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Friday, May 6, 2022

GRICE E CARDANO: MAESTRI

 Illustrare 'k iSlosofia di Pier Lomb'airdo finora casi tra-  scurata -dagli' storici della filosofia è im lavoro del tutto  nuovo spedialmente per lltalia.   Il Protois (1) affe!rim»a decisamente che Pier Lomb'airdo  non fu un filosofo, THaureau (2) ch'egli fu il principe degli  indifferenti in materia fìTosoflca, ma entrambe le asserzioni  sono affrettate.   Solo in Germania il Lombardo venne studiato con mag-  gior serietà e con particolare attenzione!. Nel 1897 Giulio  Kógel (3) pubblicò a Lipsia una monognalia su Pier Lom-  bardo : questa però parve confusa ed inesatta al dr. loh.  Nep. Espenberger (4) che nel 1901 intraprese un studio a-  curatissimo della Filosofia di Pier Lombardo e della po-  sizione sua nel secolo decimosecondo, nel terzo volume,  parte quinta, dei Beitràge zur Geschichte der Philosophie  des Mittelalter8 diretti da G. BàumJcer e G. Freih. Von  Herttìng. Di tale pubblicazione mi servii in special modo     (1) Op. cit. pag. 41: Ifotre auteur ne fui donc pas un phUosophe.   (2) De la philosophie scolastique — Paris, 1850, Voi. I^pag. 330:  Cesi lui qua notes reconnaissons corame le chef des indiffèrents en ma-  tière de philosophie.   (3) Petrus Lombardus in s. SteUung z. - Phil. d. Mittelal - Lei-  pzig 1897.   (4) Die philosophie des Petrus Lombardus und ihre Stellung im  vwblften Jahrhundert. Aschendorffschen Milnster 190X,     72   per questi miei «appunti sulla filosofìa del Lombardo seb-  bene mi «pervenisse al momento di stenderli e troppo lardi  per farne Fesaane minuto che essa si merita. Poiché è ve-  ramente questo il primo lavoro che si occupa con severa  e profonda indagine oritioa del pensie<ro filosofico del Mae-  stro delle Sentenze. L'autore dimostra una profonda co-  noscenza delle opere patristiche e delle scritture sacre  colle quali esercita opportuni raffronti. Egli non si è poi  solo limitato all'esame del Libro delle Sentenze, ma ha  giustamente esteso le sue indagini alle altre opere meno  conosciute del Lombardo e pure ricche di impvortanti di-  gressioni filosofiche, quali il Commentano o Gloessa dei  Salmi detto anche Salterio, ed i Commentarli alle Epi-  stole di S. Paolo. Solo non ha tenuto conto dei Sermoni  che sottio tra le cose più interessanti se non più belle del  Sentenz.iario, «pur nel severo giudizio di Hanreau e Bour-  gain (1), di cui il Protois ha tratto dai mss. degli utili  estratti mentre se ne trova l'intero testo con poche varianti  nelle Opere Omnia del vescovo Ildeberto-. Essi sono utili  per completare la figura intellettuale di Pier Lombardo.   Del quale a questo punto ripeleremo le parole: sed  terrei immensitas laboris. In verità quantunque grande  sia la nostra buona volontà non ci dissimuliamo la vastità  del lavoro intrapreso : onde lo restringeremo entro i limiti  a noi concessi, raffigurandoci un poco a quello spigolatore  che move fidente sulle orme dei più abili mietitori pago di  fare un piccolo fascio delle spighe dimenticate.     (1) HAUREàU — Not. et Extr. t. Ili p. 49.  BouBGAiN — La chaire firancaisc au XII siede Paris, 1789 p. 46,  47 - cfr. FjsBitT (La faculiè de Theol, L 81).     78     CAPITOLO I.   POSIZIONE DI PIER LOMBARDO  NELLA FILOSOFIA     J^^todo.     I Padri della Chiesa iniziarono la tìiosofia oristiana,  ma in forma espositiva, avendo ripugnanza a sottopome ^  troppo minute dimostrazioni le verità rivelale. Era secon-  do il pensiero di S. Gregorio una profanazione Fassogget-  tare il Verbo divino alle regole di Donato. Ma quando nel  secolo XII, prima chei si diffondessero per tutta Europa le  traduzioni arabe di Aristotile, si attese a studiare con a-  more i libri delYOrganum tradotti da Boezio (1), si ac-  cese quella tendenza già iniziata nei secoli aotecedeiiti a  fortificare il dogma' col sillogismo e l'autorità della ragione.   Da questo connubio della teologia colla dialettica ari-  stotelica nacque la scolastica la quale se ha i suoi precursoiri  nei primi secoli del cristianesimo non riconosce i suoi veri  fondatori che nel secolo di Abelardo e di Pier Lombardo.  Essa nasceva per una necessità di rendere più conformei la  fede al sapere più progredito. E se da una parte non ces-  sava di fiorire la .scuola dei mistici con S. Bernardo e gli     (1) Ai tempi di Abelardo e di Pier Lombardo non si possedeva  altro d'Aristotile che la logica, cioè ciò che si chiama l'Organum e  comprendeva: le Categorie coll'introduzione di Porfirio, l'Ermeneu-  tica, gli Analitici, i Topici, la Sofistica nella traduzione di Boezio,  (Cousm — Fragments philosophiques Paris, 1847 II, 57)     ••     74   abati Ugo e Riccardo di S. Vittore (1), da un'altra il mal  compresso bisogno di libertà di pensiero apriva la via ad  interminabili dispute quali giungevano talvolta ad intacca-  re il dogma, come accadde per Abelardo. Pier Lombardo  apparve come moderatore tra le due opposte tendenze: la  mistica e la speculativa, e valendosi dello stesso metodo  dialettico usato dagli avversarti eerli si propose di dimo-  strare come le apparenti contraddizioni che si rileivano  nelle Scritture sacre e patristiche rischi'arate dalla ra-  gione riconducono a rinvigorire maggiormente te verità  della fede.   Egli però nel Prologo delle Sentenze si scaglia contro  coloro qui non rationi voluntatem suhiiciunt, che la ra-  gion sommettono al talento, tradurrebbe Dante, e vogliono  fare credere per verità, i sogni di lor mente inferma :   « Qui non irationi voluntatem subiiciunt, nec dodri-  nae studium impendunt, sed his quae somniarunt sa-  pientiae verba coaptare nituntiu", non veri sed placiti etiam  sectantes... ».   Pier Lombardo era dunque tenuto dallo stesso compito  che egli si era pronosto, cioè di dimostrare cHte nelle  scritture sacre non v'ha vera sconcordanza e che ogni ra-  gionamento umano si riduce in ultima analisi a dimo-  strarne la veracità assoluta, a non imporra egli stesso  nuove e diverse dottrine le auala lo avrebbero condotto  fuori della sua seo-ena imparzialità. Se ciò si possa chia-  mare indifferentismo io non so, poiché il Maestro dèlie  Sentenze non sdegna di entrare e di approfondirsi nelle  più minute distinzioni e controversite fìlosiofìche, cosi care  ai suoi tempi, sforzandosi con nassione di ricavarne le  verità da lui srià piresupposte. Nella sua umiltà che diventò  poi lefir-srendaria esrli pr*eferisce lasciar la parola affli altri,  a S. Gerolamo, a S. Ambrogio, e specialmente a S. Ago-  stino che è il stio autore preferito come quello che suipera  tutti srli altri padri per profondità di vedute e co-pia di ar-  gomenti nelle questioni fondamentali del dogma. Ma non  è vero che il Maestro rimanga empire nascosto e non ap-     (2) Questi ultimi conobbero oltre Aristotile anche Platone a cui  sembrano dare la preferenza e non furono del tutto stranieri alle  vedute dei neoplatonici. Vedi R. Bòbba La dottrina dell* intelletto in  Aristotile e nei 8140Ì pie illustri commentatori pag. 235 sgg.     75   paia di tratto in tratto a mostrarci la via da seguire, per  non perderci nel djedalo inestricabile delle questioni.   JJei «resto i più che hanno parlato di Pier Lombardo  si sono aoconlentati di scorrere i libri delle Sentenze: non  hanno letto i suoi lunghi e «lucidi Commentarii alle Epistole  di S. Paolo, e neppure quelli ai Salmi che egli riunì sotto  il titolo sintetico di Pscdterium, nom^ i sjuoì ispirati Sermoni  che si trovano manoscritti alla Biblioteca Nazionale di  Parigi, e stampati tra quelli del vescovo Ildeberlo. In tutte  queste opere il Lombairao non è solo un puro e disadorno  espositore di dottrine. Certamente il Maestro va conside-  rato precipuamente mei suo libro delle Sentenze, il quale  lormò testo nelle scuole e fu letto e commentato più della  Bibbia per lunghi secoli, mentre le altre opere vennero più  presto dimenticate. Ma anche qui se egli non espose dot-  trine nuove, ebbe però il merito grande e riconosciuto da  tutti gli storici della filosofia di distribuirle con metodo  razionale, cosi che esse ricevevano lume le une dalle altre.  Metodo già sperimentato con altro intento da Abelardo, ma  dal Nostro condotto a singolare perfezione (1).   Egli slesso suH'autorità di Sant'Agostino, espone Tor-  dine col quale si deve disputare in materia teologica e sper  cialmente della Trinità che è il punto fondamentale della  dottrina dogmatica (Sent. I, 1, 2, 3,): (2).   « Gaeterum, ut in primo libro de Trinitate Augustinus  docet, primo secundum auctoritates Sanctarum Scriptura-  nim utrum fides ita ee habeat demonstrandum est. Deinde  adversus gamilos ratiocinatores elaliores magis quam  capaciores, rationibus catholicis et similitudinibus congniis  ad defensdonem et assertioneim fidei utendum est; ut eorum  inquisitionibus satisf<icientes, mansuetos plenius instrua-  mus et illi si nequiverunt invenire quod quaerunt, de suis  menlibus polius quam de ipsa veritate vel de nostra as-  sertione conquerantur ».     (1) Il Deniflb in Carivi, Univer. Paris IntrodttcHo p. XXVII  Methodus Abaelardi in IHo etiam opere quod in schoh's Theologiae  per aliquot saecula adhibebatur usurpata est, dicimus Sententias  Magistri P. Lombardi.   (2) Per queste come per le altre numerose citazioni delle opere  di Pier Lombardo ci serviamo dei volumi 191-192 della Patrologia  del Migne Petri Lombardi Opera Omnia^ Paris 1854-55.     76   Fu in apecia»! modo ai metodo da mi usato che si  deve J'eaiorme diffusione del libro delle Sentenze nelle  scuole (1). Esso nel mentre veniva a soddisfare la naturiate  curiosità del conoscere ed a dare la spiegazione di molte  credenze poneva dei limiti alla libertà del raziocinio. Ma  veniva sempre lasciato un cantuccio alle discussioni inter-  mmabili sulle questioni minori, dalla risoluzione deUe  quali in un senso o in un altro poco aveva a soffrirne l'or-  todossia. yui si esercitavano le intelligenze, inquisitionibus  satisfacientes, smaniose di sottilizzare e di sillogizzare, con  tanta maggior sicurezza, quanto minore era il pericolo di  intaccare la fede (2). Lo stesso Pier Lombardo nel suo  Libro non si trattiene dal diffondersi nell'esame di queh  stioni che a noi sembrano del tutto .futili e vane come queUe  ad esempio che riguardano la natura degli angeli (3. E  non è raro anche il caso che le lasci insolute. Cosi nel  libro primo, laddove domanda perchè mentre amare è lo  stesso che essere, si dice che il Padre ed il Figliuolo non  sono in essenza costituiti deiramore col quale si amaaio  scambievolmente, confessa miodestamente che la questione  gli sembra troppo difficile e che egli si propone più di ri-  portare le dottrine» dei Padri che di accrescerle: (seait. 1.  dist. XXXI1,9) « Diffìcile mihi fateor hanc quaesti onem,  praecipue cum ex praedictis oriatur quaei siniilem videntur  habere rationem'; quod meaei intelligentiae attendens infir-  mitas turbatur, cupiens magis ea dictis sanctorum referre     (1) Il De Vulf — Hist, de la phil. medievale {Louvain 1900) come  il Dknefle (loc. cit.) da un troppo reciso apprezzamento: (pag. 209)  Ces sinthèses thèologiquea, dont la premiere idee semble appartenir  à Abelardo ètaient appellées a un succès immense. Il faut en cher-  cher le secret dans le besoins de la classification et d' orgànisation  qu^on eprouvait devant la masse des materiaux rassemblès,b]en plus  que dans T originante de ceux qui ont appose leur signature a ce  travail de mise en oeuvre.   (2) Cosicché il libro fatto per conciliare ogni controversia sembrò  sortire l'effetto contrario. Erasmits in Mattaei I, iP (cit. daFabricius,  Bib. m. aevi) e Siquidem apparet illum hoc egisse ut semel coUectis  quae ad rem pertinpbant, questiones omnes excluderet. Sed ea res  in diversum exiit. Videmus enim ex eo opere nunquam fìnìendarum  quaestionum non exanima sed maria prorupisse.   (3) Flettrt — Hist eccl. Paris, 1119 Tom. XII Liv. LXX Gap.  XXXV.     ri   quam uff erre >k E limsce col coaicmiDa^e : « Eam tameu  quaestionjeon leolorum ddligentiae plenius dijudicandam at-  que absolvendam ireiiinquimus ad hoc minus sufficientes ».   Perciò l'opera del Sentenziario ha un intento assai  modesto, né presume di sciogliere ogni dubbio e di di-  rimere ogni questione. Qui il Maestro risentei della scuola  di Abelardo il quale (nel trattato Sic et non riconosceva  ai pastori il diritto di emendare le opere dei dottori della  Chaesa.   (Migne 178 p. 1346 D.) « Hoc et ipsi eccleisiastici  dactores attendentes et nonnulla in suis operibus corri-  genda esse credentes posteris suis emendaindi vel non se-  quendi licentiam concesserunt ».   E il nostro Lombardo così dice di sé :   (Sent. in prol.) « In hoc aulem tractatu, non solum  pium leolorem, sed etiam correctionem desidero, maxime  ubi prolunda versatur veritatis quaestio, quae utinam tot  haberet inventores quot habet contradictores ! »   Il libro delle Sentenze doveva così riuscire «più accetto  giacché il giogo del dogma era imposto alla libera rifles-  sione del pensiero con assai più illuminata larghezza che  non fosse abitudine del passato. Tanto che parve a più  d'uno dei suoi contemporanei la sua dottrina pericolosa e  Giovanni di Goimovaglia potè chiamarlo uno dei quattro  labirinti della teologia ponendolo allo stesso livello di Gi-  jDerto Porretano, Pietro di Podtiers, Abelardo.   Scopo di Pier Lombardo era di fare un trattato che  risparmiasse al lettore tempo e fatica, Fu per rispetto ai  suoi tempi un volgarizzatore della scienza teologica di-  spersa ne^ libri canonici e negli scritti malagevoli dei Padri  e incompiutamente contenuta nei libri di Abelardo, PuUeyn,  Ugo di S. Vittore. Egli compilò una specie di Enciclopedia  teologica ove il lettore avesse a trovare senza sforzo tutto  quanto gli facesse al ciaso. Però avverte nel Prologo :   « JNon igitur debet hic labor cuiquam pigro vel multum  docto videri superfluus, cum multis impigris multisque  indoctìs, inter quos etiam et mihi, sàt necessarius: brevi  volumine complicans Patrum sentias, appositis eonim te-  stimoniis ut non sit necesse quaerenti librorum numero-  sitatem evolvere, cui brevitas quod quaeiritur oBert sine  labore».   E cosi nel distribuire la materia egli seguì un nuovo  ordine sistematico e compiuto non seguito né da Ugo di S,     78   Vittore, né da Roberto PuUeyn, né da Abelardo {Am quali  pure trasse assai dalle sue doltrine) e pose a ciascun ca-  pitolo un titolo per facilitare le ricerche.   (Sani, in prol.) Ut autem quod quaeritur facilius oc-  currat, titulos quibus singnlarum capitula dislingumitur  praemisimus.     Relijiiooe e scieoza.     Giovanni Scoto Erigena afferma che la teologia e la  filosofia sono una sola e una medesima scienza (1). Ma  giustamente si poa&ono fare a questo punto delle riserve  perché la scuola e la chiesa si accodano nel dire che  l'ordine della ifede non é Tordine della jnagione e che sia  pei filosofi come per i teologi vi sono dei limita al proprio  dominio. Con lutto ciò la ragione e la fede non riusdroTio  mai a vivere completamente separate. Ed a torto credano  alcuni che si cominciò propriamente dalla scolastica a coffiy  ciliare colla scienza la religione. Anche ai primi Padri  della Chiesa piacque di giovarsi di entrambe e Clemente  Dragone, S. Agostino, sono nello stesso tempo filosofi e  teologi. L'opposizione alla filosofìa come indegna di essere  applicata ai veri divini, non fu più propria e peculiare  dell'età patristica che della scolastica, le quali non sono  già in opposizione, ma Funa é naturale svolgimento del-  l'altra. Questo sforzo di comporre il dissidio ira Taulo-  rità e la speculazione filosofica si continuò per tutta i se^  coli fino al nostro Rosmini che parlando dell età dei Padri  e dei Dottotti scriveva :   « L'uomo allora sentiva altamente che la teologia non  era divisa da luii, e che, sebbene ella travalicasse, per  l'origine e la sostanza, i limiti della natura, passava dal  ragionevole al rivelato, quasi ascendendo da un palco in*   (1) De praedestinatione (Collection de Mangin 1. 1 p. 103^, Coni-  icitur inde veram esse philosophiam veram religionem, conversim-  que veram religionem esse veram philosophiam, cit. in Coasin Cours  de la phU, I p. 344.     79   feriare ad un altro superiore dello slesso palagio delia  mente, con un solo disegno da Dio fabbricatogli.   La teologia cristiana in quell'età era senza contrasto  la conduttrice e la custode di tutte le altre scienze, la si-  gnora delle opinioni. Chi avrebbe allora pensato che sa-  rebbe venuto un altro tempo in cui alcuni pensassero do-  versd la teologia dividere interamente dalla filosofia? » ( 1).   Vediamo ora in quale rapporto si tirovassero le verità  teosofiche colle verità filosofiche nel pensiero di Pier  bombardo.   11 Maestro si attiene in massima alle parole di S. A-  gostino (sup. Joan 27). <( Credimus ut cognoscamus, non  cognoscimus ut credamus». E nella distinzione XXII del  libro terzo, là dove esaminia si Christus in morte fuit homo  e risponde che benché Pietro morì come uomo, tuttavia  era in morte Dio ed uomo, non mortale e non immortale,  e tuttavia vero uomo, dice a coloro che vogliooio troppo  sotìsticare sulla ragione di ciò : « Illae enim et Jiujusmodi  argutiae in creaturis locum habent sed fidei sacramentum  a philosophicis est liber. linde Ambrosius (De. fide I. 13,  84): Aufer argiimenta, ubi fides guaeritur. In ipsis gym-  nasìis suis dam dialectica taceat, piscatoribus creditur, non  diaileoticis ».   Ma questa fede da pescatori però, il Lombardo ag-  giuge più oltre, non è cosa a noi lutto affatto estranea,  peirchè essa non può essere di ciò che l'animo ignora. E qui  egli sente rinllusso del misticismo del suo- protettore. S.  Bernardo e dei Vittorini che primi lo accolsero a Parigi.   (Sent. Ili dist. XXIV, 3) « Cum fides sit ex auditu  non modo exteriori sed etiam interiori, non potest esse  de eo quod animo ignoratur ».   Ancora è necessario fare con S. Agostino una distin-  lone: alcune cose non sono intese se prima non si cre-  dono, ma è pure vero che alcune cose non si possono cre-  deiPe se prima non sono intese (come la fede in Dio che     (1) Opere edite ed inedite di A. Rosmini Voi, I Introd. alla Filo-  sofia Casale Tip. Casuccio p« 48 sgg. Per maggiori notizie sul tei-  smo degli scolastici vedi : P. D'Ercole — Il teismo filosofico cri-  stiano Parte I. (Torino 1884) pag. 357 sgg. — Pbantl - Geschicte  d. Logik Voi. II p. 110 sgg.     80   viene dalla predicazione) e queste pai per la fede si m-  tendono di più.   Uoc. cil.) Ex his apparet... quaedam intelligi ali-  quando, etiam antequam credanlur... al nunc eliam per  tldem... ampiius intelligìintur... linde colligdtur... quae-  dam non credi nisi prius intelligantur et ipsa per fidem  ampiius inleJlegi.   Quanto poi alle cose che mima sono credute che  comprese esse non sd ignorano ael lutto perchè anche si  amano.   (Seni. Ili d. XIII, 3) « Nec ea quae prius creduntur...  penitus ignorantur tamen ex parte, quia non sciumtur.  Greditur ergo quod ignoratur non penitus sdcut etiam  ama tur, quod ignoratur ».   Pensiero ripetuto in S. Tommaso ed in Dante.   In conclusione Pier Lombardo si libra Ira un misti-  cismo ed un razionalismo temperato non sfuggendo alla  contraddizione, ma affronlaaidola. Il suo concetto è quello  che informa in gran parte la filosofìa cristiana. La fede  non distrugge la ragione ma al contrario le da ali più  potenli per sollevarsi. Ed è in questo senso che bisogna  mtendere le parole di S. Agostino: Intellectum ualde cana,  e quelle di S. Anselmo: Fides quaerens intellectum.     81     CAPITOLO II.     PROBLEMA METAFISICO E CONOSCITIVO     Principia rerum inquirenda sunt prius ut earum  notitia plenior haberì possi t. (Prol. in Collectanea),     Teoria debili Uoivrrsali<     Delle arti e delle scienza del trivio e del quadrivio,  secondo la celebre classificazione data da Marciano Ca,-  pella e riprodoUa da Cassiodoro e da Isidoro di Sivi-  glia (1), la dialettica ovverosia la logica che da principio  parve una scienza preparatoria avente per ogge'tio più !e  parole che le cose, acquistò nelle scuole medioevali un  tale sviluppo che fini col proporsà i più alti problemi me-  tafisici e diventare la prima delle scienze. Tra questi pro-  blemi, il più importante, anzi il fondamentale che sembra  raggruppare sotto di sé tutti gli altri, ed agitò potente-  mente l'età di cui parliamo, è il problema degir universali,  quale la filosofia si è posto innanzi in tutti i tempi.   11 Protois (2) scrive che la questione degli universali  ebbe a suo autore Roiscelino : ma ciò è per lo meno detto  male. Già Aristotele si era posto innanzi il problema nelle  Categorie ed in molti altri suoi libri; e nella prefazione  della Isagoge di Porfirio tradotta da Boezio, esso è pure     (1) Haurbaux — De la philosophie scoi. Paris 1850 V. I. p. 21. .   (2) Op. cit.     e]iuiK:iato, ma non risolto, parendo esso al commeintatore  di Aristotele di troppo grave importanza. Ecco le parole  Ui Porlirio:   M Cosi tralascierò di dire se i generi é le specie sus-  sistono o sono soltanto e puramente nei pensieii, se come  bUSbisleaiti sono corporei od incorpoi'ei, se sono fuori oppu-  re entro le cose seìusibili e con esse coeistenti : essendo trop-  po grave una tale impresa e rictiiedendo maggiori ri-  cerctxe ».   Porlirio divise cosi il problema nelle sue tre questioni  fondamentali e iu in tal modo che esso fu segnalato ai  primi scolastici.   I generi e le specie sussistono per sé o consistono sem-  plicemente in puri pensieri ? Come sussistenti sono essi  corporei od mcorporei ? Ed infine sono essi separati dagli  oggetti sensibili o sono contenuti negli oggetti stessi for-  mando con essi qualche cosa di coesistente?   A ragione Porfirio reputava queste questioni di som-  ma difficoltà. Perchè comunque vi si risponda si è con-  dotti nell'alto mare della speculazione, ed ognuna di esse  sembra pod risolversi nelle suprema questione della quaile  tutte dipendono : Che cosa è Tessere ?   JNuUa di più naturale che gli scolastici inoltrandosi a  disputare di un tale argomento con molto ardire ed acu-  tezza d mgegno, ma non con pari preparazione filosofica  sollevassero infinite e tempestose discussioni che molto  spesso non approdavano ad alcun risxiltato.   Tre furono le scuole principaU che si avviarono ad  una diversa soluzione del problema: quella dei realisti,  dei nominalisti, dei concettualisti.   11 nome di realisti fu dato nel secolo XII a coloro che  affermavano che i geiìeri e le specie, gli universali insom-  ma sono una realtà sostanziale, una vera entità distinta  dalie altre; nominalisti furono detti coloro che negavano  la realtà di questi universali, e li ritenevano come sem-  plici concezioni astratte del soggetto ricondotte ad una  idea comime per mezzo della comparazione; ma poiché  questa conclusione, dovendo ammettere che tutto ciò che  v'ha di comune non è ohe im suono, un nome vuoto di si-  gnificato, flatus vocis, portava alla negazione di ogni  scienza, sorsero i concettualisti i quali aggiungevano che  un tale suono, im tal nome rappresenta un pensiero, uq  concetto il quale proviene dalla somiglianza visibile delle  cose diverse : il che non è sostanziale ma è percepito dalla     intelligenza umana come inerente alle nature individual-  mente deiterminate.   Dopo ehe Giovanni Scoto aveva portato agli estremi  il inealismo, venne Roscelino che parve dirigere la dottrina  del nominalismo contro la stessa teologia dogmatica sol-  levando un grave scalpore nelle scuole.   Poiché se nulla esiste che «non sia individuale il dog-  ma della divinità una in tre pers;one veniva dalla ra^one  5icalzato nelle sue basi. Era bensì un errore l'uso stesso di  armi dialettiche prò e contro i misteri della fede, perchè  l'ordine della fede non è cruello della ragione, ma d'altra  ip-arte era un errore rimìediabile. Ed a difesa della realtà u-  nivereale si levò S. Anselmo prima abate di Bec in Nor-  mandia poi arcivescovo di Cantorberv e nella prima meta  deJ secolo deoimosecondo Guglielmo di Chamoeaux, il fiero  avversario di Abelardo. E fu quella del primo propria-  meoite un realismo mistico, quello del secondo un realismo  scientifico.   Abelardo poi fu il capo riconosciuto, a volte vincitore,  a volle vinto, del concettualismo, col anale si possono tro-  vare molti riscontri nella filosofìa moderna.   Quale doveva essere l'opinione dei Dottori della  Chiesa in tanto contrasto di idee? Evidentemente nessuna  delle suesposte- se e quando lo notevano. I realisti con-  fondevano le cose con la generalità delle idee, i concet-  tualisti negavano il reale fondamento delle idee universali,  'i nominalisti le idee stesse: i dottori non potevano ap-  partenere a nessuna di queste dottrine pericolose. Essi do-  vevano essere tratti a trovare un criterio conciliativo, né  ciò era diffìcile, secondo l'avviso dellHaureau. E quale  era questo criterio? La specie non è solamente un con-  cetto, essa è altresì una cosa, non una cosa in sé, a parte  degli oggetti sensibili, ma nna cosa facente parte con essi,  formante con essi qualche cosa di coesistente.   Tale a un dipresso la posizione dei dottori tra le  scuole che dividevano i logici disputanti dell'evo medio,  corrispondenti sotto altro nome alla scuola dell'idealismo  critico ed alla scuola deiridealismo trascendentale.   Tra questi dottori concilianti che l'Haureau non pro-  priamente chiama indifferenti si trova il nostro Maestro  delle sentenze : il quale pero non si occupa espressamente  della questione, ma solo ne tratta per incidenza^ ragio-  nando della Trinità nel 1. libro delle Sentenze. Per lui     81   l'universale non è come per Guglielmo di Champeaux un  solo essere dappertutto identico (1) e però difficile a com-  prendere, ma al contrario colla moltiplicazione numerica  dell'individuo diventa anche in essenza tante volle accre-  sciuto. Se Tanimale è il genere, dice il Maestro, e il ca-  vallo è la specie si avranno tre cavalli ed anche tre ammali.   {sent. I d. XIX, 8) « ... cum sit animai genus et equus  species, appellantur tres equi iidemque animalia ».   Perciò quando la specie può dirsi triplice devono  anche essere tre gli individui. Tutto dunque si raccoglie  nell'individuo.   Ma egli poi aggiunge : Abramo, Isacco, Giacobbe sono  tre individui, ma nello stesso tempo anche tre uomini p  tre animali. Specie e genere non sono quindi forme sog-  gettive, ma un oggetto che è nelle cose poste al difuori di  noi (2). Ma non si dirà che l'essenza divina è una specie  e le persone individui, come è specie Tuomo e sono in-  dividui Àbramo, Isacco e Giacobbe. Poiché se Tessenza  divina fosse una specie come Tuomo, come non si direbbe  che Abramo, Isacco e Giacobbe sono un sol uomo cosi  non si direbbe una essenza essere tre persone.   (sent. I. d. XIX, 9-: « Sicut enim dicuntur Abraham,  Isaac, lacob, tria individ'ua ita tres homdnes et tria ani-  malia... 10: Nec speoies est essentia divina et persona  individua, sicut homo tepecies est, individua autem A-  braham, Isaac et lacob. Si enim essentia specìes est ut  homo sicut non dicitur unus homo esse Abraham, Isaac  et lacob. ita non dicitur una essentia esse tres personas ».   Il Maestro quindi, a mio parere, non nega alle idee  universali un* fondamento reale in quanto però vanno unite  agli oggetti sensibili: ma distingue nettamente le cose  temporali dalle cose divine alle quali non convengono i  nomi di universale e di partìcdare e le distinzioni della  logica.     (1) Abael hist. cai.: « Erat antem in ea sententia de communi-  tate nnlversaliam, nt eandem essenti ali ter rem totam simtil singulis  suis inesse astrueret individuis. cfr. Espenberg — Die phil. d Pet.  Lomb. pag. 21.   (2) EsPENBEROER — op. cit. p. 22 « Art nnd Gattung sind dem-  nach nicht subjektive Gebilde, sondern objektiv in der una mnge-  benden Auszenwelt begrìindet »,     85     Teoria della coi>osc^i>za.     i\el Gommenlario delle Epistole di S. Paolo Pier  Lombardo -venendo a parlare delle visioni le distingue 'n  tre generi: corporali, spirituali, intellettuali. E le ultime  sono le. più perfette j)erchè vedono non cogli occhi corpo-  rali ó colla immaginazione, ma per sé stesse. Qui il Mae-  stro viene a toccare sebbene in modo indiretto della co-  noscenza che noi abbiamo coi sensi corporali, ei di quella  che acquistiamo colla memoria, la quale ci ripresenta im-  magini vere quali abbiamo già apprese coi sensi o finte  quali rimmagin azione forma secondo il suo potere.   (Collectanea in epist. ad Cor. II, 12) « In bis tribus  géneribus (scil. visionis) illud primum manifestum est om-  nibus quo vid'etur coelum et omnia oculis conspicua. Nec  illud alterum quo absentia oorporalia cogitantur, insi-  nuare difficile. Coelum enim et terram et quae in eis vi-  dere possumus, etiam in eis constituti cogitamus^. Et ali-  quaiido nihil videntes oculis corporis* animo tamen cor-  porales imagines intuemur vel veras sicut ipsa corpora  vidimus et memoria retinemus vel fictas sicut cogitatio  formare potuerit. Aliter cogitamur quae novimus, aliter  quae non «novimus w.   Altrove nel Commentario dei Salmi paragona la me-  moria al ventre che riceve i cibi : (Comm. m ps. XXX,  13) « Sicut enim venter escasi recipit ita memoria rerum  tenet notitiam ».   Nel libro III delle Scinlenze il Lombardo pariando della  fede dice che essa si riferisce soltanto alle cose che non  ci appaiono è sostanza di cose sperate come disse S. Paolo  e ripetè poi Dante (1), che conobbe il Maestro forse più dì  S. l'ommaso. E qui contrappone la fede alla conoscenza  che si ha delle cose evidenti, tra te qiiali pone anche l'anima  deiruomo che sebbene non veduta, è da lui intuita cogi-  tando. Concetto raccolto poi e svilupipato da Cartesio, il  quale prenderà la coscienza umana come il punto di par-   (l) S. Paolo (Ep. ad Eb. XI\* « Est fides sperandanim snbstan-  tia rerum, argumentum non apparentinm . » — Dante (Par. XXIV):  Fede è siLStanzìa di cose sperate - ed argomento dene non parventi.     86   ieaia dì ogni indagiiie filosofica ed argomenterà che IV  sistenza ci è data dal pensiero: cogito ergo sum. Sent.  Ili, d. XXIll, 7). c( Non sicul corpora quae videmus oculis  corporeis, et per ipsorum imagines quas memoria tene-  mus, etiam absentia cogitamus; nec sicut ea quae non vi-  demas et ex his quae videmus cogitalionem utromque  formamus, et memoriae commendamus, nec sicut homi-  nem, cuius animam^ etsi non videmus, ex nosbna coniici-  mus et ex motibus corporis hominem sicut videndo didi-  cimur, intuemur etiam cogitando : non sic vìdetur fides in  corde in quo est, .ab eo cuius est, sed eam tenel oerliseima  scientia ».   CosH nel capitolo già citato delle CoUectanea, il Mae^  stro tocca della conoscenza che noi abbiamo del nostro  intelletto intellicfendo . E' insomma nella ragione stessa la  spiegazione della nostra ragione.   (In epist. ad Cor. II, 12) «... hac visione quae didtur  intellectualis ea cemuntur, quae nec cemuntur corporea,  nec ullas gerunt formas similes corponim, velui ipsa mens   et omuis animae affectio bona. Quo enim alio modo nisi  intellisrendo intellectus consoicitur? Nullo. ».   Pier Lombardo paragona rintellieenza ad una luce  interiore che illumina res<=ere intelligente:   (im epist. ad Eph. cap. 4) « Omnis qui inteiligit  quadam luce interi ore illusfrRtiir». Ripete in sostanza il  concetto già espresso da S. Agostino:   (in ps. 41 n. 2 Mierne 36 p. 465) « omnis qui inteiligit  luce quadam non corporali, non carnali, non exteriore sed  interiore illustratur ».   Chiarito il modo di conoscere, resta a parlare dell'og-  getto della conoscenza.   Che cosa è il vero ?   Tutto che è è vero, secondo il concetto della filosofia  patristica, come, e questo Io si vedrà in appresso, tutto  ciò che è è pure buono. Il falso va inteso in un sen®o del  tutto privativo, cioè non è sostanza di qualche cosa, non  è ciò che è, ma è ciò che non è.   (In ps. V, 6) « Veritas enim est de eo quod est. Men-  dacium vero non est subslantia vel natura ìd est, non est  de eo, quod est natuiraliter, sed de eo, quod non est ».   Ed in altro luogo dice il Maestro : la verità è ciò che  è come vien detto : (in ps. XIV, 7) « Veritas est cum res  ita est cum dicitur ».     87     CAPITOLO IH.     PROBLEMA ONTOLOGICO E COSMOLOGICO     Quia ip9e diodi ei faeta suut   S. Paolo     Sostanza e^ accM^ote.     S. Agostino concepiva la sostanza come il concetto di  assenza o di naliu-a preso in senso generale da subsistere^  peirchè ogni cosa sussiste a sé slessa : omn«is enim res ad  se ipsam subsistil. Ma in senso più particolare, s'intende  di ciò che è soggetto d'altre cose come del colore, delle  forane corporee, ecc.   J\on attrimenti Pier Lombardo: (sent. II, d. XXXVII,  4 in ps. LXVIII, 2), « Substanlia intelligitur illud ouod  sumus: homo, pecus, terra, sol; omnia ista substantiae  snnt : eo ipso quo sunt naturae, ipsae substantiae dicun-  tur. Nana et quod nulla est substantia, nihil omnino est.  Substantia enim est cdiquid esse ».   Ma in quest'ultima significazione, il detto .^oncetto non  appropriasi a Dio perchè Dio è semplice.   (Sent. I, VIII, 8) « Res ei^o anutabiles. . . proprie di-  cuntur substantiae, deus autem, si subsistit, ut substantia  proprie dici possit, inest in eo aliquid in subiecto et non  est simplex ».   E' quindi a torto che parlando di Dio si dice che è  una sostanza, perchè non vi è nulla in lui che non ©ia  Dio, e la parola sostanza non si dice propriamente che  delle creature. Parlando di Dio è meglio servirsi della  parola essenza»     88   Riguardo all'accidente il maestro delle Sentenze è  dello stesso avviso di Boezio che lo definisce : (in Porph.  ed. Basii, p. 92) Accidens est quod adest et abest praeter  subiecli corruptionem. (Sent. L III, 14) a non sicut ac-  cidentia in subiéctis quaé possunt abesse vel adesse ».   S. Agostino e Boezio sono i due filosofi ai quali iì  nostro Lombardo attinge con eguale misura. Nel IV delle  Sentenze parla degli accidenti, cioè delle apparenze che  gli sembrano piuttosto esistere senza soggetto che essere  nel soggetto, quali il sapore ed il peso (accidenti) nel sa-  cramento della Eucaristia, che sono senza soggetto, poi-  ché quivi non è altra sostanza che quella del sangue e del  corpo del Signore, che non soggiaciono a quelli accidenti.  Perciò son quegli accidenti per sé sussistenti.   (Sent. IV d. XII, 1; in epist. ad Cor. I) « Si autem  quaeritur de acciflentibus quae remanent i. e. de speciebus  et sapore et pondere, in quo subiecto fundentur, potius  mihi videtur fatendnm existere sine subiecto quam esse  in subiecto, quia ibi non est substantia nisi corporis et  sangumis dominici, quae non affìcitur illis accidentibus...  remanent ergo illa accidentia per se subsistentia ad my-  slerium riti ».     Natura e persona.     « Natura multiplex nomen est. Nam et philosophi et e-  thici et theologi usu plurimo ponunt hoc nomen». Cosi  Gilberto Porrelano (in Boet. ed. Basii, p. 1223). Ma se  molli sono i nuovi significati presso i filosofi del secolo  XII, vediamo in quale senso più propriamente l'adopera  il nostro Pier Lombardo. Per lui natura è ciò che é con-  creata colla sostanza.   (Sent. II, d. XXXVII, 2) « Substantiae nomine atque  naturae dicunt signifìcari substantias ipsas et ea quae  naturali ter habent scilioet quae concreata sunt eis sicut ani-  ma naturaliter habet intellectum et imaginem et volnnta-  tem et huiusmodi».     89   Le €086 che awemgano per causa seminale, si dice che  aweaigono secondo natura, quelle invece fuori natura av-  vengano soltanto per volontà divina. Ne viene che ogni  creatura obbedisce a leggi naturali.   (Sent. II, d. XVIII, 7) « Et illa quae secund'um cau-  sam seminalem fìunt, dicuntur naturaliter fieri, quia ita  cursus naturae hominibus innotuit. Alia vero praeter natu-  ram, quorum causae tantum suni in deo... omnis creaturae  cursus habet naturales leges » (1).   yuale sarà dunque la legge naturale ? Quella che eb-  bero anche i pagani (2), che indica all'uomo ciò che è  bene e ciò che è male e che si riassume nel non fare  agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi.   (in epist. ad Rom. cap. 2) « Etsi non habeat (s'cil.  gentilis homo) scriptam legem, habet tamen naturalem,  qua intellexil et sibi conscius est, quid sit bonum quidve  malum; lex enim naturalis iniuriam nemini inferre, nihil  alienum praecipere, a fraude et penuria abstinere, alieno  coniugio non insidiari et caelera alia et ut breviter dicatur  nolle aliis facere auod tibi non vis fieri ».   Quanto poi alla persona, il Lombardo, parte dal con-  cetto ^ià enunciato da Boezio che la persona è la sostanza  individuale d'una natura ragionevole: (ed. R. Peiper p.  193, 4) « Persona est naturae rationalis individua substan-  tia ». Ovunque noi troviamo una sostanza individuale nella  specie umana, ivi è una persona. Ma l'anima che è so-  stanza razionale, è dunque una persona? Pier Lombardo  risponde negativamente ricorrendo all'airtificio di parole  ^à adoperato da Boezio nel sfuo libro de duabus naturìs  (ed. Peiper p. 193, 10). Cioè Tanima è sostanza razionale,  ma non tuttavia persona, perchè non è per se sormns^ cioè  è congiunta ad altra cosa.     (1) Dio solo può agire contro natura: (Sent. loc cit) super hunc  naturalem cursum Creator habet apud se posse de omnibus facere  aliud, quam eorum naturalis ratio habet; ut. scilicet, vir^a arida re-  pente fioreat, et fructum ^^at. et in juventute sterilis femina, in  senectute pariat, ut asina loquatur et huiusinodi.   ,2) V. Ciò. - De leg. XV. 45; Atque, si natura confirmatura ius   non erit, virtutes omnes toUentur Nam haec nascuntur ex eo,   quia natura propensi sumus ad diligendos homines, quod fundamen-  tum iuris e3t.     90   (S©nt. Ili, disi. X, 2) « Nam et modo anima est sub-  stantia rationalis, non tamen persona, quia non est per se  sonans, imo alii rei comiuncta ».   Tuttavia l'anima è persona quando per se est: onde  quando è sciolta dal corpo è persona come è Fangelo.   (Sent. Ili, dist. V, 5; disi. X, 1) « Anima, non est  persona, quando alii rei unita est personaliter. . . absoluta  enim a corpore persona est siculi angelus ».     frateria e forila*     U^ià S. Agostino parla di una materia informe dalla  quale sarebbero derivate tulle lè cose che sono distinte e  formate.   (de genes. contra Manich. I, 5, 9 Migne 39 p. 178)  « Primo ergo materia facta est confusa et informis unde  omnia fìerenl quae distincta atqua formata sunt, quod  credo a graecis caos appellari). Così pure Boezio (edit  Basii p. 1138) parla di una materia informe e siemplice  come la ale e di una materia formata e non semplice come  i corpi. Anche per Pietro Lombardo le cose create furono  formate da una materia informe.   ,(I'n ps. XXXII, 9) « Quoniam ipse dixit, idest voluit  et facta sunt (scil. coelum et terra) id est formata de in-  formi materia ». E cosi pure nel secondo libro delle Sen-  tenze : (dist. XII, 2, 3) « Alii vero hoc magis probaverunt  et asseruerunt, ut prima materia rudis atque informis...  creata sii Postmodum vero. . . ex illa materia rerum corpo-  ralium genera sunt formata secundum species propria®.   Da S. Agostino il Lombardo deriva pure il suo con-  cetto della forma.   (Sent. II, d. XVIII, 16) « Dicit Au^ustinus causas  primordiales omnium rerum in deo esse mducens simili-  ludinem artifìcis in cuius dispositione est qualis futura sii  arca ».   11 Maestro ripete a questo punto appoggiandosi intie-  ramente a S. Agostino quanto Abelardo e Gilberto P^r-  retano dicono con compiuto linguaggio scientifico quando     91  chiamaiio le idee forme esemplari della mente divina. Non  così chiara come in questi elementi platonici è l'idea della  forma presso i sentenziarii ai tempi aristotelici (1).     Causalità.     Qui il Maestro dà questa definizione della idea d;  causa : Tutto ciò che in sé permanendo genera od opera  qualche cosa, è il principio, ossia la causa di ciò che ge-  nera od opera.   (Sent. I, d. XXIX, 2) « Si autem quicquid in se manet  et gignit vel operatur aliquid, principium est eius rei  quam gignit vel edus quam operatur... ».   Dio però si dice eh© fa ed opera qualche cosa, per-  chè è la causa delle cose scientemente esistenti.   (Sent. II, d. I., 2) « Deus ergo aliquid agere vel fa-  cere dicitur, quia causa est rerum noviter existentium ».   ■Con ciò vien presupposto che tutto ciò che avviene,  avviene per una causa necessaria e che nulla nasce che  non sia preceduto da una legittima cagione. Pier Lom-  baixlo in seguito si domanda se nulla possa sfuggire o  questa legge di causalità e possa awemare per caso. Ma  egli risponde : se qualche cosa avviene nel mondo per  caso, non tutto il mondo è regolato dalla divina pìnovvi-  denza. Se non tutto il mondo è regolato dalla divina  provvidenza, v'è qualche natura o sostanza che non ap-  partiene all'opera della ]>rowidenza. Ma tutto ciò che è, è  buono per la partecipazione di quel bene che noi chiamia-  mo divina provvidenza. Nulla dunque può avvenire per  caso. Inutile è il notare che questo argomento si trova  già in S. Agostino, Ugo di S. Vittore, Abelairdo.   (Sent. II, XXXV, 5) « Si ergo casu aliqua fiunt in  mundo, non providentia universus mundus administratur.  Si non providentia universus mundus administratur, ali-     (1) Vedi EspuNBKBOBB — Op. dt. p, 58, 59.     92     qua natura vel substanlia est quod ad opus providentiae  non pertinel. Omne autem quod est... boni illius parteci-  patione... bonum est, quod divinum bonum provideoliam  vocamus. JNihil ergo casu flit in mundo ».     $pazio ^ trnypo.     Le nozioni di spazio e di misura, ci vengono date da  Pier Lombardo, laddove parla di Dio che è immensurabile  ed iniCBteso.   (Sent. I, XXXVII, 9, 10) Neque dime(nsionem habet  (sdì. deus) sicut corpus cui secundimi locum assigmatur  principium, medium et finis et ante et retro, dextera et  smistra, sursum et deorsum quod sui interpositione facit  distantiam et circumstantiam... dicitur in Scriptura ali-  quid locale sive circumscriplibile et e converso, sci!, quia  diimensionem (bapierus longiltudinis et latitudinis distaai-  liam lacit in loco ut corpus...   Più avanti definisce il luogo nello spazio ciò che è  occupato in lunghezza, altezza e larghezza da un corpo.   (Sent. I, XXXVII, 4) « Locais in spatio est quod lop-  giludine et altitudine et latitudine corporis oocupatur)).   Come Dio neppure gli spiriti creati possono essere  circonscritti nello spazio. Essi però possono in certo modo  essere locali perchè quando si trovano in un luogo (non  si trovano in un altro : però non hanno dimensioni e per  quanto siano numerosi, non possono riempirlo.   (Sent. I, XXXVII, 9) « Spiritus vero creatus quo-  dammodo est localis, quodammodo non e®t localis. Localis  quidem dicitur, quia definitione loci terminatur, quoniam  cum alicubi praesens sit totus, alibi non invenitur. Non  autem ita localòs est ut dimensionem capiens distantiam in  loco faciat ».   Il Lombardo infine conclude che Dio non si muove  né nello spazio, né nel tempo, che Tanima si muove nel  tempo, ed il corpo nelo spazio e nel tempo. Di qui le loro  diverse natuire.     93   (ibid.) « Ecce hic aperte oistendilur, quodi nec locis  aec temporibus mutatur vel movetur Deus, spiritualis au-  tem natura per tempus unovetur, corporalis vero etiam  per tempus et locmnn.   Che cosa è il tempo ?   Ad una tale domanda cosi risponde S. Agostino nelle  Confessioni (1) : Se nessuno me lo chiede lo so; se voglio  spiegarlo a chi me lo chieda non lo so: con piena fede  dico tuttavia di sapere che se nulla passasse, non vi sa-  rebbe un tempo passato e se nulla dovesse avvenire^ non  vi sarebbe un tempo futuro, e se nulla fosse non vi sareb-  be un teimpo presente.   Pier Lombairdo definisce il tempo, la variazione delle  qualità che sono nella stessa cosa che si muta.   (Seni. I, XXXVII, 10) <( Mutari autem per tempus  est variari secundum qualitates quae sunt in ipsa re quae  mutatur... Haec enim mutatio qua fìt secundum tempus,  vanatio est qualitalum . . . et ideo vocatur tempus».   L'eternità fa antilesi al tempo. Il Lombardo come A-  belardo ripete qui le parole di Boezio: Stabilisque ma-  nens das cuncta momri quando dice: (In ps(. LVI) «Et  video, id est sciam, quoniam tu es proprie qui stabiEs ma-  nens das cuncta moveri ».   Garattei'a appunto dell'eternità è la stabilità, del tem-  po la mutabilità (in epist. ad Hebr. I) « In aeternitate  enim stabilitas est, in tempoire autem varietas ; m ae-  ternitate omnia stamit, in tamporei alia aocedunt, alia suc-  fcedHint ».     Cosrpolosia.     Il problema cosmologico si presenta al Maestro nel  libro II delle Sentenze alla prima distinzione. Egli dimostra  sulla fede delle Sacre Scritture, che non vi è che un prin-     (1) XI, 14, 17 MiGNB 32 p. 816 ( Espenberger op. cit. p. 73) :  Quid est tempus? Si nemo ex me quaerat, scio; si quaerenti expli-  care velim nescio: fidenter tamen dico sci re me, quod si nihil prae-  teriret, non esset praeteritum tempus ; etsinihil adveniret, non esset  fUtunim tempus, ei si nihil esset, non esset praesens tempus.     , cipio solo di tulle le cose. Alcuni (ilosoli, come Platone ed  Anstolile, avevano pensalo che il mondo avesse molti  principii, che la materia che lo comipone fosse increata  ed eterna, che Dio non ne fosse punto il Greatore, ma sem.-  plicamente l' oa^ganizzatore. Ma la dottrina cattolica al  contrario ci insegna che Dio solo, principio di tutte le cose,  ha tutto crealo dal nulla, le cose visibili e le invisibili, il  cielo e la terra.   (Sent. H I, 1) (( Creationem rerum insinuans Scrip-  tura deum esse creatorem initiumque temporis atque om-  nium visibilium ved invisibilium creaturarum in primordio  suo ostendìft dicens :   (g:en. I, 1) In principio creavit deus caelum et terram.  His enim verbis Moyses... in uno principio a deo creatore  mundum factum refert elidens errorem quorundam plura  sine principio fuisse opinantium. Plato namque tria inilia  existimavit deum scilicet exemplar et matenam et ipsam  mcreatam sine principio et deum quasi artificem non  creatorem ».   E altrove conferma che il mondo non è coetemo a  Dio e senza alcun principio, ma creato da Dio come in-  segna la scrittura.   (in ps. CXLVIII, 5) « Quia ipse dixit et faota sunt —  hoc dicit contra illos qui dicunt mundum deo coateoiimn ».   Dio creò ogni cosa dal nulla : creare è propriamente  ricavare qualche cosa dal nulla : onde a Dio solo compete  il nome di creatore.   (Sent. II, I, 2) « Creator enim est, qui de nihilo ali-  quid facit. Et creare proprie est de nihilo aliquid facere....  hoc nomen (scilicet creator) soli deo proprie congruit...  Ipse est ergo creator et opifex et factor ».   11 Lombardo passa poi ad esamina-re la creazione del  mondo e specialmente .l'opera dei sei giorni commentando  il racconto della Genesi. Le spiegazioni ch'egli offre, sono  tolte ai padri antichi tra i quali S. Ambrogio, S. Agostino,  S. Gregorio, il venerabile Beda e S. Giovanni Grisostomo.  Insieme con vedute geniali e profonde, si trovano in quella  parte dei suoi libri ove si paria della creazione, alcune  teorie che le scienze naturali hanno poi definitivamente  condannate. Basta ricordare la teoria dei quattro elementi  di cui si compone il cosmo, e quella che considera il fir-  mamento come una immensa volta solida alla quale sono  attaccati gli astri, e Topinione che i piccoli insetti nascano     &6  dalla corruzione dei carpi organici. Ma il Lombardo espone  la scienza dal secolo decimosecondo : d'altronde egli di tali  cose sembra parlare in forma dubitativa e come è suo  costume non fa che esprimere le opinioni che ai suoi tempi  correvano.     dell'uorpo o^il'unlv^rso*     Là dove parla della creazione, il Maestro pada anche  del fine per il quale l'uomo e l'angelo furono creati. La  somma bontà divina ha voluto far parte della sua felicità  etema a due delle sue creature, all'angelo ed all'uomo :  perciò li creè ragionevoli affinchè conoscessero il sommo  bene, l'amassero, ed amandolo lo jK>ssedesseiro e posse-  dendolo fossero felici. L'angelo di natura incorporea e  l'uomo composto di anima e di corpo furono creati per  lodare e per servire Iddio; non già perchè questi abbia bi-  sogno dei servigi umani, ma affinchè l'uomo godesse nel  servirlo, poiché in questo si giova chi serve e non colui  al quale si serve.   (Seoit. II, I, 7) « Factus ergo... homo projter deum  dicitur esse, non quia creator deus et summe beatus alte-  rutrius indiguerit officio... sed ut servirei ei ac fruirelur.'..  in hoc ergo proficit serviens... non ille cui servi tur.   Pensiero che vien perfezionato da S. Tommaso (Sum.  contra gentes II, 46) e dall'Afighieri (Farad. XXIX):   Non per avere a sé di bene acquisto  Ch'esser non può, ma perchè suo splendore  Potesse risplendendo, dir: Subsisto.   In seguito aggiunge che come l'uomo è stato fatto per  Dio, così il mondo per l'uomo, il quale si trova in un  mezzo tra ciò che a lui serve e ciò a cui egli stesso deve  servire.   (Sent. II, I, 8) « Et sicut factus est homo propter  deum i. e. ut ei serviret, ita mundus factus est propter     é6   hominem, scil. ut ei servirei. Positus est ergo homo 'n  medio ut et ei servirelur et ipse serviret; ut acciperet u-  trumque et reflueret totum ad bonum hominis et quod ac-  cepit obsequium et quod impeffidit... ».   L uomo infine si distingue da tutti gli altri animali  per la sua aspirazione alle cose superne, ed è perciò  che egli ha il corpo eretto e quasi rivolto al cielo.   (Seni. II, XVI, 5) « Ecce osl^isum est, secundum  quid sit homo similis dei... Sed in corpore quaaidam pro-  prieitatem habet quae haec indicat, quia §st erecta statura  secundum quam corpus ajiimae rationali congruit, quia a  caelum erectum est ».   E' lo stesso concetto di Cicerone (De legibus I, 9, 26):   « Nam quum caeteras animantes abiecisset ad pa-  stum, solum hominem erexit ad caelique quasi cognationis  domiciliique pristini conspectum excitavit ».   E non di Cicerone soltanto (1).     (1) Tra i gentili cf. Ovidio Metamorf. I, 84-86 Sallustio Catil.  Tra i filosofi cristiani Agostino (de gen. centra Manich. I, XVII),  Cassiodoro (de anima cap. IX) Beda (in hexaem I) Abelardo (in  hexaem).     i     9?     CAPITOLO 17.     PROBLEMA PSICOLOGICO     Tantum enim, ut tradit auctoritas, cognoscit  ibi quiHque quantum diligit. (Sent. II, IX, 4)     Foteoze d^ll'anirpa.     11 problema psicologico veniva proposto da Ugo di  S. Vittore in queisti termini: (de sacram. I ps. 5, e. 3)  yuaerunlur autem quiam plurima de origine animae,  quando creata fuit et tolde creala fuit et qualis creata  fuit. (cfr. August. de quant. animae I, 1).  August. de quant. animae I, 1).   Era questione tra i filosofi secondo Giovanni di Sa-  lisbury (Mei. IV, 9) se fosse una sola potenza la quale  ora sentisse, ora ricoondasse, ora immaginasse o se pur  rimanendo l'anima semplice, essa fosse dotata di molte  potenze (1).     (1) MieNB 199 p. 922 A: < Recolo enim fuisse philosophos, qui-  bus placuit, sicut incorpoream simplicem et individuam esse substan-  tiam animae, ita et unam esse potentiam, quam multipliciter prò  rerum diversitate exercet. Eorum ergo opinio est, quod eadem po-  tentia, nunc sentiat, nunc memoretur, nunc immaginetur; nunc di-  scemat investigando nunc investigata assequendo intelligat. Sed  plures sunt e contrario sentientes animam quidem quantitatem simpli-  cem, sed qualitatibus compositam et sicut multis obnoxiam passio-  nibus, sic multis potentiis utentem ». V. Espenberger op. cit p. 88.     j     98   Pier Luiinbardo si attiene in ciò a S. Agostino e defi-  nisce quei^le potenze come naturali proprietà dell'anima,  yueste sono una sola sostanza ed esistono nell'animo so-  stanzialmente; e noiii accidentalmente : poiché sebbene rela-  tive tra di loro ciascuna è sostanzialmente nella sostanza  oell animo.   (Sent. 1, 111, 12) « Hic attendendum est ex quo sensu  accipiendum sit quod supra dixit, illa tria, scilicet memo-  riam, intelligentiam, voluntatem esse unum, imam mentem,  unani essentiam, quod utique non videtur esse venim  juxta »pix>piietatem sermonis... Illa vero tria, naturales  proprietales seu vii-es sunt ipsius mentis... (14) Sed jam  videndum est quoniodo liaec tria dicantur una substantia.  Ideo quia sciJicet in ipsa anima vel mente substantialiter  existunt, non sicut accideiitia in subiectis, quae possunt  adesse vel abesse uiide Aug'ustinus in lib. IX de Trm. cap.  5 alt : Admonemur, si utcumque videre possumus, haec in  animo existere substantialiter, non tanquam in subiecto,  ut color in corpore; quia etsi relative dicuntur ad invincem,  singula tamen substantialiter sunt in substantia sua ».   Spiegata cosi coli autorità altrui la natura delle po-  tenze dell anima, il Lombardo distingue nella ragione due  parti : la parte superiore che si volge alle ragioni eteme  delle cose, la inferiore che si piega a osservare le cose  temporali!   (11, XXIV, 6) « Ratio vero vis animae est superior, quae,  ut ita dicamus, duas habet partes vel differentias, superio-  rem et inferiorem. Secundum superio«rem, supemis con-  spiciendis vel consulendis intendit; secundum inferiorem,  ad temporalium dispositionem conspicit ».   Da ciò deriva la distinzione ch'egli fa della sapienza  e della scienza. La definizione che diedero gli antichi della  sapienza, cioè : Sapientia est rerum divinarum humana-  rumque scientia, va divisa cosi che sapienza si dica pro-  priamente della conoscenza delle cose divine, scienza della  conoscenza delle cose umane.   (S. Ili d, XXXV, 1) «... illa definitio dividenda est, ut  rerum divinarum oognitio sapientia proprie nuncupetur,  hùmanarum vero rerum cognitio proprie scientiae nomen  obtineat ».   L'influsso mistico di S. Bernardo suo protettore e dei  suoi primi maestri di S. Vittore, si fa sentire in Pier Lom-  bairdo là dove afferma che la maggiore o minore quantità  di sapere deriva dalla quantità di amore: (Sent. II, IX,  4) « Sed qui magis diligit plus coginioscit ».     99     Natura delFanirpa*     Abelardo definisce Tanima come una certa essenza  spirituale e semplice: (introd. ad theol. Ili, 6) « Anima  quippe spiritualis quaedam et simplex essentia est ». Non  diversamente la definisce il nostro Lombardo là dove dice  (sent. I, IH, 12) « Mens enim i. e., spiritus rationalis es-  sentia est spiritualis et incorporea ».   Così Abelardo come Pier Lombardo, si riconnettono a   5. Agostino che in più luoghi dei libri tratta deU anima -n  quanto spirituale ed incorporea.   L'anima si dice semplice perchè non si diffonde in e-  stensione, ma in qualunque corpo in tutto o in qualsivoglia  paorte di essa è intiera. Cosi quando avviene qualche cosa  nella più piccola parte del corpo, che sia avvertita dall'a-  nima benché non avvenga in tutto il corpo, tutta Tanima  sente perchè non tutta si tien nascosta.   (Sent. I, VII, 5) « (Simplex dicitur anima) quia mole  non diffunditur per spatium loci sed in unoquoque corpore  et in toto tota est et in qualibet eius parte tota est. Et  ideo cum fit aliquid in quavis exigua particula corporis  quod sentiat anima, quamvis non fiat in toto corpore, illa  tamen tota sentit quia totam non latet ».   In ciò segue il Lombardo la dottrina professata da A-  gostino e da Plotino, il primo nel libro di trinitate (VI,   6, 8), de quantitate animae (cap. 33, 70) de immut, animae  (I, 16, 25) il secondo in enn. (IV, 33 edit Volkmanm).   Ma se Tanima è semplice, dice il Lombardo nel luogo  citato, in confronto del corpo, per sé stessa non è semplice  ma molteplice. Poiché altro è essere operoso, altro Inerte,  altro acuto, altro memore, altro è desiderio, altro è ti-  more, altro è letizia, altro è tristizia, e queste cose ed altre  dello stesso genere si possono trovare nella natura delVa-  nima ed alcune senza le altre ed alcune più ed altre meno,  onde è manifesto che la natura dell'anima non é semplice,   ma molteplice « unde manifestum est animae non sim-   plicem sed multiplicem esse naturam ».   In conclusione la natura deiranima offre due lati: è  semplice da un lato se si paragona colla natura del corpo  molteplice se si paragona colle sue potenze     100   Ma ranima è altresì immortale. L'uomo è fatto a  somiglianza di Dio e la somiglianza nella essenza perchè  essa è immortale ed indivisibile.   (Seni. Il, XVI, 4) «Factus est homo... ad similitu-  dinem dei... similitudo in essentia quia et immortalis eit in-  divisibilis est. linde Augustinus, de quant, anim. I, 2-3:  « Anima facta est similiter deo, quia immortalem et indis-  solubilem fecit eam deus ».   Ma la filosofia scolastica fedele al precetto: distingue  prequenier^ come limita e divide il concetto della semplicità  deiranima cosi na limita e divìde quello della immoortalilà,  distinguendo il coooeilto della morte intesa in senso asso-  luto di annientamento da quello della stessa intesa in senso  relativo di mutazione : ed in quest'ultimo senso Tanima non  è del tutto immortale.   (Seni. I, Vili, 3 ) « In omni mutabili natura nonnulla  mors est ipsa mutatio quia fecit aliquid in ea non esse quod  erat, unde et anima humana quae ideo dicitur immortalis  quia secundum modum suum nunquam desinit vivere^ ha-  bet tamen quandam mortem suam ».     Orijioe d^U'aoirpa.     Riguardo airorigine delFanima si agitavano ai tempi  del Lombardo due diverse opinioni, Tuna del traduzioni-  smo (1) che pretendeva che Tanima venisse generata come  il corpo, l'altra del creazionismo che pretendeva al con-  trario che fosse creala da Dio direttamente.   A quest ultima si attiene naturalmente il Lombairdo  con Abelardo, Roberto PuUus, Ugo di S. Vittore. Dio creò  ranima dal nulla dice il Maestro: (Sent. II, XVII) «Flatus  factus est a deo, non de deo, non dealiqua materia sed de     (1) Odo di Cambra!: (de pen. orig. II) « Sunt autem multi qui  volunt animam ex traduce fieri sicut corpus et cum corporis semine  vim etiam animae procedere » Vedi Espen. o. e. p. 96,     I 101   nihilo ». Quindi cornhatte; ropinione di coloro che affer-  maaio con Origene che le anime sono state tutte create  al principio del mondo, e quella di coloro che con i Lu^ci-  feriani e Cirillo ed alcuna dei Latini pensano che Tanima si  comunichi ai figli per generazione e nello stesso modo  che il corpo. Mentre Tanima non è infusa nel corpo che  quando esso è tonnato ed adatto a riceverla.   (Sent. II, XVII, 3) Sed quicquìd de anima primi ho-  minis aestimeoitur, de alias certissime sentiendum est, quod  in corpore creentur; creando emim infundit eas deus et in-  fundendo creat ». E più avanti : (Sent. II, XVII, 8) e( Unde  Augustiiniis in ecclesiast, dogm. animas hominum di<rit non  esse ab initio inter creaturas intellectuales natuT^as nec  simili creatas sicut Origenes fìngit necque in corporibtis  per coitum seminum sìcuT Luciferani et Cyrillns et quidam  LatiinoiTum praesuanptoìres affìrmant, sed dicimus corpus  tantum per coniugii oopulam seminari, creationem vero  animae solum cneiatoirem nosse eiusque iudicio... formato  iam corpore animam creavi atque infimdi ».   E nel libro IV spiega ancor meglio quest'ultimo pen-  siero ricorrendo all'esempio della casa e del suo abitatore  che vi entra soltaoito quando è ben costruita :   (Sent. IV, XXXI, 5) « Sed iam formato corpori anima  datur, non ini conceptu corporis nascitur cum semine de-  rivata. Nam SI cum semina et anima existit de anima, tunc  et multae animae quotidie pereunt cum semen fluxu non  proficit Ti'ativitati. Primum oportet domum compaginari et  sic habitatorem induci».   E qui è opportu/no ricordare che questa teoria dell'a-  nima si trova pure con poche varianti nel canto XXV del  Purgatorio laddove il Poeta discorre della nascita dell'uo-  mo e spiega   .... come (Tanimal divenga fante.     Relazione tra Fanirpa ed il corpo.   . Seguendo il concetto aristotelico dell'età di mezzo, il  Lombardo ritiene Tanima come forma del corpo.   (Sent. IV, XXXI, 5) « Formatum vero intelligitur cor-  pus propria anima animatum et informe quod nondum  Habet animam »•     102   Un tal concetto va intimamente collegato con un passo  della Bibbia: (Exod. 21, 22, 33) « Si quis percusserit  mulierem praegnantem et aborlivum fecerit, sì adhuc in-  formalum fuerit, multabitur pecunia; quod si formatmn  fuerit, reddel animam prò anima »,   Il Lombardo deride le favole di coloro che immagi-  nano che le anime siano rinchiuse nel coq>o, come in un  carcere, per i peccati commessi in cielo.   (Sent. I, XLI, 4) « Multi... in fabulas, vanitatis abie-  runt dicenls, quod animae sursum in caelo pecoant, et se-  cundum peccata sua ad corponia prò meritis diriguntur, et  dignis sibi guasi carceribus includuntur. lerunt hi tales  post cogilationes suas et... versi sunt in profundum, di-  centes animas in caelo ante conversatas et ibi aliquid vel  mali egisse et prò meritis ad corpora terrena detrusas esse.  Hoc autem respuit catholica fides ».   Ma invece Dio diede senso alla natura coirpoTea perchè  Tuomo capisse che se potè unire due cose cosi diverse,  quali l'anima è il corpo in una tale unità, non è impossi-  bile ch'egli possa partecipare per quanto umile alla sua  gloria.   (Sent. II, I, 10) « Lufeamque materiam fecit ad vitae  sensum vegetare, ut sciret homo, quia si potuit deus tam  disparem naturam corporis et animae in federationem u-  nam et in amicitiam tantam coniungere, nequaquam ei  impossibile futurum rationalis creaturae humilitatem.... ad  sua Rloriae partecipationem sublimare ».   Pier Lombardo non crede che il corpo sia carcere  dell'anima nel senso che sopra si è detto, perchè f)er es-  sere opera di Dio è un bene: ma è pure un carcere nel  senso che il corpo a corrompe e corrompendosi aggrava  Fanima.   (in ps. CXLI, 10) «Vel potius corpus est career non  utique secundum id, quod deus fecit ipsum bonum est, sed  secundum id, quod comimpitur et aggravat animam i. e.  oorruptio eius quae venit ex peccali, career est».   Altrove chiama il corpo quasi strumento e servo del-  Tanima : (in epist. ad Rom.) « Si corpus, quo inferiore  tamquam famulo vel instrumento utitur anima... ». E cosi  pure si legge in un suo sermone : (2P De codem die : ms.  3537 f. 67 V. — In passione Domini seu in annuntiatione :  ms. 18170 f. 148 — vedi Protois op, cit. pag. 144) « Domi-  nus est spiritus noster, anima tamquam domina, corpus  tanquam servus. Hi tres ini domo una cooperantur et si  oonveniunt in bono, vdr bonus intelligilur ».     103   Che cosa è infatti Tuoino se non un'aniina fornita  di corpo? si domanda Ugo di S. Vittore (1). Però a que-  sto riguardo il Lombardo usa di una certa moderazione;  ed il suo modo di pensare intomo alla persona deiruomo  ci fa credere che egli dà un posto importante anche alla  vita (2).   Il Maestro delle Sentenze sul finire del suo libro  principe, cioè alla distinzione XLIII del libro IV, entra  poi a discorreire della morte e della risurrezione del corpo.  E fu il padre Michele da Carbonara il primo a far notare  la conformità che vi è tra le dottrine svolte da Pier Lom-  bardo e i luoghi della Divina Commedia che parlano della  risurrezione, quantuncfue la ragione fondamentale di essa  data dal Maestro diversifichi in sostanza da quella data dal  Poeta.   Nella risurrezione ciascuna anima separata riprenderà  il coqx),   ripigtierà sua carne e sua figura (Inf. VI, 98)   quale era nel fiore della età: e sarà mage^iore allora la  sua beatitudine e la sua cognizione : « amplior erit eorum  cognitio ». Ciò è diffìcile a spiegarsi, dice il Maestro. Ma  è certo che nell'anima è un vivo desiderio di ripigliare il  corpo; riunita al corpo Tanima ha perfectum naturae suae  modum ed ha ampliorem cognitionem.   Altri che verranno poi, si spingeranno più addentro  nella questione come farà S. Tommaso. Ma, dice il Car-  bonara, il Maestro sta come colui che tira le linee più  larghe d'un quadro, in suU'indeterm inalo; e si legga at-     (1) Sent. I, XV Migm 176: « Quid enim est homo nisi anima  habens corpus ? »   (2) Nel sermone 11 (in die Cineris ad poenitentes — .Ms. lat. 18170  in Protois p. 138): «vita praesens messi comparatur et aestati, quia  nunc inter ardores tentationum colligenda sunt futurorum merita  praemiorum. »   (3) P. Michele da Carbonara — Dante e Pier Lombardo (Sent  lib. IV dist. 43-49) con prefazione e per cura di Rocco Murari 2 ^  ediz. Città di Castello 1897 — Voi. XTJV-XLV (VIII-IX della nuova  Serie) deUa Collezione di Opuscoli Danteschi inediti o rari diretti da  M. A. Passerini.     104   tentamente questo tratto « ^f mmor sU healitudo sanctorum  post iudicium; sì leig'gta attentamente e si vedrà che se vi  è trailo che specchi il canto XIV del Paradiso, questo tratto  è desso. La slessa queslfone, gli stessi punti determinali;  ma Insieme rindeterminatezza, il vago, che neirinsieme  domina il Maestro, si risente nel Poeta :   Come la carne gloriosa e santa  Pia rivestita, la nostra persona  Più grata fia, per esser tutta quanta :   (cperfeobum natuirae suae modum habebit anima».     105     CAPITOLO V.     PROBLEMA MORALE     Omne qaod est, in quantum est, bonum est.     Tutta TEtica scolastica è necessariamente compene-  trala della dogmatica teologica. Quella di Pier Lombardo  non diversa in sostanza da quella dei suoi maestri^ si riat-  taeca alle discussioni teologiche intorno alla morale che  ai suoi tempi si dibattevano.     Ubero arbitrio.     La prima questione che ci conviene esaminare, è  quella che riguarda il libero esercizio della volontà.   La libertà, pensa egli con Ugo di S. Vittore (Sent.  Ili, 9), di cui sente più volle l'influsso, chiede di poier  compiere non solo il male, ma anche il bene.   (Sent. II, XXV, 13) « Verum nobis magis placet ut  ipsa libertas arbitrii sit et illa, qua magi® liber est malum,  et alia qua quis liber est ad bonum faciendum. Ex causis  enim variis sortitur diversa vocabula».   Il Lombardie si chiede in appresso quali fattori deter-  minano la libertà umana e ne distingue due, cioè la ra-  gione e la volontà.     106   La prima disceme tra il bene ed il male, la seconda  si muove con desiderio spontaneo ad effettuarlo. Ecco la  definizione e la spiegazione del libero arbitrio secondo  Pier Lombardo.   (Seni. II XXIV, 5) « Liberum verum arbitrium est  facultas rationis et voluntatis, qua bonum eligitur gratia  assistente, vel malum ea desistente. Et dicitur liberum,  duantum ad voluntatem quae ad utrumlibet flecti potest.  Arbitrium vero, quantum ad rationem, cuius est facultas  et potentia illa, cuius etiam est discemere inter bonum et  malum et aliquando quidem discrelionem habens boni et  mali, quod malum est eligit, aliquando vero quod bonum  est...,.» e più avanti:   (Sent. II, XXV, 1) « Liberum ergo dicitur arbitrium  quantum ad voluntatem, quia voluntaTie moveri et sponta-  neo appetitu ferri potest ad ea quae bona vel mala indicet  vel indicare potest ».   Il Lombardo si affretta poi a spiegare un passo di  S. Agostino, ove questi afferma che l'uomo perde il libero  arbitrio dopo il peccato, onde si legge nei Vangeli: (2  Pel. 2) A quo erdm devictus est, huic servus est (Vedi  August. enchirid. 30, 9 Migrie 40).   TIon ciò non si vuol dire che l'uomo perde intiera-  mente la libertà, ma solo quella che ci trattiene dalla mi-  seria e dal peccato (Seni. II, XXV, 8) <( Ecce liberum  arbitrium dicit (scil. Augustinus) hominem amisisse; non  quia post peccatum non habuerit liberum arbitrium, sed  quia libertatem arbitrii perdidit non quidem a necessitate,  sed libertatem a miseria et peccati ».   (9) « Est namque lib^rtas triplex, scilicet a necessitate,  a peccato, a miseria. A necessitate et ante peccatum et  post aeque liberum est arbitrium. Sicut enim lune cogi  non poterai, ila nec modo. Ideoque voluntas merito apud  deum indicalur, quae semper a necessitate libera est *i  iiiunquam cogi potest. Ubi necessitas, ibi non est libertas;  ubi non est libertas, nec volunlas et ideo nec merilum.  Haec libertas in omnibus est tam in malis quam in bonis..».   Il Sentenziario perciò nel suo Commentario nei Salmi  (rimprovera coloro che attribuiscono alle stelle ed al fato,  la colpa dei loro peccati facendone in certo modo respon-  sabile Iddio, che è Tautoire del creato : (in ps. XXXI, 6)  « Ila clamel aeger ad medicum, et dicat : Cum libero ar-  bitrio creavi! me Deus: ideoque si peccavi, ego peccavi  non fatum, non fortuna, non diabolus, me coegit : sed' ego  persuadenti consensi ».     io:   In conclusione, il maestro delle Sentenze^ come già  si è veduto, definisce il libero arbitrio un& facoltà della  ragione' e della vodontà colla quale si sceglie il bene col  soccorso della grazia od il male se la grazia ci manca.  Ma questa definizione, aggiunge l'autore, non conviene a  Dio né ai santi che par essere incapaci di peccare, hanno  un libero arbitrio più perfetto. 11 libero arbitrio di Dio è  la sua volontà ònnisapiente ed onnipotente, che fa senza  necessità e liberamente tutto ciò che le piace. Quella degli  angeh e dei santi non può più portarsi verso il male,  perchè essi sono coiiifermati neha beatitudine e neilla  grazia. L'uomo dopo il peccato ha pure conservato il  suo, ma perchè egli voglia il bene gli è necessaria la  grazia del Redentore.   La teoria del libero arbitrio, che il Maestro professa,  intesa a conciliaire il dogma coi dettami della ragione, non  sfugge, come è ben naturale, a gravi difficoltà. Cosi egli  è costretto per quaiinto si sforzi di provare il contrario,  a mettere l'uomo in una posizione non del tutto giusta,  rispetto alla sua libertà, poiché se egli fa il male, ne è  tutta sua colpa (ideoque si peccavi ego peccavi — in ps.  loc. cit.) quantunqua non possa andare ^nte dal peccalo,  mentre se fa il bene, il merito è tutto di Dio.   (Sent. II, XXVII, 7) « Non tamen sine libero arbitrio  proveoiiunt merita nostra, scilicet boni effectus eo-rumque  progressus atque bona opera quae Deus remunerat in no-  Das et haec ipsa sunt Dei dona. Unde Augustinus (12) ad  Sixtum presbyterum: Cum coronat Deus merita nostra  nihil aliud coronai quasn munera sua ».   Quamto poi alla obbiezione che se Dio sa tutte le cose  che debbono avvenire, noi non possiamo fare in altro modo  di quello che a lui è noto, dal che ne verrebbe la nega-  zione di ogni libertà umana, egli non oppone nulla in que-  sto punto dove espone la teorica del libero arbitrio. Ma noi  possiamo conoscere il suo parere in proposito, purché  noi ci riportiamo a quel punto del libro P, ove parla della  prescienza di Dio, allora assai dibattuta dalle sette sco-  lastiche, come quella che sembrava condurre a riconoscere  il fatalismo. Il Maestro delle Sentenze per rispondere a  questo argomento, fa uso della distinzione così nota agli  scolastici del senso composto e del senso diviso, ovvero  del senso congiuntivo e del disgiuntivo; cioè che non si  può dare che Dio abbia preveduto una cosa e ch'essa non  avvenga, ma è possibile che essa non avvenga, e allora     J06   Dio non Tavrebbe preveduta. Sottigliezze a cui la scuola  dogmatica è costretta a ricorrere ogni qualvolta vien mes-  sa ale strette. Ondie il Pomponnazzi nel suo libro: De  Fato, libero (mbitrio et providentia Dei (V lib. Bàie 1525)  ove si sforza egli pure si conciliare il destino la provvi-  denza e la libertà deiruomo, finisce col non saper dare  altre soluzioni che quelle poste innanzi dalla scolastica,  confessando però che esse sono piuttosto delle illusioni che  delle vere risposte: Videntur potius esse illusiones islae  quam respomiones (lib. III).     Felicità.     Fine a cui tendiamo tutti é la felicità : (sent. V, XLIX,  2) « Beatos autem esse velie, omnium hominum esl ». Il  Lombardo ricorda le parole di Cicerona: Beati certe  omnes esse volufnus, ed è lontano dal contraddirvi, ma  anzi ne deduce che poiché tutti desiderano la felicità, tutti  ne hanno dentro di sé la conoscenza: «... sequitiu' ut  omnes beatam vitam sciant » (1).   Vediamo ora come procede il Lombardo neiranalisi  della felicità. Sul principio del primo libro egli comincia  dal distinguere la differenza che v*è tra usare di una cosa  e fruirne. Usare d'una cosa è adoperarla a compiere la  nostra volontà, fruirne è usarne con gioia, è aderirvi per  amore e ciò non avviene in questa vita.   (Sent. I, I, 3) « Uti est assumere ali<juid! in f acultateni  voluntatìs. Frui autem est, uti cum gaudio, non adhuc spei  sed jam rei... et ita in hac vita non videmur frui sed tan-  tum uti, ubi gaudeamus in spe, cum supra dictum sit, frui  esse amore dnhaerere alieni rei propter se : qualiter etiam  hic multi adhaerant Deo».     (1) Dantb — Purgatorio XVII 127-9:   Ciascun confusamente un bene apprende  Nel qual si queti T animo, e desira:  Perchè di giugner lui ciascun contende.     l09   E poiché questo sembra far iidsceire eontraddiàoni,  egli la rivolse così chiarendo il suo concetto. Tanto qui  come nel futuro si può in certo modo fruire della beati-  tudine eterna, ma mentre in cielo noi la godremo in modo  perfetto perchè, come dice S. Agostino, l'avremo vicina  qui in terra, non la godiamo che per riflesso ed è ciò che  ci fa sopportare i travagli della vita.   (Sent. I, I, 4) « Haec ergo quae sibi contradicere vi-  demtur, sic determinamus, dioente», nos et hic et in futuro  frui : sed ibi proprie et perfecle et piene ubi per speciem vi-  debimus quo fruemur, hic autem, dum in spe ambulamus  fruimur quidem sed non adfeo piene... Idem (scil. Augu-  stinus) in Uh. de Doc. christ. ail (lib. I, cap. 30) : Angeli  ilio fruentas jam beati sunt quo et nos frui desideramus;  et quaai'timi in hac vita iam fruimur, vel per speculum,  vel din aenigmate, tanto nostram peregrinationem et lolera-  bilius sustioemus et ardentius fruire cupimus ». In questa  teorioa il Lombardo si liem stretto a S. Agostino ed esprime  41 medesimo comcetto che più tardi sarà svolto da S. Tom-  maso col fine mediato ed iumiediato.   guanto alla questione, se si possa gioire della virtù  per sé stessa o solo come mezzo di acquistare la vera fe-  licità, egli si prova come è suo metodo di conciliare la  prima opinio*ne, che sembra confortata da un passo di  S. Ambrogio, con la seconda professata da S. Agostino,  affermando che la virtù può essere amata per sé slessa,  ma che non dobbiamo fermarci lì, ma bisogna tendere ad  un fine più elevato e riferire la virtù a Dio come fine ul-  timo.     Amoralità d^Ue aztooi urpaoe*     Quali sono le azio^ni umane che si debbono chiamare  buone secondo il Lombardo e quali cattive ? Egli risponde  suirautorità di S. Ambrogio e di S. Agostino, che ciò che  fa buona o cattiva una azione è Tintenzione. Ed in ciò non  discorda da Abelardo che afferma appunto nelFEtica (cap.  XI) : « Unde ab eodem homine cum in diversis temporibus     Ilo   idem fiat, prò divemsitate tametn inlentionis eius operatio  modo bona modo mala dicitm* ». Infatti il Maestro nel libro  secondo d^e Sentenze (dist. XI, 1) dice quasi allo slesso  modo : « Nam simpliciter ac vere sunt boni illi actus, qui  bonam causam et intentionem id est qui voluntatem bonam  comitantur et ad bonum finem tendunt: mali vero sim-  pliciter dici debent qui perversam habent causam et inten-  tionem ». E cita a questo proposito le parole di S. Ago-  stino : (enarr. in ps. XXXI, 4) « Bonum eriim opus intentio  facitìK   In conseguenza è un'azióne buona confortare i po-  veri se si fa per compassione e misericordia : ma la stessa  azione diventa cattiva se la si fa per ambizione. Vi sono  tuttavia delle azioni le quali sono cattive per sé stesse e  che la intenzione non può rettificare: tali sono la men-  zogna e la bestemmia.   Ksse poi sono cattive in quanto sono privazioni dell'es-  sere, perchè ogni cosa, in quanto è, è buona : Omne quod  est in quantum est bonum.     L.a le^^e fT)orale«     Stabilito cosi guali sono le azioni buone o cattive, &  seconda dell'intenzione, restava a determinare quale è il  caratieire morale che deve contraddistinguere le nostre a-  zioni e qual norma si deve necessariamente seguire per  muovere al bene : dione insomma dove deve dirigersi- la buo-  na intenzione. In coerenza colle dottrine da lui professate,  •il Maestro pone la regola delle azioni umane nella legge  divina : perciò il peccato consiste in una infrazione alla  legge divina (1).   (Sent. II, XXXV, 1) « Peocatum est omne dictum vel  factum vel concupitum quae fit contra legem Dei, . . Quid est  ipeccatum nisi legis divanae praevaricatio? ».     (1) n Lombardo ammette altresì una legge naturale, lex natu^  raliSj la quale ebbero anche i Gentili, ma questa non basta a con-  durre a salvamento.     Ili   Nofli è qui il luogo di indicare il difetto originale d una  tale dottrina che nel porre fuori di noi la legge del nostro  operare, si condanna alla, contraddizione. Mi basterà ri-  coirdare che essa si presenta assai più sviluppata in S. Tom-  maso, il quale pone innanzi iJ concetto aristotelico della  ragione umana, la quale è la natura dell'uomo in quanto  è uomo: ondfe poiché ogni cosa è buona quando è con-  forme alla sua propria natura, ogni cosa sarà buona ri-  spetto airuomo quando sarà conforme alla ragione. Ma  questa stessa ragione e natura umana ripete il suo potere  regolativo dalla natura divina : « quod autem ratio umana  sit regula voluntatis humanae, ex qua eius bonitas mensu-  retur, habet ex lege aeterrm quae est divina ». (Sum  theol. II. 2.).   In conclusione la filosofia patristica e scolastica, si  accorda nel porre il principio normativo dell'operare u-  mano fuori aeiruomo stesso, cioè nella sapienza divina  identica essenzialmente col suo volere.     Bei}e ^ n)ale.     Abbiaino veduto come Pier Lombardo affermi che  tutto ciò che è, in quanto è, è bene : « Omne quod est, in  quantum est, est bonum » (Sent. II, XXXVI, 37). E poi-  ché l3io é d'autor© di tutto ciò che esiste Dio é rautore di  ogni bene.   (Seoit. I, XLVI, 12) (Deus) omnium quae sunt auctor  est, quae in quantum siuiif bona sunt.   Ma non viieme di conseguenza che Dio sia l'autore an-  che del male, giacché il Lombardo come tutti gli Sco-  lastici, concepisce il male come gualche cosa di propria-  mente negativo, cioè come la privazione o la corruzione  del bene.   (Sent. II, XXXIV, 4) « Malum enim est comiptio yel  privatio boni... Quid enim aliud quod malum dicitur nisi  privatio boni?».   Anche S. Agostino nel libro De civitate Dei (XII,  7 Migne 41 p. 355) parla di causa deficiente e non efficiente     l     Ì12   del cattivo operare « Nemo igilul* quaeral ellkientem cau-  sani malae volunfalis: non enim efficiens est, sed defl-  ciens, quia nec illa effectio est sed defeclio ».   E di qui trae buon argomento il Maestro a confutare  l'obbiezione di eoJoro che insinuano che Dio essendo au-  tore di tutto ciò che esiste, deve essere altresì autore del  peccato.   (Sent. I, XLVI, 12) « Quocirca mali auctor non ^t  (scil. deus) et ideo ipse summum bonum est, a quo ^n  nullo delicere bonum est, et malum est deflcere. Non est  ergo causa deficiendi id' est tendendi ad jion esse, qui,  ut ita dicam, essendi causa est, quia omnTum quae suoit,  auctor est, quae in quantum sunt, bona sunt... Ecce aperte  habes quod deficere a deo... malum est ».     .).•,.-. ~._.     113     CAPITOLO VI.   LA DOTTRINA SCOLASTICA  IN PIER LOMBARDO E DANTE     L.oiT7bardo nel cielo del 5oIe.     Entrato €on Beatrice nella sfera del sole Dante, ap-  preoide diairanima di S. Tommaso chi essa sia e chi siano  i fulgor vivi e vincenti Sella sua ghirlanda.   Se si di tutti gli altri esser vuoi certo,  Di retro al mio parlar ten vien col viso  * Girando su per lo beato serto,   QuelValtro fiammeggiare esce dal riso  Di Graziano, che Vano e l'altro foro  Alutò si che piace in Paradiso.   L'altro ch'appresso adorna il nostro coro  Quel Pietro fu che con la poverella  Offerse a Santa Chiesa suo tesoro   {Par, X, 100, 108;.   Qui Francesco Buti commenta :  con la poverella offerse fece la sua offerta della sua fa-  cilità, come la po-verella della quale dice rEvangelio di  Santo loanni, che offerse poco, perchè «poco aveva, ma  con buon cuore e peirò Iddio accettò più la sua offerta che  quella del ricco, che, benché offerisse molto, non offerse  con si buono animo (1).     (1) Commento di Francesco Buti sopra la Divina Commedia per  cura di C. Giannini Pisa 1858.     114   I più dei oammentatapi ricordano le prime parole del  prologo del Liber Sententiarum :   « Cupientas aJiquid de penuria a-c temiitate nostra  cum paupercula in gazophilacium Domini miUere ardua  scandere et opus supra vires nostras praesumpsimus».   Le parole di Pier Lombardo chiaramente fidludono al  noto episodio della poverella, riportato da San Luca (XXI,  1, 4) e da S. Marco (XII, 41, 44) e nooi da San Giovanni  come erroneamente riferisce il Buli.   Dice San Luca:   « Respiciens autem vidit eos, qui mittebant munera  sua in gazophilacium diviles. Vidit autem et quamdam vi-  duam pauperculam mittenlem aera minuta duo. Et dixit:  Vero dico vobis, quia vidua haec pauper, plus quam  omnes misit. Nam omnes hi ex abundantia siti miserunt  in munera Dei : haec autem et ex eo, quod deest illi, omoiem  victum suum quem habuit misit ».   Così ad un dispreeso racconta San Marco con leggere  vananti : solo è da notarsi che egli chiama la donna uidua  una pauper e vidua hxiec pauper e non mai col diminu-  tivo tanto affettuoso di paupercula che per essera stJ^lo  scelto da Pier Lombardo fa pensare ch'egli si sia riferito  in special modo al passo di San Luca della Volgata.   Ma ciò poco importa : importa invece assai il notare  come l'umiltà della vidua paupercula avesse toccato «pro-  fondamente il cuore di Pier Lombardo il quale nel vergare  quelle parole doveva forse ricordarsi con teneirezzìa di  un'altra vedova poverella di un lontano paese di Lombar-  dia : e come Dante che nei veirsi che dedicava ai persooiaggi  della sua^ Commedia soleva «per lo più introduirre Tele-  mento soggettivo dei ricordi ed affetti personali non senza  ragione ricordò quel punto e quello solo dell'opera di  Pier Lombardo.   L'influenza che il ma^fister Petrus esercitò sul pen-  siero del Divino Poeta non è stata ancora tutta quanta  spiegata e compresa nella sua giusta entità. 11 tkeologus  . Dantes nullius dogmatis expers dà a S<a«n Tommaso il  posto d'onore che gli conviene, ma a San Tommaso com-  mentatore di Pier Lombardo. Se Dante e San Tommaso  non si possono ancor dire contemporaiiiei sono vissuti a  poca distanza di tempo e sono entrambi commentatori e  perfezionatori dell'opera ancora rozza si ma feconda di  Pier Lombardo : l'uno raggiunge finalmente colla sua ma-     115   unifica somima quel connubium fidei ac rationis che il  Magister aveva solo tentato, Taltro ina canta il trionfo  glo-rioso.   Che Dante avesse letto il Rbro delle Sentenze con  mollo amore ci è provato non solo dai versi succitati, ma  da numeirosi passi del Paradiso ove come diremo tosto  rimitaziione risulta evidente : ed io sarei anche propenso a  credere che rAlighieri non si fosse Termato alla lettura di  quel libro solo ed a tutti noto di Pier Lombardo.   Qui sono tratto ad accennare fuggevolmente alla  famosa questione del viaggio di Dante a Parigi : questione  ove troppo, eletti ingegni si cimentarono perchè io presu-  ma di recare qualche nuovo raggio di luce.     Dante zill'Uoiversiià di Parigi.     Giovanni di Serra valle comme«ntatore del secolo XV  racconta :   « Anagogico dilexit Theojogiam sacram, in qua diu  studuit tam in Oxoniis in regno Angliae quam Parisius  in regno Franciae : et fuit Bachalarius in Universitate Pa-  risiensi in qua legit Senlentias prò forma magisterii : legit  Biblia : respondit omnibus doctoribus, ut moris est, et  fecit omines actus qui fieri debent per doctorandum in  Sacra Theologia ».   Egli continua poi a dire che Dante non potè ottenere  la laurea perchè gli mancò il denaro per la licenza (deerat  pecunia). Onde tornò in Firenze per acquistarlo, optimus  artista, perfectus Theologus e quivi fatto «priore si diede ai  pubblici uffici e più non si curò della Università diPa-  rigi (1). ,^   Il (racconto di Giovainni di Serravalle fu accolto dairO-  zanam e dairArriviabene con maggior serietà che mm me-     (1) G. TiBABOSOBi — storia della leti. Hai. Modena 1789 Tom. V.  p. 490 - Fratria F. de Serravalle Translatio et comentum totius libri  Dantis Aldighieri cum textu italico Fratria Da Colle, nunc primum  edito — Prati 1891 - (Jiachetti in fol.     116   ritasse. Secondo un tale» racconto Dante sarebbe andato a  Parigi nella sua giovinezza contro raffestazione del Vil-  lani, del Boccaccio, di Benvenuto da Imola che fanno il  viaggio degli ultimi anni. Ed il chiaro professor Cipolla  osserva che è appena credibile che Dante fossei in cpiel  tempo cosi spirovviiyto di credito da non potere ottenere  la somma che gli era necessaria : onde giudica il racconto  di poca probabilità. Ma TinverosimigHanza di lutto il rac-  conto appare manifesta quando un poco si pensi al modo  come era organizzata la facoltà teologica di Parigi ai tempi  di Dante.   Il buon vescovo di Fermo volendo mostrarsi molto ap-  profondito nella conoscenza dei gjradi accademici com-  mette degli errori grossolani : et fuit Bacchalarius in Uni-  versitate Parisiensi in qua legit Senlentias prò forma Ma-  gisterii: legit Biblia ».   Ma si è veduto nella parte storica del lavoro che  Tanno in cui il baccelliere éiventsiV aSententiarius cioè  commentava in pubblico il libro delle Sentenze non pre-  cedeva, ma seguiva la spiegazione della Sacra scrittura:  dopo quell'anno il baccelliere si chiamava baccalaureus  forrnatus che risponderebbe mutatis mutandis al nostro  laureando. Perciò Giovanni di Serravalle per essere esatto  come vuol parerlo, avrebbe dovuto invertire l'ordine delle  parole. Ma non vogliaino essere molto esigenti su ciò:  c'è ben altro.   Gli omnes aclus qui fieri dehent per doctorandum  in sacra Theologia (1) erano e forse Giovanni di Serra-  valle lo ignorava, i sermoni (sermones) e le conferenze  (controversia^) che si dovevano tenere nei .tre o quattro  anni che precedevano la licenza ed infine le tre dispute  pubbliche di cui la più solenne veniva chiamata Sorbonica:  ma la licenzia (licentia) che veniva dopo tali prove accor-  data e che il Serravallei chiama con termini vaghi inceptio,  conventus^ non esigeva alcuna pecunia di sorta.     (1) Il SerravaUe e tutti i Commentatori si riferivano aU' accenno  Dantesco;   si come il baccelUer s'arma e non paria,  fin che il maestro la question propone,  per approvaria e non per terminarla.   Par. XXIV 46 - i8,     117   Infatti già il concilio Lateranense del 1179 aveva  proclamato due punti fondamentali : la necessità e la gra-  tuità della licenza ed un tale decreto trovò po'sto nelle De-  finire di Gregorio' IX. Solo per eccezione fu eoncess^o sul  finire del Xll a Pietro Comestore, cancellario di Nótre  Dameij per i suoi pregi personali, da Alessandro III, di pre-  levare uoiia piccola rimunerazione per la concessione della  licenza.   Ed ancora il Regolamento di Roberto di Courcon del  1215 insisteva sulla concessione gratuita ed ìncondiziomita  della licenza : ed una tale disposizione veniva conifermata  nelle reigole aggiunte dal papa Gregorio II di cui cono-  sciamo il benefico intervento nei dissensi tra rUniversità  ed di Re di Francia. Nella famosa bolla Parens scientia-  rum (1231) viene prescritto formalmente « che il cancel-  liere non potrà esigere da coloro ai quali conferirà la li-  cenza né giunamento, né obbedienza, né denaro, né cau-  zione, né promessa ».   Ora è noto a tutti che lo statuto di Roberto di Courcon  confermato e completato dalla bolla di Gregorio IX, la  quale fu pure rinnovata senza modificazione da Urbano IV  nel 1261, continuò ad essere per tutto il secolo XIII 'a  legge fondamentale deirUniversità e pertanto della facoltà  teologica di Parigi.   Per il che sembra a me che il fondo storico del rac-  conto di Giovanni di Serravalle venga a mancare sempre  più di consistenza.   Carlo Cipolla nel suo dotto ìavaro Sigieri nella Divi-  na Commedia, dopo avere ossei-vato che il Sigieri ricor-  dato tra i beati del canto X deve ritenersi come Sigieri di  Brabante, e non va identificato col Sigieri de Conrtrai {Le  Clero) visisuto in epoca diversa, e neppure con quello di  cui si iparla nel sonetto del Fiore (Castets) avverso a San  Tommaso, crede probabile, che Dante fn a Parigi negli  ultimi anni di sua vita ed airincirca negli anni 1316-1318  e non vi ascoltò le lezioni di Sigieri di Brabante perché  questi era morto avanti il 1300 (1).   L'abate Feret tornando su questa questione nel volu-  me II deiropera cit. (cap. Les Sorbonnistes) crede errat-ì  così, l'opinione del Le Clerc che del Castets, combatte ^e     (1) Giornale storico den« Lett. It. Voi. Vili — Torino LoescUer  1886 p. 54 - 139,     118   asserzioni di Gaston Paris, ed airiimesso che il Sigieri di  Dante è il Sigieri di Brabante che quitla cette vie en repu-  tation d'une orthodoxie parfaite, non si discosta mollo  dalle oonclusdoni del professor Cipolla che mostra di mion  conoscere (1).   Questo sembrerebbe coaidurci assai fuori del nostro ar-  gomento se una buòna osservazione del prof. Cipolla a  questo proposito della partecipazione dell'Alighieri alle  lezioni dd Sigieri non mi facesse tosto ritornarvi.   Egli afferma che « per ciò che riguarda Sigieri, altro  è ammettere nel luogo Dantesco vm ricordo personale, ed  altro è credere che questo ricordo personale sia tale dav-  vero da comprenderà poS la partecipazione dell'Alighieri  alla scuola di quel filosofo. Alle scuole di Parigi i libri  del Sigieri eratno rimasti auasi come lesti agli scolari,  tanta Sama le sue lezioni vi avevano lasciato ».   Cosi per ciò che riguarda Pier Lombardo, io ag-  giungerò che oer spiegare la profonda conoscenza che  Dante ebbe del Libro delle sentenze, non è necessario di  credere col Serravalle che Damle abbia commentato le sen-  tenze nella scuola di Teologia perchè lo studio che in quei  tempi se ne faceva in Parigi, la fama che vi godeva e che  già aveva provocato i lamenti di Ruggero Bacone, certo  potevano non poco contribuire a farglielo conoscer© più  in là del frontìsipizio e del prologo.   Per fama egli conobbe a Parigi Sigieri, per fama vi  conobbe Pier Lombardo ed entrambi egli ricordò con par-  ticolar cura nei suoi versi ove palpita un affetto personale.     Influen2nL di Pier Lorpb^rdo  nell'Operai di Dante*   Ma se poca o nessuna influenza ebbe la filosofìa di Sigieri  neiropera di Dante, molta invece ne ebbe in quella di  Pier Lombardo.  Un esempio:   Speme dissHo, è un attender certo  Della gloria futura, il qual produce  Grazia divina e precedente merlo.   {Par, VI 67, 69)   (1) P. Fkrkt La f acuite de Tkeol, de Paris - Ricarcl 1898 Tom,  II. Parte II.     119   Pietro di Dante, TOttimo, la Chiosa Cassanese, ricor-  dano la definizione di Pier Lombardo: «est spes certa  exjeiotatio futurae beatitudinis veniens ex Dei gralia et  mentis praecedentibus ». (Lib. Seni. IH. dist. 26).   Iacopo della Lama, rÀnonimo rioooimno assai meno  opportunamente a San Toit^màso: spes est motus appe-  Wiiae virtutis consequens apprehensione boni fulnri ad-  nui possibilis adiptsci ».   Ho citato, per ppoporre un esempio, uno dei tanti  luoghi ove il Lombardo viene dal poeta preferito all'Aqui-  nale, o meglio dire ove cosi San Tommaso come Dante  attingono -alla medesima fonte: Pier Lombardo. Qui si  ha una traduzione letterale delle parole del Maestro che  appaiono anche in San Tommaso sotto una veste più fi-  losofica. Ma non è questo il solo punto ove un tale raf-  fronto è possibile.   Fu uno dei più assidui, il Senatore Carlo Neg'-;ni,  a far notare la ^ainde importanza che ebbe il libro del  Maestro nel pensiero di Dante.   JNella prefa/jine al volume. .V. della Bibbia volaare  ri884), accennando a Pier Lombardo della cui opera si  giova Tespositore dei salmi di quella Bibbia, promise di  occuparsene : « In un altro mio scritto dove avrò Taiuto di  un teologo profondo, e mio buon amico, farò il confronto  tra le «proposizioni teologiche della Divina Commedia e  quelle dei libri delle Sentenze: ed il lettore vedrà che le  prime non sono altro che Tespressione poetica delle secon-  de, fedelissima e latta con invidiabile precisione ». Di-  sgraziatamente il Negroni occupato in altri lavori, non  potè adempiere .alla sua promessa, ma dando esempio dì  larghezza d'animo, consigliò ed aiutò Tamico suo C. Car-  bone, (P. Michele da Carbonara), poi prefetto Apostolico  deirÉritrea, nell'opera a cui egH non poteva attendere, e  ne promosse la pubblicazione. Nel 1890 Frate Michele da  Carbonara pubblicò infatti Slcuni Studi Danteschi (1) e   (1) Tortona Tip. A. Rossi 1890 — Stttdi Danteschi Voi I. Dante  e S. Francesco ~ Voi II. Dante e San Bonaventura.   Nella Biblioteca Negroni si trovano nel carteggio privato le lettere  che il Carbone indirizzava a Carlo Negroni piene d'erudizione e di  affetto per l'illustre amico. Trov.ansi pure tra i copiosi ms. due fa-  scicoli; n. 26: Pier L. nel Paradiso; n. 27: Appunti Danteschi. Essi  contengono citazioni, note erudite che il Negroni veniva man mano  scrivendo. La malattia e la morte tolsero il modesto studioso e gene-  roso filantropo aUa tranquilla ed utile sua operositét letterarii^.     120   nel volume I. dedicato al Neuroni, prese in esame» il I\'  Libro delle Sentenze collo studio: Dante e Pier Lombardo.  Questo appunto- che è il migliore ed il più originale, entrò  poco dopo inella collezione di opuscoli inediti e rari diretta  da G. L. Passerini (N. 44-45) per cura di Rocco Murari. In  esso il Carbone che si limita «all'esame delle distinzioni  43-49 del IV. delle Sentenze, conclude che il seme che è  nel libro delle Sentenze di Pier Lombardo mostra i suoi  fiori ed i suoi frutti ini Dante.   Nella tornata del 19 Aprile 1891 airAccademia Ponta-  niana, il socio residente Alberto Agresti le^e una memo-  ria dal titolo: Eva in Dante ed in Pier Lombardo (1) ed  anch'egli ricordò a proposito di questi studi, Tamico Ne-  groni e lo studio di frate Michele da Carbonara.   Ponendo a raffronto i passi danteschi ove vien citala  Eva (tacendo di tre che non danno alcun ^udizio della  sua colpa : (Purg. e. Vili v. 99 - C. XXIV, v. 116 - C. XXX  V. 52) uno comune con Adamo (Purg. 6. XXVIII, v. 142);  gli altri (Purg. e. XII, v. 70; Par. e. XIII, v. 37; Purg.  e. XXIX, V. 23; Purg. ò. XXXII, v. '2), ove si dà un giu-  dizio sfavorevole di Eva ed il passo del De-Viilgari Eloquio  ove Dante chiama Eva praesumptuosissimam), cerca da  quali letture Dante ricavò il severo giudizio. Combatte To-  •pinione di V. Imbriani, (Studi danteschi. Firenze, Sansoni  p. 42) che coIFesempio del Boccaccio vuol dimostrare 'i&  scarsa erudizione teologica di Dante. Nella testimonianza  di San Tommaso {Summa, P. II, 29-153) Isidoro {Sentent,  l^ib. II. e. XVII), Sant'Anselmo {De pec-orig. e. 9), Ugo  da S. Vittore, San Bonaventura non trova la ragione delli  eccessiva severità deirAlighieri, bemsì in Pier Lombardo  (Lib. II. dist. 22) che così si esprime:   « Adamo non istimò vero ciò che il diavolo aveva sug-  gerito; stimò di peccare in maniera da esserne perdonato.  Forse come vide che la donna, gustato il frutto, non era  peranco morta, prevaricò e volle ainch^'egli fare esperimen-  to del legno proibito. Più però Ta donna, perchè volle  usurpare l'eguaglianza della divinità e levata in superbia  nimia vraesumptione^ credette così doversi avverare.   Adamo non volle contristare la donna, ma certo non  vinto da carnale concupiscenza, non sentila peranco in     (1) Napoli, Tip. della R. Università 1891,     121   lui, ma per una certa amichevole heoievotenza per la quale  il più delle volte avviene che si offende Dio per non of-  fender l'amico. In un certo modo Adamo fu anch'egli de-  ceptus ! Nella donn<a /fu majoris tumoris praesumptio :  ella peccò in sé, nel prossimo , in Dio : l'uomo solo ui  sé ed in Dio ».   E l'Agresti finisce insomma col concludere che « stu-  diare la D. Commedia al lume dei libri delle Sentenze è  tutto un lavoro nuovo che manca alla letteratura dante-  ca ». A me non resta che augurarmi che un tale 1'  si compia e che una feconda curiosità subentri alla sterile  dilRdenza nelFaprire il libro di P. L. che Dante non certo  per cura della rima chiamava il suo tesoro.     AGGIUNTA NECESSARIA:     I ìinyiìì dell'erudizione.     Ristrettezza di tempo mi ha impedito di dare, com'era  mio desiderio, maggior svolgimento a questi insufficienti  cenni sull'influenza esercitata dal maestro delle Sentenze  sull'opera di Dante e non sulla Divina Commedia soltan-  to. Dell'utilità di una maggiore e più profonda conoscenza  di tali rapporti, è prov:a quanto si è venuto in questi anni  scrivendo dagli studiosii di Dante coll'intento in verità non  sempre raggiunto di recar "maggiore luce airinterpreta-  zione' del poema dantesco.   Ancora in un recente fascicolo del Bollettino della  Società Dantesca Italiana (Settembre 1912) E. G. Par«odi  m una dotta recensione consacrata ad un apprezzato studio  del prof. Surra su La conoscenza del futuro e del pre-  sente nei dannati danteschi (Novara, Tip. Guaglio, 1911),  si vale del confronto colla dottrina del Maestro delle Sen-  tenze per meglio chiarire i dubbi che le parole di Farinata  non sciolgono sul modo di conosceniza dei dannati. Contro  la tesi del Surra, che fortificandosi del concetto delFìrra-  zionale nell'arte, ampiaonente illustrato da G. Fracoaroli,     122   vuol chiudere il passo ^ai diritti 3eireru3ìzioaie, il Pa^rodi  dimostra, citando la 50* Distinzione del IV delle Sentenze :  Ve animabus damnatorum si qua habent notitican eorum  quae hic fiunt, come Tesposizione di Farinata cresce d'im-  portanza venendo a combaciare colla dotlrin<a professata  dal Maestro. Ed è certo che se la contraddizione non può  essere evitata dal pensiero umano, specie cpiando s'aderge  sulle ali della poesia, tanto in Dante come in Pier Lom-  bardo, scola5?tóci entrambi, v'è Tidentioa «preoccupazioaiei di  sfug^rle colla cura più scrupolosa.   Non si può riconoscere tuttavia all'erudizione il dirit-  to di andar troppo oltre, specie nelle sue conclusioni,  perchè Terudizioflie è alla poesia come la ragione è alla  fede, che il sapere medioevale riconosceva potene illumi-  nare senza spiegarla interamente.   Se anche col raffronto più minuto dei passi danteschi  ooiropera del Lombardo (non limitato alle Semtenze) noi  potremo trovare nuove e curiose rispondenze che ci dimo-  streranno le fonti di sapere e d'inspirazione del Poeta di-  vino, dovremo limitarci a riconoscere nulla più che la  materia preziosa, ma informe trasportata e nobilitata dal-  Fopera (in che è il fatto nuovo) dello statuario.   E\ per limitarmi ad un solo esempio, notevole il modo  onde mei Sermoni vengono disposti gli argomenti morali  che il Lombardo distilla da un qualunque versetto biblico:  sono quasi sempre tre i sensi che se ne ricadano ed il nu-  mero 3 entra con una particolare predilezione ìiell armo-  nica e spesso sin troppo misurata distribuzione delle parti  nei suoi discorsi (1). Queste ed altre minuzie di logica ar-     (1) Tres igitur tortae pani8 tres sunt modi dìvinam paginam in-  telligendi Triplex igitar pani8 eat intellectus: tropologicus, scilicet  moralis vel historicus; mysticus, idest allegoricus et anagogeticum  Moralis mores componit, exhauriens malos et confovens bonos; al-  legorìcufl mentis acuit oculos ut mysterioram abdita penetrare  valeant; anagogeticus mentes super se effundit ut in voce exulta-  tionis et confessionis, constituto die, e condensis usque ad domum  Dei rapiatur; nam sicut allegoria alitar intellectus, ita anagoge su-  perior sermo vel sursum tendens interpretatur. Moralis, idest tropo-  logicus, est dulcior, historicus facilior, mysticus auctior. Historicus  insipientibus, moralis proficientibus, mxsticus perfìcientibus congruit.   Ms. lat. 3537 fol 73 - Sermone: Convertimini fili revertentes . .  fine inedita riportata da Haureau op. cit*     123   chitettura oasi caire a Pier Loonbardo, come si avverte  nello slesso Prologo delle Sentenze', do ve vaino esercitare il  loro influsso nel poeta della Vita Nuova e del Paradiso.   Ma non dal solo Pier Lombardo, bensì da tutta 'a  scienza teologica, Dante raccolse mei grande specchio  ustorio della sua mente, la luce che brilla nel suo divino  Poema. Né possiamo comprendere come uno studiotso  deìlla coltura del prof. Amaduocd, possa restringere nel-  rarido opuscolo XXXII di San Pier Damiano, quasi l'unica  tonte del poema dantesco, lo schema dottrinale a cui Damte  avrebbe informato, con perfetta fusione della lettera col-  l'allegoria^ la Commedia, e annunciare seriamente che di-  stinguendo i 100 canti nelle 42 marcie e fermate {num-  sioni} deirallegorico viaggio degli Ebrei contemplato dalla  modesta fantasia di San Pier Damiano, verrà sostituito  nell'esame del poema ai fondamenti ipotetici, il fondamento  scientifico, gli enigmi di sei secoli, troveranno fàcile spie-  gazione e sarà aperta la via ad una nuova valutazione  artistica (1).   Ma tale via non Tha aperta Dante stesso coU'opera  sua?     (1) Z/' opuscolo XXXII di S, Pier Damiano fonte diretta della  Divina Commedia? in Grùymaìe Dantesco dir, da G. L. Passerini  voi. XXI - Firenze, Dischi, 1911.   cfr. E. G. Parodi La fonte diretta della divina Commedia —  in Marzocco, Firenze XXI, 16.     A questa trattazione epero far seguire prosslntamefite un   canltolo, su PIER LOMBARDO E LA SCUOLA MEDIEVALE  Ohe per l'economia dei presente iavoro non potè essere inoluoo.     INDICE     Parte Prima — LA VITA E LE OPERE   Gap. 1. — Le origini oscure .... pag. 3  La nascita a Lumellogno nei primi anni del sec.  XII — L'ambiente nativo — Dipendenza di Lmnel-  il^gno dal Capitolo Novarese — Stato delle scuole  novaresi — Pier Lombardo fu allo studio Bolog^nese?   Gap. il — Nell'ombra del cammino . . pag. 25  Alla scuola di Leutaldo novarese a Reims (1134?-  1136?) — « ParisiUiSi » — La « universitas schola-  rium' » — San Vittore (1136?-1140?) — Santa Geno-  veffa (1140?-1150?).   Gap. III. — Nella luce della fam^i . . . pag. 44  La scuoia di Nòtre Dame (1150?-1159) — L'episco-  pato (1159-1160) — La morte (20 Lug'lio 1160) — La  tomba di S. Marcello — Le onoranze. —   Gap. IV. — L'opera e la fortuna di Pier Lombardo   pag. 59  Le Sentenze — I « Sentenziarii » — I detrattori —  Il « tesoro » — Opere edite ed inedite — I Seamoni.     Parte Seconda — LA DOTTRINA FILOSOFICA   E PEDAGOGICA   Gap. I. — Posizione di Pier Lombardo nella filosofia.   .pag. 71  Metodo — Religione e sciens&a.     Cap. 11. — Problema metafisico e conoscitivo pag. 8Ì  Teoria degli universali — Teoria ctella oonoscenza.   Gap. 111. — Problema ontologico e cosmologico pag. 87  Sostanza ed accidente — Natura e pefrsona — Ma-  teria e forma -- Causalità — Spazio e tempo —  CosmoJKJgia — Posizione dell'uomo neirunàverso.   Cap. IV. — Problema psicologico . . . pag. 97  Potenzie dell' aiiim.a — Natura dell'ajiima — Origine  dell'anima — Relazione tra l'anima e il corpo.   Gap. V. — Problema morale .... pag. 105  Làbero arbitrio — Feldcità — Moralità delle azioni  umane — La legge morale — Bene e mailie.   Gap. vi. — Lm dottrina scolastica in Pier Lombardo  e Dante pag. 113   Pier Lo!ml>ardo nel cielo del Sole — Dante adl'Uni-  v-ersità di Parigi — Influenza di Pier Loonbardo  sull'opera di Dante — Aggiunta necesaaria: I limiti  dell'erudizione.     ILLUSTRAZIONI   1. Ritratto di Pier Lombardo   dall'incisione del Thevet « Les vrais portraàts ecc. »  Paris, 1584 (tavola fuori testo).   2. Portico della Canonica di Novara . . . pag. 20   da un'incisione delle « Monografìe Novanesi »  MigUo 1877.   3. Vene de la VUle de Paris du coté de Vlsle   N. Dame 1750 pag. 29   (antica incisione).   A. N ótre Dame de Paris, 1822 .... pag. 48  (antdca incisione).     YC 3I44T     I     Ifc,     /     > AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica (387 d.C.): in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone 1969: 95). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (s�meia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro, 4.9).  10. 1 STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov 1977: 35; Markus 1957: 72). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo-  228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi.  10.2 RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci, l , l , 22, 4), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d�/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto ��- configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio-  230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco (1984: 33) ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c __________________ m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione sernio-  232 10. AGOSTINO tica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co­ se che significa. 10.4 Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro (389 d.C.). L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: (i) in· segnare (docere) e (ii) richiamare alla memoria (commemo­ rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: (i) il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; (ii) il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  10.5 COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag. , 10.33). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De Mag. , 1 1 . 36) . 10.5 Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere �   10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana (397 d.C.,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa 10.6 LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME ------ segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"    10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i� legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana (Il, l, 1): "Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ., II, III, 4). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere.   10.6 LE CLASSIFICAZIONI 239 Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ. , II, I, 2). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ. , II, II, 3). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus (1957: 75) aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ. , Il , III, 4). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai s�meia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco (1984: 34 e sgg.), verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag. , II, 3). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  l0.7 SEMIOSI ILLIMITATA 241 L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1 , il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . 1 In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: �Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij (1975).

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