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Monday, May 16, 2022

GRICE E CAPORALI: PITAGORA, L'ITALIANO

 ALBERTO GIANOLA     LA   FORTUNA DI PITAGORA   PRESSO I ROMANI   dalle orìgini fino al tempo di Augusto      .>^     CATANIA   FRANCESCO BATTUTO — Editork   1921     PROPRIETÀ LETTERARIA     J^-^  <^^     Catania — Stab. Tip. S. Di Mattai &. C. — 1921.     A   GIORGIO E GUSTAVO DEL VECCHIO   FRATERNAMENTE     PREFA2IONB     La filosofia di Pitagora^ che è generalmente conosciuta  appena in alcuni dei suoi punti fondamentali^ come la  metempsicosi^ Varmonia delle sfere^ la scienza dei nu-  meri^ l'astensione dai cibi carnei e dalle fave^ era in  realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine^  un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale,  la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in pic-  cola parte^ sì per la scarsità dei documenti scritti ori-  ginali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che  i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì  per le amplificazioni^ le falsificazioni e le invenzioni  che partorirono le fantasie di tardi seguaci^ di pseudo-  eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filo-  sofia fu non dilettantismo di m istici fanatici^ ma vera  e ragionata speculazione^ a cui si accompagnò^ parallela,  ima conseguente e logica ragione di vita, sì che^ men-  tre da un lato potè attrarre^ seducendole col fascino  delle verità da essa chiarite e con V armonica bellezza  dei suoi insegnamenti.^ le anime di molti cui pungeva  r assillante aculeo della conoscenza., incontrò daW altro     — VI —   ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate  o di volghi ignobili e sciocchi.   Divulgata.^ se non creata interamente ex novo, nel se-  colo sesto a. C. per opera di Pitagora^ del quale ^ come  di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa^  fu coltivata^ prima che altrove, sulle rive dell' Ionio ^ nella  Magna Grecia e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene  osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca., com'essa  era., di principii che oggi si direbbero idealistici e tra-  sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una  sua particolare armonica concezione della vita indivi-  duale e collettiva^ teorica^ insomma e pratica nello stesso  tempo., essa era ben atta ad informare di se religione  e scienza., politica e morale.^ consuetudini e leggi.   Essa fu da molti connessa non pure con anteriori an-  tichissime dottriìie della Grecia^ deW Egitto^ delV India  e per fin della Cina., dalle quali sarebbe in tutto o in  parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di  somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Pla-  tone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata  poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tra-  mandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto  delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filo-  sofi alessandrini, quando, inalveatesi nel suo letto altre  correditi di pensiero, alimentò le speculazioni della teo-  sofia neoplatonica e ?ieopitagorica di Plotino, di Porfi-  rio e di altri molti, e diede origine a molteplici scrit-  ture, quali più quali meno profonde ed attendibili, in-  torno alla vita ed ai primi insegnamenti delV antico  maestro. Da essa infine tras.sero ispirazione alcuni filo-  sofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può  dirsi non del tutto spenta anche oggi.     — VII -   Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque^ massime  per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottri-  na e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi  e nei vari paesi: poiché^ sebbene molti abbiano fatto stu-  di e ricerche in proposito — basterà ricordare^ fra tanti,  i lavori del Bitter (1), dello Zeller (2), del Gomperz (3),  dello Chaignet (4) e del Mullach (5), e, in Italia, del Ca-  pellina (6), del Cento fanti (7), del Gognetti De Martiis (8),  del Ferrari (9), del Ferri (10) -- e benché da tutti     (1) Heinrich Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Ham-  burg, 1826.   (2) Eduard Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vor-  tràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865 e  Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P pp. 279 e segg.   (3) Theod. Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2*  ed. alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, 1904.   (4) A. E. Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Pa-  ris, 1873.   (5) Fr. G. a. Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc-  cessoribus, in Fragmenta philosoph.. graecor. v. II, Paris, 1881,  pp. I-LVII.   (6) Domenico Capellina, Delle dottrine dell'antica scuola pitago-  rica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di  Scienxe di Torino, serie II, t. XVI (Ì857), pp 37-109.   (7) Silvestro Centofanti, Studi sopra Pitagora (1846) nel volu-  me La letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1870 [Opere, voi. I,  5p. 359 e segg).   (8) CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R.  Accad. delle Scienxe di Torino, 24 (1888-89) e nel volume Socia-  lismo antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496.   (9) Sante Ferraiu, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivi-  sta ital. di Ulosofia, 1890, I e II.   (10) L. Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl'Italiani  intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia  dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547.     — VITI —   questi e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte  notizie^ ma si siano anche esaminate e discusse quistio-  ni importaìitissiìne^ pure troppe cose ancora rimangono  da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò  esterna del Pitagorismo; e fors'anche^ riprendendone i?i  esame il contenuto, ossia tenendo V occhio alla sua sto-  ria interna, che è poi, per la filosofia, la sola importan-  te, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata  dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi vali-  damente fondata e tale da poter resistere agli assalti del  nostro più acuto criticismo.   Gli studi raccolti in questo volume furono già da me  in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli  in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie  ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali  ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono  indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecita-  zioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme.   Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia  che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno  a dimostrare che intorìio a queste importantissime dot-  trine non si è detto ancora tutto e che inolio ancora si  può indagare e scoprire.     INTRODUZIONE     Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi istituti  religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con  il Pitagorismo (1); ne fa meraviglia che alle dottrine di  Pitagora si facessero risalire anche le prime istituzioni e  le più antiche leggi di Roma: Numa, il sacro legislatore  della città capitolin'a, fu ritenuto scolaro di Pitagora, e le  stesse leggi delle dodici tavole, copiate dalle legislazioni  della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta  traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, fu-  rono altresì ricongiunte con questo.   Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter  determinare in che consistessero questi legami di dipen-  denza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi  dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze  e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione     (1) Seneca, per esempio, (Epist. ad Lueilium^ 90) sull'autorità  di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori dell'Italia: «Hi  non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae ilio  sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae et  per Italiani Oraeciae ponerent ».   1.     2 —     romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si  sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una deter-  minazione neppure approssimativa.   Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta sol-  tanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita  civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore in-  flusso, determinando nel corso dei secoli, attraverso le  vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente  di pensiero sua propria, continua o interrotta, palese o  recondita?   Di vera e propria tradizione scritta non ci restano trac-  ce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo  invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non  pochi seguaci che la dottrina pitagorica ebbe in Roma.  Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte  le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi inna-  morati cultori di una così riposta e difficile sapienza non  furono già uomini oscuri uè poeti o scrittori di second 'or-  dine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati,  pensatori insigni e grandi uomini politici ; cosicché la filo-  sofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegna-  menti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati  famosi, come Appio Claudio e il maggiore Scipione, nelle  fantasie di poeti eccellenti, come Ennio e Virgilio, nei  cuori di cittadini nobilissimi, come Figulo, Yarrone e i  Sestii, accompagnò in certo modo passo per passo il pro-  gredire della potenza e della grandezza di Roma; finché  poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva  prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e  l'indole dei Romani, era il meno idoneo ad allettarli, e  all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un  lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un Apol-     — 3     Ionio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi elementi ete-  rogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana,  essa si ritirò di nuovo nel silenzio e nella segretezza di  qualche scuola, illuminò appena la vita e lo spirito di  qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì  per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle spe-  culazioni di un Macrobio o di un Eulogio.   Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la  maggior diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le  tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé.  ha lasciato il pensiero pitagorico nella storia e nella let-  teratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi  esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di tro-  vare. Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere  dello Zeller, dello Chaignet, del MuUach, nella Storia di  Roma del Pais, e in storie generali e particolari della  letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lun-  ghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse  qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle  mie ricerche non consistono dunque nella novità dei ri-  sultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin  qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella  quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne  ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche que-  stione spero anche di avere maggiormente chiarita, seb-  bene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso co-  struire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni  definitive.     CAPITOLO PRIMO     Inìzi leggendari e storici     1. Il Pitagorismo e le più antiche istituzioni di Roma. — 2. Testi-  monianze G prove. — 3. I carmina convivalia. — 4. Numa e  Pitagora. — 5. Le leggi delle XII tavole nei loro rapporti col  Pitagorismo. — 6. Il carme pitagorico di A. Claudio Cieco.   1. — Che molte delle antiche istituzioni di Roma fossero  derivate dalla filosofia pitagorica fu riconosciuto ed am-  messo esplicitamente da Cicerone, il quale nel principio  del quarto libro delle Tusculane (§§ 2-4) lasciò scritto :  « Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernia-  navisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniec-  tura probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indica-  tur » . A conforto dunque della sua opinione egli addusse  due argomenti, uno congetturale e uno di fatto: « Quis  enim est qui putet, — così egli continua — cum fiorerei in  Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas  Magna dieta est, in eisque primum ipsius Pythagorae,  deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset, nostro-  rum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas     — 6     fuisee f Quin etiam arhitror propter Pythagoreorum admi'  rationem Niimam quoque regem pytagoreum a posteriori-  bus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et  instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapien-  tìam a maiorihus suis accepisseut^ aetates autem et tem  pora ignorarent propter vetustatenij eum, qui sapientia  excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse » . E  questa è la congettura; la constatazione di fatto poi è,  che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture  vi sono molte non indubbie tracce di Pitagorismo. Quanto  alle istituzioni, egli trova materia di raffronto nell'uso dei  canti e della musica : « Vestigia autem Pythagoreorum,  quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur....  Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta  quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum  intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere,  gravissimus auctor in Originibus dixit Caio morem apud  maiores hunc epuìarum fuisse ^ ut deinceps^ qui accubarent,  canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtu-  tes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos  vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII  tabulae declarant, condi iam tum solltum esse carmen ;  quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam^ lege sanxerunt.  Wec vero illud non eruditorum temporum argumentum est,  quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides  praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, di-  sciplinae » . E quanto alle antiche scritture egli ricorda un  carme di Appio Cieco, che a lui pare pitagoreo: « Mihi  quidem etiam A.ppii Cacci carmen, quod valde Panaetius  laudat epistula quadam, quae est ad Q. Tuberonem, Py-  thagoreum videtur^?. E finalmente conclude: <^ Multa etiam  sunt in nostris institutis ducta ab illis ; quae praetereo,     7 —     ne ea, quae repperisse ipsi putamur^ aliunde didicisse vi-  deamur». È davvero un peccato che Cicerone, per senti-  mento diorgoglio nazionale — che non doveva peraltro  essere soltanto suo — e forse anche . per ragioni, se non  di Stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di  utilità pubblica, abbia creduto necessario di tacere intorno  a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal Pita-  gorismo, alle quali, come si è visto^ accenna per ben due  volte; tanto piii che egli^ e per le cariche da lui coperte,  e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e  sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda  cultura storica, letteraria e filosofica, era bene in grado  di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo  assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di que-  sta sua affermazione categorica, per quanto generica, e  vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano va-  lidi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò  contro la sua tesi.   2. - Che in verità i] Pitagorismo importato nella Magna  Grecia nel sesto secolo avanti Cristo, « temporihiis isdem  — come dice lo stesso Cicerone — quibus L. Brutus pa  triam liberavit » (1) e propagatosi in tutta l'Italia meri-  dionale, dove si conservò poi per molti secoli, non dovesse  rimanere ignoto ai Romani e dovesse esercitare su di loro,  presto tardi, qualche influsso notevole, è ovvio, e le  presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei  fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si  possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei     (1) Ibid. § 2. Cfr. 1, 16, 8, dove è detto che Pitagora venne in  Italia « Superbo regnante » .     — 8     suoi primi seguaci, come Cicerone credette, oppure, come  credette Livio e con lui gli storici moderni, se esso si sia  fatto sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la  conquista della Campania e della Magna Grecia, che fu  interamente compiuta nel 265 a. C. ; e, d' altra parte, se  questa azione sia stata così larga e profonda da dover  lasciare molte ti^acce di sé negli istituti politici e religiosi  di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manife-  stazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime spe-  culazioni filosofico-religiose.   Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimo-  strino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima  dell'Arpinate, e precisamente fin dal secolo quarto a. C,  cioè prima della conquista dell'Italia meridionale, dovette  essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla  sua dottrina e alle sue leggi fosse debitrice di molto la  città. Il primo di questi fatti è che durante la guerra  sannitica fu innalzata a Pitagora ai lati del Comizio in  Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase  poi sino ai tempi di Siila (1). Ora la guerra contro i San-  niti si combattè in tre periodi, l'ultimo dei quali va dal  298 al 290 a. C. ; e il Pais crede che la cosa si debba  ritenere avvenuta appunto in questi anni ; ma in realtà  non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire an-  che ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un  poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea     (1) La cosa ci è attestata da Plinio, il quale però non cita la  fonte da cui ha attinto la notizia. Dice egli infatti (JV. H. XXXIV,  26): Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus Comitii positas  (statuas), cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo  Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari » .  Cfr. Plutaeco, Numa^ VIIL     — 9 -   e di Taranto (272 a. C.) e con l'arrivo nella città di Livio  Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale,  furono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno  Zaleuco (1). Ora perche mai sarebbero stati concessi a Pi-  tagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se  non si fossero riconosciute le sue benemerenze verso la  città? Evidentemente in quei tempi più antichi l'orgoglio  nazionale non aveva ancora oscurato, come più tardi, il  senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esa-  minare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica  civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà Cicerone.   3. — I carmina convivalia^ che, ormai disusati nell'età  ciceroniana, erano invece ancora in uso al tempo della  seconda guerra punica (218-202 a. C.) e che risalivano,  come affermò Catone, a molte generazioni prima di lui,  furono certamente anteriori alla legislazione decemvirale,  che è della metà del secolo quinto: Cicerone infatti, per  dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti  musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei  tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, in-  sieme con la testimonianza di Catone, il fatto che le leggi  delle dodici tavole comminavano gravi pene a chi avesse  usato quei canti « ad alterius inkiriam » (2). Senonchè  Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti,'     (1) Vedasi il framm. 5 nei Fragni. Hist. Graec.^ II, p. 273 e  Symm. ep. X, 25.   (2) Cfr. De rep. IV, fr, 12 : « Nostrae duodecim tabulae^ quuni  perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam  pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod in-  famiam faeeret fìagitiumve alteri » e vedi auche Plinio, Nat. Hist.  XXVIII, 2, 10-17.     — 10 —   audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a) tempo  del re Numa (1). Se così è, non avrebbe dunque dovuto  valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva,  come si è veduto, alla leggenda che il re Numa fosse  stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi  canti egli poteva logicamente ammettere la derivazione  dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji  istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro  autore credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del  filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cice-  rone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun  valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se  fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più an-  tica storia di Roma — , oppure ~ come è più probabile,  in conformità dei risultati generali e particolari a cui è  giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende  romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal Pitago-  rismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da rite-  nere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto  faceva risalire al secolo ottavo un'usanza che dovette essere  posteriore al seste secolo a. C. Quanto poi all'analogia  considerata in se, in che consisteva essa? Semplicemente     (1) De orai. 111,51, 197: «Nikil est autem tam eognatum mentibus  nostris quam, numeri atque voces ; qtiibus et excitamicr et ineendi-  mur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam  saepe deducimur ; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior  et eantibus, non neglecta^ ut mihi videtur, a Numa rege doctissimo  maioribusque ìiostris^ ut epularum sollemnium fides ac tibiae Sa-  liorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere cele-  brata ». Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè  nel Brutus^ 19, 75 e nelle Tusculane I, 2, 3. Si vedano anche  Tacito, Ann. Ili, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce  ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner.     11     nell'uso comune del canto e deUa musica in occasione di  feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel conte-  nuto dei canti stessi, che gli uni. cioè i Pitagorici, ado-  perarono come mezzo terapeutico e di insegnamento eso-  terico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la  memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti  tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegna-  menti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti  accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga  meditazione, così gli antichi Romani solevano, al principio  dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù  degli eroi, ed ebbero anche l'usanza di far precedere tanto  alle mense in onore degli dei, quanto ai banchetti dei ma-  gistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico  dei Pitagorici. Insomma, le piìi antiche manifestazioni del-  l'arte musicale in Roma si ebbero per l'influsso diretto  del Pitagorismo.   4. — A quel modo che si è dimostrata la possibilità che  siano derivate dal Pitagorismo queste antichissime mani-  festazioni dell'arte musicale, si potrebbe anche riconoscere  come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensava  Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora.   La notizia che il re Numa sia stato scolaro di Pitagora  è probabilmente anteriore al terzo secolo a. C. ; anzi il  Pais afferma (1) che essa si deve forse far risalire ad Ari-  stosseno, . Ma in tal caso sarebbe necessario credere che  questi conoscesse una cronologia della storia romana di-  versa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia  ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu-     (1) Storia di Roma, I*, p. 19 e 387.     12     ma fu anteriore di oltre un secolo a quella di Pitagora.  Tanto è vero che quasi tutti gli scrittori presso i quali  troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'^li-  carnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio —  notano e discutono variamente questa inconciliabilità cro-  nologica, concludendo tutti press'a poco come fa Manilio  nel De re piiblica di Cicerone, che dice la storia di queste  relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali  e quindi da ritenersi « un errore inveterato » (l). Ora che  dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così  dovesse concludersi, è troppo naturale: data la indiscuti-  bile verità della tradizione e della relativa cronologia, non  poteva esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte  di Numa di essere stato alunno di Pitagora. Ma tale im-  possibilità non esiste per noi, che sappiamo come la storia  delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai  tarda, come i computi cronologici che a quella si riferi-  scono siano il risultato di una lunga elaborazione tradi-  zionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di  verità, e infine come molte figure della leggenda siano  soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso di  fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi succes-  sivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se  era validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sus-  siste più oggi che la critica storica ha demolito l'antichis-  sima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che     (1) Ciò. De re pubi. Il, 15, 28: «Inveteratus ho77tinum errore.  Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic. Vili, 14 {.Exc. de vlrt. et vii.  p. 549); Livio I, 18 e XL, 29; Plut. iVwma I, 3; YIII, 5 sgg.;  Plinio, Nat. Hist. XIII, 27. —Quanto alla testimonianza di Ovidio  si veda più innanzi, al cap. IX.     — 13 -«.   quella sollevata da Livio, il quale ritenne impossibile ogni  rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di di-  stanza e di lingua. Dice egli infatti : « Auctorem doctrinae  « eius [i. e. Numae]^ quia non exstat alius, falso Samium  « Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Bomae,  « centum amplius post annos, in ultima Italiae ora circa  « Metapontum Heracleamque et Crotona iuvenum aemu-  « lantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis,  « etsi eiusdem aetatis fuisset^ quae fama in Sabinos f  « aut quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem  « discendi excivisset f quove praesidio unus per tot gentes  « dissonas sermone moribusque pervenisset f suopte igitur  « ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor  « magis instructumque non tam peregrinis artibus quam  « disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum^ quo ge-  « nere nullmn quondam incorruptius fuit » (1). Ma nel  campo della storia, come giustamente osserva il De Mar-  chi (2), è forse detta l'ultima parola sui rapporti che lega-  rono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più  barbare popolazioni italiche del centro ? E d' altra parte  la esistenza ammessa da Livio di una « disciplina tetrica  ac tristis » presso i Sabini dell'ottavo secolo a. C. non è  cosa molto più problematica di quello che non sia pro-  babile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna  Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra  Numa e Pitagora dovrebbe dunque, a parer iiostro, accet-  tarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di  Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo,     (1) Livio, I, 18.   (2) Passi'scelti da Tito Livio ad illustrare le istituzioni religiose^  politiche e militari di Roma antica, Milano, Vallardi, 1907 p. 65.     — 14 —   il formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che  la tradizione riportava a lui, dovrebbe ritenersi posteriore  almeno al tempo di Pitagora, ossia posteriore al secolo  sesto, appunto perchè dalla tradizione era tenuto in stretto  rapporto di dipendenza dal Pitagorismo. In tal modo non  sarebbe più necessario, come fa il Pais, di ritenere inven-  tata da Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a  questo filosofo del quarto secolo, che parla genericamente  di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora (1), e piii facil-  mente si comprenderebbero alcuni dati della leggenda. di  Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re,  e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, am-  metta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla.   Raccontava ancora la tradizione che Numa ebbe tanta  venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare  a un proprio figlio il nome di Mamerco, in onore dell'omo-  nimo figlio del filosofo (2). Che significato può avere questo  nuovo particolare ? Alcuni hanno creduto di scorgere in  esso un tentativo da parte degli Emili Mamertini di far  risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa.  Se così fosse, noi dovremmo allora ammettere che quando  il particolare fu inserito nella leggenda, la cronologia di  questa non era ancora quella ufficiale: altrimenti il tenta-  tivo sarabbe stato puerile. Ma così veramente non è, come  fu giustamente osservato dal Mtiller (3); probabilmente il     (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp (cioè Pitagora), &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal  Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice Por-  firio nel Gap. 22 della Vita di Pitagora; e il medesimo affermano,  senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio (Vili, 14) e Giamblico  {Vita Pythag, 241). Quanto al Pais, vedasi St. di Roma I^,  p. 678-679 n. e altrove.   (2) Plutarco, Numa YIII, 11 ; P. Emilio I.   (3) Q. Ennius, Pietrob. 1884, p. 162 n.     -^ 15 —   particolare non ebbe altro ufficio che di avvalorare con  un indizio di piii la leggenda. Un'altra notizia, a propo-  sito della quale non è veramente fatta menzione alcuna  di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per  la quale Numa ebbe particolare venerazione (1). Allude  forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di  cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È pos-  sibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame,  che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di co-  loro che dubitavano delle sue facoltà soprannaturali (2),  non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pita-  gora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per  il loro carattere favoloso, potrebbero indurci a credere  l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione  storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del  saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica  non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione  diversa; voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi  libri di Numa, avvenuta nel 191 a. C, in occasione di  uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scopei-ta  e la inverosimiglianza, come vedremo nel capitolo seguente,  di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tra-  dizione, che questi libri fosseì'o veramente antichi. Siano  poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza,  come s'è già detto, dovrebbe necessariamente porsi in  un'epoca posteriore al sesto secolo — • o di qualche altro  sapiente imbevuto di sapienza greco-italica, essi starebbero  sempre a dimostrare che effettivamente il Pitagorismo eser-  citò una qualche azione sull'antica civiltà capitolina.     (1) Plutarco, Numa^ Vili.   (2) DioN. Hauc, U, 60.     — 16 —   Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi  possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei  rapporti fra i due legislatori dovette essere assai difPusa  ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di  vero : di guisa che se Cicerone la disse « inveteratus ho-  minum error » noi possiamo senz'altro accettarne la vetu-  stà; e quanto all'erroneità, essa fu probabilmente soltanto  un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da  un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio,  che pure scrisse dopo che diversi storici avevano mosso  alla leggenda le critiche accennate, potè ben accettarla  senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa (1)  e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose at-  tribuite a Numa (2), persino la sua riforma del calenda-  rio (3), dalla educazione pitagorica da lui ricevuta.   5. —Anche alcune disposizioni legislative delle dodici ta-  vole — che appartengono alla metà del quinto secolo a. C. —  furono messe in relazione col Pitagorismo; cosa ben natu-  rale, se si pensi alla loro origine: non erano esse infatti  ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia,  che, alla lor volta, com'è ben noto, si informavano ai prin-  cipii di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla  con Cicerone, semplice coniectura, ha poi la sua riprova  nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai  frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo  in esse sancito s'ispirava al principio del taglione: « Si     (1) Metam-. XV, ]-8, 479-484; Fast. Ili, 151-154; Pont. Ili,  3, 41-46.   (2) Metam. XV, 479-484.   (3) Fast. 1. e.     — 17 —   membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ tallo està », dice il  secondo frammento della ottava tavola, e questo principio,  che, come attesta Demostene, ebbe largo svolgimento nelle  leggi di Zaleuco (1), era indubitatamente tolto dai Pitago-  rici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice  infatti Aristotile (2) che la giustizia era da loro conside-  rata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una pro-  porzione — non inversa, ma diretta, come notò bene lo  Zeller (3) — fra l'offeso, l'offensore e il giudice ; nel che  essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri  della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può  aver luogo che la distributiva. Ora, dice il Chiappelli in  un suo breve studio (4), in qual modo si determinasse dal  Pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del  taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere  quali elementi di essa penetrassero nelle dodici tavole e  a quali trasformazioni andasse soggetta in Roma. Un punto  tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo nega-  tivo. Alla legge generale, nelle dodici tavole, seguivano  le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa     (1) Timocr. 744 : « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv  è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j-  oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX-  jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si  ritrovano in quello che 1' autore della Grande Morale ci riferisce  dei Pitagorici, il ohe è una riprova del rapporto storico fra questi  e Zaleuco.   (2) Eth. Nic. Y, 8, 1132 b. 1 (ed. Susemihl) : « Soxst 5s xtat  xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot  Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ».   (3) [\ 360.   (4) Sopra alcuni frammenti delle XII tavole nelle loro relazioni  con Eraclito e Pitagora, in Areh. giuria, voi. XXXV.   2,     — 18 —   misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad  uno schiavo (1). Ora i Pitagorici non pare che avessero  fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale  combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella  che non si può applicare incondizionatamente al servo o  al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto,  se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena cor-  rispondente (2). E in verità siffatta distinzione era bensì  impossibile nel sistema dei Pitagorici, per i quali il corpo  era come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne  trasmigrazione, e il più alto precetto etico era l'imitazione  degli dei per via della virtù, l'osservanza delle leggi e il  rispetto verso tutti gli uomini; ma era invece possibilis-  sima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così  netto era il distacco fra cittadini liberi e schiavi.   6. — Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse  ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di  Appio Claudio Cieco, che, censore nel 312 e console nel  307 e nel 296 a. C, fu indubbiamente uno dei personaggi  storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei  primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il  giudizio di Cicerone non fosse errato parrebbero dimostrare  a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono  rimasti. E in verità la famosa sentenza «fahrum esse suae  quemque fortunae » non potrebbe esprimere meglio il fon-  damento della dottrina morale di Pitagora ; e l' altra, altis-     (1) Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; « Manu fustive si os  fregit libero CCC, [si] servo GL poenani subito ».   (2) Magn. Mar. I, 34, 1194, a. 35: « xò Si^ TotoaTov o5x èaxt  Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv » etc-     — 19 —   sima, come dice il Pascoli (1), se fosse certa la lezione e  r interpretazione : «amicum cum vides obliscere miserias;  inimicus sies; commentus nec libens aeque [idem tamen  teneto] »^ che il Pascoli stesso traduce: «tu dimentichi  la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico  "quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volen-  tieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia » ,  è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che  insegnava amore e fratellanza ; il terzo infine « sui quem-  que oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis  stuprique ferocia pariat » , non e certo disforme dalle pra-  tiche e dagli esercizi spirituali degli adepti al Pitagorismo,  che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del  proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori,  per dirigerle al bene.   Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè an-  che intorno all'autenticità di questo antico poema, che  sarebbe una delle prime manifestazioni letterarie di Roma,  si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso  era data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone  ha indotto per esempio il Pais (2) a pensare che si tratti  di una falsificazione posteriore, « da collegarsi con le altre  falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno  ai Romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di  Roma » . Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio  furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo,  nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lu-  cania^ che ragione c'è per negare che egli abbia potuto  conoscere quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per     (1) Lyra romana, Livorno, 1895, p. XXXII.   (2) St. di Roma I, 2, p. 671 n.     - 20 —   il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fon-  damento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un  Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attri-  buirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais  riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercitò  sopra gli uomini di stato romani « dal tempo di Appio e  di Pirro » ? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi  non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci  sembra dunque per nulla fondata; sì che noi possiamo  con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in con-  formità dei dati tradizionali, esercitò una qualche azione  tanto sulla più antica civiltà di Koma, a partire dal sesto  secolo a. C, quanto sui primi prodotti del pensiero e  dell' arte.     CAPITOLO SECONDO     Quinto Ennio e i snoì tempi   1. Ennio e Catone. — 2. Ennio in Roma e il circolo degli Scipioni. —  3. Il sogno degli Annali. — 4. Sua importanza per la diffusione  delle dottrine pitagoriche in Roma. — 5. L' «Epicharmus ». —  6. Ennio e il razionalismo. — 7. I libri di Numa. — 8. Culti  Bacchici e sette orfiche in Italia nel principio del sec. II a. C. —  9. Stazio Cecilie e Marco Pacuvio. — 10. I comici. — 11. Caio  Lucilio.   1. — Chi, più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma  la conoscenza delle dottrine di Pitagora fu senza dubbio  il poeta Ennio (239-169 a. C), il grande padre della cul-  tura e della letteratura romana. Nativo di Rudie, paese  fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, egli aveva  studiato in quest'ultima città, che era il centro italico, in  cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche.  Versato nel greco, nell'osco e nel latino, egli diceva scher-  zando di avere tre cuori (1). Nel 204 si trovò a militare  in Sardegna fra gli ausiliari che Taranto aveva mandato     (1) Gellio, N. a., XVIII, 17.     — 22 —   ai Romani, e quivi da Marco Porcio Catone, che era più  giovane di lui di cinque anni, fu invitato a recarsi a Roma.  Come si spiega tale invito ? Quali vincoli si stabilirono fra  questi due giovani, destinati a sì grandi cose, che si incon-  trarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Furono  vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune gran-  dezza d'animo e da comuni aspirazioni? si erano essi  già conosciuti cinque anni prima, nel 209, quando Catone  quindicenne fu in Taranto ospito del pitagorico Nearco ? (1).  Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda  scienza e il forte intelletto del Rudino dovettero certo  colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che  alle qualità pratiche del futuro uomo di stato univa le  attitudini del poeta e dell'artista, del pensatore e del filo-  sofo. In virtù della sua sapienza Ennio dovette apparire  al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le  antiche gesta della città; ed è forse per questo che Ca-  tone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria  e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dovette  suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente  scrisse, e per la composizione di esso ojffrirsi di agevolar-  gli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e  promettergli tutto il suo aiuto ; il quale, e per la condi-  zione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non ap-  parire ad Ennio prezioso e inestimabile. Al poeta d'altro  lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di  quella sapienza che nessuno   in somnis vidit priu' quam sam discere coepit (2)     (1) Plutarco, Gaio maior^ 4-5. — Cioeeone, Caio maior, 12, 39;  21, 78.   (2) Annalee, VII. fr. 124 (Yalmagoi).     — 23 —   dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di  illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al  tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza scono-  sciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva  sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra  di nuova civiltà alle più lontane generazioni!   2. — Venuto in Roma, Ennio vi passò quasi per intero  l'altra metà delia sua vita, dedicandosi totalmente agli  studi e alla poesia e a diffondere fra la gioventìi colta  della città l'amore del sapere. Egli chiamò intorno a sé,  a formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti  cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le  cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e  l'integrità del carattere, per la modestia della vita e d6i  costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascol-  tarlo accorsero fra gli altri Scipione Africano, Scipione  Nasica,^ Aulo Postumio Albino (1), Marco e Quinto Fulvio  Nobiliore, e con tali amicizie egli seppe vivere sempre  poverissimo e pur sempre sereno, mostrando così con l'ef-  ficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e pra-  ticate erano realmente le più atte a dare la felicità e la  pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio  Elio Stilone soleva dire che Ennio fece il ritratto di sé  medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono  il vero amico:   Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter  mensam sermonesque suos rerumque suarum  comiter inpartit, magnam cum lassus diei  partem trivisset de summis rebus regundis     (1) Fu « decemvir sacrorum » nel 173 a. C. (Livio, XLII, 10).     — 24 —   275 Consilio indù foro lato sanctoque senatu ;   quo res audacter magnas parvasque iocumque  eloqueretur cuncta [simul] malaque et bona dictu  evomeretj.si qui vellet, tutoque locaret;  quocum multa volup [et] gaudia clamque palamque,   280 ingenium quoi nulla malum sententia suadet   ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis,  suavis homo, facundus, suo contentus, beatus,  scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum  paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas   285 quem facit et mores veteresque novosque tenentem  multorum veterum leges divomque hominumque,  prudenter qui dieta loquive tacereve posset (1).   In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente  pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor  gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza  e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non com-  mette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'a-  micizia e servizievole^ contento del suo, felice, che infine  sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeti-  camente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle  in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto  ad intenderle.   E anche possibile, come osserva acutamente il Pascal (2),  che in questi versi Ennio abbia voluto altresì rappresen-  tare i suoi rapporti col grande Scipione, del quale si po-  trebbe dire assai piii convenientemente quello che Macro-  bio scrisse dell'Emiliano, che cioè fosse « vir non minus     (1) Gellio, N. a. XII, 47: « L. Aelium Stilonem dicere solitum  ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque istam  morum et ingenii ipsius Q. Enni factam esse ». I versi sono se-  condo il testo dato dal Valmaggi (= vv. 294 ss. Mìjller = fr. 194  Baehrens).   (2) Antologia latina, Milano, 1899, p. 16.     — 25 —   philosopMa quam virtute praecellens » (1); e l'ipotesi tanto  pili è accettabile se pensiamo che Scipione fu forse il mi-  gliore dei discepoli del poeta, il quale lo ebbe in tanta  considerazione da comporre intorno a lui un poemetto  — Scipio — e da fargli dire :   A Sole exoriente supra Maeotis paludes   nemo est qui factis me aequiperare queat.   Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est,   mi soli caeli maxima porta patet (2).   E Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre  che per la fama delle sue imprese, non lo scelse come  protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De  Repuhlicaf   3. — Di Ennio fu notissimo ai Romani il sogno col quale  incominciavano gli Annales e di cui ci sono rimasti ap-  pena alcuni frammenti (3) insieme con le testimonianze di  Lucrezio, di Cicerone, di Orazio, di Persio e di altri (4).     (1) In Somnium Seipionis^ I, 3.   (2) Cicerone, Tuse. V, 49; Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca poi,  nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione: « animus eius in  eaelum^ ex quo erat^ rediisse persuadeo rtiihi ».   (3) Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, 2^ ediz. 1902,  pp. 4-6; L. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. MDCCCLXXXV,  pp. 3-5, e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, 1886. Vedi  anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, 1884,  p. 139 e seg. e lo studio del Valmaggi pubblicato nel Bollettino di  filai, classica, III, 259 e seg.   (4) Lucrezio, I, 112-126; Cicerone, Somn. Scip., I, 10; Aead, II,  16, 51; 27, 88; Orazio, Ep. II, 1, 52-54; Persio, prol. 2 sg.,  sai. VI, 10-11; Schol. in Pers. prol. 2; VI, 9; Sehol. Cruq. in  Horat., Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep. IV, 12, p. 74 Nab.; Sergio,  ad Aen.^ II, 274, ecc.     — 26 —   Questo sogno che « levò grande rumore nel mondo ro-  mano e di cui spesso si parlala, ora con serietà filosofica,  ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale » (1),  doveva essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato  sarebbe apparso sul monte Parnasso (2) il fantasma pian-  gente (3) di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno  all'ordine dell'universo (4), alle trasmigrazioni di ogni ani-  ma umana attraverso un proprio ciclo di vite (5) e alla  sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma  intermedia fra l'anima e il corpo (6) e a ricordargli le  mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte  del corpo, in un pavone (7) e rinata appunto in lui, il     (1) A. Pasdera, Il sogno di Scipione^ Torino, Loescher, 1890,  p. 4 nota.   (2) Persio, Prol. 1 3 : « Nec fonte labra prolui eaballino Nee in  bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodi-  rem », e Schol. ad V. 21 « tangit Ennium^ qui dicit se vidisse  sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima  in suo esset eorpore * .   (3) La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di  gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno ?   (4) Lucrezio, I, 126 : « rerum naturam expandere dictis ».   (5) Lucrezio, I, 113 : « an contra nascentibus insinuetur (ani-  ma) » e 116 : « a?^ pecudes alias insinuet se ».   (6) Lucrezio, 1, 120-123 : « Etsi praeterea tamen esse Acherusia  tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque perma-  neant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis  palleniia miris » .   (7) Persio, Sat. VI, 10 sg. : « Cor iubet hoc Enni, postquam  destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo ». Tertul-  liano, de an., e. 33: « pavum se meminit Homerus Ennio som-  mante » ; Hbid.^ e. 34: « perinde in pavo retunderetur Homerus,  sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione^ I,  G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ; Lat-  tanzio in Theb. Ili, 484.     — 27 —   discendente del re Messapo (1), il poeta rudino. Tale,  press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo  non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma  altresì per l' accenno alle ti-asformazioni e incarnazioni  dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spiri-  tuale dei due poeti.   Che il pavone poi, importato, come sembra, nel secolo  sesto a. C. dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora,  avesse nella filosofia mistica di questo iniziato un'impor-  tanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche —  per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stel-  lato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime  umane (onde l'espressione per me simbolica del fieri pa-  vom usata da Ennio) (3), opportunamente fu scelto dal  poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'a-  nima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora.   4. — Il fatto che il grande poema storico degli Annales,  il quale ebbe da parte dei Romani un culto analogo a  quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomin-  ciava con tale sogno, ebbe grande importanza per la dif-  fusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma ;  poiché, appunto per lo studio che del poema si fece, fin     (1) Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393.   (2) MuELLER, Q. Ennius^ p. 143 sg. Cfr. Hehn, Kulturpflanxen  und Hausthiere, 2^ ediz., p. 309.   (3) Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre  consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi fu Seno-  fane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laer-  zio (YIT, 36) i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se  non satirica — l'opinione che Pitagora credesse nella metempsicosi  anche animale.     ~ 28 —   dal secondo secolo a. C. nelle scuole di grammatica e di  rettori ca (1) e per le pubbliche letture di esso, ancora in  uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo (2), si  dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa  e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di  Pitagora, che nel sogno si ricordava e che era poi una  delle principali di detto sistema. Difatti sono assai fre-  quenti nella letteratura posteriore — e noi le vedremo —  le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del  resto fu forse introdotta in Roma anche per altro tramite,  sia cioè per mezzo dei Misteri, nei quali si insegnavano  appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pita-  goriche, sia per mezzo della filosofia platonica e stoica,  che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore  air apparire del neo-pitagorismo, era derivata almeno in  qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche  stesse.   5. — Se nel poema di Ennio vi fossero altri accenni  alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi  e slegati frammenti che ce ne restano : ma non è impro-  babile che, a proposito di Numa, fossero non solo notate  incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa  ampiezza le somiglianze fra le sue leggi ed istituzioni e  quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la  prima volta sarebbe stata inserita in un'opera storica e  letteraria latina la notizia desunta dalla tradizione orale an-  teriore, che il gran re avesse avuto a maestro Pitagora (3).     (1) SvETONio, de gramm. 2.   (2) Noetes Attieae, XVI, 6, 1, e XVIII, 5.   (3) MuELLBB, Q. Ennius^ p. 161 sg.     — 29 —   In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che  Ennio trattò ancora delle dottrine pitagoriche: e precisa-  mente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal  nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più  valenti seguaci della scuola italica (1). Anche in questo  lavoro poetico, il nostro scrittore finse un sogno:   Nam videbar somniare med ego esse morluum (2j   e che il poeta comico Epicarmo gli comunicasse, nelle  regioni infernali, dottrine di filosofia naturale suU 'origine  e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso  nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il  noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco:   . . . terra corpus est, et mentis ignis est (3).   Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello  stesso Ennio, scriveva: « animalium semen ignis qui anima  ac mens: qui caldor e caelo^ quod Mnc innumerahiles et  immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit:   istic est de sole sumptus isque totus mentis est (4).     (1) Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest.  epich. p. 53. Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie  di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di istrux.  classica^ a. XLYIl, f. P, genn. 1919 pagg. 66 sgg.   (2) Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51.   (3) Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii al-  l'Eneide, YI, 724-732.   (4) De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili sg.  Sul pitagorismo del poeta v. a pag. 70. Un'altra sentenza pitago-  rica è quella che ricorda Cicerone {de divin.^ II, 62, 127) a pro-  posito dei sogni : « aliquot somnia vera^ inquit Ennius^ sed omnia  noenum necesse est ».     — 30 -™   6. — Ma oltre che alle opere letterarie, le quali, come  sì è detto, ebbero efficacia fino al secondo secolo dopo  Cristo, Ennio rivolse l'attività dell' ingegno, trasfondendovi  i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale; senza  dire poi che l'esempio della sua vita intemerata spronò  all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili  cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Egli si stu-  diò di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e  ad una concezione individuale delle cose, alla quale non  erano certo avvezzi i Romani, educati sotto una disciplina  ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle  sottigliezze della cultura greca, insegnando in privato le  dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero  le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti  ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in  se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento del  proprio valore, della propria libertà e della propria feli-  cità, diede impulso a una vera rivoluzione razionalistica  nello spirito romano (1) : sì che fra quei valorosi soldati  e pratici legislatori cominciò ad essere tenuta in conto la  cultura, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche  in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legit-  tima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e  di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito.   Non è improbabile che appunto per questo Catone, il  quale, sopra tutto e innanzi tutto, vedeva l'interesse e il  bene dello Stato, osteggiasse il movimento a cui aveva  dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A-     (1) GiussANi, Letterat. romana^ Milano, Yallardi, p. 90. Si veda  anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (To-  rino, Bocca, 1915).     - Bl -   fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé  molte ire violente e molte accuse politiche, si ritirò sde-  gnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania,  dove morì nel 183 (2).   7. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, furono  scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai  strano, venivano molto opportunamente a confermare gli  insegnamenti pitagorici di Ennio (3). La notizia della sco-  perta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio  Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio (4), narrava  come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei  lavori in un suo podere sul Gianicolo, avesse scoperta e     (1) V. Livio, XXXVIII, 54.   (2) Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi  C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica^ p. 85-96.   f3) Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, Ueber  die Bueeher des Numa^ negli Atti dell' Accademia di Monaco del  1849.   (4) Nat. Eist. XIII, 84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter:  « Cassius B.em,ina^ vetustissimus auctor annalium,^ quarto eorum,  ^ibro prodidit^ Cn. Terentium, scribam agrum suum, in lanieulo  repastinantem offendisse arcani in qua Numa qui Romae regna-  vii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L. f.  Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno Numae  colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta^ maiore etiam-  num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter in  re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo  ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem  fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque  versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse., propterea ar-  bitrarier tineas non tetigisse: in his libris scripta erant philoso-  phiae Pythagoricae ; eosque combustos a Q. Petilio praetore quia  philosophiae scripta essent ».     — 32 —   scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di  lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di  carta s'erano perfettamente conservati ; ma, come spiegava  lo stesso Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto  che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trovò  quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dal-  l'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li  avevano rosi. I libri stessi poi contenevano scritti di filo-  sofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo  bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto  fece pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Fru-  gì (1), secondo il quale però detti libri erano sette di di-  ritto pontificio e altrettanti pitagorici. Quattordici erano  pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano (2) e  contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate  infine (3) essi erano invece ventiquattro, dodici pontificali  scritti in latino e dodici di filosofia scritti in greco, e non  si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in  un'arca adiacente.   Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi     (1) Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : « Hoc idem  tradii 0. Piso censorius primo commentari or um,^ sed libros septem  iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse ».   (2) Plinio l. e. = H. R. rell. I, p, 142-143 P : « Tuditanus  decimo tertio Numae decretorum fuisse » .   (3) Plinio /. e. : « libros XII fuisse ipse Varrò Humanarum  antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII potiti fi-  cales latinos^ totidem graecos praecepta philosophiae continentes » .  Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell. I,  p. 240-241 P. Si noti però che il Peter crede (/. e. p. CC.) che  Livio abbia citato per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio  Pisone.     33     ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la sco-  perta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego  e di M. Bebio Panfilo (191 a. C), sia la loro pronta di-  struzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è  possibile dubitare che il fatto sia avvenuto. Senonchè la  critica pili recente si è affrettata ad affermare che essi  dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore,  fanatico delle nuove idee pitagoriche, in quegli anni ap-  punto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da  Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una  grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi  non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la  tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa  dottrina era la segretezza e il mistero ? E proprio un  pitagorico avrebbe divulgato le dottrine della sua scuola,  in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma  così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già  la tradizione ammetteva la filiazione degli istituti e delle  leggi religiose di Numa dal Pitagorismo ? Ed è poi possi-  bile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su parere  del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente  scoperti, non vi fosse alcuno in grado di comprendere una  così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che  i libri furono bruciati con la convinzione che essi fossero  realmente quelli del re sapiente (2), e perchè contenevano,     (1) V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da S. A-  gostino {De civ. dei^ YII, 34), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto  la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1,  12), di Festo (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa,  22) e del de vir. ili. 3.   (2) Livio osserva ohe questa convinzione derivò dall' opinione  diffusa che Numa fosse stato discepolo di Pitagora, opinione che   8.     34     secondo la testimonianza di Varrone^ la spiegazione degli  stituiti religiosi di Numa (cur quidque in sacris fuerlt  institutum)^ fondati, come quelli di tutte le religioni, su  ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione parti-  colare della natura.   Ora, dice assai giustamente lo Chaignet (1), questa inter-  pretazione razionale ed umana delle credenze e delle isti-  tuzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fon-  damento sovrannaturale, avrebbe certo, divulgandosi, tolta  ogni consistenza a quella religione « di stato » che, come  tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle  pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio)  esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede  cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pen-  sarono il pretore urbano e il Senato, che si affrettarono^  a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali era  filosoficamente provata ed attestata 1' origine del diritto  pontificale romano, cardine e fondamento primo dello Stato,  dall'occultismo pitagorico (2); se pure il motivo di tale di-  struzione non fu quello stesso per il quale^ come abbiamo  già veduto. Cicerone non volle troppo approfondire la ri-  cerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e  i piii antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu-     egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio »  (XL, 29).   (1) Pythag. et laphilos. pytkag.^ Parigi, Didier, 1874, v. I, p. 136.   (2) È interessantissimo a questo proposito il passo di S. Ago-  stino {De eivit. dei VII, 34), il quale spiega per quali ragioni  « demoniache » Numa compose i suoi libri e poi li fece seppellire  nella sua tomba, e il Senato li fece abbruciare. Né meno interes-  sante è il capitolo seguente (35 j, in cui si parla delle arti « idro-  mantiche » e delle evocazioni di Numa.     ^ 35 —   tarco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso  e per ordine suo sepolti con lui; e ciò perchè, secondo  la massima pitagorica, non era bene affidare la conser-  vazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, an-  ziché alla sola memoria di quelli che ne erano degni. E,  forse, per questa medesima ragione i Pitagorici romani  non dovettero fare molta opposizione alla proposta di  distruggere i libri stessi, gelosi come erano delle loro  dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di  scherno e di riso, se male interpretate o fraintese (1).   8. — Nel tempo in cui Ennio si adoperò così efficace-  mente per introdurre in Roma l' antica sapienza della  Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e pe-  netravano nella grande metropoli anche i culti bacchici  e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche  per gli stretti rapporti che vi erano fra le due dottrine  segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicarono senato-  consulti (2) e si istituirono tribunali (quaestiones de Bac-  chanalibus sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di-     (1) Uno scrittore israelita del secolo XYII, il Sklden, nell'intro-  duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam  Hebraeorum stampata a Londra nel I6l0, volendo sostenere ch.e  ogni sapienza viene dagli Ebrei o piuttosto dalla rivelazione tre  volte rinnovata, di cui gli Ebrei erano i depositari, afferma invece  che Numa Pompilio era in segreto un adoratore del vero Dio, che  i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua  morte erano la giustificazione della sua fede e la glorificazione del  Dio d' Israele, e che appunto per questo il Senato ne ordinò la  distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di Stato.   (2) Nel 186 se ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto nel  1692 in Calabria) che ordinava, fra le altre cose: * Bacas vir ne-  quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » .     — 36 --   mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il  violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano  pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal-  vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religio -  nidus captas mentes » (1). E ben vero che queste asso-  ciazioni misteriose — clandestinae conmrationes ^ come dice  Livio (2) — e questi culti sempre perseguitati dall' orto-  dossia romana venivano in parte dall' Etruria e dalla Cam-  pania, ma le ricerche giudiziarie ne fecero scoprire diversi  focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e spe-  cialmente a Taranto, che come si è già visto, era uno dei  centri d'origine del Pitagorismo (3).   Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in  tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium e  che risalgono alcune al secolo lY e altre al principio del  sec. Ili a. C. (4), ci conservano l'eco di versi orfici che  sino ad ora non si conoscevano per altro che per una cita-  zione di Proclo, neo-pitagorico del quinto secolo (5): « lo     (1) Livio, XXXIX, 15.   (2) XXXIX, 9, 18, 41 ; XL, 19.   (3) Livio XXXIX, 41 : « L. Postumius praetor, cui Tarentum  provincia evenerat^ reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni  exsecutus est cura » e XL, 19 : « L. Duronio praetori^ cui pro-  vincia Apulia evenerat^ adiecta de Bacchanalibus quaestio est :  cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore  anno adparuerant ».   (4) Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè n. 638-642.  Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli  scavi^ 1880, p. 155 e nel Journal of Hellenic Studies III, p. 114 sg.  Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Fi-  renze 19lO.   (5) Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio »  quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog     — 37 —   sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze (1) »,  grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita  tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora  « implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina  dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre  divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro  «razza felice», e domanda ad esse che la mandino ora  nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la pa-  rola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale ! »  In questi brani poetici, dice il Gomperz, bisogna vedere  redazioni diverse d'un testo comune piti antico. Parecchie  altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, sono  state trovate nelle stesse località ; altre sono state scoperte  nell'isola di Creta (2) e datano dall'epoca romana poste-  riore: tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo  sotterraneo (3). Ora è notevole il fatto che il cap. 125 del  « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione ne-  gativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello  che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole (4).  In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama  con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza     YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, 1890, p. 87} ha  richiamato 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche  H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, 1902, p. l sg.   (1) Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri.  Y. Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, 1904, v, I,  pag. 141 sg.   (2) Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull.  de corr. héll. XYII, 121-124.   (3) Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism,  p. 161.   (4) Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. II, 469 sg. e Brttgsoh, Steinin-  schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne^ p. 191.     — 38 —   fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l' a-  nima dell' Orfico pretende di avere espiato « le azioni  inique » e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne de-  riva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che ha  saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti,  dice il Gomperz, nella storia della religione e dei costu-  mi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di que-  st'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe  rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le  comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale  non comune e che ci può persino sorprendere per la sua  squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non  ho allontanato il latte dalla bocca del lattante !... Non ho  reso il povero più povero!... Non ho trattenuto, l'operaio  ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto !... Non  sono stato negligente! Non sono stato fiacco!... Non ho  messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padro-  ne!... Non ho fatto versare lacrime a nessuno!.... » Ma  la morale che scaturisce da questa confessione non si è  contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli  atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto,  ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato  chi aveva sete, vestito chi era nudo ! Ho dato una barca  al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima  giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva final-  mente nel coro degli dei. « La mia impurità, grida piena  di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso  l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti glo-  riosi.... » « Yoi che mi state dinanzi^ aggiunge rivolta agli  dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io  uno dei vostri ! »     — 39 -   Nessuna meraviglia quindi che gli scrittori del tempo  di Ennio, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno,  fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine.   Di un grande poeta comico. Stazio Cecilio, morto nel  168, che fece parte del collegium poetarum dell'Aventino  e abitò in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano  troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del  contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però  r intimità sua col poeta di Rudie dovette esercitare un  qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della  sua arte.   Con Ennio visse pure in Roma, sino alla più tarda età,  frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote  Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi nel 220, si ritirò poi  a Taranto dopo il 140 e vi mon novantenne. Che egli  dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre  che l'esplicita dichiarazione di Pompilio :   Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit Enni^  Emiius Musar um^ Pompilius clueor^   i due frammenti del suo Ghryses^ nel primo dei quali  mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai  falsi sacerdoti, che già abbiamo notata in Ennio:   .... nam istis^ qui linguam avium intellegunt,  plusque ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo,  magis audiendum quam ausoultandum eenseo (1) ;     (1) pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio  246, 9. Si confrontino i versi di Ennio : « Sed superstitiosi vates  impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas  imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam^  Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt », e gli     — 40 —   e nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto,  pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v   hoc vide^ circum supraque quod complexu continet   terram....   solisque exortu capessit candorem, oecasu nigret,   id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera :   quidquid est hoe^ omnia animai^ format^ alit\ auget^ creai,   sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater,   indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt.     mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat (1).  Istic est is lupiter' quem dìco^ quem Or acci vocant  a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber postea,  atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo,  kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi,  quia mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat.   Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^ Milano, 1899, p, 30 n.)  era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il  fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio II, 991-1005.  Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre  e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora (500-430  circa), fu peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici.   10. — Questi versi ed alcuni altri (2), se sono per sé poca  cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti  superstiti di questi primi poeti di Roma, mostrano una  certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure  ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i     altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e  « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ».   (1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Var-  HONE, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi  ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio :   (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35).     — 41 —   versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che  si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici  greci (1), nonché il suo concetto della virtìi (2), come non  pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne  sia stato r influsso — , quando leggiamo sentenze come  queste di Sesto Turpilio (morto nel 103 a. C), Tuna che  ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei de-  siderii :   Profecto ut quisque minimo contentus fuit^   ita fortunatam vitam vixit m,axime^   ut philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est (3).   e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere :   Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia.  Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? (i)   E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti  di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piìi  al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una  raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi     (1) V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note.   (2) Pascal (p. 42) : « . . . . nam si a me regnum Fortuna atque  opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem-  eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas inge-  nium infirmai bonum ? »   (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi...  isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il poeta, imi-  tatore di Monandro, abbia alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo  quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo,  di cui Gellio {N. a. IV, il) potè scrivere: mediae comoediae pro-  prium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ».   (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum.. iter.,  che forse può intendersi in senso proprio, non traslato.     — 42 —   e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugual-  mente notevoli e significativi.   Così veramente notevoli sono le sentenze di comici  ignoti citate dal Pascal (1), che certo non sarebbero fuor  di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono  motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pita-  gorismo quanto di altri sistemi posteriori:   1. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus, (2)   2. Non est beatus^ esse se qui non putat. (3)   3. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit.   4. Quod vult habet^ qui velie quod satis est potest. (4)   5. In nullum avarus bonus est^ in se pessimus. (5).   6. Ab alio expectes alteri quod feceris. (6)   7. Beneficia in volgus eum largiri institueris  perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. (7)   8. .... quid ? tu non intellegis   tantum te adimere gratiae quantum morae  adicis ? (S)     (1) pag. 68 sg.   (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta;  esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si  tratterebbe di un altro verso, che il Lachmann ricompone così :  suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita  Att. Il, 6 ed altri, di cui il Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147.   (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come  dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o non  l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermarono ripe-  tutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer.   (4) Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la  prima sentenza di Turpilio su citata.   (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9.   (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex.  Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm.  epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris».   (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62:  « benef acta male locata malefacta arbitror » .   (8) pr. Seneca, de benef. II, 5, 2.     — 43 —   Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti:   1. Felicitas est quam voeant sapientiam. (1)   2. Tutare amici eausam, potis es, suscipe.  Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter.   In amici causa es, imm,o certe potior es. {2}   3. Iniuriarum remedium, est oblivio. (3)   Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una  certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non pos-  sono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera  e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della  poesia e della letteratura latina dalla greca è da credere  che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine  filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che gli  scrittori latini, massime i comici, o imitavano o traduce-  vano. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere  prettamente romane dimostra che le dottrine stesse ave-  vano un contenuto ideale — morale specialmente — con-  sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale,  sopra ogni cosa, ebbe un profondo senso del giusto, che  poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi.   11. — Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10  (180-103 a. C.) noi potremmo certo aver notizia del Pita-  gorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in  Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri  di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che si  occupasse principalmente di mettere in parodia e in deri-  sione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte-     (1) QuiNTiL. YI, 3, 97.   (2) Charis. V, p. 253 P.   (3) Seneca, epist.^ 94, 28.     — 44 — .   nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro  sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo poeta poco  o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente  libera dai pregiudizi volgari :   Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena   vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda   vera putant^ credunt signis cor inesse in ahenis (1)   sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo  frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e  nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtìi:   Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum   quis in versatnm\ quis vivimus rebus potesse,   virtus est homini seire id quod quaeque valet res ;   virtus seire homini rectum^ utile quid sit^ honestum^   quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ;   virtus^ quaerendae fène^n rei seire modumque ;   virtus^ divitiis pretium persolvere posse ;   virtus^' id dare^ quod re ipsa debètur honori ;   hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum,   contra defensorem hominum morumque bonorum,   magnifècare hos, his bene velle^ his vivere amicum ;   commoda praeterea patriai prima putare^   deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1)     (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13.  (1) fr. 119 del Bàhr. ■= Latt. VI, 5, 2.     CAPITOLO TERZO     Sette e scuole pitagoricbe in Roma nel I secolo a. C.     1. I Qenethliaei. — 2. P. Nigìdio Figulo e la sua scuola segreta.  3. La scuola dei Sestii.     1. — Da Sant'Agostino (1) ci è stato conservato, del-  l'opera Yarroniana De gente populi romani^ un passo per  noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse  in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav  Graeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL^  ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint coniuncta  in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniun-  etionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano  nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano  persino il compimento nello spazio di quattrocento e qua-  ranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed  astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi^ di  caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma nel  II e I secolo a. C, col decadere dei culti ufficiali e l'in-     (l) De civitaie dei, XXII, 28.     - 46 —   filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dal-  l'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi  persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello  stato. Poiché, come dice il Pascal in un suo geniale e  interessante studio (1), svolgendo in particolare la dottrina  della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metem-  psicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro  particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute  nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di co-  noscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi  umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini,  dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per  mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente  svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da  rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire  di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente se-  guire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque,  aggiunge il Pascal, « un tentativo di giustificazione scien-  tifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica,  della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse  regolata dall' astro che lo aveva visto nascere » . Strani  davvero questi scienziati-filosofi che si sforzano di ribadire  con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche  le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto  bene nel loro proposito da far sentire a Favorino (li sec.  d. C.) il bisogno di abbattere con una confutazione siste-  matica il loro edifizio logico (2), ancora saldo sulle sue basi     (1) La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e  Roma del marzo 1901 e in Fatti e leggende di Roma antica, Fi-  renze, 1903 pp. 186 e segg.   (2) AULO Gellio, Noet. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente  il discorso di Favorino.     — 47 —   a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso  acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mon-  dano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno  venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argo-  menti che il Pascal porta a sostegno della sua affermazione  mi inducono piuttosto a credere il contrario^ e cioè che  l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco-  italico-romana (1) e da, questa passasse poi al volgo per  mezzo dei responsi sibillini (2) e dei poeti che l'accolsero  e la diffusero per il popolo (3). Di più, un'altra credenza  notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci :  la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano dovesse  essere il Sole od Apollo (4) che avrebbe bruciato l'uni-  verso e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini  rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm.  I, 2) invocò perchè venisse a redimere l'umanità dal  peccato :   Tandem venias^ precamur^  ISube candentes umeros amictus  Augur Apollo.     (1) Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra  scuola di astrologi per la quale 1' estensione di tempo era molto  maggiore, e cioè di 470000 anni !   (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre-  detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ».   (3) Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI,  748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg.   (4) Servio nel commento al v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta  il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo :  « Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus fdistin-  guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde  lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt  Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa  ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglao-  phamus^ pag. 791 sgg.     — 4:« — -   La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione del-  l'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabil-  mente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da  alcuno come reale ed effettiva (1) — furono dunque due  concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più  precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sap-  piamo quanta parte e che profonda significazione avesse  il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere  stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo,  e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole  attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così im-  maginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così cre-  denzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi  più elevata e razionale, a una creazione veramente intel-  lettuale e filosofica, che, passando dai dotti agli indotti,  dai sapienti agi' ignoranti,, si materializza e degenera dal-  l'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto  parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni  realistiche e concrete?   In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane  deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in  Koma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi  e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra  derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze,  aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero,  come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro po-  polare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci  del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro     (1) Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82  d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche  terapeuta od esseno.     — 49 --   dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti  col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente  in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole,  per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sa-  pienza loro tramandata attraverso tante generazioni.   2. — Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filo-  sofìa di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai  estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici  ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente,  del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e  amicissimo di Cicerone. Il quale appunto nel proemio del  Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P.  Nigidio Figulo: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae  « quidem dignae libero essente ornatus omnibus^ tum acer  « investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo-  « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico  « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta  « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » .   Nato forse verso il 105, già senatore nel 63, pretoro  nel 59, legato in Asia nel 52 (1), e infine esiliato da C.  Griulio Cesare, forse non soltanto, come ora vedremo, per  aver seguita la causa di Pompeo, morì in esilio nel 45 (2).     (1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia  di questa sua legazione con le parole : « qui (Nigidius), eum. me  in Gilieiatn profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex lega-  tìone ipse decedens etc. ».   (2) SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45  a. C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et magus in exsilio m^o-  ritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come  nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre,  il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei V, 3) parlando  di Nigidio, lo chiama « mathematicus ».   4.     — 50 -—   Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone,  e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti  dei suoi scritti (1), pure sappiamo che egli scrisse molto e  con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruse-  ria », come dice il Giussani (2), cioè oltrepassava quel limite  al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non ve-  dono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam-  MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maxi  mus rerum naturaUum indagator », e lo stesso Macrobio  [Sat. YI, 8) lo dice « ìiomo omnium bonàrum artlum di-  scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto,  lo giudicò acuto e diligente studioso dei più involuti feno-  meni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli  studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo,  quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. Sant'A-  GOSTUso lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e  mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto  mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso  SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta  come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nac-  que, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Cati-  lina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente,  essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio, cono-  sciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, affermò  che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la ter-  ra (3). Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto     (1) Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889.   (2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230.   (3) SvETON., Aug. 94: a quo natus est die, cuni de Catilinae co-  niuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium  serius adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta     — si-  che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio  (1. XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigi-  dio. Apuleio a sua volta (1) riferisce di aver letto in  Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte  somma di denaro, andò da Nìgidio per consultarlo e questi,  per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed  incantesimi (Carmine)^ ossia, coma oggi si direbbe, ipno-  tizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era  stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le  altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche  il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai  fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte  conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un  viaggio in oriente, fatto in gioventìi ? Non sappiamo, seb-  bene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella  Grecia imparò che la terra si muove con la velocità della  ruota di un vasaio (2).     morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù  num terrarum orbi natum ».   (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me ajìud Varro-  nem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum,  eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum  quingenios denarium perdidisset^ ad Nigidium consultum, venisse;  ab eo pueros cannine instinctos indicavisse^ ubi locorum defossa  esset crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum  etiam denarium^ ex eo numero habere Catonem philosophum^ quem  se a pedissequo in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ».   (2) Ciò si desume da una nota del Gommentum a Lucano (I, 639),  dove è detto che Nigidio ebbe il soprannome di Figulo perchè « re-  gressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae  fi.guli torqueri »• Del soprannome altri davano una ragione un po'  diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così  spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo     - 52 "->   Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora  che usava una dieta assai parca (1), possiamo dire che  furono molte e di varia natura: egli scrisse di filosofia,  di astrologia e anche di filologia (2). Di lui si ricorda  un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto  dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli  dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo  accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei  penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'In-  feri e quelli degli uomini (3), cioè, probabilmente, gli spi-  riti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' oc-  cultismo medievale) ed umani. Perchè di quest'opera ci  restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il gram-  matico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius  solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theo-  logia^ Me in eommunihus litteriSy nam uterque utrumque  scripserunt » . La luce di Varrone dunque oscurò quella  di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto,  come dice lo Swoboda (4), dagli investigatori della dottrina     stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90), Gellio,  N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e S.  Agostino 1. e.   (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius : nos ìpsi ieiunìa ien-  taeulis levibus solvimus.   (2) Egli sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, ohe il  linguaggio è d'origine naturale e non convenzionale.   (3) Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni-  gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas se*  quens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^  alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos.,  inexplicable nescio quid dieens » .   (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quae-  stiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25,     — 53 —   più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone,  uomo assai dotto, che visse nel terzo secolo d. C. (1). Di  Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divi-  nazione per mezzo delle viscere (2) e intorno ai sogni (3),  una Sphaera graecanica (4) e una Sphaera barbarica (5),  un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi  interamente perduti.   Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da  Gellio (N. a. XIX, 14, 8) il quale ci fa sapere precisa-  mente che mentre le opere di Varrone erano lette e co-  nosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde  in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tam-  quam parum utilis derelicta est » . Dunque gli scritti di  Nigidio avevano un carattere piuttosto riservato e segreto,  erano poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E  che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab-  bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata?  dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle  stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione  delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo  della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva (se-  colo II d. C.) e all'infinito numero di profezie, di predi-  zioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano  l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen-  siamo che fu questa appunto l'età nella quale, pochi de-     (1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port,  dell'anno 1877.   (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12.   (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm.   (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8.   (5) Serv. ad Qeory. I, 19.     54     cenni dopo il Cristo apparso in oriente a dare la nuova  parola divina agli uomini, in Roma fece la sua apparizione  la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redi-  vivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'im-  peratori, non può esservi alcun dubbio : se Figulo fu  costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici  le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze  nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ebbe molte  noie) ; se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, come or ora  vedremo, i Sestii, che furono ugualmente perseguitati; le  vecchie dottrine di Pitagora andarono tuttavia sempre più  diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà  di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono final-  mente abbandonare in gran parte la segretezza e il mi-  stero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui  si servivano prima.   Lucano nella sua Farsaglia (I, 639 seg.) riferisce una  oscura predizione di Nigidio, che^ com'egli dice, si studiò  di conoscere gli dei e i segreti del cielo e in queste co-  noscenze astrologiche fu superiore ai sapienti dell'Egizia  Menfi :   At Figulus, cui cura deos secret ac/ue caeli  nosse fuit^ quem non stellarum Aegyptia Memphis  acquar et visu numerisque moventibus astra^  aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum  mundus et incerto discurrunt sidera motu :  aut, si fata 7novent, orbi generique paratur  humano matura -lues   Egli predisse dunque alla terra e agli uomini un vicino  flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con  lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente  pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di     — 55 —   semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi  migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del  mondo, su cui l'aquila di Roma andava stendendo e allar-  gando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai tristi;  ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise  talvolta e troppo vicine alla manifestazione del Cristiane-  simo, per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa  senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabil-  mente certa.   Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di  Cicerone, con Nigidio Figulo si iniziò in Roma un vero  e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora  in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'an-  tica disciplina italica.   Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali  non solamente accennano a una vera e propria scuola, a  un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in modo,  che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio  stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse  tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato  amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo  di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè vagliarle trop-  po, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori  dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli  scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio (1)  queste notevolissime notizie : « Fuit autem illis temporibus  « Wigidius quidam^ vir doctrina et eruditione studiorum  « praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec  « ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iacti-  « tabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari     (1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli.     56     «vellent», e altrove (1) si dice di un tale che € ablit  « in sodalicium sacrile^ii Nigidiani » . In casa sua dunqae  Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai  misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedi-  cavano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlata-  neria di quel Yatinio, che, volendo farsi credere pitagorico  e dottissimo, faceva evocazioni di morti e si abbandonava  a nefandità d'ogni genere (2). E questi convegni finirono  col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi  furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando  qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega;  le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto mi-  nore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi,  furono forse un ottimo pretesto per legittimare l'allonta-  namento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra  repubblicana. Che poi il tentativo di Nigidio avesse un  carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico-  stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza  sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova  felicità umana, è cosa più che probabile, ma non certis-  sima (3). E così il sapientissimo mago, il maestro pitago-     (1) PsEUD. CicER. in Sali. resp. 5, 14.   (2) « Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni  nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere.... cum  inaudita ac nefaria saera susceperis^ eum infernrum animas eli-  cere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas » Cicesone,  in Vatinium 6, 14. Dal che si può vedere, sia detto incidental-  mente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna!   (3) V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii il Pascal :  Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv. d'I-  talia, gennaio 1902. p. 98, poi nel voi. Fatti e leggende, Firenze,  Le Monnier, 1903).     — 57 —   rico, il matematico P. Nigidio morì nell'esilio, nel tempo  stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di otte-  nerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma doveva  essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacri-  lego Figulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e  quelli ch'egli avea più cari ne parlassero con ammirazione  e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lasciò troppo  commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che  in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica  (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello  Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte  agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori.  Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente con-  servataci, nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato  delle pratiche ch'egli faceva indirettamente presso Cesare  e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a otte-  nergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera  espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero  che la riferissimo per intero (1). Basti accennare tut-  tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni  omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam  gratta » e suo amicissimo, e che accingendosi a conso-     (1) È la lettera 13* del quarto libro Ad familiares, dell'anno 46  a. C. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere pri-  mum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem  tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' a-  micizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo  ritorno ; poiché in realtà il povero filosofo fu lasciato morire in  esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares  eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt,  mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem  vulgi voluntas vel potius consensus omnium » !     — 58 —   larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem fa^  cultas vel tui vel alterius consolandi in te summa est^ si  umquam in ullo fuit » ; cosicché « eam partem^ quae ab  exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non  attingam: tibi totani relinquam »; e concliiudendo termina  col pregarlo « animo ut maximo sis nec ea solum memi-  neris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam,  quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges^ et  sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt,  sapienter feres. Sed haec tu melius vel optime omnium » .  Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole  si ricordano i versi citati della Farsaglia, e se si pensa  ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente  ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, pos-  siamo formarci un'idea approssimativa del genere di dot-  trina e di conoscenze che ebbe e di cui si fece maestro:  il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divina-  zione (quella che oggi si direbbe chiaroveggenza) in tutte  le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in  un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che  fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di  tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a  poco a poco caddero nell'oblio.   3. — E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi  seguaci? Probabilmente non si dispersero e continuarono  a riunirsi; tanto piìi che non mancava certo fra loro chi  potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la  sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo,  ci fu in Roma un'altra setta, ch'io non dubito punto fosse  continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi  insegnamenti: voglio alludere alla « Sextiorum nova et     — 59 —   romani rohoris seda » ^ la quale però « Inter initia sua,  quum magno impetu coepisset, extincta est » (1). Decisa-  mente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a  certa filosofia ! E in verità non potevano essere molti quelli  che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle  speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della  nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi di-  vertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia  di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate ! Cosicché gli  sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richia-  mare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e  più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco  duraturi.   Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le  notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma suffi-  cienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corru-  zione, come uomini desiderosi piii delle gioie del pensiero  che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della  scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini  infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto  maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio.   Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente,  e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione,  il più grande dei moralisti romani, Seneca, in quelle sue  mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza  e così degne d'essere studiate e meditate più che non  siano ! In una di queste, la novantottesima, volendo egli  provare al suo alunno che spesso molti disprezzarono quei  beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli  esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il     (1) Seneca, Quaest. nat. cap. ultimo.     60     padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere  un giorno governare la cosa pubblica, rifiutò persino la  carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare ; poiché egli  non annetteva alcuna importanza ai pubblici onori, rite-  nendoli, come sono, troppo incerti e transitori (1). Una  rinunzia di questo genere non era certamente cosa che  tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate  ambizioni ; e tanto meno poi per ragioni filosofiche ! Ma  tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro  ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno  visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero,  che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù,  che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse libe-  ramente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di  latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza ; per la quale  fu acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio,  progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desi-  derio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi (2).   Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ric-  chezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene,  ripetè quanto aveva già fatto il filosofo Democrito, il quale,  avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio,  prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive  faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon     (1) € Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempu-  hlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non re-  cepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse ».   (2) Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella  virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg  èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv  aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t,  dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ».     — 61 "-   mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta real-  mente la carestia, restituì ai primi proprietarii la merce  acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe  stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto (1).   Ma che uomo era Sestio ! Che scrittore vigoroso e ardito,  e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in  cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun  vigore perchè non ne hanno ! A leggere Sestio — son pa-  role di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore,  uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti  sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato  d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la  fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi  ostacolo! Poiché egli ha questo grande merito, che, pur  mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non  ti fa disperare di raggiungerla: egli la mette bensì molto  in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conqui-  stare, sì che ammirandola tu speri (2). Quale più alta lode     (1) Plinio, Naturalts Historia^ XVIII, 68, 9- 10 : « Ferun  Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli  societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium,  praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum  vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum,  mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant  in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia-  rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe-  nitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet,  fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis  fecit eadem ratione ».   (2) Seneca, Epistola LXIY: « Lectus est deinde liber Quinti  Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet neget.  Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc  non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum     — 62 —   per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da  Seneca ?   E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e pro-  fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persua-  dere un uomo della bruttezza dell'ira ? egli ammaestrava:  portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che  vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a  quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed  agitata ne sarebbe atterrito (1). Della onestà e della virtù  egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo     habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu-  tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni  legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est,  dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione  mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro-  vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere! para-  tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiaiuT,  ubi virtutem suam ostendat,   Spumantemque davi pecora inter inertia votis  Optai aprum, aut fulvum descendere monte leonem.   Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia exereear.  Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet Ubi  beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet. Seies  illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn virtus  tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres » .   (1) Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait  Sextius^ iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta  mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se,  et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa  reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos-  set., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et  distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per  ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis : quid si nudus o-  stenderetur ? et e.     — 68 -   onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che  per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto  il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice  quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi  la felicità umana e la divina differenza se non di durata.  Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il  bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta  alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for-  tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di  popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa,  persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi  la mano. . . . (1).     (1) Seneca, Epistola LXXIII: « Solebat Sextìus dicere^ « lovem  plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae '  praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo-  cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re-  gendi gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque  navigium est. lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus  est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio  breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui  senior decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos  terminata virtus est : sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^  etiam, si vincit aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupi-  ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie  unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est: sapiens tam  aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et hoc  se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens non  vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et  clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac,  secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ;  admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem  ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in  hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo-  ribus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.^     64     Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero susci-  tatrice di virtù, era la nota caratteristica degli scritti di  Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofava scrivendo  in greco con gravità romana, e che paragonava l'uomo  sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo,  a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e  pronto alla battaglia (1).   Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per  esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio (2),   simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur-  gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne-  cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » .   (1) Seneca, Epistola LIX : « Sextium ecce quam maxiìne lego^  virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem.  Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^  ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^  inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique expan-  dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia  sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in  exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^  ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae,  ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ;  hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim  saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod  suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne  UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur  pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis  terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus  est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si ignomi-  nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et  contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante  diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati  sumus, sed infecti ».   (2) Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad  Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici  però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii.     -- 65 -   questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli  col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua  vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sor-  gere quella « romani rohoris seda » , di cui abbiamo fatto  già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia dei  seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria,  che fu maestro anche di Seneca (1), Cornelio Gelso (2),     (1) Dì lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24.  Vedi anche Gellio, èi. A., I, 8. Nella interessante epistola 108^  Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice come oltre al-  l'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai fun-  ghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri,  aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e  ciò per gli insegnamenti di Soxione^ che dimostrava la inutilità e  i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pi-  tagora e di Sestio, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per in-  tero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam coepi Ubi ex-  ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis aeeesse-  rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi amorem  Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab-  siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed   uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex-   posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit,  aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse  quam dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut  aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non cre-  dis nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum  caelestia per eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices  ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Ita-  que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia tibi integra  serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia est.,  si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ?  Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere  animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi  consuetudo., sed dulcis... »   (2) Quintiliano, Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa  Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore ».     — 66 —   Papirio Fabiano (1), Moderato di Cadice (2) ed altri.   I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due: il primo  quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al  tempo di Augusto e anche di Cesare, se, come dice Se-  neca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante » (3), e avrebbe  pure, secondo il surriferito passo di Plinio (4) dimorato,  non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene;  l'altro, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che pro-  seguì l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a  torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome  di Sesto pitagorico (5), della cui vita infine non sappiamo  assolutamente nulla.   Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, solitari  ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi?     (1) Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Con-  troversie^ prefaz.   (2) Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, fu famo-  so per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei nu-  meri, fu maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv.  Vili, 7) e scrisse un'opera voluminosa intorno alla dottrina pita-  gorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck; Stefano Bi-  zantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di  Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III.   (3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico.,  che fiorì ai tempi d'Augusto, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade  195. 1 = 1 d. C). Dobbiamo dunque ritenere il nostro Sestio vis-  suto press'a poco fra il 70' a. C. e il 5 d. C.   (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10.   (5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosopho-  rum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e  voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di  esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.),  anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie  der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg 1880), pp. 679 e 681 nota.     67     Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se,  come riferisce Claudiano Mamerte (1) spiegarono che l'a-  nima è « una certa forza incorporea, ilìocale e inafferra-  « bile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene  « il corpo » . Ma questo evidentemente è troppo poco per  determinare a che scuola essi appartennero. E ben vero  che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epi-  stola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio  era uno stoico; ma quel « volere o no » ci fa compren-  dere che in realtà Sestio non si professava stoico. E infatti  qualche altra testimonianza lo dice pitagorico (2), e tale lo  proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimo-  strate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune  abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni  giorno l'esame di coscienza (3) e quella di astenersi dai  cibi carnei (4), l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei  seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima  è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora,     (1) De statu anirnae, II, 8 : « ... Eomanos etiam^ eosdemque  philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius  propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati  sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft . Incor-  poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque indeprehensa  vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et continet-» .   (2) Y. pag. preced., nota 3. .   (3) Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc  Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam qutetem. re-  cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum  sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? » .   (4) A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca riportata  nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Orige-  ne, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che  suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più  conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non  già del nostro Sestio.     — es-  cori la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che  ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno  astrusi : « gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri  «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci  « si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della  «carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può  « alimentar la lussuria » e concludeva dicendo che « la  « varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per  « i nostri corpi » (1).   Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii  non furono ne stoici ne pitagorici, ma ebbero un proprio  sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di  elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non fu ne  inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici del-  l'ultima maniera) né materialista (come l'epicureo), sibbene  avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara  luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su  opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo insomma,  che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'o-  ziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria  forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò ap-  punto destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per  tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di cor-  ruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la  grande Roma nel trapasso dalla repubblica all'Impero.     (1) Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimen-  torum eitra sanguinem esse eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi-  nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio. Adiciebat  contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae valetudini  contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus ».     CAPITOLO QUARTO     Pitagora e le sue dottrine negli scrittori latini  del primo secolo avanti Cristo.   I.  Lncrezio e il poema « Della Natura »   1. Lucrezio e il poema Della Natura. — 2. Epicuro contro Pitagora  a proposito di immortalità dell'anima e di metempsicosi. — 3. Ac-  cenni alla metempsicosi nel proemio del primo canto. Il sogno di  Ennio. — 4. Polemiche intorno all'anima nel terzo canto: la dot-  trina dell' anima-armonia. — 5. Argomenti epicurei contro la  preesistenza dell'anima e la metempsicosi. — 6. Insussistenza del  timore della morte nell'ipotesi della reincarnazione. — Riassunto  e conclusione.     1. — Poiché si è visto come, dopo Nigidio, i Sestii cerca-  rono di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non  sarà certo inutile indagare quali tracce esso aveva lasciato di  sé nella letteratura romana del primo secolo avanti Cristo,  siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o sem-  plici notizie incidentali : così infatti potremo non solo farci  un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel     — 70 —   tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chia-  rirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in  luce gli aspetti più notevoli.   Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze  religiose e i più diversi sistemi di filosofìa affluendo in  Koma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia  e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole  influsso e preparando cosf il terreno che doveva di lì a  non molto accogliere e far germogliare il seme della nuova  fede cristiana, non è facile sceverare e seguire uno per  uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che,  come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo  avuto larga diffusione e gran numero di seguaci, trasmi-  sero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche  posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci per-  metterà almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori  latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa espli-  cita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei  luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine  e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per  concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di  Samo.   Incominceremo pertanto dal poema di Lucrezio, che  fu, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elabora-  zione poetica in lingua latina di un sistema filosofico greco,  e precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi  di esporre in versi dottrine di filosofi greci erano bensì  stati fatti da Appio Claudio, da Ennio, da qualche altro,  ma per brevi trattazioni ; sì che Lucrezio — pur conscio  della grandezza del cantore degli Annales — potè ben affer-  mare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare  di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e del-     71     r Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla  profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, le  speculazioni dei Greci.   Il poema Della Natura infatti non solo espone con  ordine sistematico la complessa dottrina di Epicuro intor-  no air essere delle cose in generale, all' infinità dell'uni-  verso, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, com-  posizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensa-  zioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo  e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni  meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano  piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea,  le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e  combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni pos-  sibili degli avversari.   Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora  su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e  distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che  noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica,  per vedere se e quanto in essa il poeta — e prima di lui  Epicuro — abbia tenuto conto delle dottrine di Pitagora.   2. — Ora, su due punti essenzialmente il poeta discute  e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal  suo : sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a  proposito della prima combatte e confuta esplicitamente,  nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo  di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né  qui ne in altra parte dei poema; ma ciò non toglie che  un attento esame del poema stesso non ci permetta di  scoprire dove e quando, pur senza dirlo, il poeta pensi  a combattere i principii della filosofia pitagorica,     — 72 —   È ben nota, in verità, la disistima che Epicuro ebbe  per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci esclu-  dere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì,  per un sistema che aveva studiato e rappresentato sotto  l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche ma-  tematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però pos-  siamo escludere a priori soltanto questo: che Epicuro te-  nesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola  italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo stu-  dio del poema di Lucrezio conferma senz' altro questa  induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica  dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e lo  svolgimento dei principii epicurei intorno al mondo e alla  materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi ac-  cenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche.   Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero  e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima  e dei), e quanto all'anima, pur considerando anche di  questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano so-  prattutto il concetto della sua eternità : non mai nata,  perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immor-  tale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (me-  tempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di  Pitagora dovette pure essere tenuta in qualche conside-  razione da Epicuro, se scopo fondamentale della sua spe-  culazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce  r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello  degli dei, e se, per vincere il primo, difese con tutte le  armi della logica il principio della materialità e della  mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte  alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le specu-  lazioni stoiche intorno alla origine divina e all'immortali-     73     tà dell' anima ? E la filosofia pitagorica non si uniformava  forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate su-  perstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffu-se  credenze religiose degli uomini ?   Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione  teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, ac-  cettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' appli  cazione al mondo fisico, V estendesse, come fece realmente,  al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un  aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza  della mortalità dell' anima o, più precisamente, del ne-  cessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo.  Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat-  tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui,  dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e  dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo,  l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre-  denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione,  dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da  poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava  ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi  corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter-  rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsi-  cosi. E per di più questa credenza, anche nei termini  strettamente epicurei, poteva in un certo senso (come ve-  dremo) apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità  del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli  atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile  il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ri-  creasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima ani-  ma. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende  ohe Epicuro o i suoi seguaci dovessero esaminarla anche     — 74 —   al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne  le loro conseguenze in rapporto alle due questioni del-  l'eternità dell'anima e del timore della morte.   Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in mo-  do ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione  polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima  e la vanità del temere la morte.   3. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte  del poema che si riallaccia così strettamente con la dot-  trina pitagorica, è necessario premettere che già al prin-  cipio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proe-  mio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia  della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze  e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale  che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema  epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dall' animo  umano il timore della morte.   E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che  ad esso si collega del famoso sogno di Ennio, ha pure  importanza per il nostro tema.   Per rassicurare infatti Memmio — al quale il poema è  dedicato — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina  epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lu-  crezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli  uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio  d* Ifigenia in Aulide (vv. 80-101). E poi soggiunge che,  vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner  sempre quell' altro timore, che è alimentato dalle spaven-  tose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e  da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell' igno-  ranza umana intorno alla vera natura dell' anima (vv. 102-     — 75 —   126). Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme  con la natura delle cose celesti, degli dei e della mate-  ria — anche il problema dell' essenza dell' anima e della  natura dei sogni e delle visioni (vv. 127-135).   E precisamente nei versi 112-126 si accenna in par-  ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e  intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo:   112 Ignoratur enim quae sii natura animai,   nata sit^ an cantra nascentihus insinuetur^  et simul intereat nobiscum morte dir empia,   115 an tenehras Orci visat vastasque lacunas^  an pecudes alias divinitus insinuet se,  Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno  detulit ex Helicone perenni fronde coronam,  per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\   120 etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia  Ennius aeternis exponit versibus edens^  quo ncque permanent (1) animae ncque corpora nostra^  sed quaedam simulacra modis pallentia miris;  unde sibi exortam semper fiorentis Homeri   125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas  coepisse et rerum naturam expandere diciis (2).   Quanto all' origine dell' anima, Epicuro sosteneva che  essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata  già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra     (1) Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta  dal GoBEL (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più  ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so ve-  dere in qual modo tale correzione urti, come dice il Giussani, con-  tro il senso di permanare.   (2) In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi  attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum na-  tura, Torino, Loescher, 1896-1898;.     — 76 ~   nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava  al morire del corpo le opinioni invece erano tre: l'epicu-  rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi  corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la  popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te-  nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che  passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pe-  cudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però  non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap-  punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur  esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza  dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen-  deva non già l'anima (questa passava — subito? — in  altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del-  l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisa-  mente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno —  doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a-  mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose.   E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina  psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri  filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di  Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e  lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della  metempsicosi (1).   4. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che  fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire  della concezione dell' anima- armonia?     (1) La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lu-  crezio compose verosimilmente questa parte del proemio del primo  libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito  la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5).     - 77 —   È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac-  cingersi a determinare la natura materiale - atomica del-  l' anima nelle sue due distinzioni dì animus od anima.,  confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior-  ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne-  gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea,  ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe-  cie di armonia delle funzioni organiche :   98 sensum aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^   vermn habitum quendam vitalem corporis esse^   100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus  vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens :  ut bona saepe valetudo eum dicitur esse  corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis,  sic animi sensum non certa parte reponunt.   Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot-  trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era  tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne-  cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe-  cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato  e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale  concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli     (1) Platone, Fedone^ e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del-  Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e  difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e  DiCEARCo di Messina (Cicerone, ibidem^ I, 20).   (2) La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea  (DioG. Laerzio IX, 29): ma che debba riconoscersi anche come  propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo  Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi  la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo  la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII).     — 78 —   qui da T ucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel  dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso  si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro  della metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza  e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun-  que dei versi 131-135:   ... recide harmoniai  fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi  — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam  trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat -  quid quid id est habeant. .   — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era-  no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro  quella interpretazione e limitazione materialistica di essa,  per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo.  Ed è ben naturale che — così limitata e interpretata — la  combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i  materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la  negazione della essenza individuale e quindi della immor-  talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten-  za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso-  riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre  tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u-  mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di     (1) Per Epicuro 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però,  fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte  dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano parte  le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata  nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re-  cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel-  lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a  cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle im-     — 79 —   accingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu-  tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una  sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi  a negarne 1' esistenza (1).   5. Dimostrata la materialità dell'animo (vv. 94-416), Lu-  crezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della  sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat-  tono il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già  del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree-  sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità  delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766,  774-781).   Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi,  e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi.   Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina  della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi-  stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli  Stoici; e inoltre, come ho già osservato più volte, tale  dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre-  denza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella  poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in-     magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste  vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non  produce essa stessa.   (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice  appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nihil  esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque  ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum  vel animam nec in bestia ■» {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente  più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum  omnino animum esse dixerunt ».     — 80 —   segnamenti religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che  gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si-  curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici.  Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra  il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo-  gliono, dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede  veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema dottri-  nario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli  altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta  epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia  ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica.  Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1' opinione  della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro  successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi —  dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat-  tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore  della morte.   a) Il primo argomento (vv. 668-676) è desunto dalla  mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore  alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta  e quindi è entrata nel corpo al momento della nascita (2),  perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci  del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri-     (1) C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale  ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti-  colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in-  controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun  uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza  dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone  ì capitoli l8-22ì.   2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato  nel verso 113 del proemio al primo canto.     — 81 —   membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima  ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà  di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non  differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere  che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo  in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1).  Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della  memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le-  gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice  soltanto che — dato pure che potesse essere material-  mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del  passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità  (personalità infatti non è altro che persistere di una me-  desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per  diventare un'altra.   Praeterea si immortalis natura animai  constai et in corpus nascentibus insinuatur,   670 cur super ante actam aetatem meminisse nequimus   nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ?  nani si tanto operest animi mutata potestas,  omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,  non, ut opinor, id a lete iam longiter errai;   675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante   interasse, et quae nune est nunc esse creaiam.   Insomma in questi versi non si nega la possibilità che  siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com-  ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi-     fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come  vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice  cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan-  do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo.     — 82 —   stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva  dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima.   D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del-  l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo  alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa —  che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra  immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa  col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché  avviene proprio il contrario — ■ e cioè 1' anima é diffusa  per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre-  sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é  entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende  del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am-  messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di en-  trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte  appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e  dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a  un morire per rinascere tosto altra da quella di prima  (vv. 677-710).   b) Un altro argomento pare al poeta di poter trarre  dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere  in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costitui-  ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani-  ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa, potendo  frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette-  re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi  si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando  pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove  una è partita, o esse stesse si formano il proprio corpo  dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en-  trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè,  piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontanea-     - 83 —   mente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces-  sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il  ragionamento fatto precedentemente che un' anima non  può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già  formato senza snaturarsi (vv. 711-738).   720 quod si forte animus extrinsecus insinuari   vermibus et privas in corpora posse venire  eredis, nec reputas cur milia multa animarum  conveniant unde una recesserit, hoc tamen est ut  quaerendum, videatur et in discrimen agendum,   725 utrum tandem animae venentur semina quaeque   vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint,  an quasi corporibus perfectis insinuentur .  at neque cur faciant ipsae quareve laborent  dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt,   730 sollicitae volitant morbis alguque fameque :   corpus enim magis his vitiis adfine laborat,  et mala multa animus contage fungitur eius.  sed tamen his esto quamvis facere utile corpus  cui subeant: at qua possint via nulla videtur.   735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus,   nec tamen est uiqui perfectis insinuentur  corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse  conexae, neque consensus contagia fient.   c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem-  psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni,  un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o  quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per  modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e  colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole  specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei  caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi,  questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe  molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mu-     — 84 —   tando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non  rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore  per rinascere un'altra (vv. 789-751):   Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum  740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga cervi»   a patribus datur et patribus pavor incitai artus^  et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris  ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque,  si non, certa suo quia serrane seminioque  745 vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ?   quod si immortalis foret et mutare soler et  corpora, permixtis anirnantes moribus essent,  eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe  cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras  750 aeris accipiter fugiens veniente columba,   desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum.  illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt  immortalem animam mutato corpore flecti :  quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo.   Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo  entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima  umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi-  ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di     (1) Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni  deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini  della specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui-  scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu-  crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può  dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira,  sono errate per confusione della metempsicosi pitagorica con  quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono  spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al passaggio dell'ani-  ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la  testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fa-     — 85 —   saggia che era, diventare sciocca, dal momento che non  s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu-  ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men-  te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora  dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in  tal modo la vita e il sentimento di prima (vv. 758-766):   Sin animas hominum dicent in corpora sem,per  ire humana, tamen quaerain cur e sapienti  760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus,   762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ?   scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem  confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst  765 mortalem esse animam, quoniam mutata per artus   tcmto opere amittit vitam sensumque priorem.   d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore  umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la  preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo  ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad  ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in  numero innumerevole, immortali aspettino membra mor-  tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza  riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto  che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non  ci sia fra loro nessuna lotta violenta (vv. 774-781) :   Denique conubia ad Veneris partusque ferarum  llb esse animas praesto deridieulum esse videtur,   expeetare immortalis niortalia membra  innumero numero, ceriareque praeproperanter     cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa  anche dire d'essere divenuta un pavone (« pavone » qui significa  « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la  dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide.     — 86 —   inter se quae prima potissimaque insinuetur ;  si non forte ita sunt animarum foedera pacta,  780 ut, quae prima volans advenerit, insinuetur   prima, neque inter se contendant virihus hilum.   6. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle cre-  denze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in  quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo-  stra la vanità del timore della morte, è formulata l' ipo-  tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede-  simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata  con V analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi,  dobbiamo esaminare anche questo passo.   Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della  mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima  conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla (v. 828-  829). Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca-  duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra  non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per-  chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima  (e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia-  mo solo per l'intima unione di entrambi, non esisteremo  e quindi non sentiremo più (vv. 830-840). E giunto a  questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi,  come infatti, sembra, si fermò in una prima redazione  del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione  i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi,  tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la  suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare (1).     (1) Accetto senz' altro le conclusioni del Giussani, sì per l' in-  terpretazione dei vv. 860-867, sì per la composizione di tutto que-  sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci-  tata, voi. Ili, pp. 106-107.     — 87 —   Poiché in essa è detto anzitutto che se pura, dopo  avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire,  anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi,  che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in  un'esistenza unica (vv. 841-844).   La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata  dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha  detto precedentemente, che non era assolutamente ammis-  sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste,  consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame  tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato-  mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente.   Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più  poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto —  come la precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi  cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del  nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però  la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione  della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo-  tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in  questo modo :     (1) Il Giussani ha creduto invece di poter sostenere che l'ipotesi,  per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta — in a-  stratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non  sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia  formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina  d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi-  stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal  corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori  del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata  l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio-  ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione  per absurdum.     — 88 —   845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas   post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est,  atque iterum nobis fuerint data lumina vitac,  pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum,  interrupta semel cum, sit repetentia nostri;   850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante   qui fuimus, neque iain de illis nos adficit angor,  nam cum respicias immensi temporis omne  praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai  multimodis quam sint, facile hoc adcredere possis,   855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta   haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse :  nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente :  inter enim iectast vitai pausa, vageque  deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes.   Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire  identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove  si fa pur cenno della interruzione della coscienza. Tanto  che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu-  sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che  nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la mede-  sima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente  dalla dottrina della palingenesi universale che era propria  dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si  tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si  parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi,  e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi  dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso e  neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso-  nalità), qui invece si considera il caso di una duplice     (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre-  zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei  XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III.     — 89 —   creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi,  cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden-  tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della  teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è  un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for-  mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro.   7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve-  duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi-  nioni intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma  risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di  Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa nasce e si distrug-  ge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organi-  smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto,  caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu-  rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade,  donde può uscire per apparire agli uomini (credenza  popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma  è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia-  mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia-  mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in  modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol-  teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana);  h) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze,  ma entro i limiti della propria specie e conservando la  propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica);  e) l'anima può bensì rinascere, magari nell'identico corpo.     (1) L'ha posta con molta sottigliezza il Giussani {op. cit. pa-  gina 105-106). Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto il  Pascal nel suo scritto « Morte e resurrezione in Luerexio » pub-  blicata nella Riv. di Filologia classica dell'ottobre 1904 e ristam-  pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti.     90     senza però conservare la propria identità personale (ipo-  tesi (1) epicurea-lucreziana).   La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup-  pata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse  bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece  che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in atti-  nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se-  condo la quale non pur l' anima e il corpo umano anda-  vano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni-  verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico  (pitagorici, stoici e genetliaci).   Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza  nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se  anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio  (eidolon, simulacrum) che poteva anche riuscirne (e ve-  rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima tornava  a nuova vita terrena) (Ennio).   Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo  veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi:  1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2") nella  confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel  terzo libro (vv. 668-676, 720-738, 739-757, 758-766, 774-  781); e che non debbono ritenersi affatto come riferi-  menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima-  armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita,  come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro.     (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in so-  stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l' argo-  mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a  coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero  potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesi-  mo corpo.     II.     Frammenti della dottrina di Pitagora desunti dalle opere  di Marco Terenzio Varrone.   1. M. Terenzio Varrone : suoi scritti pitagorici e sua conoscenza  del Pitagorismo. — 2. Frammenti della dottrina di Pitagora de-  sunti dalle opere di Varrone: a) La leoria dei numeri e sue ap-  plicazioni. 6) Pitagora e i due fabbri, e) La teoria degli accordi  musicali, d) La stessa applicata al corso dei pianeti: l'armonia  delle sfere e del mondo, e) Sua curiosa estensione al decorso del  puerperio, f) I numeri e la musica in relazione con le pratiche  della vita. — 3. Altri accenni alla dottrina pitagorica: i quattro  aspetti delle cose e i quattro elementi ; magia ; metempsicosi; il  divieto di mangiar fave. ~ 4. Varrone e gli altri scrittori del  primo secolo av. Cristo.     1. — Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappia-  mo con certezza che compose Marco Terenzio Varro-  ne di Rieti, il quale, nato nel 116 av. Cr. , morì quasi  nonagenario nel 27. Eruditissimo in ogni campo del sa-  pere, fu, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare  di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande bi-  blioteca, specialmente di opere latine e greche ; ciò che  gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le  sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per     — 92 -   comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati  argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, racco-  gliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e  profane della patria, e dettando pure^ a quel che ci ha  lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi  {praecepta sapientiae versibus tradidit) (1). Della sua  prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere  letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano  di lui non meno di 74 opere in 620 libri — non ci re-  stano purtroppo che scarsi avanzi ( poco più di nove li-  bri ) e numerose citazioni, massime dei Santi Padri, che  da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì  che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della maggior  parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena  appena il titolo. Così dei suoi famosi Logistorici^ che era-  no in 76 libri, e contenevano discussioni di argomento  filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i ti-  toli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno  largamente di filosofia pitagorica : tali sono 1' Attico o dei  numeri (Atticus sive de nunieris) il Tuberone o dell' ori-  gine umana {Tubero seii de origine humana) il Gallo o  delle meraviglie {Gallus de admiraìidis), il libro de sae-  culis e r altro de philosophia; ma quale ne fosse preci-  samente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte,  ci è rimasta notizia d' un' opera in nove libri intorno ai  principii dei numeri (de principiis numerorum), la quale,  messa accanto sìiV Attico già citato e alla testimonianza     (1) intorno a Varrone si veda l'opera di Gaston Boissier, Etude  sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum  rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio  dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement-  band I Heft, Leipzig, 1898.     — 93 —   di Gellio (Notti Attiche 3,10), che riferisce come Varrone  trattò in maniera oltremodo compiuta del numero sette-  nario ( Varrò de numero septenario scripsit admodum  conquisite)^ prova che il grande reatino dovette conoscere  profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dot-  trina fondamentale dei numeri (1).   2. — È veramente un peccato che di tali opere non  resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse potuto  trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina,  che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica  di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto,  vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè  avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria  stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte  nel campo delle scienze sperimentali.   a) Poiché le investigazioni matematiche dei Pitago-  rici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprie-  tà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica  e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe  applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni na-  turali.   Una delle prime e forse la più importante scoperta di  Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che,  in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo  parlare della determinazione matematica degli accordi, che  poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura,     (1) Già il Kathgeber {Orossgriechenland unti Pythagoras^ Gotha  1855, p. 423) scrisse : « Dem M. Terentius Varrò aus Reato, der  aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gele-  genheit zur Erwàhnung dar ».     94     portò a molte curiose osservazioni come quelle che ri-  guardano le due diverse specie di parto (a termine e  settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica  dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo  come di un tutto perfettamente armonico (kósmos).   h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa  di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli ac-  cordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era  affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Pas-  sando un giorno per istrada accanìo a due fabbri che  martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine,  egli fu colpito dai suoni cadenzati e armonici dei mar-  telli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente  a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel  suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo.  Ebbe così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno  al quale già da qualche tempo lavorava col pensiero, e  non si lasciò sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvici-  natosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e  nota i suoni che erano prodotti dai colpi di ciascuno.  Credendo che la loro diversità di tono dipendesse dalla  diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i mar-  telli : e si accorge che invece essa dipende da questi.  Allora volse tutta la sua attenzione a determinare con  esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fece fare altri  martelli più o meno pesanti di quei due; ma dai loro colpi  nascevano suoni diversi da quei primi e per di più non  intonati.   e) In tal modo capì che l'accordo dei suoni doveva  nascere da un determinato rapporto matematico dei pesi,  che cercò subito di calcolare; trovati che ebbe tutti i nu-  meri che corrispondevano ai pesi dai quali nascevano suo-     — 95 —   ni intonati, passò dai martelli alle corde musicali: prese  alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale gros-  sezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi  proporzionati a quelli di cui aveva fatto il computo e de-  terminato il rapporto coi martelli ; fattele risuonare per  mezzo della percussione, non solo trovò che le corde tese  da pesi uguali vibravano all'unisono al vibrare di una sola  di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente  dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di 3:4 ( 5tà  xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^ tertium), di 2 : 3 (5tà Tcévxe)  e di 2:4 (5tà Traawv). Per averne poi un'altra riprova,  ripetè r esperienza con alcuni flauti, in questo modo: ne  fece preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza  diversa, il primo, poniamo, lungo 6 pollici, il secondo 8  il terzo 9 e il quarto 12 ; poi facendoli sonare a due a  due trovò che il primo e il secondo armonizzavano in  accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4); il primo e il terzo in  accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) e il primo e il quarto in  accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) (1). In tal modo egli  riuscì molto genialmente alla determinazione matematica  degli accordi, ciò che permise in seguito di estendere e  perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo con-  dusse alla scoperta non è molto dissimile da quello per  il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una  lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le  leggi della oscillazione del pendolo^ o da quello in virtù  del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a  scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è     (1) Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma-  cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de  die natali 10,7.     96     vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre  partito dalle cose e dai fatti più semplici !   d) E una volta messosi su questa via, che mirabile  serie di investigazioni non seppe escogitare quella pro-  fonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due  fabbri all'incudine arrivò non pure alle leggi dell'armonia  musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto  r universo ! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e  alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo  e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso  della vita e degli eventi umani — trovò che essi avevano  un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e  suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accor-  do, da formare una dolcissima armonia, non però perce-  pibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la  facoltà del nostro udito.   Calcolate infatti le distanze dalla Terra a ciascun pia-  neta in stadi italici di 625 piedi, trovò che dalla Terra  alla Luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappre-  sentava per lui r intervallo di un tono; dalla Luna a Mer-  curio (Stilbon) calcolò una distanza uguale alla metà, ossia  un semitono; di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino  al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il  Sole quindi distava, secondo lui, dalla Terra tre toni e  mezzo, formando così con essa un accordo diapente e  dalla Luna due toni e mezzo, formando un accordo diates-  sdron. Dal Sole poi a Marte (Pyrois) stimava esserci e-  guale distanza che dalla Terra alla Luna, ossia un tono;  di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitono; da  Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitono; di  qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un  mezzo tono ; e però da questo cielo al Sole poneva un     FIRMAMENTO     Orbita di     •e     Orbita di     •e     Orbita di     Orbita del     Saturno     Giove     Mabte     e-     3   Q.   o  o  II»   H  K>     •d   Wi         ■O-     SOLE     Orbita di     ■e     Orbita di     Orbita della     1     Vbnehe     Mercurio     ■e-     LUNA     ©■         •0   Wi             TJSKBà,     d>     >   3   Q.  •«  O   o  tt)      •0  u      cs  i)       >  »3  o  8  ti      •0  u        e       ^     7.     — 98 —   intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso  cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei  toni) (1).   e) Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale  che Pitagora dovesse convincersi che nell' universo tutto  è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di  fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine  e da una determinata e determinabile proporzione (2). Sic-  ché dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, '  alla tisiologia, trov^ava nel decórso del puerperio ancora  una riprova della regolarità matematica dei fenomeni na-  turali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fece  della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso  dei processi fisiologici, cioè alla generazione, era appunto  spiegata in una delle opere varroniane su ricordate (Tu-  bero seu de origine humana).   Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo stu-  diato accuratamente il decorso delle due diverse specie di  parto, l'uno di sette (settimino) e Y altro di dieci mesi  lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e  274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i.  numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei  due parti, si compiono i mutamenti più importanti — del  seme in sangue, del sangue in carne, della carne in for-  ma umana — trovò che il parto settimino è in rapporto  col numero 6 e quello a termine col numero 7; non solo,  ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'al-  tro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musi-  cali. Ed ecco in qual modo.     (1) Censorino, de die natali, cap. 13.   (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14.     — 99 —   Nel parto di sette mesi, per i primi sei giorni dopo la  fecondazione, V umore che è contenuto nell' utero è di  aspetto lattiginoso ; nei successivi otto giorni è di aspetto  sanguigno. Il rapporto fra 6 e 8 è, come abbiamo veduto  più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd-  ron (6:8 = 3:4). Nel terzo stadio si hanno 9 giorni,  in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno  in carne : e il 9 col 6 forma il secondo accordo diapènte  (6:9 = 2: 3); finalmente nei 12 giorni seguenti si ot-  tiene il corpo già formato : e il rapporto di 12 con 6  forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). Questi  quattro numeri 6, 8, 9, 12 sommati insieme formano 35  giorni, i quali moltiplicati per 6 danno appunto il nu-  mero totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia  210. Nel parto a termine invece, con analogo ragiona-  mento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2,  14, che sommati insieme danno 40 e una frazione; 40  moltiplicato per 7 dà 280, da cui detraendo 6 si ha 274.  Vale a dire che nel parto di dieci mesi iL mutamento  del seme in umore latteo avviene in sette giorni anziché  in sei, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo  40 giorni interi, che moltiplicati per 7 danno 280, cioè  quaranta settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo  giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei  giorni, onde ne restano 274. Tanto il 210 che il 274 so-  no veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava  speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere —  in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è  regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino     (1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad  Bmol. Vili, 75.     — 100 —   che riporta tutto questo passo Yarroniano, egli non era  qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari  209 e 273 sono bensì compiuti, ma non si compie ne il  210^ né il 274" giorno in cui il parto avviene; in con-  formità precisamente di quanto ha fatto la natura sia ri-  guardo alla durata dell' anno (365 giorni più una frazione)  che a quella del mese (29 giorni più una frazione) (1).   ;Non è il caso di entrare qui in merito al valore in-  trinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché  anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener  conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di  esperimento da oggi a ventisei secoli or sono, e pensare  dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei nu-  meri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pi-  tagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci.  In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve-  duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano  campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma  trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os-  servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub-  biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di  aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione  dei tempi, non fu merito piccolo.   f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri-  scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale  che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica  degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi-  steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per  esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda     (l) Censorino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il  passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7.     - 101 -^   la particolare considerazione in cui erano tenuti i così  detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere  i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan-  do di comporre in una sola volta 216 righe o versi  (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! (1).   Ora questo è uno di quei particolari che, presi a se,  prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in  verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra-  gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo  tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ;  poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rien-  trassero nell' ambito del sistema per puro amor dell' ordi-  ne e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una  certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti  della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di  esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi  insegnamenti del Maestro.   Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è  ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla —  quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di  Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto,  che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al  suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per  meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini (2).   3. — Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle  indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si-   (1) ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1.   (2) Censorino, de die natali 12, 4.   (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha-  goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae, MDCCCLXXXV)  l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae frag-  menta continens ».     stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei  numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Yarrone,  intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai  suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema.   Così Yarrone poneva 1' esistenza di Pitagora al tempo  di Tarquinio Prisco (1) e quindi implicitamente non ac-  cettava la tradizione che Numa fosse stato suo scolaro a  Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di  essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sa-  pere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire :  già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il  futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a  Turio (Sibari) nella Calabria (2). E Sant' Agostino ci ha  conservato un altro passo nel quale Yarrone, da vero  romano, esprimeva la sua ammirazione perchè 1' ultima  cosa che Pitagora insegnava ai suoi discepoli, quando già  fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare  la cosa pubblica (3).   Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lin-  gua latina un brano in cui Yarrone afferma che Pitagora  insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come fi-  « nito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e  « notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato  « e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove  « si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che  « vi è nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò  « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed eterne,  « poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece-     (1) S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25.   (2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46.   (3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54.     — 108 —   « duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra  « un moto e l' altro — ; né moto senza spazio e senza  « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove e  <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove  « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio  « e corpo, tempo e azione » (1). Altrove ci ricorda Var-  rone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto  poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che l'esistenza de-  gli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto  principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti (2). E  parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro  elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu-  nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir-  genti, vissuto un secolo dopo (3). Non mancava neppure  nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita-     (1) Yabro, de Lingua Latina, Y, 11 : « Pythagoras Samius ait  omnium rerum initia esse hina^ ut finitum et infinitum^ honum  et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo,  status et m,otus ■: quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur  locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare  fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc-  que unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum  tempus; ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est  quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi;  igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ».   (2) Vaerò, de re rustica, 1, 3 : « Sive enim aliquod fuit prin-  cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno  Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut cre-  didii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est hu-  manae vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. Cen-  SORINO, de die natali, IV, 3.   (3) ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI,  724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg.  E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25.     — 104 —   gorica deir eternità dell' anima (1) e alla sua dottrina della  metempsicosi (2), a conferma della quale ricordava persi-  no le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo  Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e finalmente  Ermotimo (3). Altrove ancora Yarrone accennava alle pra-  tiche di evocazioni dei morti, che del resto erano larga-  mente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la  rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in  un monumento cretese, scoperto da poco, che risale ai  tempo pre-omerico (1500-1400 av. Cr.) della così detta  civiltà micenea o minoica (4).   È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non  mancò di parlare del famoso divieto pitagorico di man-  giar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi  e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post-  mortale (5).     (1) Symmaghus, Ep. I, 4.   (2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello,  p. 121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; S. Ago-  stino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13.   (3) Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII,  24.   (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiò-  nis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et  postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi  adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman-  teian graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene  di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo  I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa  Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea.   (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist.  XVIII, 118, XXXV, 160.     — 106 -   4. — Tali a un di presso le notizie di contenuto pitago-  rico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità  delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui fu-  rono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali  però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita  quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si  è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie  utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'anti-  chità classica.   Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto  da Yarrone, come delle sue speculazioni e delle sue ri-  cerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco  gli scrittori contemporanei o che vissero poco dopo di lui,  così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo ri--  maste nelle opere di altri scrittori di questo tempo, po-  tremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della  dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della co-  noscenza che ne ebbero i contemporanei di Cesare e di  Augusto.     111.   Appio Olaadio Palerò - Cicerone e il « Somninm Scipionis ».   i. Appio Claudio Palerò e la seienxa augurale. — 2. Marco Tullio  Cicerone e la sua eonoscenxa del Pitagorisìno. - 3. Notixie  intorno a Pitagora e alle sue dottrine desunte dalle opere cice-  roniane. — 4. // « Sogno di Scipione % : a) Suo carattere  pitagorico e profetico; b) Contenuto e materia di esso: la via  lattea; vita e morte; il suicidio; le sfere celesti e la loro armonia;  la terra e le sue xone; la gloria terrena; anima e corpo; V im-  mortalità dell' anima.     1. — Fra gli amici di Marco Terenzio VarroDe è degno  di essere ricordato queir Appio Claudio Fulcro, del quale  sappiamo che fu augure, pretore nei 57 a. C, console  nel 54, censore, governatore della Cilicia e legato in rap-  porti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano  diverse lettere a lui indirizzate.   Convinto che la scienza augurale avesse il suo fonda-  mento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare  anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii in-  teressi dello Stato — come la pensava l' altro grande  augure C. Claudio Marcello — ma che realmente fosse  un dono concesso dagli dei agli uomini, perchè questi     - 108 —   fossero in grado di meglio intendere la loro volontà e di  regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta pub-  blica e privata (1), era solito far sortilegi, oroscopi, evo-  cazioni di morti (2); ne più né meno di quello che, secondo  la tradizione aveva fatto in antico il re Numa (3) e di  quel che avevano fatto il filosofo Ferecide di Siro, il suo  discepolo Pitagora, e Platone (4). Questa convinzione ,  suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale  cui era dedito, dovette appunto indurre Appio a scrivere  quei suo « liber auguralis '> , forse di carattere polemico,  che dedicò all' amico Cicerone (5). lì quale fra T interpre-  tazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensavano  come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pen-  savano come Appio Claudio, ebbe un'opinione intermedia,  in questo senso : che cioè una vera e propria scienza e  arte augurale fosse già esistita in antico, ma che di essa  però non fosse più depositario, al tempo suo, il collegio  degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per  r abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era,     (1) CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio  vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dis-  sensio fnam eorum ego in libros incidi), quom alteri plaeeat  auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae composita, alteri di-  sciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » .   (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus amicus  Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58,  132.   (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli  34 e 35.   (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39.   (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R.  R. 3, 2f 2.     109     secondo lui, svanita (1). Dichiarazione questa, che per  essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo  di lieve momento.   Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella  ricerca di quel che fosse proprio questa ra antica, come  la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ebbe  nella vita privata e pubblica degli Elioni e degli antichi  Italici; ma questa trattazione mi porterebbe troppo lon-  tano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto  ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto sod-  disfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito (2).  Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si  esercitava in forme e modi diversi — con T osservazione  del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo  detto templum (onde trasse origine la parola contempla-  zione), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato)  di animali sacrificati a questo scopo (hostiae consultato-  riae\ con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con  la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, ful-  mine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi  profetici - ; e che era pure praticata da Pitagora, il  quale vi annetteva anzi un particolarissimo valore, tanto  da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che     (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est,  quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate  et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai  unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse  etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70.   (2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsen-  schììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlino 1868, e del Cak-  TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889.   (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè  alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit, qui     no     naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche  prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli  ne diede infatti non poche.   2. — Altro amicissimo di Varrone fu, come è noto,  Marco Tullio Cicerone^ che visse dal 106 al 43 a. C.   Negli scritti che in gran numero ci restano di lui fre-  quentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola  e alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una  elaborazione personale e originale, o all' approfondimento  di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come  fu di un eclettismo che stava fra 1 ' accademismo e lo  stoicismo dell' ultima maniera, iniziato ai misteri religiosi,  augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore  della filosofia greca, della quale si fece divulgatore fra i  Romani, creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile  tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore  anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di  arte, trattò dei più svariati argomenti sì metasifici che  morali, Cicerone ebbe senza dubbio una conoscenza ab-  bastanza larga dell' antica filosofia italica, l'unica forse  che avesse già avuto in Roma insigni divulgatori e se-  guaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori  come Nigidio.   È anche indubitato che molto gli giovarono per tale  conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi gre-  ci — r amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo,  e la lettura dei loro scritti, per noi perduti. Ma non per     etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche 45, 102 :  « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed etiam  hominum, quae vocant omina ■» .     — Ili —   questo possiamo dire che i'Arpiuate avesse fatto parti-  colari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se  collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per-  sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute,  si prestavano assai meno delle posteriori e piìi note filo-  sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate  artisticamente.   3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere  le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola,  dovrei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane  (libro IV, 1-4) in cui Cicerone parla delle dottrine pita-  goriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che  esse lasciarono nelle istituzioni e nelle leggi dì Roma. Ma  poiché ne ho già discusso lungamente, rimando senz'altro  i lettori al primo capitolo di questo studio.   Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che fu disce-  polo di Ferecide (1), specialmente per la sua dottrina  suir eternità dell' anima, in quanto egli insegnava 1' esi-  stenza di un' anima universale, compenetrante tutta la  natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la deriva-  zione da essa di ogni anima umana (2). E per ciò che  riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accettò la  distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone —     (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides  Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane  opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ».   (2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani-  mum esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem,  ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au-   dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse, quin   ex universa mente divina delibatos animos haberemus ».     — 112 —   dell' anima in due parti, V una ragionevole, in cui questi  filosofi ponevano la tranquillità, cioè una placida immu-  tabile costanza, e V altra irragionevole, onde traevano  origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio (1).  Per la quale credenza V uno e l'altro ammisero la pos-  sibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito,  specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse  disposto opportunamente con particolare dieta e con una  meditazione preparatoria (2) ; e credettero nella divinazione,  al punto che Pitagora, come ho già ricordato, pretendeva  di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei  viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo  colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la  prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta  in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un     (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem Pytkagorae  pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum in  duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alte-  rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id  est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbi-  dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni ».  Cfr. libro I, 17, 39.   (2) De divinatione, II, 58, 119: « Pythagoras et Plato,., quo  in somnis certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque  victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei  utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ».  Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule  11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent,  eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con-  fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119.   (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87.   (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio,  Proemio, 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo.     — 113 —   bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema (1),  della sua dimora a Crotone (2) e a Taormina in Sicilia (3),  della sua operosa vecchiezza (4) e infine della sua dimora  e della morte a Metaponto (5).   Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin-  cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello  che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone  ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e  il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti  e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza  del concetto pitagorico della vita (9), il divieto del suici-  dio (10) e infine la bella concezione dell' amicizia, vera  comunanza di spiriti e di vita (11), che diede fra gli altri  il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia (12);  oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici.     (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre-  dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare  una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue  un altare. E non ha torto.   (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19, 3.   (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122.   (4) De senectute 7, 23.   (5) De finibus V, 2, 4.   (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo  principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago-  rico di Crotone » .   (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sei-  pionis, 12 e 18.   (8) De nat. deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113.  (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19.   (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5.   (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66.  a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II,   24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59.   8.     — lU —   e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di  Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contem-  poranei di Platone (1).   Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo  la morte di Socrate, prima si recò in Egitto e poi in Italia  e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da  Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè  procurarsi i commentarli di Filolao (che esponevano per  iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino  allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della  segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai ce-  lebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, praticò  con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, pre-  diligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappre-  sentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la  piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità del  simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il  maestro in modo che, anche quando discuteva di morale  e di politica, si studiò di mescolarvi i numeri, la geometria  e r armonia, alla guisa di Pitagora (2). Dal quale poi     (1) De finibus, V, 29, 87.   (2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis  ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus  denique de republica disputet, numeros tamen et geometriam et  harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio :  Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, So-  crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita-  liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret,  eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum,  fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem-  pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus  Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee  dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem Socraticum     — 115 —   tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima,  aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale (1).  Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni,  superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco  il grado di conoscenza che del Pitagorismo ebbero gli  uomini colti dell'età di Cicerone.   4. — Ma vi è un' opera di questo fecondo scrittore,  anzi un frammento della sua opera "più importante, sul  quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la  nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pita-  gorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione^  così famoso e di tanta importanza per la storia della mi-  stica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che  ebbe ; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni,  da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima ana-  lisi nel quarto secolo (2), all'inglese Wynn Westcott, che     suMilìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa  flurimarum artium gravitate contexuit » .   (1) TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno-  sceret, in Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque  de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha-  goram sed rationem etiam attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 :  « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt,  cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte deieri.  Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum m>ajo-  Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae-  ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et  praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapien-  tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque,  sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum ex  corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~  stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur »   (2) AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom-  Quentarius ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii  EuLoan oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipio-  nis, scripta Superio y. e. cos. Provinciae Bizacenae.     — 116 —   non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione di-  cendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento  che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram-  mento dei Misteri (1).   a) Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che,  affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non  voglio con ciò asserire né che Cicerone fosse un seguace  di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee  informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché  so bene che studi fatti recentemente da valentissimi cri-  tici come il Gylden (2), il Corssen (3), il Pascal (4), hanno  messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di  esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed Era-  tostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso  tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso at-  tribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra  ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo-  sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro  molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto-  niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'espo-  sizione di principi filosofici già era venuta, agli albori  della letteratura romana, a un grande scrittore e poeta,  pitagorico per giunta: voglio dire Ennio, del quale si é  già veduto nel capitolo secondo.     (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a  fragment of the Mysteries, London, 1899.   (2) Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848.   (3) De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp.  et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae, 1878.   (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di Cicerone,  nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle  Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta », Firenze,  Le Monnier, 1905.     — 117 —   Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di  questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che  abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone,  che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno  e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella  quiete del corpo.   Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio,  partecipava contemporaneamente di tutte e tre le forme  principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo,  visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in  quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio  Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Mag-  giore, uomini venerandi, che avevano anche coperto ca-  riche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe  fatto come generale e come magistrato e la sua morte a  56 anni ; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il  sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e  più precisamente nella via lattea, — dove avrebbe poi  dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa  da Dio ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù con-  templare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa  nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som-  nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle cose a  lui dette dalla grande anima di Scipione non poteva essere  svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica (1).  Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio  è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Re-  pubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio,  che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei  numeri e alla musica delle stelle.     (1) Macbobio, 1. I, e. 3.     — 118 -   b) Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini  che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale  premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello  cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che  uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla Repub-  blica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narrasse agli  altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo  tribuno in Africa, fu ospite del re Massinissa, grande  amico di Scipione il Maggiore.   Uscita dal corpo durante il sonno, V anima dell' Emi-  liano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea,  dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede  le anime degli eroi, tanto prima di scendere in terra a  vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pel-  legrinaggio quaggiù (1).   Ascoltata dall' Africano la predizione delle sue imprese  e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua     (1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint,  adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi   beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores   hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors-  SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti  a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è  detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle  porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli  asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Por-  firio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni non  sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi  nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago-  rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de  faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si  indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo  che chiamavano prati dell' Ade.     - 119 —   età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri  e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei  quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto  perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli  anni la somma a lui predestinata » (1), e saputo — quasi  a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe  salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo,  « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri  che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione,  anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami  corporei come da un carcere siamo veramente vivi ; la  vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con  intensa commozione, 1' anima del padre, chiede ad essa :  « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo in-  dugiarmi e vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli  viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto l'uni-  verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non  ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini  sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa  il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo,  originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni  e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da  menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro  con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gli uomini pii  dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e  non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data,  dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate     (1) Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume-  ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone  partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e  le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio.     — 120 —   sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio (1) » . Perciò  il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà,  perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo  fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora se-  parate dalla materia corporea, abitano la via lattea (2).  Dalla quale poi l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo  dell' universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio  globi, di cui il pili esterno, che abbraccia gli altri, è  quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso dio su-  premo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri,  cioè i cieli di Saturno, di Griove, di Marte, del Sole, di  Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta,  immobile, la Terra (3). E mentre osserva i cieli roteanti,  ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè  che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro per-  cuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi,  che insieme formano i sette accordi della lira (4) : proprio  secondo la dottrina pitagorica, che ho già chiarita nel  capitolo precedente. L' ammirazione per la grandezza e  la novità delle cose che vede e ode non fa però che  Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano     (1) Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute  (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di Pi-  tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de  praesidio et statione vitae decedere ».   (2) Somnium, 8, 16.   (3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di  un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i  sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se-  condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti  e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur-  wissenschaft in Miiller's Handbuch V, 1.   (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12.     — 121 —   gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque  e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria  degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la quale  non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi  anni mondani (1). « Se tu dunque, conchiude la grande  anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a  questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo  né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli  uomini : bisogna che la virtù per sé stessa con le sue  blandizie ti tragga alla vera gloria » (2). Esaltato dallo  spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predi-  zioni, dai consigli uditi, l' Emiliano promette di adope-  rarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1' avo  lo conferma nel suo proposito dichiarandogli V immorta-  lità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo  è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma  corporea fa apparire: ciascuno é ciò che é l'anima sua,  non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che  tu sei DÌO; se divina è quella forza che anima, che sente,  che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove  questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo Dio  regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso Dio  eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così  il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno » (3).     (1) Della durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine  dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo.   (2) Somnium, 17, 25.   (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse  te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista  declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae  digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est  deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam     — 122 —   « Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime  sono le cure spese per il bene della patria (1); onde  l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti  velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più  presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà  uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, stac-  carsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che  si abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi  schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti  ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo  vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a  questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agi-  tazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi  concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce.     regit et tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam  kune mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadam  parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus  senipiternus movet ».   (1) Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico;  tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai  suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V.  S. Agostino, de ordine II, 24, 54.   (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt  autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer-  citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit.  Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore,  eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime  se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis  voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt  impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et homi-  num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam  volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever-  tuntur ».     lY.  Mimi — Q. Orazio Placco — P. Virgilio Marone.   l. Riflessi pitagorici nel teatro popolare. — 2. Pitagora nella poe-  sia oraziana : fave, metempsicosi, Euforbo. — 3. Virgilio e la  filosofia. — 4. La <iuarta ecloga. — 5. Le Georgiche. — 6. La  « storia dell' anima » nel sesto libro dell' Eneide. — 7. Ragioni  artistiche di essa e suo valore per la determinazione del pensiero  filosofico virgiliano.     1. — Nel tempo del quale ci stiamo occupando non  è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i  suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del  genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un  pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' inse-  gnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè  la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle  fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel domi-  nio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel  teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che fu-  rono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione  di morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di  Cicerone (105-43 a. C.) e del quale Tertulliano ricorda  una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insom-     ~ 124 —   ma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio  secondo 1' opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo  e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione  volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili,  non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indur-  rebbe forse anche a credere che ci si debba perciò aste-  nere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di  non comperare eventualmente del manzo di qualche suo  antenato ? » (1). Laberio dunque avrà tirato scherzosa-  mente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro  sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile  pensare che gliene abbia data occasione una situazione  comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutag-  gine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il  commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle  carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è  forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci  rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica ; voglio dire  i noti versi di un'elegia di Senofane {contemporaneo di  Pitagora, ma un po' più giovane di lui) :   E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato,   Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò :  € Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico   r anima, che ravvisai, quando 1' ho udita guair » (2).     (1) Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si qui philosophus  adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri  ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argu-  m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem,  infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis  habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? »   (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36)     — 125 —   Anche in questi versi infatti, come nel commento di  Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi an-  che animale (per una falsa estensione però, come ho già  detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ri-  dicolo.   Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer,  è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un  « dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo  ritenere che fosse la stessa metempsicosi (1). Finalmente  Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un  terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba (2),  del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso  dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e  1' astensione dalle fave (3). Né è davvero il caso di me-     e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno-  phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo-  nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc.  ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d. preuss. Akad.  1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che  questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al  GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati. Ed ha per-  fettamente ragione.   (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal.  Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nec pythagoream  dogmam docius ».   (2) Cicerone, ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no-  strum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic factus erit,  fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9 : o olim magna  res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo tuttavia  notare che da qualcuno si è proposto di leggere ■8-aù[jia in luogo  del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in proposito  la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76.   (3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano,  Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere     — 126 —   ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti  piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persua-  dere della necessità di tale astensione (1).   2. — Del resto anche Orazio (65-8 a. C.) si prese  amabilmente gioco di questi due stessi punti della dot-  trina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava  con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campa-  gna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evi-  dente che egli — da buon epicureo — si infischiava del  precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un  po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di  Pitagora » (2).   E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare,  per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici     in azione la parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava  e r uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste,  più che opinioni del severo filosofo, furono certo stramberie di  begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e  delle suo idee, come fece Orazio, per esempio.   (1) Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk.   (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64:   quando faba Pythagorae cognata siwiulque  XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ?   Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter-  preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu  pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo tru-  cidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi  che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei  morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che  s' occupava di filosofia — e con lui la dottrina pitagorica della  metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione.  Qualcuno peraltro (per es. il Ritter) nega ogni allusione.     — 127 —   che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi  quasi personificati in Archytas, per opera del quale il  Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » (1). Dice  infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e  la terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso  il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla  ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo abita,  e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato  a morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur  banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra  e sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar-  cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio  di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta  (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene,  con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio  di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del  tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera  morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la  pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido  mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.-  Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti  dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi)  la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra-     (1) Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti, 1895, p. 163. Per  altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda  il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher,  1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso  autore Uode d' Archita. Roma, 1893.   (2) habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.     — 128 —   dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro  di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i fune-  rali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina  non ebbe mai rispetto ad alcun capo ».   E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che  tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor-  tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione  al ricordo « di Pitagora redivivo » , come lo chiama altra  volta (1), fa doli' ironia bella e buona alle spese del « fi-  gliuolo di Panto ».   3. — E Virgilio (15 ott. 70-21 sett. 19 a. C.j in qual  conto tenne le dottrine pitagoriche ? Esercitarono esse  qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio vi-  sibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per  quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci  hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che  egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che  desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi de-  dicare di proposito ?   Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far  rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pen-  sare che uno spirito come quello di Virgilio, colto, cu-  rioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche,  non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non  v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche     (1) In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle  varie vite di Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant  arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione al carat-  tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no-  mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e  nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52).     — 129 —   a; ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti  credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin-  Pitagorismo Torigine di molte delle più antiche  L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na-  ;e anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera  giore mirò a rappresentare in un meraviglioso  r insieme le origini e lo svolgersi della potenza  (1) e che perciò fece lunghi studi intorno alle  ) e alle antichità romane, dovette proprio in modo  re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita-  a quale per di più aveva già ispirato anche il  Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo-  i quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che  i affermare con certezza, anche indipendentemente  3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che  procediamo a questo esame — ancorché molto  rio — non solo sarà confermata a posteriori la  induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu-  )he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplici-  te « poeta augurale e profondo conoscitore della  la di Pitagora » (2).   ne tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese   alla prima giovinezza e fu avviato in essi da un   ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama.   r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe     (1) Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet  omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua  tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia  eonfusus est ordo, etc. ».   (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » ,  come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium  Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66.   9.     — 130 —   anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse ^ !  Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile  tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filo-  sofo. Filosofia fu in lui solo in potenza : i germi latenti  nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chia-  ramente a chi ne mediti l' opera poetica — sarebbero  certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più a  lungo, sì che, condotta a perfezione 1' Eneide, egli avesse  potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente  maturato e più volte espresso — di poter attendere alla  poesia filosofica : così noi avremmo forse, accanto al poerna  di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del materialismo  epicureo, un poema virgiliano informato ai principi del-  l' idealismo pitagorico-stoico.   L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da Sirone, e l'ani-  mirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la-  sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale,  neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle  Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta  abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op-  posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e  larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria  sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga  (vv. 31 e seguenti) ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle  un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente,  col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò  che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e  della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista  fa parlare i personaggi che sono figli della sua fantasia  secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla  stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle  idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta     — 131 —   poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra-  gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona  propria, in secondo luogo perchè il concetto che l' informa  tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti po-  steriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva  in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e  formato.   4. — La quarta ecloga fu composta quando il poeta  aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a.  C, allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione,  console designato per 1' anno successivo (1). Sulla inter-  pretazione di questo carene, così stranamente suggestivo,  s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno  d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai  commentatori cristiani si credette di poter vedere in que-  st' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del  Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia;  anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura  identificato col Nazareno. Non e' è da meravigliarsene,  che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal-  volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista  tal forza di significazione e un tale carattere "di univer-  salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle     (1) Oeneralraente si ritiene composta al principio del 40, anziché  alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa  sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di  anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo  Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare che  non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo  meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule del  y. 11.     . — 132 —   disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero  di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi  proprio Virgilio abbia consapevolmente profetizzato la  venuta di Cristo per conoscenza che avesse delle predi-  zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta  dai critici in senso non del tutto negativo (1).   Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo  — che si ritiene generalmente sia stato Asinio Gallo, figlio  di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — il poeta affermava  ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dal-  l' oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di  iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del consolato  di Pollione (40 a. C), una nuova serie di generazioni  umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tor-  nata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sareb-  bero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia  r età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere     (1) Il Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron,  1903) ha scritto (p. 48/ : « Non si può appunto escludere assolu-  « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse  « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo  « pervenuta a Eoma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare  « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli ef-  « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si  acquistò fra i Cristiani con questa ecloga, per ha quale fu sollevato  alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo, si veda  il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze, 1896, I, p. 133  e seg.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione cristiana di questa  poesia era già molto in voga presso gli scrittori del quarto secolo.  Si vedano anche i lavori di C. Pascal : Il culto rf' Apollo in Roma  nel secolo di Augusto e La questione delV Ecloga IV di Virgilio  (Torino, 1888), ristampati nel volume Commentationes vergilianae  (Palermo, R. Sandron, 1903).     — 133 —   una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro-  genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, allora  nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens  ferrea » e crescere insieme con lui la « gens aurea »  e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla  terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con  loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui  delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione  necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove  spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre,  come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto  a pieno la felice pace della nuova età, della quale già  si allietavano e cielo e terra e mare.   Come si vede da questo accenno, siamo lontani le  mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa conce-  zione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì pro-  fondo entusiasmo poetico ? Pura finzione del suo spirito?  No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini pro-  metteva certo con V età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi  periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo  e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filoso-  fiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ri-  cordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico  dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei me-  desimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e  delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci).  Pensò dunque Virgilio, nel fingere che proprio col co-  minciare dell'anno 40 si iniziasse l'ultima età mondana  designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare  che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere  se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra-  sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre »     — 134 —   che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora  « sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi  di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita  universale, oppure indichino soltanto una generica legge  dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi-  cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo  quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi  simili, ma non proprio gli stessi. "Certo però che, asse-  gnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente  quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta  e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in-  dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato  e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua  arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della  palingenesi. E ancora : parlando della <^ nova progenies »,  la quale « eaelo demittitur alto » , a che cosa ebbe pre-  cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua  immaginazione come un flusso di anime emananti dal-  l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo  mondano posto sotto 1' egida di Apollo ? (1).   L' anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non  v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie  spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum  suboles, magnum lovis mcrementum » (v. 49), non par-  rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima  è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e  Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio  dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima     (1) Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen-  tatore (p, es. del Pestalozza), che si debba precisamente dare al-  l' espressione il suo senso proprio e letterale.     — 135 ~   dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an-  cora riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e  che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani-  ma di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la  famosa « storia dell' anima ».   Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto  cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel-  r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante  neir artista; che questi può, indipendentemente dai pro-  cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla  visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro  il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale  com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno  ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi  nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe-  tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si  prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide  seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto,  almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica,  che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc-  cessivi momenti dell' attività poetica del nostro autore.   5. — Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle  della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che  prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti-  vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non  lo aveva neppure orientato definitivamente quando — dal  37 al 30 — compose le Georgiche ; poiché in queste si  osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e  di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano  immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare,  per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro (219-     ~ 136 —   227), nei quali il poeta accenna, senza ancora accettarla  come propria, ma con evidente simpatia, la concezione  panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e  degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri  viventi non è che una parte, più o meno grande, dello  spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, per-  vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna.   His quidam signis atque kaec exempla secuti  220 esse apibus partem divinae mentis et haustus   aetherios dixere : deum namque ire per omnia,  terrasque traefusque maris eaelumque profundum.  Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^  quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ;  225 seilieet hue reddi deinde ae resoluta referri   omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \  sideris in numerum atque alto succedere eaelo.   Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam...  dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidente-  mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon-  dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto  che uno di questi versi mirabili (il 222) non è nuovo,  ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga  (v. 31), lega idealmente questa col passo delle Georgiche.   L' animo di Yirgilio ha dunque ondeggiato certo a  lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave-  vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio;  ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che  via via si vennero elaborando in lui col maturare degli  anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic-  ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi  tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità  romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leg-     — 137 —   genda collegava colla sacra figura del re Numa, che  aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in que-  gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do-  vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi-  larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle  poi dare anche più precisa e più degna espressione là pro-  prio dove il poema attinge la più alta romanità e acquista  nel medesimo tempo carattere di universalità.   6. -- Al principio del sesto libro dell'Eneide, che si  riteneva generalmente dagli antichi contenesse la più pro-  fonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premet-  tere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza,  nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la  parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del  canto XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplice-  mente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia,  molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi e teologi  egizi; talché parecchi hanno scritto interi trattati su cia-  scuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di que-  sti trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno  quello, certo assai interessante dal punto di vista del  nostro tema, che scrisse Macrobio, 1' erudito grammatico  del quinto secolo ; poiché dei suoi Saturnali, che pure  ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella  parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico  dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio,     (1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei  Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come  ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V) ; anzi, per la superiorità  della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione  di Eustazio era la prima di tutte, come appare da ciò che è detto     — 138 —   come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii ele-  menti pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del  quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium  Scipionis (I, 6, 44) il terque quaterque beati, riconosce  neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri (1).   Non è certo il caso di andar cercando, come qualche  antico ha fatto (2), in ogni espressione, in ogni parola  di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Dante  Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie,  e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel  comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come  la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente  è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sa-  pienza dei filosofi e teologi egizi, noi fermeremo la nostra  attenzione. ♦   Enea, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso al-  l' Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte,  attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime  dei neonati, dei condannati a morte ingiustamente, dei  suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa  d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro     nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mu-  tilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori cri-  stiani, e si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad  accentuare il carattere profetico-cristiano di Virgilio.   (1) Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni genere di  sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnntm  lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum om-  nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) :  omnium diseiplinarum peritus.   (2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiva a Virgilio un  sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi  filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai.     — 139 —   (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti co-  loro che in qualche modo hanno violato le Jeggi umane  e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che  sono il felicissimo regno dei beati   locos laetos et amoena mrecta   630 fortunatorum nemorum sedesque heatas.   Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante,  le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti,  poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor-  rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo-  schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro  abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al  quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre  per guida. Il padre d' Enea stava in quel momento ad  osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse  nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare  alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle  che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per cono-  scerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future.   At pater Anchises penitus eonvalle virenti  680 inclusas animas superumque ad lumen ituras   lustrabat studio recolens omnemque suorum  forte recensebai numeruni carosque nepotes  fataque fortunasque virum 7noresque manusque.   Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon-  tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un  bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete  (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e  intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo-  lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sus-     — 140 —   surro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni  meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di  fiori e si addensano intorno ai candidi gigli (1). L' eroe,  stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia  quello, e che uomini quelli che si affollano così nume-  rosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le  anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo,  bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno  in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della  vita trascorsa »:   animae, quibus altera fato  corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm  715 seeuros latices et longa oblivia potant.   Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli,  enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di-  scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da  Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di  essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea  subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere  che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri-  tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual  mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe-  lici ? » :   pater, anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est  720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti   corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido ?     (1) Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla pa-  lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine  (Sabbadini).     — 141 —   Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh* io ho chia-  mata la storia dell'anima :   « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo,  la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli-  genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra  la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani-  mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che  si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a-  nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore  etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la  lue corporea e le membra terrene e periture li ottun-  dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri,  a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car-  cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto  che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la  vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né  le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle  quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono ne-  cessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo  in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e  pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui  infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo-  ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo  abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando  nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione,  dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi sol-  tanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo  volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le  traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro  il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte  queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate  da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori     — 142 —   del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a  sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v.   « Principio caelum ac terras camposque liquentis  725 lucentemque globum lunae Titanìaque astra   spiritus intus alit totamque infusa per artus   mens agitai molem et magno se corpore miscet.   inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum   et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus.  730 igneus est oUis vigor et caelestis origo   seminibus, quantum non noxia corpora tardant   terrenique liebetant artus moribundaque membra.   hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras   dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco.  735 quin et supremo cum lumino vita reliquit,   non tamen omne malum miseris nec funditus omnes   corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est   multa diu concreta modis inolescere miris.   ergo exercentur poenis veterumque malorum  740 supplicia expendunt. aliae panduntur inanes   suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto   infectum elicitur scelus aut exuritur igni ;   quisque suos patimur manis ; exinde per amplum   mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus,  745 donec longa dies, perfecto temporis orbo,   concretam exemit labem purumque relinquit   aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem.   has omnis, iibi mille rotam volvere per annos,   Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno,  750 scilicet immemores supera ut convexa revisant   rursus et incipiant in corpora velie reverti ».   Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti  vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di  una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto (vv. 725-  729) il concetto di uno spirito immanente nell' universo,  di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri     — 143 —   animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ;  cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel  quarto delle G-eorgiche, e perfettamente identico a quello  che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae-  stro di Pitagora (1). Di piti la forza spirituale, di origine  divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e  concepita in perfetta antitesi con la materia del loro  corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe-  dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni,  delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male  (vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o  antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap-  partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come  s' è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti,  per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb-  bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione  infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non  però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario  all' espiazione perfetta.   Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e  del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle  cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione pu-  rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo di  beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che  furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena  felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché  non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai  lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom-  paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri-     Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78.  (2) Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove.     — 144 —   cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi  la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis-  solversi in seno all' anima universale. Le altre invece, e  sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una  delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate  da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete  r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi.  Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo dice, se  queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ri-  torneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse-  guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno  tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o  se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra.  Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe  limitato ad un massimo di due — una con prevalenza  del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde-  finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resur-  rezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo-  mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale  fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet-  tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo  di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen-  nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu-  tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte  che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba (vv. 735-  747) e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748-  751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del-  l' Orficismo e del Pitagorismo.     (1) Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio  le occupazioni a cui attendevano sulla terra.     — 145 —   7. — Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere  questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e  chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo  di emanazione delle anime dallo spirito universale avve-  nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente.  Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una  volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo  delle anime individuali in seno all' anima universa, ne  sarebbe seguita in un determinato momento la scom-  parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche  in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il  numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo  punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il  male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in-  tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si ricolle-  gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon-  dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema-  nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei  bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire  di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come,  dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da  qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi     (1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era  diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto  il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse,  filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema-  nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni  stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se-  coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre  identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e  si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto  più su (§ 4) parlando della quarta ecloga.   10.     — 146 —   unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi-  cosi anche animale (1).   Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por-  terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o  potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima  con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno  e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon-  damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein-  feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono  quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare  con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic-  ché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione  virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten-  tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima  del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio —  di fondere insieme quella che era rappresentazione po-  polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta.   E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug-  gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e  d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide a  pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe  la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte,  fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a  quello della composizione del poema, e poi opportuna-  mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, fi-     (1) Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del-  l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma  anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che  le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nel-  r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato  uno stato di vita intermedio fra due vite umane.     — 147 —   losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di  valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la  rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot-  trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif-  fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit-  tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi  parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse  proprio vedere in essa un brano di quel poema della  Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se-  condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse ad-  dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre  eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo  prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve-  duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot-  trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi dunque la  teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto  una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto  per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre-  sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con-  cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to     (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI  dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di  rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea  e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne  parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella  quale appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera  virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una  effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come  sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli  arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere  un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom-  mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha  derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales.     — 148 —   a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico  e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa-  mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la-  sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e  sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii  albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra-  smessa di generazione in generazione da una civiltà al-  l' altra, dall' Oriente all' Occidente, custodita con cura  gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità  più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta,  come già nei miti immortali di Platone, alla luce della  poesia e dell' arte.     V.  Pitagora e U sne dottrine nella poesia di Ovidio.   1. La tradizione di Numa scolaro di Pitagora in Ovidio. — 2. Na-  • tura, estensione, contenuto degli insegnamenti pitagorici secondo  il canto XV delle Metamorfosi ; vegetarianismo ; metempsicosi ;  flusso universale della materia e trasformazioni cosmiche e so-  ciali; Pitagora profeta della grandezza di Roma e d'Augusto. —  3. Ovidio e il Pitagorismo. — 4. Fonti e valore storico della  esposizione ovidiana. — 5. Conclusione.   1. — Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se-  condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco-  laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze  di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne  fa Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.) nel quindicesimo e ultimo  canto delle Metamorfosi (vv. 1-8, 479-484). Essa ha una  importanza specialissima e merita di essere studiata sepa-  ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi-  zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se  non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la  pili organica che ci rimanga nella letteratura romana —     150     della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due  punti fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e  la metempsicosi.   Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo,  si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave  com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e  che una fama non menzognera designò all'impero Numa,  già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so-  pratutto, per la sua sapienza: che, non solo conosceva a  perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma,  abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti  ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della  natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato  a Crotone :   Quaeritur interea qui tantae pondera niolis  Sustineat, tantoque queat succedere regi.  Destinai imperio elarum praenuntia veri  Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae  5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci   Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit.  Iluius amor curae, patria Guribusque relictis,  Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem.   Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi  60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che  or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo  di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di  Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e  le arti della pace:   Talibus atque aliis instructo pectore dictis  480 tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum   Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas:  Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis     — 151 —   Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci  Adsuetam bello pacis traduxit ad artes.   Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non  solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^  la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita-  gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes-  sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a  Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per  quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria  e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap-  presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella  creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe-  riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei  dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito,  preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che  pur Cicerone aveva chiamata inveteratus hominum ei-ror;  e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi-  rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me-  tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe-  ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil-  mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza  dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva (2), mas-  sime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma.     (1) Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast. Ili, 151-154) accenna  alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a   Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen-   sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos  putat, Egeria sive monente sua ».   (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella  terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta, immagi-  nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro,  lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da  quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo  verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. :     — 152 -   2. — In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il  quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon-  taneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde  era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia.  Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente,  per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio  celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel-  letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini»:   60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat una   Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul  Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^  Mente deos adiit et quae natura nogabat  Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit.   Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi-  denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con  grande efiìcacia rappresentativa la natura del suo misti-  cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo dell'intelletto e  la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi-  sione e alla comprensione delle più alte verità.   65 Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura   In medium discenda dahat, coetusque silentum  Dictaque mirantum magni primordia mundi  Et rerum causas et, quid natura, docebat :  Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset origo,   70 luppiter an venti discussa nube tonarent^   Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent,  Ed quodcumque latet.     At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ;   In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ;  Praemia nec Chiron ab Achilli talia eepit,   Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam.  Nomina neu referam longutn collecta per aevum,   Discipulo perii solus ab ipse meo.     — 153 —   E in questi altri versi ecco parimenti accennata con  grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti,  che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera  dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali  dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della na-  tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine,  del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il  corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi  della filosofia naturale e della scienza » (1).   Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci-  barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con  molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva-  zione :   Primusque anitnalia mensis  Arguii imponi : primus quuni talibus ora  Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis.   Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per-  sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età del-  l'oro, quando gli uomini non conoscevano ancora tale  uso (vv. 96-142); e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo ac-  cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni  più ardue e a svelare più riposti misteri :   Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventem  Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn  145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis.   Magna, nee ingeniis evestigata priorum,  Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta     il) I vv. 67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica,  sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé-  tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904,  p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo.     — L54 —   Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta  Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^  150 Palantesque homines passim ac rationis egentes   Despectare procul^ trepidosque obitur/ique timentes  Sic exhortari, seriemque evoltere fati.   « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina,  seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il  rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi  schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della  mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle  menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte.  Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban-  donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor-  tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso  Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e  là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con  trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere  la visione del loro destino con queste parole... »   Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono-  scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore  della morte :   genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis !  Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana timetis,  155 Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1)   Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas  Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^   Morte careni animae; semperque priore relieta  Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae.   (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie  Georgiche (II, 490-492) :   Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas,  Atque metus omnis et inexorabile fatum  Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari,     — 155 —   « schiatta attonita per lo spavento della fredda morte !  Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan-  tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non  crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la  sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire  mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e  sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di-  more che nuovamente le accolgono ».   E in prova di ciò Pitagora ricorda (vv. 160-164) d'es-  sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel  corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita  ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol-  garmente attribuita a Pitagora :   165 Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne   Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus  Spiritus: eque feris humana in corpora transita  Inque feras noster, nec tempore deperii ullo,  ■ Utque novis facilis signatur cera figuris,   170 Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem,   Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem  Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras.   « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er-  rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna  nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor-  pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle     che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun-  gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della  morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè  Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o  passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al-  tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to-  tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi  onde l'anima si compone.     156     cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando  quale era prima e non conservando le stesse forme, tut-  tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem-  pre la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1).   Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar  carne (vv. 173-175).   A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e  il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il  divenire incessante di tutto il creato :   Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis  Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in orbe.  Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago.   « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto  mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto  l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni  mutevole aspetto ».   E questa nuova proposizione illustra con una lunga  serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen-  darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi-  tudini degli elementi (vv. 179-251).   Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta-  menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni-  versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor-  ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i  saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano  le cause : questi fenomeni straordinari — spesso elencati  e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate     (1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto proba-  bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si  è già visto.     — 157 —   Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen-  za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336  riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia  fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418-  452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società  umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto  già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia :   Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^  Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis  Mole sub ingenti rerum fundamina pomi.  Haec igitur forviam crescendo mutata et olim   435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates   Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor,  Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia labaret^  Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis : (1)  « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae   440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia.   fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una  Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique  Externum patria contingat am,ieius arvum,  Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes,   445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus annis.   Hanc aia proceres per saecula longa potentem^  Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli  Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur  Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ».  Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae  Mente mem,or refero, cognataque moenia laetor  Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos.   Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po-  tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel     (1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di  Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302,  306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98).     — .158 -^   poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi  è assunta quale mezzo artistico per la predizione della  futura grandezza di Rom3.   Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora final-  mente ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi-  ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra  anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia-  mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia-  mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » .   3. — Analizzato così il contenuto della esposizione  ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia  stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo.   Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa do-  manda noi possiamo rispondere negativamente senz' om-  bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio,  anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me-  tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse-  gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare  pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a  quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem-  pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe-  culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno  una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia  ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua  maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio-  ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad  essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi  delle Tristezze (1).     (1) ìrist,, III, .3, 59-64:   Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^  Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos.     — 159 —   E quasi certamente poi questa predilezione del poeta  si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo,  che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima  metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali  traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di Ci-  cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta  fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne  notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano  alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce  e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci.   4. — Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio-  ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pi-  tagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi  determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno  riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere  state le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi-  narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis)     Nam si morte carens vacua volai altus in aura  Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis,   Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^  Ferque feros manes kospita semper erit.   Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col  corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga  alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi-  rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri  gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà  costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e-  stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè  mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so-  stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer-  mavano la immortalità dell'anima.     — 160 —   oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei  loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1).   Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi,  sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono  moìto anteriori a lui.   D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio,  più poeta che filosofo, non intese certo di trattar l'argo-  mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte-  nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma  che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che  (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre  che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se-  guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi  della materia dogmatica nella forma genuina soltanto  nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera sua e  non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando  di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo-  strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi-  tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come  a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto  imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute  negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi-     (1) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De  Pythagora omdiano \ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag.  100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae adum-  hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa,  Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le  conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X.   (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina pitagorica e la  eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicato  nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207; e  per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firen-  ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15].     — 161 —   zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore  di documento storico, in quanto che, supplendo in parte  alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito, dovuta  alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^  ci mostra molto approssimativamente in che consistesse  il neo-pitagorismo romano del primo secolo avanti Cristo.   5. — L'esame che abbiamo così compiuto della lettera-  tura latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua  maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pita-  gorismo fu nelle varie età di Roma abbastanza largamente  conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune  delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tra-  mandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione  e il sesto canto dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere  che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una  grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica.  Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono  notevole influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni  romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte  titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza  politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il so-  dalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo  tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza  di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che su-  scita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii val-  gono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna  e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita  degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche,  venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie,  molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di mo-  li.     — 162 —   ralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore  altissimo.   Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema,  pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al  loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis-  situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno rina-  scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più  intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pi-  tagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi  neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Co-  stantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ul-  timo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo  che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope-  ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e  che accennano per diversi segni, in questa nuova prima-  vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occiden-  tale (1), noi possiamo con sicurezza affermare che esse  non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero  individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga  perenne dalle più profonde radici dell'anima umana.     (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di  scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova,  Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale del  Mattino di Bologna del 7 marzo 1912.     APPENDICI     I.     p: U P H O R B o s.     Pubblicato nella Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^  a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova.     1. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. — 2. Pitagora rincaraazione  di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora.     1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per  Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver-  so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse  « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve-  ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni  sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me-  nelao, dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo  Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo di una  spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma  di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato  per sempre al ricordo di un grande pensiero e di una  più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora.   Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0-  mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto  dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione guer-  resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più  grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata  del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le  armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia,     — 166 —   verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad  Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi  « tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo  del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere  lo scudo, slacciata la corazza:   II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi  e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta  infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano,  il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali  con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi,   810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati  venti nemici avea, di guerra già prode campione.  Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ;  ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia,  tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro   815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1).  Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta,  anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte.  Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi  Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia,   820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse  sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta.  Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai.     (1) I versi 814-815 trovo segnati come spurii nella quinta edi-  zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890), sulla quale  è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe sia  proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così ome-  rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima  la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni  di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore in-  nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo  del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa-  troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere an-  cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla fe-  rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a Patroclo,     — 167 —   Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma  il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto-  ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno  ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini,  Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano  d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di  battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca  di portare in salvo il cocchio d'Achille.   A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A-  tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti  al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer-  mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora  Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi  begli episodi della battaglia :   II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide  ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi     che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un  troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che  non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen-  tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio  di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene-  lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa-  role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo:   Anzi dal corpo ricovrando il ferro   Si fuggi pauroso, e nella turba   Si confuse il fellon, che di Patroclo   Benché piagato e già dell'armi ignudo   Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150)   (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta  ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia »  (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806  e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo  di Menelao (XVIi, 43-45).     168     disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao :  « Menelao, divino germoglio, signor di gran genti,  vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1).  Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati,   15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia:  lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojani,  che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ».  Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo :  « Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi !   20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone  di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto  gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza,  qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria !  Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse   25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi  e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero !  Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato,  ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti !  Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci,   30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti   dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ».  Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose :  « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta  pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando -   35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa,  e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti !  Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua,  se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja,  fra le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide!   40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi  s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura ».  Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo,  ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta  nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta     (1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo,  giacevano in terra poco lungi dal cadavere.     ~ 169 —   45 l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre,   e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo;  dentro spinge con forza calcando la mano pesante,  e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta.  Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ;   50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1)  i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento.  Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2;  ma piombando improvviso un vento con turbine grande  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte;  tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo  l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi,   60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti *  da pascolante gregge rapì la giovenca più bella,     (1) Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co-  me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin-  daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun-  ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let-  teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro,  fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda  in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire  a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e  « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si-  « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in-  « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi-  « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII).   (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta-  gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante  s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro  fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima  fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian-  ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet-  to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che  già s' intesseva intorno al suo capo.     — 170 —   cui la cervice infranse tenendola forte co' denti,  poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue —  intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono  65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno  non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura;  così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita,  eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao,   E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi  di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il  quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo  consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli  d'Achille e ad accorrere invece là dove   or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo,  89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani,  il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire.   Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede  r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in  terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi-  neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito,  non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il  corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare  qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure  portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura;  della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi,  quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi  entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso  trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene.   2. — Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo-  rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per  avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere  non meno belle e gloriose?     — 171 —   Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman-  dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola  italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi-  cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di  « bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto  « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi,  « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome  « d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero  (//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor-  dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto  per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita, dove  Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che  « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso  « all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece  « staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja-  « na, non avesse concesso alla nera morte niente più che  « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico  ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me-  tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2)  Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi  fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli-  cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo :   Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di Troja  ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto     (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 :   habentque   Tartara Panthoiden iterum Orco  Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo   Tempora testatus, nihil ultra  Nervos atque cutem morti concesserat atrae.   (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati »     172     la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride,   Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne,   or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1)   E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por-  firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie  intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava  « a molti di quelli che si recavano da lui la precedente  « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri-  « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso  « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos  « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa-  « gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza:   50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie,  i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento.  Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre  in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi,  bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio   55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre,   ma piombando improvviso un vento con turbine grand®  dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ;  tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo  r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi.   < Poiché quel che si racconta dello scudo di questo  « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino     (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164:   Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli  Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam  Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae.  Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae,  Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis,     — 173 —   « trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si-  « lenzio come cosa ben nota » (1).   La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi.  Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e  semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem-  mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace  del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina  della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la  storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne  autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da  quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che  il filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e can-  tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Eùphor-  bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più  semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan-  tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde  testimonianza degli antichi. Vi è forse nella cosa alcun-  ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero-  simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi-  cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia  e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe-  culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi  seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva  virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi-  glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante  profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi  in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche  magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me-     (1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei  Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo,  questi si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ».     — 174 —   ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal  corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere  nel suo passato la storia della propria anima e ne desse  notizia ~ se non proprio alle turbe — agi' iniziati della  sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei  quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me  r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven-  tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite  anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che  credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge-  re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma-  gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine  prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo  stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e  naturalmente anche credere — poiché non é ammissibile  la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu  tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato  Eùphorbos.   Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi  accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha  tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di  essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di  conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà  storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia  d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que-  sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo —  per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette  nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza  di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di  Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e  dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui-  stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto     — 175 —   Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere  e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo-  sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! (1)   3. — Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre  incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por-  firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere già vis-  « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù-  « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro  « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è  « immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi  « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha  conservato in proposito una testimonianza — che risali-  rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu-  sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di  Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in-  carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma  anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione),  anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che sarebbe     (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche  in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega-  zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come  possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti  del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si  mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup  {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in  Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e  in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli  rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione  contro Troja (p. 231 e seg.).   (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani,  come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit.  dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24).     — 176 ~   inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas,  e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio :  « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di  « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her-  « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che  « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono  « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti  « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto,  « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria.  « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me-  te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo  « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor-  « dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute,  « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e  « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte  « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì  « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta,  « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran-  « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo  « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re-  « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan-     ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes,  il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle  dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere  in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora  un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico  fraintese.   (2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion  di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra,  dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno  scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De-  scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania  descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi     — 177 -   « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ;  « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima  « Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E  « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda-  « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a  sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis-  suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb-  bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre  volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come  una bella etera chiamata Alce (2).   E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte-  e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le  più varie condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver  compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino -—  tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer-  sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma-  na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano?     (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta  delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto  quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane  fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del  tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza  dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo visse  nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo.   (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5.   (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero  « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita  « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo-  « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam,  « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen fuerat  « Alce ».   (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i  principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De  republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso ingiu-   12.     — 178 -   « Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo-  « sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma  « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed entrasse  « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa...  « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi  « ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare  « in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro non ebbi  « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse  « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di Pitagora  « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di  « Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo  « Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? —  « Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza!  « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po-  « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc-  « chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte.  « Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le     stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima  ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare  le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in  tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina)  almeno altre due vite. — - Per il luogo platonico e le relazioni che  esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si  veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea  del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pa-  gina 199).   (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul-  le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^  II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di  « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva  « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette  « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de-  « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia-  « marlo Pitagora od Euforbo ».     — 179 —   « altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove-  « relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa-  « gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que-  « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè  « non sai i mali che comportano... » (1).   E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu-  dere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto,  il quale fu veramente molto caro ai celesti.     (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga-  sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no-  stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Eùphor-  bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice  delle opere di Luciano.     II.   IL SODALIZIO PITAGORICO  DI CROTONE.     Edito nel 1904 dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto  e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII,  n. 219-20 (nov.-dic. 1905).     1. Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So-  dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du-  rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura degl'insegnamenti  che vi si impartivano. — 7. Conclusione.     L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel-  r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori-  smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato  nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in  Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E-  gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se-  grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio  nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse  (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1)  venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della  Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di  ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap-  punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la  costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose  e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta.     (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G.  De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904,  22 ediz. 1919).     — 184 —   che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1),  Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4),  nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori,  delle quali poi si servirono, in misura piii o meno larga,  con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del-  la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico  in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen-  tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6)  ed altri.   2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con-  corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o  poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom-  pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da  Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da  conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in  gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che     (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I.   (2) De vita Pythagorae.   (3) De pythagorica vita.   (4) Stromat. libri, passim.   (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae  scopo politico commentano^ Gotting, 1831.   (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari,  Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192.   (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno  della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall' Ueberweg,  Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p.  I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto  all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi  si trovasse già.   (8) GlAMBL. 29.   (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e  Cfr. GlAMBL. l. e. 30.     ^ 185 —   predicava verità non mai udite prima d'allora in quella  regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza  tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al-  lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su-  scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira-  tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion  od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse-  gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi-  vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo  presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti-  colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai  giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione (2),  del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori  avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ;  ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne  tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico  il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron-  tamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il  paese, della grande austerità d' aspetto, della dolce soavità  d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo-  restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli  potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi     (1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella  che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana.   (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di-  scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso-  terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo  Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare  sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri-  ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal  secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co-  nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ».     186     si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre-  cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca-  tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle  tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed  anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo' i  sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco,  Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2),  sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque  r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo  modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea-  lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione  nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la  diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro  ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi-  tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu  politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag-  giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco-  glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato,  una persona con la quale egli doveva essersi trovato in  rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero-  tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze  personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone  e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia     (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc.   (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf.  21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod.  XII, 20.   (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132,  214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4;  Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776.   (4) Op. ciL, V. I, p. 75,   (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465.     — 187 —   furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse-  che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al-  tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in-  tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni  moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron-  to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi  più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder-  na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno  sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita-  goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto  che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza  morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del  Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare  più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico,  di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren-  sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti-  rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella  spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al-  tri tutti i grandi apostoli dell' umanità.   Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto     (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca-  valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac-  chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II).  Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me-  ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuo-  vo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino  Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru-  no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg.   (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit-  tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis-  sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati  loro dal filosofo, che veneravano come un Dio.     — 188 —   l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla  sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or-  dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del-  l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato,  egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri.  L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione,  un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot-  to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della  teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle  arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle  scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel-  letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come  l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita-  gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu  il piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an-  ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il  frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin-  di quell'attuazione interna e viva della verità che sola  può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im-  portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2).   3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno  all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita-  gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso     (1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno  studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era  impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa-  rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267,  dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo.  Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa-  gine 379 sgg.   (2) ScHURÈ op. cit. p. 314.     189     fu il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per  quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo  Sodalizio.   Alcuni non ne videro che l'intento politico; così, se-  condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo  di restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto  degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno  morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem-  bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg-  gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po-  tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo  che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al  suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si  accingessero al governo dello Stato, perchè non si può  aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia  colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im-  perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito  del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono  politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ;  né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o  alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ; il con-  tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una  parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema  scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile.  Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe-     (1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc.  etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma  antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze  « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici » (?),  « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la  « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei  « della classe servile ecc. » !     — 190 —   rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago-  rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno  a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato,  il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1).  In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu-  mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e  una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la  più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con  questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile  e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente  e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni  discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola,  nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot-  trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e  con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in  conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un  mutamento anche nel governo della città, per il fatto  che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove  dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi  direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente,  se erano privati cittadini, dovettero portare nel governo  un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità.  L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come  osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto  dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i  migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co-  me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non  vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso,  etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi-     ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D.  PhiL d, Oriech. P p. 328.     191     zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè  invece fu proprio il contrario.   Assai diversamente giudicò la natura della società pi-  tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso  ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante,  poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di  influire nel governo e sul governo, mentre i contempla-  tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza-  zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano  una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci  del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo  d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli-  giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !)  d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione  con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è  appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la  mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio  in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l' in-  segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera-  vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non  si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio-  nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì  bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in  Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole  filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa  nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque  derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica,  fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla-  bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla     (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi-  los, I, p. 365 sgg.     192     setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po-  tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi-  rito che informava quell' antichissimo istituto ; è un giu-  dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne  gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi-  sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo-  stoli che r umanità abbia avuto.   Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan-  to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in-  tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto  e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la-  sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede  uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So-  « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare le  « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare  « una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa  « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo  « morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per-  « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto larga  « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con  lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel-  ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le  associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog-  giato su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu-  cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris-  se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro  « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una     (1) Op. Git. l, p. 83.   (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi-  renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg.   (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98.   (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328.     — 193 ~   « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi-  « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va  intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come  ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori-  gini assai remote.   4. — Se tale era dunque l' intento della Società pita-  gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande  di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini  e con ciò di modificare anche — necessariamente — le  condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli  mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in-  teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali  ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono-  scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore  di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico,  era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su-  scitare i timori degli elementi conservatori della società  crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari-  stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien-  za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano  allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire  al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della  gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge-  re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre-  dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle  nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per-  sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo mo-  vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi-  co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de-     (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636.   13.     — 194 —   bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti  e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre  partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove  dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da nessun au-  tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene,  aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua  inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So-  dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co-  minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun-  niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1' azione  segreta della Società, continuando la lotta con quell'a-  sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra-  vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da  molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla  sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche,  allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil-  mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano  dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon-  dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen-  ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero,  dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro  il filosofo ed i suoi seguaci (500 a. C. circa). Così che, se  il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi-  mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte  meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1).  Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, die,  dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri,  fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do-  po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago-     (1) V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti,  op. cit. p. 4l6 sgg.     — 195 —   rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e  profughi nelle terre vicine.   La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non  pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna-  mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se-  coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata  religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione  in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa-  cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri-  che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic-  cola parte poterono conoscerle.   5. — Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti;  quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce-  poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici  uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro  volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi  gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e  discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso-  terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le-  ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale (3), e     (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che \q sissitie italiche,  anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo  per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V. Cen-  TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466.   (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia me-  dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La  repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro-  ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato  neir istituto Crotonese.   !3; V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ;  PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil-  LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno scrittore dal quale attinse     19t)     non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come  dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die-  tro un velario che lo nascondeva ai loro occhi.   Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'i-  niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove  ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non  ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut-  to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un esame fisionomico  che attestasse della buona disposizione morale e delle  attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame  era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla  moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era  ammesso senz'altro e gli era prescritto un determinato  periodo di silenzio (echemythia), che variava, secondo gli  individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non  gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri,  senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In  questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e  severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata  per mezzo di prove assai difficili, prese dall'iniziazione  egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui erano     Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in Sebastici, politici,  matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e lo stesso scrittore  aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago-  rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o novizi  pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg.,  966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica  erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra-  gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o  discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di pri-  mo grado.   (1) Noci. Att. I, 9.   (2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ».     — 197 —   sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato,  col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol-  tare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici (1) e  allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche  scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen-  te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad  accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro  sapienza si faceva a grado a grado più elevata e più va-  sta, sino a giungere all'intelligenza deìV Essere assoluto,  immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava a  questa che era la più alta cima della speculazione filo-  sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso-  terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia-  zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve  nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza  nomo.   L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era  quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri,  senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per-  sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche  cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar-  tenere alla Società e considerati come morti dagli altri  confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti-     (Ij Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo-  tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine  superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi ed  eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E-  LiANO, Var. Hist. IX, 22.   (2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II,  15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel.  71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct.  3; Plut, De curios. p. 309.     — 198 —   tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale  quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu-  stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2).  Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur  avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza  spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che  aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò  bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun-  ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da  un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere  impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de-  lusioni.   L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta  iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica.  Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non  sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre     (1) A questo proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D),  che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap-  punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro  con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche  Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu cacciato dalla  Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p. 67 Can-  tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2.   (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1;  PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg.,  246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr.  Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma-  zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso  scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl-  lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si  tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra-  gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af-  ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento  pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ».     - 199 —   ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural-  mente informavano ai principii morali e alle conoscenze  acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola  il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano  questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo-  nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre  nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre  pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so-  pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di  orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione  di beni. E non è poi così strano da doversene negare la  verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re-  ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme' per  uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per  il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle  loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^  non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu-  nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale  pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore  acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse  spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me-     (1) Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr.  Diog. X, Il e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche,  secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu-  nità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re-  centi. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e  le testimonianze che troviamo in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol.  Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il  Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata  una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli  amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi  che non è neppur corto che questa massima appartenesse in modo  particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b 0).     - 200 —   desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed infatti  noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni  di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno-  mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri-  stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per  conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni  sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di  altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia  come nella Grecia e nell'Oriente (6).   La vita che si conduceva nell' istituto da quei disce-  poli che vi rimanevano in permanenza ci e sufficiente-  mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le  notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori.  Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra-  sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen-  si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razio-  nale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano     (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21.   (2) GiAMBL. 238.   ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind.   (4) Krische l. e. p. 44.   (5) Luciano, De Salut.^ e. 5.   (6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a-  dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato  da alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri  tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de  biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les  souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens  ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle  société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ».   (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un  libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256.     — 201 —   date più in forma di redola o di consiglio, che di vero  e proprio comando (1).   Di buon mattino, dopo Ja levata del sole, i cenobiti  si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen-  ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri-  ma di avere ben disposto il loro animo con la medita-  zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi  in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi-  ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica-  vano continuamente particolari esercizi per acquistare la  padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup-  pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa-  coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat-  tava peraltro né di mortificazione della carne e rinun-  zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia vita,  ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi-  tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado  di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que-  sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi-  mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto  sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru-  mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin-  nastici d' ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri-  zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi  e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi,     (1) Il rispetto alia libertà individuale era una delle caratteristi-  che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V. su  tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque insti-  siuerit (1833).   (2) Anche questa era una sapiente e razionale disposizione, abi-  tuando i discepoli alla virtù attiva.     — 202 —   ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes-  se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare  inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe  cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità  ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera  durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter-  minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg-  giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre, ■ e dal  bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno  alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a  discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia-  no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della  buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad  una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde  tutte le parti del corpo sono composte a costante unità  di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo-  rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta-     I     (1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle  carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria-  no, come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV  a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer-  mare che tale dieta fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al-  trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze  parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil-  mente P astinenza dalle carni e dal vino ( quella delle fave pare  fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice  uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di manteaer sempre sve-  glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur conservandolo  sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della  trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ;  poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel-  lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua  derivazione dall' Egitto.     — 203 —   mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man-  cavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri-  monie religiose, piii precisamente simboliche, che servi-  vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il  culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a  cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del  Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun  individuo umano.   Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac-  cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3).  Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller,  non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è  contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano,  moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi  figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri-     (1) Cento FANTI, op. cit. p. 390.   i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco  cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui è  forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non  parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56;  Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32.   (3) FlLOSTR. l. C.   (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili,  19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da alcuni si  affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore carna-  le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro  proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra-  tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci-  tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si  abbandonasse a pratiche sessuali » .   (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf.  19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204;  Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ; Stob.  Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270 (Stob.  Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12.     — 204 —   guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1);  e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito  della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa-  cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta  precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto  alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere  che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti  interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre-  dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta-  colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni.   6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della  storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno.  Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab-  biamo dunque veduto che esso era duplice e che per  essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario  aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de-  gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo.  Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del-  l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim-  bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente  morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote-  rici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele-  vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste  sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da  ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio  che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il  loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi-     I     (1) DioG. vili, 9.   (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo (sec. XIII-XIV), uno  dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cor-     — 205 —   tare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero  date in balia a menti inette a comprenderle, le quali,  appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni,  limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza  inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle  dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri-  terio usato neir impartirle era dunque che « non si do-  vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico  nel senso più ampio e più bello della parola — del pro-  porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non  può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e  di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni  tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via  perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per-  fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare sog-  gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od  anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale,  pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for-  mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto  all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e  le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol-  gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella  progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo  i gradi della superiorità loro nell' ordinata ed armonica  conformazione della persona umana, non veniva ad esse-  re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale  sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di  ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace  indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava     NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una.  simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci.     — 206 —   mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la  vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si-  stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face-  vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli  che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione.   Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi-  ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava  sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi-  derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel-  l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne  aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna-  mento invece era il principio autoritario che prevaleva ;  principio razionale e giusto quando corrisponda a una  vera gradazione di merito e di valore individuale, e per  nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato  vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri,  e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi  si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac-  quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre  nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara,  finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine  necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non  sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si  unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché  non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es-  sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era  necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo-  ro ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse-  gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro  lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle-  rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse  accompagnata anche la persuasione, nata dal riconosci-     207     mento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese,  era giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento  teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano  volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati  superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli-  ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto-  rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè  gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo  per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit  era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la  parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora  condizionata alla visione delle verità più alte e non par-  tecipante al sacramento della Società », mentre poi il  vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini-  ziazione all'arcano della Società e della scienza ».   7. — Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva  l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e  prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò  fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere  tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a  quale spirito era informato un. sistema educativo, che non  solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po-  tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu-  zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri-  na pitagorica è già stata fatta da molti (2), basti qui il  dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli-     (1) Op. cit. p 405.   (2) Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori del Cento-  fanti e dello ScHURÈ ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte  il necessario corredo di prove e di testimonianze.     — 208 —   gioso che la tradizioDe leggendaria personificò in Orfeo,  coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e  compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimen-  tale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta  la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con  l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze teoriche, ma  anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado  la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot-  tenuto con lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà  latenti del riposto ego divino, principio sostanziale di ogni  attività dell* uomo.     (1) Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le  scuole mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e  solo per i profani, i limiti della natura ; e chi abbia una cono-  scenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia non  era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi  particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra-  tiche V. Plut. Numa 8, Apul. De Magia 3l ; Porf. 23 sgg., 34  sg.; GiAMBL. 36, 60 sgg., 142, dove sì parla di « antichi scrittori  degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut. I, 2, p. 10 , Euseb. pr.  ev. X, 3, 4 ; Aristot. p. Eliano II, 26 e lY, 17 ecc.     NDICE DEL VOLUME     'ag    VII    »    1    »    5    »    21     Prefazione ........   Introduzione   Capitolo peimo : Inizii leggendarii e storici .   » secondo : Quinto Ennio e i suoi tempi .   ■» TERZO : Sette e scuole pitagoriciie in Rojna nel   I secolo a. C >> 45   » QUARTO : Pitagora e le sue dottrine negli scrit-  tori latini del primo secolo a. C. . . » 69   I. — Lucrezio e il poema « Delia Natura », » ivi   II. — . Frammenti della dottrina di Pitagora de-  sunti dalle opere di M. Terenzio Varrone . » 91   III. — Appio Claudio Pulcro — Cicerone e il   « Somnium Scipionis » .... » 107   IV. — Mimi — Q. Orazio Fiacco — P. Virgilio   Marone ........ 123   V. — Pitagora e le sue dottrine nella poesia   di Ovidio , » 149   Appendici   I. — Eitphorhos . . . . . . • . . » 163   II. — Il Sodalizio pitagorico di Crotone ...» 181     ERRATA-CORRIGE     tg.    6    rigs    i 2    pytagoreum    pythagoreum    »    8    »    ultima    Turis    Turio    ->    15    »    !3    fatto    fatta    »    16    >    14    persino    e persino    »    26    »    27    permaneant    permanont    »    34    *    34    stituiti    istituti    »    40    »    16-21    Queste 6 righe    sono rimaste inter            nel testo, mentre andavano in i            pie di pagina    •    »    44    »    6    ist    isti    »    47    »    10    per    fra    »    53    »    15    intellegibili    intelligibili    »    »    »    ultima    Geory.    Georg.    »    61    »    19    ferun    ferunt    »    »    »    22    prae vista    praevisa    »    63    »    26    aequo    aeque    »    »    »    27    ilUis    illis    »    65    »    18    maior    maiore    »    66    9    32    Mullach V.    Mullach (v.    »    »    »    ultima    Leipzg    Leipzig    »    67    »    3?    « (Centra    ( « Centra    •»    70    »    7    a poco    a poco a poco    »    72    »    3    senza altro    senz'altro     B Gianola, Alberto   21^ La fort-una de Pitagora   G5 presso i Romani dalle origini   fino al tempo di Augusto 

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