri o di guadagni hanno ventura?». I cenedi sono i giovani che si
prostituiscono ^ F. Micanzio, cit., p. 1298 ^ G, Cozzi, in Paolo Sarpi, Opere,
1969, p. 28 ^ F. Micanzio, cit., p. 1328 ^ P. Sarpi, Istoria dell'interdetto e
altri scritti editi e inediti, 1940, p. 51 ^ Ivi, p. 52 ^ F. Micanzio, cit., p.
1346 ^ Ivi, p. 1347 ^ Ivi, p. 1348 ^ Ivi, p. 1350 ^ Ivi, p. 1351, dove stilo
può significare sia stile che stiletto ^ Ivi, p. 1364 ^ G. Cozzi, cit., p. 227
^ Lettere a Groslot de l'Isle, in «Lettere ai protestanti», I, pp. 18 e 78 ^
Ivi, p. 120 ^ Lettera a Francesco Castrino, 18 agosto 1609, in «Lettere ai
protestanti», II, pp. 46-47 ^ Citato in C. Rizza, Peiresc e l'Italia, Torino,
Giappichelli, 1965, p. 74. ^ Corrado Pin, Paolo Sarpi senza maschera: l'avvio
della lotta politica dopo l'Interdetto del 1606, in Marie Viallon (a cura di),
Paolo Sarpi. Politique et religion en Europe, Paris, Classiques Garnier, 2010,
pp. 65-66, ISBN 9782812401244. ^ Ludwig Hertling e Angiolino Bulla, Storia
della Chiesa. La penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo,
Città Nuova, 2001, p. 391, ISBN 9788831192583. ^ Borgna Romain, Faggion Lucien
(dir.), Le Prince de Fra' Paolo. Pratiques politiques et forma mentis du
patriciat à Venise au XVII° Siécle, Aix-en-Provence, Université de Provence,
2011 Bibliografia Fulgenzio Micanzio, Vita del padre Paolo, dell'ordine de'
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in P. Sarpi, Istoria del Concilio tridentino, Torino, Einaudi, 1974 F.
Griselini, Memorie anedote spettanti alla vita ed agli studj del sommo filosofo
e giureconsulto f. Paolo Servita, Losanna, presso M. Mic. Bousquet e Comp.,
1760; F. Griselini, Del genio di f. Paolo Sarpi in ogni facolta scientifica e
nelle dottrine ortodosse tendenti alla difesa dell'originario diritto de'
sovrani né loro rispettivi dominj ad intento che colle leggi dell'ordine vi
rifiorisca la pubblica prosperita, Venezia, Basaglia, 1785 P. Zerletti, Storia
arcana della vita di Fra Paolo Sarpi servita scritta da Monsignor Giusto
Fontanini, arcivescovo d'Ancira in partibus e documenti relativi, Venezia, 1803
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on-line R. Morghen, Paolo Sarpi, in «Enciclopedia Treccani», vol. XXX, p. 879
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scientifiche fra Paolo Sarpi e Giovan Battista Porta Archives Internationales
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Venezia e l'Europa, Collana Piccola Biblioteca, Torino, Einaudi, 1978. D.
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Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1994 I. Cacciavillani, I consulti di
Paolo Sarpi sulla Vangadizza, Padova, CEDAM, 1994 ISBN 88-13-18963-X I.
Cacciavillani, Paolo Sarpi, Venezia, Fiore, 1997 ISBN 88-7086-080-9 I.
Cacciavillani, Paolo Sarpi. La guerre delle scritture del 1606 e la nascita
della nuova Europa, Venezia, Fiore, 2005 ISBN 88-7086-123-6 I. Cacciavillani,
Sarpi giurista, Padova, CEDAM, 2002 ISBN 88-13-24252-2 C. Pin, Ripensando Paolo
Sarpi, Venezia, Ateneo veneto, 2006 Voci correlate Concilio di Trento Fulgenzio
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Storia Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiStorici italiani del XVI
secoloStorici italiani del XVII secoloNati nel 1552Morti nel 1623Nati il 14
agostoMorti il 15 gennaioNati a VeneziaMorti a VeneziaScienziati
italianiServitiStudenti dell'Università degli Studi di PadovaCanonisti
italianiSepolti nel Cimitero di San Michele di Venezia[altre]. Refs.:
Luigi Speranza, "Grice e Sarpi," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Sasso Gennaro
Sasso Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
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Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Gennaro Sasso
(Roma, 25 giugno 1928) è un filosofo, storico della filosofia e accademico
italiano. Indice 1 Biografia
2 Scritti
3 Note
4 Bibliografia
5 Collegamenti
esterni Biografia Ha studiato all'Università di Roma dal 1946 al 1950, anno in
cui ha conseguito la laurea discutendo una tesi sul pensiero di Niccolò
Machiavelli avendo come relatore Carlo Antoni e correlatore Federico Chabod.
Durante gli anni universitari seguì le lezioni di Pantaleo Carabellese, Guido
De Ruggiero, Luigi Scaravelli, Bruno Nardi, Raffaele Pettazzoni, Natalino
Sapegno, Giuseppe Gabetti, Gennaro Perrotta e Gaetano De Sanctis. Borsista all'Istituto italiano per gli Studi
Storici nell'anno 1951-52, ha insegnato dal 1962 Storia delle dottrine
politiche all'Università di Urbino e successivamente Storia delle dottrine
politiche (dal 1966), Storia della filosofia (dal 1968) e Filosofia teoretica
(dal 1994) all'Università "La Sapienza" di Roma, di cui è stato
nominato professore emerito nel 2005.
Direttore dal 1986 al 2010 dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici
di Napoli fondato nel 1946 da Benedetto Croce, dal 1987 lo è anche della
storica rivista di filosofia, storia e letteratura "La Cultura"[1]
. I suoi studi hanno riguardato
soprattutto l'idealismo italiano (in particolare l'opera di Benedetto Croce),
le opere politiche e storiografiche di Niccolò Machiavelli e per quanto
riguarda la sua riflessione più propriamente teoretica, le problematiche di
ontologia fondamentale. È inoltre autore di sette libri e innumerevoli saggi
danteschi. Si è inoltre occupato di Platone, Polibio, Lucrezio, Guicciardini,
Shakespeare e Thomas Mann. È presidente
della "Fondazione Giovanni Gentile"[2] , presidente
dell'"Edizione nazionale delle Opere di Benedetto Croce" e socio
nazionale dell'Accademia dei Lincei.
Scritti Machiavelli e Cesare Borgia. Storia di un giudizio, Roma,
Edizioni dell'Ateneo, 1966. Studi su Machiavelli, Napoli, Morano, 1967. Passato
e presente nella storia della filosofia, Bari, Laterza, 1967. Benedetto Croce.
La ricerca della dialettica, Napoli, Morano, 1975. Il progresso e la morte.
Saggi su Lucrezio, Bologna, Il Mulino, 1978. L'illusione della dialettica.
Profilo di Carlo Antoni, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1982. Per Francesco
Guicciardini. Quattro studi, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, Roma,
1984. Essere e negazione, Napoli, Morano, 1987. Machiavelli e gli antichi e
altri saggi, 4 voll., Milano-Napoli, Ricciardi, 1987-97. Tramonto di un mito.
L'idea di "progresso" fra Otto e Novecento, 2ª ed. ampliata Bologna,
Il Mulino, 1988 [1ª ed. 1984]. Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro
di Benedetto Croce, Bologna, Il Mulino, 1989. L'essere e le differenze. Sul
"Sofista" di Platone, Bologna, Il Mulino, 1991. Variazioni sulla
storia di una rivista italiana: "La Cultura" (1882-1935), Il Mulino,
1992. Niccolò Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1993. Comprende: vol. I, Il
pensiero politico, 3ª ed. ampliata [1ª ed. Napoli, IISS, 1958; 2ª ed. ampliata
Bologna, Il Mulino, 1980 - Premio Viareggio 1981 di Saggistica[3]]; vol. II, La
storiografia. La fedeltà e l'esperimento, F. Scarpelli, F.S. Trincia e M.
Visentin interrogano Gennaro Sasso, Bologna, Il Mulino, 1993. Filosofia e
idealismo, 6 voll., Napoli, Bibliopolis, 1994-2012. Comprende: Benedetto Croce,
1994. ISBN 88-7088-368-X. Giovanni Gentile, 1995. ISBN 88-7088-342-6. De
Ruggiero, Calogero, Scaravelli, 1997. ISBN 88-7088-338-8. Paralipomeni, 2000.
ISBN 88-7088-375-2. Secondi paralipomeni, 2007. ISBN 978-88-7088-513-2. Ultimi
paralipomeni, 2012. ISBN 978-88-7088-614-6. Tempo, evento, divenire, Bologna,
Il Mulino, 1996. La potenza e l'atto. Due saggi su Giovanni Gentile, Firenze,
La Nuova Italia, 1998. Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna, Il Mulino,
1998. La verità, l'opinione, Bologna, Il Mulino, 1999. Ernesto De Martino fra
religione e filosofia, Napoli, Bibliopolis, 2001. Il guardiano della
storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, 2ª ed. ampliata
Bologna, Il Mulino, 2002 [1ª ed. Napoli, Guida, 1985; 1ª ed. del Profilo di
Federico Chabod, Bari, Laterza, 1961]. Dante. L'imperatore e Aristotele, Roma,
Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 2002. Fondamento e giudizio. Un
duplice tramonto?, Napoli, Bibliopolis, 2004. Il principio, le cose, Torino,
Aragno, 2005. Delio Cantimori. Filosofia e storiografia, Pisa, Edizioni della
Scuola Normale Superiore, 2005. ISBN 8876421610. Dante, Guido e Francesca,
Roma, Viella, 2008. ISBN 9788883343209. Le autobiografie di Dante, Napoli,
Bibliopolis, 2008. ISBN 9788870885590. Discorsi di Palazzo Filomarino, raccolti
da M. Herling, premessa di N. Irti, Napoli, IISS, 2008. Il logo, la morte,
Napoli, Bibliopolis, 2010. ISBN 9788870886016. Ulisse e il desiderio. Il canto
XXVI dell'Inferno, Roma, Viella, 2011. ISBN 9788883344633. La voce dei ricordi,
Napoli, Bibliopolis, 2012. Storiografia e decadenza, Roma, Viella, 2012. I
corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, con A. Gnoli, Milano,
Bompiani, 2013. Allegoria e simbolo, Torino, Aragno, 2014. La lingua, la
Bibbia, la storia. Su "De vulgari eloquentia" I, Roma, Viella, 2015.
Su Machiavelli. Ultimi scritti, Roma, Carocci, 2015. Croce. Storia d'Italia e
storia d'Europa, Napoli, Bibliopolis, 2017 [raccolto in questo volume: La
'Storia d'Italia' di Bendetto Croce. Cinquant'anni dopo, Napoli, Bibliopolis,
1979]. "Forti cose a pensar mettere in versi". Studi su Dante,
Torino, Aragno, 2018. Purgatorio e Antipurgatorio. Un'indagine dantesca, Roma,
Viella, 2019. Croce e le letterature e altri saggi, Napoli, Bibliopolis, 2019.
Biografia e storia. Saggi e variazioni, Roma, Viella, 2020. Note ^ il Mulino -
Riviste - La Cultura, su www.mulino.it. URL consultato il 18 gennaio 2016. ^
Fondazione Gentile | Dipartimento di Filosofia | Sapienza - Università di Roma
Archiviato il 10 novembre 2013 in Internet Archive. ^ Premio letterario
Viareggio-Rèpaci, su premioletterarioviareggiorepaci.it. URL consultato il 9
agosto 2019. Bibliografia Croce in un recente libro di Gennaro Sasso.
Dibattito, Il Cannocchiale, 1-2/1978, pp. 93-132 [interventi di: G. Arnaldi, G.
Calabrò, A. Jannazzo, G, Sasso, V. Stella, F. Valentini, M. Visentin]. G.
Arnaldi, Gennaro Sasso. Uno specialista di più specialità, in Id., Conoscenza
storica e mestiere di storico, il Mulino, IISS-Napoli 2010, pp. 593-606. A.
Bellocci, Verità e doxa: la questione dello "sguardo" e della
"relazione" ne Il logo, la morte di Gennaro Sasso,
www.filosofia-italiana.net, ottobre 2014 [1]. A. Bellocci, Laicismo della
verità, della doxa e tolleranza in Gennaro Sasso, Leussein, 3/2014, pp. 87-91.
A. Bellocci, L'impossibilità della differenza e i paradossi dell'identità nel
pensiero di Gennaro Sasso, Archivio di filosofia, LXXXIV, 3/2016, pp. 289-299.
A. Bellocci, Il problema della 'non' relazione ne Il principio, le cose di
Gennaro Sasso, Giornale critico della filosofia italiana, XCVI, 3/2017, pp.
611-626. A. Bellocci, La verità, l'opinione di Gennaro Sasso. Lo ''specchio''
della verità e l'''eterna opinione'' metafisica, Filosofia italiana, XIII,
1/2018, pp. 165-180. R. Berutti, Annotazioni critiche sull'"essere"
ovvero sul "non essere essere" del discorso che lo concerne. Il
problema dell'ontologia nella riflessione di Gennaro Sasso, Pólemos, IX,
1/2016, pp. 87-105 [2]. M. Capati, Gennaro Sasso, Paragone. Letteratura, XLVII,
3-4/1996, pp. 3-28. M. Cardenas, L'autonoema. Il giudizio tra attualismo e
neoeleatismo, Filosofia italiana, XIII, 1/2018, pp. 93-104. C. Cesa, Gennaro
Sasso interprete di Gentile, Archivio di storia della cultura, XVII, 2004, pp.
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Fronterotta, L'essere e le differenze. In margine a un libro di G. Sasso sul
Sofista di Platone, Novecento, 5-6, 1992, pp. 69-78. M. Herling - M. Reale (a
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Bibliopolis, Napoli 1999. G. Inglese, Machiavelli: una storia del suo pensiero
politico, Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio
Muratoriano, n. 91, 1984, pp. 453-466. G. Inglese, Gennaro Sasso, in
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S. Maschietti, Dire l'incontrovertibile. Intorno all'analisi filosofica di
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di Gennaro Sasso, Giornale critico della filosofia italiana, LXVIII, 2/1989,
pp. 248-57. Marcello Mustè, "Crisi" e "critica" dello
storicismo. Filosofia e storiografia nel pensiero di Gennaro Sasso, Novecento,
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Gaeta 2016. N. Parise, Figure della scissione. A proposito di Allegoria e
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J. Salina, Neoparmenidismo e teorie della verità, Filosofia italiana, XIII, 1/2018,
pp. 79-91. F. Scarpelli (a cura di), Nulla, anamnesi, riflessività. Intervista
a Gennaro Sasso su alcuni temi del libro Essere e negazione (raccolta da F.
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F. Tessitore, Gennaro Sasso interprete di Croce, in Id., La ricerca dello
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ontologia: i termini di una contrapposizione, Marietti, Genova-Milano 2007. M.
Visentin, Tempo e giudizio. Spunti da un recente "Profilo di Carlo
Antoni", La Cultura, XX, 1982, pp. 390-414. M. Visentin, Sull'identità e
sull'essenza del laicismo italiano. A proposito del volume di Gennaro Sasso
"Le due Italie di Giovanni Gentile", Giornale critico della filosofia
italiana, LXXVIII, 1999, pp. 275-91. M. Visentin, Il neoparmenidismo italiano.
Considerazioni intorno al volume di G. Sasso: 'La verità, l'opinione', in Id.,
Il neoparmenidismo italiano. II. Dal neoidealismo al neoparmenidismo,
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Parmenide, in Id., Onto-Logica. Scritti sull'essere e il senso della verità,
Bibliopolis, Napoli 2015, pp. 399-405. M. Zanetti, Critiche al divenire. Tra
Sasso e Severino, Filosofia italiana, XIII, 1/2018, pp. 105-119. S. Zurletti,
Lo specchio di Perseo, Chaos/Kosmos - Libri ed eventi, n. 13, 2013, pp. 316-24:
http://193.205.139.95/ojs/index.php/babelonline/search/authors/view?firstName=Sara&middleName=&lastName=Zurletti&affiliation=&country=.
Collegamenti esterni Gennaro Sasso, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Gennaro
Sasso, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Gennaro
Sasso, su Goodreads. Modifica su Wikidata Registrazioni di Gennaro Sasso, su
RadioRadicale.it, Radio Radicale. Modifica su Wikidata Gennaro Sasso,
Progresso, in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
1975-2004. Gennaro Sasso, Giovanni Gentile, in Dizionario biografico degli
italiani, vol. 53, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000. Gennaro
Sasso, «Giambattista Vico e il simbolo», «Atti dell’Accademia Nazionale dei
Lincei. Memorie della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», s. IX,
vol. XXIX, 3/2012, pp. 597-606. Gennaro Sasso, costituzione mista, Benedetto
Croce, Dante, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, eternità del mondo,
Francesco De Sanctis, Lucrezio in Machiavelli, in Enciclopedia machiavelliana,
a cura di G. Sasso, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2014.
Gennaro Sasso, Dalla concordia discors alla polemica: filosofia e psicologia di
una vicenda, Ripensando la Storia d'Europa, Ripensando la Storia d'Italia, in Croce
e Gentile, la cultura italiana e europea, a cura di M. Ciliberto, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2016. V · D · M Vincitori del Premio
Viareggio per la saggistica Controllo di autorità VIAF (EN) 108966448 ·
ISNI (EN) 0000 0001 2147 2013 · SBN IT\ICCU\CFIV\045413 · LCCN (EN) n80164442 ·
GND (DE) 119513838 · BNF (FR) cb12031166h (data) · BNE (ES) XX1134501 (data) ·
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Identities (EN) lccn-n80164442 Biografie Portale Biografie Filosofia Portale
Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI
secoloStorici della filosofia italianiAccademici italiani del XX
secoloAccademici italiani del XXI secoloNati nel 1928Nati il 25 giugnoNati a
RomaAntifascisti italianiPolitici del Partito d'AzioneVincitori del Premio
Viareggio per la saggisticaAccademici dei LinceiStudenti della Sapienza -
Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di UrbinoProfessori
della Sapienza - Università di Roma[altre]
Sava Roberto
Sava Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search
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di riferimento. Roberto Sava (Belpasso, 2 novembre 1802 – Foligno, 5 ottobre
1880) è stato un medico, filosofo, naturalista e letterato italiano. Biografia Lavorò per 15 anni come medico e
nel 1864 gli venne conferita l'onorificenza di Cavaliere dell'Ordine dei
SS.Maurizio e Lazzaro su proposta del Ministero dell'Agricoltura; collaborò
inoltre alla quarta e quinta edizione della Nuova Enciclopedia Popolare
Italiana. Ha scritto circa 95 libri e il
suo libro Sui pregi e Doveri dei medici, pubblicato nel 1845, è stato tradotto
e pubblicato nello stesso anno in lingua inglese col titolo On the Deserts and
Duties of the Physician[1]. Nel 2009 gli è stato dedicato il libro Roberto Sava
- La vita e l'opera di Agostino Prezzavento[2].
Dopo la morte, il paese natale di Belpasso, ha dedicato al suo ricordo
la biblioteca comunale[3], istituita nel 1989[4]; è intitolato al suo nome,
inoltre, un premio di laurea[5]. Note ^
British and foreign medical review: or quarterly journal of .. su Google Libri ^
Repertorio di libri e pubblicazioni su adamoli ^ Biblioteca comunale Roberto
Sava su lineaamica ^ Biblioteca comunale su comunebelpasso ^ Alba Dicembre
Speciale Archiviato il 9 ottobre 2010 in Internet Archive. su l'Alba Biografie
Portale Biografie Medicina Portale Medicina Categorie: Medici italianiFilosofi
italiani del XIX secoloNaturalisti italianiNati nel 1802Morti nel 1880Nati il 2
novembreMorti il 5 ottobreNati a BelpassoMorti a FolignoDecorati con l'Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro[altre]
satisfactoriness-condition: a state of affairs or “way things are,” most commonly
referred to in relation to something that implies or is implied by it. Let p,
q, and r be schematic letters for declarative sentences; and let P, Q, and R be
corresponding nominalizations; e.g., if p is ‘snow is white’, then P would be
‘snow’s being white’. P can be a necessary or sufficient condition of Q in any
of several senses. In the weakest sense P is a sufficient condition of Q iff if
and only if: if p then q or if P is actual then Q is actual where the conditional is to be read as
“material,” as amounting merely to not-p & not-q. At the same time Q is a
necessary condition of P iff: if not-q then not-p. It follows that P is a
sufficient condition of Q iff Q is a necessary condition of P. Stronger senses
of sufficiency and of necessity are definable, in terms of this basic sense, as
follows: P is nomologically sufficient necessary for Q iff it follows from the
laws of nature, but not without them, that if p then q that if q then p. P is
alethically or metaphysically sufficient necessary for Q iff it is alethically
or metaphysically necessary that if p then q that if q then p. However, it is
perhaps most common of all to interpret conditions in terms of subjunctive
conditionals, in such a way that P is a sufficient condition of Q iff P would
not occur unless Q occurred, or: if P should occur, Q would; and P is a
necessary condition of Q iff Q would not occur unless P occurred, or: if Q
should occur, P would. -- satisfaction,
an auxiliary semantic notion introduced by Tarski in order to give a recursive
definition of truth for languages containing quantifiers. Intuitively, the
satisfaction relation holds between formulas containing free variables such as
‘Buildingx & Tallx’ and objects or sequences of objects such as the Empire
State Building if and only if the formula “holds of” or “applies to” the
objects. Thus, ‘Buildingx & Tallx’, is satisfied by all and only tall
buildings, and ‘-Tallx1 & Tallerx1, x2’ is satisfied by any pair of objects
in which the first object corresponding to ‘x1’ is not tall, but nonetheless
taller than the second corresponding to ‘x2’. Satisfaction is needed when
defining truth for languages with sentences built from formulas containing free
variables, because the notions of truth and falsity do not apply to these
“open” formulas. Thus, we cannot characterize the truth of the sentences ‘Dx
Buildingx & Tallx’ ‘Some building is tall’ in terms of the truth or falsity
of the open formula ‘Buildingx & Tallx’, since the latter is neither true
nor false. But note that the sentence is true if and only if the formula is
satisfied by some object. Since we can give a recursive definition of the
notion of satisfaction for possibly open formulas, this enables us to use this
auxiliary notion in defining truth. --
satisfiable, having a common model, a structure in which all the sentences in
the set are true; said of a set of sentences. In modern logic, satisfiability
is the semantic analogue of the syntactic, proof-theoretic notion of
consistency, the unprovability of any explicit contradiction. The completeness
theorem for first-order logic, that all valid sentences are provable, can be
formulated in terms of satisfiability: syntactic consistency implies
satisfiability. This theorem does not necessarily hold for extensions of
first-order logic. For any sound proof system for secondorder logic there will
be an unsatisfiable set of sentences without there being a formal derivation of
a contradiction from the set. This follows from Gödel’s incompleteness theorem.
One of the central results of model theory for first-order logic concerns
satisfiability: the compactness theorem, due to Gödel in 6, says that if every
finite subset of a set of sentences is satisfiable the set itself is
satisfiable. It follows immediately from his completeness theorem for
first-order logic, and gives a powerful method to prove the consistency of a
set of sentences.
satisfice: to choose or do the good enough rather than the most
or the best. ‘Satisfice’, an obsolete variant of ‘satisfy’ (“much as
‘implicate’ is an explicated form of ‘imply’” – Grice) has been adopted by
Simon and others to designate nonoptimizing choice or action. According to some
economists, limitations of time or information may make it impossible or
inadvisable for an individual, firm, or state body to attempt to maximize
pleasure, profits, market share, revenues, or some other desired result, and
satisficing with respect to such results is then said to be rational, albeit
less than ideally rational. Although many orthodox economists think that choice
can and always should be conceived in maximizing or optimizing terms,
satisficing models have been proposed in economics, evolutionary biology, and
philosophy. Biologists have sometimes conceived evolutionary change as largely
consisting of “good enough” or satisficing adaptations to environmental
pressures rather than as proceeding through optimal adjustments to such
pressures, but in philosophy, the most frequent recent use of the idea of
satisficing has been in ethics and rational choice theory. Economists typically
regard satisficing as acceptable only where there are unwanted constraints on
decision making; but it is also possible to see satisficing as entirely
acceptable in itself, and in the field of ethics, it has recently been argued
that there may be nothing remiss about moral satisficing, e.g., giving a good
amount to charity, but less than one could give. It is possible to formulate
satisficing forms of utilitarianism on which actions are morally right even if they
contribute merely positively and/or in some large way, rather than maximally,
to overall net human happiness. Bentham’s original formulation of the principle
of utility and Popper’s negative utilitarianism are both examples of
satisficing utilitarianism in this sense
and it should be noted that satisficing utilitarianism has the putative
advantage over optimizing forms of allowing for supererogatory degrees of moral
excellence. Moreover, any moral view that treats moral satisficing as
permissible makes room for moral supererogation in cases where one optimally
goes beyond the merely acceptable. But since moral satisficing is less than
optimal moral behavior, but may be more meritorious than certain behavior that
in the same circumstances would be merely permissible, some moral satisficing
may actually count as supererogatory. In recent work on rational individual
choice, some philosophers have argued that satisficing may often be acceptable
in itself, rather than merely second-best. Even Simon allows that an
entrepreneur may simply seek a satisfactory return on investment or share of
the market, rather than a maximum under one of these headings. But a number of
philosophers have made the further claim that we may sometimes, without
irrationality, turn down the readily available better in the light of the
goodness and sufficiency of what we already have or are enjoying. Independently
of the costs of taking a second dessert, a person may be entirely satisfied
with what she has eaten and, though willing to admit she would enjoy that extra
dessert, turn it down, saying “I’m just fine as I am.” Whether such examples
really involve an acceptable rejection of the momentarily better for the good
enough has been disputed. However, some philosophers have gone on to say, even
more strongly, that satisficing can sometimes be rationally required and
optimizing rationally unacceptable. To keep on seeking pleasure from food or
sex without ever being thoroughly satisfied with what one has enjoyed can seem
compulsive and as such less than rational. If one is truly rational about such
goods, one isn’t insatiable: at some point one has had enough and doesn’t want
more, even though one could obtain further pleasure. The idea that satisficing
is sometimes a requirement of practical reason is reminiscent of Aristotle’s
view that moderation is inherently reasonable
rather than just a necessary means to later enjoyments and the avoidance
of later pain or illness, which is the way the Epicureans conceived moderation.
But perhaps the greatest advocate of satisficing is Plato, who argues in the
Philebus that there must be measure or limit to our desire for pleasure in
order for pleasure to count as a good thing for us. Insatiably to seek and
obtain pleasure from a given source is to gain nothing good from it. And
according to such a view, satisficing moderation is a necessary precondition of
human good and flourishing, rather than merely being a rational restraint on
the accumulation of independently conceived personal good or well-being.
Satisgrice: to satisfice in a Griceian fashion – after
C. E. L., of the Grice Club.
Scala Giuseppe Scala Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
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Giuseppe Scala Giuseppe Scala (Noto, 1556 – Sabbioneta, 1585) è stato un
medico, filosofo, matematico e astronomo italiano. Indice 1 Biografia
2 Pubblicazioni
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci
correlate Biografia Giuseppe Scala [1], insieme a Giuseppe Moleti da Messina,
fu uno dei due studiosi che parteciparono, nel 1582, alla commissione dei
cinque dotti creata da papa Gregorio XIII per la riforma del calendario [2].
Chiamato dall'Università di Padova per insegnare matematica, fu costretto a
rifiutare per le sue precarie condizioni di salute [3]. Morì, infatti,
giovanissimo a soli ventinove anni.
Pubblicazioni L'Efemeridi del mag.co et eccel.te sig. Gioseppe Scala
Siciliano, per anni dodici, le quali cominciano dall'anno di Christo nostro
Sig. 1589. & finiscono nel fine di dicembre dell'anno 1600. ... Alle quali
sono aggiunti i canoni, ò introduttioni dell'efemeridi dell'eccell. sig.
Gioseppe Moleto matematico et dal detto signor Gioseppe Scala ridotto all'uso
delle presenti efemeridi, In Venetia: appresso i Giunti, 1589. (Ephemerides
Iosephi Scalae Siculi Noetini art. et med. doc. ad annos duodecim, incipientes
ab anno Domini 1589). Vnà cum introductionibus ephemeridum excel. d. Iosephi
Moletii mathematici. Ab eodem d. Iosepho Scala, ad vsum suarum, restitutis.
Venetiis: Lucantonio Giunta il giovane, 1589) Note ^ Col suo nome è oggi chiamato
il Gruppo Astrofili di Noto ^ Santi Correnti, Quello che la Sicilia ha dato
all'Italia e al mondo[collegamento interrotto] ^ Vedi Giuseppe Emanuele
Ortolani, Biografia degli uomini illustri di Sicilia ornata de' loro rispettivi
ritratti, Tomo II, Napoli, 1818. Bibliografia Corrado Spataro, L'astronomo
netino Giuseppe Scala jr. e la "nuova scienza" del Cinquecento, 2011.
Voci correlate Calendario gregoriano Controllo di autorità VIAF (EN) 98555789 ·
ISNI (EN) 0000 0000 7089 8873 · BAV (EN) 495/376494 · WorldCat Identities (EN)
lccn-n2006181747 Biografie Portale Biografie Sicilia Portale Sicilia Categorie:
Medici italianiFilosofi italiani del XVI secoloMatematici italiani del XVI
secoloNati nel 1556Morti nel 1585Nati a Noto (Italia)Morti a SabbionetaAstronomi
italiani[altre]
Scalafari Eugenio Scalfari Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera.Jump to navigationJump to search Eugenio Scalfari Eugenio
Scalfari 2016.jpeg Deputato della Repubblica Italiana Durata mandato 5 giugno 1968 – 24
maggio 1972 Legislature V
Gruppo parlamentare Socialista
Collegio Torino
Incarichi parlamentari Componente della quinta commissione (Bilancio e
partecipazioni statali) (10 luglio 1968 – 24 maggio 1972) Componente della
dodicesima commissione (Industria e commercio) (27 marzo 1970 – 24 maggio 1972)
Sito istituzionale Dati generali Partito politico PNF (1942-1943) PLI (1945-1955)
PR (1955-1962) PSI (1962-1972) Indipendente (dal 1972) Titolo di studio Laurea in
giurisprudenza Università Università
degli Studi di Genova e Università “La Sapienza” Professione giornalista Eugenio
Scalfari (Civitavecchia, 6 aprile 1924) è un giornalista, scrittore e filosofo
italiano. Considerato, anche dai suoi "avversari", uno dei più
grandi giornalisti italiani del XX secolo[1][2][3] contribuì, con altri, a
fondare il settimanale l'Espresso ed è fondatore del quotidiano la Repubblica.
I campi principali dell'analisi di Scalfari sono l'economia e la politica. La
sua ispirazione politica è socialista liberale, azionista e radicale. Punti
forti dei suoi articoli recenti sono la laicità, la questione morale, la
filosofia[4]. Indice 1 Biografia
1.1 Formazione
e vita privata 1.2 Esordi
giornalistici durante il fascismo 1.3 Carriera
giornalistica nel dopoguerra 1.4 Fondazione
e direzione de la Repubblica 1.5 Ritiro
dalla direzione de la Repubblica 2 Controversie
3 Premi
ed onorificenze 4 Opere
5 Note
6 Bibliografia
7 Voci
correlate 8 Altri
progetti 9 Collegamenti
esterni Biografia Formazione e vita privata Nasce a Civitavecchia (Roma) il 6
aprile del 1924 [5]. Scalfari si iscrive al Liceo Mamiani di Roma, ma è a
Sanremo (dove la famiglia, di origini calabresi, si era trasferita
temporaneamente, essendo il padre direttore artistico del Casinò) che
completerà gli studi liceali, al liceo classico G.D. Cassini, avendo come
compagno di banco Italo Calvino.[6] Nel 1950 si sposa con la figlia del
giornalista Giulio De Benedetti, Simonetta, morta nel 2006. Dalla fine
degli anni settanta Scalfari è sentimentalmente legato a Serena Rossetti, già
segretaria di redazione de L'Espresso (e poi di Repubblica), che sposerà dopo
la scomparsa della moglie Simonetta.[7] Eugenio Scalfari è ateo[8].
Esordi giornalistici durante il fascismo Tra le prime esperienze giornalistiche
di Scalfari c'è Roma Fascista[9], organo ufficiale del GUF (Gruppo
Universitario Fascista), mentre era studente di giurisprudenza. Negli anni
successivi Scalfari continua a collaborare con riviste e periodici legati al
fascismo, come NuovoOccidente, diretto dall'ex squadrista e fascista cattolico
Giuseppe Attilio Fanelli. Nel 1942 Scalfari sarà nominato caporedattore di Roma
Fascista.[10] All'inizio del 1943[11] scrive una serie di corsivi non
firmati sulla prima pagina di Roma Fascista in cui lancia generiche accuse
verso speculazioni da parte di gerarchi del Partito Nazionale Fascista sulla
costruzione dell'EUR. Questi articoli portarono alla sua espulsione dai GUF per
opera di Carlo Scorza, allora vicesegretario del PNF. Di fronte al gerarca,
intenzionato a perseguire gli speculatori, il giovane Scalfari aveva ammesso
come i suoi corsivi fossero basati su voci generiche. Il gerarca accusò poi il
giovane di essere un imboscato, e lo prese materialmente per il bavero
strappandogli le mostrine dalla divisa del partito[11]. Carriera
giornalistica nel dopoguerra Dopo la fine della seconda guerra mondiale entra
in contatto con il neonato Partito Liberale Italiano, conoscendo giornalisti
importanti nell'ambiente. Nel 1950, mentre lavora presso la Banca Nazionale del
Lavoro, diventa collaboratore, prima a Il Mondo e poi a L'Europeo, di due
personalità che spesso richiama nei suoi scritti: Mario Pannunzio e Arrigo
Benedetti. Ricorderà poi, con orgoglio, di essere stato licenziato dalla BNL
per una serie di articoli sulla Federconsorzi non graditi alla direzione.[12]
Nel 1955 partecipa all'atto di fondazione del Partito Radicale. Nello stesso
anno nasce il settimanale L'Espresso: Scalfari è direttore amministrativo e
scrive articoli di economia. Nel 1963 somma la carica di direttore
responsabile de L'Espresso a quella di direttore amministrativo. Il settimanale
arriva in cinque anni a superare il milione di copie vendute. Il successo
giornalistico si fuse con il piglio imprenditoriale, dato che Scalfari continuò
a gestire anche la parte organizzativa e amministrativa. Eugenio
Scalfari nella foto da deputato Sempre nel 1967 Scalfari pubblica insieme a
Lino Jannuzzi l'inchiesta sul SIFAR che fa conoscere il tentativo di colpo di
Stato chiamato piano Solo. Il generale De Lorenzo li querela e i due giornalisti
vengonocondannati rispettivamente a 15 e a 14 mesi di reclusione, malgrado la
richiesta di assoluzione fatta dal Pubblico Ministero Vittorio Occorsio, che
era riuscito a leggere gli incartamenti integrali prima che il governo ponesse
il segreto di Stato[13]. Scalfari e Jannuzzi evitano il carcere grazie
all'immunità parlamentare loro offerta dal Partito Socialista Italiano: alle
elezioni politiche del 1968 Scalfari viene eletto deputato, come indipendente,
nelle liste del PSI, segreteria Mancini, mentre Jannuzzi diviene senatore.
Scalfari, che era stato eletto sia nella circoscrizione di Torino che in quella
di Milano, opta per la seconda e aderisce al gruppo del PSI. Resta deputato
fino al 1972[14]. Nel 1968, dopo la candidatura al Parlamento, aveva lasciato la
direzione de L'Espresso. Nel 1971 sottoscrive la lettera aperta a
L'Espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Nel 2017, dopo 45 anni,
ammette che "quella firma era stata un errore"[15]. In quegli
anni critica accanitamente le manovre di Eugenio Cefis, prima presidente
dell'ENI e poi di Montedison, appoggiando spesso chi gli si opponeva; tra
questi vi fu nel 1971 Sindona nel suo scontro con Mediobanca per il controllo
di Bastogi[16]. Soprattutto contro Cefis è indirizzato il celebre
libro-inchiesta pubblicato da Scalfari e da Giuseppe Turani nel 1974, Razza
padrona. Fondazione e direzione de la Repubblica Nel 1976, dopo aver già
tentato (inutilmente) di varare un quotidiano insieme a Indro Montanelli, che
aveva respinto la proposta definendola piuttosto azzardata[17], Scalfari fonda
il quotidiano la Repubblica, che debutta nelle edicole il 14 gennaio di
quell'anno. L'operazione, attuata con il Gruppo L'Espresso e la Arnoldo
Mondadori Editore, apre una nuova pagina del giornalismo italiano. Il quotidiano
romano, sotto la sua direzione, compie in pochissimi anni una scalata
imponente, diventando per lungo tempo il principale giornale italiano per
tiratura. L'assetto proprietario registra negli anni ottanta
consolidamenti della posizione dello stesso Scalfari e l'ingresso di Carlo De
Benedetti, nonché un vano tentativo di acquisizione da parte di Berlusconi in
occasione della "scalata" del titolo Arnoldo Mondadori Editore,
finito con il "lodo Mondadori", resosi necessario a causa del fatto
che (come accertato dalla magistratura in seguito) Silvio Berlusconi, a capo
della Fininvest, aveva corrotto uno dei tre giudici per averelusione, malgrado
la richiesta di assoluzione fatta dal Pubblico Ministero Vittorio Occorsio, che
era riuscito a leggere gli incartamenti integrali prima che il governo ponesse
il segreto di Stato[13]. Scalfari e Jannuzzi evitano il carcere grazie
all'immunità parlamentare loro offerta dal Partito Socialista Italiano: alle
elezioni politiche del 1968 Scalfari viene eletto deputato, come indipendente,
nelle liste del PSI, segreteria Mancini, mentre Jannuzzi diviene senatore.
Scalfari, che era stato eletto sia nella circoscrizione di Torino che in quella
di Milano, opta per la seconda e aderisce al gruppo del PSI. Resta deputato
fino al 1972[14]. Nel 1968, dopo la candidatura al Parlamento, aveva lasciato
la direzione de L'Espresso. Nel 1971 sottoscrive la lettera aperta a
L'Espresso contro il commissario Luigi Calabresi. Nel 2017, dopo 45 anni,
ammette che "quella firma era stata un errore"[15]. In quegli
anni critica accanitamente le manovre di Eugenio Cefis, prima presidente
dell'ENI e poi di Montedison, appoggiando spesso chi gli si opponeva; tra
questi vi fu nel 1971 Sindona nel suo scontro con Mediobanca per il controllo
di Bastogi[16]. Soprattutto contro Cefis è indirizzato il celebre
libro-inchiesta pubblicato da Scalfari e da Giuseppe Turani nel 1974, Razza
padrona. Fondazione e direzione de la Repubblica Nel 1976, dopo aver già
tentato (inutilmente) di varare un quotidiano insieme a Indro Montanelli, che
aveva respinto la proposta definendola piuttosto azzardata[17], Scalfari fonda
il quotidiano la Repubblica, che debutta nelle edicole il 14 gennaio di
quell'anno. L'operazione, attuata con il Gruppo L'Espresso e la Arnoldo Mondadori
Editore, apre una nuova pagina del giornalismo italiano. Il quotidiano romano,
sotto la sua direzione, compie in pochissimi anni una scalata imponente,
diventando per lungo tempo il principale giornale italiano per tiratura.
L'assetto proprietario registra negli anni ottanta consolidamenti della
posizione dello stesso Scalfari e l'ingresso di Carlo De Benedetti, nonché un
vano tentativo di acquisizione da parte di Berlusconi in occasione della
"scalata" del titolo Arnoldo Mondadori Editore, finito con il
"lodo Mondadori", resosi necessario a causa del fatto che (come
accertato dalla magistratura in seguito) Silvio Berlusconi, a capo della
Fininvest, aveva corrotto uno dei tre giudici per avereun pronunciamento
favorevole nella disputa con De Benedetti per il controllo della Mondadori:
tale accordo fu fortemente voluto da Giulio Andreotti, grazie
all'intermediazione di Giuseppe Ciarrapico. Sotto la guida di Scalfari,
"Repubblica" apre il filone investigativo sul caso Enimont, che dopo
due anni verrà in buona parte confermato dall'inchiesta di "Mani
pulite". Scalfari nel 2011 Contro Craxi, a differenza che con
Spadolini e con De Mita[18], Scalfari s'era speso sin dall'inizio del decennio
precedente, considerandolo l'archetipo della questione morale[19] contro cui si
scagliava l'anima della sinistra rappresentata da Berlinguer. Di questi invece
elogiò lo "strappo" con l'Unione Sovietica in occasione del golpe
polacco, pur restando essenzialmente estraneo alla tradizione comunista e
rimanendo su posizioni legate all'intellettualità laica e alla tecnocrazia. In
tal senso vanno lette alcune sue importanti iniziative, tutte sostenute per il
tramite di "Repubblica": sponsorizza il "governo del
Presidente", candidandovi il governatore della Banca d'Italia Carlo Azeglio
Ciampi, già negli anni ottanta; indica al presidente Scalfaro il commissario
PSI a Milano Giuliano Amato come viatico per la sua scelta a premier nel 1992;
apprezza Guido Rossi come commissario delle aziende travolte nel turbine di
Tangentopoli. Il 27 gennaio 1994 incomincia, dapprima in solitaria, la sua
ventennale battaglia contro Silvio Berlusconi [20]. Sconfitto Vittorio Sgarbi
[21], il 7 maggio 2008 è il primo a percepire e ad avvertire il pubblico circa
la potenziale pericolosità di Beppe Grillo [22][23]. Il 13 aprile 2019 è il
primo a preconizzare una possibile, futura alleanza fra Matteo Renzi e Matteo
Salvini [24]. Ritiro dalla direzione de la Repubblica Scalfari, padre del
quotidiano la Repubblica e della sua ascesa editoriale e politico-culturale,
abbandona il ruolo di direttore nel 1996, dopo che già da tempo aveva ceduto,
insieme a Caracciolo, la proprietà a Carlo De Benedetti; gli subentra Ezio
Mauro. Non scompare dalla testata del giornale, poiché continua a svolgere il
ruolo di editorialista dell'edizione domenicale. I suoi editoriali sono entrati
oramai nella consuetudine del giornale, tanto da essere soprannominati - anche
per la loro lunghezza - "la messa cantata della domenica"[25]. Cura
altresì una rubrica su L'Espresso (Il vetro soffiato). Il 6 luglio 2007, sul
Venerdì di Repubblica (il magazine settimanale che esce dal 1987), annuncia di
voler abbandonare dopo l'estate la sua storica rubrica Scalfari risponde,
ringraziando i lettori per l'affetto ricevuto e gli stimoli da loro pervenuti
per le sue riflessioni. Gli subentra Michele Serra. Su RaiSat Extra è
andato in onda per qualche tempo, ogni giovedì, un programma dal titolo La
Scalfittura, in cui Scalfari teneva colloqui politici con Giovanni
Floris. Controversie Nel 2013 e nel 2014, le sue "interviste"
con papa Francesco hanno causato per due volte la smentita da parte della sala
stampa vaticana in relazione alle parole attribuite da Scalfari al Pontefice.
Scalfari ha ribattuto di aver scritto virgolettati "come se fossero usciti
dalla bocca del Papa", senza aver preso appunti o registrato durante i
colloqui, sostenendo che quello era stato il suo metodo di lavoro per quasi
cinquant'anni[26][27]. Il 29 marzo 2018 il Vaticano ha smentito un’altra
intervista di Eugenio Scalfari a papa Francesco, a seguito della pubblicazione
di un suo articolo su Repubblica, negando he il Papa avesse rilasciato
un’intervista a Scalfari e sostenendo che il contenuto dell’articolo fosse il
frutto di una sua ricostruzione.[28][29] Ciononostante, Papa Francesco
continua periodicamente a concedere interviste esclusive a Scalfari [30].
Premi ed onorificenze Scalfari ha ricevuto varie onorificenze. A livello
giornalistico ha vinto nel 1988 il Premio Internazionale Trento per "Una
vita dedicata al giornalismo", nel 1996il "Premio Ischia" alla
carriera, nel 1998 il Premio Guidarello al giornalismo d'autore e, di recente,
il Premio Saint-Vincent 2003. L'8 maggio 1996 è stato nominato Cavaliere di
gran croce dal presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro mentre nel 1999
ha ricevuto una delle più prestigiose onorificenze della Repubblica francese
diventando Cavaliere della Legione d'onore (successivamente è stato promosso
ufficiale). È cittadino onorario di Velletri, città in cui risiede. Il 5 maggio
2007 ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Vinci e il 23 ottobre 2008 gli è
stata conferita la cittadinanza benemerita di Sanremo. Nel 2019 vince il
prestigioso Premio Viareggio[31] Cavaliere di gran croce dell'Ordine al
merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di gran croce dell'Ordine
al merito della Repubblica italiana — 2 maggio 1996[32] Grande ufficiale
dell'Ordine al merito della Repubblica italiana - nastrino per uniforme
ordinaria Grande
ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — 2 giugno 1966[33]
Ufficiale della Legion d'onore - nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale
della Legion d'onore Cittadinanza onoraria di Vibo Valentia (1990), Velletri
(1993) e Vinci (2007) Cittadinanza benemerita di Sanremo (2008) Opere Petrolio
in gabbia, con Ernesto Rossi e Leopoldo Piccardi, Bari, Laterza, 1955. I
padroni della città, con Leone Cattani e Angelo Conigliaro, Bari, Laterza,
1957. Le baronie elettriche, con Josiah Eccles, Ernesto Rossi e Leopoldo
Piccardi, Bari, Laterza, 1960. Rapporto sul neocapitalismo in Italia, Bari,
Laterza, 1961. Il potere economico in URSS, Bari, Laterza, 1962. Storia segreta
dell'industria elettrica, Bari, Laterza, 1963. L'autunno della Repubblica. La
mappa del potere in Italia, Milano, Etas Kompass, 1969. Il caso Mattei. Un
corsaro al servizio della repubblica, con Francesco Rosi, Bologna, Cappelli,
1972. Razza padrona. Storia della borghesia di Stato, con Giuseppe Turani,
Milano, Feltrinelli, 1974. Interviste ai potenti, Milano, Arnoldo Mondadori
Editore, 1979. Come andremo a incominciare?, con Enzo Biagi, Milano, Rizzoli,
1981. L'anno di Craxi (o di Berlinguer?), Milano, Mondadori, 1984. La sera
andavamo in Via Veneto. Storia di un gruppo dal «Mondo» alla «Repubblica»,
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986; Collana Super ET, Torino, Einaudi,
2009, ISBN 978-88-061-9916-6. Incontro con Io, Milano, Rizzoli, 1994; Collana
ET Scrittori, Torino, Einaudi, 2011, ISBN 978-88-062-0074-9. Denis Diderot, Il
sogno di d'Alembert seguito da Il sogno di una rosa di Eugenio Scalfari,
Collana La memoria, Palermo, Sellerio, 1994. - II ed. accresciuta, nuova
Introduzione di E. Scalfari, Palermo, Sellerio, 2018, ISBN 978-88-389-3809-2.
Alla ricerca della morale perduta, Milano, Rizzoli, 1995; Collana ET Scrittori,
Torino, Einaudi, 2019, ISBN 978-88-062-4057-8. Il labirinto, Milano, Rizzoli,
1998; Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2016, ISBN 978-88-062-3011-1.
Attualità dell'Illuminismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, 2001. La ruga sulla
fronte, Milano, Rizzoli, 2001; Collana ET Scrittori, Torino, Einaudi, 2010,
ISBN 978-88-062-0075-6. Articoli, 5 voll., Roma, la Repubblica, 2004. Dibattito
sul laicismo, a cura di E. Scalfari, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2005.
L'uomo che non credeva in Dio, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2008,
ISBN 978-88-061-9419-2. Per l'alto mare aperto. La modernità e il pensiero
danzante, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2010, ISBN 978-88-062-0418-1.
Scuote l'anima mia Eros, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2011, ISBN
978-88-062-0859-2. Enrico Berlinguer, La questione morale. La storica
intervista di Eugenio Scalfari, Reggio Emilia, Aliberti, 2011. - ed. ampliata,
Prefazione di Luca Telese, Aliberti, 2012. Vito Mancuso-E. Scalfari,
Conversazioni con Carlo Maria Martini, Collana Campo dei fiori, Roma, Fazi,
2012, ISBN 978-88-641-1635-8. La passione dell'etica. Scritti 1963-2012, a cura
di Angelo Cannatà, Collezione I Meridiani, Milano, Mondadori, 2012, ISBN
978-88-04-61398-5. Papa Francesco-E. Scalfari, Dialogo tra credenti e non
credenti, Torino, Einaudi, 2013, ISBN 978-88-062-1995-6. L'amore, la sfida, il
destino. Il tavolo dove si gioca il senso della vita, Collana Supercoralli,
Torino, Einaudi, 2013, ISBN 978-88-06-21850-8. Racconto autobigrafico, Collana
Passaggi, Torino, Einaudi, 2014, ISBN 978-88-06-21642-9. L'allegria, il pianto,
la vita, Collana Supercoralli, Torino, Einaudi, 2015, ISBN 978-88-062-2822-4.
L'ora del blu, Torino, Einaudi, 2019, ISBN 978-88-06-24176-6. Il Dio unico e la
società moderna. Incontri con Papa Francesco e il Cardinale Carlo Maria
Martini, Torino, Einaudi, 2019, ISBN 978-88-062-4386-9. Note ^
liberoquotidiano.it,
https://www.liberoquotidiano.it/news/commenti-e-opinioni/22261560/vittorio_feltri_eugenio_scalfari_ritratto_fuoriclasse_re_giornalisti_diversi.html.
URL consultato il 24 aprile 2020 (archiviato il 28 aprile 2020). ^ ilfoglio.it,
https://www.ilfoglio.it/uffa/2019/11/05/news/benvenuti-al-grand-hotel-scalfari-splendida-vista-sul-secolo-di-carta-284697/.
URL consultato il 5 novembre 2019 (archiviato il 5 novembre 2019). ^ la7.it,
https://www.la7.it/dimartedi/video/da-montanelli-e-scalfari-ho-imparato-che-bisogna-scrivere-per-farsi-capire-marco-travaglio-18-02-2020-308153.
^ Angelo Cannatà, Eugenio Scalfari e il suo tempo, Mimesis, 2010, diviso in
quattro capitoli: la Politica, l'Arte, la Religione, la Filosofia. ^ Scheda sul
Portale storico della Camera dei deputati, su storia.camera.it. URL consultato
il 20 marzo 2014 (archiviato il 25 aprile 2015). ^ Sull'amicizia tra Scalfari e
Calvino leggiamo: "Caro Eugenio, le tue lettere sono come manate sulla
schiena e io ne ho bisogno di manate sulla schiena, specie di questi
tempi."(...) Mi viene l'acquolina in bocca pensando alle ghiotte
discussioni che faremo quando ci ritroveremo insieme", cfr. Angelo Cannatà
"Eugenio Scalfari e il suo tempo", Mimesis, 2010, p. 105. ^ Paolo
Guzzanti, Guzzanti vs De Benedetti. Faccia a faccia fra un gran editore e un
giornalista scomodo, Aliberti editore, 2010 ^ Cfr. Corriere della Sera,
21/03/1996 ^ La Repubblica.it : Gli 80 anni di Eugenio Scalfari, su
repubblica.it. URL consultato il 17 aprile 2010 (archiviato il 28 gennaio
2011). ^ Mirella Serri, I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte
1938-1948, Milano, Corbaccio, 2005. Ero giovane, fascista e felice,
intervista a Eugenio Scalfari apparsa su Il Foglio del 29 maggio 2008 [1]
Archiviato il 13 dicembre 2013 in Internet Archive. ^ Copia archiviata (PDF),
su pasqualericcio.it. URL consultato il 28 marzo 2009 (archiviato dall'url
originale il 13 dicembre 2013). ^ Nel corso dell'inchiesta Scalfari riferisce
di un colloquio avuto col generale Aurigo: "Mi disse che gli ordini (le
disposizioni relative al 'Piano Solo') contemplavano anche l'ipotesi di una
eventuale resistenza da parte del prefetto (...) gli ordini dicevano che
bisognava mettere il prefetto, qualora avesse resistito a questa iniziativa dei
carabinieri, in condizioni di non nuocere". Fonte: Angelo Cannatà,
"Eugenio Scalfari e il suo tempo", Mimesis, 2010, p. 42. ^ Eugenio
Scalfari / Deputati / Camera dei deputati - Portale storico, su
storia.camera.it. URL consultato il 20 marzo 2014 (archiviato il 25 aprile
2015). ^ Il commissario Calabresi e quella firma del 1971, su repubblica.it.
URL consultato il 9 giugno 2017 (archiviato l'8 giugno 2017). ^ Fabio
Tamburini, Un siciliano a Milano, Longanesi, da ultimo citato da Ferruccio de
Bortoli su
((http://www.corriere.it/politica/09_ottobre_14/debortoli-attacchi-corriere_401507c8-b888-11de-9ba8-00144f02aabc.shtml
Archiviato il 17 ottobre 2009 in Internet Archive.)). ^ Franco Recanatesi, La
mattina andavamo in piazza Indipendenza, Milano, Cairo, 2016 e Alberto Mazzuca,
Penne al vetriolo, Bologna, Minerva, 2017 ^ Nei cui confronti Carlo Caracciolo
e Carlo De Benedetti dicono che Scalfari ebbe un "innamoramento", in
seguito non più condiviso dallo stesso editore della Repubblica che ormai non
lo considerava "un grande politico": intervista alla Stampa del 10
gennaio 2008, p. 23. ^ Scrive Scalfari: Gelli è Belfagor, il messaggero del
diavolo; ma il diavolo, cioè Belzebù, chi è? (...) "Belzebù è, in una
certa misura, lo stesso partito socialista, elemento importante di quel quadro
politico e di quella inamovibilità". Fonte: Eugenio Scalfari e il suo
tempo, di Angelo Cannatà, Mimesis, 2010, p. 61. L'articolo di Scalfari, Caro
Craxi tu lo sai chi è Belzebù, è apparso su Repubblica il 5 giugno 1981. ^
repubblica.it,
https://www.repubblica.it/2004/a/sezioni/politica/festaforza/coccode/coccode.html.
URL consultato il 5 marzo 2020 (archiviato il 21 agosto 2019). ^ la7.it,
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^ Voto Renzi perché l'avversario è Grillo, su youtube.com. ^ youtube.com,
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^ "Le interviste vanno comunque reinterpretate", su youtube.com. ^ ll
Vaticano ha smentito un’altra intervista di Eugenio Scalfari a papa Francesco,
su ilpost.it. URL consultato il 31 marzo 2018 (archiviato il 1º aprile 2018). ^
Il Vaticano smentisce Eugenio Scalfari che fa dire al Papa che l'inferno non
esiste, su ilmessaggero.it. URL consultato il 31 marzo 2018 (archiviato il 31
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978-88-99784-08-9 Franco Recanatesi, La mattina andavamo in piazza
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Mazzuca, Penne al vetriolo. I grandi giornalisti raccontano la Prima
Repubblica, Bologna, Minerva, 2017. ISBN 978-8873818496. Voci correlate La
Repubblica Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di
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Scalfari, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
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Scalfari, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN) Opere
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Eugenio Scalfari, su storia.camera.it, Camera dei deputati. Modifica su
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Radicale. Modifica su Wikidata Dati personali e incarichi nella V legislatura,
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Giornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani del XXI secoloScrittori
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secoloFilosofi italiani del XXI secoloNati nel 1924Nati il 6 aprileNati a
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Scarano Lucio Scarano Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Abbozzo scrittori italiani Questa voce
sull'argomento scrittori italiani è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla
secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di
riferimento. Lucio Scarano (Brindisi, 1540 – Venezia, 1610 circa) è stato un
filosofo, letterato e latinista italiano.
Studiò all'Università di Bologna, andò poi a Padova e a Venezia. Nel
1583 il Senato della Serenissima lo chiamò alla cattedra di filosofia lasciata
da Aldo Manuzio il Giovane. Molto
apprezzato dai contemporanei, fu tra i fondatori dell'Accademia Veneziana (21
giugno 1593) con Giambattista Leoni veneziano, Vincenzo Giliani romano, Pompeo
Limpio da Bari, Giovanni Contarini veneziano, Teodoro Angelucci da Belforte,
Fabio Paolini udinese, Guido Casoni da Serravalle e Giampaolo Gallucci da
Salò. Scrisse il trattato Scenophylax
(Venezia 1601), nel quale tratta della convenienza di restituire alla tragedia
e alla commedia la lingua latina.
Bibliografia Pasquale Camassa, Brindisini illustri, Brindisi, 1909.
Alberto Del Sordo, Ritratti brindisini, presentazione di Aldo Vallone Bari, 1983.
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Categorie: Filosofi italiani del XVI secoloLetterati italianiLatinisti
italianiNati nel 1540Nati a BrindisiMorti a Venezia[altre]
Scaavelli Luigi Scaravelli Da Wikipedia, l'enciclopedia
libera. Jump to navigationJump to search Luigi Scaravelli (Firenze, 19 luglio
1894 – Firenze, 3 maggio 1957) è stato un filosofo italiano. Indice 1 Biografia
2 Biblioteca
personale 3 Opere
principali 4 Note
5 Bibliografia
6 Collegamenti
esterni Biografia Iscritto alla facoltà di medicina dell'Istituto di Studi
Superiori Fiorentino, dopo aver quasi completato gli studi e aver servito come
ufficiale medico nella Prima guerra mondiale, cambiò ateneo e facoltà nel 1920
al scegliendo il corso di laurea in filosofia dell'Università di Pisa, dove si
laureò con lode nel 1923 con Armando Carlini. Insegnò in licei italiani e
stranieri e negli Istituti italiani di cultura di Atene, Bruxelles, Zagabria e
Lisbona fino al 1942. Ottenuta quell'anno la docenza in Filosofia teoretica
all'Università di Pisa, vi insegnò fino al 1957, anno della sua morte, con
qualche incarico temporaneo alla Scuola normale superiore e all'Università
"La Sapienza" di Roma. Nell'ultimo anno della sua vita ottenne il
trasferimento all'Università di Firenze, dove però non insegnerà mai, per una
grave depressione che l'avrebbe condotto di lì a poco al suicidio. Era sposato
e aveva due figli. Profondo conoscitore
di Kant, approfondì nei suoi studi (pubblicati con molta riluttanza e quasi
solo per esigenze concorsuali) in particolare i temi relativi ai rapporti tra
la filosofia kantiana e la fisica moderna, i problemi relativi alla Critica del
Giudizio ed anche i temi dell'idealismo.
Biblioteca personale I suoi libri, donati all'Università La Sapienza dai
suoi eredi, sono oggi conservati in uno specifico fondo alla "Villa
Mirafiori", dove ha sede la Biblioteca di filosofia[1] Opere principali Critica del capire, Firenze,
Sansoni, 1941 (riporta la data 1942) Saggio sulla categoria kantiana della
realta, Firenze, Le Monnier, 1947 La prima meditazione di Cartesio, Firenze, La
Nuova Italia, 1951 Osservazioni sulla Critica del giudizio, Pisa, Scuola
Normale Superiore, 1954 Opere, a cura di Mario Corsi, 3 voll. (Critica del
capire e altri scritti, Scritti kantiani, L'analitica trascendentale: scritti
inediti su Kant), Firenze, La nuova Italia, 1968-80 Note ^ La Biblioteca
privata di Luigi Scaravelli, su http://bibliotecafilosofia.uniroma1.it. URL
consultato il 22 settembre 2017. Bibliografia L' attualità di Scaravelli, a
cura di Edoardo Mirri, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1989 Mauro
Visentin, Le categorie e la realtà: saggi su Luigi Scaravelli, Firenze, Le
lettere, 1990 Gennaro Sasso, Filosofia e idealismo, III vol. De Ruggiero,
Calogero, Scaravelli, Napoli, Bibliopolis, 1997 Il pensiero di Luigi
Scaravelli: la storia come problema e come metodo, atti del Convegno svoltosi
presso l'Accademia d'Ungheria in Roma (11-12 dicembre 1995) col titolo di Il
problema del giudizio storico e Luigi Scaravelli, a cura di Mario Corsi,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998 Scaravelli pensatore europeo, a cura di M.
Biscuso e G. Gembillo, Messina, Siciliano, 2003 Gennaro Sasso, Scaravelli e il
giudizio, in Filosofia e idealismo. Secondi paralipomeni, Napoli, Bibliopolis,
2007, pp. 663–754 Sandra Viviana Palermo, Tra critica e metafisica. Luigi
Scaravelli lettore di Kant, Pisa, Edizioni ETS, 2012 Collegamenti esterni Luigi
Scaravelli, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata Luigi Scaravelli, in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
Massimiliano Biscuso, Profilo di Luigi Scaravelli, su
bibliotecafilosofia.uniroma1.it. La bibliografia completa dei suoi scritti, su
giornaledifilosofia.net. Controllo di autorità VIAF
(EN) 89456724 · ISNI (EN) 0000 0000 7820 8451 · SBN IT\ICCU\CFIV\095462 · LCCN
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495/258500 · WorldCat Identities (EN) lccn-n85011937 Biografie Portale
Biografie Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX
secoloNati nel 1894Morti nel 1957Nati il 19 luglioMorti il 3 maggioNati a
FirenzeMorti a FirenzeProfessori della Scuola Normale SuperioreMorti per
suicidio[altre]
Scarpelli Uberto Scarpelli
(Vicenza, 9 febbraio 1924 – Milano, 16 luglio 1993) è stato un giurista,
filosofo, sociologo, magistrato e accademico italiano. Filosofo del diritto e
studioso di analisi del linguaggio, negli anni Cinquanta è stato uno dei
fondatori della cosiddetta scuola analitica italiana di filosofia del diritto
assieme a Norberto Bobbio. È stato, insieme allo stesso Bobbio e a Giovanni
Tarello, uno dei massimi esponenti della filosofia del diritto analitica
italiana del Novecento, insegnando in varie università italiane anche Teoria
generale del diritto, dottrine dello Stato, Filosofia morale e Filosofia della
politica ed occupandosi costantemente, per l'intera vita, di problemi di etica
e politica. Il pensiero filosofico-giuridico scarpelliano può essere raccolto
attorno a due grandi temi: la semiotica del linguaggio prescrittivo e il metodo
giuridico. Scarpelli contribuisce in misura fondamentale alla cosiddetta svolta
prescrittivistica in campo semiotico ed è fautore di una giustificazione
etico-politica del positivismo giuridico. Oltre ad approfondire lo studio del
metodo del ragionamento morale, si è impegnato attivamente in relazione a
questioni di etica e bioetica quali per esempio l'aborto e l'eutanasia. Ha
compiuto inoltre studi sulla democrazia e i concetti di libertà politica e di
partecipazione politica. Indice 1 Biografia
1.1 Gli
studi 1.2 La
magistratura 1.3 La
carriera universitaria 1.4 L'attività
scientifica 2 Fonti
3 Bibliografia
3.1 Monografie,
curatele e raccolte di saggi 3.2 Saggi
3.3 Note
a sentenza, note bibliografiche, recensioni e schede libro 4 Note 5 Altri
progetti Biografia Gli studi Nasce a Vicenza il 9 febbraio 1924 da una famiglia
di origine pugliese trasferitasi poi in Lucchesia; il padre è magistrato. Dopo
avere frequentato il liceo, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza presso
l'Università degli Studi di Torino. La formazione di Scarpelli è all'insegna
del pensiero filosofico idealistico allora dominante in Italia e fondata, tra
gli altri, sui testi di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Durante gli anni
universitari, desta l'interesse di Scarpelli in particolare il pensiero di
Mario Allara, maestro della scuola civilistica torinese, e la filosofia del
diritto. Nell'a.a. 1944-1945 segue le lezioni del corso di Filosofia del
diritto di Norberto Bobbio, che ha l'incarico per quell'anno di ricoprire la
cattedra di Gioele Solari. Sotto la guida del filosofo e giurista italiano
Solari, Scarpelli si laurea nel 1946 discutendo una tesi sul tema della persona
nella filosofia giuridica moderna. Già in questo lavoro - lo ricorda Bobbio,
molti anni più tardi, nel ritratto dell'allievo - Scarpelli rivela un
orientamento critico verso le versioni organicistiche della filosofia al tempo
in auge. Due anni dopo, nel 1948, si laurea anchein Scienze politiche
sempre sotto la guida di Solari. Risale a questo anno la pubblicazione nella
Rivista del diritto commerciale di una breve nota intitolata Scienza giuridica
e analisi del linguaggio; in questa nota Scarpelli precorre il celebre saggio
di Norberto Bobbio del 1950 che porta lo stesso titolo e che è considerato il
manifesto della scuola analitica italiana di filosofia del diritto. Scarpelli,
sino da giovanissimo, prende le distanze dalle correnti filosofiche
idealistiche, organicistiche ed attualistiche accreditate sul continente per
accostarsi al positivismo logico e, più in generale, alla filosofia analitica e
agli studi di semiotica. È tra i primi a proporne una applicazione in campo
giuridico e ad evidenziare la rilevanza della analisi del linguaggio per la
teoria e la dogmatica giuridica. Appena dopo la laurea, diviene
assistente volontario di Bobbio; in seguito, negli a.a. 1948-1949 e 1949-1950,
in qualità di assistente incaricato, collabora con Bobbio alla preparazione di
due seminari, uno sulla giustizia nel materialismo storico e l'altro sulla
interpretazione giuridica. La giustizia e il marxismo sono temi a cui Scarpelli
dedica il primo libro intitolato Esistenzialismo e marxismo, il quale reca come
sottotitolo Saggio sulla giustizia. Nonostante alcuni cambiamenti intervenuti
nel corso degli anni, nel libro si rintracciano alcuni motivi del pensiero
scarpelliano che lo stesso Scarpelli riconosce di non avere mai abbandonato:
anzitutto, l'idea che la filosofia debba proporsi come forma di pensiero
mondano, legato esclusivamente a ciò che gli uomini sono e fanno al mondo, e
l'idea della scelta e dell'impegno come basi della esistenza di ciascun
uomo. La magistratura Risultato vincitore del concorso per l'accesso in
magistratura, lascia la carriera universitaria con qualche rimpianto; ne è
testimonianza la corrispondenza epistolare col maestro Norberto Bobbio. Durante
gli anni di magistratura, i rapporti con l'università non si interrompono però
completamente: nel 1954 consegue la libera docenza in Filosofia del diritto
presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano; nei
due anni successivi svolge corsi liberi nella stessa disciplina e nell'a.a.
1956-1957 svolge su incarico il corso di dottrina dello Stato al fianco di
Renato Treves. Godendo di una borsa Rockefeller, ottenuta soprattutto grazie ad
Alessandro Passerin d'Entrèves, per un anno si dedica ininterrottamente allo
studio ponendo le basi di una delle sue opere principali: il Contributo alla
semantica del linguaggio normativo, pubblicato nel 1959. Scarpelli esercita la
professione di magistrato a Milano fino al 1962, anno in cui lascia
definitivamente la carica per ritornare a tempo pieno all'insegnamento
universitario. La carriera universitaria Negli a.a. 1960-1961 e 1961-1962
tiene per incarico il corso di Filosofia del diritto nella Facoltà di
Giurisprudenza di Perugia. Dal 1º dicembre 1962 è professore straordinario di
Filosofia del diritto presso la medesima Facoltà; al compimentodel triennio,
nel 1965, è professore ordinario sempre a Perugia. Dal 1º febbraio 1968 è
professore ordinario di Filosofia morale nella Facoltà di Lettere e filosofia
del diritto dell'Università degli Studi di Pavia, presso la cui Facoltà di
Giurisprudenza tiene anche le lezioni di Filosofia del diritto alla morte di Bruno
Leoni avvenuta nel 1967. Dal 1º marzo 1971, succedendo a Bobbio, è
titolare della cattedra di Filosofia del diritto della Facoltà di
Giurisprudenza di Torino. Mantiene l'incarico fino al 1982 quando si
trasferisce accanto a Treves all'Università degli Studi di Milano ricoprendo la
cattedra di Filosofia del diritto di cui è già titolare dal 1974. Nel 1981
promuove il dottorato in Filosofia analitica e teoria generale del diritto;
ancora oggi attivo, tale dottorato è uno dei tre curricula che compongono l'attuale
dottorato in Filosofia del diritto della Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi di Milano. Durante gli anni di docenza, oltre ai
corsi di Filosofia del diritto e Filosofia morale, Scarpelli insegna su
incarico Teoria generale del diritto, Filosofia della politica e Analisi del
linguaggio politico. L'opera incompiuta Negli ultimi anni Uberto
Scarpelli lavora appassionatamente e alacremente a un'opera sistematica rimasta
incompiuta: si tratta di un trattato di teoria generale del diritto di cui
resta solo la struttura del lavoro, dettagliata fino alla scansione dei
paragrafi. A tale opera Scarpelli pensa per lunghi anni, almeno dieci, come
dimostra quanto egli scrive nel saggio del 1983 intitolato La teoria generale
del diritto: prospettive per un trattato; eccettuate le anticipazioni presenti
in questo lavoro e in altri saggi successivi, tra le carte rimaste di
Scarpelli, non v'è alcuna parte di testo scritta di pugno dal filosofo. Come
attestano gli allievi, il modo di lavorare di Scarpelli avrebbe portato ad una
stesura unitaria a partire dalle citazioni e dai riferimenti raccolti e
ordinati nel corso degli anni. Ad oggi, questa mole di documenti resta l'ultima
testimonianza del lavoro di Scarpelli, la traccia degli ultimi sviluppi del suo
pensiero di filosofo del diritto e studioso di analisi del linguaggio.
Scarpelli muore a Milano il 16 luglio 1993 all'età di sessantanove anni. Tra
gli scritti pubblicati postumi e ancora incompiuti, si ricorda soprattutto il
testo di una conferenza mai tenuta intitolato La mia meta-etica e la mia
esperienza etica in cui Scarpelli esplicita le due problematiche che hanno
dominato la sua ricerca meta-etica: quella della razionalità interna dell'etica
e quella della sua fondazione. L'attività scientifica Scarpelli ricopre
numerose cariche in istituzioni dedite alla ricerca e partecipa a numerosi
convegni, incontri di studio e simposi di rilievo nazionale ed internazionale.
È stato membro del Centro di studi metodologici di Torino e dello Institut international
de philosophie politique; è stato socio corrispondente dell'Accademia delle
scienze di Torino e socio dell'Istituto Lombardo Accademia delle scienze e
delle lettere. Dal 1973 è stato direttore dell'Istituto per la Scienza per la
amministrazione pubblica. Ha fatto parte dei consigli direttivi della Rivista
internazionale di filosofia del diritto e di Sociologia del diritto. Nel 1961
entra a far parte del comitato di redazione della Rivista di filosofia di cui
cura numeri monografici dedicati al concetto di libertà, alla logica deontica e
alla bioetica. È stato condirettore della collana Diritto e cultura moderna e
direttore della collana Luoghi critici per le edizioni di Comunità. Presidente
della Società italiana di filosofia giuridica e politica dal 1985 al 1989, è
stato vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica negli anni 1990-1991 ed
è stato nominato presidente onorario della Società italiana di filosofia
analitica nel 1992. All'inizio degli anni Cinquanta contribuisce alla
nascita, dovuta all'iniziativa soprattutto di Ludovico Geymonat, del Centro
Studi metodologici di Torino. In qualità di affiliato, riceve il compito di
fare una relazione sulla Enciclopedia delle scienze unificate; lavoro a cui
fanno seguito negli anni Cinquanta alcuni contributi sulla analisi del
linguaggio così come concepita dal movimento del positivismo logico. In questi
anni Scarpelli si avvicina sempre di più alla filosofia anglosassone e in
particolare agli studi oxoniensi sul linguaggio della morale e della politica,
partecipando anche ad incontri di studio ad Oxford. Seguendo inizialmente
le ricerche del filosofo statunitense Charles W. Morris (1901-1979), negli anni
Cinquanta Scarpelli è fra i protagonisti della cosiddetta svolta linguistica
della filosofia italiana. Si deve a lui l'introduzione nel nostro Paese del
pensiero e delle opere del filosofo della morale Richard M. Hare (1919-2002) e
del filosofo della politica Felix E. Oppenheim. Ad ambedue i filosofi,
Scarpelli dedica alcuni lavori; sono da ricordare anzitutto le note, che in
realtà sono ampi saggi di analisi del linguaggio normativo e contributi di
meta-etica, ai due libri di Hare: The Language of Morals (1952) e Freedom and
Reason (1963). Con Oppenheim, Bobbio e Passerin d'Entreves, Scarpelli intraprende
un vivace dibattito sul concetto di libertà politica che porta alla stesura di
vari lavori; tra essi, si può ricordare anzitutto il saggio dal titolo Libertà
come fatto e come valore del 1965 ed il volume, curato da Passerin d'Entreves,
La libertà politica del 1972. Si devono a Scarpelli i primi studi in
Italia sulla analisi del linguaggio giuridico in cui v'è una sistematica
applicazione degli strumenti della semiotica ai suoi tre livelli: la sintattica
(lo studio dei rapporti tra i segni), la semantica (lo studio dei rapporti tra
i segni e i significati), la pragmatica (lo studio dei rapporti tra i segni e i
loro utenti). Tutta la speculazione e la produzione scientifica di Scarpelli è
basata sulla tesi della grande distinzione tra linguaggio descrittivo e
linguaggio prescrittivo; ma negli anni si evolve progressivamente il livello a
cui è individuato il tratto differenziale tra l'uno e l'altro, individuato
dapprima sul piano pragmatico e poi sul piano semantico. L'esposizione compiuta
del pensiero scarpelliano sulla significanza del linguaggio prescrittivo si ha
nell'opera del 1969 Semantica, morale e diritto, trasfusa nella voce Semantica
giuridica dello stesso anno. L'idea che il linguaggio prescrittivo (le norme, i
comandi, gli ordini, le preghiere, ecc.) abbiano significato trae origine dalla
distinzione tra il principio di significanza e il principio di verificazione.
Alcuni spunti in tal senso sono rintracciabili già nel Contributo alla
semantica del linguaggio normativo (1959) il cui nucleo concettuale ancora
vicino al positivismo logico sta nell'intuizione che gli enunciati normativi,
quantunque non possano essere verificati o falsificati, debbano nondimeno
riferirsi alla realtà. Questa idea è alla base anche del libro Cos'è il
positivismo giuridico (1965) in cui Scarpelli propone una giustificazione
etico-politica del positivismo giuridico, criticando sia la versione bobbiana
del positivismo giuridico come approach sia la versione proposta da Herbert L.
A. Hart. Fonti Le indicazioni sulla produzione scientifica di Uberto
Scarpelli più ampie, seppur non complete, si rintracciano al momento nei
seguenti contributi: Riccardo Guastini, Variazioni su temi di Scarpelli. Con
un'appendice bibliografica, in «Materiali per una storia della cultura giuridica
italiana», XII, 1982, p. 560 ss.; Bibliografia degli scritti di Uberto
Scarpelli. Nota Bibliografica, in Filosofia analitica 1993, a cura di Donatelli
e Luciano Floridi, Lithos editrice, Roma, 1993, p. 17 ss. (con anche
l'indicazione delle note sul “Monitore dei Tribunali” e degli articoli comparsi
su alcuni giornali, quotidiani e periodici: “L'Opinione”, “Panorama”, “Il Sole
24 Ore”, “Il Mondo economico”); Mario Jori, Uberto Scarpelli, giurista e
filosofo, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 1994, p. 191
ss.; Norberto Bobbio, La mia Italia, a cura di Polito, Passigli Editori,
Firenze, 2000, nelle pagine dedicate al ritratto di Uberto Scarpelli, p. 155
ss.; Uberto Scarpelli. Semantica del linguaggio normativo, in Amedeo Giovanni
Conte, Paolo Di Lucia, Luigi Ferrajoli, Mario Jori, Filosofia del diritto, (a
cura di Paolo Di Lucia), Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002, 1ª ed., p.
215 ss.; Félix Morales, "La filosofía del Derecho de Uberto Scarpelli.
Análisis del lenguaje normativo y positivismo jurídico", Universidad de
Alicante, 2008 [1]. Bibliografia La presente bibliografia non è completa
e non contempla i numerosissimi scritti e note apparsi sui giornali, quotidiani
e periodici. Monografie, curatele e raccolte di saggi Esistenzialismo e
marxismo. Saggio sulla giustizia, Taylor, Torino, 1949 (seconda edizione del
1960 e terza edizione del 1968) Filosofia analitica e giurisprudenza, Istituto
editoriale Cisalpino, Milano, 1953 Il problema della definizione e il concetto
di diritto, Istituto editoriale Cisalpino, Milano, 1955 Contributo alla
semantica del linguaggio normativo, Accademia delle Scienze, Torino, 1959
(nuova edizione con introduzione e a cura di Anna Pintore, Giuffrè, Milano,
1985) Filosofia analitica, norme e valori, Comunità, Milano, 1962 Validità,
legittimità, effettività del diritto, e positivismo giuridico, Cluep, Perugia,
1965, ciclostilato Cos'è il positivismo giuridico, Comunità, Milano, 1965
(nuova edizione con introduzione di Alfonso Catania e Mario Jori, ESI, Napoli,
1997) Diritto e analisi del linguaggio, a cura di Uberto Scarpelli, Comunità,
Milano, 1976 Letture filosofiche e politiche. Introduzione agli studi politici,
a cura di Uberto Scarpelli, Cisalpino-Goliardica, Milano, 1977 Thomas Hobbes.
Linguaggio e leggi naturali. Il tempo e la pena, Giuffrè, Milano, 1981 L'etica
senza verità, Il Mulino, Bologna, 1982 La teoria generale del diritto. Problemi
e tendenze attuali. Studi dedicati a Norberto Bobbio, a cura di Uberto
Scarpelli, Comunità, Milano, 1983. Il linguaggio del diritto, a cura di Uberto
Scarpelli e Paolo Di Lucia, prefazione di Mario Jori, Led, Milano, 1994
Bioetica Laica, a cura di Maurizio Mori, Baldini e Castoldi, Milano, 1998 Saggi
Scienza del diritto e analisi del linguaggio, Rivista del diritto commerciale,
1948, p. 212 ss. Dissertazione per la libera docenza, Giurisprudenza italiana,
1949. L'Unità della scienza nella “International Encyclopedia of Unified
Science”, Rivista di filosofia, 1950, p. 280 ss. Il giudice e la legge,
Occidente. Rivista mensile, 1950, p. 338 (saggio compreso nel fascicolo
speciale dedicato a Il potere giurisdizionale nello stato moderno e in
particolare nella costituzione italiana, a cura di Uberto Scarpelli)
Liberalismo e democrazia nella Costituzione italiana, Occidente. Rivista
bimestrale di studi politici, 1951, p. 104 ss. Elementi di analisi della
proposizione giuridica, Jus, 1, 1953, p. 42 ss. (riedito in Atti del congresso
di studi metodologici promosso dal Centro di Studi metodologici, Ramella,
Torino, 1954, p. 414 ss.) Diritto naturale vigente, Occidente. Rivista
bimestrale di studi politici, 2, 1953, p. 99 ss. Alcuni problemi della teoria
analitica del valore nel libro “Elementi di filosofia analitica” di Arthur Pap,
Rivista di filosofia, 1953, p. 321 ss. Linguaggio valutativo e prescrittivo,
Jus, 4, 1953, p. 305 ss. La Filosofia di Giovanni Gentile e le critiche di
Gioele Solari, in Studi in memoria di Gioele Solari, Ramella, Torino, 1954, p.
393 ss. Responsabilità del magistrato, Occidente. Rivista bimestrale di studi
politici, 1954, p. 317 ss. Behaviourism, positivismo logico e fascismo, Rivista
bimestrale di cultura e di politica, 4, 1954, p. 280 ss. Gli Stati Uniti e “il
grande cambiamento”, Rivista bimestrale di cultura e di politica, 11, 1954, p.
719 ss. Etica e linguaggio, Rivista di filosofia, 2, 1954, p. 172 ss. Società e
natura nel pensiero di Hans Kelsen, Rivista internazionale di filosofia del
diritto, 1954, p. 767 ss. Osservazioni sul concetto di segno nel pensiero di
Charles Morris, Rivista di filosofia, 1, 1955, p. 64 ss. La natura della
analisi del linguaggio, Rivista di filosofia, 1955, p. 287 ss. e 432 ss. La
natura della metodologia giuridica, Rivista internazionale di filosofia del
diritto, 1, 1956, p. 249 ss. (incluso anche in Filosofia e scienza del diritto.
Atti del II Congresso nazionale di filosofia del diritto, Giuffrè, Milano,
1956, p. 247 ss.) La «Filosofia del diritto» di Widar Cesarini Sforza, Rivista
di diritto civile, I, 1957, p. 353 ss. I compiti della filosofia del diritto,
in La ricerca filosofica nella coscienza delle nuove generazioni, a cura di
Carlo Arata e altri, Il Mulino, Bologna, 1957, p. 110 ss. I fondamenti e il
metodo della analisi del linguaggio, in Il pensiero americano contemporaneo.
Filosofia, epistemologia, logica, a cura di Ferruccio Rossi-Landi, Comunità,
Milano, 1958, p. 183 ss. Retribuzione (voce), Enciclopedia Filosofica, IV,
Sansoni, Firenze, 1958, col. 82 ss. La définition en droit, Logique et Analyse,
1958, p. 127 ss. poi tradotto come La definizione nel diritto, Jus, 4, 1959, p.
496 ss. Imperativi e asserzioni, Rivista di filosofia, 1, 1959, p. 81 ss. La
libertà, la democrazia e il magistrato, Monitore dei Tribunali, 1961, p. 611
ss. Relazione, in Dibattito bolognese sui valori, a cura di Augusto Guzzo e
Uberto Scarpelli, Edizioni di Filosofia, Torino, 1962, p. 19 ss. Libertà,
ragione e giustizia, Rivista di filosofia, 2, 1963, p. 191 ss. Marxismo,
sociologia neopositivistica e lotta delle classi, Quaderni di Sociologia, 1963,
p. 453 ss. Il permesso, il dovere e la completezza degli ordinamenti normativi
(a proposito di un libro di Amedeo G. Conte), Rivista trimestrale di diritto e
procedura civile, 1963, p. 1634 ss. La dimensione normativa della libertà,
Rivista di filosofia, 1964, p. 449 ss. Positivismo logico e società
contemporanea, Rivista di filosofia, 3, 1964, p. 282 ss. Libertà come fatto e
come valore, (coautori Noberto Bobbio, Alessandro Passerin d'Entreves e Felix
Oppenheim), Rivista di filosofia, 3, 1965, p. 335 ss. Illuminismo e
legislazione, La Magistratura, 8-10, 1966, p. 14 ss. Le “proposizioni
giuridiche” come precetti reiterati, Rivista internazionale di filosofia del
diritto, 1967, p. 465 ss. Risposta di Uberto Scarpelli, in Quaderni della
Rivista “Il politico”. Tavola rotonda sul positivismo giuridico (Pavia, 2
maggio 1966), Milano, Giuffrè, 1967, p. 77 ss. e 181 ss. L'educazione del
giurista, Rivista di diritto processuale, 1, 1968, p. 1 ss. Semantica
giuridica, voce del Novissimo digesto italiano, XVI, UTET, Torino, 1969, p. 978
ss. (Semantica, morale e diritto, Giappichelli, Torino, 1969) Problemi e idee
circa l'insegnamento del diritto – Gruppo di lavoro per il diritto a cura di G.
Pugliese, in Le scienze dell'uomo e la riforma universitaria, Laterza, Bari,
1969 I magistrati e le tre democrazie, Rivista di diritto processuale, 1970, p.
646 ss. Le argomentazioni dei giudici: prospettive di analisi, Il Foro
italiano, 1970, suppl. ai Quaderni. Serie II. La formazione extralegislativa
del diritto nell'esperienza italiana. Atti delle giornate di studio di Ancona,
2-3 maggio 1968, 1, col. 59 ss. Moore in Italia, Rivista di filosofia, 1970, p.
289 ss. La «grande divisione» e la filosofia della politica, introduzione a
Felix Oppenheim, Etica e filosofia politica, Il Mulino, Bologna, 1971, p. V ss.
Il metodo giuridico, Rivista di diritto processuale, 4, 1971, p. 553 ss.
(riedito come voce della Enciclopedia Feltrinelli-Fisher. Diritto 2, a cura di
Giuliano Crifò, Feltrinelli, Milano, 1972, p. 411 ss.) Dovere morale, obbligo
giuridico, impegno politico, Rivista di filosofia, 1972, p. 291 ss. (riedito in
Studi sassaresi, Giuffrè, Milano, 1973, p. 193 ss.) Impegno politico e
conoscenza sociologica, Quaderni di Sociologia, 1972, p. 470 ss. Il diritto
nella società industriale: una strategia di accostamento, Rivista di diritto
processuale, 1972, p. 676 ss. (edito anche in Il diritto della società
industriale. Obbligazione politica e libertà di coscienza. Atti del IX Convegno
nazionale della Società italiana di Filosofia giuridica e politica (Pergia, 5-7
ottobre 1972), Giuffrè, Milano, 1974, p. 9 ss.) Prefazione a Dagobert D. Runes,
Dizionario di filosofia, Mondadori, Milano, 1972, p. V ss. La facoltà di
scienze politiche di Milano e il potere negativo, Politica del diritto, 6,
1972, p. 869 ss. Intervento in Autonomia e diritto di resistenza, Studi
sassaresi, Giuffrè, Milano, 1973, p. 400 ss. Insegnamento del diritto,
filosofia del diritto e società in trasformazione, Rivista trimestrale di
diritto pubblico, 1973, p. 1669 ss. (riedito in L'educazione giuridica, Libreria
Universitaria, Perugia, 1975, p. 54 ss.) Per una sociologia del diritto come
scienza, Sociologia del diritto, 1974, p. 266 ss. (riedito in La sociologia del
diritto: un dibattito, Giuffrè, Milano, 1974 e in Diritto e trasformazione
sociale, Laterza, Bari, 1978) La conoscenza sociologica, Sociologia del
diritto, 1974, p. 405 ss. Etica, linguaggio e ragione, in Atti del XXV Convegno
Nazionale di Filosofia (Pavia, 19-23 settembre 1975), Società filosofica
italiana, Roma, 1975, p. 133 ss. Democrazie e competenze, Amministrare,
Giuffrè, Milano, 1975, p. 189 ss. Introduzione. La Filosofia. La filosofia
dell'etica. La filosofia del diritto di indirizzo analitico in Italia e
Introduzione all'analisi delle argomentazioni dei giudici, in Diritto e analisi
del linguaggio, a cura di Uberto Scarpelli, Milano, Comunità, 1976, p. 7 ss. e
407 ss. Lawrence M. Friedman e il sistema giuridico, Sociologia del diritto, 2,
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ss. Intervento al convegno del PSI di Milano, 23 gennaio 1976, in I socialisti
e la cultura. Materiali e contributi per una politica culturale alternativa,
Marsilio, Venezia, 1976, p. 224 ss. Le condizioni metagiuridiche della
partecipazione, Atti del XXII Convegno di Studi di Scienza
dell'amministrazione, 23-25 settembre 1976, Giuffrè, Milano, p. 245 ss. Le
“entità strane dette norme” ed i guastini di Guastini, Sociologia del diritto,
1, 1977, p. 183 ss. Santi Romano, teorico conservatore, teorico progressista,
in Le dottrine giuridiche di oggi e l'insegnamento di Santi Romano, a cura di
Paolo Biscaretti di Ruffìa, Giuffrè, Milano, 1977, p. 45 ss. Intervento in La
partecipazione popolare nella Costituzione repubblicana: prevenzione sociale e
controllo della criminalità. Atti del convegno di Senigallia (8-10 dicembre
1977), Giustizia e Costituzione, 1978, p. 82 ss. Intervento nella presentazione
di Luciano Gallino, Dizionario di sociologia, in Milano, Sala del Grechetto,
pubblicata in UTET – Panorama di Lettere e Scienze, 125, 1978, p. 3 ss. Thomas
Hobbes e l'obbligazione politica come obbligazione in coscienza, in Studi in
onore di Enrico Tullio Liebman, IV, Giuffrè, Milano, 1979, p. 3147 ss. Idea
dell'università e diritto allo studio, in Atti del Convegno su Il diritto allo
studio nel quadro dei rapporti fra Università e Regione, Quaderni della Regione
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Per la dissoluzione della metafora formalistica, in Studi in onore di C.
Grassetti, III, Giuffrè, Milano, 1980 p. 1669 ss. La partecipazione politica,
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Magistratura, società e istituzioni negli anni '80. Atti del I Convegno Emilio
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a cura di Carlo Roehrssen, Istituto delle Enciclopedia italiana, Roma, 1983, p.
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Milano, 1981. Responsabilità politica o virtù repubblicana, in Garanzie
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studi 15 ottobre 1981 su Le ragioni della libertà: degenerazione dello stato
burocratico e risposte neoliberali per l'Italia, Einaudi - notizie - circolare
ai soci della Fondazione Einaudi, 5, 1981, p. 17 ss. e 23 ss. Il tempo e la
pena, in Piacere e felicità: fortuna e declino. Atti del 3º Convegno di
studiosi di Filosofia morale (Chiavari-S. Margherita Ligure, 15-17 maggio
1980), a cura di Romeo Crippa, Liviana Editrice, Padova, 1982, p. 163 ss.
Filosofia e diritto, in La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nelle
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del linguaggio, Il politico. Rivista italiana di Scienze politiche, 1, 1982, p.
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a Noberto Bobbio, a cura di Uberto Scarpelli, Comunità, Milano, 1983, p. 281
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Società norme e valori. Studi in onore di Renato Treves, a cura di Uberto
Scarpelli e Vincenzo Tomeo, Giuffrè, Milano, 1984, p. 141 ss. Auctoritas non
veritas facit legem, in Linguaggio persuasione verità: atti del 28º Congresso
nazionale di filosofia tenutosi in Verona dal 28 aprile al 1º maggio 1983,
Cedam, Padova, 1984, p. 133 ss. (anche in Rivista di filosofia, 1984, p. 29
ss.) Intervento in Il Welfare State possibile. Saggi e interventi di Francesco Barone,
… Uberto Scarpelli …, prefazione di Enrico Mattei, Le Monnier, 1984, p. 83 ss.
Scienze dell'uomo e potere sull'uomo: oltre la libertà e la dignità, in
Baudrillard e altri, Sapere e potere, I, a cura di Viviana Conti, Multhipla
edizioni, Milano, 1984, p. 65 ss. Un filosofo a disagio, Bollettino della
Società Filosofica italiana. Nuova Serie, 123, 1984, p. 38 ss. Voci: Diritto,
Interpretazione, Istituzione, Norma, Validità, in Gli strumenti del sapere
contemporaneo, I, Le discipline e II, I concetti, UTET, Torino, 1985. Le porte
della stalla, Quadrimestre. Rivista di diritto privato, 3, 1985, p. 378 ss. Gli
orizzonti della giustificazione, Rivista di filosofia, 1985, p. 3 ss. (poi in
Etica e diritto, a cura di Letizia Gianformaggio e Eugenio Lecaldano, Laterza,
Roma-Bari, 1986, p. 3 ss.) Scienza, sapere, sapienza, Rivista internazionale di
filosofia del diritto, 2, 1986, p. 245 ss. Di alcune difficoltà culturali e di
una tentazione perversa inerenti ai “diritti degli animali”, in “I diritti
degli animali”. Atti del convegno nazionale Genova 23-24 maggio 1986, a cura di
Silvana Castignone e Luisella Battaglia, Centro di Bioetica, Genova, 1986, p. 7
ss. La filosofia nella Facoltà di Giurisprudenza, Rivista di filosofia, 1986,
p. 409 ss. La bioetica. Alla ricerca dei principi, in Biblioteca della libertà,
99, 1987, p. 8 ss. Un modello di ragione giuridica: il diritto reale razionale,
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Recensione a De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari, 1965, in Rivista di
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Saggio di bibliografia, Milano, 1967, in Rivista di filosofia, 1968, p. 245 ss.
Recensione a Amato, Logica simbolica e diritto, Milano, 1969, in Rivista di
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Care and Landesman (eds.), Readings in the Theory of Action, London, 1968, in
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del Derecho de Uberto Scarpelli (PDF), rua.ua.es. Altri progetti Collabora a
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PaviaProfessori dell'Università degli Studi di TorinoSociologi del
dirittoStudenti dell'Università degli Studi di Torino[altre]
sceptis: Cicero translated as ‘dubitatio.’ For some
reason, Grice was irritated by Wood’s sobriquet of Russell as a “passionate
sceptic”: ‘an oxymoron.” The most specific essay by Grice on this is an essay
he kept after many years, that he delivered back in the day at Oxford,
entitled, “Scepticism and common sense.” Both were traditional topics at Oxford
at the time. Typically, as in the Oxonian manner, he chose two authors,
New-World’s Malcolm’s treatment of Old-World Moore, and brings in Austin’s
‘ordinary-language’ into the bargain. He also brings in his own obsession with
what an emissor communicates. In this case, the “p” is the philosopher’s
sceptical proposition, such as “That pillar box is red.” Grice thinks ‘dogmatic’
is the opposite of ‘sceptic,’ and he is right! Liddell and Scott have “δόγμα,”
from “δοκέω,” and which they render as “that which seems to one, opinion or
belief;” Pl.R.538c; “δ. πόλεως κοινόν;” esp. of philosophical doctrines,
Epicur.Nat.14.7; “notion,” Pl.Tht.158d; “decision, judgement,” Pl. Lg.926d; (pl.); public decree,
ordinance, esp. of Roman
Senatus-consulta, “δ. συγκλήτου” “δ. τῆς
βουλῆς” So note that there is nothing ‘dogmatic’ about ‘dogma,’ as it derives
from ‘dokeo,’ and is rendered as ‘that which seems to one.’ So the keyword
should be later Grecian, and in the adjectival ‘dogmatic.’ Liddell and Scott
have “δογματικός,” which they render as “of or for doctrines, didactic,
[διάλογοι] Quint.Inst.2.15.26, and “of persons, δ. ἰατροί,” “physicians who go
by general principles,” opp. “ἐμπειρικοί and μεθοδικοί,” Dsc.Ther.Praef.,
Gal.1.65; in Philosophy, S.E.M.7.1, D.L.9.70, etc.; “δ. ὑπολήψεις” Id.9.83; “δ.
φιλοσοφία” S.E. P.1.4. Adv. “-κῶς” D.L.9.74, S.E.P.1.197: Comp. “-κώτερον”
Id.M. 6.4. Why is Grice interested in scepticism. His initial concern, the one
that Austin would authorize, relates to ‘ordinary language.’ What if ‘ordinary language’
embraces scepticism? What if it doesn’t? Strawso notes that the world of
ordinary language is a world of things, causes, and stuff. None of the good
stuff for the sceptic. what is Grice’s answer to the sceptic’s implicaturum?
The sceptic’s implicaturum is a topic that always fascinated Girce. While Grice
groups two essays as dealing with one single theme, strictly, only this or that
philosopher’s paradox (not all) may count as sceptical. This or that
philosopher’s paradox may well not be sceptical at all but rather dogmatic. In
fact, Grice defines philosophers paradox as anything repugnant to common sense,
shocking, or extravagant ‒ to Malcolms ears, that is! While it is,
strictly, slightly odd to quote this as a given date just because, by a stroke
of the pen, Grice writes that date in the Harvard volume, we will follow
his charming practice. This is vintage Grice. Grice always takes the
sceptics challenge seriously, as any serious philosopher should. Grices
takes both the sceptics explicatum and the scepticss implicaturum as
self-defeating, as a very affront to our idea of rationality, conversational or
other. V: Conversations with a sceptic: Can he be slightly more conversational
helpful? Hume’ sceptical attack is partial, and targeted only towards
practical reason, though. Yet, for Grice, reason is one. You cannot
really attack practical or buletic reason without attacking theoretical or
doxastic reason. There is such thing as a general rational acceptance, to use
Grice’s term, that the sceptic is getting at. Grice likes to play with the idea
that ultimately every syllogism is buletic or practical. If, say, a syllogism
by Eddington looks doxastic, that is because Eddington cares to omit the
practical tail, as Grice puts it. And Eddington is not even a philosopher, they
say. Grice is here concerned with a Cantabrigian topic popularised by
Moore. As Grice recollects, Some like Witters, but
Moore’s my man. Unlike Cambridge analysts such as Moore, Grice sees
himself as a linguistic-turn Oxonian analyst. So it is only natural that Grice
would connect time-honoured scepticism of Pyrrhos vintage, and common sense
with ordinary language, so mis-called, the elephant in Grices room. Lewis
and Short have “σκέψις,” f. σκέπτομαι, which they render as “viewing,
perception by the senses, ἡ διὰ τῶν ὀμμάτων ςκέψις, Pl. Phd. 83a;
observation of auguries; also as examination, speculation, consideration, τὸ
εὕρημα πολλῆς σκέψιος; βραχείας ςκέψις; ϝέμειν ςκέψις take thought of a
thing; ἐνθεὶς τῇ τέχνῃ ςκέψις; ςκέψις ποιεῖσθαι; ςκέψις προβέβληκας;
ςκέψις λόγων; ςκέψις περί τινος inquiry into, speculation on a thing;
περί τι Id. Lg. 636d;ἐπὶ σκέψιν τινὸς ἐλθεῖν; speculation, inquiry,ταῦτα
ἐξωτερικωτέρας ἐστὶ σκέψεως; ἔξω τῆς νῦν ςκέψεως; οὐκ οἰκεῖα τῆς παρούσης
ςκέψις; also hesitation, doubt, esp. of the Sceptic or Pyrthonic philosophers,
AP 7. 576 (Jul.); the Sceptic philosophy, S. E. P. 1.5; οἱ ἀπὸ τῆς
ςκέψεως, the Sceptics, ib. 229. in politics, resolution, decree, συνεδρίον
Hdn. 4.3.9, cf. Poll. 6.178. If scepticism attacks common sense and fails,
Grice seems to be implicating, that ordinary language philosophy is a good
antidote to scepticism. Since what language other than ordinary language does
common sense speak? Well, strictly, common sense doesnt speak. The man in the
street does. Grice addresses this topic in a Mooreian way in a later essay,
also repr. in Studies, Moore and philosophers paradoxes, repr. in Studies.
As with his earlier Common sense and scepticism, Grice tackles Moores and
Malcolms claim that ordinary language, so-called, solves a few of philosophers
paradoxes. Philosopher is Grices witty way to generalise over your
common-or-garden, any, philosopher, especially of the type he found eccentric,
the sceptic included. Grice finds this or that problem in this overarching
Cantabrigian manoeuvre, as over-simplifying a pretty convoluted
terrain. While he cherishes Austins Some like Witters, but Moores MY man!
Grice finds Moore too Cantabrigian to his taste. While an Oxonian thoroughbred,
Grice is a bit like Austin, Some like Witters, but Moores my man, with this or
that caveat. Again, as with his treatment of Descartes or Locke, Grice is
hardly interested in finding out what Moore really means. He is a philosopher,
not a historian of philosophy, and he knows it. While Grice agrees with Austins
implicaturum that Moore goes well above Witters, if that is the expression
(even if some like him), we should find the Oxonian equivalent to Moore. Grice
would not Names Ryle, since he sees him, and his followers, almost every day.
There is something apostolic about Moore that Grice enjoys, which is just as
well, seeing that Moore is one of the twelve. Grice found it amusing that
the members of The Conversazione Society would still be nickNamesd apostles
when their number exceeded the initial 12. Grice spends some time exploring
what Malcolm, a follower of Witters, which does not help, as it were, has to
say about Moore in connection with that particularly Oxonian turn of phrase,
such as ordinary language is. For Malcolms Moore, a paradox by philosopher
[sic], including the sceptic, arises when philosopher [sic], including the
sceptic, fails to abide by the dictates of ordinary language. It might merit
some exploration if Moore’s defence of common sense is against: the sceptic may
be one, but also the idealist. Moore the realist, armed with ordinary language
attacks the idealists claim. The idealist is sceptical of the realists claim.
But empiricist idealism (Bradley) has at Oxford as good pedigree as empiricist
realism (Cook Wilson). Malcolm’s simplifications infuriate Grice, and ordinary
language has little to offer in the defense of common sense realism against
sceptical empiricist idealism. Surely the ordinary man says ridiculous, or
silly, as Russell prefers, things, such as Smith is lucky, Departed spirits
walk along this road on their way to Paradise, I know there are infinite stars,
and I wish I were Napoleon, or I wish that I had
been Napoleon, which does not mean that the utterer wishes that
he were like Napoleon, but that he wishes that he had lived
not in the his century but in the XVIIIth century. Grice is being specific
about this. It is true that an ordinary use of language, as Malcolm
suggests, cannot be self-contradictory unless the ordinary use of language is
defined by stipulation as not self-contradictory, in which case an appeal to
ordinary language becomes useless against this or that paradox by Philosopher.
I wish that I had been Napoleon seems to involve nothing but an ordinary use of
language by any standard but that of freedom from absurdity. I wish
that I had been Napoleon is not, as far as Grice can see, philosophical, but
something which may have been said and meant by numbers of ordinary
people. Yet, I wish that I had been Napoleon is open to the suspicion of
self-contradictoriness, absurdity, or some other kind of
meaninglessness. And in this context suspicion is all Grice needs. By
uttering I wish that I had been Napoleon U hardly means the same as he
would if he uttered I wish I were like Napoleon. I wish that I had been
Napoleon is suspiciously self-contradictory, absurd, or meaningless, if, as
uttered by an utterer in a century other than the XVIIIth century, say, the
utterer is understood as expressing the proposition that the utterer wishes
that he had lived in the XVIIIth century, and not in his century, in which case
he-1 wishes that he had not been him-1? But blame it on the
buletic. That Moore himself is not too happy with Malcolms criticism can
be witnessed by a cursory glimpse at hi reply to Malcolm. Grice is totally
against this view that Malcolm ascribes to Moore as a view that is too broad to
even claim to be true. Grices implicaturum is that Malcolm is appealing to
Oxonian turns of phrase, such as ordinary language, but not taking proper
Oxonian care in clarifying the nuances and stuff in dealing with, admittedly, a
non-Oxonian philosopher such as Moore. When dealing with Moore, Grice is not
necessarily concerned with scepticism. Time is unreal, e.g. is hardly a sceptic
utterance. Yet Grice lists it as one of Philosophers paradoxes. So, there are
various to consider here. Grice would start with common sense. That is what he
does when he reprints this essay in WOW, with his attending note in both the
preface and the Retrospective epilogue on how he organizes the themes and
strands. Common sense is one keyword there, with its attending realism.
Scepticism is another, with its attending empiricist idealism. It is intriguing
that in the first two essays opening Grices explorations in semantics and
metaphysics it seems its Malcolm, rather than the dryer Moore, who interests
Grice most. While he would provide exegeses of this or that dictum by Moore,
and indeed, Moore’s response to Malcolm, Grice seems to be more concerned with
applications of his own views. Notably in Philosophers paradoxes. The fatal
objection Grice finds for the paradox propounder (not necessarily a sceptic,
although a sceptic may be one of the paradox propounders) significantly rests
on Grices reductive analysis of meaning that
as ascribed to this or that utterer U. Grice elaborates on circumstances
that hell later take up in the Retrospective epilogue. I find myself not
understanding what I mean is dubiously acceptable. If meaning, Grice claims, is
about an utterer U intending to get his addressee A to believe that U ψ-s that
p, U must think there is a good chance that A will recognise what he is
supposed to believe, by, perhaps, being aware of the Us practice or by a supplementary
explanation which might come from U. In which case, U should not be meaning
what Malcolm claims U might mean. No utterer should intend his addressee to
believe what is conceptually impossible, or incoherent, or blatantly false
(Charles Is decapitation willed Charles Is death.), unless you are Queen in
Through the Looking Glass. I believe five impossible things before breakfast,
and I hope youll soon get the proper training to follow suit. Cf. Tertulian,
Credo, quia absurdum est. Admittedly, Grice edits the Philosophers paradoxes
essay. It is only Grices final objection which is repr. in WOW, even if he
provides a good detailed summary of the previous sections. Grice appeals to
Moore on later occasions. In Causal theory, Grice lists, as a third philosophical
mistake, the opinion by Malcolm that Moore did not know how to use knowin a
sentence. Grice brings up the same example again in Prolegomena. The use of
factive know of Moore may well be a misuse. While at Madison, Wisconsin, Moore
lectures at a hall eccentrically-built with indirect lighting simulating sun
rays, Moore infamously utters, I know that there is a window behind that
curtain, when there is not. But it is not the factiveness Grice is aiming at,
but the otiosity Malcolm misdescribes in the true, if baffling, I know that I
have two hands. In Retrospective epilogue, Grice uses M to abbreviate Moore’s
fairy godmother – along with G (Grice), A (Austin), R (Ryle) and Q (Quine)! One
simple way to approach Grices quandary with Malcolm’s quandary with Moore is
then to focus on know. How can Malcolm claim that Moore is guilty of misusing
know? The most extensive exploration by Grice on know is in Grices third James
lecture (but cf. his seminar on Knowledge and belief, and his remarks on some
of our beliefs needing to be true, in Meaning revisited. The examinee
knows that the battle of Waterloo was fought in 1815. Nothing odd about that,
nor about Moores uttering I know that these are my hands. Grice is perhaps the
only one of the Oxonian philosophers of Austins play group who took common
sense realsim so seriously, if only to crticise Malcoms zeal with it. For
Grice, common-sense realism = ordinary language, whereas for the typical
Austinian, ordinary language = the language of the man in the street. Back at
Oxford, Grice uses Malcolm to contest the usual criticism that Oxford
ordinary-language philosophers defend common-sense realist assumptions just
because the way non-common-sense realist philosopher’s talk is not ordinary
language, and even at Oxford. Cf. Flews reference to Joness philosophical
verbal rubbish in using self as a noun. Grice is infuriated by all this unclear
chatter, and chooses Malcolms mistreatment of Moore as an example. Grice is
possibly fearful to consider Austins claims directly! In later essays, such as
‘the learned’ and ‘the lay,’ Grice goes back to the topic criticising now the
scientists jargon as an affront to the ordinary language of the layman that
Grice qua philosopher defends. scepticism, in the most common sense, the refusal
to grant that there is any knowledge or justification. Skepticism can be either
partial or total, either practical or theoretical, and, if theoretical, either
moderate or radical, and either of knowledge or of justification. Skepticism is
partial iff if and only if it is restricted to particular fields of beliefs or
propositions, and total iff not thus restricted. And if partial, it may be
highly restricted, as is the skepticism for which religion is only opium, or
much more general, as when not only is religion called opium, but also history
bunk and metaphysics meaningless. Skepticism is practical iff it is an attitude
of deliberately withholding both belief and disbelief, accompanied perhaps but
not necessarily by commitment to a recommendation for people generally, that
they do likewise. Practical skepticism can of course be either total or
partial, and if partial it can be more or less general. Skepticism is
theoretical iff it is a commitment to the belief that there is no knowledge
justified belief of a certain kind or of certain kinds. Such theoretical
skepticism comes in several varieties. It is moderate and total iff it holds
that there is no certain superknowledge superjustified belief whatsoever, not
even in logic or mathematics, nor through introspection of one’s present
experience. It is radical and total iff it holds that there isn’t even any
ordinary knowledge justified belief at all. It is moderate and partial, on the
other hand, iff it holds that there is no certain superknowledge superjustified
belief of a certain specific kind K or of certain specific kinds K1, . . . , Kn
less than the totality of such kinds. It is radical and partial, finally, iff
it holds that there isn’t even any ordinary knowledge justified belief at all
of that kind K or of those kinds K1, . . . , Kn. Grecian skepticism can be
traced back to Socrates’ epistemic modesty. Suppressed by the prolific
theoretical virtuosity of Plato and Aristotle, such modesty reasserted itself
in the skepticism of the Academy led by Arcesilaus and later by Carneades. In
this period began a long controversy pitting Academic Skeptics against the
Stoics Zeno and later Chrysippus, and their followers. Prolonged controversy,
sometimes heated, softened the competing views, but before agreement congealed
Anesidemus broke with the Academy and reclaimed the arguments and tradition of
Pyrrho, who wrote nothing, but whose Skeptic teachings had been preserved by a
student, Timon in the third century B.C.. After enduring more than two
centuries, neoPyrrhonism was summarized, c.200 A.D., by Sextus Empiricus
Outlines of Pyrrhonism and Adversus mathematicos. Skepticism thus ended as a
school, but as a philosophical tradition it has been influential long after
that, and is so even now. It has influenced strongly not only Cicero Academica
and De natura deorum, St. Augustine Contra academicos, and Montaigne “Apology
for Raimund Sebond”, but also the great historical philosophers of the Western
tradition, from Descartes through Hegel. Both on the Continent and in the
Anglophone sphere a new wave of skepticism has built for decades, with logical
positivism, deconstructionism, historicism, neopragmatism, and relativism, and
the writings of Foucault knowledge as a mask of power, Derrida deconstruction,
Quine indeterminacy and eliminativism, Kuhn incommensurability, and Rorty
solidarity over objectivity, edification over inquiry. At the same time a
rising tide of books and articles continues other philosophical traditions in
metaphysics, epistemology, ethics, etc. It is interesting to compare the
cognitive disengagement recommended by practical skepticism with the affective
disengagement dear to stoicism especially in light of the epistemological
controversies that long divided Academic Skepticism from the Stoa, giving rise
to a rivalry dominant in Hellenistic philosophy. If believing and favoring are
positive, with disbelieving and disfavoring their respective negative
counterparts, then the magnitude of our happiness positive or unhappiness
negative over a given matter is determined by the product of our
belief/disbelief and our favoring/disfavoring with regard to that same matter.
The fear of unhappiness may lead one stoically to disengage from affective
engagement, on either side of any matter that escapes one’s total control. And
this is a kind of practical affective “skepticism.” Similarly, if believing and
truth are positive, with disbelieving and falsity their respective negative
counterparts, then the magnitude of our correctness positive or error negative
over a given matter is determined by the product of our belief/disbelief and
the truth/falsity with regard to that same matter where the positive or
negative magnitude of the truth or falsity at issue may be determined by some
measure of “theoretical importance,” though alternatively one could just assign
all truths a value of !1 and all falsehoods a value of †1. The fear of error
may lead one skeptically to disengage from cognitive engagement, on either side
of any matter that involves risk of error. And this is “practical cognitive
skepticism.” We wish to attain happiness and avoid unhappiness. This leads to
the disengagement of the stoic. We wish to attain the truth and avoid error.
This leads to the disengagement of the skeptic, the practical skeptic. Each opts
for a conservative policy, but one that is surely optional, given just the
reasoning indicated. For in avoiding unhappiness the stoic also forfeits a
corresponding possibility of happiness. And in avoiding error the skeptic also
forfeits a corresponding possibility to grasp a truth. These twin policies
appeal to conservatism in our nature, and will reasonably prevail in the lives
of those committed to avoiding risk as a paramount objective. For this very
desire must then be given its due, if we judge it rational. Skepticism is
instrumental in the birth of modern epistemology, and modern philosophy, at the
hands of Descartes, whose skepticism is methodological but sophisticated and
well informed by that of the ancients. Skepticism is also a main force, perhaps
the main force, in the broad sweep of Western philosophy from Descartes through
Hegel. Though preeminent in the history of our subject, skepticism since then
has suffered decades of neglect, and only in recent years has reclaimed much
attention and even applause. Some recent influential discussions go so far as
to grant that we do not know we are not dreaming. But they also insist one can
still know when there is a fire before one. The key is to analyze knowledge as
a kind of appropriate responsiveness to its object truth: what is required is
that the subject “track” through his belief the truth of what he believes. S
tracks the truth of P iff: S would not believe P if P were false. Such an
analysis of tracking, when conjoined with the view of knowledge as tracking,
enables one to explain how one can know about the fire even if for all one
knows it is just a dream. The crucial fact here is that even if P logically
entails Q, one may still be able to track the truth of P though unable to track
the truth of Q. Nozick, Philosophical Explanations, 1. Many problems arise in
the literature on this approach. One that seems especially troubling is that
though it enables us to understand how contingent knowledge of our surroundings
is possible, the tracking account falls short of enabling an explanation of how
such knowledge on our part is actual. To explain how one knows that there is a
fire before one F, according to the tracking account one presumably would
invoke one’s tracking the truth of F. But this leads deductively almost
immediately to the claim that one is not dreaming: Not D. And this is not
something one can know, according to the tracking account. So how is one to
explain one’s justification for making that claim? Most troubling of all here
is the fact that one is now cornered by the tracking account into making
combinations of claims of the following form: I am quite sure that p, but I
have no knowledge at all as to whether p. And this seems incoherent. A
Cartesian dream argument that has had much play in recent discussions of
skepticism is made explicit by Barry Stroud, The Significance of Philosophical
Scepticism, 4 as follows. One knows that if one knows F then one is not
dreaming, in which case if one really knows F then one must know one is not dreaming.
However, one does not know one is not dreaming. So one does not know F. Q.E.D.
And why does one fail to know one is not dreaming? Because in order to know it
one would need to know that one has passed some test, some empirical procedure
to determine whether one is dreaming. But any such supposed test say, pinching oneself could just be part of a dream, and dreaming
one passes the test would not suffice to show one was not dreaming. However,
might one not actually be witnessing the fire, and passing the test and be doing this in wakeful life, not in a
dream and would that not be compatible
with one’s knowing of the fire and of one’s wakefulness? Not so, according to
the argument, since in order to know of the fire one needs prior knowledge of
one’s wakefulness. But in order to know of one’s wakefulness one needs prior
knowledge of the results of the test procedure. But this in turn requires prior
knowledge that one is awake and not dreaming. And we have a vicious circle. We
might well hold that it is possible to know one is not dreaming even in the
absence of any positive test result, or at most in conjunction with coordinate
not prior knowledge of such a positive indication. How in that case would one
know of one’s wakefulness? Perhaps one would know it by believing it through
the exercise of a reliable faculty. Perhaps one would know it through its
coherence with the rest of one’s comprehensive and coherent body of beliefs.
Perhaps both. But, it may be urged, if these are the ways one might know of one’s
wakefulness, does not this answer commit us to a theory of the form of A below?
A The proposition that p is something one knows believes justifiably if and
only if one satisfies conditions C with respect to it. And if so, are we not
caught in a vicious circle by the question as to how we know what justifies us in believing A itself? This is far from obvious, since the
requirement that we must submit to some test procedure for wakefulness and know
ourselves to test positively, before we can know ourselves to be awake, is
itself a requirement that seems to lead equally to a principle such as A. At
least it is not evident why the proposal of the externalist or of the
coherentist as to how we know we are awake should be any more closely related
to a general principle like A than is the foundationalist? notion that in order
to know we are awake we need epistemically prior knowledge that we test
positive in a way that does not presuppose already acquired knowledge of the
external world. The problem of how to justify the likes of A is a descendant of
the infamous “problem of the criterion,” reclaimed in the sixteenth century and
again in this century by Chisholm, Theory of Knowledge, 6, 7, and 8 but much
used already by the Skeptics of antiquity under the title of the diallelus.
About explanations of our knowledge or justification in general of the form
indicated by A, we are told that they are inadequate in a way revealed by
examples like the following. Suppose we want to know how we know anything at
all about the external world, and part of the answer is that we know the
location of our neighbor by knowing the location of her car in her driveway.
Surely this would be at best the beginning of an answer that might be
satisfactory in the end if recursive, e.g., but as it stands it cannot be
satisfactory without supplementation. The objection here is based on a
comparison between two appeals: the appeal of a theorist of knowledge to a
principle like A in the course of explaining our knowledge or justification in
general, on one side; and the appeal to the car’s location in explaining our
knowledge of facts about the external world, on the other side. This comparison
is said to be fatal to the ambition to explain our knowledge or justification
in general. But are the appeals relevantly analogous? One important difference
is this. In the example of the car, we explain the presence, in some subject S,
of a piece of knowledge of a certain kind of the external world by appeal to
the presence in S of some other piece of knowledge of the very same kind. So
there is an immediate problem if it is our aim to explain how any knowledge of
the sort in question ever comes to be unless the explication is just beginning,
and is to turn recursive in due course. Now of course A is theoretically
ambitious, and in that respect the theorist who gives an answer of the form of
A is doing something similar to what must be done by the protagonist in our car
example, someone who is attempting to provide a general explanation of how any
knowledge of a certain kind comes about. Nevertheless, there is also an
important difference, namely that the theorist whose aim it is to give a
general account of the form of A need not attribute any knowledge whatsoever to
a subject S in explaining how that subject comes to have a piece of knowledge
or justified belief. For there is no need to require that the conditions C
appealed to by principle A must be conditions that include attribution of any
knowledge at all to the subject in question. It is true that in claiming that A
itself meets conditions C, and that it is this which explains how one knows A,
we do perhaps take ourselves to know A or at least to be justified in believing
it. But if so, this is the inevitable lot of anyone who seriously puts forward
any explanation of anything. And it is quite different from a proposal that
part of what explains how something is known or justifiably believed includes a
claim to knowledge or justified belief of the very same sort. In sum, as in the
case of one’s belief that one is awake, the belief in something of the form of
A may be said to be known, and in so saying one does not commit oneself to
adducing an ulterior reason in favor of A, or even to having such a reason in
reserve. One is of course committed to being justified in believing A, perhaps
even to having knowledge that A. But it is not at all clear that the only way
to be justified in believing A is by way of adduced reasons in favor of A, or
that one knows A only if one adduces strong enough reasons in its favor. For we
often know things in the absence of such adduced reasons. Thus consider one’s
knowledge through memory of which door one used to come into a room that has
more than one open door. Returning finally to A, in its case the explanation of
how one knows it may, once again, take the form of an appeal to the justifying
power of intellectual virtues or of coherence
or both. Recent accounts of the nature of thought and representation
undermine a tradition of wholesale doubt about nature, whose momentum is hard
to stop, and threatens to leave the subject alone and restricted to a solipsism
of the present moment. But there may be a way to stop skepticism early by questioning the possibility of its being
sensibly held, given what is required for meaningful language and thought.
Consider our grasp of observable shape and color properties that objects around
us might have. Such grasp seems partly constituted by our discriminatory
abilities. When we discern a shape or a color we do so presumably in terms of a
distinctive impact that such a shape or color has on us. We are put
systematically into a certain distinctive state X when we are appropriately
related, in good light, with our eyes open, etc., to the presence in our
environment of that shape or color. What makes one’s distinctive state one of
thinking of sphericity rather than something else, is said to be that it is a
state tied by systematic causal relations to skepticism skepticism 849 849 the presence of sphericity in one’s
normal environment. A light now flickers at the end of the skeptic’s tunnel. In
doubt now is the coherence of traditional skeptical reflection. Indeed, our
predecessors in earlier centuries may have moved in the wrong direction when
they attempted a reduction of nature to the mind. For there is no way to make
sense of one’s mind without its contents, and there is no way to make sense of
how one’s mind can have such contents except by appeal to how one is causally
related to one’s environment. If the very existence of that environment is put
in doubt, that cuts the ground from under one’s ability reasonably to
characterize one’s own mind, or to feel any confidence about its contents.
Perhaps, then, one could not be a “brain in a vat.” Much contemporary thought
about language and the requirements for meaningful language thus suggests that
a lot of knowledge must already be in place for us to be able to think
meaningfully about a surrounding reality, so as to be able to question its very
existence. If so, then radical skepticism answers itself. For if we can so much
as understand a radical skepticism about the existence of our surrounding
reality, then we must already know a great deal about that reality. Sceptics, those ancient thinkers who developed
sets of arguments to show either that no knowledge is possible Academic
Skepticism or that there is not sufficient or adequate evidence to tell if any
knowledge is possible. If the latter is the case then these thinkers advocated
suspending judgment on all question concerning knowledge Pyrrhonian Skepticism.
Academic Skepticism gets its name from the fact that it was formulated in
Plato’s Academy in the third century B.C., starting from Socrates’ statement,
“All I know is that I know nothing.” It was developed by Arcesilaus c.268241
and Carneades c.213129, into a series of arguments, directed principally
against the Stoics, purporting to show that nothing can be known. The Academics
posed a series of problems to show that what we think we know by our senses may
be unreliable, and that we cannot be sure about the reliability of our
reasoning. We do not possess a guaranteed standard or criterion for
ascertaining which of our judgments is true or false. Any purported knowledge
claim contains some element that goes beyond immediate experience. If this
claim constituted knowledge we would have to know something that could not
possibly be false. The evidence for the claim would have to be based on our
senses and our reason, both of which are to some degree unreliable. So the
knowledge claim may be false or doubtful, and hence cannot constitute genuine
knowledge. So, the Academics said that nothing is certain. The best we can
attain is probable information. Carneades is supposed to have developed a form
of verification theory and a kind of probabilism, similar in some ways to that
of modern pragmatists and positivists. Academic Skepticism dominated the
philosophizing of Plato’s Academy until the first century B.C. While Cicero was
a student there, the Academy turned from Skepticism to a kind of eclectic philosophy.
Its Skeptical arguments have been preserved in Cicero’s works, Academia and De
natura deorum, in Augustine’s refutation in his Contra academicos, as well as
in the summary presented by Diogenes Laertius in his lives of the Grecian
philosophers. Skeptical thinking found another home in the school of the
Pyrrhonian Skeptics, probably connected with the Methodic school of medicine in
Alexandria. The Pyrrhonian movement traces its origins to Pyrrho of Elis
c.360275 B.C. and his student Timon c.315225 B.C.. The stories about Pyrrho
indicate that he was not a theoretician but a practical doubter who would not
make any judgments that went beyond immediate experience. He is supposed to
have refused to judge if what appeared to be chariots might strike him, and he
was often rescued by his students because he would not make any commitments.
His concerns were apparently ethical. He sought to avoid unhappiness that might
result from accepting any value theory. If the theory was at all doubtful,
accepting it might lead to mental anguish. The theoretical formulation of
Pyrrhonian Skepticism is attributed to Aenesidemus c.100 40 B.C.. Pyrrhonists
regarded dogmatic philosophers and Academic Skeptics as asserting too much, the
former saying that something can be known and the latter that nothing can be
known. The Pyrrhonists suspended judgments on all questions on which there was
any conflicting evidence, including whether or not anything could be known. The
Pyrrhonists used some of the same kinds of arguments developed by Arcesilaus
and Carneades. Aenesidemus and those who followed after him organized the
arguments into sets of “tropes” or ways of leading to suspense of judgment on
various questions. Sets of ten, eight, five, and two tropes appear in the only
surviving writing of the Pyrrhonists, the works of Sextus Empiricus, a
third-century A.D. teacher of Pyrrhonism. Each set of tropes offers suggestions
for suspending judgment about any knowledge claims that go beyond appearances.
The tropes seek to show that for any claim, evidence for and evidence against
it can be offered. The disagreements among human beings, the variety of human
experiences, the fluctuation of human judgments under differing conditions,
illness, drunkenness, etc., all point to the opposition of evidence for and
against each knowledge claim. Any criterion we employ to sift and weigh the
evidence can also be opposed by countercriterion claims. Given this situation,
the Pyrrhonian Skeptics sought to avoid committing themselves concerning any kind
of question. They would not even commit themselves as to whether the arguments
they put forth were sound or not. For them Skepticism was not a statable
theory, but rather an ability or mental attitude for opposing evidence for and
against any knowledge claim that went beyond what was apparent, that dealt with
the non-evident. This opposing produced an equipollence, a balancing of the
opposing evidences, that would lead to suspending judgment on any question.
Suspending judgment led to a state of mind called “ataraxia,” quietude, peace
of mind, or unperturbedness. In such a state the Skeptic was no longer
concerned or worried or disturbed about matters beyond appearances. The
Pyrrhonians averred that Skepticism was a cure for a disease called “dogmatism”
or rashness. The dogmatists made assertions about the non-evident, and then
became disturbed about whether these assertions were true. The disturbance
became a mental disease or disorder. The Pyrrhonians, who apparently were
medical doctors, offered relief by showing the patient how and why he should
suspend judgment instead of dogmatizing. Then the disease would disappear and
the patient would be in a state of tranquillity, the peace of mind sought by
Hellenistic dogmatic philosophers. The Pyrrhonists, unlike the Academic
Skeptics, were not negative dogmatists. The Pyrrhonists said neither that
knowledge is possible nor that it is impossible. They remained seekers, while
allowing the Skeptical arguments and the equipollence of evidences to act as a
purge of dogmatic assertions. The purge eliminates all dogmas as well as
itself. After this the Pyrrhonist lives undogmatically, following natural
inclinations, immediate experience, and the laws and customs of his society,
without ever judging or committing himself to any view about them. In this
state the Pyrrhonist would have no worries, and yet be able to function
naturally and according to law and custom. The Pyrrhonian movement disappeared
during the third century A.D., possibly because it was not considered an alternative
to the powerful religious movements of the time. Only scant traces of it appear
before the Renaissance, when the texts of Sextus and Cicero were rediscovered
and used to formulate a modern skeptical view by such thinkers as Montaigne and
Charron. Refs.: The obvious source is
the essay on scepticism in WoW, but there are allusions in “Prejudices and
predilections, and elsewhere, in The H. P. Grice Papers, BANC
otium -- schole – “The Grecian term for ‘otium.’” “Not
to be confused with ‘studium’ as in ‘studium generale.’ Scholasticism, a set of
scholarly and instructional techniques developed in Western European schools of
the late medieval period, including the use of commentary and disputed
question. ‘Scholasticism’ is derived from Latin scholasticus, which in the
twelfth century meant the master of a school. The Scholastic method is usually
presented as beginning in the law schools
notably at Bologna and as being
then transported into theology and philosophy by a series of masters including
Abelard and Peter Lombard. Within the new universities of the thirteenth
century the standardization of the curriculum and the enormous prestige of
Aristotle’s work despite the suspicion with which it was initially greeted
contributed to the entrenchment of the method and it was not until the
educational reforms of the beginning of the sixteenth century that it ceased to
be dominant. There is, strictly speaking, no such thing as Scholasticism. As
the term was originally used it presupposed that a single philosophy was taught
in the universities of late medieval Europe, but there was no such philosophy.
The philosophical movements working outside the universities in the late
sixteenth and early seventeenth centuries and the “neo-Scholastics” of the late
nineteenth and early twentieth centuries all found such a presupposition
useful, and their influence led scholars to assume it. At first this generated
efforts to find a common core in the philosophies taught in the late medieval
schools. More recently it has led to efforts to find methods characteristic of
their teaching, and to an extension of the term to the schools of late
antiquity and of Byzantium. Both among the opponents of the schools in the
seventeenth century and among the “neoScholastics,” ‘Scholasticism’ was
supposed to designate a doctrine whose core was the doctrine of substance and
accidents. As portrayed by Descartes and Locke, the Scholastics accepted the
view that among the components of a thing were a substantial form and a number
of real accidental forms, many of which corresponded to perceptible properties
of the thing its color, shape,
temperature. They were also supposed to have accepted a sharp distinction
between natural and unnatural motion.
SciaccaG Giuseppe Maria Sciacca Da Wikipedia,
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sull'argomento filosofi italiani è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla
secondo le convenzioni di Wikipedia. Giuseppe Maria Sciacca (Messina, 1912 –
Palermo, 1995) è stato un filosofo e accademico italiano. Allievo e assistente
a Palermo di Antonio Renda, Sciacca volse il suo interesse verso la filosofia
kantiana, tema a cui dedicò un primo lavoro nel 1945, La funzione della libertà
nella formazione del sistema kantiano[1] a cui fece seguito, nel 1963, il
saggio L'idea della libertà. Fondamento della coscienza etico-politica, che
riproduceva, in appendice, la memoria del 1945.
Professore Emerito di Storia della filosofia presso la Facoltà di
Lettere dell'Università di Palermo, è stato presidente della Società filosofica
italiana[2] Autore di numerosi saggi, il filosofo si è espresso attraverso una
ricca bibliografia. Indice 1Opere 2Note
3Bibliografia 4Voci correlate Opere (a cura di) Filosofi che si confessano,
Guido D'Anna editore, Messina, 1948 Il fondamento della sterēsis nella
"Filosofia dell'azione", Accademia di Scienze, Lettere ed Arti,
Palermo, 1949; Il concetto di tiranno, dai greci a Coluccio Salutati, U.
Manfredi editore Palermo, 1953; La visione della vita nell'Umanesimo e Coluccio
Salutati, Palermo 1954 Politica e vita spirituale, ed. Palumbo, Palermo, 1955;
Gli Dei in Protagora, ed. Palumbo, 1958; Esistenza e realtà in Husserl, ed.
Palumbo, Palermo, 1960; Esistenza e realtà, Palermo, 1962; L'Idea della libertà
in Kant. Fondamento della coscienza etico-politica, ed. Palumbo, Palermo, 1963;
Scetticismo cristiano, ed. Palumbo, Palermo, 1968; Ritorno alla saggezza, ed.
Palumbo, Palermo, 1971; L'uomo senza Adamo, ed. Palumbo, 1976; Sapere e
alienazione, ed. Palumbo, Palermo, 1981; Il Segno, quel Segno, ed. Cappelli,
Bologna 1987. Note ^ Pubblicato l'anno dopo in "Reale accademia di lettere
scienze e arti", IV serie, vol. 5, parte 2ª, anno 1946. ^ «La filosofia
per cambiare il mondo», La Repubblica. Bibliografia Alessandro De Bono,
Giuseppe Maria Sciacca. La vita e la filosofia, Alessandria della Rocca,
M.K.N., 2017, pp. 211. URL consultato il 6 ottobre 2017. Caterina Genna,
«Antonio Renda e Giuseppe Maria Sciacca: due testimoni della tradizione
neokantiana», in Piero di Giovanni, Le avanguardie della filosofia italiana nel
XX secolo, FrancoAngeli, 2002 ISBN 978-88-464-3693-1 (pp. 38-46)
"Bollettino quadrimestrale della Società Filosofica Italiana", nuova
serie, n. 178, gennaio-aprile 2003: Piero Di Giovanni, L'opera e il pensiero di
Giuseppe Maria Sciacca M. Portale, Scritti di Giuseppe Maria Sciacca Voci
correlate Armando Plebe Piero Di Giovanni Controllo di autoritàVIAF (EN)
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Filosofi italiani del XX secoloAccademici italiani del XX secoloNati nel
1912Morti nel 1995Nati a MessinaMorti a Palermo[altre]
SciaccaM Michele Federico Sciacca Da Wikipedia,
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Federico Sciacca posta all'interno del liceo classico "Michele Amari"
di Giarre «La filosofia non asciuga lacrime né dispensa sorrisi, ma dice la sua
parola sulla "verità" delle lacrime e dei sorrisi.» (da Atto ed essere) Michele Federico Sciacca
(Giarre, 12 luglio 1908 – Genova, 24 febbraio 1975) è stato un filosofo e accademico
italiano. Nato a Giarre in provincia di Catania, nel 1908, dopo gli studi
liceali classici si trasferì a Napoli, nella cui università si laureò in
filosofia, nel 1930, con Antonio Aliotta.[1] Cominciò quindi, dopo aver
conseguito la libera docenza in filosofia, la carriera universitaria a Napoli,
come assistente incaricato di storia della filosofia antica e collaborando come
condirettore alla rivista Logos fondata e diretta da Aliotta. Nel 1946 fondò la
rivista Il Giornale di Metafisica. Molto intenso fu il suo rapporto filosofico e
di stima reciproca con Giovanni Gentile, un sodalizio iniziato nel 1933 e
testimoniato dalla fitta corrispondenza tra i due filosofi, da cui però ben
presto Sciacca si allontanò, in particolare dal filone di pensiero idealistico,
per condurre la sua propria ricerca filosofica in modo più ampio, tanto da
condurlo a studiare per un certo periodo, grazie alle sue conoscenze pure in
campo teologico, sia la corrente del misticismo cristiano che quella dello
spiritualismo cristiano. Conseguì
l'ordinariato nel 1938, con cattedra all'Università di Pavia, quindi insegnò,
dal 1947 alla morte prematura, filosofia teoretica presso l'Università di
Genova, che in seguito gli intitolò il proprio Dipartimento di Studi sulla
Storia del Pensiero Europeo. Dal 1959 al 1974, ricoprì anche la carica di
presidente dell'Accademia di studi italo-tedeschi di Merano. A Genova morì nel
1975. Storico della filosofia, studioso
e profondo conoscitore del pensiero del sacerdote e filosofo Antonio Rosmini,
promotore della fondazione del "Centro Internazionale di Studi
Rosminiani" di Stresa nel 1966, Sciacca è una delle principali figure
dello spiritualismo filosofico del Novecento, a cui pervenne dopo i primi
interessi per l'attualismo gentiliano ed i successivi, più impegnativi studi
sullo spiritualismo cristiano, anche interpretandolo in modo originale,
delineando un particolare percorso di continuità che, connettendo la metafisica
classica al pensiero filosofico moderno, perviene a concepire un'apertura del
soggetto personale – come creatura – verso l'attualità assoluta dell'Essere
(«filosofia dell'integralità»).[2] La sua memoria è ricordata principalmente
attraverso le opere dei suoi due allievi, Maria Adelaide Raschini e Pier Paolo
Ottonello, entrambi docenti dell'ateneo genovese. È sepolto presso il Sacro Monte di
Domodossola, casa madre dei rosminiani, dove infatti riposano le spoglie di
molti membri appartenuti alla congregazione.
Opere principali 1949 S. Agostino - Morcelliana, Brescia. 1954 L'Anima -
Morcelliana, Brescia. 1955 La filosofia morale di Antonio Rosmini - Fratelli
Bocca, Torino. 1956 Atto ed essere – Fratelli Bocca, Torino. 1958
Interpretazioni rosminiane – Marzorati, Milano. 1963 Come si vince a Waterloo –
Marzorati, Milano. 1965-1967 La filosofia e la scienza nel loro sviluppo
storico. Per i licei scientifici - Cremonese, Roma. 1967 Platone - Marzorati,
Milano. 1968 Filosofia e antifilosofia - Marzorati, Milano. 1969 La Chiesa e la
civiltà moderna - Marzorati, Milano. 1969 Pagine di critica letteraria
(1931-1935) - Marzorati, Milano. 1970 L'oscuramento dell'intelligenza -
Marzorati, Milano. 1971 Studi sulla filosofia antica. Con un'appendice sulla
filosofia medioevale - Marzorati, Milano. 1972 Ontologia triadica e trinitaria.
Discorso metafisico-teologico - Marzorati, Milano. 1974 L'Insegnamento della
filosofia: atti del II Convegno di studi, Messina, maggio 1974 - Editrice
peloritana, Messina. 1975 Reflexiones inactuales sobre el historicismo
hegeliano - Fundación Universitaria Española, Madrid. 1990 Ontologia triadica e
trinitaria – L'Epos, Palermo. 1991 Atto ed essere – L'Epos, Palermo. 1993 Il
magnifico oggi – L'Epos, Palermo. 1993 In Spirito e Verità – L'Epos, Palermo.
1993 La clessidra – L'Epos, Palermo. 1993 L'ora di Cristo – L'Epos, Palermo.
Note ^ La principale fonte biografica qui seguita è: Pier Paolo Ottonello,
"Sciacca, Michele Federico", Dizionario Biografico degli Italiani,
Volume 91, Anno 2018. ^ Cfr. CSFG-Centro di Studi Filosofici di Gallarate,
Dizionario dei Filosofi, Firenze, G.C. Sansoni Editore, 1976, pp. 1069-1070.
Bibliografia Pier Paolo Ottonello, "Sciacca, Michele Federico",
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 91, Anno 2018. CSFG-Centro di
Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei Filosofi, Firenze, G.C. Sansoni
Editore, 1976. Michele Schiavone, L'idealismo di M.F. Sciacca come sviluppo del
rosminianismo, Stresa (VB), Edizioni Rosminiane Sodalitas, 1957. Antimo Negri,
Michele Federico Sciacca: dall'attualismo alla filosofia dell'integralità,
Forlì, Edizioni di Ethica, 1963, SBN IT\ICCU\CSA\0017724. Emilio Pignologni,
Genesi e sviluppo del rosminianesimo nel pensiero di Michele F. Sciacca, 2
voll., Milano, Marzorati, 1964-67. AA.VV., La filosofia di M.F. Sciacca,
Bologna, Quaderni del Giornale di Metafisica, 1976. AA.VV., Michele Federico
Sciacca, Stresa (VB), Estratti della Rivista Rosminiana, 1977. Maria Adelaide
Raschini, Incontrare Sciacca, Venezia, Marsilio Editori, 1999. Pier Paolo
Ottonello, Sciacca. L'anticonformismo costruttivo, Venezia, Marsilio Editori,
2000. Alessandra Modugno, Heidegger e Sciacca. Essere, persona, libertà, tempo,
Venezia, Marsilio Editori, 2001. H.M. Ortiz, "Muerte e inmortalidad"
de Sciacca, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2014. Michele Shiavone,
L'idealismo di M.F. Sciacca come sviluppo del rosminianesimo (PDF), Collana di
studi filosofici rosminiani (n. 14), Domodossola (NO) ; Milano, Sodalitas,
1957, p. 246, OCLC 797771392. URL consultato il 9 settembre 2019 (archiviato il
31 luglio 2019). Ospitato su Bontadini e la metafisica. Altri progetti
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Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX secoloAccademici italiani del XX
secoloNati nel 1908Morti nel 1975Nati il 12 luglioMorti il 24 febbraioNati a
GiarreMorti a GenovaProfessori dell'Università degli Studi di Genova[altre]
scire – sapio
-- sapientia: wisdom, an understanding
of the highest principles of things that functions as a guide for living a
truly exemplary human life. From the preSocratics through Plato this was a
unified notion. But Aristotle introduced a distinction between theoretical
wisdom sophia and practical wisdom phronesis, the former being the intellectual
virtue that disposed one to grasp the nature of reality in terms of its
ultimate causes metaphysics, the latter being the ultimate practical virtue
that disposed one to make sound judgments bearing on the conduct of life. The
former invoked a contrast between deep understanding versus wide information,
whereas the latter invoked a contrast between sound judgment and mere technical
facility. This distinction between theoretical and practical wisdom persisted
through the Middle Ages and continues to our own day, as is evident in our use
of the term ‘wisdom’ to designate both knowledge of the highest kind and the
capacity for sound judgment in matters of conduct. Grice: “The etymology of
‘sapientia’ is excellent – it’s like taste!” –
săpĭo , īvi or ĭi (sapui, Aug. Civ. Dei, 1,
10; id. Ep. 102, 10; but sapivi, Nov. ap. Prisc. p. 879 P.; id. ap. Non. 508,
21: I.“saPisti,” Mart. 9, 6, 7: “sapisset,” Plaut. Rud. 4, 1, 8), 3, v. n. and
a. [kindr. with ὀπός, σαφής, and σοφός], to taste, savor; to taste, smack, or
savor of, to have a taste or flavor of a thing (cf. gusto). I. Lit. (so only in
a few examples). 1. Of things eaten or drunk: “oleum male sapiet,” Cato, R. R.
66, 1: “occisam saepe sapere plus multo suem,” Plaut. Mil. 2, 6, 104: “quin
caseus jucundissime sapiat,” Col. 7, 8, 2: “nil rhombus nil dama sapit,” Juv.
11, 121.—With an acc. of that of or like which a thing tastes: “quis (piscis)
saperet ipsum mare,” Sen. Q. N. 3, 18, 2: “cum in Hispaniā multa mella herbam
eam sapiunt,” Plin. 11, 8, 8, § 18: “ipsum aprum (ursina),” Petr. 66, 6.—Poet.:
anas plebeium sapit, has a vulgar taste, Petr. poët. 93, 2: “quaesivit quidnam
saperet simius,” Phaedr. 3, 4, 3.—* 2. Of that which tastes, to have a taste or
a sense of taste (perh. so used for the sake of the play upon signif. II.):
“nec sequitur, ut, cui cor sapiat, ei non sapiat palatus,” Cic. Fin. 2, 8, 24.—
3. Transf., of smell, to smell of or like a thing (syn.: oleo, redoleo; very
rare): Cicero, Meliora, inquit, unguenta sunt, quae terram quam crocum sapiunt.
Hoc enim maluit dixisse quam redolent. Ita est profecto; “illa erit optima,
quae unguenta sapiat,” Plin. 17, 5, 3, § 38: “invenitur unguenta gratiosiora
esse, quae terram, quam quae crocum sapiunt,” id. 13, 3, 4, § 21.—In a lusus
verbb. with signif. II.: istic servus quid sapit? Ch. Hircum ab alis, Plaut.
Ps. 2, 4, 47.— II. Trop. 1. To taste or smell of, savor of, i. e., a. To
resemble (late Lat.): “patruos,” Pers. 1, 11.— b. To suggest, be inspired by:
“quia non sapis ea quae Dei sunt,” Vulg. Matt. 16, 23; id. Marc. 8, 33.— c.
Altum or alta sapere, to be high-minded or proud: “noli altum sapere,” Vulg.
Rom. 11, 20: “non alta sapientes,” id. ib. 12, 16.— 2. To have good taste, i.e.
to have sense or discernment; to be sensible, discreet, prudent, wise, etc.
(the predominant signif. in prose and poetry; most freq. in the P. a.). (α).
Neutr., Plaut. Ps. 2, 3, 14: “si aequum siet Me plus sapere quam vos, dederim
vobis consilium catum, etc.,” id. Ep. 2, 2, 73 sq.: “jam diu edepol sapientiam
tuam abusa est haec quidem. Nunc hinc sapit, hinc sentit,” id. Poen. 5, 4, 30;
cf.: “populus est moderatior, quoad sentit et sapit tuerique vult per se
constitutam rem publicam,” Cic. Rep. 1, 42, 65; “so (with sentire),” Plaut. Am.
1, 1, 292; id. Bacch. 4, 7, 19; id. Merc. 2, 2, 24; id. Trin. 3, 2, 10 sq.;
cf.: “qui sapere et fari possit quae sentiat,” Hor. Ep. 1, 4, 9; Plaut. Bacch.
1, 2, 14: “magna est admiratio copiose sapienterque dicentis, quem qui audiunt
intellegere etiam et sapere plus quam ceteros arbitrantur,” Cic. Off. 2, 14,
48: “veluti mater Plus quam se sapere Vult (filium),” Hor. Ep. 1, 18, 27: “qui
(puer) cum primum sapere coepit,” Cic. Fam. 14, 1, 1; Poët. ap. Cic. Fam. 7,
16, 1: “malo, si sapis, cavebis,” if you are prudent, wise, Plaut. Cas. 4, 4,
17; so, “si sapis,” id. Eun. 1, 1, 31; id. Men. 1, 2, 13; id. Am. 1, 1, 155;
id. Aul. 2, 9, 5; id. Curc. 1, 1, 28 et saep.; Ter. Eun. 4, 4, 53; id. Heaut.
2, 3, 138: “si sapias,” Plaut. Merc. 2, 3, 39; 4, 4, 61; id. Poen. 1, 2, 138;
Ter. Heaut. 3, 3, 33; Ov. H. 5, 99; 20, 174: “si sapies,” Plaut. Bacch. 4, 9,
78; id. Rud. 5, 3, 35; Ter. Heaut. 4, 4, 26; Ov. M. 14, 675: “si sapiam,”
Plaut. Men. 4, 2, 38; id. Rud. 1, 2, 8: “si sapiet,” id. Bacch. 4, 9, 74: “si
saperet,” Cic. Quint. 4, 16: hi sapient, * Caes. B. G. 5, 30: Ph. Ibo. Pl.
Sapis, you show your good sense, Plaut. Mil. 4, 8, 9; id. Merc. 5, 2, 40: “hic
homo sapienter sapit,” id. Poen. 3, 2, 26: “quae (meretrix) sapit in vino ad
rem suam,” id. Truc. 4, 4, 1; cf. id. Pers. 1, 3, 28: “ad omnia alia aetate
sapimus rectius,” Ter. Ad. 5, 3, 46: “haud stulte sapis,” id. Heaut. 2, 3, 82:
“te aliis consilium dare, Foris sapere,” id. ib. 5, 1, 50: “pectus quoi sapit,”
Plaut. Bacch. 4, 4, 12; id. Mil. 3, 1, 191; id. Trin. 1, 2, 53; cf.: “cui cor
sapiat,” Cic. Fin. 2, 8, 24: “id (sc. animus mensque) sibi solum per se sapit,
id sibi gaudet,” Lucr. 3, 145.— (β). Act., to know, understand a thing (in good
prose usually only with general objects): “recte ego rem meam sapio,” Plaut.
Ps. 1, 5, 81: “nullam rem,” id. Most. 5, 1, 45: qui sibi semitam non sapiunt,
alteri monstrant viam, Poët. ap. Cic. Div. 1, 58, 132; Cic. Att. 14, 5, 1;
Plaut. Mil. 2, 3, 65; cf.: “quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc esse beatus
potest?” Cic. Fam. 7, 28, 1: “quantum ego sapio,” Plin. Ep. 3, 6, 1: “jam nihil
sapit nec sentit,” Plaut. Bacch. 4, 7, 22: “nihil,” Cic. Tusc. 2, 19, 45:
“plane nihil,” id. Div. in Caecil. 17, 55: nihil parvum, i. e. to occupy one's
mind with nothing trivial (with sublimia cures), Hor. Ep. 1, 12, 15; cf.: cum
sapimus patruos, i.e. resemble them, imitate them in severity, Pers. 1, 11. —
3. Prov.: sero sapiunt Phryges, are wise behind the time; or, as the Engl.
saying is, are troubled with afterwit: “sero sapiunt Phryges proverbium est
natum a Trojanis, qui decimo denique anno velle coeperant Helenam quaeque cum
eā erant rapta reddere Achivis,” Fest. p. 343 Müll.: “in Equo Trojano (a
tragedy of Livius Andronicus or of Naevius) scis esse in extremo, Sero sapiunt.
Tu tamen, mi vetule, non sero,” Cic. Fam. 7, 16, 1.—Hence, să-pĭens , entis
(abl. sing. sapiente, Ov. M. 10, 622; gen. plur. sapientum, Lucr. 2, 8; Hor. S.
2, 3, 296; “but sapientium,” id. C. 3, 21, 14), P. a. (acc. to II.), wise,
knowing, sensible, well-advised, discreet, judicious (cf. prudens). A. In gen.:
“ut quisque maxime perspicit, quid in re quāque verissimum sit, quique
acutissime et celerrime potest et videre et explicare rationem, is
prudentissimus et sapientissimus rite haberi solet,” Cic. Off. 1, 5, 16; cf.:
“sapientissimum esse dicunt eum, cui quod opus sit ipsi veniat in mentem:
proxume acceder illum, qui alterius bene inventis obtemperet,” id. Clu. 31, 84:
“M. Bucculeius, homo neque meo judicio stultus et suo valde sapiens,” id. de
Or. 1, 39, 179: “rex aequus ac sapiens,” id. Rep. 1, 26, 42; cf.: “Cyrus
justissimus sapientissimusque rex,” id. ib. 1, 27, 43: “bonus et sapiens et
peritus utilitatis civilis,” id. ib. 2, 29, 52: “o, Neptune lepide, salve,
Neque te aleator ullus est sapientior,” Plaut. Rud. 2, 3, 29: “quae tibi mulier
videtur multo sapientissima?” id. Stich. 1, 2, 66: “(Aurora) ibat ad hunc
(Cephalum) sapiens a sene diva viro,” wise, discreet, Ov. H. 4, 96 Ruhnk.; so,
“puella,” id. M. 10, 622: “mus pusillus quam sit sapiens bestia,” Plaut. Truc.
4, 4, 15; id. As. 3, 3, 114 et saep.—With gen. (analogous to gnarus, peritus,
etc.): “qui sapiens rerum esse humanarum velit,” Gell. 13, 8, 2.—Subst.:
săpĭens , entis, m., a sensible, shrewd, knowing, discreet, or judicious
person: “semper cavere hoc sapientes aequissimumst,” Plaut. Rud. 4, 7, 20; cf.:
“omnes sapientes suom officium aequom est colere et facere,” id. Stich. 1, 1,
38; id. Trin. 2, 2, 84: “dictum sapienti sat est,” id. Pers. 4, 7, 19; Ter.
Phorm. 3, 3, 8; Plaut. Rud. 2, 4, 15 sq.: “insani sapiens nomen ferat, aequus
iniqui,” Hor. Ep. 1, 6, 15: “sapiens causas reddet,” id. S. 1, 4, 115: “quali
victu sapiens utetur,” id. ib. 2, 2, 63; 1, 3, 132.—In a lusus verbb. with the
signif. of sapio, I., a person of nice taste: “qui utuntur vino vetere
sapientes puto Et qui libenter veteres spectant fabulas,” good judges,
connoisseurs, Plaut. Cas. prol. 5: fecundae leporis sapiens sectabitur armos,
Hor. S. 2, 4, 44.—As a surname of the jurists Atilius, C. Fabricius, M'.
Curius, Ti. Coruncanius, Cato al., v. under B. fin.— b. Of abstract things:
“opera,” Plaut. Pers. 4, 5, 2: “excusatio,” Cic. Att. 8, 12, 2: “modica et
sapiens temperatio,” id. Leg. 3, 7, 17: “mores,” Plaut. Rud. 4, 7, 25: “verba,”
Ter. Ad. 5, 1, 7: “consilium,” Ov. M. 13, 433: “Ulixes, vir sapienti facundiā
praeditus,” Gell. 1, 15, 3: “morus, quae novissima urbanarum germinat, nec nisi
exacto frigore, ob id dicta sapientissima arborum,” Plin. 16, 25, 41, § 102.—
B. After the predominance of Grecian civilization and literature, particularly
of the Grecian philosophy, like σοφός, well acquainted with the true value of
things, wise; and subst., a wise man, a sage (in Cic. saepiss.): ergo hic,
quisquis est, qui moderatione et constantiā quietus animo est sibique ipse
placatus ut nec tabescat molestiis nec frangatur timore nec sitienter quid
expetens ardeat desiderio nec alacritate futili gestiens deliquescat; “is est sapiens
quem quaerimus, is est beatus,” Cic. Tusc. 4, 17, 37: “sapientium praecepta,”
id. Rep. 3, 4, 7: “si quod raro fit, id portentum putandum est: sapientem esse
portentum est. Saepius enim mulam peperisse arbitror, quam sapientem fuisse,”
id. Div. 2, 28, 61: “statuere quid sit sapiens, vel maxime videtur esse
sapientis,” id. Ac. 2, 3, 9; cf. id. Rep. 1, 29, 45.—So esp. of the seven wise
men of Greece: “ut ad Graecos referam orationem ... septem fuisse dicuntur uno
tempore, qui sapientes et haberentur et vocarentur,” Cic. de Or. 3, 34, 137:
“eos vero septem quos Graeci sapientes nominaverunt,” id. Rep. 1, 7, 12:
“sapienti assentiri ... se sapientem profiteri,” id. Fin. 2,3, 7.—Ironically:
“sapientum octavus,” Hor. S. 2, 3, 296.—With the Romans, an appellation of
Lœlius: te, Laeli, sapientem et appellant et existimant. Tribuebatur hoc modo
M. Catoni: scimus L. Atilium apud patres nostros appellatum esse sapientem, sed
uterque alio quodam modo: Atilius, qui prudens esse in jure civili putabatur;
“Cato quia multarum rerum usum habebat ... propterea quasi cognomen jam habebat
in senectute sapientis ... Athenis unum accepimus et eum quidem etiam Apollinis
oraculo sapientissimum judicatum,” Cic. Lael. 2, 6; cf.: “numquam ego dicam C.
Fabricium, M'. Curium, Ti. Coruncanium, quos sapientes nostri majores
judicabant, ad istorum normam fuisse sapientes,” id. ib. 5, 18: “ii, qui
sapientes sunt habiti, M. Cato et C. Laelius,” id. Off. 3, 4, 16; Val. Max. 4,
1, ext. 7; Lact. 4, 1.—Hence, adv.: săpĭen-ter , sensibly, discreetly,
prudently, judiciously, wisely: “recte et sapienter facere,” Plaut. Am. 1, 1,
133; id. Mil. 3, 3, 34: “consulere,” id. ib. 3, 1, 90: “insipienter factum
sapienter ferre,” id. Truc. 4, 3, 33: “factum,” id. Aul. 3, 5, 3: “dicta,” id.
Rud. 4, 7, 24: “quam sapienter jam reges hoc nostri viderint,” Cic. Rep. 2, 17,
31: “provisa,” id. ib. 4, 3, 3: “a majoribus prodita fama,” id. ib. 2, 2, 4:
“considerate etiam sapienterque fecerunt,” id. Phil. 4, 2, 6; 13, 6, 13: “vives
sapienter,” Hor. Ep. 1, 10, 44: “agendum,” Ov. M. 13, 377: “temporibus uti,”
Nep. Epam. 3, 1; Hor. C. 4, 9, 48.—Comp.: “facis sapientius Quam pars latronum,
etc.,” Plaut. Curc. 4, 3, 15; id. Poen. prol. 7: “nemo est, qui tibi sapientius
suadere possit te ipso,” Cic. Fam. 2, 7, 1: “sapientius fecisse,” id. Brut. 42,
155.—Sup.: “quod majores nostros et probavisse maxime et retinuisse
sapientissime judico,” Cic. Rep. 2, 37, 63. Vide H. P. Grice,
“Philosophy: love of wisdom, love of taste,” BANC.
res: reale: Grice: “Possibly the philosophically most
important Roman neuter expression,” -- is res!
"Unfortunately, the etymology is dubious." "Perhaps
"res" comes from a root ra- of reor, ratus."- to reckon,
calculate, believe, think, suppose, imagine, judge, deem, as in English
'ratify,' and 'reason.' "I am
reminded of German "ding;" English "thing," from
"denken," to think; prop., that which is thought of." "I am
also reminded of "λόγος," Lid. and Scott, 9, a thing, object, being;
a matter, affair, event, fact, circumstance, occurrence, deed, condition, case,
etc.; and sometimes merely = something (cf.: causa, ratio, negotium)."
realism, the view that the subject matter of common sense or scientific
research and scientific theories exists independently of our knowledge of it,
and that the goal of science is the description and explanation of both
observable and unobservable aspects of the world. Scientific realism is
contrasted with logical empiricism and social constructivism. Early arguments
for scientific realism simply stated that, in light of the impressive products
and methods of science, realism is the only philosophy that does not make the
success of science a miracle. Formulations of scientific realism focus on the
objects of theoretical knowledge: theories, laws, and entities. One especially robust
argument for scientific realism due to Putnam and Richard Boyd is that the
instrumental reliability of scientific methodology in the mature sciences such
as physics, chemistry, and some areas of biology can be explained adequately
only if we suppose that theories in the mature sciences are at least
approximately true and their central theoretical terms are at least partially
referential Putnam no longer holds this view. More timid versions of scientific
realism do not infer approximate truth of mature theories. For example, Ian
Hacking’s “entity realism” 3 asserts that the instrumental manipulation of
postulated entities to produce further effects gives us legitimate grounds for
ontological commitment to theoretical entities, but not to laws or theories.
Paul Humphreys’s “austere realism” 9 states that only theoretical commitment to
unobserved structures or dispositions could explain the stability of observed
outcomes of scientific inquiry. Distinctive versions of scientific realism can
be found in works by Richard Boyd 3, Philip Kitcher 3, Richard Miller 7,
William Newton-Smith 1, and J. D. Trout 8. Despite their differences, all of
these versions of realism are distinguished
against logical empiricism by
their commitment that knowledge of unobservable phenomena is not only possible
but actual. As well, all of the arguments for scientific realism are abductive;
they argue that either the approximate truth of background theories or the
existence of theoretical entities and laws provides the best explanation for
some significant fact about the scientific theory or practice. Scientific
realists address the difference between real entities and merely useful
constructs, arguing that realism offers a better explanation for the success of
science. In addition, scientific realism recruits evidence from the history and
practice of science, and offers explanations for the success of science that
are designed to honor the dynamic and uneven character of that evidence. Most
arguments for scientific realism cohabit with versions of naturalism.
Anti-realist opponents argue that the realist move from instrumental
reliability to truth is question-begging. However, realists reply that such
formal criticisms are irrelevant; the structure of explanationist arguments is
inductive and their principles are a posteriori.
applicatum, extensum -- extensio: scope, the “part” of
the sentence or proposition to which a given term “applies” under a given
interpretation of the sentence. If the sentence ‘Abe does not believe Ben died’
is interpreted as expressing the proposition that Abe believes that it is not
the case that Ben died, the scope of ‘not’ is ‘Ben died’; interpreted as “It is
not the case that Abe believes that Ben died,” the scope is the rest of the
sentence, i.e., ‘Abe believes Ben died’. In the first case we have narrow
scope, in the second wide scope. If ‘Every number is not even’ is interpreted
with narrow scope, it expresses the false proposition that every number is
non-even, which is logically equivalent to the proposition that no number is
even. Taken with wide scope it expresses the truth that not every number is
even, which is equivalent to the truth that some number is non-even. Under
normal interpretations of the sentences, ‘hardened’ has narrow scope in ‘Carl is
a hardened recidivist’, whereas ‘alleged’ has wide scope in ‘Dan is an alleged
criminal’. Accordingly, ‘Carl is a hardened recidivist’ logically implies ‘Carl
is a recidivist’, whereas ‘Dan is an alleged criminal’, being equivalent to
‘Allegedly, Dan is a criminal’, does not imply ‘Dan is a criminal’. Scope
considerations are useful in analyzing structural ambiguity and in
understanding the difference between the grammatical form of a sentence and the
logical form of a proposition it expresses. In a logically perfect language
grammatical form mirrors logical form, there is no scope ambiguity, and the
scope of a given term is uniquely determined by its context.
scupoli: very important Italian philosopher.
Lorenzo Scupoli Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Jump to
navigationJump to search Lorenzo Scupoli (Laurentius Scupulus) Lorenzo
Scupoli (Otranto, 1530 circa – Napoli, 28 novembre 1610) è stato un presbitero,
religioso e scrittore italiano, appartenente all'ordine dei Chierici Regolari
Teatini, e autore de Il combattimento spirituale, uno dei classici della
spiritualità cattolica. Indice Biografia 2Il combattimento
spirituale 3Voci correlate 4Altri progetti 5 Collegamenti
esterni Biografia Il combattimento spirituale Nato a Otranto verso il
1530, lo Scupoli ricevette come nome di battesimo Francesco. Entrò nell'ordine
dei teatini quasi quarantenne, nel 1569, per ricevere gli ordini sacri in soli
otto anni. Fu discepolo di sant'Andrea Avellino, appartenente al suo stesso
ordine. Al 1585 risale l'accusa di violazione della regola, per cui fu
arrestato per un anno e sospeso a divinis. Per la sua assoluzione dovette
attendere quasi la morte; intanto, sopportò l'ingiusta accusa e la pena
conseguente con umiltà e umanità. Il combattimento spirituale Abbozzo
cattolicesimo Questa sezione sull'argomento cattolicesimo è solo un abbozzo.
Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i
suggerimenti del progetto di riferimento. «"Con l’orazione porrai la spada
in mano a Dio, perché combatta e vinca per te." La preghiera è dunque
l’arma di tutte le vittorie. Essa è la debolezza di Dio e la forza dell’uomo
perché il cuore del Padre non sa negare nulla di buono ai suoi figli.»
(Padre Lino Pedron) Il combattimento spirituale, come afferma V. Gambi
nell'introduzione all'opera delle ed. Paoline del 1960, è un trattato di
strategia spirituale che come altre opere e vicino alla spiritualità ignaziana
conduce l'anima a una perfezione tutta interiore. L'opera indica cinque mezzi
per raggiungere la perfezione spirituale: 1. Sfiducia in sé 2. pienissima
confidenza in Dio 3. combattimento e uso metodico delle facoltà per correggere
i propri difetti, quindi per trionfare del demonio e per conquistare le virtù
4. preghiera e meditazione 5. comunione. Voci correlate Spiritualità
Imitazione di Cristo Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
citazioni di o su Lorenzo Scupoli Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Lorenzo Scupoli Collegamenti esterni
Testo del Combattimento spirituale, su monasterovirtuale.it. URL consultato il
6 gennaio 2019 (archiviato dall'url originale il 6 gennaio 2019). Controllo di
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Categorie: Presbiteri italianiReligiosi italianiScrittori italiani del XVI
secoloMorti nel 1610Morti il 28 novembreNati a OtrantoMorti a Napoli[alter].
Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Scupoli," per il Club Anglo-Italiano,
The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Stabile Giampiero Stabile Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Giampiero Stabile
(Sapri, 1951 – Salerno, 1984) è stato un filosofo italiano. Laureatosi a Napoli con una tesi sulla filosofia
europea dei valori, divenne ricercatore di Storia della Filosofia
all'Università di Salerno. Già in giovanissima età pubblicò saggi su Eugène
Dupréel, sulla scuola di Budapest, su Montaigne e sulla Heller apparsi su
"Prassi e teoria", "Aut Aut", "Studi di filosofia
politica e diritto", "il Centauro", "Ombre rosse",
riviste tra le più prestigiose nel panorama della pubblicistica filosofica
italiana; collaborò inoltre, con Pierangelo Schiera, alla direzione della
collana di testi e studi "Relox" della casa editrice Bibliopolis di
Napoli.[1]. Nel 1985 l'Università di Salerno dedicò un convegno di studi alla
sua memoria: "La saggezza moderna. Temi e problemi dell'opera di Pierre
Charron". Biblioteca personale Il
fondo, acquisito nella seconda metà degli anni Ottanta, rappresenta solo una
piccola porzione della biblioteca privata di Giampiero Stabile, infatti la
consistenza attuale si aggira intorno ai 650 volumi altri libri sono in
possesso del Dipartimento di Filosofia dell'Università di Salerno. Le edizioni
presenti nel fondo coprono un arco di tempo che va dal 1925 al 1984. Tuttavia
la consistenza maggiore ricopre gli anni Settanta, periodo intorno a cui si è
formata la personalità scientifica di Giampiero Stabile. I libri del fondo
sottolineano l'interesse verso la critica marxista e la scuola di Budapest
(moltissimi i volumi degli Editori Riuniti). Degni di attenzione alcuni
esemplari caratteristici degli anni Settanta, come ad esempio quelli della
collana "I gabbiani" del Saggiatore o ancora la collana quasi
completa degli "Opuscoli marxisti" (poi "Opuscoli") della
Feltrinelli, i volumi della collana "Biblioteca di nuova cultura"
della Mazzotta, e quelli della "Scienza nuova" della Dedalo: collane
radicalmente trasformate nei successivi anni o sostituite da altre; talora nate
solamente per offrire testi economici che rispondessero ai bisogni di una
maggiore diffusione culturale. Sono presenti anche dei volumetti allegati a
periodici di partito (PCI e PSI) e le pubblicazioni dell'Istituto di Filosofia
dell'Università di Salerno.
Pubblicazioni Monografie Valore
morale e società nel pensiero di Eugène Dupréel, Salerno, Università degli
studi di Salerno, Facoltà di magistero, 1976, 116 p. Soggetti e bisogni : saggi
su Agnes Heller e la teoria dei bisogni, Firenze, La Nuova Italia, 1979, 155 p.
Monografie in collaborazione e a cura di
Vittorio Dini e Giampiero Stabile, Saggezza e prudenza : studi per la
ricostruzione di un'antropologia in prima età moderna, Napoli, Liguori, 1983,
229 p. Pierre Charron, Piccolo trattato sulla saggezza, Napoli, Bibliopolis,
1985, 130 p. Articoli di riviste
Umanesimo e rivoluzione nel pensiero di Agnés Heller, in «Prassi e
teoria : rivista di filosofia della cultura», A. 4, n. 3, 1977, p. 381-420 Note
^ Vittorio Dini e Domenico Taranto (a cura di), La saggezza moderna: temi e
problemi dell'opera di Pierre Charron : atti del Convegno di studi in memoria
di Giampiero Stabile, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1987, pp. 4-5.
Bibliografia Vittorio Dini e Domenico Taranto (a cura di), La saggezza moderna:
temi e problemi dell’opera di Pierre Charron : atti del Convegno di studi in
memoria di Giampiero Stabile, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1987, p.
437. Voci correlate Pierre Charron Storia della filosofia Università degli
Studi di Salerno Collegamenti esterni Giampiero Stabile in SHARE Catalogue
Fondo Stabile in ARiEL Discovery tool di Ateneo dell'Università di Salerno
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Biografie Filosofia Portale Filosofia Università Portale Università Categorie:
Filosofi italiani del XX secoloNati nel 1951Morti nel 1984Nati a SapriMorti a
Salerno[altre]
Stefanini Luigi Stefanini Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search «L’essere è personale e
tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della
persona, come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le
persone» (Luigi Stefanini, da La mia
prospettiva filosofica) Luigi Stefanini
Luigi Stefanini (Treviso, 3 novembre 1891 – Padova, 16 gennaio 1956) è stato un
filosofo e pedagogista italiano. Nasce a
Treviso, il 3 novembre del 1891, secondogenito di quattro fratelli, in una
famiglia cattolica il cui padre Giovanni gestisce una tintoria, mentre la madre
Lucia de Mori, diplomata maestra elementare, si dedica interamente alla casa e
la cura dei suoi figli.[1] Fin da
giovane, è attivo nelle associazioni e nei movimenti cattolici del trevigiano,
iscrivendosi a Gioventù Cattolica dove assumerà presto l'incarico di presidente
diocesano. Qui maturerà la vocazione di educatore, seguendo, in particolare,
gli insegnamenti contenuti nell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Opera pure
nel sindacato cattolico dei lavoratori.
Dopo il diploma presso il Liceo Classico Antonio Canova nel 1910, dove
ha fra gli altri Paolo Rotta come insegnante di storia e filosofia, nello
stesso anno si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di
Padova. Nell'ateneo patavino, la corrente del positivismo è tra le più seguite,
ma in controtendenza Stefanini decide di scrivere la propria tesi su Maurice
Blondel, esponendovi le proprie critiche sull'opera del filosofo francese[2],
avendo Antonio Aliotta come relatore, con cui si laurea in filosofia nel 1914.
Nel periodo di studi padovano, inizia a frequentare anche il circolo
universitario cattolico di Giacomo Zanella e, subito dopo la laurea, inizia a
insegnare nelle scuole pubbliche. Mentre
completa gli studi universitari, inizia già a respirarsi aria di guerra in
Italia, ma come molti giovani cattolici, pur favorevole ad una posizione di
neutralità nei confronti della guerra, viene comunque chiamato alle armi nel
1915. Terminato il conflitto, uscendone con il grado di capitano e una croce al
merito di guerra, nel 1919 consegue pure una seconda laurea in lettere
all'Università di Padova, con una tesi sul pensiero estetico di Gian Vincenzo
Gravina, nonché riprende l'insegnamento nelle scuole. Nel 1920 è eletto consigliere del Comune di
Treviso ma, nel 1921, la violenza dello squadrismo fascista investe anche il
trevigiano. Stefanini si oppone con fermezza a tale ideologia, evidenziando
l'inconciliabilità di cristianesimo e fascismo, dimettendosi nel 1922 e
dedicandosi completamente all'insegnamento, che ora è la sua occupazione
principale e che condurrà sempre secondo una pedagogia ispirata ai principi
cristiani, costantemente attento e sensibile sia ai bisogni che agli interessi
degli studenti. Nello stesso periodo, si dedica con scrupolo alla stesura di
apprezzati testi didattici di storia e filosofia, nonché di pedagogia secondo
un indirizzo cristiano. Conseguita la
libera docenza in pedagogia nel 1925, nello stesso anno ottiene, per incarico,
l'insegnamento di questa disciplina all'Università di Padova, nonché si sposa
con Maria Javicoli, da cui avrà tre figli, Elena, Paolo e Lucia. In quegli
anni, oltre ad iscriversi al Partito Nazionale Fascista, affianca
l'insegnamento nelle scuole pubbliche a quello universitario fino al 1936
quando, vinto l'ordinariato, ha una cattedra di storia della filosofia alla
Facoltà di Magistero dell'Università di Messina che tiene fino al 1938 quando
si trasferisce a Padova, alla cattedra di pedagogia, quindi a quella di storia
della filosofia nel 1940 che terrà fino alla morte prematura, nel 1956. Al
contempo, tiene per incarico l'insegnamento di estetica a Padova e quello di
pedagogia all'Università di Venezia, nonché sarà preside della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell'ateneo patavino nel triennio 1941-43.[3] Nel dopoguerra, riabilitato alla propria
cattedra e all'insegnamento universitario, si dedica prevalentemente allo
studio e la ricerca, ma partecipando anche alla riorganizzazione della
filosofia cattolica italiana, in particolare promuovendo incontri, convegni e
riunioni all'Istituto Aloisianum dei padri gesuiti di Gallarate, che diventerà
poi il Centro di studi filosofici di Gallarate, per primo diretto da Carlo
Gianon. Socio corrispondente dell’Istituto
veneto di scienze, lettere ed arti, nonché socio effettivo dell’Accademia
patavina di scienze, lettere ed arti, ricevette il premio della R. Accademia
d'Italia nel 1933 per le discipline filosofiche, e il premio Marzotto per la
filosofia nel 1953, nonché fu membro dei consigli direttivi della Società
filosofica italiana e del Centro Studi filosofici di Gallarate. Nel 1956 ha poi
fondato a Padova la Rivista di estetica, della quale ha potuto dirigere solo il
primo fascicolo dell'annata 1956, e a cui gli subentrerà Luigi Pareyson. Fra i
suoi allievi, ricordiamo Armando Rigobello, Giovanni Santinello, Ezio Riondato,
Giovanni M. Pozzo. Gli saranno
intitolate delle scuole medie statali di Treviso e Padova, nonché l'ex Istituto
magistrale di Mestre. Attività e
pensiero Stefanini è stato uno dei più importanti filosofi italiani di
ispirazione cristiana, nonché uno dei maggiori rappresentati dello
spiritualismo cristiano. Partendo sempre dalla filosofia cristiana, ha
riesaminato storicamente e criticamente diverse correnti del pensiero
filosofico, fra cui lo storicismo, la filosofia dell'azione, il neoidealismo,
la fenomenologia, l'esistenzialismo, lungo il corso della storia della
filosofia, dagli antichi (fra i quali Platone, Sant'Agostino, Bonaventura, San Tommaso),
fino ai moderni (Vincenzo Gioberti, Maurice Blondel, Antonio Rosmini ed altri),
sulla scia della sua prima formazione giovanile incentrata su uno stretto
connubio fra prospettiva storica e dimensione teoretica. Interessato pure all'estetica, su cui ha
scritto molti lavori, il contributo più importante dello Stefanini è frutto
della sua costante riflessione su personalismo e spiritualismo, grazie alla
quale il rapporto soggetto-oggetto viene interpretato in termini di alterità,
di altro da sé, prospettiva – questa – che permetterà di concepire il singolo
individuo come membro di una comunità. Questo rapporto soggetto-oggetto, da un
tale punto di vista[4], sarà concepito come il momento fondante di ogni
comunità di esseri umani in relazione fra loro. Le più importanti problematiche
connesse a questi principi di base, saranno poi affrontate dallo Stefanini
nelle due opere fondamentali Metafisica della persona (1950) e Personalismo
sociale (1952). Strettamente connesse a
queste tematiche filosofiche, poi, sono quelle didattico-pedagogiche aperte e
portate avanti dallo Stefanini pressoché durante l'intero suo periodo di
attività, dai primi anni formativi fino agli ultimi della maturità, in continuo
ripensamento e progressiva rivisitazione.
Per quanto concerne poi la sua vasta produzione scientifica, ricordiamo
solo che, nel periodo compreso fra il 1940 e il 1950, dà alle stampe le
seguenti, notevoli pubblicazioni: L'esistenzialismo di M. Heidegger (1944),
Spiritualismo cristiano (1944), Gioberti (1947), Il dramma filosofico della
Germania (1948), Metafisica della persona ed altri saggi (1950),
Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico (1952), Personalismo sociale
(1952), Estetica (1953), Trattato di estetica (1955); viene pubblicata postuma
poi la raccolta di scritti intitolata Personalismo filosofico (1956). Note ^ Ci riferiamo principalmente a:
Gregorio Piaia, "Stefanini, Luigi", in Dizionario Biografico degli
Italiani, Volume 94, Anno 2019. Si veda pure: Laura Corrieri, Luigi Stefanini,
un pensiero attuale, Edizioni Prometheus, Milano, 2002. ^ Citando sue testuali
parole, «[...] l'opera del Blondel è più arte che filosofia. I passaggi più
ardui superati con immagini ardite, anziché con logiche dimostrazioni;
affermate le più inconciliabili antitesi affinché queste rendano vivo e tragico
il contrasto; i mezzi dialettici atti più a trascinare che a convincere: tutto
ciò ci conferma pienamente nella nostra interpretazione. L'opera del Blondel è,
più che una dottrina filosofica, un romanzo psicologico che descrive le
esitazioni e le incertezze, le vane pretese e le supreme aspirazioni dell'umana
volontà, che alfine si appaga e riposa in Dio. Per ciò che al di là del
filosofo si riesca ad afferrare l'uomo, al di là del sistema si riesca ad
afferrare il programma generoso del credente, la filosofia dell'azione può
essere efficacemente educativa, può esercitare nella coscienza contemporanea
l'influsso salutare che essa si era proposta» (da Luigi Stefanini, L'Azione.
Saggio critico sulla filosofia di M. Blondel, Padova, 1914). ^ Cfr. Laura
Corrieri, cit. ^ Il quale, a sua volta, prende le mosse dalle concezioni
personalistiche mounieriane e giobertiane; cfr. Gregorio Piaia, cit. Opere
principali Il problema della conoscenza in Cartesio e Gioberti, Torino, Sei,
1925. Il problema religioso in Platone e S. Bonaventura. Sommario storico e
critica di testi, Torino, Sei, 1926. Idealismo cristiano, Padova, R. Zannoni
Editore, 1931. Platone, 2 voll., Padova, Cedam, 1932-35 (ristampa: Istituto di
Filosofia, Padova, 1991). Il problema estetico in Platone, Torino, Sei, 1933.
Imaginismo come problema filosofico, Vol. I, Padova, Cedam, 1936. Problemi
attuali d'arte, Padova, Cedam, 1939. La Chiesa Cattolica, Milano-Messina,
Principato, 1944. Vincenzo Gioberti. Vita e pensiero, Milano, F.lli Bocca,
1947. Metafisica dell'arte e altri saggi, Padova, Editoria Liviana, 1948. La
mia prospettiva filosofica, Treviso, Edizioni Canova, 1996 (prima edizione del
1950). Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico. Esposizione e critica
costruttiva, Padova, Cedam, 1952. Itinéraires métaphysiques, trad. par J.
Chaix-Ruiy, Paris, Aubier, 1952. Estetica, Roma, Edizioni Studium, 1953.
Trattato di Estetica, Vol. I: L'arte nella sua autonomia e nel suo processo,
Brescia, Editrice Morcelliana, 1960 (prima edizione del 1955). Personalismo
educativo, Roma, F.lli Bocca, 1955. Per l'elenco completo degli scritti di
Stefanini si rimanda alla relativa pagina online curata dalla Fondazione
"Luigi Stefanini".
Bibliografia AA.VV., Dialettica dell'immagine. Studi sull'imaginismo di
Luigi Stefanini, a cura dell'Associazione filosofica trevigiana, Genova, 1991.
Luciano Caimi, Educazione e persona in Luigi Stefanini, Editrice La Scuola,
Brescia, 1985. Glory Cappello, Luigi Stefanini. Dalle opere e dal carteggio del
suo archivio, Europrint, Treviso, 2006. Per una antropologia in Luigi
Stefanini: metafisica, personalismo, umanesimo, a cura di Glory Cappello,
Edizioni R. Pagotto, Padova, 2012. Michele Lasala, Una ragione vivente.
L'immagine e l'ulteriore, in AA.VV., Frammenti di filosofia contemporanea, a
cura di I.v.a.n. Project, Limina Mentis Editore, Villasanta (MB), 2017, Vol.
XXI. Matteo De Boni, Le ragioni dell’esistenza. Esistenzialismo e ragione in
Luigi Stefanini, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2017, Armando Rigobello (a
cura di), Scritti in onore di Luigi Stefanini, Liviana editrice, Padova, 1960.
Sul pensiero di Luigi Stefanini, in Rivista Rosminiana, Numero 2, Anno 1952.
Collegamenti esterni Luigi Stefanini, su treccani.it. STEFANINI, Luigi, in Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, luigi-stefanini.
Fondazione Luigi Stefanini, su fondazionestefanini.it. V · D · M Vincitori del
Premio Marzotto (1951-1968) Controllo di autoritàVIAF (EN) 64050294 · ISNI (EN)
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Filosofia Portale Filosofia Categorie: Filosofi italiani del XX
secoloPedagogisti italianiNati nel 1891Morti nel 1956Nati il 3 novembreMorti il
16 gennaioNati a TrevisoMorti a Padova[altre]
Stella Federico Stella Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando l'attore e uomo di teatro napoletano, vedi
Federico Stella (attore). Federico Stella (Sernaglia della Battaglia, 1935 –
Milano, 8 luglio 2006) è stato un giurista, filosofo e avvocato italiano. È
stato inoltre professore ordinario di Diritto penale e filosofo del diritto. Nato
a Sernaglia della Battaglia, piccolo centro in provincia di Treviso, dopo aver
frequentato il liceo presso il Collegio Vescovile Pio X di Treviso si iscrisse
all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove vinse una borsa di
studio presso il Collegio Augustinianum e fu allievo di Alberto Crespi. Divenne
professore di diritto penale nel 1970, dapprima nell'Università degli Studi di
Catania, e, successivamente, presso l'Università Cattolica di Milano, dove
insegnò fino alla propria scomparsa, avvenuta nel 2006.[1] Causalità e leggi scientifiche I suoi studi
si diressero, dapprima, su alcune tipologie di reati, successivamente sugli
elementi strutturali del reato. Il suo
contributo scientifico più noto, presso gli operatori del diritto penale e la
comunità accademica, è Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto
penale (1975), monografia in cui Stella ricostruisce il problema del nesso di
causalità penale prospettando il criterio della sussunzione sotto leggi
scientifiche come strumento per la soluzione di casi dubbi: solo mediante una
legge scientifica di copertura, atta a spiegare il rapporto fra condotta del
presunto autore del reato ed evento dannoso, sarà possibile formulare un
giudizio di responsabilità penale. Ad
es. solo dopo aver dimostrato, sulla base di una legge scientifica, che
l'ingestione di determinati farmaci determina malformazioni del feto, sarà
possibile imputare alla ditta produttrice il reato di lesioni gravissime
(colpose o dolose). In difetto di una dimostrazione scientifica, non potrà
formularsi alcuna imputazione penale.
Propose, attraverso i suoi scritti e le sue lezioni, che la regola di
giudizio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" trovasse applicazione
anche nel processo penale italiano. Dapprima avversato da parte della Dottrina
processual penalistica, il principio venne accolto - in tema di nesso causale -
dalla Corte suprema di cassazione, anche a Sezioni Unite; oggi è norma
codicistica. Attività ulteriori Diresse
riviste giuridiche di diritto penale e fu fra i curatori di raccolte normative
di largo successo presso la comunità forense.
Nei successivi decenni gli interessi scientifici di Stella si volsero
alla teoria generale del diritto ed alla filosofia del diritto, mediante
pubblicazione di scritti maggiormente agili rispetto alle monografie ed ai
saggi penalistici, rivolti ad un pubblico relativamente più vasto. Esercitò la professione di avvocato,
partecipando, in qualità di difensore di alcuni imputati, al processo del
Petrolchimico di Porto Marghera, dove fece applicazione, a livello pratico,
delle teorie relative alla causalità scientifica. Principali pubblicazioni L'alterazione di
stato mediante falsità, Milano, 1967. La descrizione dell'evento, Milano, 1970.
Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale, Milano, 1975,
seconda edizione 2000. Giustizia e modernità, Milano, 3ª ed. 2003. I saperi del
giudice, Milano, 2004. ll giudice corpuscolariano, Milano, 2005. La giustizia e
le ingiustizie, Bologna, 2006. Note ^ Addio A Federico Stella, il «galantumo
del diritto» di Paolo Biondani, Corriere della Sera, 10 luglio 2006, p. 29.
Archivio storico. Collegamenti esterni Il centro di ricerca Federico Stella
biografia e bibliografia. Università Cattolica del Sacro Cuore. Controllo di
autorità VIAF
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Portale Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XX secoloGiuristi italiani
del XXI secoloFilosofi italiani del XX secoloFilosofi italiani del XXI
secoloAvvocati italiani del XX secoloAvvocati italiani del XXI secoloNati nel
1935Morti nel 2006Morti l'8 luglioNati a Sernaglia della BattagliaMorti a
MilanoAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani del XXI
secoloProfessori dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori
dell'Università degli Studi di CataniaFilosofi del dirittoStudenti
dell'Università Cattolica del Sacro CuoreStudiosi di diritto penale del XX
secoloStudiosi di diritto penale del XXI secolo[altre]
Stellini Jacopo Stellini Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Jacopo Stellini Jacopo Stellini (Cividale, 27
aprile 1699 – Padova, 27 marzo 1770) è stato un abate, scrittore, filosofo e
professore di filosofia italiano.
Jacopo Stellini Nato a Cividale (e non, come appare su altre fonti
basatesi sull'errata lettura dell'atto di battesimo di un Jacopo Stulin, a
Tribil di Sopra) nel 1699, si interessò di medicina, matematica e critica
letteraria. Sebbene autore di svariate poesie, la sua fama è dovuta soprattutto
al saggio in latino De ortu et progressu morum stampato nel 1740. La sua concezione morale è di stampo
aristotelico e sotto alcuni aspetti può essere considerato uno dei precursori
della sociologia. A lui è stato dedicato
l'omonimo liceo classico di Udine, fondato nel 1808 e che nella sua biblioteca
contiene gli scritti autografi di Stellini.
Collegamenti esterni Enciclopedia Treccani, su treccani.it. Dizionario
biografico friulano, su friul.net. Controllo di autoritàVIAF (EN) 12668725 ·
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Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura Categorie: Abati e badesse
italianiScrittori italiani del XVIII secoloFilosofi italiani del XVIII
secoloNati nel 1699Morti nel 1770Nati il 27 aprileMorti il 27 marzoNati a
Cividale del FriuliMorti a Padova[altre]
Sterlich Romualdo De Sterlich Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Romualdo De Sterlich
(Chieti, 12 settembre 1712 – Chieti, 6 marzo 1788) è stato un filosofo
italiano. Figlio del marchese Rinaldo De
Sterlich (di famiglia originaria dei paesi di lingua tedesca) e della
marchesina aquilana Margherita Alfieri, studiò a Napoli nel Collegio dei
Nobili, gestito dalla Compagnia di Gesù. Fu proprio questa esperienza che lo
portò a concepire la sua profonda ostilità verso i Gesuiti, che fu uno dei tratti
caratteristici del suo pensiero filosofico. All'età di vent'anni tornò a Chieti
e sposò Giuditta Castiglione (di famiglia aristocratica di Penne) da cui ebbe
una numerosa prole (una ventina di figli di cui solo una decina sopravvissero
ai primi anni mentre gli altri si spensero in tenera età). La cura della
famiglia e dei beni ereditati dal padre (di cui era l'unico figlio maschio) lo
portarono a dover compromettere le sue aspirazioni letterarie. Ma la cultura
rimase sempre la sua prima passione e, alla metà del secolo XVIII, per superare
l'isolamento culturale che gli veniva imposto dal dover vivere a Chieti,
cominciò a costituire la sua personale biblioteca. Questa crebbe in misura
esponenziale di anno in anno, tanto che nel 1776 contava 12.000 volumi,
divenendo così una delle migliori biblioteche del Regno. L'intento di de
Sterlich era di mettere la stessa a disposizione della città di Chieti per la
sua crescita culturale. Sfortunatamente il suo desiderio fu reso vano
dall'incuria di chi gestì la stessa dopo la sua morte. Cospicue parti di quella
grande biblioteca sono stati individuate in tutta Italia: nella Biblioteca
Provinciale «G. D'Annunzio» di Pescara, nella Biblioteca Provinciale «A.C. De
Meis» di Chieti, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, etc. Sarebbe molto
riduttivo considerare de Sterlich come solo un collezionista di libri. Egli li
raccoglieva per elaborarli e per creare le sue riflessioni e i suoi pensieri.
De Sterlich si rivela così aggiornatissimo sui dibattiti culturali europei del Settecento
ed è tra i primi italiani a leggere e commentare le opere di Montesquieu,
Rousseau, Voltaire, e di altri illuministi europei. Di questa partecipazione
alla cultura illuministica europea ne è testimonianza un copioso scambio di
lettere con altri intellettuali (Antonio Genovesi, Giovanni Antonio Battarra,
Giovanni Lami, Giovanni Bianchi, Gaspare de Torres) dell'epoca. Questo ricco
carteggio è un documento prezioso per delineare il passaggio in Italia alla
cultura illuministica e rappresenta l'impronta da lui lasciata nel panorama
culturale del Settecento Italiano. Romualdo de Sterlich lasciò anche alcune
testimonianze scritte del suo pensiero: due Dialoghi di Fra' Cipolla e la
Nanna. In essi trova largo spazio la sua antipatia per i Gesuiti. Tramite la
solida amicizia con Giovanni Lami, de Sterlich entrò a far parte dell'Accademia
della Crusca e dell'Accademia dei Georgofili. Romualdo de Sterlich si spense a
Chieti il 6 marzo 1788 e fu sepolto nella Chiesa di S. Francesco di Paola. Bibliografia Cepparrone Luigi, L'illuminismo
europeo nell'epistolario di Romualdo De Sterlich, Sestante Ed., Collana Bergamo
University Press, 2008. Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
citazioni di o su Romualdo De Sterlich Collegamenti esterni Il sito dell'Istituto
Tecnico Statale Commerciale e per Programmatori “R. de Sterlich” - Chieti
Scalo, su desterlich.ch.it. URL consultato il 4 settembre 2009 (archiviato
dall'url originale il 18 dicembre 2008). Controllo di autorità VIAF (EN)
32159378 · ISNI (EN) 0000 0000 5295 9628 · LCCN (EN) nr97022624 · GND (DE)
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secoloNati nel 1712Morti nel 1788Nati il 12 settembreMorti il 6 marzoNati a
ChietiMorti a Chieti[altre]
Steuco Agostino Steuco Da Wikipedia,
l'enciclopedia libera. Jump to navigationJump to search Agostino Steuco vescovo
della Chiesa cattolica Template-Bishop.svg
Incarichi ricopertiVescovo di Kissamos
Nato1497 a Gubbio Consacrato vescovo1538 dal Papa Paolo III Deceduto1548
a Venezia Manuale Agostino Steuco
(Gubbio, 1497 – Venezia, 1548) è stato un filologo, antiquario e filosofo italiano.
Della famiglia Steuchi o Stucchi. Acuto esegeta dei testi biblici e profondo
conoscitore delle lingue latina, greca ed ebraica, si oppose tenacemente alla
riforma protestante e prese parte al Concilio di Trento. Nel novembre del 1513 entrò nella congregazione
dell'Ordine dei Canonici Agostiniani di San Salvatore di Bologna, poi nel
monastero di San Secondo, a Gubbio, mutando il suo nome di battesimo Guido in
Agostino. Nel 1524 andò al Monastero di
Bologna, ove frequentò i corsi di ebraico e retorica presso l'Università
bolognese. Nel 1529 fu inviato dalla sua congregazione al Monastero di
Sant'Antonio di Castello a Venezia, dove, per l'ampia conoscenza dei linguaggi
biblici e l'acume filologico, gli fu affidata la biblioteca del monastero,
donata ai canonici dal cardinal Domenico Grimani, della quale una buona parte
del patrimonio librario era appartenuto a Pico della Mirandola. Negli anni successivi (1529-1533) Steuco
scrisse una serie di opere polemiche contro Lutero ed Erasmo, accusandoli di
fomentare la rivolta contro la Chiesa. Questi lavori rivelano il solido
sostegno che Steuco dà alle tradizioni e alle pratiche della Chiesa, difendendo
risolutamente l'autorità papale. Parte della sua produzione risalente a questo
periodo include un intenso lavoro filologico sull'Antico Testamento, culminato
con la pubblicazione del Veteris testamenti ad Hebraicam veritatem recognitio,
per la composizione del quale egli si basò su manoscritti ebraici e greci,
tratti della biblioteca Grimani, utili a correggere il testo della traduzione
latina redatta da San Gerolamo. Nel revisionare e spiegare il testo, egli mai
deviò dal significato letterale e storico.
Contemporanea a questo lavoro di esegesi biblica fu la composizione di
un'opera d'impianto enciclopedico che egli scrisse in questo periodo, al quale
diede il nome di Cosmopœia. Le sue opere polemiche ed esegetiche destarono
l'attenzione favoravole di Papa Paolo III, e nel 1538 questi ordinò Steuco
vescovo di Kissamos, nell'isola di Creta, e bibliotecario della collezione
papale di manoscritti e stampe del Vaticano. Nel 1541 si recò a Lucca con Paolo
III e l'imperatore Carlo V. Quantunque
mai fosse andato a visitare il suo vescovado a Creta, Steuco adempì attivamente
con scrupolo il suo ruolo di bibliotecario del Vaticano fino alla sua morte nel
1548. Nel frattempo a Roma redasse i
Commenti al Vecchio Testamento riguardanti i Salmi di Giacobbe, aiutando ad
annotare e correggere i testi di parte della Vulgata alla luce degli originali
ebraici. A questo periodo risale la composizione della celeberrima opera De
perenni philosophia libri X, dedicata a Paolo III, nella quale egli tenta di
mostrare che molte delle idee esposte dai saggi, poeti e filosofi
dell'Antichità (ad es. Orfeo, Talete, Pitagora, Parmenide, Platone, Aristotele,
Plutarco, Numenio, i neoplatonici, l'ebreo Filone, nonché opere come gli
Oracoli caldaici, gli Oracoli sibillini, i trattati ermetici e i frammenti
teosofici) erano essenzialmente in armonia con la sostanza delle dottrine della
fede cattolica. Questo lavoro contiene una polemica indiretta a margine, poiché
Steuco elaborò un numero di questi argomenti per sostenere molte posizioni
teologiche recentemente poste in questione in Italia da riformatori e critici
della fede cattolica traditionale. Come
umanista egli ebbe un profondo interesse per le rovine della Roma antica, e
nell'operare un rinnovamento urbano dell'Urbe. A tal proposito, degne d'essere
menzionate, sono una serie di brevi orazioni in cui raccomandò espressamente a
Papa Paolo III di risistemare l'acquedotto conosciuto come Aqua Virgo, in modo
da supplire adeguatamente il fabbisogno di acqua fresca per la città di
Roma. Nel 1547 Steuco fu mandato da papa
Paolo III a presenziare il Concilio di Trento, che doveva celebrarsi a Bologna,
affidandogli il compito di sostenere l'autorità e le prerogative papali. Morì
nel 1548, all'età di cinquantatré anni, mentre si trovava a Venezia per
problemi di salute, e dove cercava di ristabilirsi durante un periodo di
sospensione del Concilio. Nel 1591 le sue ossa furono traslate nell'Eremo di
Sant'Ambrogio a Gubbio. Bibliografia
Agostino Steuco, De perenni philosophia libri IX, Basileæ, per Nicolaum Bryling
et Sebastianum Francken, 1542. Voci correlate Concilio di Trento Esegesi
biblica Ermetismo (filosofia) Teosofia di Tubinga Altri progetti Collabora a
Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Agostino Steuco
Collegamenti esterni Agostino Steuco, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Giuseppe Ricciotti,
Agostino Steuco, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Modifica su Wikidata Vincenzo Lavenia, Agostino Steuco, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su
Wikidata Opere di Agostino Steuco, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Modifica su Wikidata (EN) Opere di Agostino Steuco, su Open Library, Internet
Archive. Modifica su Wikidata (EN) Michael Ott, Agostino Steuco, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata (EN) David M.
Cheney, Agostino Steuco, in Catholic Hierarchy. Modifica su Wikidata (EN) Hugh
Chisholm (a cura di), Steuco, Agostino, in Enciclopedia Britannica, XI,
Cambridge University Press, 1911. Associazione Centro Culturale Leone XIII, su
leonexiii.org. Canonici Regolari Lateranensi di Gubbio, su bibliotecasteuco.it.
URL consultato il 5 gennaio 2018 (archiviato dall'url originale il 6 gennaio
2018). Controllo di autoritàVIAF (EN) 59880366 · ISNI (EN) 0000 0001 1797 8900
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Identities (EN) lccn-nr96017016 Biografie Portale Biografie Cattolicesimo
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italianiAntiquari italianiFilosofi italiani del XVI secoloNati nel 1497Morti
nel 1548Nati a GubbioMorti a VeneziaEbraisti italianiBiblisti italiani[altre]
first-order
predicate calculus with time-relative identity: - second-order logic, the logic of languages that
contain, in addition to variables ranging over objects, variables ranging over
properties, relations, functions, or classes of those objects. A model, or
interpretation, of a formal language usually contains a domain of discourse.
This domain is what the language is about, in the model in question. Variables
that range over this domain are called first-order variables. If the language
contains only first-order variables, it is called a first-order language, and it
is within the purview of first-order logic. Some languages also contain
variables that range over properties, relations, functions, or classes of
members of the domain of discourse. These are second-order variables. A
language that contains first-order and second-order variables, and no others,
is a secondorder language. The sentence ‘There is a property shared by all and
only prime numbers’ is straightforwardly rendered in a second-order language,
because of the bound variable ranging over properties. There are also
properties of properties, relations of properties, and the like. Consider,
e.g., the property of properties expressed by ‘P has an infinite extension’ or
the relation expressed by ‘P has a smaller extension than Q’. A language with
variables ranging over such items is called thirdorder. This construction can
be continued, producing fourth-order languages, etc. A language is called
higher-order if it is at least second-order. Deductive systems for second-order
languages are obtained from those for first-order languages by adding
straightforward extensions of the axioms and rules concerning quantifiers that
bind first-order variables. There may also be an axiom scheme of comprehension:
DPExPx S Fx, one instance for each formula F that does not contain P free. The
scheme “asserts” that every formula determines the extension of a property. If
the language has variables ranging over functions, there may also be a version
of the axiom of choice: ERExDyRxy P DfExRxfx. In standard semantics for second-order
logic, a model of a given language is the same as a model for the corresponding
first-order language. The relation variables range over every relation over the
domain-of-discourse, the function variables range over every function from the
domain to the domain, etc. In non-standard, or Henkin semantics, each model
consists of a domain-ofdiscourse and a specified collection of relations,
functions, etc., on the domain. The latter may not include every relation or
function. The specified collections are the range of the second-order variables
in the model in question. In effect, Henkin semantics regards second-order
languages as multi-sorted, first-order languages.
secundum quid: in a certain respect, or with a qualification.
Fallacies can arise from confusing what is true only secundum quid with what is
true simpliciter ‘without qualification’, ‘absolutely’, ‘on the whole’, or
conversely. Thus a strawberry is red simpliciter on the whole. But it is black,
not red, with respect to its seeds, secundum quid. By ignoring the distinction,
one might mistakenly infer that the strawberry is both red and not red. Again,
a certain thief is a good cook, secundum quid; but it does not follow that he
is good simpliciter without qualification. Aristotle was the first to recognize
the fallacy secundum quid et simpliciter explicitly, in his Sophistical
Refutations. On the basis of some exceptionally enigmatic remarks in the same
work, the liar paradox was often regarded in the Middle Ages as an instance of
this fallacy.
deceptum sui: Auto-deception – D. F. Pears -- self-deception, 1
purposeful action to avoid unpleasant truths and painful topics about oneself
or the world; 2 unintentional processes of denial, avoidance, or biased
perception; 3 mental states resulting from such action or processes, such as
ignorance, false belief, wishful thinking, unjustified opinions, or lack of
clear awareness. Thus, parents tend to exaggerate the virtues of their
children; lovers disregard clear signs of unreciprocated affection; overeaters
rationalize away the need to diet; patients dying of cancer pretend to
themselves that their health is improving. In some contexts ‘self-deception’ is
neutral and implies no criticism. Deceiving oneself can even be desirable,
generating a vital lie that promotes happiness or the ability to cope with
difficulties. In other contexts ‘self-deception’ has negative connotations,
suggesting bad faith, false consciousness, or what Joseph Butler called “inner
hypocrisy” the refusal to acknowledge
our wrongdoing, character flaws, or onerous responsibilities. Existentialist
philosophers, like Kierkegaard, Heidegger, and most notably Sartre Being and
Nothingness, 3, denounced self-deception as an inauthentic dishonest, cowardly
refusal to confront painful though significant truths, especially about
freedom, responsibility, and death. Herbert Fingarette, however, argued that
self-deception is morally ambiguous
neither clearly blameworthy nor clearly faultless because of how it erodes capacities for
acting rationally Self-Deception, 9. The idea of intentionally deceiving
oneself seems paradoxical. In deceiving other people I usually know a truth
that guides me as I state the opposite falsehood, intending thereby to mislead
them into believing the falsehood. Five difficulties seem to prevent me from
doing anything like that to myself. 1 With interpersonal deception, one person
knows something that another person does not. Yet self-deceivers know the truth
all along, and so it seems they cannot use it to make themselves ignorant. One
solution is that self-deception occurs over time, with the initial knowledge
becoming gradually eroded. Or perhaps selfdeceivers only suspect rather than
know the truth, and then disregard relevant evidence. 2 If consciousness
implies awareness of one’s own conscious acts, then a conscious intention to
deceive myself would be self-defeating, for I would remain conscious of the
truth I wish to flee. Sartre’s solution was to view self-deception as
spontaneous and not explicitly reflected upon. Freud’s solution was to conceive
of self-deception as unconscious repression. 3 It seems that self-deceivers
believe a truth that they simultaneously get themselves not to believe, but how
is that possible? Perhaps they keep one of two conflicting beliefs unconscious
or not fully conscious. 4 Self-deception suggests willfully creating beliefs,
but that seems impossible since beliefs cannot voluntarily be chosen. Perhaps
beliefs can be indirectly manipulated by selectively ignoring and attending to
evidence. 5 It seems that one part of a person the deceiver manipulates another
part the victim, but such extreme splits suggest multiple personality disorders
rather than self-deception. Perhaps we are composed of “subselves” relatively unified clusters of elements in
the personality. Or perhaps at this point we should jettison interpersonal
deception as a model for understanding self-deception. .
determinatum
sui: auto-determination -- self-determination,
the autonomy possessed by a community when it is politically independent; in a
strict sense, territorial sovereignty. Within international law, the principle
of self-determination appears to grant every people a right to be
self-determining, but there is controversy over its interpretation. Applied to
established states, the principle calls for recognition of state sovereignty
and non-intervention in internal affairs. By providing for the
self-determination of subordinate communities, however, it can generate demands
for secession that conflict with existing claims of sovereignty. Also, what
non-self-governing groups qualify as beneficiaries? The national interpretation
of the principle treats cultural or national units as the proper claimants,
whereas the regional interpretation confers the right of self-determination
upon the populations of well-defined regions regardless of cultural or national
affiliations. This difference reflects the roots of the principle in the
doctrines of nationalism and popular sovereignty, respectively, but complicates
its application.
evidens sui: (after ‘causa sui’), self-evidence, the property of
being self-evident. Only true propositions or truths are self-evident, though
false propositions can appear to be self-evident. It is widely held that a true
proposition is self-evident if and only if one would be justified in believing
it if one adequately understood it. Some would also require that self-evident
propositions are known if believed on the basis of such an understanding. Some
self-evident propositions are obvious, such as the proposition that all stags
are male, but others are not, since it may take considerable reflection to
achieve an adequate understanding of them. That slavery is wrong and that there
is no knowledge of falsehoods are perhaps examples of the latter. Not all
obvious propositions are self-evident, e.g., it is obvious that a stone will
fall if dropped, but adequate understanding of that claim does not by itself
justify one in believing it. An obvious proposition is one that immediately
seems true for anyone who adequately understands it, but its obviousness may
rest on wellknown and commonly accepted empirical facts, not on understanding.
All analytic propositions are self-evident but not all self-evident
propositions are analytic. The propositions that if A is older than B, then B
is younger than A, and that no object can be red and green all over at the same
time and in the same respects, are arguably self-evident but not analytic. All
self-evident propositions are necessary, for one could not be justified in
believing a contingent proposition simply in virtue of understanding it.
However, not all necessary propositions are self-evident, e.g., that water is
H2O and that temperature is the measure of the molecular activity in substances
are necessary but not self-evident. A proposition can appear to be selfevident
even though it is not. For instance, the proposition that all unmarried adult
males are bachelors will appear self-evident to many until they consider that
the pope is such a male. A proposition may appear self-evident to some but not
to others, even though it must either have or lack the property of being
self-evident. Self-evident propositions are knowable non-empirically, or a
priori, but some propositions knowable a priori are not self-evident, e.g.,
certain conclusions of long and difficult chains of mathematical
reasoning.
auto-present: self-presenting, in the philosophy of
Meinong, having the ability common to
all mental states to be immediately
present to our thought. “Meinong was too German to be English – take
‘wahrnehmen,’ to perceive, to take notice, to ‘verum’-sit.!”
Warhnehmungvorstellung is perceptual representation – Chisholm, alas, never
gives, typically in a second-tier varsity, to give the correct citation, when
he claims, to impress, that he is ‘borrowing’ from Meinong, never to return!
(“also typical of a second-tier!” -- Grice). In Meinong’s view, no mental state
can be presented to our thought in any other way e.g., indirectly, via a Lockean “idea of
reflection.” The only way to apprehend a mental state is to experience or “live
through” it. The experience involved in the apprehension of an external object
has thus a double presentational function: 1 via its “content” it presents the
object to our thought; 2 as its own “quasi-content” it presents itself
immediately to our thought. In the contemporary era, Roderick Chisholm has
based his account of empirical knowledge in part on a related concept of the
self-presenting. In Chisholm’s sense the
definition of which we omit here all
self-presenting states are mental, but not conversely; for instance, being
depressed because of the death of one’s spouse would not be self-presenting. In
Chisholm’s epistemology, self-presenting states are a source of certainty in
the following way: if F is a self-presenting state, then to be certain that one
is in state F it is sufficient that one is, and believes oneself to be in state
F. Cf. untranslatable, ‘sui,’ ‘ipse,’ ‘idem’. Presentatum de se.
self-reproducing automaton: a formal model of self-reproduction
of a kind introduced by von Neumann. He worked with an intuitive robot model
and then with a well-defined cellular automaton model. Imagine a class of
robotic automata made of robot parts and operating in an environment of such
parts. There are computer parts switches, memory elements, wires, input-output
parts sensing elements, display elements, action parts grasping and moving
elements, joining and cutting elements, and straight bars to maintain structure
and to employ in a storage tape. There are also energy sources that enable the
robots to operate and move around. These five categories of parts are
sufficient for the construction of robots that can make objects of various
kinds, including other robots. These parts also clearly suffice for making a
robot version of any finite automaton. Sensing and acting parts can then be
added to this robot so that it can make an indefinitely expandable storage tape
from straight bars. A “blank tape” consists of bars joined in sequence, and the
robot stores information on this tape by attaching bars or not at the
junctions. If its finite automaton part can execute programs and is
sufficiently powerful, such a robot is a universal computing robot cf. a
universal Turing machine. A universal computing robot can be augmented to form
a universal constructing robot a robot
that can construct any robot, given its description. Let r be any robot with an
indefinitely expandable tape, let Fr be the description of its finite part, and
let Tr be the information on its tape. Now take a universal computing robot and
augment it with sensing and acting devices and with programs so that when Fr
followed by Tr is written on its tape, this augmented universal computer
performs as follows. First, it reads the description Fr, finds the needed
parts, and constructs the finite part of r. Second, it makes a blank tape,
attaches it to the finite part of r, and then copies the information Tr from
its own tape onto the new tape. This augmentation of a universal computing
robot is a universal constructor. For when it starts with the information Fr,Tr
written on its tape, it will construct a copy of r with Tr on its tape. Robot
self-reproduction results from applying the universal constructor to itself.
Modify the universal constructor slightly so that when only a description Fr is
written on its tape, it constructs the finite part of r and then attaches a
tape with Fr written on it. Call this version of the universal constructor Cu.
Now place Cu’s description FCu on its own tape and start it up. Cu first reads
this description and constructs a copy of the finite part of itself in an empty
region of the cellular space. Then it adds a blank tape to the new construction
and copies FCu onto it. Hence Cu with FCu on its tape has produced another copy
of Cu with FCu on its tape. This is automaton self-reproduction. This robot
model of self-reproduction is very general. To develop the logic of
self-reproduction further, von Neumann first extended the concept of a finite
automaton to that of an infinite cellular automaton consisting of an array or
“space” of cells, each cell containing the same finite automaton. He chose an
infinite checkerboard array for modeling self-reproduction, and he specified a
particular twenty-nine-state automaton for each square cell. Each automaton is
connected directly to its four contiguous neighbors, and communication between
neighbors takes one or two time-steps. The twenty-nine states of a cell fall
into three categories. There is a blank state to represent the passivity of an
empty area. There are twelve states for switching, storage, and communication,
from which any finite automaton can be constructed in a sufficiently large
region of cells. And there are sixteen states for simulating the activities of
construction and destruction. Von Neumann chose these twenty-nine states in
such a way that an area of non-blank cells could compute and grow, i.e.,
activate a path of cells out to a blank region and convert the cells of that
region into a cellular automaton. A specific cellular automaton is embedded in
this space by the selection of the initial states of a finite area of cells,
all other cells being left blank. A universal computer consists of a
sufficiently powerful finite automaton with a tape. The tape is an indefinitely
long row of cells in which bits are represented by two different cell states.
The finite automaton accesses these cells by means of a construction arm that
it extends back and forth in rows of cells contiguous to the tape. When
activated, this finite automaton will execute programs stored on its tape. A
universal constructor results from augmenting the universal computer cf. the
robot model. Another construction arm is added, together with a finite
automaton controller to operate it. The controller sends signals into the arm
to extend it out to a blank region of the cellular space, to move around that
region, and to change the states of cells in that region. After the universal
constructor has converted the region into a cellular automaton, it directs the
construction arm to activate the new automaton and then withdraw from it.
Cellular automaton selfreproduction results from applying the universal
constructor to itself, as in the robot model. Cellular automata are now studied
extensively by humans working interactively with computers as abstract models
of both physical and organic systems. See Arthur W. Burks, “Von Neumann’s
Self-Reproducing Automata,” in Papers of John von Neumann on Computers and
Computer Theory, edited by William Aspray and Arthur Burks, 7. The study of
artificial life is an outgrowth of computer simulations of cellular automata
and related automata. Cellular automata organizations are sometimes used in
highly parallel computers.
semantic: semantic
– Grice saw ‘semantics’ (he detested the pretentious ‘pragmatics’) as a branch
of philosophy. “Surely we cannot expect someone whose training includes
phonetics, a totally physical science, to have any saying on the nuances of the
communicatum, which is all semantics is about!” -- H. P. Grice, “Logic and
conversation” – “Meaning,” in P. F. Strawson, “Philosophical Logic,” Oxford --
the arena of philosophy devoted to examining the scope and nature of logic.
Aristotle considered logic an organon, or foundation, of knowledge. Certainly, inference
is the source of much human knowledge. Logic judges inferences good or bad and
tries to justify those that are good. One need not agree with Aristotle,
therefore, to see logic as essential to epistemology. Philosophers such as
Vitters, additionally, have held that the structure of language reflects the
structure of the world. Because inferences have elements that are themselves
linguistic or are at least expressible in language, logic reveals general
features of the structure of language. This makes it essential to linguistics,
and, on a Vittersian view, to metaphysics. Moreover, many philosophical battles
have been fought with logical weaponry. For all these reasons, philosophers
have tried to understand what logic is, what justifies it, and what it tells us
about reason, language, and the world. The nature of logic. Logic might be
defined as the science of inference; inference, in turn, as the drawing of a
conclusion from premises. A simple argument is a sequence, one element of
which, the conclusion, the others are thought to support. A complex argument is
a series of simple arguments. Logic, then, is primarily concerned with
arguments. Already, however, several questions arise. 1 Who thinks that the
premises support the conclusion? The speaker? The audience? Any competent
speaker of the language? 2 What are the elements of arguments? Thoughts?
Propositions? Philosophers following Quine have found these answers unappealing
for lack of clear identity criteria. Sentences are more concrete and more sharply
individuated. But should we consider sentence tokens or sentence types? Context
often affects interpretation, so it appears that we must consider tokens or
types-in-context. Moreover, many sentences, even with contextual information
supplied, are ambiguous. Is a sequence with an ambiguous sentence one argument
which may be good on some readings and bad on others or several? For reasons
that will become clear, the elements of arguments should be the primary bearers
of truth and falsehood in one’s general theory of language. 3 Finally, and
perhaps most importantly, what does ‘support’ mean? Logic evaluates inferences
by distinguishing good from bad arguments. This raises issues about the status
of logic, for many of its pronouncements are explicitly normative. The
philosophy of logic thus includes problems of the nature and justification of
norms akin to those arising in metaethics. The solutions, moreover, may vary
with the logical system at hand. Some logicians attempt to characterize
reasoning in natural language; others try to systematize reasoning in
mathematics or other sciences. Still others try to devise an ideal system of
reasoning that does not fully correspond to any of these. Logicians concerned
with inference in natural, mathematical, or scientific languages tend to
justify their norms by describing inferential practices in that language as
actually used by those competent in it. These descriptions justify norms partly
because the practices they describe include evaluations of inferences as well as
inferences themselves. The scope of logic. Logical systems meant to account for
natural language inference raise issues of the scope of logic. How does logic
differ from semantics, the science of meaning in general? Logicians have often
treated only inferences turning on certain commonly used words, such as ‘not’,
‘if’, ‘and’, ‘or’, ‘all’, and ‘some’, taking them, or items in a symbolic
language that correspond to them, as logical constants. They have neglected
inferences that do not turn on them, such as My brother is married. Therefore,
I have a sister-in-law. Increasingly, however, semanticists have used ‘logic’
more broadly, speaking of the logic of belief, perception, abstraction, or even
kinship. Such uses seem to treat logic
and semantics as coextensive. Philosophers who have sought to maintain a
distinction between the semantics and logic of natural language have tried to
develop non-arbitrary criteria of logical constancy. An argument is valid
provided the truth of its premises guarantees the truth of its conclusion. This
definition relies on the notion of truth, which raises philosophical puzzles of
its own. Furthermore, it is natural to ask what kind of connection must hold
between the premises and conclusion. One answer specifies that an argument is
valid provided replacing its simple constituents with items of similar
categories while leaving logical constants intact could never produce true
premises and a false conclusion. On this view, validity is a matter of form: an
argument is valid if it instantiates a valid form. Logic thus becomes the
theory of logical form. On another view, an argument is valid if its conclusion
is true in every possible world or model in which its premises are true. This
conception need not rely on the notion of a logical constant and so is
compatible with the view that logic and semantics are coextensive. Many issues
in the philosophy of logic arise from the plethora of systems logicians have
devised. Some of these are deviant logics, i.e., logics that differ from classical
or standard logic while seeming to treat the same subject matter.
Intuitionistic logic, for example, which interprets the connectives and
quantifiers non-classically, rejecting the law of excluded middle and the
interdefinability of the quantifiers, has been supported with both semantic and
ontological arguments. Brouwer, Heyting, and others have defended it as the
proper logic of the infinite; Dummett has defended it as the correct logic of
natural language. Free logic allows non-denoting referring expressions but
interprets the quantifiers as ranging only over existing objects. Many-valued
logics use at least three truthvalues, rejecting the classical assumption of
bivalence that every formula is either
true or false. Many logical systems attempt to extend classical logic to
incorporate tense, modality, abstraction, higher-order quantification,
propositional quantification, complement constructions, or the truth predicate.
These projects raise important philosophical questions. Modal and tense logics.
Tense is a pervasive feature of natural language, and has become important to
computer scientists interested in concurrent programs. Modalities of several
sorts alethic possibility, necessity and
deontic obligation, permission, for example
appear in natural language in various grammatical guises. Provability,
treated as a modality, allows for revealing formalizations of metamathematics.
Logicians have usually treated modalities and tenses as sentential operators.
C. I. Lewis and Langford pioneered such approaches for alethic modalities; von
Wright, for deontic modalities; and Prior, for tense. In each area, many
competing systems developed; by the late 0s, there were over two hundred axiom
systems in the literature for propositional alethic modal logic alone. How
might competing systems be evaluated? Kripke’s semantics for modal logic has
proved very helpful. Kripke semantics in effect treats modal operators as
quantifiers over possible worlds. Necessarily A, e.g., is true at a world if
and only if A is true in all worlds accessible from that world. Kripke showed
that certain popular axiom systems result from imposing simple conditions on
the accessibility relation. His work spawned a field, known as correspondence
theory, devoted to studying the relations between modal axioms and conditions
on models. It has helped philosophers and logicians to understand the issues at
stake in choosing a modal logic and has raised the question of whether there is
one true modal logic. Modal idioms may be ambiguous or indeterminate with
respect to some properties of the accessibility relation. Possible worlds raise
additional ontological and epistemological questions. Modalities and tenses
seem to be linked in natural language, but attempts to bring tense and modal
logic together remain young. The sensitivity of tense to intra- and
extralinguistic context has cast doubt on the project of using operators to
represent tenses. Kamp, e.g., has represented tense and aspect in terms of
event structure, building on earlier work by Reichenbach. Truth. Tarski’s
theory of truth shows that it is possible to define truth recursively for
certain languages. Languages that can refer to their own sentences, however,
permit no such definition given Tarski’s assumptions for they allow the formulation of the liar
and similar paradoxes. Tarski concluded that, in giving the semantics for such
a language, we must ascend to a more powerful metalanguage. Kripke and others,
however, have shown that it is possible for a language permitting self-reference
to contain its own truth 680 predicate
by surrendering bivalence or taking the truth predicate indexically.
Higher-order logic. First-order predicate logic allows quantification only over
individuals. Higher-order logics also permit quantification over predicate
positions. Natural language seems to permit such quantification: ‘Mary has
every quality that John admires’. Mathematics, moreover, may be expressed
elegantly in higher-order logic. Peano arithmetic and Zermelo-Fraenkel set
theory, e.g., require infinite axiom sets in firstorder logic but are finitely
axiomatizable and categorical,
determining their models up to isomorphism
in second-order logic. Because they quantify over properties and
relations, higher-order logics seem committed to Platonism. Mathematics reduces
to higher-order logic; Quine concludes that the latter is not logic. Its most
natural semantics seems to presuppose a prior understanding of properties and
relations. Also, on this semantics, it differs greatly from first-order logic.
Like set theory, it is incomplete; it is not compact. This raises questions
about the boundaries of logic. Must logic be axiomatizable? Must it be
possible, i.e., to develop a logical system powerful enough to prove every
valid argument valid? Could there be valid arguments with infinitely many
premises, any finite fragment of which would be invalid? With an operator for
forming abstract terms from predicates, higher-order logics easily allow the
formulation of paradoxes. Russell and Whitehead for this reason adopted type
theory, which, like Tarski’s theory of truth, uses an infinite hierarchy and
corresponding syntactic restrictions to avoid paradox. Type-free theories avoid
both the restrictions and the paradoxes, as with truth, by rejecting bivalence
or by understanding abstraction indexically. Refs.: H. P. Grice, “Why I don’t
use ‘logic,’ but I use ‘semantic.’”Grice was careful with what he felt was an
abuse of ‘semantic’ – v. Evans: “Meaning and truth: essayis in semantics.”
“Well, that’s what ‘meaning’ means, right?” The semantics is more reated to the
signatum than to the significatum. The Grecians did not have anything remotely
similar to the significatum, which is all about the making (facere) of a sign
(as in Grice’s example of the handwave). This is the meaning Grice gives to
‘semantics.’ There is no need for the handwave to be part of a system of
communication, or have syntactic structure, or be ‘arbitrary.’ Still, one thing
is communicated from the emissor to his recipient, and that is all count. “I
know the route” is the message, or “I will leave you soon.” The handwave may be
ambiguous. Grice is aware that formalists like Hilbert and Gentzen think that
they can do without semantics – but as long as there is something
‘transmitted,’ or ‘messaged,’ it cannot. In the one-off predicament, Emissor E
emits x and communicates that p. Since an intention with a content involving a
psychological state is involved and attached, even in a one-off, to ‘x,’ we can
legitimately say the scenario may be said to describe a ‘semantic’ phenomenon. Grice
would freely use ‘semantic,’ and the root for ‘semantics,’ that Grice does use,
involves the richest root of all Grecian roots: the ‘semion.’ Liddell and Scott
have “τό σημεῖον,” Ion. σημήϊον , Dor. σα_μήϊον IG12(3).452 (Thera, iv B.C.),
σα_μεῖον IPE12.352.25 (Chersonesus, ii B.C.), IG5(1).1390.16 (Andania, i B.C.),
σα_μᾶον CIG5168 (Cyrene); = σῆμα in all senses, and more common in Prose, but
never in Hom. or Hes.; and which they render as “mark by which a thing is known,”
Hdt.2.38;” they also have “τό σῆμα,” Dor. σᾶμα Berl.Sitzb.1927.161 (Cyrene),
etc.; which they render as “sign, mark, token,” “ Il.10.466, 23.326, Od.19.250,
etc.” Grice lectured not only on Cat. But the next, De Int. As Arsitotle puts
it, an expression is a symbol (symbolon) or sign (semeion) of an affections or
impression (pathematon) of the soul (psyche). An affection of the soul, of
which a word is primarily a sign, are
the same for the whole of mankind, as is also objects (pragmaton) of which the
affections is a representation or likenes, image, or copiy (homoiomaton). [De Int., 1.16a4] while Grice is NOT concerned about the
semantics of utterers meaning (how could he, when he analyses means
in terms of intends , he is about
the semantics of expression-meaning. Grices
second stage (expression meaing) of his programme about meaning begins with
specifications of means as applied to x, a token of X. He is having Tarski and
Davidson in their elaborations of schemata like ‘p’ ‘means’ that p. ‘Snow
is white’ ‘means’ that snow is white, and stuff! Grice was especially concerned
with combinatories, for both unary and dyadic operators, and with multiple
quantifications within a first-order predicate calculus with identity. Since in
Grice’s initial elaboration on meaning he relies on Stevenson, it is worth
exploring how ‘semantics’ and ‘semiotics’ were interpreted by Peirce and the
emotivists. Stevenson’s main source is however in the other place, though,
under Stevenson. Semantics – communication – H. P. Grice, “Implicaturum and
Explicature: The basis of communication” – “Communication and Intention” --
philosophy of language, the philosophical study of natural language and its
workings, particularly of linguistic meaning and the use of language. A natural
language is any one of the thousands of various tongues that have developed
historically among populations of human beings and have been used for everyday
purposes including English, , Swahili,
and Latin as opposed to the formal and
other artificial “languages” invented by mathematicians, logicians, and
computer scientists, such as arithmetic, the predicate calculus, and LISP or
COBOL. There are intermediate cases, e.g., Esperanto, Pig Latin, and the sort
of “philosophese” that mixes English words with logical symbols. Contemporary
philosophy of language centers on the theory of meaning, but also includes the
theory of reference, the theory of truth, philosophical pragmatics, and the
philosophy of linguistics. The main question addressed by the theory of meaning
is: In virtue of what are certain physical marks or noises meaningful
linguistic expressions, and in virtue of what does any particular set of marks
or noises have the distinctive meaning it does? A theory of meaning should also
give a comprehensive account of the “meaning phenomena,” or general semantic
properties of sentences: synonymy, ambiguity, entailment, and the like. Some
theorists have thought to express these questions and issues in terms of
languageneutral items called propositions: ‘In virtue of what does a particular
set of marks or noises express the proposition it does?’; cf. ‘ “La neige est
blanche” expresses the proposition that snow is white’, and ‘Synonymous
sentences express the same proposition’. On this view, to understand a sentence
is to “grasp” the proposition expressed by that sentence. But the explanatory
role and even the existence of such entities are disputed. It has often been
maintained that certain special sentences are true solely in virtue of their
meanings and/or the meanings of their component expressions, without regard to
what the nonlinguistic world is like ‘No bachelor is married’; ‘If a thing is
blue it is colored’. Such vacuously true sentences are called analytic.
However, Quine and others have disputed whether there really is such a thing as
analyticity. Philosophers have offered a number of sharply competing hypotheses
as to the nature of meaning, including: 1 the referential view that words mean
by standing for things, and that a sentence means what it does because its
parts correspond referentially to the elements of an actual or possible state
of affairs in the world; 2 ideational or mentalist theories, according to which
meanings are ideas or other psychological phenomena in people’s minds; 3 “use” theories,
inspired by Vitters and to a lesser extent by J. L. Austin: a linguistic
expression’s “meaning” is its conventionally assigned role as a game-piece-like
token used in one or more existing social practices; 4 H. P. Grice’s hypothesis
that a sentence’s or word’s meaning is a function of what audience response a
typical utterer would intend to elicit in uttering it. 5 inferential role
theories, as developed by Wilfrid Sellars out of Carnap’s and Vitters’s views:
a sentence’s meaning is specified by the set of sentences from which it can
correctly be inferred and the set of those which can be inferred from it
Sellars himself provided for “language-entry” and “language-exit” moves as
partly constitutive of meaning, in addition to inferences; 6 verificationism,
the view that a sentence’s meaning is the set of possible experiences that
would confirm it or provide evidence for its truth; 7 the truth-conditional
theory: a sentence’s meaning is the distinctive condition under which it is
true, the situation or state of affairs that, if it obtained, would make the
sentence true; 8 the null hypothesis, or eliminativist view, that “meaning” is
a myth and there is no such thing a
radical claim that can stem either from Quine’s doctrine of the indeterminacy
of translation or from eliminative materialism in the philosophy of mind.
Following the original work of Carnap, Alonzo Church, Hintikka, and Richard
Montague in the 0s, the theory of meaning has made increasing use of “possible
worlds”based intensional logic as an analytical apparatus. Propositions
sentence meanings considered as entities, and truth conditions as in 7 above,
are now commonly taken to be structured sets of possible worlds e.g., the set of worlds in which Aristotle’s
maternal grandmother hates broccoli. And the structure imposed on such a set,
corresponding to the intuitive constituent structure of a proposition as the
concepts ‘grandmother’ and ‘hate’ are constituents of the foregoing
proposition, accounts for the meaning-properties of sentences that express the
proposition. Theories of meaning can also be called semantics, as in “Gricean
semantics” or “Verificationist semantics,” though the term is sometimes
restricted to referential and/or truth-conditional theories, which posit
meaning-constitutive relations between words and the nonlinguistic world.
Semantics is often contrasted with syntax, the structure of grammatically
permissible ordering relations between words and other words in well-formed
sentences, and with pragmatics, the rules governing the use of meaningful
expressions in particular speech contexts; but linguists have found that
semantic phenomena cannot be kept purely separate either from syntactic or from
pragmatic phenomena. In a still more specialized usage, linguistic semantics is
the detailed study typically within the truth-conditional format of particular
types of construction in particular natural languages, e.g., belief-clauses in
English or adverbial phrases in Kwakiutl. Linguistic semantics in that sense is
practiced by some philosophers of language, by some linguists, and occasionally
by both working together. Montague grammar and situation semantics are common
formats for such work, both based on intensional logic. The theory of
referenceis pursued whether or not one accepts either the referential or the
truthconditional theory of meaning. Its main question is: In virtue of what
does a linguistic expression designate one or more things in the world? Prior
to theorizing and defining of technical uses, ‘designate’, ‘denote’, and
‘refer’ are used interchangeably. Denoting expressions are divided into
singular terms, which purport to designate particular individual things, and
general terms, which can apply to more than one thing at once. Singular terms
include proper names ‘Cindy’, ‘Bangladesh’, definite descriptions ‘my brother’,
‘the first baby born in the New World’, and singular pronouns of various types
‘this’, ‘you’, ‘she’. General terms include common nouns ‘horse’, ‘trash can’,
mass terms ‘water’, ‘graphite’, and plural pronouns ‘they’, ‘those’. The
twentieth century’s dominant theory of reference has been the description
theory, the view that linguistic terms refer by expressing descriptive features
or properties, the referent being the item or items that in fact possess those
properties. For example, a definite description does that directly: ‘My
brother’ denotes whatever person does have the property of being my brother.
According to the description theory of proper names, defended most articulately
by Russell, such names express identifying properties indirectly by
abbreviating definite descriptions. A general term such as ‘horse’ was thought
of as expressing a cluster of properties distinctive of horses; and so forth.
But the description theory came under heavy attack in the late 0s, from Keith
Donnellan, Kripke, and Putnam, and was generally abandoned on each of several
grounds, in favor of the causal-historical theory of reference. The
causal-historical idea is that a particular use of a linguistic expression
denotes by being etiologically grounded in the thing or group that is its
referent; a historical causal chain of a certain shape leads backward in time
from the act of referring to the referents. More recently, problems with the
causal-historical theory as originally formulated have led researchers to
backpedal somewhat and incorporate some features of the description theory.
Other views of reference have been advocated as well, particularly analogues of
some of the theories of meaning listed above
chiefly 26 and 8. Modal and propositional-attitude contexts create
special problems in the theory of reference, for referring expressions seem to
alter their normal semantic behavior when they occur within such contexts. Much
ink has been spilled over the question of why and how the substitution of a
term for another term having exactly the same referent can change the
truth-value of a containing modal or propositional-attitude sentence.
Interestingly, the theory of truth historically predates articulate study of
meaning or of reference, for philosophers have always sought the nature of
truth. It has often been thought that a sentence is true in virtue of
expressing a true belief, truth being primarily a property of beliefs rather
than of linguistic entities; but the main theories of truth have also been
applied to sentences directly. The correspondence theory maintains that a
sentence is true in virtue of its elements’ mirroring a fact or actual state of
affairs. The coherence theory instead identifies truth as a relation of the
true sentence to other sentences, usually an epistemic relation. Pragmatic
theories have it that truth is a matter either of practical utility or of
idealized epistemic warrant. Deflationary views, such as the traditional
redundancy theory and D. Grover, J. Camp, and N. D. Belnap’s prosentential
theory, deny that truth comes to anything more important or substantive than
what is already codified in a recursive Tarskian truth-definition for a
language. Pragmatics studies the use of language in context, and the
context-dependence of various aspects of linguistic interpretation. First, one
and the same sentence can express different meanings or propositions from
context to context, owing to ambiguity or to indexicality or both. An ambiguous
sentence has more than one meaning, either because one of its component words
has more than one meaning as ‘bank’ has or because the sentence admits of more
than one possible syntactic analysis ‘Visiting doctors can be tedious’, ‘The
mouse tore up the street’. An indexical sentence can change in truth-value from
context to context owing to the presence of an element whose reference
fluctuates, such as a demonstrative pronoun ‘She told him off yesterday’, ‘It’s
time for that meeting now’. One branch of pragmatics investigates how context
determines a single propositional meaning for a sentence on a particular
occasion of that sentence’s use. Speech act theory is a second branch of
pragmatics that presumes the propositional or “locutionary” meanings of
utterances and studies what J. L. Austin called the illocutionary forces of
those utterances, the distinctive types of linguistic act that are performed by
the speaker in making them. E.g., in uttering ‘I will be there tonight’, a
speaker might be issuing a warning, uttering a threat, making a promise, or
merely offering a prediction, depending on conventional and other social
features of the situation. A crude test of illocutionary force is the “hereby”
criterion: one’s utterance has the force of, say, a warning, if it could fairly
have been paraphrased by the corresponding “explicitly performative” sentence
beginning ‘I hereby warn you that . . .’..Speech act theory interacts to some
extent with semantics, especially in the case of explicit performatives, and it
has some fairly dramatic syntactic effects as well. A third branch of
pragmatics not altogether separate from the second is the theory of
conversation or theory of implicaturum, founded by H. P. Grice. Grice notes
that sentences, when uttered in particular contexts, often generate
“implications” that are not logical consequences of those sentences ‘Is Jones a
good philosopher?’ ’He has very neat
handwriting’. Such implications can usually be identified as what the speaker
meant in uttering her sentence; thus for that reason and others, what Grice
calls utterer’s meaning can diverge sharply from sentence-meaning or “timeless”
meaning. To explain those non-logical implications, Grice offered a now widely
accepted theory of conversational implicaturum. Conversational implicaturums
arise from the interaction of the sentence uttered with mutually shared
background assumptions and certain principles of efficient and cooperative
conversation. The philosophy of linguistics studies the academic discipline of
linguistics, particularly theoretical linguistics considered as a science or
purported science; it examines methodology and fundamental assumptions, and
also tries to incorporate linguists’ findings into the rest of philosophy of
language. Theoretical linguistics concentrates on syntax, and took its
contemporary form in the 0s under Zellig Harris and Chomsky: it seeks to
describe each natural language in terms of a generative grammar for that
language, i.e., a set of recursive rules for combining words that will generate
all and only the “well-formed strings” or grammatical sentences of that
language. The set must be finite and the rules recursive because, while our
informationprocessing resources for recognizing grammatical strings as such are
necessarily finite being subagencies of our brains, there is no limit in any
natural language either to the length of a single grammatical sentence or to
the number of grammatical sentences; a small device must have infinite
generative and parsing capacity. Many grammars work by generating simple “deep
structures” a kind of tree diagram, and then producing multiple “surface
structures” as variants of those deep structures, by means of rules that
rearrange their parts. The surface structures are syntactic parsings of
natural-language sentences, and the deep structures from which they derive
encode both basic grammatical relations between the sentences’ major
constituents and, on some theories, the sentences’ main semantic properties as
well; thus, sentences that share a deep structure will share some fundamental
grammatical properties and all or most of their semantics. As Paul Ziff and
Davidson saw in the 0s, the foregoing syntactic problem and its solution had
semantic analogues. From small resources, human speakers understand compute the meanings of arbitrarily long and novel sentences without
limit, and almost instantaneously. This ability seems to require semantic
compositionality, the thesis that the meaning of a sentence is a function of
the meanings of its semantic primitives or smallest meaningful parts, built up
by way of syntactic compounding. Compositionality also seems to be required by
learnability, since a normal child can learn an infinitely complex dialect in
at most two years, but must learn semantic primitives one at a time. A grammar
for a natural language is commonly taken to be a piece of psychology, part of
an explanation of speakers’ verbal abilities and behavior. As such, however, it
is a considerable idealization: it is a theory of speakers’ linguistic
“competence” rather than of their actual verbal performance. The latter
distinction is required by the fact that speakers’ considered, reflective
judgments of grammatical correctness do not line up very well with the class of
expressions that actually are uttered and understood unreflectively by those
same speakers. Some grammatical sentences are too hard for speakers to parse
quickly; some are too long to finish parsing at all; speakers commonly utter
what they know to be formally ungrammatical strings; and real speech is usually
fragmentary, interspersed with vocalizations, false starts, and the like.
Actual departures from formal grammaticality are ascribed by linguists to
“performance limitations,” i.e., psychological factors such as memory failure,
weak computational capacity, or heedlessness; thus, actual verbal behavior is
to be explained as resulting from the perturbation of competence by performance
limitations. Refs.: The main sources are
his lectures on language and reality – part of them repr. in WOW. The keywords
under ‘communication,’ and ‘signification,’ that Grice occasionally uses ‘the
total signification’ of a remark, above, BANC. -- semantic holism, a
metaphysical thesis about the nature of representation on which the meaning of
a symbol is relative to the entire system of representations containing it.
Thus, a linguistic expression can have meaning only in the context of a
language; a hypothesis can have significance only in the context of a theory; a
concept can have intentionality only in the context of the belief system.
Holism about content has profoundly influenced virtually every aspect of
contemporary theorizing about language and mind, not only in philosophy, but in
linguistics, literary theory, artificial intelligence, psychology, and
cognitive science. Contemporary semantic holists include Davidson, Quine,
Gilbert Harman, Hartry Field, and Searle. Because semantic holism is a
metaphysical and not a semantic thesis, two theorists might agree about the
semantic facts but disagree about semantic holism. So, e.g., nothing in
Tarski’s writings determines whether the semantic facts expressed by the
theorems of an absolute truth semantic atomism semantic holism 829 829 theory are holistic or not. Yet
Davidson, a semantic holist, argued that the correct form for a semantic theory
for a natural language L is an absolute truth theory for L. Semantic theories,
like other theories, need not wear their metaphysical commitments on their
sleeves. Holism has some startling consequences. Consider this. Franklin D. Roosevelt
who died when the United States still had just forty-eight states did not
believe there were fifty states, but I do; semantic holism says that what
‘state’ means in our mouths depends on the totality of our beliefs about
states, including, therefore, our beliefs about how many states there are. It
seems to follow that he and I must mean different things by ‘state’; hence, if
he says “Alaska is not a state” and I say “Alaska is a state” we are not
disagreeing. This line of argument leads to such surprising declarations as
that natural langauges are not, in general, intertranslatable Quine, Saussure;
that there may be no fact of the matter about the meanings of texts Putnam,
Derrida; and that scientific theories that differ in their basic postulates are
“empirically incommensurable” Paul Feyerabend, Kuhn. For those who find these
consequences of semantic holism unpalatable, there are three mutually exclusive
responses: semantic atomism, semantic molecularism, or semantic nihilism.
Semantic atomists hold that the meaning of any representation linguistic,
mental, or otherwise is not determined by the meaning of any other
representation. Historically, Anglo- philosophers in the eighteenth and
nineteenth centuries thought that an idea of an X was about X’s in virtue of
this idea’s physically resembling X’s. Resemblance theories are no longer
thought viable, but a number of contemporary semantic atomists still believe
that the basic semantic relation is between a concept and the things to which
it applies, and not one among concepts themselves. These philosophers include
Dretske, Dennis Stampe, Fodor, and Ruth Millikan. Semantic molecularism, like
semantic holism, holds that the meaning of a representation in a language L is
determined by its relationships to the meanings of other expressions in L, but,
unlike holism, not by its relationships to every other expression in L.
Semantic molecularists are committed to the view, contrary to Quine, that for
any expression e in a language L there is an in-principle way of distinguishing
between those representations in L the meanings of which determine the meaning
of e and those representations in L the meanings of which do not determine the
meaning of e. Traditionally, this inprinciple delimitation is supported by an analytic/synthetic
distinction. Those representations in L that are meaning-constituting of e are
analytically connected to e and those that are not meaning-constituting are
synthetically connected to e. Meaning molecularism seems to be the most common
position among those philosophers who reject holism. Contemporary meaning
molecularists include Michael Devitt, Dummett, Ned Block, and John Perry.
Semantic nihilism is perhaps the most radical response to the consequences of
holism. It is the view that, strictly speaking, there are no semantic
properties. Strictly speaking, there are no mental states; words lack meanings.
At least for scientific purposes and perhaps for other purposes as well we must
abandon the notion that people are moral or rational agents and that they act
out of their beliefs and desires. Semantic nihilists include among their ranks
Patricia and Paul Churchland, Stephen Stich, Dennett, and, sometimes,
Quine. -- semantic paradoxes, a
collection of paradoxes involving the semantic notions of truth, predication,
and definability. The liar paradox is the oldest and most widely known of
these, having been formulated by Eubulides as an objection to Aristotle’s
correspondence theory of truth. In its simplest form, the liar paradox arises
when we try to assess the truth of a sentence or proposition that asserts its
own falsity, e.g.: A Sentence A is not true. It would seem that sentence A
cannot be true, since it can be true only if what it says is the case, i.e., if
it is not true. Thus sentence A is not true. But then, since this is precisely
what it claims, it would seem to be true. Several alternative forms of the liar
paradox have been given their own names. The postcard paradox, also known as a
liar cycle, envisions a postcard with sentence B on one side and sentence C on
the other: B The sentence on the other side of this card is true. semantic
molecularism semantic paradoxes 830
830 C The sentence on the other side of this card is false. Here, no consistent
assignment of truth-values to the pair of sentences is possible. In the preface
paradox, it is imagined that a book begins with the claim that at least one
sentence in the book is false. This claim is unproblematically true if some
later sentence is false, but if the remainder of the book contains only truths,
the initial sentence appears to be true if and only if false. The preface
paradox is one of many examples of contingent liars, claims that can either
have an unproblematic truth-value or be paradoxical, depending on the truth-values
of various other claims in this case, the remaining sentences in the book.
Related to the preface paradox is Epimenedes’ paradox: Epimenedes, himself from
Crete, is said to have claimed that all Cretans are liars. This claim is
paradoxical if interpreted to mean that Cretans always lie, or if interpreted
to mean they sometimes lie and if no other claim made by Epimenedes was a lie.
On the former interpretation, this is a simple variation of the liar paradox;
on the latter, it is a form of contingent liar. Other semantic paradoxes
include Berry’s paradox, Richard’s paradox, and Grelling’s paradox. The first
two involve the notion of definability of numbers. Berry’s paradox begins by
noting that names or descriptions of integers consist of finite sequences of
syllables. Thus the three-syllable sequence ‘twenty-five’ names 25, and the
seven-syllable sequence ‘the sum of three and seven’ names ten. Now consider
the collection of all sequences of English syllables that are less than
nineteen syllables long. Of these, many are nonsensical ‘bababa’ and some make
sense but do not name integers ‘artichoke’, but some do ‘the sum of three and
seven’. Since there are only finitely many English syllables, there are only
finitely many of these sequences, and only finitely many integers named by
them. Berry’s paradox arises when we consider the eighteen-syllable sequence
‘the smallest integer not nameable in less than nineteen syllables’. This
phrase appears to be a perfectly well-defined description of an integer. But if
the phrase names an integer n, then n is nameable in less than nineteen
syllables, and hence is not described by the phrase. Richard’s paradox
constructs a similarly paradoxical description using what is known as a
diagonal construction. Imagine a list of all finite sequences of letters of the
alphabet plus spaces and punctuation, ordered as in a dictionary. Prune this
list so that it contains only English definitions of real numbers between 0 and
1. Then consider the definition: “Let r be the real number between 0 and 1
whose kth decimal place is if the kth
decimal place of the number named by the kth member of this list is 1, and 0
otherwise’. This description seems to define a real number that must be
different from any number defined on the list. For example, r cannot be defined
by the 237th member of the list, because r will differ from that number in at
least its 237th decimal place. But if it indeed defines a real number between 0
and 1, then this description should itself be on the list. Yet clearly, it
cannot define a number different from the number defined by itself. Apparently,
the definition defines a real number between 0 and 1 if and only if it does not
appear on the list of such definitions. Grelling’s paradox, also known as the
paradox of heterologicality, involves two predicates defined as follows. Say
that a predicate is “autological” if it applies to itself. Thus ‘polysyllabic’
and ‘short’ are autological, since ‘polysyllabic’ is polysyllabic, and ‘short’
is short. In contrast, a predicate is “heterological” if and only if it is not
autological. The question is whether the predicate ‘heterological’ is
heterological. If our answer is yes, then ‘heterological’ applies to
itself and so is autological, not
heterological. But if our answer is no, then it does not apply to itself and so is heterological, once again
contradicting our answer. The semantic paradoxes have led to important work in
both logic and the philosophy of language, most notably by Russell and Tarski.
Russell developed the ramified theory of types as a unified treatment of all
the semantic paradoxes. Russell’s theory of types avoids the paradoxes by
introducing complex syntactic conditions on formulas and on the definition of
new predicates. In the resulting language, definitions like those used in
formulating Berry’s and Richard’s paradoxes turn out to be ill-formed, since
they quantify over collections of expressions that include themselves,
violating what Russell called the vicious circle principle. The theory of types
also rules out, on syntactic grounds, predicates that apply to themselves, or
to larger expressions containing those very same predicates. In this way, the
liar paradox and Grelling’s paradox cannot be constructed within a language
conforming to the theory of types. Tarski’s attention to the liar paradox made
two fundamental contributions to logic: his development of semantic techniques
for defining the truth predicate for formalized languages and his proof of
Tarski’s theorem. Tarskian semantics avoids the liar paradox by starting with a
formal language, call it L, in which no semantic notions are expressible, and
hence in which the liar paradox cannot be formulated. Then using another
language, known as the metalanguage, Tarski applies recursive techniques to define
the predicate true-in-L, which applies to exactly the true sentences of the
original language L. The liar paradox does not arise in the metalanguage,
because the sentence D Sentence D is not true-in-L. is, if expressible in the
metalanguage, simply true. It is true because D is not a sentence of L, and so
a fortiori not a true sentence of L. A truth predicate for the metalanguage can
then be defined in yet another language, the metametalanguage, and so forth,
resulting in a sequence of consistent truth predicates. Tarski’s theorem uses
the liar paradox to prove a significant result in logic. The theorem states
that the truth predicate for the first-order language of arithmetic is not
definable in arithmetic. That is, if we devise a systematic way of representing
sentences of arithmetic by numbers, then it is impossible to define an
arithmetical predicate that applies to all and only those numbers that
represent true sentences of arithmetic. The theorem is proven by showing that
if such a predicate were definable, we could construct a sentence of arithmetic
that is true if and only if it is not true: an arithmetical version of sentence
A, the liar paradox. Both Russell’s and Tarski’s solutions to the semantic
paradoxes have left many philosophers dissatisfied, since the solutions are
basically prescriptions for constructing languages in which the paradoxes do
not arise. But the fact that paradoxes can be avoided in artificially
constructed languages does not itself give a satisfying explanation of what is
going wrong when the paradoxes are encountered in natural language, or in an
artificial language in which they can be formulated. Most recent work on the
liar paradox, following Kripke’s “Outline of a Theory of Truth” 5, looks at
languages in which the paradox can be formulated, and tries to provide a
consistent account of truth that preserves as much as possible of the intuitive
notion.
semeiotics: semiological: or is it semiotics? Cf. semiological,
semotic. Since Grice uses ‘philosophical psychology’ and ‘philosopical
biology,’ it may do to use ‘semiology,’ indeed ‘philosophical semiology,’ here.
Oxonian semiotics is unique. Holloway
published his “Language and Intelligence” and everyone was excited. It is best
to see this as Grices psychologism. Grice would rarely use ‘intelligent,’ less
so the more pretentious, ‘intelligence,’ as a keyword. If he is doing it, it is
because what he saw as the misuse of it by Ryle and Holloway. Holloway, a PPE,
is a tutorial fellow in philosophy at All Souls. He acknowledges Ryle as his
mentor. (Holloway also quotes from Austin). Grice was amused that J. N.
Findlay, in his review of Holloway’s essay in “Mind,” compares Holloway to C.
W. Morris, and cares to cite the two relevant essay by Morris: The Foundation
in the theory of signs, and Signs, Language, and Behaviour. Enough for Grice to
feel warmly justified in having chosen another New-World author, Peirce, for
his earlier Oxford seminar. Morris studied under G. H. Mead. But is
‘intelligence’ part of The Griceian Lexicon?Well, Lewis and Short have
‘interlegere,’ to chose between. Lewis and Short have ‘interlĕgo , lēgi, lectum,
3, v. a., I’.which they render it as “to cull or pluck off here and there
(poet. and postclass.).in tmesi) uncis Carpendae manibus frondes, interque
legendae, Verg. G. 2, 366: “poma,” Pall. Febr. 25, 16; id. Jun. 5, 1.intellĕgo (less
correctly intellĭgo), exi, ectum (intellexti for intellexisti, Ter. Eun. 4, 6,
30; Cic. Att. 13, 32, 3: I.“intellexes for intellexisses,” Plaut. Cist. 2, 3,
81; subj. perf.: “intellegerint,” Sall. H. Fragm. 1, 41, 23 Dietsch);
“inter-lego,” “to see into, perceive, understand.” I. Lit. A. Lewis and Short
render as “to perceive, understand, comprehend.” Cf. Grice on his handwriting
being legible to few. And The child is an adult as being UNintelligible until
the creature is produced. In “Aspects,” he mentions flat rationality, and
certain other talents that are more difficult for the philosopher to
conceptualise, such as nose (i.e. intuitiveness), acumen, tenacity, and
such. Grices approach is Pological. If Locke had used intelligent to refer
to Prince Maurices parrot, Grice wants to find criteria for intelligent as
applied to his favourite type of P, rather (intelligent, indeed rational.). semiosis
from Grecian semeiosis, ‘observation of signs’, the relation of signification
involving the three relata of sign, object, and mind. Semiotic is the science
or study of semiosis. The semiotic of John of Saint Thomas and of Peirce
includes two distinct components: the relation of signification and the
classification of signs. The relation of signification is genuinely triadic and
cannot be reduced to the sum of its three subordinate dyads: sign-object,
sign-mind, object-mind. A sign represents an object to a mind just as A gives a
gift to B. Semiosis is not, as it is often taken to be, a mere compound of a
sign-object dyad and a sign-mind dyad because these dyads lack the essential
intentionality that unites mind with object; similarly, the gift relation
involves not just A giving and B receiving but, crucially, the intention
uniting A and B. In the Scholastic logic of John of Saint Thomas, the
sign-object dyad is a categorial relation secundum esse, that is, an essential
relation, falling in Aristotle’s category of relation, while the sign-mind dyad
is a transcendental relation secundum dici, that is, a relation only in an
analogical sense, in a manner of speaking; thus the formal rationale of
semiosis is constituted by the sign-object dyad. By contrast, in Peirce’s
logic, the sign-object dyad and the sign-mind dyad are each only potential
semiosis: thus, the hieroglyphs of ancient Egypt were merely potential signs
until the discovery of the Rosetta Stone, just as a road-marking was a merely
potential sign to the driver who overlooked it. Classifications of signs
typically follow from the logic of semiosis. Thus John of Saint Thomas divides
signs according to their relations to their objects into natural signs smoke as
a sign of fire, customary signs napkins on the table as a sign that dinner is
imminent, and stipulated signs as when a neologism is coined; he also divides
signs according to their relations to a mind. An instrumental sign must first
be cognized as an object before it can signify e.g., a written word or a
symptom; a formal sign, by contrast, directs the mind to its object without
having first been cognized e.g., percepts and concepts. Formal signs are not
that which we cognize but that by which we cognize. All instrumental signs
presuppose the action of formal signs in the semiosis of cognition. Peirce
similarly classified signs into three trichotomies according to their relations
with 1 themselves, 2 their objects, and 3 their interpretants usually minds;
and Charles Morris, who followed Peirce closely, called the relationship of
signs to one another the syntactical dimension of semiosis, the relationship of
signs to their objects the semantical dimension of semiosis, and the
relationship of signs to their interpreters the pragmatic dimension of
semiosis. Refs.: The most specific essay
is his lecture on Peirce, listed under ‘communication, above. A reference to
‘criteria of intelligence relates. The H. P. Grice Papers, BANC.
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