ALBERTO GIANOLA LA FORTUNA DI PITAGORA PRESSO I ROMANI dalle orìgini fino al tempo di Augusto .>^ CATANIA FRANCESCO BATTUTO — Editork 1921 PROPRIETÀ LETTERARIA J^-^ <^^ Catania — Stab. Tip. S. Di Mattai &. C. — 1921. A GIORGIO E GUSTAVO DEL VECCHIO FRATERNAMENTE PREFA2IONB La filosofia di Pitagora^ che è generalmente conosciuta appena in alcuni dei suoi punti fondamentali^ come la metempsicosi^ Varmonia delle sfere^ la scienza dei nu- meri^ l'astensione dai cibi carnei e dalle fave^ era in realtà un complesso assai vasto e profondo di dottrine^ un ve?v e propìzio sistema di speculazione e di morale, la cui conoscenza ci è tuttavia possibile soltanto in pic- cola parte^ sì per la scarsità dei documenti scritti ori- ginali, dovuta alla nota tradizione della segretezza che i più dei suoi cultori osservarono scrupolosamente, sì per le amplificazioni^ le falsificazioni e le invenzioni che partorirono le fantasie di tardi seguaci^ di pseudo- eruditi e di mistificatori. E però indubbio che tale filo- sofia fu non dilettantismo di m istici fanatici^ ma vera e ragionata speculazione^ a cui si accompagnò^ parallela, ima conseguente e logica ragione di vita, sì che^ men- tre da un lato potè attrarre^ seducendole col fascino delle verità da essa chiarite e con V armonica bellezza dei suoi insegnamenti.^ le anime di molti cui pungeva r assillante aculeo della conoscenza., incontrò daW altro — VI — ostacoli e derisioni da parie di aristocrazie interessate o di volghi ignobili e sciocchi. Divulgata.^ se non creata interamente ex novo, nel se- colo sesto a. C. per opera di Pitagora^ del quale ^ come di Omero, alcuni misero perfino in dubbio Vesistenxa^ fu coltivata^ prima che altrove, sulle rive dell' Ionio ^ nella Magna Grecia e in Sicilia., di dove si diffuse, sebbene osteggiata., nella Grecia ed in Roma. Ricca., com'essa era., di principii che oggi si direbbero idealistici e tra- sceridentali., ed accompagnandosi., come ho detto., a una sua particolare armonica concezione della vita indivi- duale e collettiva^ teorica^ insomma e pratica nello stesso tempo., essa era ben atta ad informare di se religione e scienza., politica e morale.^ consuetudini e leggi. Essa fu da molti connessa non pure con anteriori an- tichissime dottriìie della Grecia^ deW Egitto^ delV India e per fin della Cina., dalle quali sarebbe in tutto o in parte derivata e con le quali ebbe non dubbi punti di somiglianza, ma altresì con la posteriore filosofia di Pla- tone, in molte parti ricalcata sulle sue orme. Conservata poi per lungo tempo immune da elementi estranei, e tra- mandata, senza il sussidio della scrittura, nel segreto delle scuole, essa ebbe nuovo rigoglio per opera dei filo- sofi alessandrini, quando, inalveatesi nel suo letto altre correditi di pensiero, alimentò le speculazioni della teo- sofia neoplatonica e ?ieopitagorica di Plotino, di Porfi- rio e di altri molti, e diede origine a molteplici scrit- ture, quali più quali meno profonde ed attendibili, in- torno alla vita ed ai primi insegnamenti delV antico maestro. Da essa infine tras.sero ispirazione alcuni filo- sofi della rinascenza, e qualche sua derivazione può dirsi non del tutto spenta anche oggi. — VII - Importantissimo e utilissimo sarebbe dunque^ massime per noi Italiani, lo studiare la storia di questa dottri- na e il ricercarne e ìiarrarne le vicende nei vari tempi e nei vari paesi: poiché^ sebbene molti abbiano fatto stu- di e ricerche in proposito — basterà ricordare^ fra tanti, i lavori del Bitter (1), dello Zeller (2), del Gomperz (3), dello Chaignet (4) e del Mullach (5), e, in Italia, del Ca- pellina (6), del Cento fanti (7), del Gognetti De Martiis (8), del Ferrari (9), del Ferri (10) -- e benché da tutti (1) Heinrich Ritter, Oeschichte der Pythagor. Philosopkie, Ham- burg, 1826. (2) Eduard Zellbe, Pythagoras und die Pythagorassage, in Vor- tràge und Abhandlungen geschichtlichen Inhalts^ Leipzig, 1865 e Die Philosopkie der Oriechen ecc.., voi. P pp. 279 e segg. (3) Theod. Gomperz. Les penseurs de la Grece, trad. de la 2* ed. alleni, par A. Raymond, Paris, Alcan, 1904. (4) A. E. Chaignet, Pythagoi^e et la philosopkie pythagor., Pa- ris, 1873. (5) Fr. G. a. Mullach, De Pythagora eiusque dìseipulis et suc- cessoribus, in Fragmenta philosoph.. graecor. v. II, Paris, 1881, pp. I-LVII. (6) Domenico Capellina, Delle dottrine dell'antica scuola pitago- rica contenute nei Versi d'oro, in Memorie della R. Aecad. di Scienxe di Torino, serie II, t. XVI (Ì857), pp 37-109. (7) Silvestro Centofanti, Studi sopra Pitagora (1846) nel volu- me La letteratura greca, Firenze, Le Monnier, 1870 [Opere, voi. I, 5p. 359 e segg). (8) CoGNETTi De Martiis, L'Istituto Pitagorico, in Atti della R. Accad. delle Scienxe di Torino, 24 (1888-89) e nel volume Socia- lismo antico, Torino, Bocca, 1889, pp. 459-496. (9) Sante Ferraiu, La scuola e la filosofia pitagorica, in Rivi- sta ital. di Ulosofia, 1890, I e II. (10) L. Ferri, Sguardo retrospettivo alle opinioni degl'Italiani intorno alle origini del pitagorismo, in Atti della R. Accademia dei Lincei, Rendiconti, serie 4, 6, 1890, 1 pp. 532-547. — VITI — questi e da altri studiosi non solo si siano raccolte molte notizie^ ma si siano anche esaminate e discusse quistio- ni importaìitissiìne^ pure troppe cose ancora rimangono da chiarire e da risolvere della storia ch'io chiamerò esterna del Pitagorismo; e fors'anche^ riprendendone i?i esame il contenuto, ossia tenendo V occhio alla sua sto- ria interna, che è poi, per la filosofia, la sola importan- te, qualche verità, io penso, già acquisita e insegnata dall'antico saggio, potrebbe dimostrarsi anche oggi vali- damente fondata e tale da poter resistere agli assalti del nostro più acuto criticismo. Gli studi raccolti in questo volume furono già da me in gran parte pubblicati, dal 1904 in poi, o in opuscoli in Riviste; ma poiché ho dovuto, ìiel corso delle mie ricerche, modificare alcune delle conclusioni alle quali ero giunto, e nuovi fatti ho potuto chiarire, mi sono indotto, anche per aderire al desiderio e alle sollecita- zioni di be7ievoli amici, a ristamparli tutti insieme. Spero che il tenue contributo chHo porto alla storia che or ora dissi esterna del Pitagorismo varrà almeno a dimostrare che intorìio a queste importantissime dot- trine non si è detto ancora tutto e che inolio ancora si può indagare e scoprire. INTRODUZIONE Da diverse tradizioni furono connessi i piiì antichi istituti religiosi e politici di molte città dell'Italia meridionale con il Pitagorismo (1); ne fa meraviglia che alle dottrine di Pitagora si facessero risalire anche le prime istituzioni e le più antiche leggi di Roma: Numa, il sacro legislatore della città capitolin'a, fu ritenuto scolaro di Pitagora, e le stesse leggi delle dodici tavole, copiate dalle legislazioni della Magna Grecia e della Sicilia, che alla loro volta traevano ispirazione, se non origine, dal Pitagorismo, fu- rono altresì ricongiunte con questo. Sarebbe indubbiamente assai utile e interessante poter determinare in che consistessero questi legami di dipen- denza e stabilire con precisione quali furono gl'influssi dell'antica sapienza italica sulla formazione delle credenze e degli istituti religiosi e della fondamentale legislazione (1) Seneca, per esempio, (Epist. ad Lueilium^ 90) sull'autorità di Posìdonio, dice, parlando dei grandi legislatori dell'Italia: «Hi non in foro, nec in consultorum atrio, sed in Pythagorae ilio sanctoque secessu didicerunt jura, quae fiorenti lune Siciliae et per Italiani Oraeciae ponerent ». 1. 2 — romana; ma purtroppo, sebbene qualche lieve tentativo si sia fatto in proposito, non è, per ora, possibile una deter- minazione neppure approssimativa. Ma insieme con questa azione, da alcuni ritenuta sol- tanto leggendaria, su ciò che costituì l'anima della vita civile di Roma, esercitò il Pitagorismo un ulteriore in- flusso, determinando nel corso dei secoli, attraverso le vicende della sua storia vasta e complessa, una corrente di pensiero sua propria, continua o interrotta, palese o recondita? Di vera e propria tradizione scritta non ci restano trac- ce, se non frammentarie; di una tradizione orale abbiamo invece meno scarsi indizi e con certezza sappiamo di non pochi seguaci che la dottrina pitagorica ebbe in Roma. Anzi noi possiamo rilevare fin d'ora, anticipando in parte le conclusioni di queste nostre ricerche, che questi inna- morati cultori di una così riposta e difficile sapienza non furono già uomini oscuri uè poeti o scrittori di second 'or- dine, ma cittadini illustri, grandi poeti e celebri letterati, pensatori insigni e grandi uomini politici ; cosicché la filo- sofia pitagorica, non morta nella scrittura o negli insegna- menti orali, ma viva e operante nelle menti di magistrati famosi, come Appio Claudio e il maggiore Scipione, nelle fantasie di poeti eccellenti, come Ennio e Virgilio, nei cuori di cittadini nobilissimi, come Figulo, Yarrone e i Sestii, accompagnò in certo modo passo per passo il pro- gredire della potenza e della grandezza di Roma; finché poi, sopra la sua efficienza pratica e la sua virtù fattiva prevalendo l'elemento speculativo, che, data la naiura e l'indole dei Romani, era il meno idoneo ad allettarli, e all'antica razionalità delle dottrine sovrapponendosi da un lato fantasticherie e aberrazioni come quelle di un Apol- — 3 Ionio di Tiana, e dall'altro frammischiaudosi elementi ete- rogenei di origine greca, orientale e forse anche cristiana, essa si ritirò di nuovo nel silenzio e nella segretezza di qualche scuola, illuminò appena la vita e lo spirito di qualche solitario amante della verità e del sapere, e finì per disperdersi e dileguare nelle acque torbide delle spe- culazioni di un Macrobio o di un Eulogio. Se io mi sono indotto pertanto a raccogliere con la maggior diligenza possìbile i ricordi, le testimonianze, le tracce, o. palesi o recondite, o tenui o larghe, che di sé. ha lasciato il pensiero pitagorico nella storia e nella let- teratura dell'antica Roma, gli è che altri lavori e studi esaurienti intorno al mio tema non mi è accaduto di tro- vare. Brevi cenni riassuntivi si trovano bensì nelle opere dello Zeller, dello Chaignet, del MuUach, nella Storia di Roma del Pais, e in storie generali e particolari della letteratura romana; ma in sostanza io ho dovuto fare lun- ghe e pazienti indagini, per mettere insieme notizie sparse qua e là un po' dappertutto. L'importanza e il valore delle mie ricerche non consistono dunque nella novità dei ri- sultati, ma piuttosto nello svolgimento dato a un tema fin qui appena malamente sfiorato da qualche erudito, nella quantità delle notizie raccolte e nell'ordinamento che ne ho fatto, seguendo l'ordine cronologico; e qualche que- stione spero anche di avere maggiormente chiarita, seb- bene, per la scarsità dei dati sui quali era concesso co- struire, non sempre abbia potuto giungere a conclusioni definitive. CAPITOLO PRIMO Inìzi leggendari e storici 1. Il Pitagorismo e le più antiche istituzioni di Roma. — 2. Testi- monianze G prove. — 3. I carmina convivalia. — 4. Numa e Pitagora. — 5. Le leggi delle XII tavole nei loro rapporti col Pitagorismo. — 6. Il carme pitagorico di A. Claudio Cieco. 1. — Che molte delle antiche istituzioni di Roma fossero derivate dalla filosofia pitagorica fu riconosciuto ed am- messo esplicitamente da Cicerone, il quale nel principio del quarto libro delle Tusculane (§§ 2-4) lasciò scritto : « Pythagorae doctrina cum longe lateque flueret, pernia- navisse mihi videtur in hanc civitatem, idqtce cum coniec- tura probabile est, tum quibusdam etiam vestigiis indica- tur » . A conforto dunque della sua opinione egli addusse due argomenti, uno congetturale e uno di fatto: « Quis enim est qui putet, — così egli continua — cum fiorerei in Italia Graecia potentissimis et maximis urbibus, ea quas Magna dieta est, in eisque primum ipsius Pythagorae, deinde postea Pythagoreorum tantum nomen esset, nostro- rum hominum ad eorum doctissimas voces aures olausas — 6 fuisee f Quin etiam arhitror propter Pythagoreorum admi' rationem Niimam quoque regem pytagoreum a posteriori- bus existimatum. Nam cum Pythagorae dìsciplinam et instituta cognoscerent regisque eius aequitatem et sapien- tìam a maiorihus suis accepisseut^ aetates autem et tem pora ignorarent propter vetustatenij eum, qui sapientia excelleret, Pythagorae auditorem crediderunt fuisse » . E questa è la congettura; la constatazione di fatto poi è, che nelle istituzioni romane e in alcune antiche scritture vi sono molte non indubbie tracce di Pitagorismo. Quanto alle istituzioni, egli trova materia di raffronto nell'uso dei canti e della musica : « Vestigia autem Pythagoreorum, quamquam multa colligi possunt, paucis tamen utemur.... Nam cum carminibus soliti illi esse dicantur et praecepta quaedam occultius tradere et mentes suas a cogitationum intentione eantu fidibusque ad tranquillitatem traducere, gravissimus auctor in Originibus dixit Caio morem apud maiores hunc epuìarum fuisse ^ ut deinceps^ qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtu- tes. Ex quo perspicuum est et cantus tum fuisse discriptos vocum sonls et carmina. Quamquam id quidem etiam XII tabulae declarant, condi iam tum solltum esse carmen ; quod ne licer et fieri ad alter ius iniuriam^ lege sanxerunt. Wec vero illud non eruditorum temporum argumentum est, quod et deorum puloinaribus et epulis magistratuum fides praecinunt, quod proprium eius fuit, de qua loquor, di- sciplinae » . E quanto alle antiche scritture egli ricorda un carme di Appio Cieco, che a lui pare pitagoreo: « Mihi quidem etiam A.ppii Cacci carmen, quod valde Panaetius laudat epistula quadam, quae est ad Q. Tuberonem, Py- thagoreum videtur^?. E finalmente conclude: <^ Multa etiam sunt in nostris institutis ducta ab illis ; quae praetereo, 7 — ne ea, quae repperisse ipsi putamur^ aliunde didicisse vi- deamur». È davvero un peccato che Cicerone, per senti- mento diorgoglio nazionale — che non doveva peraltro essere soltanto suo — e forse anche . per ragioni, se non di Stato, come oggi si direbbe, almeno di prudenza e di utilità pubblica, abbia creduto necessario di tacere intorno a queste molte altre derivazioni d'istituti romani dal Pita- gorismo, alle quali, come si è visto^ accenna per ben due volte; tanto piii che egli^ e per le cariche da lui coperte, e per la conoscenza che aveva della scienza augurale e sacerdotale, e, in genere, per la sua larga e profonda cultura storica, letteraria e filosofica, era bene in grado di fornirci in proposito notizie, documenti e prove certo assai interessanti. Ci è forza dunque accontentarci di que- sta sua affermazione categorica, per quanto generica, e vedere, anzitutto, se e quanto i suoi argomenti siano va- lidi e, in secondo luogo, se ci si offrano altri indizi prò contro la sua tesi. 2. - Che in verità i] Pitagorismo importato nella Magna Grecia nel sesto secolo avanti Cristo, « temporihiis isdem — come dice lo stesso Cicerone — quibus L. Brutus pa triam liberavit » (1) e propagatosi in tutta l'Italia meri- dionale, dove si conservò poi per molti secoli, non dovesse rimanere ignoto ai Romani e dovesse esercitare su di loro, presto tardi, qualche influsso notevole, è ovvio, e le presenti ricerche dimostrano appunto la cosa alla luce dei fatti. Ma, la questione è ora di vedere se tale influsso si possa far risalire veramente ai tempi di Pitagora e dei (1) Ibid. § 2. Cfr. 1, 16, 8, dove è detto che Pitagora venne in Italia « Superbo regnante » . — 8 suoi primi seguaci, come Cicerone credette, oppure, come credette Livio e con lui gli storici moderni, se esso si sia fatto sentire soltanto, per opera di neo-pitagòrici, dopo la conquista della Campania e della Magna Grecia, che fu interamente compiuta nel 265 a. C. ; e, d' altra parte, se questa azione sia stata così larga e profonda da dover lasciare molte ti^acce di sé negli istituti politici e religiosi di Roma, o se si sia esercitata solo sulle prime manife- stazioni dell'arte musicale e letteraria e sulle prime spe- culazioni filosofico-religiose. Due fatti, piccoli ma significativi, pare a me che dimo- strino, anzitutto, come già parecchie generazioni prima dell'Arpinate, e precisamente fin dal secolo quarto a. C, cioè prima della conquista dell'Italia meridionale, dovette essere convinzione di molti in Roma che a Pitagora, alla sua dottrina e alle sue leggi fosse debitrice di molto la città. Il primo di questi fatti è che durante la guerra sannitica fu innalzata a Pitagora ai lati del Comizio in Roma, per volere di Apollo, una statua, che vi rimase poi sino ai tempi di Siila (1). Ora la guerra contro i San- niti si combattè in tre periodi, l'ultimo dei quali va dal 298 al 290 a. C. ; e il Pais crede che la cosa si debba ritenere avvenuta appunto in questi anni ; ma in realtà non vi sono ragioni che ci vietino di farla risalire an- che ad uno dei due periodi precedenti. L'altro fatto, un poco posteriore, è che dopo la presa di Turis, di Eraclea (1) La cosa ci è attestata da Plinio, il quale però non cita la fonte da cui ha attinto la notizia. Dice egli infatti (JV. H. XXXIV, 26): Invento et Pythagorae et Alcibiadi in eornibus Comitii positas (statuas), cum, bello Samniti Apollo Pythius iussisset fortissimo Oraiae gentìs et alteri sapientissimo simulacra celebri loco dicari » . Cfr. Plutaeco, Numa^ VIIL — 9 - e di Taranto (272 a. C.) e con l'arrivo nella città di Livio Andronico, che ne divenne il poeta sacro ed ufficiale, furono dichiarati cittadini romani, Pitagora e il suo alunno Zaleuco (1). Ora perche mai sarebbero stati concessi a Pi- tagora due onori così distinti e di carattere pubblico, se non si fossero riconosciute le sue benemerenze verso la città? Evidentemente in quei tempi più antichi l'orgoglio nazionale non aveva ancora oscurato, come più tardi, il senso della verità storica! Ciò premesso, veniamo ad esa- minare la possibilità degl'influssi pitagorici sulla più antica civiltà capitolina, secondo le prove che ce ne dà Cicerone. 3. — I carmina convivalia^ che, ormai disusati nell'età ciceroniana, erano invece ancora in uso al tempo della seconda guerra punica (218-202 a. C.) e che risalivano, come affermò Catone, a molte generazioni prima di lui, furono certamente anteriori alla legislazione decemvirale, che è della metà del secolo quinto: Cicerone infatti, per dimostrare l'esistenza di canti accompagnati da strumenti musicali, e quindi di una civiltà abbastanza evoluta nei tempi più antichi di Roma, ricorda nel passo citato, in- sieme con la testimonianza di Catone, il fatto che le leggi delle dodici tavole comminavano gravi pene a chi avesse usato quei canti « ad alterius inkiriam » (2). Senonchè Cicerone, come appare da un altro passo dei suoi scritti,' (1) Vedasi il framm. 5 nei Fragni. Hist. Graec.^ II, p. 273 e Symm. ep. X, 25. (2) Cfr. De rep. IV, fr, 12 : « Nostrae duodecim tabulae^ quuni perpaueas res capite sanxissent, in his hane quoque saneiendam pukiverunt, si quis occentavisset sive earmen condidisset quod in- famiam faeeret fìagitiumve alteri » e vedi auche Plinio, Nat. Hist. XXVIII, 2, 10-17. — 10 — audò anche più oltre, ritenendoli già esistenti a) tempo del re Numa (1). Se così è, non avrebbe dunque dovuto valere anche per essi l'obiezione che l'Arpinate moveva, come si è veduto, alla leggenda che il re Numa fosse stato scolaro di Pitagora? Neppure di questi antichissimi canti egli poteva logicamente ammettere la derivazione dall'analoga costumanza dei Pitagorici, se Numa che Ji istituì visse, secondo la cronologia ufficiale, a cui il nostro autore credeva, piti di cento anni innanzi la venuta del filosofo di Samo. Cosicché o il raffronto istituito da Cice- rone e la analogia da lui messa in rilievo non ha alcun valore storico — e così dovrebbe ritenersi senz'altro, se fosse indiscutibilmente fondata la cronologia della più an- tica storia di Roma — , oppure ~ come è più probabile, in conformità dei risultati generali e particolari a cui è giunta la critica storica nell'esame delle primitive leggende romane — l'ipotesi della derivazione dei canti dal Pitago- rismo ha un fondamento di vero, e in tal caso è da rite- nere che fosse errata la tradizione cronologica, in quanto faceva risalire al secolo ottavo un'usanza che dovette essere posteriore al seste secolo a. C. Quanto poi all'analogia considerata in se, in che consisteva essa? Semplicemente (1) De orai. 111,51, 197: «Nikil est autem tam eognatum mentibus nostris quam, numeri atque voces ; qtiibus et excitamicr et ineendi- mur et lenìmur et languescimus et ad hilaritatem et ad tristitiam saepe deducimur ; quorum Ula sumnia vis carminibus est aptior et eantibus, non neglecta^ ut mihi videtur, a Numa rege doctissimo maioribusque ìiostris^ ut epularum sollemnium fides ac tibiae Sa- liorumque versus Indicarli ; maxime autem a Graecìa vetere cele- brata ». Di questi canti poi Cicerone parla anche altrove, e cioè nel Brutus^ 19, 75 e nelle Tusculane I, 2, 3. Si vedano anche Tacito, Ann. Ili, 5, Val. Massimo II, 1, 10, Nonio ad assa voce ed ivi Yabbone, de vita pop. rom.^ fi. II, 20, Kettner. 11 nell'uso comune del canto e deUa musica in occasione di feste religiose e di banchetti pubblici, non già nel conte- nuto dei canti stessi, che gli uni. cioè i Pitagorici, ado- perarono come mezzo terapeutico e di insegnamento eso- terico, e gli altri invece, cioè i Komani, per esaltare la memoria degli antichi eroi; come i Pitagorici erano soliti tramandare sotto il vincolo della segretezza certi insegna- menti in forma di canzoni e riposare per mezzo di canti accompagnati dalla lira le menti affaticate dalla lunga meditazione, così gli antichi Romani solevano, al principio dei banchetti, cantare al suono delle tibie le lodi e le virtù degli eroi, ed ebbero anche l'usanza di far precedere tanto alle mense in onore degli dei, quanto ai banchetti dei ma- gistrati, il suono delle lire, il che fu pure caratteristico dei Pitagorici. Insomma, le piìi antiche manifestazioni del- l'arte musicale in Roma si ebbero per l'influsso diretto del Pitagorismo. 4. — A quel modo che si è dimostrata la possibilità che siano derivate dal Pitagorismo queste antichissime mani- festazioni dell'arte musicale, si potrebbe anche riconoscere come verisimile — contrariamente a ciò che ne pensava Cicerone — la notizia dei rapporti fra Numa e Pitagora. La notizia che il re Numa sia stato scolaro di Pitagora è probabilmente anteriore al terzo secolo a. C. ; anzi il Pais afferma (1) che essa si deve forse far risalire ad Ari- stosseno, . Ma in tal caso sarebbe necessario credere che questi conoscesse una cronologia della storia romana di- versa da quella che fu poi consacrata dalla storiografia ufficiale, secondo i computi della quale l'esistenza di Nu- (1) Storia di Roma, I*, p. 19 e 387. 12 ma fu anteriore di oltre un secolo a quella di Pitagora. Tanto è vero che quasi tutti gli scrittori presso i quali troviamo ricordata tale notizia — Cicerone, Dionigi d'^li- carnasso, Diodoro Siculo, Livio, Ovidio, Plutarco, Plinio — notano e discutono variamente questa inconciliabilità cro- nologica, concludendo tutti press'a poco come fa Manilio nel De re piiblica di Cicerone, che dice la storia di queste relazioni non sufficientemente provata dai pubblici annali e quindi da ritenersi « un errore inveterato » (l). Ora che dal punto di vista romano o di scrittori romanizzanti così dovesse concludersi, è troppo naturale: data la indiscuti- bile verità della tradizione e della relativa cronologia, non poteva esservi dubbio per loro sulla impossibilità per parte di Numa di essere stato alunno di Pitagora. Ma tale im- possibilità non esiste per noi, che sappiamo come la storia delle origini di Roma sia di formazione relativamente assai tarda, come i computi cronologici che a quella si riferi- scono siano il risultato di una lunga elaborazione tradi- zionale, quasi interamente destituita d'ogni fondamento di verità, e infine come molte figure della leggenda siano soltanto dei simboli rappresentativi di un complesso di fatti di istituzioni appartenenti talvolta a tempi succes- sivi e diversi. Tolto dunque l'ostacolo cronologico che, se era validissimo per i contemporanei di Cicerone, non sus- siste più oggi che la critica storica ha demolito l'antichis- sima cronologia di Roma, non rimane altra obiezione che (1) Ciò. De re pubi. Il, 15, 28: «Inveteratus ho77tinum errore. Cfr. DioN. Halic. II, 59 ; Diod. Sic. Vili, 14 {.Exc. de vlrt. et vii. p. 549); Livio I, 18 e XL, 29; Plut. iVwma I, 3; YIII, 5 sgg.; Plinio, Nat. Hist. XIII, 27. —Quanto alla testimonianza di Ovidio si veda più innanzi, al cap. IX. — 13 -«. quella sollevata da Livio, il quale ritenne impossibile ogni rapporto fra Numa e Pitagora anche per ragioni di di- stanza e di lingua. Dice egli infatti : « Auctorem doctrinae « eius [i. e. Numae]^ quia non exstat alius, falso Samium « Pythagoram edunt, quem Servio Tullio regnante Bomae, « centum amplius post annos, in ultima Italiae ora circa « Metapontum Heracleamque et Crotona iuvenum aemu- « lantium studia coetus habuisse constai. Ex quibus locis, « etsi eiusdem aetatis fuisset^ quae fama in Sabinos f « aut quo linguae commercio quemquam ad cupiditatem « discendi excivisset f quove praesidio unus per tot gentes « dissonas sermone moribusque pervenisset f suopte igitur « ingenuo temperatum animum virtutibus fuisse opinor « magis instructumque non tam peregrinis artibus quam « disciplina tetrica ac tristi veterum Sabinorum^ quo ge- « nere nullmn quondam incorruptius fuit » (1). Ma nel campo della storia, come giustamente osserva il De Mar- chi (2), è forse detta l'ultima parola sui rapporti che lega- rono in antico la civiltà della Magna Grecia con le più barbare popolazioni italiche del centro ? E d' altra parte la esistenza ammessa da Livio di una « disciplina tetrica ac tristis » presso i Sabini dell'ottavo secolo a. C. non è cosa molto più problematica di quello che non sia pro- babile l'andata di qualche sabino o romano nella Magna Grecia nel secolo sesto? La leggenda dei rapporti fra Numa e Pitagora dovrebbe dunque, a parer iiostro, accet- tarsi come rispondente a verisimiglianza, e il regno di Numa, se questi è realmente esistito, o, in ogni modo, (1) Livio, I, 18. (2) Passi'scelti da Tito Livio ad illustrare le istituzioni religiose^ politiche e militari di Roma antica, Milano, Vallardi, 1907 p. 65. — 14 — il formarsi di tutti quegli istituti di carattere religioso che la tradizione riportava a lui, dovrebbe ritenersi posteriore almeno al tempo di Pitagora, ossia posteriore al secolo sesto, appunto perchè dalla tradizione era tenuto in stretto rapporto di dipendenza dal Pitagorismo. In tal modo non sarebbe più necessario, come fa il Pais, di ritenere inven- tata da Aristosseno l'altra notizia, che risale appunto a questo filosofo del quarto secolo, che parla genericamente di Romani accorsi ad ascoltar Pitagora (1), e piii facil- mente si comprenderebbero alcuni dati della leggenda. di Numa, la scoperta dei famosi libri pitagorici di questo re, e il fatto che qualche scrittore, per esempio Ovidio, am- metta la realtà dei rapporti, senza neppure discuterla. Raccontava ancora la tradizione che Numa ebbe tanta venerazione per il suo maestro Pitagora, che volle dare a un proprio figlio il nome di Mamerco, in onore dell'omo- nimo figlio del filosofo (2). Che significato può avere questo nuovo particolare ? Alcuni hanno creduto di scorgere in esso un tentativo da parte degli Emili Mamertini di far risalire in tal modo le proprie origini al tempo di Numa. Se così fosse, noi dovremmo allora ammettere che quando il particolare fu inserito nella leggenda, la cronologia di questa non era ancora quella ufficiale: altrimenti il tenta- tivo sarabbe stato puerile. Ma così veramente non è, come fu giustamente osservato dal Mtiller (3); probabilmente il (lì npoo'^X'9'Ov S'aùxcp (cioè Pitagora), &<; cpvjoiv 'Apiaxógsvog, xal Asuxavol xal MsooàTiiot xal Hsuxéxioi xal 'Ptojjtalot. Così dice Por- firio nel Gap. 22 della Vita di Pitagora; e il medesimo affermano, senza citare Aristosseno, Diogene Laerzio (Vili, 14) e Giamblico {Vita Pythag, 241). Quanto al Pais, vedasi St. di Roma I^, p. 678-679 n. e altrove. (2) Plutarco, Numa YIII, 11 ; P. Emilio I. (3) Q. Ennius, Pietrob. 1884, p. 162 n. -^ 15 — particolare non ebbe altro ufficio che di avvalorare con un indizio di piii la leggenda. Un'altra notizia, a propo- sito della quale non è veramente fatta menzione alcuna di Pitagora, è quella che si riferisce alla Musa Tacita, per la quale Numa ebbe particolare venerazione (1). Allude forse essa alla pratica del silenzio e della segretezza, di cui parla costantemente la tradizione pitagorica? È pos- sibile. E il miracolo della mensa carica di ricco vasellame, che il re avrebbe fatto apparire dinanzi agli occhi di co- loro che dubitavano delle sue facoltà soprannaturali (2), non ricorda le analoghe facoltà magiche attribuite a Pita- gora dalla tradizione? Veramente queste due notizie, per il loro carattere favoloso, potrebbero indurci a credere l'austera e quasi mistica figura di Numa una proiezione storica immaginaria, plasmata, in parte, a immagine del saggio di Samo. Ma un altro fatto, sulla cui verità storica non è possibile il dubbio, sembra indurci a conclusione diversa; voglio alludere al fatto della scoperta dei famosi libri di Numa, avvenuta nel 191 a. C, in occasione di uno scavo sul Gianicolo. Ora data la realtà della scopei-ta e la inverosimiglianza, come vedremo nel capitolo seguente, di una falsificazione, noi dobbiamo ammettere, con la tra- dizione, che questi libri fosseì'o veramente antichi. Siano poi essi stati opera del saggio Numa — la cui esistenza, come s'è già detto, dovrebbe necessariamente porsi in un'epoca posteriore al sesto secolo — • o di qualche altro sapiente imbevuto di sapienza greco-italica, essi starebbero sempre a dimostrare che effettivamente il Pitagorismo eser- citò una qualche azione sull'antica civiltà capitolina. (1) Plutarco, Numa^ Vili. (2) DioN. Hauc, U, 60. — 16 — Dal complesso di queste notizie e di questi fatti noi possiamo dunque inferire che non solo la leggenda dei rapporti fra i due legislatori dovette essere assai difPusa ed antica, ma che altresì essa ha un certo fondamento di vero : di guisa che se Cicerone la disse « inveteratus ho- minum error » noi possiamo senz'altro accettarne la vetu- stà; e quanto all'erroneità, essa fu probabilmente soltanto un desiderio di uomini di stato e di eruditi animati da un eccessivo orgoglio nazionale. Per la qual cosa Ovidio, che pure scrisse dopo che diversi storici avevano mosso alla leggenda le critiche accennate, potè ben accettarla senza discuterla affatto come una cosa ovvia e risaputa (1) e fare in certo modo dipendere le istituzioni religiose at- tribuite a Numa (2), persino la sua riforma del calenda- rio (3), dalla educazione pitagorica da lui ricevuta. 5. —Anche alcune disposizioni legislative delle dodici ta- vole — che appartengono alla metà del quinto secolo a. C. — furono messe in relazione col Pitagorismo; cosa ben natu- rale, se si pensi alla loro origine: non erano esse infatti ricalcate sulle orme delle legislazioni della Magna Grecia, che, alla lor volta, com'è ben noto, si informavano ai prin- cipii di quella dottrina? Ora questa, che sarebbe, per dirla con Cicerone, semplice coniectura, ha poi la sua riprova nel contenuto delle leggi stesse, quale può desumersi dai frammenti che ce ne rimangono. Infatti il diritto punitivo in esse sancito s'ispirava al principio del taglione: « Si (1) Metam-. XV, ]-8, 479-484; Fast. Ili, 151-154; Pont. Ili, 3, 41-46. (2) Metam. XV, 479-484. (3) Fast. 1. e. — 17 — membrum rup{s)it^ ni cum eo pacit^ tallo està », dice il secondo frammento della ottava tavola, e questo principio, che, come attesta Demostene, ebbe largo svolgimento nelle leggi di Zaleuco (1), era indubitatamente tolto dai Pitago- rici, i quali lo ricollegavano alla dottrina dei numeri. Dice infatti Aristotile (2) che la giustizia era da loro conside- rata come ràvTi7i;£7cov'9'ó(;, perchè consisteva in una pro- porzione — non inversa, ma diretta, come notò bene lo Zeller (3) — fra l'offeso, l'offensore e il giudice ; nel che essi applicarono, secondo la critica aristotelica, i criteri della giustizia commutativa ad un ordine in cui non può aver luogo che la distributiva. Ora, dice il Chiappelli in un suo breve studio (4), in qual modo si determinasse dal Pitagorismo e quali applicazioni avesse questa teorica del taglione non possiamo dire, né possiamo quiudi sapere quali elementi di essa penetrassero nelle dodici tavole e a quali trasformazioni andasse soggetta in Roma. Un punto tuttavia è possibile stabilire, sebbene solo in modo nega- tivo. Alla legge generale, nelle dodici tavole, seguivano le leggi speciali: la prima di esse riguardava la diversa (1) Timocr. 744 : « ò'^xoz yàp aòxó^t vó|i.oo, èdtv tig òcp'S-aXiJLÒv è%xó4>ì|7, àvTsxxócIjat itapaaxsiv xòv éauxoQ xal oò XP'^M-*''^^^ xt|i7j- oswg oòSs|Jtiac, àTceiÀTjaat xtg Xéyexat èy^d-pòg è/.'^-pcp Iva Ixovxt òcpS-aX- jjiòv Sxt aòxoù èxxóc|^st zoùzo'* xòv §va ». Le medesime parole si ritrovano in quello che 1' autore della Grande Morale ci riferisce dei Pitagorici, il ohe è una riprova del rapporto storico fra questi e Zaleuco. (2) Eth. Nic. Y, 8, 1132 b. 1 (ed. Susemihl) : « Soxst 5s xtat xal xò àvxt7C£7iov'9'òc slvat ànXGòq dCxatov còaicep oi nuO-ayópsiot Icpaaav. è^pL^o'^xo yàp àuXwc '^à SCxaiov xò dcvxtTCSTtovO'òc dcXXcp ». (3) [\ 360. (4) Sopra alcuni frammenti delle XII tavole nelle loro relazioni con Eraclito e Pitagora, in Areh. giuria, voi. XXXV. 2, — 18 — misura della pena per l'ingiuria recata a un libero o ad uno schiavo (1). Ora i Pitagorici non pare che avessero fatta questa distinzione, se l'autore della Grande Morale combatte la dottrina pitagorica del taglione, come quella che non si può applicare incondizionatamente al servo o al libero, poiché di quanto quello cede a questo, di tanto, se gli abbia fatto ingiuria, deve accrescersi la pena cor- rispondente (2). E in verità siffatta distinzione era bensì impossibile nel sistema dei Pitagorici, per i quali il corpo era come il carcere dell'anima, che vaga in una perenne trasmigrazione, e il più alto precetto etico era l'imitazione degli dei per via della virtù, l'osservanza delle leggi e il rispetto verso tutti gli uomini; ma era invece possibilis- sima, anzi necessaria, nella legislazione di Roma, dove così netto era il distacco fra cittadini liberi e schiavi. 6. — Abbiamo anche veduto come a Cicerone paresse ispirato ai principii della filosofia pitagorica il poemetto di Appio Claudio Cieco, che, censore nel 312 e console nel 307 e nel 296 a. C, fu indubbiamente uno dei personaggi storici più importanti e, se non il primo, certo uno dei primi rappresentanti di una larga cultura. Orbene, che il giudizio di Cicerone non fosse errato parrebbero dimostrare a sufficienza i pochi frammenti che di quella poesia ci sono rimasti. E in verità la famosa sentenza «fahrum esse suae quemque fortunae » non potrebbe esprimere meglio il fon- damento della dottrina morale di Pitagora ; e l' altra, altis- (1) Si veda il fr. 3 della stessa tav. Vili ; « Manu fustive si os fregit libero CCC, [si] servo GL poenani subito ». (2) Magn. Mar. I, 34, 1194, a. 35: « xò Si^ TotoaTov o5x èaxt Tipòg &7iavxag* oò yàp laxi Stxaiov olxéx^ Tcpòg èXsud-spóv xaOxóv » etc- — 19 — sima, come dice il Pascoli (1), se fosse certa la lezione e r interpretazione : «amicum cum vides obliscere miserias; inimicus sies; commentus nec libens aeque [idem tamen teneto] »^ che il Pascoli stesso traduce: «tu dimentichi la tua miseria quando vedi un amico; ora sia tuo nemico "quello che tu vedi: ebbene, pensatamente, e non volen- tieri come con l'amico, tieni lo stesso contegno, tuttavia » , è pure strettamente conforme alla dottrina pitagorica, che insegnava amore e fratellanza ; il terzo infine « sui quem- que oportet animi coìnpotem esse semper nequid fraudis stuprique ferocia pariat » , non e certo disforme dalle pra- tiche e dagli esercizi spirituali degli adepti al Pitagorismo, che dovevano acquistare padronanza assoluta non pure del proprio corpo, ma anche delle proprie attività interiori, per dirigerle al bene. Non si apponeva dunque male Cicerone. Senonchè an- che intorno all'autenticità di questo antico poema, che sarebbe una delle prime manifestazioni letterarie di Roma, si sono sollevati dei dubbi. Il fatto che la notizia di esso era data da Panezio in una sua lettera a Quinto Tuberone ha indotto per esempio il Pais (2) a pensare che si tratti di una falsificazione posteriore, « da collegarsi con le altre falsità che andavano sotto il nome di Aristosseno intorno ai Romani scolari di Pitagora e su Pitagora cittadino di Roma » . Ma come è ciò possibile, se Aristosseno e Appio furono contemporanei? E se Appio visse, come è certo, nel tempo in cui furono sottomesse la Campania e la Lu- cania^ che ragione c'è per negare che egli abbia potuto conoscere quelle dottrine e da esse trarre ispirazione per (1) Lyra romana, Livorno, 1895, p. XXXII. (2) St. di Roma I, 2, p. 671 n. - 20 — il suo poemetto? E poi come dubitare con qualche fon- damento dell'autenticità dell'opera che un Panezio e un Cicerone, a distanza di tempo relativamente breve, attri- buirono ad Appio stesso, tanto più che il medesimo Pais riconosce che l'efficacia della filosofìa tarentina si esercitò sopra gli uomini di stato romani « dal tempo di Appio e di Pirro » ? L' ipotesi di una falsificazione, della quale poi non si vedrebbe neppur chiaramente la ragione, non ci sembra dunque per nulla fondata; sì che noi possiamo con chiudere che la dottrina del filosofo di Samo, in con- formità dei dati tradizionali, esercitò una qualche azione tanto sulla più antica civiltà di Koma, a partire dal sesto secolo a. C, quanto sui primi prodotti del pensiero e dell' arte. CAPITOLO SECONDO Quinto Ennio e i snoì tempi 1. Ennio e Catone. — 2. Ennio in Roma e il circolo degli Scipioni. — 3. Il sogno degli Annali. — 4. Sua importanza per la diffusione delle dottrine pitagoriche in Roma. — 5. L' «Epicharmus ». — 6. Ennio e il razionalismo. — 7. I libri di Numa. — 8. Culti Bacchici e sette orfiche in Italia nel principio del sec. II a. C. — 9. Stazio Cecilie e Marco Pacuvio. — 10. I comici. — 11. Caio Lucilio. 1. — Chi, più d'ogni altro, contribuì a diffondere in Roma la conoscenza delle dottrine di Pitagora fu senza dubbio il poeta Ennio (239-169 a. C), il grande padre della cul- tura e della letteratura romana. Nativo di Rudie, paese fortemente ellenizzato fra Brindisi e Taranto, egli aveva studiato in quest'ultima città, che era il centro italico, in cui si conservavano più pure le tradizioni pitagoriche. Versato nel greco, nell'osco e nel latino, egli diceva scher- zando di avere tre cuori (1). Nel 204 si trovò a militare in Sardegna fra gli ausiliari che Taranto aveva mandato (1) Gellio, N. a., XVIII, 17. — 22 — ai Romani, e quivi da Marco Porcio Catone, che era più giovane di lui di cinque anni, fu invitato a recarsi a Roma. Come si spiega tale invito ? Quali vincoli si stabilirono fra questi due giovani, destinati a sì grandi cose, che si incon- trarono fra gli orrori di una guerra di conquista? Furono vincoli di simpatia e di amicizia creati dalla comune gran- dezza d'animo e da comuni aspirazioni? si erano essi già conosciuti cinque anni prima, nel 209, quando Catone quindicenne fu in Taranto ospito del pitagorico Nearco ? (1). Questo mi sembra più probabile. D'altra parte la profonda scienza e il forte intelletto del Rudino dovettero certo colpire l'animo eletto e la mente aperta di Catone, che alle qualità pratiche del futuro uomo di stato univa le attitudini del poeta e dell'artista, del pensatore e del filo- sofo. In virtù della sua sapienza Ennio dovette apparire al nobile cittadino di Roma come assai atto a cantare le antiche gesta della città; ed è forse per questo che Ca- tone, ragionando con lui delle istorie primitive della patria e delle relazioni che essa ebbe con la Magna Grecia, dovette suggerirgli l'idea del poema, che quegli poi realmente scrisse, e per la composizione di esso ojffrirsi di agevolar- gli la conoscenza dei documenti e dei materiali storici e promettergli tutto il suo aiuto ; il quale, e per la condi- zione e per l'ingegno dell'offerente, non poteva non ap- parire ad Ennio prezioso e inestimabile. Al poeta d'altro lato, piena l'anima dell'antica sapienza della sua terra, di quella sapienza che nessuno in somnis vidit priu' quam sam discere coepit (2) (1) Plutarco, Gaio maior^ 4-5. — Cioeeone, Caio maior, 12, 39; 21, 78. (2) Annalee, VII. fr. 124 (Yalmagoi). — 23 — dovette balenare come in uno splendore radioso l'idea di illustrare col suo canto le antiche imprese di Roma e, al tempo stesso, di farsi banditore di una sapienza scono- sciuta alla città che forse il suo spirito veggente presagiva sarebbe stata nuova fucina di cultura e di sapere e maestra di nuova civiltà alle più lontane generazioni! 2. — Venuto in Roma, Ennio vi passò quasi per intero l'altra metà delia sua vita, dedicandosi totalmente agli studi e alla poesia e a diffondere fra la gioventìi colta della città l'amore del sapere. Egli chiamò intorno a sé, a formare un circolo di studiosi, i piti influenti e noti cittadini e da essi seppe farsi amare ed onorare per le cognizioni vaste e profonde, per la nobiltà dell'animo e l'integrità del carattere, per la modestia della vita e d6i costumi, per la dolcezza dei modi e del parlare. Ad ascol- tarlo accorsero fra gli altri Scipione Africano, Scipione Nasica,^ Aulo Postumio Albino (1), Marco e Quinto Fulvio Nobiliore, e con tali amicizie egli seppe vivere sempre poverissimo e pur sempre sereno, mostrando così con l'ef- ficacia dell'esempio, che le verità da lui insegnate e pra- ticate erano realmente le più atte a dare la felicità e la pace. Se vogliamo credere a Gelilo, il grammatico Lucio Elio Stilone soleva dire che Ennio fece il ritratto di sé medesimo nei seguenti versi degli Annali, che descrivono il vero amico: Haece locutus vocat, quocum bene saepe libenter mensam sermonesque suos rerumque suarum comiter inpartit, magnam cum lassus diei partem trivisset de summis rebus regundis (1) Fu « decemvir sacrorum » nel 173 a. C. (Livio, XLII, 10). — 24 — 275 Consilio indù foro lato sanctoque senatu ; quo res audacter magnas parvasque iocumque eloqueretur cuncta [simul] malaque et bona dictu evomeretj.si qui vellet, tutoque locaret; quocum multa volup [et] gaudia clamque palamque, 280 ingenium quoi nulla malum sententia suadet ut faceret facinus levis aut malus ; doctus, fidelis, suavis homo, facundus, suo contentus, beatus, scitus, secunda loquens in tempore, commodus, verbum paucum, multa tenens antiqua sepulta, vetustas 285 quem facit et mores veteresque novosque tenentem multorum veterum leges divomque hominumque, prudenter qui dieta loquive tacereve posset (1). In questo ritratto tu vedi l'immagine del vero sapiente pitagorico, che sa trattare le faccende pubbliche e raccor gliersi nella meditazione, che sa parlare con piacevolezza e con facondia e tacere a tempo opportuno, che non com- mette mai il male, neppure per leggerezza, fedele nell'a- micizia e servizievole^ contento del suo, felice, che infine sa molte cose profonde e recondite, ma le tiene ermeti- camente chiuse nel fondo della sua anima, per non darle in balìa di inetti, e le svela soltanto a chi si mostri atto ad intenderle. E anche possibile, come osserva acutamente il Pascal (2), che in questi versi Ennio abbia voluto altresì rappresen- tare i suoi rapporti col grande Scipione, del quale si po- trebbe dire assai piii convenientemente quello che Macro- bio scrisse dell'Emiliano, che cioè fosse « vir non minus (1) Gellio, N. a. XII, 47: « L. Aelium Stilonem dicere solitum ferunt, Q. Ennium de semet ipso haec scripsisse picturamque istam morum et ingenii ipsius Q. Enni factam esse ». I versi sono se- condo il testo dato dal Valmaggi (= vv. 294 ss. Mìjller = fr. 194 Baehrens). (2) Antologia latina, Milano, 1899, p. 16. — 25 — philosopMa quam virtute praecellens » (1); e l'ipotesi tanto pili è accettabile se pensiamo che Scipione fu forse il mi- gliore dei discepoli del poeta, il quale lo ebbe in tanta considerazione da comporre intorno a lui un poemetto — Scipio — e da fargli dire : A Sole exoriente supra Maeotis paludes nemo est qui factis me aequiperare queat. Si fas endo plagas caelestum ascendere cuiquam est, mi soli caeli maxima porta patet (2). E Cicerone stesso, appunto per la sua sapienza, oltre che per la fama delle sue imprese, non lo scelse come protagonista del Sogno famoso col quale terminava il De Repuhlicaf 3. — Di Ennio fu notissimo ai Romani il sogno col quale incominciavano gli Annales e di cui ci sono rimasti ap- pena alcuni frammenti (3) insieme con le testimonianze di Lucrezio, di Cicerone, di Orazio, di Persio e di altri (4). (1) In Somnium Seipionis^ I, 3. (2) Cicerone, Tuse. V, 49; Seneca, e/),, 108 e altri. Seneca poi, nell'ep. 86, dice, parlando appunto di Scipione: « animus eius in eaelum^ ex quo erat^ rediisse persuadeo rtiihi ». (3) Vedili in V. J. Vahlen Enn. poes. rei., Lipsiae, 2^ ediz. 1902, pp. 4-6; L. MuELLEE, Q. Enni carm. rei., Petrop. MDCCCLXXXV, pp. 3-5, e nei Frag. poet. rovn. coli. Baehrens, Lipsiae, 1886. Vedi anche le osservazioni del Mueller, Q. Ennius, Pietroburgo, 1884, p. 139 e seg. e lo studio del Valmaggi pubblicato nel Bollettino di filai, classica, III, 259 e seg. (4) Lucrezio, I, 112-126; Cicerone, Somn. Scip., I, 10; Aead, II, 16, 51; 27, 88; Orazio, Ep. II, 1, 52-54; Persio, prol. 2 sg., sai. VI, 10-11; Schol. in Pers. prol. 2; VI, 9; Sehol. Cruq. in Horat., Ep. Il, 1, 52; Frontone, ep. IV, 12, p. 74 Nab.; Sergio, ad Aen.^ II, 274, ecc. — 26 — Questo sogno che « levò grande rumore nel mondo ro- mano e di cui spesso si parlala, ora con serietà filosofica, ora per ischerzo, tanto che divenne quasi proverbiale » (1), doveva essere abbastanza lungo. Al poeta addormentato sarebbe apparso sul monte Parnasso (2) il fantasma pian- gente (3) di Omero a dargli lunghe spiegazioni intorno all'ordine dell'universo (4), alle trasmigrazioni di ogni ani- ma umana attraverso un proprio ciclo di vite (5) e alla sopravvivenza nelle caverne d'Acheronte di una forma intermedia fra l'anima e il corpo (6) e a ricordargli le mutazioni della propria anima, trasformatasi, dopo la morte del corpo, in un pavone (7) e rinata appunto in lui, il (1) A. Pasdera, Il sogno di Scipione^ Torino, Loescher, 1890, p. 4 nota. (2) Persio, Prol. 1 3 : « Nec fonte labra prolui eaballino Nee in bicipiti sommasse Parnasso Memim., ut repente sic poeta prodi- rem », e Schol. ad V. 21 « tangit Ennium^ qui dicit se vidisse sommando in Parnaso Homerum sibi dicent em quod eius anima in suo esset eorpore * . (3) La ragione di questo pianto non è detta. Era forse pianto di gioia per il momentaneo ritorno a contatto con un essere terreno ? (4) Lucrezio, I, 126 : « rerum naturam expandere dictis ». (5) Lucrezio, I, 113 : « an contra nascentibus insinuetur (ani- ma) » e 116 : « a?^ pecudes alias insinuet se ». (6) Lucrezio, 1, 120-123 : « Etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia Eìinius asternis exponit versibus eidem Quo ncque perma- neant aniìnae ncque corpora nostra, Sed quaedam simulacro modis palleniia miris » . (7) Persio, Sat. VI, 10 sg. : « Cor iubet hoc Enni, postquam destertuit esse Maeonides Quintus pavone ex pythagoreo ». Tertul- liano, de an., e. 33: « pavum se meminit Homerus Ennio som- mante » ; Hbid.^ e. 34: « perinde in pavo retunderetur Homerus, sieut in Pythagora Euphorbus » ; cfr. eiusd. de resurrectione^ I, G. 1, e AcRON, in carm. I, 28, 10; Persio, YI, 9, e schol. ; Lat- tanzio in Theb. Ili, 484. — 27 — discendente del re Messapo (1), il poeta rudino. Tale, press'a poco, il contenuto di questo sogno, notevolissimo non solo per l'esposizione delle dottrine filosofiche, ma altresì per l' accenno alle ti-asformazioni e incarnazioni dell' anima di Omero, e per 1' affermata parentela spiri- tuale dei due poeti. Che il pavone poi, importato, come sembra, nel secolo sesto a. C. dall' Oriente in Samo, la patria di Pitagora, avesse nella filosofia mistica di questo iniziato un'impor- tanza considerevole, è certo (2): e poiché era anche — per la colorazione delle penne - simbolo del cielo stel- lato, al quale salivano dopo ogni morte corporea le anime umane (onde l'espressione per me simbolica del fieri pa- vom usata da Ennio) (3), opportunamente fu scelto dal poeta e dalla tradizione che egli seguì, per accogliere l'a- nima di Omero, già ritenuto per samio, come Pitagora. 4. — Il fatto che il grande poema storico degli Annales, il quale ebbe da parte dei Romani un culto analogo a quello che noi tributiamo alla Divina Commedia, incomin- ciava con tale sogno, ebbe grande importanza per la dif- fusione e conoscenza del pensiero pitagorico in Roma ; poiché, appunto per lo studio che del poema si fece, fin (1) Servio, ad Aen. VII. 691 ; Silio Italico, XII, 393. (2) MuELLER, Q. Ennius^ p. 143 sg. Cfr. Hehn, Kulturpflanxen und Hausthiere, 2^ ediz., p. 309. (3) Dall'interpretazione letterale data a tale espressione o ad altre consimili nacque forse presso gli antichi — uno dei primi fu Seno- fane, contemporaneo di Pitagora, nei versi citati da Diogene Laer- zio (YIT, 36) i quali peraltro hanno un' intonazione scherzosa, se non satirica — l'opinione che Pitagora credesse nella metempsicosi anche animale. ~ 28 — dal secondo secolo a. C. nelle scuole di grammatica e di rettori ca (1) e per le pubbliche letture di esso, ancora in uso nelle città di provincia ai tempi d'Aulo Gelilo (2), si dovette necessariamente mantenere viva in Roma stessa e in Italia la conoscenza di quella parte della dottrina di Pitagora, che nel sogno si ricordava e che era poi una delle principali di detto sistema. Difatti sono assai fre- quenti nella letteratura posteriore — e noi le vedremo — le allusioni alla teoria della metempsicosi; la quale del resto fu forse introdotta in Roma anche per altro tramite, sia cioè per mezzo dei Misteri, nei quali si insegnavano appunto dottrine per molti rispetti somiglianti alle pita- goriche, sia per mezzo della filosofia platonica e stoica, che, secondo una tradizione abbastanza diffusa e anteriore air apparire del neo-pitagorismo, era derivata almeno in qualche parte fondamentale, dalle dottrine pitagoriche stesse. 5. — Se nel poema di Ennio vi fossero altri accenni alla filosofia pitagorica non ci è dato conoscere dagli scarsi e slegati frammenti che ce ne restano : ma non è impro- babile che, a proposito di Numa, fossero non solo notate incidentalmente, ma fors'anche illustrate con una certa ampiezza le somiglianze fra le sue leggi ed istituzioni e quelle del filosofo di Samo. In tal caso da Ennio per la prima volta sarebbe stata inserita in un'opera storica e letteraria latina la notizia desunta dalla tradizione orale an- teriore, che il gran re avesse avuto a maestro Pitagora (3). (1) SvETONio, de gramm. 2. (2) Noetes Attieae, XVI, 6, 1, e XVIII, 5. (3) MuELLBB, Q. Ennius^ p. 161 sg. — 29 — In altro scritto invece noi sappiamo con certezza che Ennio trattò ancora delle dottrine pitagoriche: e precisa- mente ìieìVUpicharmuSy un poemetto così intitolato dal nome del filosofo siciliano, che era tenuto per uno dei più valenti seguaci della scuola italica (1). Anche in questo lavoro poetico, il nostro scrittore finse un sogno: Nam videbar somniare med ego esse morluum (2j e che il poeta comico Epicarmo gli comunicasse, nelle regioni infernali, dottrine di filosofia naturale suU 'origine e sulla natura delle cose. Notevole, fra gli altri, è il verso nel quale si identifica il corpo alla terra e, secondo il noto simbolismo mistico, l'anima al fuoco: . . . terra corpus est, et mentis ignis est (3). Al qual proposito Yarrone, citando, un altro verso dello stesso Ennio, scriveva: « animalium semen ignis qui anima ac mens: qui caldor e caelo^ quod Mnc innumerahiles et immortales ignes. Itaque Epicharmus de mente umana dicit: istic est de sole sumptus isque totus mentis est (4). (1) Yahlen, 0. e, p. XCII-XCIII e cfr. L. Y. Schmidt, Quaest. epich. p. 53. Yedasi anche lo studio del Pascal, Le opere spurie di Epicarmo e l'Epieharmus di Ennio in Biv. di fìlol. e di istrux. classica^ a. XLYIl, f. P, genn. 1919 pagg. 66 sgg. (2) Cicerone, Aead. pr.^ II, 16, 51. (3) Prisciano, YII, p. 764 P. (I, p. 335 K.). Cfr. gli scolii al- l'Eneide, YI, 724-732. (4) De lingua latina^ Y, 39. Cfr. Mueller, op. cit., p. Ili sg. Sul pitagorismo del poeta v. a pag. 70. Un'altra sentenza pitago- rica è quella che ricorda Cicerone {de divin.^ II, 62, 127) a pro- posito dei sogni : « aliquot somnia vera^ inquit Ennius^ sed omnia noenum necesse est ». — 30 -™ 6. — Ma oltre che alle opere letterarie, le quali, come sì è detto, ebbero efficacia fino al secondo secolo dopo Cristo, Ennio rivolse l'attività dell' ingegno, trasfondendovi i tesori della sua sapienza, all'insegnamento orale; senza dire poi che l'esempio della sua vita intemerata spronò all' esercizio costante della virtù tutti quelli fra i nobili cittadini di Roma che accostandolo l'amarono. Egli si stu- diò di volgere le loro menti ad una libertà di pensiero e ad una concezione individuale delle cose, alla quale non erano certo avvezzi i Romani, educati sotto una disciplina ferrea. Abituando le loro intelligenze alle bellezze ed alle sottigliezze della cultura greca, insegnando in privato le dottrine di Pitagora, combattendo nel nome di Evemero le superstiziose credenze popolari, e deridendo i sacerdoti ignoranti, predicando infine che l'uomo ha da trovare in se stesso, nelle profondità dell'anima, il fondamento del proprio valore, della propria libertà e della propria feli- cità, diede impulso a una vera rivoluzione razionalistica nello spirito romano (1) : sì che fra quei valorosi soldati e pratici legislatori cominciò ad essere tenuta in conto la cultura, ad esercitarsi la libera attività del pensiero anche in fatto di fede, e a formarsi un'aristocrazia vera e legit- tima, fondata su ciò che l' uomo ha di più sostanziale e di proprio, cioè su l'intelligenza e sullo spirito. Non è improbabile che appunto per questo Catone, il quale, sopra tutto e innanzi tutto, vedeva l'interesse e il bene dello Stato, osteggiasse il movimento a cui aveva dato egli stesso involontario impulso e perseguitasse l'A- (1) GiussANi, Letterat. romana^ Milano, Yallardi, p. 90. Si veda anche su Ennio il saggio critico del Lenchantin De Gubernatis (To- rino, Bocca, 1915). - Bl - fricano (1); tanto che questi, avendo suscitato contro di sé molte ire violente e molte accuse politiche, si ritirò sde- gnosamente nella sua villa di Literno, nella Campania, dove morì nel 183 (2). 7. Proprio in questi anni, facendosi uno scavo, furono scoperti i famosi libri di Numa, i quali, per un caso assai strano, venivano molto opportunamente a confermare gli insegnamenti pitagorici di Ennio (3). La notizia della sco- perta risale, per quel che ci è noto, all'annalista Cassio Emina, il quale, secondo ci riferisce Plinio (4), narrava come un impiegato di nome Cneo Terenzio, facendo dei lavori in un suo podere sul Gianicolo, avesse scoperta e (1) V. Livio, XXXVIII, 54. (2) Sull'esilio e sulla morte di Scipione Africano Maggiore vedi C. Pascal, Fatti e leggende di Roma antica^ p. 85-96. f3) Si veda, intorno a questi libri, lo studio del Lasaulx, Ueber die Bueeher des Numa^ negli Atti dell' Accademia di Monaco del 1849. (4) Nat. Eist. XIII, 84 = Hist. Rom. rell. I, p. 106-107 Peter: « Cassius B.em,ina^ vetustissimus auctor annalium,^ quarto eorum, ^ibro prodidit^ Cn. Terentium, scribam agrum suum, in lanieulo repastinantem offendisse arcani in qua Numa qui Romae regna- vii situs fuisset. In eadem libros eìus repertos P. Cornelio L. f. Gethego^ M. Bebio Q. f. Pamphilo coss. ad quos a regno Numae colliguntur anni DXXXV, et hos fuisse a charta^ maiore etiam- num mir acuto quod tot infossi duraverunt annis. Quapropter in re tanta ipsius Heminae verba ponam; mirabantur alii quomodo ìlli libri durare potuissent^ ille ita rationem reddebat : « Lapidem fuisse quadratum cireiter in medio arde vinctum, candelis quoque versus. In eo lapide insuper libros inpositos fuisse., propterea ar- bitrarier tineas non tetigisse: in his libris scripta erant philoso- phiae Pythagoricae ; eosque combustos a Q. Petilio praetore quia philosophiae scripta essent ». — 32 — scavata la tomba del re Numa, che conteneva i libri di lui ; e, cosa di cui molti si meravigliarono, cotesti libri di carta s'erano perfettamente conservati ; ma, come spiegava lo stesso Terenzio, tale conservazione era dovuta al fatto che, essendo posti sopra una pietra quadrata che si trovò quasi nel mezzo della tomba, erano rimasti immuni dal- l'umidità, ed essendo spalmati di cedro, le tignole non li avevano rosi. I libri stessi poi contenevano scritti di filo- sofìa pitagorica, per la qual ragione furono poco dopo bruciati dal pretore Quinto Petillio. Lo stesso racconto fece pure l'annalista X. Calpurnio Pisone Censorio Fru- gì (1), secondo il quale però detti libri erano sette di di- ritto pontificio e altrettanti pitagorici. Quattordici erano pure, secondo 1' annalista C, Sempronio Tuditano (2) e contenenti i decreti di Numa. Secondo Valerio Anziate infine (3) essi erano invece ventiquattro, dodici pontificali scritti in latino e dodici di filosofia scritti in greco, e non si sarebbero trovati proprio nella tomba di Numa, ma in un'arca adiacente. Se il racconto è vario nei particolari, tuttavia questi (1) Plinio, /. e. = H. R. rell. I, p. 122-123, P. : « Hoc idem tradii 0. Piso censorius primo commentari or um,^ sed libros septem iuris pontifìcii totidemque Pythagoricos fuisse ». (2) Plinio l. e. = H. R. rell. I, p, 142-143 P : « Tuditanus decimo tertio Numae decretorum fuisse » . (3) Plinio /. e. : « libros XII fuisse ipse Varrò Humanarum antiquitatum septimo. Antias secundo libros fuisse XII potiti fi- cales latinos^ totidem graecos praecepta philosophiae continentes » . Cfr. Plutarco, Numa, 22 ; Livio, XL, 29, ^ =z H. R. rell. I, p. 240-241 P. Si noti però che il Peter crede (/. e. p. CC.) che Livio abbia citato per errore Valerio Anziate invece di Calpurnio Pisone. 33 ed altri autori (1) sono concordi nell'affermare sia la sco- perta dei libri, durante il consolato di P. Cornelio Cetego e di M. Bebio Panfilo (191 a. C), sia la loro pronta di- struzione per opera del pretore Petillio. Cosicché non è possibile dubitare che il fatto sia avvenuto. Senonchè la critica pili recente si è affrettata ad affermare che essi dovettero essere un'abile falsificazione di qualche scrittore, fanatico delle nuove idee pitagoriche, in quegli anni ap- punto diffuse in Roma dal grande Ennio, e accettate da Scipione Africano e da altri illustri cittadini. Ma ad una grossolana falsificazione fatta in quei tempi medesimi noi non vogliamo credere. Non ci racconta costantemente la tradizione pitagorica che base dell' insegnamento di questa dottrina era la segretezza e il mistero ? E proprio un pitagorico avrebbe divulgato le dottrine della sua scuola, in un'opera così voluminosa, ricorrendo a uno stratagemma così poco serio, ed anche così inutile, dal momento che già la tradizione ammetteva la filiazione degli istituti e delle leggi religiose di Numa dal Pitagorismo ? Ed è poi possi- bile che fra i senatori romani, i quali decretarono, su parere del pretore, l'abbruciamento dei libri così miracolosamente scoperti, non vi fosse alcuno in grado di comprendere una così grossolana mistificazione? Poiché non c'è dubbio che i libri furono bruciati con la convinzione che essi fossero realmente quelli del re sapiente (2), e perchè contenevano, (1) V. ancora le testimonianze di Yarrone, conservataci da S. A- gostino {De civ. dei^ YII, 34), di Livio (XL, 29, da cui ha desunto la sua narrazione Lattanzio, Inst. I, 22), di Valerio Massimo (I, 1, 12), di Festo (p. 173 M. = p. 182 Thewr.), di Plutarco {Numa, 22) e del de vir. ili. 3. (2) Livio osserva ohe questa convinzione derivò dall' opinione diffusa che Numa fosse stato discepolo di Pitagora, opinione che 8. 34 secondo la testimonianza di Varrone^ la spiegazione degli stituiti religiosi di Numa (cur quidque in sacris fuerlt institutum)^ fondati, come quelli di tutte le religioni, su ragioni fisiche e filosofiche e sopra una concezione parti- colare della natura. Ora, dice assai giustamente lo Chaignet (1), questa inter- pretazione razionale ed umana delle credenze e delle isti- tuzioni religiose, togliendo ad esse un' origine e un fon- damento sovrannaturale, avrebbe certo, divulgandosi, tolta ogni consistenza a quella religione « di stato » che, come tutte le religioni dogmatiche, si esauriva per i più nelle pratiche del culto (le « religiones » di cui parla Livio) esigendo, come condizione della propria esistenza, la fede cieca e l'ignoranza superstiziosa. E proprio a questo pen- sarono il pretore urbano e il Senato, che si affrettarono^ a far scomparire sul rogo i pericolosi libri, nei quali era filosoficamente provata ed attestata 1' origine del diritto pontificale romano, cardine e fondamento primo dello Stato, dall'occultismo pitagorico (2); se pure il motivo di tale di- struzione non fu quello stesso per il quale^ come abbiamo già veduto. Cicerone non volle troppo approfondire la ri- cerca e la dimostrazione dei rapporti fra il Pitagorismo e i piii antichi istituti di Roma. Stando al racconto di Plu- egli, certo per ragioni cronologiche, chiama un « mendacio » (XL, 29). (1) Pythag. et laphilos. pytkag.^ Parigi, Didier, 1874, v. I, p. 136. (2) È interessantissimo a questo proposito il passo di S. Ago- stino {De eivit. dei VII, 34), il quale spiega per quali ragioni « demoniache » Numa compose i suoi libri e poi li fece seppellire nella sua tomba, e il Senato li fece abbruciare. Né meno interes- sante è il capitolo seguente (35 j, in cui si parla delle arti « idro- mantiche » e delle evocazioni di Numa. ^ 35 — tarco, infine, questi libri erano stati scritti da Numa stesso e per ordine suo sepolti con lui; e ciò perchè, secondo la massima pitagorica, non era bene affidare la conser- vazione d'una dottrina segreta a caratteri senza vita, an- ziché alla sola memoria di quelli che ne erano degni. E, forse, per questa medesima ragione i Pitagorici romani non dovettero fare molta opposizione alla proposta di distruggere i libri stessi, gelosi come erano delle loro dottrine, allora, come sempre, facilmente suscettibili di scherno e di riso, se male interpretate o fraintese (1). 8. — Nel tempo in cui Ennio si adoperò così efficace- mente per introdurre in Roma l' antica sapienza della Magna Grecia, di qui si diffondevano per l' Italia e pe- netravano nella grande metropoli anche i culti bacchici e le sette orfiche, intimamente legate con le pitagoriche per gli stretti rapporti che vi erano fra le due dottrine segrete. Contro gli uni e le altre si pubblicarono senato- consulti (2) e si istituirono tribunali (quaestiones de Bac- chanalibus sacrisque noeturnis extra ordinem), che ne di- (1) Uno scrittore israelita del secolo XYII, il Sklden, nell'intro- duzione dell'opera De jure naturali et gentium iuxta diseìplìnam Hebraeorum stampata a Londra nel I6l0, volendo sostenere ch.e ogni sapienza viene dagli Ebrei o piuttosto dalla rivelazione tre volte rinnovata, di cui gli Ebrei erano i depositari, afferma invece che Numa Pompilio era in segreto un adoratore del vero Dio, che i libri da lui lasciati e scoperti solo parecchi secoli dopo la sua morte erano la giustificazione della sua fede e la glorificazione del Dio d' Israele, e che appunto per questo il Senato ne ordinò la distruzione, perchè racchiudevano la condanna della religione di Stato. (2) Nel 186 se ne pubblicò per tutta l'Italia uno (scoperto nel 1692 in Calabria) che ordinava, fra le altre cose: * Bacas vir ne- quis adiese velet eeivis romanus neve nominus latini » . — 36 -- mostrano la diffusione e la forza: e Livio ci riferisce il violento discorso che il pretore Lucio Postumio Tempsano pronunciò nell'anno 186 a. C. contro i seguaci dei mal- vagi culti forestieri : « contra pravìs et externis religio - nidus captas mentes » (1). E ben vero che queste asso- ciazioni misteriose — clandestinae conmrationes ^ come dice Livio (2) — e questi culti sempre perseguitati dall' orto- dossia romana venivano in parte dall' Etruria e dalla Cam- pania, ma le ricerche giudiziarie ne fecero scoprire diversi focolari nell'Apulia, in tutta l'Italia meridionale, e spe- cialmente a Taranto, che come si è già visto, era uno dei centri d'origine del Pitagorismo (3). Così delle tavolette d' oro, scoperte recentemente in tombe dell'Italia meridionale, presso l'antica Thiirium e che risalgono alcune al secolo lY e altre al principio del sec. Ili a. C. (4), ci conservano l'eco di versi orfici che sino ad ora non si conoscevano per altro che per una cita- zione di Proclo, neo-pitagorico del quinto secolo (5): « lo (1) Livio, XXXIX, 15. (2) XXXIX, 9, 18, 41 ; XL, 19. (3) Livio XXXIX, 41 : « L. Postumius praetor, cui Tarentum provincia evenerat^ reliquias Bacchanalium quaestionis cum omni exsecutus est cura » e XL, 19 : « L. Duronio praetori^ cui pro- vincia Apulia evenerat^ adiecta de Bacchanalibus quaestio est : cuius residua quaedam velut semina ex prioribus malis iam priore anno adparuerant ». (4) Cfr. Kaibel, Inscr, graecae Siciliae et Italiaè n. 638-642. Alcuni testi da lui omessi si trovano in Comparetti, Notixie degli scavi^ 1880, p. 155 e nel Journal of Hellenic Studies III, p. 114 sg. Cfr. anche Comparetti Laminette orfiche edite ed illustrate^ Fi- renze 19lO. (5) Framm. 224 Abel: «ótctcóte S'Sv^pcDTtog izpoXinx) ^àog "^sXCoio » quasi uguale al fr. n. 642, 1 : « àXX' Ó7ióxa|j, ^^ux^ KpaXin-Q cpàog — 37 — sono sfuggita al cerchio delle pene e delle tristezze (1) », grida in uno slancio di speranza l'anima che ha « subita tutta intera la pena delle sue azioni inique » e che ora « implorando il suo soccorso », s'avanza verso la regina dei luoghi sotterranei, la santa Persefone, e verso le altre divinità dell'Ade; essa si vanta di appartenere alla loro «razza felice», e domanda ad esse che la mandino ora nelle « dimore degl'innocenti » e attende da esse la pa- rola di salvezza : « Tu sarai dea e non piìi mortale ! » In questi brani poetici, dice il Gomperz, bisogna vedere redazioni diverse d'un testo comune piti antico. Parecchie altre tavole, che risalgono in parte alla stessa epoca, sono state trovate nelle stesse località ; altre sono state scoperte nell'isola di Creta (2) e datano dall'epoca romana poste- riore: tutte prescrivono all'anima la sua strada nel mondo sotterraneo (3). Ora è notevole il fatto che il cap. 125 del « Libro dei Morti » egiziano contiene una confessione ne- gativa dei peccati, che sembra 1' amplificazione di quello che le tre tavole di Turio condensavano in poche parole (4). In queste, come in quello, l'anima del defunto proclama con enfasi la sua « purezza » e solo su questa purezza YieXloio*. Il Kern (Aus der Anomia^ Berlino, 1890, p. 87} ha richiamato 1' attenzione su queste ed altre coincidenze. Y. anche H. DiELS, nella raccolta dedicata al Gomperz, Vienna, 1902, p. l sg. (1) Cioè alla serie delle rinascite e delle esistenze terrestri. Y. Gomperz, Les penseurs de la Qrèce^ Paris, Alcan, 1904, v, I, pag. 141 sg. (2) Y. JouBiN, Inscription crétoise relative à l'Orphisme, Bull. de corr. héll. XYII, 121-124. (3) Y. qualche parallelo buddico in Rhys Davids, Suddhism, p. 161. (4) Cfr. Maspéro, Bibl. Egyptol. II, 469 sg. e Brttgsoh, Steinin- schrift und Bibelwort. Y. anche Maspero, Hist. ancienne^ p. 191. — 38 — fonda la sua speranza in una felice immortalità. Se l' a- nima dell' Orfico pretende di avere espiato « le azioni inique » e quindi si sa liberata dalla sozzura che ne de- riva, l'anima dell' Egiziano enumera tutte le colpe che ha saputo evitare nel suo pellegrinaggio terrestre. Pochi fatti, dice il Gomperz, nella storia della religione e dei costu- mi sono tali da meravigliarci piii del contenuto di que- st'antica confessione, in cui si vedono accanto alle colpe rituali, e ai precetti di morale civile accolte da tutte le comunità incivilite, l'espressione d'un sentimento morale non comune e che ci può persino sorprendere per la sua squisita delicatezza: « Io non ho oppresso la vedova! Non ho allontanato il latte dalla bocca del lattante !... Non ho reso il povero più povero!... Non ho trattenuto, l'operaio ai suo lavoro più del tempo stabilito nel contratto !... Non sono stato negligente! Non sono stato fiacco!... Non ho messo lo schiavo in cattivo aspetto presso il suo padro- ne!... Non ho fatto versare lacrime a nessuno!.... » Ma la morale che scaturisce da questa confessione non si è contentata di proibire il male; ha anche prescritto degli atti di beneficenza positiva : « Dappertutto, grida il morto, ho sparso la gioia! Ho cibato chi aveva fame, dissetato chi aveva sete, vestito chi era nudo ! Ho dato una barca al viaggiatore in pericolo di arrivar tardi !» ET anima giusta, dopo aver subito iiyiumerevoli prove, arriva final- mente nel coro degli dei. « La mia impurità, grida piena di gioia, mi è tolta, e il peccato che mi stava addosso l'ho gettato. Giungo in questa regione degli eletti glo- riosi.... » « Yoi che mi state dinanzi^ aggiunge rivolta agli dei già nominati, tendetemi le braccia...., sono anch' io uno dei vostri ! » — 39 - Nessuna meraviglia quindi che gli scrittori del tempo di Ennio, quasi tutti venuti a Roma dal mezzogiorno, fossero più o meno imbevuti di così fatte dottrine. Di un grande poeta comico. Stazio Cecilio, morto nel 168, che fece parte del collegium poetarum dell'Aventino e abitò in Roma nella stessa casa con Ennio, ci restano troppo scarsi frammenti perchè possiamo dir nulla del contenuto morale e filosofico dell'opera sua. Certo però r intimità sua col poeta di Rudie dovette esercitare un qualche influsso sulla formazione del suo gusto e della sua arte. Con Ennio visse pure in Roma, sino alla più tarda età, frequentando anch'egli il circolo degli Scipioni, il nipote Marco Pacuvio, che, nato a Brindisi nel 220, si ritirò poi a Taranto dopo il 140 e vi mon novantenne. Che egli dipendesse spiritualmente da Ennio, ne fanno fede, oltre che l'esplicita dichiarazione di Pompilio : Pacvi diseipulus dieor ; porro is fuit Enni^ Emiius Musar um^ Pompilius clueor^ i due frammenti del suo Ghryses^ nel primo dei quali mostra la stessa libertà di spirito e di parola, rispetto ai falsi sacerdoti, che già abbiamo notata in Ennio: .... nam istis^ qui linguam avium intellegunt, plusque ex alieno iecorc sapiunt^ quam ex suo, magis audiendum quam ausoultandum eenseo (1) ; (1) pr. Cic. de div. I, 57, 181 ; il terzo verso anche pr. Nonio 246, 9. Si confrontino i versi di Ennio : « Sed superstitiosi vates impudentesque arioli, Aut inertes aut insani aut quibus egestas imperai, Qui sibi semitam non sapiunt^ alteri monstrant viam^ Quibus divitias pollicentur, ab eis draeumam ipsi petunt », e gli — 40 — e nel secondo esprime intorno all'etere un concetto affatto, pitagorico, che troveremo anche in Virgilio: v hoc vide^ circum supraque quod complexu continet terram.... solisque exortu capessit candorem, oecasu nigret, id quod nostri eaelum memorante Orai perhiheni àethera : quidquid est hoe^ omnia animai^ format^ alit\ auget^ creai, sepelit recipitque in sese omnia omniumque idem est pater, indidemque eadem aeque oriuntur de integro atque eodem occidunt. mater est terra; ea parit corpus^ animam aether adiugat (1). Istic est is lupiter' quem dìco^ quem Or acci vocant a'érem: qui ventus est et nuhes; Ì7nber postea, atque ex imhre frigus : ventus post fit, aer denuo, kaece propter luppiter sunt ista quae dico tibi, quia mortalis aeque turhas beluasque omnes iuvat. Il passo, dice il Pascal {Antol. latina^ Milano, 1899, p, 30 n.) era libera traduzione del Crisippo euripideo, del quale è rimasto il fr. 836 Nauck'; e trovò altro traduttore in Lucrezio II, 991-1005. Se il pensiero esposto da Euripide del Cielo o Giove nostro padre e della Terra madre risale al suo maestro Anassagora (500-430 circa), fu peraltro indubbiamente abbastanza comune fra i mistici. 10. — Questi versi ed alcuni altri (2), se sono per sé poca cosa, tuttavia, tenuto conto della scarsità dei frammenti superstiti di questi primi poeti di Roma, mostrano una certa continuità di pensiero, che non può sfuggire neppure ad un esame superficiale. Così, per lasciare in disparte i altri : « Qui sui quaestus causa fìctas suscitant sententias » e « Omnes dant consilium vànum atque ad voluptatem omnia ». (1) Congiunse così questi versi (citati in diversi luoghi da Var- HONE, Cicerone e Nonio) lo Scaligero. Questo concetto dell'aria poi ricorda i versi dell' Epickarmus di Ennio : (2) Y. per es. i fr. 46 e 52 del Pascal (p. 30 e 35). — 41 — versi di Accio, che ritornano sullo stesso concetto, e che si possono anche spiegare con la dipendenza dai tragici greci (1), nonché il suo concetto della virtìi (2), come non pensare alle dottrine pitagoriche — diretto o indiretto ne sia stato r influsso — , quando leggiamo sentenze come queste di Sesto Turpilio (morto nel 103 a. C), Tuna che ci afferma la felicità consistere nella limitazione dei de- siderii : Profecto ut quisque minimo contentus fuit^ ita fortunatam vitam vixit m,axime^ ut philosopki aiunt isti^ quibus quidvis sat est (3). e l'altra che così definisce la difficoltà del sapere : Ita est: verum haut facile est venire ilio uhi sita est sapientia. Spissum est iter: ajnsci haut possis nisi cum magna miseria? (i) E se i grammatici che ci hanno conservato i frammenti di questo poeta (200 versi appena), avessero badato piìi al pensiero che alla forma e quindi ci avessero dato una raccolta di sentenze, piuttosto che un catalogo di arcaismi (1) V. i fr. 60 e 61 del Pascal (p. 41) e le note. (2) Pascal (p. 42) : « . . . . nam si a me regnum Fortuna atque opes Eripere quivit^ at virtutem non quìit » e « Scin ut quem- eumque tribuit fortuna ordinem^ Numquam ulta humilitas inge- nium infirmai bonum ? » (3) pr. Pbisciano III, 425 Keil. Il Pascal (p. 67) sl pkilosophi... isti annota : « i Cinici ? » Io credo piuttosto che qui il poeta, imi- tatore di Monandro, abbia alluso ai Pitagorici, dei quaU sappiamo quanto si siano burlati i comici ateniesi della commedia di mezzo, di cui Gellio {N. a. IV, il) potè scrivere: mediae comoediae pro- prium argumentum fuit Fythagoreorum exagitatio ». (4) pr. Nonio 392, 26 (Pascal, p. 67). Si notilo spissum.. iter., che forse può intendersi in senso proprio, non traslato. — 42 — e di idiotismi, potremmo forse citare altri passi ugual- mente notevoli e significativi. Così veramente notevoli sono le sentenze di comici ignoti citate dal Pascal (1), che certo non sarebbero fuor di luogo nei carmina aurea pitagorici e che riprendono motivi etici, già da noi accennati, proprii tanto del Pita- gorismo quanto di altri sistemi posteriori: 1. Sui quique mores fingunt fortunam hominihus, (2) 2. Non est beatus^ esse se qui non putat. (3) 3. Is minimo egei mortalis, qui minimum cupit. 4. Quod vult habet^ qui velie quod satis est potest. (4) 5. In nullum avarus bonus est^ in se pessimus. (5). 6. Ab alio expectes alteri quod feceris. (6) 7. Beneficia in volgus eum largiri institueris perdenda sunt multa^ ut semel ponas bene. (7) 8. .... quid ? tu non intellegis tantum te adimere gratiae quantum morae adicis ? (S) (1) pag. 68 sg. (2) pr. Cic, Farad. 5, 35, che lo riferisce ad un sapiens poeta; esso ricorda la sentenza di A. Claudio su citata. Secondo alcuni si tratterebbe di un altro verso, che il Lachmann ricompone così : suis fingitur fortuna cuique moribus. V. anche pr. Nepote, Vita Att. Il, 6 ed altri, di cui il Ribbeck, Gom. Fragm.^ p. 147. (3) pr, Seneca, epist. 9, 21. Che la felicità e 1' infelicità, come dice questa sentenza, siano proiezioni subbiettive dello spirito o non l'effetto di cause esterne, è verità che i Pitagorici affermarono ripe- tutamente Cfr. PuBL. Siro I, 56, Q, 7 Meyer. (4) Questa e la precedente pr. Seneca, epist. 108, 11. Cfr. la prima sentenza di Turpilio su citata. (5) pr. Seneca, ejìist. 108, 9. (6) pr. Lattanzio, div. inst. I, 16, lO. Cfr. pr. Lampeid. Alex. Sever. 51 : « quod tibi fieri non vis., alteri ne feceris » e nei Garm. epigr. lat. 192, 3 Buecheler: «^ab alio speres, alteri quod feceris». (7) pr. Seneca, de benef. I, 2 ; cfr. Ennio pr. Cic. de off. 18, 62: « benef acta male locata malefacta arbitror » . (8) pr. Seneca, de benef. II, 5, 2. — 43 — Così pare degni di nota sono i seguenti frammenti: 1. Felicitas est quam voeant sapientiam. (1) 2. Tutare amici eausam, potis es, suscipe. Obicitur erimen eapitis^ purga fortiter. In amici causa es, imm,o certe potior es. {2} 3. Iniuriarum remedium, est oblivio. (3) Ma queste sono quisquilie, che, se pur dimostrano una certa diffusione del pensiero pitagorico in Roma, non pos- sono tuttavia essere prese per se come indizi di una vera e propria tradizione locale. Poiché per le dipendenze della poesia e della letteratura latina dalla greca è da credere che anche gli accenni, spesso accidentali, a quelle dottrine filosofiche, fossero presi di sana pianta dalle opere che gli scrittori latini, massime i comici, o imitavano o traduce- vano. Il fatto tuttavia di trovarli frequenti anche in opere prettamente romane dimostra che le dottrine stesse ave- vano un contenuto ideale — morale specialmente — con- sono allo spirito e ai bisogni del popolo romano, il quale, sopra ogni cosa, ebbe un profondo senso del giusto, che poi attuò nel suo mirabile sistema di leggi. 11. — Infine, anche dalle poesie satiriche di Caio Lucn.10 (180-103 a. C.) noi potremmo certo aver notizia del Pita- gorismo, quale egli potè osservarlo praticato e seguito in Roma al tempo suo, se ci restassero, dei suoi trenta libri di satire, i libri XXVIII e XXIX, nei quali pare che si occupasse principalmente di mettere in parodia e in deri- sione, ed anche di sottoporre a critica seria, sì pel conte- (1) QuiNTiL. YI, 3, 97. (2) Charis. V, p. 253 P. (3) Seneca, epist.^ 94, 28. — 44 — . nuto che per la forma, i filosofi, le loro opere e i loro sistemi. Ma disgraziatamente anche di questo poeta poco o nulla ci resta. Anch'egli, bensì, come Ennio, ebbe mente libera dai pregiudizi volgari : Ut pueri infantes credunt signa omnia ahena vivere et esse homines^ sic ist soinnia fèda vera putant^ credunt signis cor inesse in ahenis (1) sono versi del 1. XV delle Satire. E un altro bellissimo frammento, forse del libro IV, ci dimostra quanto alto e nobile fosse il concetto ch'egli ebbe della virtìi: Virtus, Albine, est pretium persolvere rerum quis in versatnm\ quis vivimus rebus potesse, virtus est homini seire id quod quaeque valet res ; virtus seire homini rectum^ utile quid sit^ honestum^ quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum ; virtus^ quaerendae fène^n rei seire modumque ; virtus^ divitiis pretium persolvere posse ; virtus^' id dare^ quod re ipsa debètur honori ; hostem esse atque inimicum hominum morumque malo rum, contra defensorem hominum morumque bonorum, magnifècare hos, his bene velle^ his vivere amicum ; commoda praeterea patriai prima putare^ deinde parentum^ tertia iam postremaque nostra. (1) (1) fr. 354 del Bàhrens = Latta.nzto. I, 22, 13. (1) fr. 119 del Bàhr. ■= Latt. VI, 5, 2. CAPITOLO TERZO Sette e scuole pitagoricbe in Roma nel I secolo a. C. 1. I Qenethliaei. — 2. P. Nigìdio Figulo e la sua scuola segreta. 3. La scuola dei Sestii. 1. — Da Sant'Agostino (1) ci è stato conservato, del- l'opera Yarroniana De gente populi romani^ un passo per noi importantissimo: « Genethliaci quidam scripserunt esse in renascendis Jiominibus quam appellant TraXtyysveatav Graeci ; hanc scripserunt confici in annis numero CDXL^ ut idem corpus et eadem anima j quae fuerint coniuncta in cor por e aliquando, eadem rursus redeant in coniun- etionem » . Chi erano mai questi scrittori, i quali credevano nella risurrezione dell'anima e della carne e ne fissavano persino il compimento nello spazio di quattrocento e qua- ranta anni? Essi erano studiosi di discipline magiche ed astrologiche, a cui si davano anche i nomi di magi^ di caldei e di matematici. Abbastanza numerosi in Roma nel II e I secolo a. C, col decadere dei culti ufficiali e l'in- (l) De civitaie dei, XXII, 28. - 46 — filtrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dal- l'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello stato. Poiché, come dice il Pascal in un suo geniale e interessante studio (1), svolgendo in particolare la dottrina della resurrezione dei morti (filiazione diretta della metem- psicosi pitagorica) la fecero entrare in un sistema di loro particolari teorie, la congiunsero con predizioni contenute nei sacri oracoli della Sibilla, e presunsero anche di co- noscere dall'osservazione delle stelle il corso degli eventi umani. Essi non partivano, come gli aruspici e gl'indovini, dal concetto che gli dei manifestassero la volontà loro per mezzo di segni particolari, ma dal concetto, razionalmente svolto, « che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da rapporti immutabili nell'universo e che quindi, all'apparire di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente se- guire l'avverarsi di determinati eventi umani » . Era dunque, aggiunge il Pascal, « un tentativo di giustificazione scien- tifica, tratta dal fondo della dottrina pitagorica e platonica, della credenza popolare che la vita di ciascun uomo fosse regolata dall' astro che lo aveva visto nascere » . Strani davvero questi scienziati-filosofi che si sforzano di ribadire con argomenti razionali e di ridurre a ragioni scientifiche le superstiziose credenze del volgo! e che riescono tanto bene nel loro proposito da far sentire a Favorino (li sec. d. C.) il bisogno di abbattere con una confutazione siste- matica il loro edifizio logico (2), ancora saldo sulle sue basi (1) La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Atene e Roma del marzo 1901 e in Fatti e leggende di Roma antica, Fi- renze, 1903 pp. 186 e segg. (2) AULO Gellio, Noet. Att. XVI, 1, riporta quasi testualmente il discorso di Favorino. — 47 — a più di due secoli di distanza! Io in verità non posso acconsentire col Pascal che quest'idea di un ciclo mon- dano computato a quattro secoli di 110 anni ciascuno venisse ai Genetliaci dalla tradizione popolare: gli argo- menti che il Pascal porta a sostegno della sua affermazione mi inducono piuttosto a credere il contrario^ e cioè che l'idea stessa fosse comune alla filosofia mistica greco- italico-romana (1) e da, questa passasse poi al volgo per mezzo dei responsi sibillini (2) e dei poeti che l'accolsero e la diffusero per il popolo (3). Di più, un'altra credenza notevolissima fu propria e del Sibillismo e dei Genetliaci : la credenza cioè che ultimo dio del ciclo mondano dovesse essere il Sole od Apollo (4) che avrebbe bruciato l'uni- verso e riportata l'età dell'oro, con gli antichi uomini rinnovati alla vita; quell'Apollo che pure Orazio (Carm. I, 2) invocò perchè venisse a redimere l'umanità dal peccato : Tandem venias^ precamur^ ISube candentes umeros amictus Augur Apollo. (1) Così Cicerone ci parla nel De divin. II, 46, 97 di un' altra scuola di astrologi per la quale 1' estensione di tempo era molto maggiore, e cioè di 470000 anni ! (2) pr. Probo a Yirg. Ed. IV, 4 : « La Sibilla cumana ha pre- detto che dopo quattro secoli sarebbe avvenuta la palingenesi ». (3) Orazio, I, 2, v. 29 e sg. ; Virgilio, Ed. IV, lO ; Aen. VI, 748-751; Ovidio, Melavi. I, 89 sgg.; Persio, Sat. V, 47 sg. (4) Servio nel commento al v. 10 della IV ecl. di Virgilio riporta il seguente passo del quarto libro de diis di P. Nigidio Figulo : « Quidam deos et eoì'um genera temporibus et aetatibus fdistin- guunt)., inter quos et Orpheus; prim,um, regnum, Saturni^ deinde lovis^ tum Neptuni^ inde Plutonis ; nonnuUi etiam^ ut magi, aiunt Apollinis fore regnum,, in quo videndum est., ne ardorem sive illa ecpyrosis adpellanda est., dieant » . Vedasi anche il Lobeck, Aglao- phamus^ pag. 791 sgg. — 4:« — - La rigenerazione degli uomini e la conflagrazione del- l'universo per virtù di Apollo — conflagrazione probabil- mente simbolica e che tuttavia potè essere aspettata da alcuno come reale ed effettiva (1) — furono dunque due concetti paralleli ed uniti anche nel dogma pagano, e più precisamente in quelle dottrine mistiche, nelle quali sap- piamo quanta parte e che profonda significazione avesse il mito apollineo e solare, E come può tutto questo essere stato creazione popolare? Veramente forse un po' troppo, e non solo in fatto di mitologia e di credenze, si vuole attribuire al popolo, a questo essere impersonale, così im- maginoso e così balordo, così ricco di fantasia e così cre- denzone! Non è assai più verosimile pensare a una genesi più elevata e razionale, a una creazione veramente intel- lettuale e filosofica, che, passando dai dotti agli indotti, dai sapienti agi' ignoranti,, si materializza e degenera dal- l'essenza primitiva, o, meglio ancora, acquista con moto parallelo e continuo, nuovi aspetti e nuove significazioni realistiche e concrete? In ogni modo siamo così arrivati alle più grossolane deformazioni che il pensiero pitagorico dovette subire in Koma, uscendo dal segreto sacrario delle scuole dei saggi e mescolandosi, in mezzo al popolo, a credenze d'altra derivazione. Non è quindi meraviglia che siffatte credenze, aberrazioni d'un pensiero originariamente profondo, fossero, come vedremo più innanzi; oggetto di riso nel teatro po- polare, e d'altra parte si spiega assai bene come i seguaci del Pitagorismo dell'antica maniera, per sottrarre le loro (1) Y. il passo dei Garm. Sih.JN^ 175 sgg., forso dell'Sl od 82 d. C, citato dal Pascal e che questi crede composto da qualche terapeuta od esseno. — 49 -- dottrine al ridicolo cui venivano esposte nei loro contatti col popolo, sentissero il bisogno di raccogliersi nuovamente in segreto, nel silenzio delle loro case e delle loro scuole, per meditare, lontano dal profanum vulgus, V antica sa- pienza loro tramandata attraverso tante generazioni. 2. — Chi sopra ogni altro si curò di far rivivere la filo- sofìa di Pitagora, che, in un certo senso, poteva dirsi ormai estinta come complesso di teorie e d'insegnamenti pratici ben distinti da quelli di altre scuole, fu un grande sapiente, del quale in verità ben poco sappiamo, contemporaneo e amicissimo di Cicerone. Il quale appunto nel proemio del Timaeus seu de Universo lasciò scritto parlando di P. Nigidio Figulo: « Fuit vir ille cum ceteris artihus, quae « quidem dignae libero essente ornatus omnibus^ tum acer « investigator et diUgens earum rerum quae a natura invo- « lutae videntur » . E poi continuava: « Deniqiie sic ludico « post illos nobiles Pythagoreos^ quorum disciplina exstincta « est quodam modo^ ìiunc extitisse qui illam renovaret » . Nato forse verso il 105, già senatore nel 63, pretoro nel 59, legato in Asia nel 52 (1), e infine esiliato da C. Griulio Cesare, forse non soltanto, come ora vedremo, per aver seguita la causa di Pompeo, morì in esilio nel 45 (2). (1) Cicerone nel Timeo ir. 1, t. Vili p. 131 Bait. ci dà notizia di questa sua legazione con le parole : « qui (Nigidius), eum. me in Gilieiatn profieiscentem Ephesi expectavisset, Romam, ex lega- tìone ipse decedens etc. ». (2) SvETONio fr. 85 = Hieron. ad Euseb. ckron. olimp. 183,4 = 45 a. C. : « Nigidius Figulus Pythagoricus et magus in exsilio m^o- ritur ». Si noti che ancora una volta vediamo qui congiunti, come nella tradizione che si riferisce a Numa e come, del resto, sempre, il Pitagorismo e la magia. S. Agostino (De civ. dei V, 3) parlando di Nigidio, lo chiama « mathematicus ». 4. — 50 -— Per il suo sapere fu giudicato secondo ai solo Yarrone, e benché non ci restino che pochi e scuciti frammenti dei suoi scritti (1), pure sappiamo che egli scrisse molto e con profondità di ricerche « che arrivava fino all'astruse- ria », come dice il Giussani (2), cioè oltrepassava quel limite al di là del quale gli equilibrati uomini comuni non ve- dono che nebbie e fantasmi, immaginazioni e utopie. Sam- MONico, come ci riferisce Macrobio (II, 12) lo disse « maxi mus rerum naturaUum indagator », e lo stesso Macrobio [Sat. YI, 8) lo dice « ìiomo omnium bonàrum artlum di- scipUnis egregius » , e così pure Cicerone, come s'è visto, lo giudicò acuto e diligente studioso dei più involuti feno- meni naturali, e precisamente di quelle ricerche e di quegli studi, che furono la cura di pochi solitari d' ogni tempo, quasi sempre, forse a torto, misconosciuti dai più. Sant'A- GOSTUso lo disse * matematico ' e Svetonio ' pitagorico e mago '. Ora, che Nigidio fosse, o almeno tosse ritenuto mago, dimostrano anche altre testimonianze e dello stesso SvETONio e di Apuleio e di Dione Cassio. Il primo racconta come cosa nota a tutti che il giorno in cui Ottaviano nac- que, discutendosi in Senato intorno alla congiura di Cati- lina, ed Ottavio, per causa appunto della moglie partoriente, essendo arrivato un po' in ritardo, Publio Mgidio, cono- sciuta la causa dell'indugio e l'ora precisa del parto, affermò che era nato uno che sarebbe stato signore di tutta la ter- ra (3). Una predizione, dunque, dovuta, secondo il racconto (1) Cfr. NiGiDii FiGULi operum reliquiae collegit A. Swoboda, 1889. (2) Storia della Ietterai, romana^ Vallardi, 1902, p. 230. (3) SvETON., Aug. 94: a quo natus est die, cuni de Catilinae co- niuratione ageretur iti Curia et Octavius ab uxDris puerperium serius adfuisset, nota ac vulgata est res P. Nigidium comperta — si- che di essa fa, con qualche leggera variante, Dionb Cassio (1. XLY, cap. T), alle elucubrazioni astrologiche di Nigi- dio. Apuleio a sua volta (1) riferisce di aver letto in Varrone che un certo Fabio, avendo smarrito una forte somma di denaro, andò da Nìgidio per consultarlo e questi, per mezzo di fanciulli eccitati (instinctosj con sortilegi ed incantesimi (Carmine)^ ossia, coma oggi si direbbe, ipno- tizzati con parole o formule magiche, gli seppe dire dov'era stata sepolta la borsa con una parte delle monete, che le altre erano state distribuite, e che una ne aveva anche il filosofo Catone; ciò che fu pienamente confermato dai fatti. E dove mai aveva acquistate il nostro filosofo siffatte conoscenze magiche ed astrologiche? Forse durante un viaggio in oriente, fatto in gioventìi ? Non sappiamo, seb- bene d'altro lato sappiamo che appunto in oriente o nella Grecia imparò che la terra si muove con la velocità della ruota di un vasaio (2). morae causa, ut horam quoque partus acceperit, adflrmasse domù num terrarum orbi natum ». (1) De magia 42, p. 53, 9 Krueg. « Mernini me ajìud Varro- nem philosophum, virum accuratissime doctum atque eruditum, eum alia eiusm,odi, tum, hoc etiam, legere... item,que Fabium,^ cum quingenios denarium perdidisset^ ad Nigidium consultum, venisse; ab eo pueros cannine instinctos indicavisse^ ubi locorum defossa esset crumena cum, parte eorum, celeri ut forent distribuii^ unum etiam denarium^ ex eo numero habere Catonem philosophum^ quem se a pedissequo in stipem Apollinis accepisse Caio confessus est ». (2) Ciò si desume da una nota del Gommentum a Lucano (I, 639), dove è detto che Nigidio ebbe il soprannome di Figulo perchè « re- gressus a Oraecia dixii se didicisse orbem ad celeritaiem rotae fi.guli torqueri »• Del soprannome altri davano una ragione un po' diversa, in rapporto con la famosa obiezione dei due gemelli così spesso fatta agli astrologi e di cui fanno ricordo, fra gli altri, lo - 52 "-> Quanto alle opere di Nigidio, del quale sappiamo ancora che usava una dieta assai parca (1), possiamo dire che furono molte e di varia natura: egli scrisse di filosofia, di astrologia e anche di filologia (2). Di lui si ricorda un'opera intorno agli dei in almeno XIX libri, nel quarto dei quali, per esempio, trattava dei vari regni ed età degli dei, secondo Orfeo e i Magi, e nel sesto e nel decimo accennava alla teoria etrusca delle quattro specie di dei penati : quelli di Giove, quelli di Nettuno, quelli degl'In- feri e quelli degli uomini (3), cioè, probabilmente, gli spi- riti celesti, acquatici, terrestri (gli elementari dell' oc- cultismo medievale) ed umani. Perchè di quest'opera ci restino così pochi frammenti, appena dieci, lo dice il gram- matico Sp:rvio in una nota slU.^ Eneide (X, 175): <i^ N'igidius solus est post Varronem ; licet Varrò praecellat in theo- logia^ Me in eommunihus litteriSy nam uterque utrumque scripserunt » . La luce di Varrone dunque oscurò quella di Nìgidio, i cui libri intorno agli dei erano letti soltanto, come dice lo Swoboda (4), dagli investigatori della dottrina stoico Diogene presso Cicerone (De divinai. II, 43, 90), Gellio, N. A. XIV, 1, 26, lo PsEUDO Quintiliano {Deelam. Vili, 12) e S. Agostino 1. e. (1) IsiDOR., Origin. XX, 2, 10: Nigìdius : nos ìpsi ieiunìa ien- taeulis levibus solvimus. (2) Egli sostenne, come ci attesta Gellio N. J.., X, 4, ohe il linguaggio è d'origine naturale e non convenzionale. (3) Arnob. adv. nat. Ili, 40, p. 138, 5 seg. Reiff : « idem (Ni- gidius) rursus in libro VI exponit et X, disciplinas etruseas se* quens, genera esse Penatium quattuor et esse lovis ex his alios^ alios Neptuni.^ inferorutn tertios, mortalium hominum quartos., inexplicable nescio quid dieens » . (4) P. NiGiDU FiGULi operum reliquiae coli, emend. enarr. quae- stiones nigidianas praemisit Ant, Swoboda, Vindob., 1889, p. 25, — 53 — più recondita, come, ad esempio, quel Cornelio Labeone, uomo assai dotto, che visse nel terzo secolo d. C. (1). Di Nigidio sono ricordati anche tre scritti intorno alla divi- nazione per mezzo delle viscere (2) e intorno ai sogni (3), una Sphaera graecanica (4) e una Sphaera barbarica (5), un libro intorno agli animali ed altri, interamente o quasi interamente perduti. Un'altra causa di questa perdita è spiegata in parte da Gellio (N. a. XIX, 14, 8) il quale ci fa sapere precisa- mente che mentre le opere di Varrone erano lette e co- nosciute da tutti « Nigidianae commentationes non proinde in vulgus exibant et obscuritas subUlitasque earum tam- quam parum utilis derelicta est » . Dunque gli scritti di Nigidio avevano un carattere piuttosto riservato e segreto, erano poco intellegibili ai piìi per la loro sottigliezza. E che significa cotesta oscurità e sottigliezza che è poi ab- bandonata perchè poco utile? e da chi fu abbandonata? dai lettori o dagli scrittori in genere o dai cultori di quelle stesse dottrine filosofiche ? Se noi pensiamo alla diffusione delle conoscenze pitagoriche, sempre maggiore dal tempo della morte di Figulo a quello in cui Gellio scriveva (se- colo II d. C.) e all'infinito numero di profezie, di predi- zioni, di oracoli che sempre piìi chiaramente annunziavano l'avvento di un'età nuova e di uomini migliori ; se pen- siamo che fu questa appunto l'età nella quale, pochi de- (1) Si veda, intorno a lui, Kettner, Cornelius Labeo, Progr. Port, dell'anno 1877. (2) Gellio, N. A. XVI, 6, 12. (3) Giov. LoR. Lido, de ostentìs e. 45 p. 95, 14 — 96, 3 Wachsm. (4) Serv. ad Georg. I, 43 e I, 2l8. (5) Serv. ad Qeory. I, 19. 54 cenni dopo il Cristo apparso in oriente a dare la nuova parola divina agli uomini, in Roma fece la sua apparizione la strana figura di Apollonio di Tjana, il Pitagora redi- vivo, che ebbe immagini e culto divino da parte degl'im- peratori, non può esservi alcun dubbio : se Figulo fu costretto ad insegnare in segreto e a pochi fedeli amici le conoscenze che aveva, avvolgendole in oscure sottigliezze nei suoi scritti (e, non ostante tale precauzione, ebbe molte noie) ; se lo stesso dovettero fare, dopo di lui, come or ora vedremo, i Sestii, che furono ugualmente perseguitati; le vecchie dottrine di Pitagora andarono tuttavia sempre più diffondendosi, sì che fu permessa via via maggior libertà di parola e d'azione ai loro seguaci, che poterono final- mente abbandonare in gran parte la segretezza e il mi- stero in cui si chiudevano e il simbolismo oscuro di cui si servivano prima. Lucano nella sua Farsaglia (I, 639 seg.) riferisce una oscura predizione di Nigidio, che^ com'egli dice, si studiò di conoscere gli dei e i segreti del cielo e in queste co- noscenze astrologiche fu superiore ai sapienti dell'Egizia Menfi : At Figulus, cui cura deos secret ac/ue caeli nosse fuit^ quem non stellarum Aegyptia Memphis acquar et visu numerisque moventibus astra^ aut hic errata ait, ulla sine lege per aevum mundus et incerto discurrunt sidera motu : aut, si fata 7novent, orbi generique paratur humano matura -lues Egli predisse dunque alla terra e agli uomini un vicino flagello, proprio come, prima di lui, avevano fatto e con lui facevano i Genetliaci. Ora, dobbiamo noi veramente pensare, a proposito di siffatte predizioni, che si tratti di — 55 — semplici manifestazioni sentimentali del desiderio di tempi migliori? Certo le condizioni dei cittadini romani e del mondo, su cui l'aquila di Roma andava stendendo e allar- gando sempre più le sue ali insanguinate, erano assai tristi; ma d'altra parte le predizioni sono troppe e troppo precise talvolta e troppo vicine alla manifestazione del Cristiane- simo, per non dover pensare a qualche relazione, misteriosa senza dubbio e in parte inesplicabile, ma pure innegabil- mente certa. Comunque sic^, poiché, secondo le parole surriferite di Cicerone, con Nigidio Figulo si iniziò in Roma un vero e proprio risveglio delle dottrine pitagoriche, vediamo ora in qual guisa egli tentasse questo rinnovamento dell'an- tica disciplina italica. Noi possiamo desumerlo da altre testimonianze, le quali non solamente accennano a una vera e propria scuola, a un sodaliciumy a una factiOy ma vi accennano in modo, che possiamo anche comprendere quale fine il sodalizio stesso abbia avuto, o almeno in quale considerazione fosse tenuto da chi, forse troppo tenero e non disinteressato amico del nuovo ordine di cose creato in Roma dal trionfo di Cesare, accoglieva, senza approfondirle uè vagliarle trop- po, accuse vaghe e imprecise formulate contro i fautori dell'antico regime repubblicano. Si leggono infatti negli scolii bobbiensi all'orazione di Cicerone contro Vatinio (1) queste notevolissime notizie : « Fuit autem illis temporibus « Wigidius quidam^ vir doctrina et eruditione studiorum « praestantissimus, ad quem plurimi conveiiiebant. Haec « ab obtrectatoribus velati factio ininus probabili s iacti- « tabatnr, qaamvis ipsi Pythagorae sectatores existimari (1) V. tomo V, part. 2, p. 317 delI'Orelli. 56 «vellent», e altrove (1) si dice di un tale che € ablit « in sodalicium sacrile^ii Nigidiani » . In casa sua dunqae Nigidio radunava molte persone, che vi si iniziavano ai misteri della filosofia pitagorica e forse anche vi si dedi- cavano a pratiche mistiche, come ci persuade la ciarlata- neria di quel Yatinio, che, volendo farsi credere pitagorico e dottissimo, faceva evocazioni di morti e si abbandonava a nefandità d'ogni genere (2). E questi convegni finirono col suscitar dicerie, maldicenze, sospetti, calunnie, e vi furono degli ohtrectatoreSy i quali andavano sussurrando qua e là che quella era una setta riprovevole e sacrilega; le quali calunnie, credute tanto più facilmente quanto mi- nore era il numero degli onesti in quei tempi così torbidi, furono forse un ottimo pretesto per legittimare l'allonta- namento da Roma e l'esilio di un uomo d'antica tempra repubblicana. Che poi il tentativo di Nigidio avesse un carattere anche politico e che egli vagheggiasse, nella rico- stituzione del sodalizio pitagorico e quindi nella eguaglianza sociale e nella comunanza dei beni, il sogno della nuova felicità umana, è cosa più che probabile, ma non certis- sima (3). E così il sapientissimo mago, il maestro pitago- (1) PsEUD. CicER. in Sali. resp. 5, 14. (2) « Tu qui te Pythagoriaum soles dieere et hominis doctissitni nomen tuis immanibus et barbar is moribus praetendere.... cum inaudita ac nefaria saera susceperis^ eum infernrum animas eli- cere, Gum puerorum extis Deos manes rnaetare soleas » Cicesone, in Vatinium 6, 14. Dal che si può vedere, sia detto incidental- mente, che lo spiritismo non è un'invenzione moderna! (3) V. quanto afferma a proposito di lui e dei Sestii il Pascal : Il rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica (Riv. d'I- talia, gennaio 1902. p. 98, poi nel voi. Fatti e leggende, Firenze, Le Monnier, 1903). — 57 — rico, il matematico P. Nigidio morì nell'esilio, nel tempo stesso che ìp Roma intercedeva per lui, allo scopo di otte- nerne il richiamo in patria, l'amico Cicerone. Ma doveva essere davvero tenuto per uomo assai pericoloso il sacri- lego Figulo, se, non ostante che i famigliari di Cesare e quelli ch'egli avea più cari ne parlassero con ammirazione e ne avessero alta stima, il divo lulio non si lasciò troppo commuovere, a favore del fiero repubblicano ! Gli è che in verità in quel momento di trapasso dalla repubblica (o meglio dall'anarchia) all'assolutismo l'interesse dello Stato e della giustizia aveva assai piccolo valore, di fronte agli interessi e alle ambizioni dei singoli competitori. Tutto questo si rileva da una lettera, fortunatamente con- servataci, nella quale Cicerone, dando notizia all' esiliato delle pratiche ch'egli faceva indirettamente presso Cesare e delle speranze che aveva di poter presto riuscire a otte- nergli il perdono, dice cose così interessanti e adopera espressioni di così alta stima, che metterebbe conto davvero che la riferissimo per intero (1). Basti accennare tut- tavia che egli si rivolge a lui come ad uomo « uni omnium doctissimo et sanctissimo et maxima quondam gratta » e suo amicissimo, e che accingendosi a conso- (1) È la lettera 13* del quarto libro Ad familiares, dell'anno 46 a. C. In essa dice bensì Cicerone : « Videor mihi prospicere pri- mum ipsius animuìn, qui plurimufn potest, propensum ad salutem tuam », ma questa era la semplice illusione, creata in lui dall' a- micizia che aveva per Figulo e dal desiderio che sentiva del suo ritorno ; poiché in realtà il povero filosofo fu lasciato morire in esilio. E sì che — come aggiunge ancora Cicerone — « familiares eius (cioè di Cesare), et ii quidein, qui UH iucundissimi sunt, mirabiliter de te et loquuntur et sentiunt » e di piii « accedit eodem vulgi voluntas vel potius consensus omnium » ! — 58 — larlo crede opportuno di premettere : « at ea quidem fa^ cultas vel tui vel alterius consolandi in te summa est^ si umquam in ullo fuit » ; cosicché « eam partem^ quae ab exquisita quadam ratione et doctrina proficiscitur, non attingam: tibi totani relinquam »; e concliiudendo termina col pregarlo « animo ut maximo sis nec ea solum memi- neris, quae ab aliis magnis virls accepistij sed illa etiam, quae ipse ingenio studiisque peperisti. Quae si colliges^ et sperabis omnia optime et quae aecident, qualiacamque erunt, sapienter feres. Sed haec tu melius vel optime omnium » . Ora se insieme con queste eloquenti e perspicue parole si ricordano i versi citati della Farsaglia, e se si pensa ancora al contenuto dei frammenti che di questo sapiente ci sono rimasti e ai titoli delle opere ch'egli scrisse, pos- siamo formarci un'idea approssimativa del genere di dot- trina e di conoscenze che ebbe e di cui si fece maestro: il misticismo pitagorico, la dottrina dei numeri, la divina- zione (quella che oggi si direbbe chiaroveggenza) in tutte le sue forme, l'astrologia; il tutto espresso e significato in un modo oscuro e involuto, forse per via di simboli, che fu poi una delle cause maggiori, se non la maggiore di tutte, per la quale le opere di lui furono poco lette e a poco a poco caddero nell'oblio. 3. — E dopo la morte del maestro, che ne fu dei suoi seguaci? Probabilmente non si dispersero e continuarono a riunirsi; tanto piìi che non mancava certo fra loro chi potesse indirizzarli e illuminarli con la sua autorità e la sua dottrina. In quegli stessi anni infatti, o poco dopo, ci fu in Roma un'altra setta, ch'io non dubito punto fosse continuazione di quella di Nigidio, o certo frutto dei suoi insegnamenti: voglio alludere alla « Sextiorum nova et — 59 — romani rohoris seda » ^ la quale però « Inter initia sua, quum magno impetu coepisset, extincta est » (1). Decisa- mente i tempi non erano favorevoli alla filosofìa, anzi a certa filosofia ! E in verità non potevano essere molti quelli che, in Roma, desiderassero di attendere sul serio alle speculazioni filosofiche: le ricchezze e la potenza della nuova Roma imperiale offrivano troppi svaghi, troppi di- vertimenti, troppe orgie, perchè vi fosse tempo e voglia di dedicarsi a meditazioni gravi ed ingrate ! Cosicché gli sforzi di quei pochi, i quali avrebbero pur voluto richia- mare i concittadini alla serietà d'una vita meno fatua e più dignitosa, dovevano riuscire vani o sortire effetti poco duraturi. Chi furono cotesti Sestii, ai quali accenna Seneca? Le notizie che ce ne sono rimaste sono assai scarse, ma suffi- cienti tuttavia a farceli ammirare, in tempi di tanta corru- zione, come uomini desiderosi piii delle gioie del pensiero che di quelle dei sensi, amanti più della verità e della scienza che delle ricchezze e degli onori; come uomini infine, nei quali tanto più risplende l'onesta virtù, quanto maggiori intorno si addensano le tenebre del vizio. Del primo di essi, di nome Quinto, parla specialmente, e sempre con parole di profonda e sentita ammirazione, il più grande dei moralisti romani, Seneca, in quelle sue mirabili Lettere a Lucilio piene di tanta filosofica sapienza e così degne d'essere studiate e meditate più che non siano ! In una di queste, la novantottesima, volendo egli provare al suo alunno che spesso molti disprezzarono quei beni che i più desiderano come fonti di felicità, cita gli esempi di Fabrizio e di Tuberone, e poi aggiunge che il (1) Seneca, Quaest. nat. cap. ultimo. 60 padre Sestio, pur essendo nato in tali condizioni da dovere un giorno governare la cosa pubblica, rifiutò persino la carioa di senatore, offertagli da Giulio Cesare ; poiché egli non annetteva alcuna importanza ai pubblici onori, rite- nendoli, come sono, troppo incerti e transitori (1). Una rinunzia di questo genere non era certamente cosa che tutti sapessero e volessero fare in quei tempi di sfrenate ambizioni ; e tanto meno poi per ragioni filosofiche ! Ma tanfo: il nostro Sestio ambiva per la sua persona altro ornamento che non fosse il laticlavio : ornamento meno visibile e meno ricercato, ma più dignitoso e più vero, che fosse conquista della sua intelligenza e della sua virtù, che nessuno potesse riprendergli e che egli potesse libe- ramente trasmettere senza pericolo di manomissioni o di latrocinii, l'ornamento insomma della sapienza ; per la quale fu acceso di tanto amore, che non facendo, in sul principio, progressi sufficienti a soddisfare appieno il suo vivo desi- derio, fu sul punto, un giorno, di suicidarsi (2). Come degli onori, ei non fu avido neppure dolle ric- chezze; anzi si racconta di lui che, trovandosi in Atene, ripetè quanto aveva già fatto il filosofo Democrito, il quale, avendo previsto da certi segni astrologici una carestia d'olio, prima dell'epoca del raccolto — che la bellezza delle olive faceva sperare sarebbe stato abbondante — comperò a buon (1) € Honores repulit pater Sextius, qui, ita natus ut rempu- hlicam deberet capessere, latum clavum, divo lulio dante, non re- cepii; intelligehat enim, quod dari posset, et eripi posse ». (2) Plutarco, « Del modo di conoscere i propri progressi nella virtù », § 5: « KaGànep cpaol Ségxtóv xs xòv 'Pa)|iaIov àcpetxóxa xàg èv x-^ TióXst xtjjiàg xal ipxàg 5ià cpiXoaocpiav èv òè xqi cptXoaocpsIv aB TiàXiv 5uo7ia'9-oQvxa xal xp(tà\),e>foy xtp Xóyt}) x^^®'^"^? "^^ np{bzo)t, dXtyow Ssyjaat xaxa3aX«tv éaoxòv ix xivog Sti^poug ». — 61 "- mercato tutto l'olio del paese, e poi, sopravvenuta real- mente la carestia, restituì ai primi proprietarii la merce acquistata, appagandosi d'aver provato così che gli sarebbe stato facile arricchirsi quando lo avesse coluto (1). Ma che uomo era Sestio ! Che scrittore vigoroso e ardito, e come diverso da tanti filosofi che scrivendo siedono in cattedra, discutono, cavillano, e non danno all'anima alcun vigore perchè non ne hanno ! A leggere Sestio — son pa- role di Seneca - si sente ch'è pieno di vita e di vigore, uno spirito libero e superiore, uno che ha virtù d'ispirarti sempre una gran fiducia in te stesso ! In qualunque stato d'animo, quando si legge il suo libro, si sfiderebbe la fortuna e si avrebbe la forza di lottare contro qualsiasi ostacolo! Poiché egli ha questo grande merito, che, pur mostrandoti tutta la grandezza della felicità suprema, non ti fa disperare di raggiungerla: egli la mette bensì molto in alto, ma in luogo accessibile a chi la voglia conqui- stare, sì che ammirandola tu speri (2). Quale più alta lode (1) Plinio, Naturalts Historia^ XVIII, 68, 9- 10 : « Ferun Demoeritum, qui primus intellexit ostenditque curri terris caeli societatem, spernentibus hanc curam eius opulentissimis civium, praevista ohi cavitate ex futuro Vergiliarum or tu.... magna tum vìlitate propter spem olivae, coemisse in toto tractu ornne oleum, mirantibus qui paupertatem, et quietem doctrinarum ei sciebant in primis cordi esse. Atque ut apparuit causa, et ingens divitia- rum cursus, restituisse mercem anxiae et avidae dominorum, poe- nitentiae, contentwm ita probasse opes sibi in facili, quum vellet, fore. Hoc postea Sextius e romanis sapientiae adsectatoribus Atkenis fecit eadem ratione ». (2) Seneca, Epistola LXIY: « Lectus est deinde liber Quinti Sextii patris; magni, si quid miài credis, viri, et, licet neget. Stoici. Quantus in ilio, Dii boni, vigor est, quantum anim,i! Hoc non in omnibus philosophis invenies. Quorumdam, scripta clarum — 62 — per un uomo, di questa entusiastica esaltazione fatta da Seneca ? E i suoi insegnamenti poi quanto erano sentiti e pro- fondi, altrettanto erano semplici ed eificaci. Vuoi tu persua- dere un uomo della bruttezza dell'ira ? egli ammaestrava: portalo, mentr'è adirato, innanzia uno specchio e fa che vi si veda riflesso ; poi fagli intendere che s'ei vedesse a quel modo anche l'orridezza dell'anima sua sconvolta ed agitata ne sarebbe atterrito (1). Della onestà e della virtù egli ebbe così alto e giusto concetto che sostenne l'uomo habent tantum nomen, cetera exsanguia sunt. Instìtuu7it, dìspu- tant, cavillantur : non faciunt animum, quia non habent. Quuni legeris Sextium, dices: Vivit, viget, liber est, supra hominem est, dimittit tne plenum ingentis fiduciae. In quacumque positione mentis sim; quum hune lego, fatebor tibi, libet omnes casus pro- vocare, libet exelamare : Quid eessas, Fortuna? congredere! para- tum vides. Illius animum induo, qui quaerit ubi se experiaiuT, ubi virtutem suam ostendat, Spumantemque davi pecora inter inertia votis Optai aprum, aut fulvum descendere monte leonem. Libet aliquid habere, quod vincam, cuius patientia exereear. Nam hoc quoque egregium Sextius habet, quod et ostendet Ubi beatae vitae ìuagnitudinem, et desperationem eius non faciet. Seies illam, esse in excelsOy sed volenti penetrabilem. Hoc idetn virtus tibi ipsa praestabit, ut illam admireris, et tamen speres » . (1) Seneca, De ira^ lib. II, oap. 36 : « Quibusdam, ut ait Sextius^ iratis profuit aspexisse speculum; perturbavit illos tanta mutatio sui: velut in rem praesentem adducti non agnoverunt se, et quantulum ex vera deformitate imago illa speculo repercussa reddebat ? animus si ostendi^ et si in ulta materia perlueere pos- set., intuentes nos confunderet, aier maculosusqite, aestuans., et distortus, et tumidus. Nunc quoque tanta deformitas eius est per ossa carnesque, et tot impedimenta., effiuentis : quid si nudus o- stenderetur ? et e. — 68 - onesto non per altro essere inferiore al sommo Giove, che per avere una virtù meno stabile e duratura ; ma per tutto il tempo in cui si conservi onesto essere altrettanto felice quanto Giove, non essendovi tra la perfezione e quindi la felicità umana e la divina differenza se non di durata. Ond'è che egji potè veramente additare ai volonterosi il bel cammino della virtù ed esclamare : « Di qui si monta alle stelle! di qui: seguendo frugalità, temperanza^ for- tezza » — e non già (par quasi sottintendere) per decreto di popolo di senato ! — e potè confortare anche all'ascesa, persuadendo che gli dei aiutano i buoni stendendo ad essi la mano. . . . (1). (1) Seneca, Epistola LXXIII: « Solebat Sextìus dicere^ « lovem plus non posse ^ quam honum virum,^. Plura lupiter habet^ guae ' praestet hominibus; sed inter duos honos non est melior, qui lo- cupletior : non magis^ quam inter duosj quibus par saientia re- gendi gubernaeulum est^ meliorem dixeris, cui maius speciosiusque navigium est. lupiter quo antecedit virum bonum! Diutius bonus est. Sapiens nihilo se minoris aestimat.^ quod virtutes eius spatio breviore clauduntur. Queniadmodum ex duobus sapientibus^ qui senior decessiti non est beatior <?o, euius intra pauciores annos terminata virtus est : sìe Deus non vincit sapiente ut felicitate^ etiam, si vincit aetate. Non est virtus maior^ quae longior. lupi- ter omnia habei; sea nempe aliis tradidit habenda. Ad ipsum hie unus usus pertinet.^ quod utendi omnibus causa est: sapiens tam aequo omnia apud alias videi contemnitque^ quam lupiter., et hoc se magis suspicit., quod lupiter uti illlis non poteste sapiens non vult. Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et clamanti : * Hac itur ad astra ! hae, secundum frugalitatem:, hac, secu7idum fortitudineyn ! » Non sunt Dii fastidiosi, non invidi ; admittunt, et ascendentibus manum porrigunt. Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit\ immo., quod propius est., in hom.'ines venit. Nulla sine Beo mens bona est. Semina in corpo- ribus kumanis divina dispersa sunt; quae si bonus cultor excipit.^ 64 Questa sicura fede, questa virile forza di pensiero susci- tatrice di virtù, era la nota caratteristica degli scritti di Sestio, di quest'uomo profondo, che filosofava scrivendo in greco con gravità romana, e che paragonava l'uomo sapiente, cinto di tutte le buone energie del suo animo, a un esercito che, in paese nemico, marcia compatto e pronto alla battaglia (1). Ed esercitando sui migliori uomini di Roma, come per esempio quel Lucio Grassizio di cui parla Svetonio (2), simìlia origini prodeunt; et paria his, ex quibus erta sunt^ sur- gunt: si malus^ non aliter quam humus sterilis ac palustris^ ne- cat, ac deinde creai purganienta prò frugihus » . (1) Seneca, Epistola LIX : « Sextium ecce quam maxiìne lego^ virum acrem^ graecis verbis^ romanis moribus philosophantem. Movit me imago ab ilio posila : ire quadrato agmine exercitum^ ubi hostis ab omni parte suspectus est, pugnae paratum. Idem^ inquit^ sapiens facere debet; omnes virtutes suas undique expan- dat^ ut ubicumque infesti aliquid orietur, illic parata praesidia sint^ et ad nutum regentis sine tumultu respondeant. Qitod in exercitibus his^ quos imperatores magni ordinant, fieri videmus^ ut imperium ducis simul omnes copiae sentiant^ sic dispositae, ut signum ab uno datum, peditem simul equitemque percurrat ; hoc aliquanto magis necessarium esse nobis Sextius ait. UH enim saepe hostem timuere sine causa ; tutissimumque illi iter, quod suspeetissimum fuit. Nihil siultitia pacatum habet ; tam superne UH meius est, quam infra ; utrumque trepidai latus ; sequuntur pericula^ et occurrunt\ ad omnia pavet ; imparata est^ et ipsis terretur auxìliis. Sapiens autem^ ad omnem incursum munitus est et intentus: non si paupertas^ non si luctus, non si ignomi- nia^ non si dolor impetu?n faciat^ pedem referet. Interritus et contra illa ibii^ et inter illa. Nos multa alligante multa debilitante diu in istis vitiis iacuimus ; elui difficile est : non enim inquinati sumus, sed infecti ». (2) Nel De illustr. grammat., § 18, rammenta di lui che « ad Q. Sextii philosophi sectam transiisse dicitur ^ . Alcuni codici però invece di Q. Sextii leggono Q. Septimii. -- 65 - questa sua efficace robustezza di pensiero, e affascinandoli col vigore della sua persuasione e con la nobiltà della sua vita, sdegnosa d'ogni viltà e d'ogni bassezza, potè far sor- gere quella « romani rohoris seda » , di cui abbiamo fatto già cenno e che, se fu subito soffocata, ebbe tuttavia dei seguaci e prosecutori isolati, come lozione di Alessandria, che fu maestro anche di Seneca (1), Cornelio Gelso (2), (1) Dì lui parla Lattanzio, Divin. institui. lib. VI, § 24. Vedi anche Gellio, èi. A., I, 8. Nella interessante epistola 108^ Seneca, parlando di se al suo Lucilio, gii dice come oltre al- l'avere imparato ad astenersi per sempre dalle ostriche, dai fun- ghi, dai profumi, dal vino, dai bagni, e ad usar materassi duri, aveva anche incominciato, da giovane, ad astenersi dalla carne, e ciò per gli insegnamenti di Soxione^ che dimostrava la inutilità e i danni di questo cibo, valendosi, oltre che degli argomenti di Pi- tagora e di Sestio, anche di ragioni proprie. Riporto quasi per in- tero il passo di Seneca, che suona così : « Quonìam coepi Ubi ex- ponere quantum maior impetu ad philosophiam iuvenis aeeesse- rhn, quam senex pergam^ ?ion pudebit fatevi^ quem mihi amorem Pytkagorae iniecerit Sotion. Docebat^ quare ille animalibus ab- siinuisset^ quae postea Sextius. Dissimilis utrique causa erat^ sed uirique magnifica. Rie etc... At Pythagoras Haee quum ex- posuisset Sotton et implesset argumentis suis: Non credis^ inquit, aììimas in alia corpora atque alia describi., et migrationem esse quam dicimus mortem? Non credis in his pecudibus ferisve aut aqua m,ersis illum quondam hominis animum morari? Non cre- dis nihil perire in hoc mundo, sed anulare regionem? nec tantum caelestia per eertos circuitus verti, sed ammalia quoque per vices ire., et animos per orbem agi ? Magtii ista crediderunt viri. Ita- que iudicium quidetn tuum sustine: ceterum omnia tibi integra serva. Si vera sunt ista., abstinuisse animalibus innoeentia est., si falsa frugalUas est. Quod istic credulitatis tuae àamnum est ? Alimenta tibi leonum et vulturum. eripio. His instinstus abstinere animalibus coepi., et anno peracio non tantum facilis erat m,ihi consuetudo., sed dulcis... » (2) Quintiliano, Lib. X, 1, 124: « Scripsit non parum multa Cornelius Celsus., Sextios secutus., non sine cultu ae nitore ». — 66 — Papirio Fabiano (1), Moderato di Cadice (2) ed altri. I Sestii dei quali abbiamo notizia furono due: il primo quello di cui si è parlato finora, che sarebbe vissuto al tempo di Augusto e anche di Cesare, se, come dice Se- neca^ rifiutò il laticlavio « divo lulio dante » (3), e avrebbe pure, secondo il surriferito passo di Plinio (4) dimorato, non sappiamo quando né per quanto tempo, in Atene; l'altro, suo figlio, anch'esso di prenome Quinto, che pro- seguì l'insegnamento paterno, che fu ritenuto, sebbene a torto, autore delle sentenze filosofiche note sotto il nome di Sesto pitagorico (5), della cui vita infine non sappiamo assolutamente nulla. Ora, di qual dottrina furono maestri questi filosofi, solitari ricercatori di verità in un mondo di gaudenti e di tristi? (1) Seneca, Epist. C; cf. Seneca il retore al lib> II delle Con- troversie^ prefaz. (2) Questo filosofo pitagorico visse al tempo di Nerone, fu famo- so per i suoi insegnamenti intorno alla scienza simbolica dei nu- meri, fu maestro di Lucio Etrusco (v. Plutarco, Quaest. Gonviv. Vili, 7) e scrisse un'opera voluminosa intorno alla dottrina pita- gorica (V. Porfirio, Vita di Pitag. p. 33 ed. Nauck; Stefano Bi- zantino e Suida, sotto la voce Fàdeipa). Cfr. pure Porfirio, Vita di Plotino e. 20 e S. Gerolamo, Adv. Ruflnum III. (3) Epist. XCVIII già citata. Di un Sestio, filosofo pitagorico., che fiorì ai tempi d'Augusto, parla Eusebio [Chron., all' olimpiade 195. 1 = 1 d. C). Dobbiamo dunque ritenere il nostro Sestio vis- suto press'a poco fra il 70' a. C. e il 5 d. C. (4) Natur. Eist., XVIII, 68, 10. (5) Vedile nella collezione del Mìjllach, Fragmenta philosopho- rum graecorum, Parigi, Firmin-Didot, voi. I (1875) p. 522 e voi. II (1881) pp. 116-117, e leggi, a proposito della paternità di esse, oltre a ciò che ne dice lo stesso Mullach v. II, pp. XXXI sg.), anche l'esauriente discussione che fa lo Zeller, Die Philosophie der Qriechen^ voi. IV, III ediz. (Leipzg 1880), pp. 679 e 681 nota. 67 Essi ebbero intanto una propria dottrina psicologica, se, come riferisce Claudiano Mamerte (1) spiegarono che l'a- nima è « una certa forza incorporea, ilìocale e inafferra- « bile, che, essendo capace senza spazio, assorbe e contiene « il corpo » . Ma questo evidentemente è troppo poco per determinare a che scuola essi appartennero. E ben vero che Seneca, come abbiamo già veduto riferisce (nella Epi- stola LXIY) che « volere o no » (licei neget), il padre Sestio era uno stoico; ma quel « volere o no » ci fa compren- dere che in realtà Sestio non si professava stoico. E infatti qualche altra testimonianza lo dice pitagorico (2), e tale lo proverebbero non solo le sue conoscenze astrologiche, dimo- strate dalla famosa esperienza dell'olio, ma altresì alcune abitudini della sua vita, come quella di fare alla fine di ogni giorno l'esame di coscienza (3) e quella di astenersi dai cibi carnei (4), l'una e l'altra, com'è ben noto, proprie dei seguaci del Pitagorismo. Senonchè, riguardo a quest'ultima è da notare che Sestio non la giustificava, come Pitagora, (1) De statu anirnae, II, 8 : « ... Eomanos etiam^ eosdemque philosophos testes citamus^ apud quos Sextius pater^ Sextius fìlius propenso in exercitium sapientiae studio apprime philosophati sufzt, atque hane super omni anima attulere sententiatft . Incor- poralis, inquilini^ omnis est anima et lUocalis atque indeprehensa vis quaedam \ quae sine spatio capax corpus haurit et continet-» . (2) Y. pag. preced., nota 3. . (3) Seneca, De ira^ lib. Ili, e. XXXVI, 2: « Faciebat hoc Sextius ut consuniTnato die^ quum se ad noeturnam qutetem. re- cepisset^ interrogaret animum suum : Quod hodie malum tuum sanasti ? cui vitio obstitisti ? qua parte ntelior es? » . (4) A questo proposito, oltre alla Up. CVIII di Seneca riportata nella nota seguente, si suol citare il passo, conservatoci da Orige- ne, « (contra Celsum », lib. YIII, p. 397 ed. di Cambridge), che suona: « Il cibarsi di carni è indifferente, ma l'astenersene è più conforme a ragione ». Tale sentenza però è di Sesto pitagorico, non già del nostro Sestio. — es- cori la dottrina della metempsicosi, ma con argomenti che ai Romani dovettero parer più ragionevoli, perchè meno astrusi : « gli uomini, egli infatti insegnava, hanno altri «alimenti, senza bisogno di nutrirsi di sangue; e poi ci « si abitua alla crudeltà provando piacere nel divorar della «carne; si deve dunque ridurre al minimo ciò che può « alimentar la lussuria » e concludeva dicendo che « la « varietà dei cibi è contraria alla salute e innaturale per « i nostri corpi » (1). Ci sembra quindi lecito di poter affermare che i Sestii non furono ne stoici ne pitagorici, ma ebbero un proprio sistema, eclettico quasi senza dubbio, con prevalenza di elementi pitagorici ; e che questo loro sistema non fu ne inorganico, né dubitoso (come quello degli accademici del- l'ultima maniera) né materialista (come l'epicureo), sibbene avvivato da una profonda fede, illuminato da una chiara luce spirituale e fondato su convinzioni ben salde e su opinioni precise e indubitabili; un sistema d'ideo insomma, che non era una piìi o meno piacevole distrazione o un'o- ziosa occupazione dell' intelletto, ma una vera e propria forza organizzatrice e ordinatrice della vita, e per ciò ap- punto destinato a raccogliere pochi seguaci e a vivere per tempo assai breve, in quella sentina di ambizioni, di cor- ruzioni, di violenze, di immoralità, che era divenuta la grande Roma nel trapasso dalla repubblica all'Impero. (1) Seneca, Epist. CVIII : « hie {Sextius) homini satis alimen- torum eitra sanguinem esse eredebat. et criiclelitatis eonsuetudi- nem fieri^ ubi in voluptatem esset addueta laceratio. Adiciebat contrahendam materiam esse luxuriae^ eolligebat bonae valetudini contraria esse alimenta varia et nostris aliena eorporibus ». CAPITOLO QUARTO Pitagora e le sue dottrine negli scrittori latini del primo secolo avanti Cristo. I. Lncrezio e il poema « Della Natura » 1. Lucrezio e il poema Della Natura. — 2. Epicuro contro Pitagora a proposito di immortalità dell'anima e di metempsicosi. — 3. Ac- cenni alla metempsicosi nel proemio del primo canto. Il sogno di Ennio. — 4. Polemiche intorno all'anima nel terzo canto: la dot- trina dell' anima-armonia. — 5. Argomenti epicurei contro la preesistenza dell'anima e la metempsicosi. — 6. Insussistenza del timore della morte nell'ipotesi della reincarnazione. — Riassunto e conclusione. 1. — Poiché si è visto come, dopo Nigidio, i Sestii cerca- rono di restaurare in Roma il culto del Pitagorismo, non sarà certo inutile indagare quali tracce esso aveva lasciato di sé nella letteratura romana del primo secolo avanti Cristo, siano esse vere e proprie trattazioni sistematiche o sem- plici notizie incidentali : così infatti potremo non solo farci un'idea del giudizio che ne fecero gli scrittori di quel — 70 — tempo, ma ci si offrirà anche il modo di esporne e chia- rirne qualcuno dei punti più importanti o di metterne in luce gli aspetti più notevoli. Certo, in un'età nella quale le più svariate credenze religiose e i più diversi sistemi di filosofìa affluendo in Koma da ogni parte del mondo, e specialmente dalla Grecia e dall'Asia, vennero a pocoJiniformandosi per vicendevole influsso e preparando cosf il terreno che doveva di lì a non molto accogliere e far germogliare il seme della nuova fede cristiana, non è facile sceverare e seguire uno per uno i vari indirizzi di pensiero; massime poi quelli che, come la filosofia pitagorica, essendo molto antichi e avendo avuto larga diffusione e gran numero di seguaci, trasmi- sero parte dei loro principii alle speculazioni filosofiche posteriori. Ma un poco di diligenza e di pazienza ci per- metterà almeno di raccogliere tutti quei passi di scrittori latini dell'ultimo periodo repubblicano nei quali si fa espli- cita menzione di Pitagora, e di esaminare altresì quei luoghi in cui, senza nominarlo, si accenna però a dottrine e a pratiche di vita che appartennero indubbiamente, per concorde consenso dell'antichità, al sistema del filosofo di Samo. Incominceremo pertanto dal poema di Lucrezio, che fu, come tutti sanno, il più mirabile tentativo di elabora- zione poetica in lingua latina di un sistema filosofico greco, e precisamente del sistema epicureo. Altri felici tentativi di esporre in versi dottrine di filosofi greci erano bensì stati fatti da Appio Claudio, da Ennio, da qualche altro, ma per brevi trattazioni ; sì che Lucrezio — pur conscio della grandezza del cantore degli Annales — potè ben affer- mare con legittimo orgoglio di essere il primo a tentare di esprimere poeticamente, nella lingua del Lazio e del- 71 r Italia romana, non ancora assueta alle sottigliezze, alla profondità, alla precisione del linguaggio filosofico, le speculazioni dei Greci. Il poema Della Natura infatti non solo espone con ordine sistematico la complessa dottrina di Epicuro intor- no air essere delle cose in generale, all' infinità dell'uni- verso, ai moti e alle forme atomiche, alla natura, com- posizione e mortalità dell' anima, alle cause delle sensa- zioni e delle funzioni fisiologiche, alle origini del mondo e della vita vegetale e animale, alle cause dei fenomeni meteorici e tellurici, ma discute anche, perchè abbiano piti sicuro fondamento i principii della dottrina epicurea, le opposte e diverse dottrine di altre scuole filosofiche, e combatte le argomentazioni contrarie e le obiezioni pos- sibili degli avversari. Di questa opera dunque, costruttiva in quanto elabora su fondamenti nuovi, e polemica in quanto combatte e distrugge principii vecchi o diversi, è ben naturale che noi dobbiamo tener presente soprattutto la parte polemica, per vedere se e quanto in essa il poeta — e prima di lui Epicuro — abbia tenuto conto delle dottrine di Pitagora. 2. — Ora, su due punti essenzialmente il poeta discute e lotta ad oltranza contro indirizzi di pensiero diversi dal suo : sulla teoria atomica e sulla teoria dell' anima. E a proposito della prima combatte e confuta esplicitamente, nominandoli, Eraclito, Empedocle, Anassagora. Del filosofo di Samo invece non fa il nome neppure una volta, né qui ne in altra parte dei poema; ma ciò non toglie che un attento esame del poema stesso non ci permetta di scoprire dove e quando, pur senza dirlo, il poeta pensi a combattere i principii della filosofia pitagorica, — 72 — È ben nota, in verità, la disistima che Epicuro ebbe per la matematica; il che parrebbe che dovesse farci esclu- dere senza altro qualsiasi considerazione, da parte diluì, per un sistema che aveva studiato e rappresentato sotto l'aspetto numerico il mondo, e nel quale le ricerche ma- tematico-musicali avevano tanta parte. In realtà però pos- siamo escludere a priori soltanto questo: che Epicuro te- nesse presenti in qualche modo le dottrine della scuola italica nella parte fisica del suo sistema. E infatti lo stu- dio del poema di Lucrezio conferma senz' altro questa induzione; tanto nella parte teorica che in quella polemica dei primi due canti, che contengono 1' esposizione e lo svolgimento dei principii epicurei intorno al mondo e alla materia, e la teoria atomica, manca aJffatto qualsiasi ac- cenno, anche indiretto e lontano, alle dottrine pitagoriche. Ma queste, oltre al mondo fisico, governato dal numero e dall' armonia, abbracciavano anche il metafisico (anima e dei), e quanto all'anima, pur considerando anche di questa l' aspetto numerico e musicale, sviluppavano so- prattutto il concetto della sua eternità : non mai nata, perchè esistente ab aeterno^ essa vive, perenne e immor- tale, attraverso un ciclo indefinito di vite terrene (me- tempsicosi). Sotto questo aspetto pertanto la filosofia di Pitagora dovette pure essere tenuta in qualche conside- razione da Epicuro, se scopo fondamentale della sua spe- culazione fu di combattere i due grandi timori onde nasce r intelicità umana, cioè il timore della morte e quello degli dei, e se, per vincere il primo, difese con tutte le armi della logica il principio della materialità e della mortalità dell'anima. Non risalivano forse in gran parte alla filosofia pitagorica la dottrina platonica e le specu- lazioni stoiche intorno alla origine divina e all'immortali- 73 tà dell' anima ? E la filosofia pitagorica non si uniformava forse, spiegandole e chiarendole, alle più inveterate su- perstizioni, alle più profonde convinzioni, alle più diffu-se credenze religiose degli uomini ? Se Epicuro avesse avuto solo lo scopo della costruzione teorica dei suo sistema, sarebbe stato sufficipnte che, ac- cettata da Democrito la teoria atomica e fattane 1' appli cazione al mondo fisico, V estendesse, come fece realmente, al mondo psichico (per lui i' anima constava infatti d' un aggregato d'atomi sensiferi), per trarne la conseguenza della mortalità dell' anima o, più precisamente, del ne- cessario dissolversi dei suoi atomi alla morte del corpo. Ma, giova ripeterlo, egli volle anche soprattutto combat- tere il timore della morte, il quale nasce, secondo lui, dal pensiero — alimentato dalle superstizioni religiose, e dalle favole dei poeti e dei vati — che, morto il corpo, l'anima sopravviva. Ora, fra le varie forme di tale cre- denza una ve n' era — largamente diffusa dalla religione, dai misteri, da oscure predizioni sibilline, da filosofi e da poeti — secondo la quale 1' anima non solo continuava ad esistere, ma poteva, ad intervalli, rivivere in nuovi corpi e ritessere più d' una volta la trama della vita ter- rena : insomma l'antichissima credenza nella metempsi- cosi. E per di più questa credenza, anche nei termini strettamente epicurei, poteva in un certo senso (come ve- dremo) apparire ammissibile, in quanto cioè, nell' infinità del tempo e nel perpetuo dissolversi e ricomporsi degli atomi materiali, era ben lecito ammettere come possibile il ricostituirsi dell' identico conglomerato atomico che ri- creasse di nuovo il medesimo corpo e la medesima ani- ma. Data dunque questa possibilità teorica, si comprende ohe Epicuro o i suoi seguaci dovessero esaminarla anche — 74 — al lume della logica interna del loro sistema, per dedarne le loro conseguenze in rapporto alle due questioni del- l'eternità dell'anima e del timore della morte. Tanto ciò è vero, che Lucrezio svolge appunto in mo- do ampio ed esaurientissimo tale ipotesi e tale discussione polemica, là dove vuol dimostrare la mortalità dell'anima e la vanità del temere la morte. 3. Ma prima di esaminare ed analizzare questa parte del poema che si riallaccia così strettamente con la dot- trina pitagorica, è necessario premettere che già al prin- cipio del primo libro, in quel mirabile e tormentato proe- mio dove il poeta espone le ragioni, l' ordine e la materia della sua trattazione, è fatto cenno delle varie credenze e opinioni intorno all' anima e dell' importanza capitale che la soluzione del problema psicologico ha, nel sistema epicureo, in ordine alla necessità di sradicare dall' animo umano il timore della morte. E questo cenno, sia in se stesso, sia per il ricordo che ad esso si collega del famoso sogno di Ennio, ha pure importanza per il nostro tema. Per rassicurare infatti Memmio — al quale il poema è dedicato — che potrebbe dubitare, accettando la dottrina epicurea, di commettere atto di scellerata empietà, Lu- crezio dimostra che anzi la religione fu causa che gli uomini commettessero delitti nefandi, come il sacrificio d* Ifigenia in Aulide (vv. 80-101). E poi soggiunge che, vinto anche il timore degli dei, può tuttavia rimaner sempre quell' altro timore, che è alimentato dalle spaven- tose favole dei poeti sulla vita d' oltretomba, da sogni e da apparizioni, e trova la sua ragion d' essere nell' igno- ranza umana intorno alla vera natura dell' anima (vv. 102- — 75 — 126). Di qui pertanto la necessità di studiare — insieme con la natura delle cose celesti, degli dei e della mate- ria — anche il problema dell' essenza dell' anima e della natura dei sogni e delle visioni (vv. 127-135). E precisamente nei versi 112-126 si accenna in par- ticolare alle varie dottrine intorno all'origine dell'anima e intorno alla sorte che le tocca quando muore il corpo: 112 Ignoratur enim quae sii natura animai, nata sit^ an cantra nascentihus insinuetur^ et simul intereat nobiscum morte dir empia, 115 an tenehras Orci visat vastasque lacunas^ an pecudes alias divinitus insinuet se, Ennius ut noster ceeinit, qui priìnus amoeno detulit ex Helicone perenni fronde coronam, per gentis Italas kominuìu quae darà clueret\ 120 etsi praeterea tamen esse Acherusia tempia Ennius aeternis exponit versibus edens^ quo ncque permanent (1) animae ncque corpora nostra^ sed quaedam simulacra modis pallentia miris; unde sibi exortam semper fiorentis Homeri 125 commemorai speciem lacrimas effundere salsas coepisse et rerum naturam expandere diciis (2). Quanto all' origine dell' anima, Epicuro sosteneva che essa era nativa (nata)-^ ma altri invece la credeva entrata già fatta nel corpo al momento della nascita (an contra (1) Mi pare qui perfettamente accettabile la lezione già proposta dal GoBEL (permanent è coug. pres. da pcrmanare)^ che è la più ragionevole correzione del permaneant dato dai codici. Ne so ve- dere in qual modo tale correzione urti, come dice il Giussani, con- tro il senso di permanare. (2) In questi versi, come in quelli che citerò più innanzi, mi attengo alla lezione e alla grafìa data dal Giussani (De rerum na- tura, Torino, Loescher, 1896-1898;. — 76 ~ nascentibus insinuetur). Quanto alla sorte che 1' aspettava al morire del corpo le opinioni invece erano tre: l'epicu- rea, che r anima si dissolvesse col dissolversi degli atomi corporei [simili intereat nobiscum morte dirempta) ; la popolare, che scendesse all'Orco, o Ade o Averne [te- nebras Orci visat vastasque ìacunos) ; la pitagorica, che passasse per virtù divina nel corpo di altri animali (pe- cudes alias divinitus insinuet se ). Le due ultime però non erano in contraddizione fra loro ; tanto è vero ap- punto che Ennio, nel sogno famoso degli Annali, pur esponendo la teoria pitagorica, ammise altresì 1' esistenza dell'Ade e dei templi Acherontei^ ai quali però discen- deva non già l'anima (questa passava — subito? — in altri corpi), ma un' ombra, come a dire un doppio, del- l'anima stessa, di mirabile pallore: come quella precisa- mente che egli narrava gli fosse apparsa nel sogno — doppio dell' anima del divino Omero — che, piangendo a- mare lagrime, gli svelò l'essere delle cose. E dunque evidente, per questo accenno alla dottrina psicologica epicurea in contrapposizione con quella di altri filosofi ed anche di Pitagora, che nel terzo libro di Lucrezio dobbiamo trovare discussa in qualche modo — e lo è infatti esaurientemente — la teoria pitagorica della metempsicosi (1). 4. Ma non v' è forse cenno d' un' altra concezione che fu propria di Pitagora e dei suoi seguaci ; voglio dire della concezione dell' anima- armonia? (1) La cosa, del resto, è tanto più evidente se si pensi clie Lu- crezio compose verosimilmente questa parte del proemio del primo libro, quando già aveva composto il terxo. Si veda in proposito la paziente e lucida analisi del Giussani voi. II, pag. 4-5). - 77 — È un fatto che il poeta, nel terzo canto, prima di ac- cingersi a determinare la natura materiale - atomica del- l' anima nelle sue due distinzioni dì animus od anima., confuta una dottrina • — certo ancor diffusa ai suoi gior- ni — che negava 1' esistenza dell' anima, o meglio le ne- gava una consistenza sua propria, non pure extracorporea, ma nel corpo stesso, concependola soltanto come una spe- cie di armonia delle funzioni organiche : 98 sensum aniìni certa non esse in parte lo^atuìn^ vermn habitum quendam vitalem corporis esse^ 100 karmoniam Orai quam dieunt^ quod faciat nus vivere eum sensu^ nulla curn in parte siet ìuens : ut bona saepe valetudo eum dicitur esse corporis, et non est tamen haec pars ulta valentis, sic animi sensum non certa parte reponunt. Ora chi, prima di Epicuro, aveva svolto cosiffatta dot- trina, che anche ai tempi di Platone e di Aristotile era tanto diffusa da far sentire all' uno e air altro (1) la ne- cessità di confutarla ? Pitagora e i suoi seguaci, e spe- cialmente, fra questi, Filolao (2), avevano bensì accettato e svolto il concetto dell' anima-armonia; ma che però tale concetto non potesse avere pei Pitagorici il senso datogli (1) Platone, Fedone^ e. XXXVI e XLI - XLY; Aristotile, Del- Vanima^ I, 4. Dopo Aristotile la svolsero ancora, accettandola e difendendola, Aristosseno talentino (Cicerone, Tuseulane., I, l9)" e DiCEARCo di Messina (Cicerone, ibidem^ I, 20). (2) La si fa risalire veramente a Parmenide e a Zenone d' Elea (DioG. Laerzio IX, 29): ma che debba riconoscersi anche come propria di Pitagora e di Filolao dimostrò già il Boeckh nel suo Philolaos., (p. 177); tanto è ciò vero che nel dialogo platonico chi la espone è Simmia, discepolo d,l Filolao, ed Echecrate pitagoreo la riconosce per propria dottrina {Fedone., e. XXXVIII). — 78 — qui da T ucrezio e neppure quello datogli da Simmia nel dialogo di Platone, è appena necessario di dire, se esso si accordava — nel sistema di quella scuola — con l'altro della metempsicosi, ossia con il concetto della preesistenza e immortalità dell' anima stessa. L' ironia lucreziana dun- que dei versi 131-135: ... recide harmoniai fìomen^ ad organicos alto delatum Heliconi — sive aliunde ipsi porro traxere et in illam trastulerunt^ proprio quae tum res nomine egehat - quid quid id est habeant. . — come le argomentazioni di Socrate nel Fedone — era- no volte non contro la teoria di Pitagora, ma contro quella interpretazione e limitazione materialistica di essa, per cui r anima era ridotta a semplice funzione del corpo. Ed è ben naturale che — così limitata e interpretata — la combattessero, insieme con gl'idealisti platonici, anche i materialisti epicurei : poiché per gli uni rappresentava la negazione della essenza individuale e quindi della immor- talità dello spirito, e per gli altri, significava l' inesisten- za di quella quarta sostanza atomica (la sostanza senso- riale) onde essi concepivano costituita (insieme con le altre tre sostanze elementari aria, freddo e caldo) 1' anima u- mana (1). Si comprende quindi che Lucrezio, prima di (1) Per Epicuro 1' anima è bensì nativa e mortale, ma è però, fin che vive il corpo, sostanziata di materia atomica ed è parte dell' essere umano — ne più ne meno di quel che ne siano parte le mani, i piedi, gli occhi, ecc. (Luce. Ili, 94-97) — e localizzata nel petto, di dove si diffonde per tutto il corpo, è adibita alla re- cezione dei moti e delle immagini sensoriali e alle funzioni intel- lettuali : sì che ammettendo la teoria dell'anima-armonia veniva a cadere tutta la teoria psicologica degli atomi sensiferi, delle im- — 79 — accingersi alla esposizione della teoria psicologica, confu- tasse questa dottrina, che non solo negava all' anima una sua localizzazione nel corpo, ma veniva in ultima analisi a negarne 1' esistenza (1). 5. Dimostrata la materialità dell'animo (vv. 94-416), Lu- crezio passa a dar le prove — ventotto in tutto — della sua mortalità. Ora vi è un gruppo di queste che combat- tono il concetto della immortalità sotto l'aspetto non già del persistere dell' anima dopo la morte, ma del suo pree- sistere alla nascita del corpo e della possibile pluralità delle sue esistenze terrene (vv. 668-710, 711-738, 739-766, 774-781). Qui siamo evidentemente nel campo della metempsicosi, e occorrerà quindi esaminare quest' altro centinaio di versi. Veramente non soltanto i Pitagorici — con la dottrina della metempsicosi — ammisero, fra gli antichi, un' esi- stenza pre-terrena dell' anima, ma anche Platone e gli Stoici; e inoltre, come ho già osservato più volte, tale dottrina non fu che la elaborazione filosofica d' una cre- denza largamente diffusa nelle leggende popolari, nella poesia, neir arte, e rafi'orzata se non derivata, dagli in- magini, dei sogni, delle visioni, delle allucinazioni (anche queste vere immagini materiali) che V anima riceve dal di fuori, ma non produce essa stessa. (1) Cicerone infatti, parlando di Aristosseno e di Dicearco, dice appunto che essi con la loro teoria venivano a dimostrare « nihil esse omnino animum^ et hoc esse nomen totum inane^ frustraque ammalia et animantes appellari, neque in homine inesse animum vel animam nec in bestia ■» {Ttcsc.^ I, 21), e più esplicitamente più sotto (31 1: « Dicearehus quidem et Aristoxenus. ... nullum omnino animum esse dixerunt ». — 80 — segnamenti religiosi che s' impartivano nei Misteri. Sì che gli argomenti di Lucrezio — possiamo affermarlo con si- curezza — non sono esclusivamente contro i Pitagorici. Ma poiché Pitagora, se anche trovò già nei Misteri e fra il popolo tale credenza, e se pure la derivò, c?ome vo- gliono, dall' Egitto, fu veramente il primo che le diede veste filosofica, e su di essa fondò 41 suo sistema dottri- nario, dal quale mossero, dopo di lui, e Platone e gli altri, così dobbiamo pur esaminare le ragioni del poeta epicureo, che venivano, in sostanza, a battere in breccia ed a scalzare uno dei capisaldi della filosofia pitagorica. Gli argomenti che Lucrezio adduce contro 1' opinione della preesistenza dell'anima sono quattro, svolti in quattro successivi e continui gruppi di versi, e rincalzati poi — dopo conchiusa questa parte fondamentale della sua trat- tazione — nella meravigliosa invettiva contro il timore della morte. a) Il primo argomento (vv. 668-676) è desunto dalla mancanza in noi di ogni ricordo dell' esistenza anteriore alla nascita (1): se la nostra anima è esistita un'altra volta e quindi è entrata nel corpo al momento della nascita (2), perche non siamo assolutamente in grado di ricordarci del tempo trascorso e non serbiamo in noi qualche ri- (1) C è bisogno di rammentare che appunto ctalla realtà di tale ricordanza — rappresentata non già dalla reminiscenza di parti- colari di una anteriore vita terrena, ma dalla inoppugnabile e in- controvertibile esistenza delle ideo innato nella mente di ciascun uomo — Platone deduceva la necessità d'un'anteriore esistenza dell' anima e quindi della sua immortalità ? (Yedunsi nel Fedone ì capitoli l8-22ì. 2) E, come si vede, io svolgiiuento di quel che ha accennato nel verso 113 del proemio al primo canto. — 81 — membranza delle nostre azioni passate ? Dunque l'anima ha mutato così da potere perdere interamente la facoltà di ricordare le proprie vicende ? Se così è, questo non differisce molto dalla morte ; bisogna quindi concludere che r anima di prima è morta e che quella che abbiamo in questa vita è stata creata proprio in questa vita (1). Ora si noti che il poeta non trae, dalla mancanza della memoria del passato, la conclusione che sembrerebbe le- gittima : « dunque 1' anima non è preesistita » ; ma dice soltanto che — dato pure che potesse essere material- mente esistita — il fatto di non serbar coscienza del passato dimostra che ora essa ha cambiato personalità (personalità infatti non è altro che persistere di una me- desima coscienza), cioè che è morta da quella che era, per diventare un'altra. Praeterea si immortalis natura animai constai et in corpus nascentibus insinuatur, 670 cur super ante actam aetatem meminisse nequimus nec vestigia gestarum rerum ulla tenem^us ? nani si tanto operest animi mutata potestas, omnis ut actarum exciderit retinentia rerum, non, ut opinor, id a lete iam longiter errai; 675 quajjropter fateare necessest quae fuii ante interasse, et quae nune est nunc esse creaiam. Insomma in questi versi non si nega la possibilità che siano preesistiti, e quindi che esistano in eterno i com- ponenti materiali dell' anima, ma bensì si nega il persi- fl) Su questo argomeDto della mancanza di ogni ricordo, come vedremo fra poco, Lucrezio ritorna ancora, prima con un semplice cenno (al v. 766) e poi più innanzi (vv. 845 e seguenti) accennan- do alla possibilità della rinascita dell'anima e del corpo. — 82 — stere in eterno della coscienza, che, per Epicuro, deriva dai moti atomici dei quattro componenti dell'anima. D'altra parte, continua il poeta, se 1' energia vitale del- l'anima entra in noi quando, formato il corpo, usciamo alla luce del mondo, essa dovrebbe vivere non come fa — che si vede che è cresciuta col corpo e con le membra immedesimandosi nel sangue, — ma dovrebbe, non fusa col corpo, vivere a sé come in una prigione. Ora, poiché avviene proprio il contrario — ■ e cioè 1' anima é diffusa per tutto il corpo, sì che ogni parte di esso sente, e cre- sce e si sviluppa col corpo stesso — segno é che non é entrata in esso perfetta, e che, partecipando delle vicende del corpo, nasce (e quindi anche muore) con esso. E am- messo pure che, • perfetta e in sé raccolta all'atto di en- trare nel corpo, si diffondesse poi subito in ogni sua parte appena entrata, questo equivarrebbe a uno scomporsi e dissolversi per cambiar natura: insomma equivarrebbe a un morire per rinascere tosto altra da quella di prima (vv. 677-710). b) Un altro argomento pare al poeta di poter trarre dal fatto del formarsi dei vermi onde pullula il cadavere in putrefazione. Se l'anima che li avviva non è costitui- ta, come pensava Epicuro, da residui frammentari dell'ani- ma primitiva, (il che dimostra che l'anima stessa, potendo frazionarsi, é peritura e mortale) bisognerebbe ammette- re — ed eccoci ancora alla metempsicosi — che nei vermi si incarnino anime preesistenti; nel qual caso, lasciando pure a parte la stranezza che mille subentrino là di dove una è partita, o esse stesse si formano il proprio corpo dalla materia putrescente, o lo trovano già fatto e vi en- trano ; ma nella prima ipotesi non si capirebbe perchè, piuttosto che restar libere, dovessero affaticarsi spontanea- - 83 — mente a rinchiudersi in un carcere corporeo, dove neces- sariamente dovranno soffrire; nella seconda varrebbe il ragionamento fatto precedentemente che un' anima non può entrare, intrecciarsi ed espandersi in un corpo già formato senza snaturarsi (vv. 711-738). 720 quod si forte animus extrinsecus insinuari vermibus et privas in corpora posse venire eredis, nec reputas cur milia multa animarum conveniant unde una recesserit, hoc tamen est ut quaerendum, videatur et in discrimen agendum, 725 utrum tandem animae venentur semina quaeque vermiculorum ipsaeque sibi fabricentur ubi sint, an quasi corporibus perfectis insinuentur . at neque cur faciant ipsae quareve laborent dicere suppeditat, neque enim, sine corpore cum sunt, 730 sollicitae volitant morbis alguque fameque : corpus enim magis his vitiis adfine laborat, et mala multa animus contage fungitur eius. sed tamen his esto quamvis facere utile corpus cui subeant: at qua possint via nulla videtur. 735 haut igitur faciunt animae sibi corpora et artus, nec tamen est uiqui perfectis insinuentur corporibus: neque enim poterunt suptiliter esse conexae, neque consensus contagia fient. c) In terzo luogo, se veramente ci fosse la metem- psicosi, perchè non dovrebbe, nelle sue peregrinazioni, un'anima di leone, per esempio, capitare in un cervo o quella d'un avoltoio in una colomba, e viceversa, per modo che ne nascessero leoni e avoltoi timidi, cervi e colombe feroci ? Invece i caratteri psichici delle singole specie si ereditano e sono costanti in esse al pari dei caratteri fisici. Se l'anima immortale mutasse solo i corpi, questa costanza non vi sarebbe o, almeno, soffrirebbe molte eccezioni. E se, d'altra parte è 1' anima che, mu- — 84 — tando corpo, muta carattere, allora vuol dire che essa non rimane la stessa, che cambia natura, insomma che muore per rinascere un'altra (vv. 789-751): Dejiiqiie cur acris violentia triste leonum 740 seminium sequitur, volpes dolus, et fuga cervi» a patribus datur et patribus pavor incitai artus^ et iam cetera de genere hoc, cur omnia membris ex ineunte aevo, generascunt ingenìoque, si non, certa suo quia serrane seminioque 745 vis aniìiti pariter crescit cum corpore toto ? quod si immortalis foret et mutare soler et corpora, permixtis anirnantes moribus essent, eff'ugeret canis Hyrcano de semine saepe cornigeri incursum cervi, tremeretque per auras 750 aeris accipiter fugiens veniente columba, desiperentque homines, saperent fera saecla ferarum. illud enini falsa fertur ratione, quod aiunt immortalem animam mutato corpore flecti : quod m^utatur enim dissolvitur, interit ergo. Se poi si volesse invece sostenere la metempsicosi solo entro i limiti di ciascuna specie, e dire che un' anima umana non s'incarna successivamente in altro che in uomi- ni (1), allora si potrebbe sempre chiedere: perchè può, di (1) Così, a mio avviso, svolse il concetto delle trasmigrazioni deli' anima la scuola pitagorica: limitandolo cioè entro i confini della specie umana, die se quasi tutte le testimonianze attribui- scono ai seguaci di Pitagora 1' interpretazione più lata a cui Lu- crezio accenna nei versi or ora citati, tali testimonianze si può dimostrare che o sono esagerate per amor di polemica o di satira, sono errate per confusione della metempsicosi pitagorica con quella egiziana od orientale in genere, o, in qualche caso, possono spiegarsi dando un signifiv,ato simbolico al passaggio dell'ani- ma nel corpo di un animale. In tale categoria rientra, per me, la testimonianza di Ennio che, nel sogno già citato degli Annali, fa- — 85 — saggia che era, diventare sciocca, dal momento che non s' è mai visto un fanciullo assennato né un piccolo pu- ledro esperto come un robusto cavallo ? Forse che la men- te in un corpo tenero, si fa tenera anch' essa ? Allora dunque non è immortale se, trasmutando corpo, perde in tal modo la vita e il sentimento di prima (vv. 758-766): Sin animas hominum dicent in corpora sem,per ire humana, tamen quaerain cur e sapienti 760 stulta qiieat fieri, nec prudens sit puer ullus, 762 nec tam doctus equae pullus quam fortis el^ui vis ? scilicet, iìi tenero tenerascere eorpore ìnentem confugient, quod si iavi fìt, fateare necesscst 765 mortalem esse animam, quoniam mutata per artus tcmto opere amittit vitam sensumque priorem. d) Infine — e siamo così alla chiusa, di sapore umoristico, di questa serie di argomentazioni contro la preesistenza e la metempsicosi — non è cosa oltremodo ridicola, dice il poeta, che ad ogni accoppiamento e ad ogni parto di animali stiano lì pronte delle anime, e, in numero innumerevole, immortali aspettino membra mor- tali, e lottino e gareggino a chi prima e di preferenza riesca a penetrare ? Se pure non e' è fra le anime il patto che chi prima arriva a volo entri per prima e cosi non ci sia fra loro nessuna lotta violenta (vv. 774-781) : Denique conubia ad Veneris partusque ferarum llb esse animas praesto deridieulum esse videtur, expeetare immortalis niortalia membra innumero numero, ceriareque praeproperanter cendo esporre dall' anima di Omero la dottrina di Pitagora, lo fa anche dire d'essere divenuta un pavone (« pavone » qui significa « cielo »). Perciò credo prettamente pitagorica, e non stoica, la dottrina della metempsicosi che svolge Virgilio nel sesto dell'Eneide. — 86 — inter se quae prima potissimaque insinuetur ; si non forte ita sunt animarum foedera pacta, 780 ut, quae prima volans advenerit, insinuetur prima, neque inter se contendant virihus hilum. 6. Qui terminano gli accenni che Lucrezio fa alle cre- denze e dottrine pitagoriche : ma poiché subito dopo, in quella parte di questo stesso terzo canto in cui si dimo- stra la vanità del timore della morte, è formulata l' ipo- tesi della resurrezione delia medesima anima nel mede- simo corpo, e tale ipotesi -è stata da qualcuno identificata con V analoga dottrina pitagorico-stoica della palingenesi, dobbiamo esaminare anche questo passo. Continuata e compiuta dunque la dimostrazione della mortalità dell'anima, il poeta ne trae subito la legittima conseguenza che la morte non ci riguarda per nulla (v. 828- 829). Come non abbiamo sentito niente di ciò che è acca- duto prima della nostra nascita (perchè l' anima nostra non esisteva), così non sentiremo nulla dopo morti, per- chè una volta avvenuto il distacco fra corpo ed anima (e la conseguente dissoluzione di questa) noi, che esistia- mo solo per l'intima unione di entrambi, non esisteremo e quindi non sentiremo più (vv. 830-840). E giunto a questo punto conclusivo il poeta avrebbe potuto fermarsi, come infatti, sembra, si fermò in una prima redazione del poema, nella quale seguivano a questa dimostrazione i versi 860-867 che la rincalzano. Senonchè piti tardi, tornandovi sopra fece un'aggiunta in cui è formulata la suddetta ipotesi, che dobbiamo appunto esaminare (1). (1) Accetto senz' altro le conclusioni del Giussani, sì per l' in- terpretazione dei vv. 860-867, sì per la composizione di tutto que- sto interessante brano. Rimando perciò il lettore all'opera già ci- tata, voi. Ili, pp. 106-107. — 87 — Poiché in essa è detto anzitutto che se pura, dopo avvenuta la separazione, l'aDima avesse facoltà di sentire, anche in tal caso la cosa non riguarderebbe punto noi, che siamo solo in quanto anima e corpo sono stretti in un'esistenza unica (vv. 841-844). La quale ipotesi peraltro (che 1' anima senta staccata dal corpo) s'intende bene da tutto quel che il poeta ha detto precedentemente, che non era assolutamente ammis- sibile (1), perchè fuori del corpo l'anima neppure esiste, consistendo la morte, per lui, nel rompersi del legame tra corpo ed anima e nell'immediato dissiparsi degli ato- mi di questa, appena rimasta priva del suo coibente. Ma vi era però un'altra ipotesi, la quale per di più poteva apparire ad alcuno non del tutto in contrasto — come la precedente — con la dottrina epicurea ; l'ipotesi cioè di un possibile ricrearsi materialmente identico del nostro essere, anima e corpo. Anche in -questo caso però la morte non ci riguarderebbe affatto per l' interruzione della coscienza personale fra le due esistenze. E tale ipo- tesi appunto il poeta svolge nei versi 845 e seguenti, in questo modo : (1) Il Giussani ha creduto invece di poter sostenere che l'ipotesi, per quanto strana, non è però in contraddizione assoluta — in a- stratto — con la teoria epicurea. Ora a me le sue ragioni non sembrano buone, e perciò credo piuttosto che qui Lucrezio abbia formulata un' ipotesi che è interamente al di fuori della dottrina d' Epicuro : come poteva infatti pensare che una qualsiasi persi- stenza del sentire dell' anima fosse possibile, dopo il distacco dal corpo, se per lui l'anima non poteva assolutamente esistere fuori del corpo che la tiene unita ? Perchè dunque Lucrezio ha formulata l'inverosimile ipotesi ? Forse unicamente come ipotesi di transizio- ne alla successiva; se pure non si tratta qui di un'argomentazione per absurdum. — 88 — 845 iVec, si materiem nostram collegerit aetas post ohitum rursumque redegerit ut sita nunc est, atque iterum nobis fuerint data lumina vitac, pertineat quiequam tamen ad nos id quoque factum, interrupta semel cum, sit repetentia nostri; 850 et nune nil ad nos de nobis attinet, ante qui fuimus, neque iain de illis nos adficit angor, nam cum respicias immensi temporis omne praeteritum spatium,, tum. motus m,ateriai multimodis quam sint, facile hoc adcredere possis, 855 semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta haee eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse : nee m,emori tamen id quimus reprehendere mente : inter enim iectast vitai pausa, vageque deerrarunt passim m,otus ab sensibus omnes. Ora a prima . vista questa ipotesi potrebbe apparire identica a quella già formulata nei versi 668-676, dove si fa pur cenno della interruzione della coscienza. Tanto che si è voluto da alcuno vedere in questi versi un'allu- sione alla dottrina dei Genetliaci, i quali credevano che nello spazio di 440 anni il medesimo corpo e la mede- sima anima rivivessero insieme (1) e ciò dipendentemente dalla dottrina della palingenesi universale che era propria dei Pitagorici e degli Stoici. Ma in verità qui non si tratta punto di questo, poiché mentre in quei versi si parla del rinascere della medesima anima in nuovi corpi, e nella dottrina dei Genetliaci si parla del ricongiungersi dell'identica anima e dell'identico corpo (nell' un caso e neir altro però 1' anima non ha mai perduto la sua perso- nalità), qui invece si considera il caso di una duplice (1) Il primo a pensar questo è stato l'editore inglese di Lucre- zio, il Munro, il quale cita il passo di S. Agostino {De civ. Dei XXII, 28) che ho già riportato al principio del Gap. III. — 89 — creazione ex novo per accozzamento degli stessi atomi, cioè si considera la possibilità della rinascita d' un iden- tico aggregato atomico corporeo-psichico nel rispetto della teoria epicurea. Che poi ciò fosse legittimo e logico è un'altra quistione (1); ma sta di fatto che Lucrezio for- mula r ipotesi secondo la logica del sistema di Epicuro. 7. Cosicché, per riassumere e concludere, abbiamo ve- duto che il nostro poeta accenna a quattro diverse opi- nioni intorno all'anima: 1*) che essa non esiste a so, ma risulta dall' armonia delle funzioni organiche (teoria di Aristosseno e Dicearco); 2*) che essa nasce e si distrug- ge col corpo, ma ha una propria ubicazione nell'organi- smo umano (nel petto) e risulta di quattro elementi (moto, caldo, freddo, sostanza atomica sensoriale) (teoria epicu- rea); 3*) che essa sopravvive al corpo e scende nell'Ade, donde può uscire per apparire agli uomini (credenza popolare); 4^) che essa, non solo sopravvive al corpo, ma è preesistita ad esso e può incarnarsi più volte. E abbia- mo veduto come quest'ultima dottrina, della quale abbia- mo fatto particolare esame, fu intesa e interpretata in modi diversi: a) l'anima immortale passa attraverso mol- teplici esistenze, cambiando specie animale (teoria egiziana); h) l'anima immortale passa attraverso molteplici esistenze, ma entro i limiti della propria specie e conservando la propria identità personale (teoria pitagorica-platonica-stoica); e) l'anima può bensì rinascere, magari nell'identico corpo. (1) L'ha posta con molta sottigliezza il Giussani {op. cit. pa- gina 105-106). Ma si veda anche quello che osserva in prop9SÌto il Pascal nel suo scritto « Morte e resurrezione in Luerexio » pub- blicata nella Riv. di Filologia classica dell'ottobre 1904 e ristam- pato nel volume Oraecia capta, pag. 67 e seguenti. 90 senza però conservare la propria identità personale (ipo- tesi (1) epicurea-lucreziana). La teoria b poi alla sua volta fu diversamente svilup- pata, poiché vi era chi sosteneva che l' anima potesse bensì reincarnarsi, ma in corpi sempre nuovi; chi invece che si reincarnasse nel medesimo corpo, e ciò in atti- nenza a una dottrina più generale, anzi universale, se- condo la quale non pur l' anima e il corpo umano anda- vano soggetti a periodici ritorni alla vita, ma tutto l'uni- verso si distruggeva e si ricreava perfettamente identico (pitagorici, stoici e genetliaci). Con questa teoria però non veniva distrutta la credenza nell'Ade o Averne come luogo di espiazione, poiché, se anche l'anima riviveva, scendeva all' Ade un suo doppio (eidolon, simulacrum) che poteva anche riuscirne (e ve- rosimilmente si distruggeva nell'atto che l'anima tornava a nuova vita terrena) (Ennio). Quanto alla teoria pitagorica in particolare, abbiamo veduto che Lucrezio ne parla, in sostanza, in due luoghi: 1**) nel proemio del primo libro (vv. 112-126) ; 2") nella confutazione dell'ipotesi della preesistenza dell'anima nel terzo libro (vv. 668-676, 720-738, 739-757, 758-766, 774- 781); e che non debbono ritenersi affatto come riferi- menti a Pitagora né il cenno alla dottrina dell' anima- armonia (e. Ili, vv. 98-135) né l'ipotesi della rinascita, come è formulata nei vv. 845-859 dello stesso libro. (1) Ipotesi la credo, e non vera teoria di Epicuro ; che, in so- stanza, Lucrezio la formula come tale, per potere opporre l' argo- mento per lui capitale della interruzione della coscienza anche a coloro che, dal punto di vista della sua stessa dottrina, avessero potuto pensare ad una eventuale rinascita dell' anima col medesi- mo corpo. II. Frammenti della dottrina di Pitagora desunti dalle opere di Marco Terenzio Varrone. 1. M. Terenzio Varrone : suoi scritti pitagorici e sua conoscenza del Pitagorismo. — 2. Frammenti della dottrina di Pitagora de- sunti dalle opere di Varrone: a) La leoria dei numeri e sue ap- plicazioni. 6) Pitagora e i due fabbri, e) La teoria degli accordi musicali, d) La stessa applicata al corso dei pianeti: l'armonia delle sfere e del mondo, e) Sua curiosa estensione al decorso del puerperio, f) I numeri e la musica in relazione con le pratiche della vita. — 3. Altri accenni alla dottrina pitagorica: i quattro aspetti delle cose e i quattro elementi ; magia ; metempsicosi; il divieto di mangiar fave. ~ 4. Varrone e gli altri scrittori del primo secolo av. Cristo. 1. — Veri e propri trattati d' indole pitagorica sappia- mo con certezza che compose Marco Terenzio Varro- ne di Rieti, il quale, nato nel 116 av. Cr. , morì quasi nonagenario nel 27. Eruditissimo in ogni campo del sa- pere, fu, appunto per questo, incaricato da Giulio Cesare di mettere insieme ed ordinare in Roma una grande bi- blioteca, specialmente di opere latine e greche ; ciò che gli diede agio di allargare e approfondire ancor più le sue conoscenze enciclopediche, delle quali si valse per — 92 - comporre innumerevoli opere, trattando dei più svariati argomenti, occupandosi d' ogni genere di ricerche, racco- gliendo con cura particolare tutte le tradizioni sacre e profane della patria, e dettando pure^ a quel che ci ha lasciato scritto Quintiliano, un' opera filosofica in versi {praecepta sapientiae versibus tradidit) (1). Della sua prodigiosa attività e di una ricchissima messe di opere letterarie, storiche, filosofiche, scientifiche — si ricordano di lui non meno di 74 opere in 620 libri — non ci re- stano purtroppo che scarsi avanzi ( poco più di nove li- bri ) e numerose citazioni, massime dei Santi Padri, che da Varrone attinsero largamente notizie d' ogni sorta. Sì che siamo quasi all'oscuro sul contenuto della maggior parte dei suoi scritti, di molti dei quali ci resta appena appena il titolo. Così dei suoi famosi Logistorici^ che era- no in 76 libri, e contenevano discussioni di argomento filosofico con miscela di notizie storiche, conosciamo i ti- toli di alcuni, nei quali si doveva trattare più o meno largamente di filosofia pitagorica : tali sono 1' Attico o dei numeri (Atticus sive de nunieris) il Tuberone o dell' ori- gine umana {Tubero seii de origine humana) il Gallo o delle meraviglie {Gallus de admiraìidis), il libro de sae- culis e r altro de philosophia; ma quale ne fosse preci- samente il contenuto non sappiamo. Così, d' altra parte, ci è rimasta notizia d' un' opera in nove libri intorno ai principii dei numeri (de principiis numerorum), la quale, messa accanto sìiV Attico già citato e alla testimonianza (1) intorno a Varrone si veda l'opera di Gaston Boissier, Etude sur la vie et les ouvrages de Varron. Per i libri Antiquitatum rerum divinarum pubblicati nel 47 av. Cr. si consulti lo studio dall' Agahd nei JahrhUcher f. class. Philologie^ 24*©^ Supplement- band I Heft, Leipzig, 1898. — 93 — di Gellio (Notti Attiche 3,10), che riferisce come Varrone trattò in maniera oltremodo compiuta del numero sette- nario ( Varrò de numero septenario scripsit admodum conquisite)^ prova che il grande reatino dovette conoscere profondamente la teoria pitagorica e specialmente la dot- trina fondamentale dei numeri (1). 2. — È veramente un peccato che di tali opere non resti quasi nulla, giacché da esse, avremmo forse potuto trarre molta luce a chiarimento di questa famosa dottrina, che era il pernio della speculazione metafisica e simbolica di Pitagora. Qualche passo tuttavia che ce ne è rimasto, vale a dimostrarci che larghe e geniali applicazioni potè avere per opera del Maestro e dei suoi seguaci la teoria stessa, che fu feconda di eccellenti e mirabili scoperte nel campo delle scienze sperimentali. a) Poiché le investigazioni matematiche dei Pitago- rici non furono soltanto rivolte alla ricerca delle proprie- tà dei numeri, ma anche fuori dei campi dell' aritmetica e della geometria, trovarono le più nuove e piìi larghe applicazioni nel vasto e infinito campo dei fenomeni na- turali. Una delle prime e forse la più importante scoperta di Pitagora fu dovuta a una di quelle felici intuizioni che, in ogni tempo, sono state il privilegio del genio; intendo parlare della determinazione matematica degli accordi, che poi dalla musica, applicata a particolari fatti della natura, (1) Già il Kathgeber {Orossgriechenland unti Pythagoras^ Gotha 1855, p. 423) scrisse : « Dem M. Terentius Varrò aus Reato, der aufgeklàrt iiber Pyihagoras war, bot sein Werk hobdomades Gele- genheit zur Erwàhnung dar ». 94 portò a molte curiose osservazioni come quelle che ri- guardano le due diverse specie di parto (a termine e settimino), e, applicata all' astronomia, portò alla teorica dell' armonia delle sfere e alla concezione dell' universo come di un tutto perfettamente armonico (kósmos). h) Fu un caso che fece volgere la mente speculativa di Pitagora alla ricerca della teoria matematica degli ac- cordi musicali, la cui determinazione, prima di lui, era affidata semplicemente all'orecchio degl'intenditori. Pas- sando un giorno per istrada accanìo a due fabbri che martellavano alternatamente un ferro sopra l' incudine, egli fu colpito dai suoni cadenzati e armonici dei mar- telli : quelli acuti dell' uno rispondevano così giustamente a quelli gravi dell' altro, che, entrando ritmicamente nel suo cervello, di vari colpi ne nasceva un solo accordo. Ebbe così la sensazione materiale di un fenomeno, intorno al quale già da qualche tempo lavorava col pensiero, e non si lasciò sfuggire 1' occasione per chiarirlo. Avvici- natosi ai fabbri, osserva più da presso il loro lavoro e nota i suoni che erano prodotti dai colpi di ciascuno. Credendo che la loro diversità di tono dipendesse dalla diversa forza degli operai, fa che essi si scambino i mar- telli : e si accorge che invece essa dipende da questi. Allora volse tutta la sua attenzione a determinare con esattezza i due pesi e la loro differenza, poi fece fare altri martelli più o meno pesanti di quei due; ma dai loro colpi nascevano suoni diversi da quei primi e per di più non intonati. e) In tal modo capì che l'accordo dei suoni doveva nascere da un determinato rapporto matematico dei pesi, che cercò subito di calcolare; trovati che ebbe tutti i nu- meri che corrispondevano ai pesi dai quali nascevano suo- — 95 — ni intonati, passò dai martelli alle corde musicali: prese alcune budello di pecora o nervi di bue di eguale gros- sezza e lunghezza, facendole tendere per mezzo di pesi proporzionati a quelli di cui aveva fatto il computo e de- terminato il rapporto coi martelli ; fattele risuonare per mezzo della percussione, non solo trovò che le corde tese da pesi uguali vibravano all'unisono al vibrare di una sola di esse, ma ottenne altresì suoni armonici precisamente dalle corde i cui pesi stavano in rapporto di 3:4 ( 5tà xeaaàptóv o èrul xpiTov o supe?^ tertium), di 2 : 3 (5tà Tcévxe) e di 2:4 (5tà Traawv). Per averne poi un'altra riprova, ripetè r esperienza con alcuni flauti, in questo modo: ne fece preparare quattro di calibro uguale, ma di lunghezza diversa, il primo, poniamo, lungo 6 pollici, il secondo 8 il terzo 9 e il quarto 12 ; poi facendoli sonare a due a due trovò che il primo e il secondo armonizzavano in accordo diatessdron (6 : 8 =: 3 : 4); il primo e il terzo in accordo diapènte (6 : 9 = 2 : 3) e il primo e il quarto in accordo diapason ( 6 : 12 ^=i 2:4) (1). In tal modo egli riuscì molto genialmente alla determinazione matematica degli accordi, ciò che permise in seguito di estendere e perfezionare la teoria della musica. E il caso che lo con- dusse alla scoperta non è molto dissimile da quello per il quale il Galilei, dall'osservazione dei movimenti d'una lampada in chiesa, fu tratto a investigare e scoprire le leggi della oscillazione del pendolo^ o da quello in virtù del quale Newton, per la caduta di un pomo, arrivò a scoprire le leggi della gravitazione universale. Tanto è (1) Vedasi la narrazione, desunta da scritti varroniani, in Ma- cROBio, Gomm. ad Somnium Scipionis, II, 1, 9 e Censorino, de die natali 10,7. 96 vero che il genio in ogni tempo e in ogni luogo sa trarre partito dalle cose e dai fatti più semplici ! d) E una volta messosi su questa via, che mirabile serie di investigazioni non seppe escogitare quella pro- fonda mente speculativa, che, dall'osservazione dì due fabbri all'incudine arrivò non pure alle leggi dell'armonia musicale, ma a scoprire 1' armonia dei cieli e di tutto r universo ! Poiché applicando i suoi calcoli al corso e alle distanze degli astri e dei pianeti vaganti fra il cielo e la terra — dai quali, secondo lui, era regolato il corso della vita e degli eventi umani — trovò che essi avevano un moto euritmico, e intervalli coi rispondenti ai toni, e suoni, proporzionatamente alla loro tonalità, in tale accor- do, da formare una dolcissima armonia, non però perce- pibile da orecchio umano, per la sua forza che supera la facoltà del nostro udito. Calcolate infatti le distanze dalla Terra a ciascun pia- neta in stadi italici di 625 piedi, trovò che dalla Terra alla Luna ci sono circa 126000 stadi ; e questo rappre- sentava per lui r intervallo di un tono; dalla Luna a Mer- curio (Stilbon) calcolò una distanza uguale alla metà, ossia un semitono; di qui a Venere, altrettanto; da Venere fino al Sole, tre volte tanto, come a dire un tono e mezzo. Il Sole quindi distava, secondo lui, dalla Terra tre toni e mezzo, formando così con essa un accordo diapente e dalla Luna due toni e mezzo, formando un accordo diates- sdron. Dal Sole poi a Marte (Pyrois) stimava esserci e- guale distanza che dalla Terra alla Luna, ossia un tono; di qui a Giove (Phaeton), la metà, ossia un semitono; da Giove a Saturno, altrettanto, cioè ancora un semitono; di qui finalmente al cielo delle stelle fisse, press' a poco un mezzo tono ; e però da questo cielo al Sole poneva un FIRMAMENTO Orbita di •e Orbita di •e Orbita di Orbita del Saturno Giove Mabte e- 3 Q. o o II» H K> •d Wi ■O- SOLE Orbita di ■e Orbita di Orbita della 1 Vbnehe Mercurio ■e- LUNA ©■ •0 Wi TJSKBà, d> > 3 Q. •« O o tt) •0 u cs i) > »3 o 8 ti •0 u e ^ 7. — 98 — intervallo diatessdron (di due toni e mezzo), e dallo stesso cielo alla Terra un intervallo in accordo diapason (di sei toni) (1). e) Per queste osservazioni e scoperte è ben naturale che Pitagora dovesse convincersi che nell' universo tutto è regolato dal numero, ossia che nulla vi è di casuale, di fortuito, di tumultuario, ma tutto procede da leggi divine e da una determinata e determinabile proporzione (2). Sic- ché dalla musica e dall' astronomia passando, per esempio, ' alla tisiologia, trov^ava nel decórso del puerperio ancora una riprova della regolarità matematica dei fenomeni na- turali. Orbene, la curiosa applicazione che Pitagora fece della dottrina dei numeri al più complesso e meraviglioso dei processi fisiologici, cioè alla generazione, era appunto spiegata in una delle opere varroniane su ricordate (Tu- bero seu de origine humana). Queir acuto e profondo osservatore infatti avendo stu- diato accuratamente il decorso delle due diverse specie di parto, l'uno di sette (settimino) e Y altro di dieci mesi lunari (a termine) che avvengono rispettivamente 210 e 274 giorni dopo la concezione, e avendo determinato i. numeri corrispondenti ai giorni nei quali, per ognuno dei due parti, si compiono i mutamenti più importanti — del seme in sangue, del sangue in carne, della carne in for- ma umana — trovò che il parto settimino è in rapporto col numero 6 e quello a termine col numero 7; non solo, ma che i nùmeri suddetti, tanto nell' uno quanto nell'al- tro, si trovano nello stesso rapporto degli accordi musi- cali. Ed ecco in qual modo. (1) Censorino, de die natali, cap. 13. (2) Maorobio, Oomm. in Somnium Soip. Il, U, 7 e 4, 14. — 99 — Nel parto di sette mesi, per i primi sei giorni dopo la fecondazione, V umore che è contenuto nell' utero è di aspetto lattiginoso ; nei successivi otto giorni è di aspetto sanguigno. Il rapporto fra 6 e 8 è, come abbiamo veduto più volte, quello precisamente che forma accordo diatessd- ron (6:8 = 3:4). Nel terzo stadio si hanno 9 giorni, in cui comincia la trasformazione dell' umore sanguigno in carne : e il 9 col 6 forma il secondo accordo diapènte (6:9 = 2: 3); finalmente nei 12 giorni seguenti si ot- tiene il corpo già formato : e il rapporto di 12 con 6 forma il terzo accordo diapason (6 : 12 .^r: 1 : 2). Questi quattro numeri 6, 8, 9, 12 sommati insieme formano 35 giorni, i quali moltiplicati per 6 danno appunto il nu- mero totale dei giorni, di durata della gestazione, ossia 210. Nel parto a termine invece, con analogo ragiona- mento, il calcolo era basato sui numeri 7, 9 1/3, 10 1/2, 14, che sommati insieme danno 40 e una frazione; 40 moltiplicato per 7 dà 280, da cui detraendo 6 si ha 274. Vale a dire che nel parto di dieci mesi iL mutamento del seme in umore latteo avviene in sette giorni anziché in sei, e la formazione del corpo è già avvenuta dopo 40 giorni interi, che moltiplicati per 7 danno 280, cioè quaranta settimane ; ma poiché il parto avviene nel primo giorno dell'ultima settimana, così bisogna detrarre sei giorni, onde ne restano 274. Tanto il 210 che il 274 so- no veramente due numeri pari, laddove Pitagora dava speciale importanza al numero dispari, tanto da ritenere — in virtii delle sue molteplici osservazioni — che tutto è regolato da esso (1) : ciò non pertanto, osserva Censorino (1) Macrobio, Saturnal. I, 13, 5 ; Solino, I, 39 ; Servio, ad Bmol. Vili, 75. — 100 — che riporta tutto questo passo Yarroniano, egli non era qui in contraddizione con se stesso, perchè i due dispari 209 e 273 sono bensì compiuti, ma non si compie ne il 210^ né il 274" giorno in cui il parto avviene; in con- formità precisamente di quanto ha fatto la natura sia ri- guardo alla durata dell' anno (365 giorni più una frazione) che a quella del mese (29 giorni più una frazione) (1). ;Non è il caso di entrare qui in merito al valore in- trinseco e alla veracità di siffatte osservazioni. Poiché anche se errori vi sono, bisogna naturalmente tener conto da un lato della diversità dei mezzi d'indagine e di esperimento da oggi a ventisei secoli or sono, e pensare dall' altro che molte delle applicazioni della teoria dei nu- meri non dovettero neppure essere l' opera diretta di Pi- tagora, ma il prodotto delle speculazioni dei suoi seguaci. In ogni modo però risulta chiaro dal poco che si è ve- duto sin qui che le speculazióni stesse non rimanevano campate nell'aria e nelle nebulosità della metafisica, ma trovavano la loro base e la loro ragion d' essere nell' os- servazione scientifica dei fatti naturali; sì che fu indub- biamente merito di Pitagora e dei suoi discepoli quello di aver dato un nuovo impulso alla scienza; e, fatta ragione dei tempi, non fu merito piccolo. f) Se la teoria dei numeri trovava così mirabili ri- scontri nella natura e nei suoi fenomeni, è ben naturale che ad essa dovesse pure conformarsi la vita pratica degli uomini, almeno di quelli che si iniziavano ai mi- steri e alle profonde verità del Pitagorismo. Ond' é, per esempio, che un'altra testimonianza varroniana ci ricorda (l) Censorino, de die natali 9 e 11. Si confronti con questo il passo di Gellio, Notti attiche, III, 10, 7. - 101 -^ la particolare considerazione in cui erano tenuti i così detti numeri cubici, ai punto che persino nello scrivere i Pitagorici ne tenevano conto scrupolosamente badan- do di comporre in una sola volta 216 righe o versi (216i=r 6 X 6 X 6) e non mai piìi di tre volte tanto! (1). Ora questo è uno di quei particolari che, presi a se, prestano facilmente il fianco al riso e alla satira; ma in verità se noi non possiamo spiegarci la cosa in modo ra- gionevole, ciò può dipendere dal fatto che non conosciamo tutto il complesso della dottrina e della vita pitagorica ; poiché è ben possibile che pratiche di questo genere rien- trassero nell' ambito del sistema per puro amor dell' ordi- ne e doll'euritmia, al solo scopo di far sottostare a una certa regola anche gli atti minimi e più insignificanti della vita ; se pure non si tratta, qui e in altri casi, di esagerazioni dei seguaci o di degenerazioni dei primitivi insegnamenti del Maestro. Ma senza soffermarci troppo su cosiffatte quisquilie, è ben noto d'altra parte — ed è ancora Varrone che parla — quanta parte avesse la musica nel sistema educativo di Pitagora, e come egli medesimo se ne dilettasse al punto, che ogni sera prima di addormentarsi e ogni mattina al suo svegliarsi cantava, accompagnandosi con la cetra, per meglio disporre 1' animo ai suoi pensieri divini (2). 3. — Oltre a queste notizie, che io, valendomi delle indagini già fatte da altri (3), ho cercato di esporre si- (1) ViTRirvio, De arehiteetura V pr. p. 104, 1. (2) Censorino, de die natali 12, 4. (3) Si veda nell' opuscolo di A. Schmekel, De Ovidiana Pytha- goreae doctrinae adumbratione (Giyphiswadensiae, MDCCCLXXXV) l'appendice a pagina 76 « Varronis Pythagoreae doctrinae frag- menta continens ». stematicamente raggruppandole intorno alla dottrina dei numeri, altre se ne trovavano nelle opere di Yarrone, intorno alla vita di Pitagora, intorno alla sua scuola e ai suoi seguaci e intorno ai principii del suo sistema. Così Yarrone poneva 1' esistenza di Pitagora al tempo di Tarquinio Prisco (1) e quindi implicitamente non ac- cettava la tradizione che Numa fosse stato suo scolaro a Crotone. Anch'egli attribuiva a Pitagora il merito di essersi chiamato per primo filosofo, cioè amante del sa- pere, e ricordandone il maestro Ferecide faceva risalire : già a questo 1' uso di pratiche magiche per indovinare il futuro ; come pure accennava altrove alla sua andata a Turio (Sibari) nella Calabria (2). E Sant' Agostino ci ha conservato un altro passo nel quale Yarrone, da vero romano, esprimeva la sua ammirazione perchè 1' ultima cosa che Pitagora insegnava ai suoi discepoli, quando già fossero perfetti, sapienti e felici, era quella del governare la cosa pubblica (3). Appartiene al libro quinto dell' opera intorno alla lin- gua latina un brano in cui Yarrone afferma che Pitagora insegnava « due essere i principii d' ogni cosa, come fi- « nito e infinito, bene e male, vita e morte, giorno e « notte. E quindi parimenti due i modi di essere : stato « e moto; ciò che sta fermo o si muove, corpo; il dove « si muove, spazio; il quando si muove, tempo ; ciò che « vi è nel movimento, azione; e avvenire appunto perciò « che quasi tutte le cose siano quadripartite ed eterne, « poiché ne paò mai esservi stato tempo se non prece- (1) S. Agostino, de civitate dei XYIII, 25. (2) Ibidem, XYIII, 37 e YIII, 4; Tertulliano, dean. 28; Apol. 46. (3) S. ìlggstino, de ordine II, 20, 54. — 108 — « duto da moto, — se tempo è appunto l' intervallo fra « un moto e l' altro — ; né moto senza spazio e senza « corpo, perchè l'uno (il corpo) è ciò che si muove e <^ r altro (lo spazio) il dove; né può mancare l'azione dove « e' è movimento; onde le due coppie di principii : spazio « e corpo, tempo e azione » (1). Altrove ci ricorda Var- rone un altro pensiero fondamentale di Pitagora, assunto poi pili tardi da Aristotile, quello cioè che l'esistenza de- gli animali e però anche dell'uomo non ha mai avuto principio nel tempo, perchè sono sempre esistiti (2). E parimenti faceva risalire a lui quella teoria dei quattro elementi (terra, acqua, aria ed etere o fuoco) che comu- nemente si suole invece attribuire ad Empedocle di Gir- genti, vissuto un secolo dopo (3). Non mancava neppure nelle opere varroniane qualche accenno alla teoria pita- (1) Yabro, de Lingua Latina, Y, 11 : « Pythagoras Samius ait omnium rerum initia esse hina^ ut finitum et infinitum^ honum et malum^ vitam et mortem., diem et noctem. Quare item duo, status et m,otus ■: quod stat aut agitatur, corpus ; uhi agitatur locus; dum. agitatur, tempus; quod est in agitatu, aetio; quare fit^ ut ideo fere omnia sint quadripartita et ea aeterna, quod nc- que unquam tempus quin fuerit motus, eius enim intervallum tempus; ncque motus ubi non locus et corpus, quod alter um est quod moveiur, alterum uhi; ncque uhi agitatur, non actio ihi; igitur initiorutn quadrigae : locus et corpus, tempus et actio ». (2) Vaerò, de re rustica, 1, 3 : « Sive enim aliquod fuit prin- cipium generandi animalium, ut putavii Thales Milesius et Zeno Gittieus ; sive cantra principium horum exstitit nullum, ut cre- didii Pythagoras Samius et Aristoteles Stagirites\ necesse est hu- manae vitae a summa memoria gradatine descendisse » . Cfr. Cen- SORINO, de die natali, IV, 3. (3) ViTRUVio, de architectitra, V, 1 ; Servio, ad Aeneid. VI, 724; ad Geòrgie IV, 2l9; Ovidio, Metamorfosi, XV, 237 e seg. E cfr. Diogene Laerzio, VIII, 25. — 104 — gorica deir eternità dell' anima (1) e alla sua dottrina della metempsicosi (2), a conferma della quale ricordava persi- no le sue vite anteriori, essendo stato prima un certo Etalide, poi Euforbo, poi il pescatore Pirro e finalmente Ermotimo (3). Altrove ancora Yarrone accennava alle pra- tiche di evocazioni dei morti, che del resto erano larga- mente usate neir antichità, come dimostra, fra le altre, la rappresentazione di una scena di necromanzia dipinta in un monumento cretese, scoperto da poco, che risale ai tempo pre-omerico (1500-1400 av. Cr.) della così detta civiltà micenea o minoica (4). È finalmente quasi superfluo dire che Varrone non mancò di parlare del famoso divieto pitagorico di man- giar fave, connesso con la credenza nella metempsicosi e con la concezione che Pitagora ebbe della vita post- mortale (5). (1) Symmaghus, Ep. I, 4. (2) Vabro, Sat. Menipp.^ ed. B framm. 127 (= Nonio Marcello, p. 121, 26); Tertulliano, de mi. 27 e 34; ad nat. I, 19; S. Ago- stino, de cìv. dei 18, 45; Scholia in Lucan. p. 289, 11 e 304, 13. (3) Tertulliano, de an. 28, 31 e 34; Sant'A&ostino, Trinit. XII, 24. (4) Sant'Agostino, de civ. dei VII, 35 « Quod genus divinatiò- nis idem Varrò e Persis dicit allatum, quo et ipsum Numam, et postea Pythagoram philosophum usum fuisse commemorai ; ubi adhihito sanguine etìam inferos perhibet sciseitari et nekyoman- teian graeee dicit vocari » . Quanto alle rappresentazioni di scene di necromanzia si veda, per esempio, Drerup, Omero (Bergamo I9l0) a p. 176 e relativa tavola a colori; e si ricordi la famosa Nekuia omerica del libro XI dell'Odissea. (5) Tertulliano, Apol. 47 ; de anima, 33 ; Plinio, Nat. Hist. XVIII, 118, XXXV, 160. — 106 - 4. — Tali a un di presso le notizie di contenuto pitago- rico, che si possono far risalire a Varrone. Data l'esiguità delle opere superstiti e la varietà degli autori da cui fu- rono raccolte, esse sono slegate e frammentarie, ma tali però da farci ancora una volta rimpiangere la perdita quasi totale dell' enciclopedia varroniana, con la quale si è certo perduto per sempre un ricco tesoro di notizie utili e importanti per la storia del Pitagorismo nell'anti- chità classica. Ma poiché dei materiale già sistematicamente raccolto da Yarrone, come delle sue speculazioni e delle sue ri- cerche storico-filosofiche debbono essersi serviti non poco gli scrittori contemporanei o che vissero poco dopo di lui, così, continuando a cercare le tracce di Pitagorismo ri-- maste nelle opere di altri scrittori di questo tempo, po- tremo ricostruire e svolgere qualche altro punto della dottrina di Pitagora e compiere così il quadro della co- noscenza che ne ebbero i contemporanei di Cesare e di Augusto. 111. Appio Olaadio Palerò - Cicerone e il « Somninm Scipionis ». i. Appio Claudio Palerò e la seienxa augurale. — 2. Marco Tullio Cicerone e la sua eonoscenxa del Pitagorisìno. - 3. Notixie intorno a Pitagora e alle sue dottrine desunte dalle opere cice- roniane. — 4. // « Sogno di Scipione % : a) Suo carattere pitagorico e profetico; b) Contenuto e materia di esso: la via lattea; vita e morte; il suicidio; le sfere celesti e la loro armonia; la terra e le sue xone; la gloria terrena; anima e corpo; V im- mortalità dell' anima. 1. — Fra gli amici di Marco Terenzio VarroDe è degno di essere ricordato queir Appio Claudio Fulcro, del quale sappiamo che fu augure, pretore nei 57 a. C, console nel 54, censore, governatore della Cilicia e legato in rap- porti di amicizia anche con Cicerone, di cui ci restano diverse lettere a lui indirizzate. Convinto che la scienza augurale avesse il suo fonda- mento non già nel desiderio o nel bisogno di giovare anche con 1' ausilio potentissimo della religione agii in- teressi dello Stato — come la pensava l' altro grande augure C. Claudio Marcello — ma che realmente fosse un dono concesso dagli dei agli uomini, perchè questi - 108 — fossero in grado di meglio intendere la loro volontà e di regolare, uniformandosi a questa, la propria condotta pub- blica e privata (1), era solito far sortilegi, oroscopi, evo- cazioni di morti (2); ne più né meno di quello che, secondo la tradizione aveva fatto in antico il re Numa (3) e di quel che avevano fatto il filosofo Ferecide di Siro, il suo discepolo Pitagora, e Platone (4). Questa convinzione , suffragata dalle dette pratiche della divinazione artificiale cui era dedito, dovette appunto indurre Appio a scrivere quei suo « liber auguralis '> , forse di carattere polemico, che dedicò all' amico Cicerone (5). lì quale fra T interpre- tazione utilitaria e razionalistica di quelli che la pensavano come Marcello, e la fede ortodossa di coloro che la pen- savano come Appio Claudio, ebbe un'opinione intermedia, in questo senso : che cioè una vera e propria scienza e arte augurale fosse già esistita in antico, ma che di essa però non fosse più depositario, al tempo suo, il collegio degli auguri, poiché, per il lungo tempo trascorso e per r abbandono e la negligenza in cui s' era lasciata, era, (1) CicEBONE, de divìnatione, L. II, 13, 32 : « sed est in conlegio vestro inter Marcellum et Appiutn, optimos augures, ynagna dis- sensio fnam eorum ego in libros incidi), quom alteri plaeeat auspieia ista ad utilitatem esse reipublicae composita, alteri di- sciplina vestra quasi divinare mdeatur posse » . (2) CiCEE., Tusculane, 1. I, 16, 37 : < inde ea, quae meus amicus Appius nekyomanteia faciebat ». Cfr. de divinat. I, 10, 30 ; 58, 132. (3) Si cedano in S. Agostino, Città di Dio, l. VII, i capitoli 34 e 35. (4) CioEE., Tuscul, I, 16, 38 j 17, 39. (5) CicER., Ad familiares, 3, 4, 1 ; 9, 3, 11, 4 ; Varrone, R. R. 3, 2f 2. 109 secondo lui, svanita (1). Dichiarazione questa, che per essere fatta da un augure di tanta autorità, non è certo di lieve momento. Sarebbe in verità molto interessante addentrarsi nella ricerca di quel che fosse proprio questa ra antica, come la chiamavano i greci, o aruspicina, che tanta parte ebbe nella vita privata e pubblica degli Elioni e degli antichi Italici; ma questa trattazione mi porterebbe troppo lon- tano dal tema di cui ora sto occupandomi. E del resto ricerche abbastanza ampie, se non proprio in tutto sod- disfacenti ed esaurienti, sono già state fatte in proposito (2). Basti dire pertanto che la mantica o arte divinatoria si esercitava in forme e modi diversi — con T osservazione del volo degli uccelli in un punto determinato del cielo detto templum (onde trasse origine la parola contempla- zione), con 1' esame dei visceri (cuore, polmone, fegato) di animali sacrificati a questo scopo (hostiae consultato- riae\ con la interpretazione o ermeneutica dei sogni, con la considerazione dei fenomeni celesti (tuono, lampo, ful- mine, ecc.), cogli oracoli, coi pubblici e privati carmi profetici - ; e che era pure praticata da Pitagora, il quale vi annetteva anzi un particolarissimo valore, tanto da voler essere ritenuto egli stesso augure (3) : il che (1) CicER., de legìbus 1. II, 13, 33 ; « Sed dubium non est, quin haec disciplina et ars auguruni evanuerit jam et vetustate et neglegentia. Ita neque illi (cioè Marcello) adsentior, qui negai unquam in nostro conlegio fuisse, neque UH ;cioè Appio) qui esse etiam nunc putat ». Cfr. de divinai. 11^ 33, 70. (2) Si vedano, fra gli altri, i due importanti lavori del Bochsen- schììtz, Sogni e cabala nelV antichità, Berlino 1868, e del Cak- TANi-LovATELLi, Sogni e ipnotismo nelV antichità, Roma 1889. (3i CiCEBONE, de divinatione, L. I, 3, 5 « .... huic rei (cioè alla divinazione) magnani auctoritatem Pythagoras,.. tribuit, qui no naturalmente non poteva pretendere senza dare qualche prova di virtù profetica ; e, secondo la tradizione, egli ne diede infatti non poche. 2. — Altro amicissimo di Varrone fu, come è noto, Marco Tullio Cicerone^ che visse dal 106 al 43 a. C. Negli scritti che in gran numero ci restano di lui fre- quentissimi sono gli accenni a Pitagora, alla sua scuola e alla sua filosofia ; non però tali da farci pensare a una elaborazione personale e originale, o all' approfondimento di qualche parte delle dottrine pitagoriche. Seguace come fu di un eclettismo che stava fra 1 ' accademismo e lo stoicismo dell' ultima maniera, iniziato ai misteri religiosi, augure anch' esso, appassionato se non profondo cultore della filosofia greca, della quale si fece divulgatore fra i Romani, creando quasi ex novo per essi, dopo il mirabile tentativo poetico di Lucrezio, la lingua filosofica, autore anche di molte opere, nelle quali, con squisito senso di arte, trattò dei più svariati argomenti sì metasifici che morali, Cicerone ebbe senza dubbio una conoscenza ab- bastanza larga dell' antica filosofia italica, l'unica forse che avesse già avuto in Roma insigni divulgatori e se- guaci, come Appio Claudio Cieco ed Ennio, e rinnovatori come Nigidio. È anche indubitato che molto gli giovarono per tale conoscenza — oltre che 1' assiduo studio dei filosofi gre- ci — r amicizia di Varrone e dello stesso Nigidio Figulo, e la lettura dei loro scritti, per noi perduti. Ma non per etiam ipse augur vellet esse ». Cfr. I, 39, 87 ed anche 45, 102 : « Neq^ue solum deorum voces Pythagoreì observitaverunt, sed etiam hominum, quae vocant omina ■» . — Ili — questo possiamo dire che i'Arpiuate avesse fatto parti- colari studi intorno a quel sistema di dottrine, che, se collimavano in parecchi punti con le sue convinzioni per- sonali, tuttavia^ per il simbolismo onde erano involute, si prestavano assai meno delle posteriori e piìi note filo- sofie ad essere facilmente comprese dai profani e divulgate artisticamente. 3. — In ogni modo, volendo raccogliere dalle sue opere le notizie che si riferiscono a Pitagora e alla sua scuola, dovrei prendere le mosse da quel passo delle Tuscolane (libro IV, 1-4) in cui Cicerone parla delle dottrine pita- goriche, della loro diffusione in Italia e delle tracce che esse lasciarono nelle istituzioni e nelle leggi dì Roma. Ma poiché ne ho già discusso lungamente, rimando senz'altro i lettori al primo capitolo di questo studio. Di Pitagora Cicerone dice in due luoghi che fu disce- polo di Ferecide (1), specialmente per la sua dottrina suir eternità dell' anima, in quanto egli insegnava 1' esi- stenza di un' anima universale, compenetrante tutta la natura e ciascuna delle sue manifestazioni, e la deriva- zione da essa di ogni anima umana (2). E per ciò che riguarda la natura di questa, Cicerone stesso accettò la distinzione - fatta prima da Pitagora e poi da Platone — (1) De divinatione, I, 50, 112 ; Tusculane I, 16, 38: « Pherecides Syrius primuìn dixit anìmos esse hominum sempiternos. .. Rane opìnionem discipulus Pytkagoras ìnaxime confirmavit ». (2) De natura deorum, I, 11, 27 : « Pytkagoras censuìt ani- mum esse per naturatn rerum omnem intentum et eonmeantem, ex quo nostri animi earperentur ». De seneetute 21, 78 : « Au- dieham, Pythagoram Pythagoreosque numquam dubitasse, quin ex universa mente divina delibatos animos haberemus ». — 112 — dell' anima in due parti, V una ragionevole, in cui questi filosofi ponevano la tranquillità, cioè una placida immu- tabile costanza, e V altra irragionevole, onde traevano origine i moti torbidi sì dell' ira come del desiderio (1). Per la quale credenza V uno e l'altro ammisero la pos- sibilità di accrescere le forze conoscitive dello spirito, specialmente nel sonno, quando a questo l' uomo si fosse disposto opportunamente con particolare dieta e con una meditazione preparatoria (2) ; e credettero nella divinazione, al punto che Pitagora, come ho già ricordato, pretendeva di essere egli stesso profeta. Cicerone seppe anche dei viaggi di quest' ultimo nelle terre più lontane (3), del suo colloquio con Leonte, il capo dei Fliasii, in cui per la prima volta si chiamò filosofo (4), della successiva venuta in Italia, dei suoi studi di geometria e del sacrificio d'un (1 ) Tusculane, IV, 5, lO : « Veterem illarti equidem Pytkagorae pri/num, dein Platonis diseriptionem sequar, qui anlìnum in duas partes dividunty alter ani rationis participem f aduni y alte- rani expertem ; in participe rationis ponunt tranquillitatemy id est placidam quietarnque constantiam, in illa altera 'ruotus turbi- dos cum irae, twìn cupiditatis, conirarios ìnimicosque rat ioni ». Cfr. libro I, 17, 39. (2) De divinatione, II, 58, 119: « Pythagoras et Plato,., quo in somnis certiora videamus, praeparatos quodam eultu atque victu proficisci ad dormiendum jubent ; faba quidem Pythagorei utiqus abstinere, quasi vero eo cibo mens, non venter infletur ». Sulle meditazioni serotino, ma di altro genere, vedasi De senectule 11, 38 : Pythagorii quid quoque die dixissent, audissent, egissent, eommemorabant vesperì » ; e sulla astinenza dalle fave si con- fronti de divinatione I, 30, 62 e II, 58, 119. (3) TuseuL, IV, 19, 44; 25, 55; de fìnibus V, 19, 50; 29, 87. (4) TuseuL, V, 3, 8 e segg. Cfr. sopra e vedi Diogene Laerzio, Proemio, 12, che desume la notizia da un libro di Eraclide pontioo. — 113 — bue alle Muse per aver trovata la soluzione d'un teorema (1), della sua dimora a Crotone (2) e a Taormina in Sicilia (3), della sua operosa vecchiezza (4) e infine della sua dimora e della morte a Metaponto (5). Quanto alla dottrina e alla scuola, oltre al noto prin- cipio autoritario dell' ipse dixit^ che biasima (6), e a quello che ho accennato or ora della natura dell' anima, Cicerone ricorda la teoria dei numeri (7), 1' armonia del mondo e il culto della musica (8), l'astinenza dai sacrifìcii cruenti e il rispetto per gli animali, naturale e logica conseguenza del concetto pitagorico della vita (9), il divieto del suici- dio (10) e infine la bella concezione dell' amicizia, vera comunanza di spiriti e di vita (11), che diede fra gli altri il mirabile e notissimo esempio di Damone e Finzia (12); oltre ai quali il nostro scrittore ricorda altri pitagorici. (1) De nat. deorum, III, 36, 88. La cosa per altro non par cre- dibile a Cicerone, perchè Pitagora si sa che non volle sacrificare una vittima neppure ad Apollo delio, per non bagnare di sangue un altare. E non ha torto. (2) De re publica II, 15, 28; ad Atticum IX, 19, 3. (3) De consul. 3. Cfr. Giamblico, Vita Pythag . 122. (4) De senectute 7, 23. (5) De finibus V, 2, 4. (6) De nat. deor., I, 5, 10. Per la critica ed il valore di questo principio autoritario si veda nell'Appendice « Il sodalizio pitago- rico di Crotone » . (7) Tuscul., I, 10, 20 ; Acad. pr. II, 37, 118 e Somnium Sei- pionis, 12 e 18. (8) De nat. deor., Ili, 11, 28 ; Tuscul., Y, 39, 113. (,9) ibid.. Ili, 36, 88: de re pubi., Ili, 11, 19. (10) De senect., 20, 73 ; prò Scauro, 4, 5. (11) De officiis, I, 17, 56; de legibus, I, 12, 34; Tuscul., Y, 23, 66. a2) Tuscul. Y, 22, 63; de officiis, III, 10, 45; de finibus, II, 24-79; Cfr. Porfirio, V. P. 59. 8. — lU — e cioè Filolao di Crotone e il suo discepolo Archita di Taranto, Echecrate di Locri, Timeo ed Acrione contem- poranei di Platone (1). Di quest'ultimo poi egli dice esplicitamente che, dopo la morte di Socrate, prima si recò in Egitto e poi in Italia e in Sicilia per conoscere da vicino le verità scoperte da Pitagora, e che stette molto con Archita e Timeo e potè procurarsi i commentarli di Filolao (che esponevano per iscritto per la prima volta le dottrine del maestro, fino allora trasmesse solo oralmente e sotto il vincolo della segretezza) ; e poiché allora appunto era più che mai ce- lebre nella Magna Grecia il nome di Pitagora, praticò con Pitagorici e si dedicò ai loro studi. Tanto che, pre- diligendo egli Socrate sopra ogni altro e volendo rappre- sentarlo adorno di ogni virtù e sapienza, fuse insieme la piacevolezza e la sottigliezza socratica con 1' oscurità del simbolismo pitagorico e nei suoi dialoghi fece parlare il maestro in modo che, anche quando discuteva di morale e di politica, si studiò di mescolarvi i numeri, la geometria e r armonia, alla guisa di Pitagora (2). Dal quale poi (1) De finibus, V, 29, 87. (2) De re pubi., I, 10, 16 : < In Platonis libris multis locis ita loquitur Socrates, ut etiam cum de moribus, de virtutibus denique de republica disputet, numeros tamen et geometriam et harmoniam studeat Pythagorae more eoniungere. Tum Scipio : Sunt ista, ut dtcis, sed audisse te credo, Tubero^ Platonem, So- crate mortuo, primum in Aegyptum discendi causa, post in Ita- liam et in Siciliani contendisse, ut Pythagorae inventa perdisceret, eumque et cwrn Arehyta Tarentino et cum Timaeo Locro multum, fuisse et Philolai commentarios esse nanctum, quunique eo tem- pore in his locis Pythagorae nomen vigerci, illum se et hominibus Pythagoreis et studiis illis dedisse. Itaque cum Socratem uniee dilexisset eique omnia tribuere voluisset , leporem Socraticum — 115 — tolse di peso la dottrina ferecidea sull'eternità dell'anima, aggiungendovi però di suo una spiegazione razionale (1). Un complesso dunque di notizie, o meglio di accenni, superficiali e sconnessi, che rappresentano press'a poco il grado di conoscenza che del Pitagorismo ebbero gli uomini colti dell'età di Cicerone. 4. — Ma vi è un' opera di questo fecondo scrittore, anzi un frammento della sua opera "più importante, sul quale dobbiamo fermare un poco più particolarmente la nostra attenzione, per la molteplicità degli elementi pita- gorici che contiene: voglio dire il Sogno di Scipione^ così famoso e di tanta importanza per la storia della mi- stica, sia considerato in se stesso sia per i commenti che ebbe ; poiché intorno ad esso si affaticarono molti ingegni, da Macrobio e da Eulogio, che ne fecero amplissima ana- lisi nel quarto secolo (2), all'inglese Wynn Westcott, che suMilìtatemque sermonis cum obscuritate Pythagorae et cum illa flurimarum artium gravitate contexuit » . (1) TuscuL, I, 17, 39 : « Platonem ferunt, ut Pythagoreos cogno- sceret, in Italiam venisse et didleisse Pythagorea omnia primumque de animorum aeternitate non solum sensisse idem quod Pytha- goram sed rationem etiam attutisse » . Cfr. De amicitia, IV, 13 : « Neque enim adsentior iis, qui nuper haec disserere coeperunt, cum corporibus simul animos interire atque omnia m>orte deieri. Plus apud me antiquorum auctoritas valet, vel nostrorum m>ajo- Tum.... vel eoriim, qui in hac terra fuerunt magnamque Orae- ciam, quae nunc quidem deleta est, tum florebat, institutis et praeceptis suis erudierunt, vel eius, qui Apollinis oraeulo sapien- tissimus est iudieatus, qui non tum hoc, tum illud, ut in plerisque, sed idem semper, animos hominuvi esse divinos, iisque, cum ex corpore excessissent, reditum in eoelum patere optimoque et iu~ stissimo cuique expeditissimum. Quod idem Scipioni videbatur » (2) AuRELii Maceobii Ambrosii Theodosii V. ci. et inlustris Gom- Quentarius ex Cicerone in Somnium Scipionis libri duo. - - Favonii EuLoan oratoris almae Karthaginis Disputatio de somnio Scipio- nis, scripta Superio y. e. cos. Provinciae Bizacenae. — 116 — non molti anni addietro ne pubblicò una traduzione di- cendolo senz' altro, (non so però con quale fondamento che non sia una semplice presunzione ipotetica) un fram- mento dei Misteri (1). a) Mi preme tuttavia di mettere subito in chiaro che, affermando pitagorico il contenuto di questo sogno, non voglio con ciò asserire né che Cicerone fosse un seguace di quella filosofia, né che desumesse direttamente le idee informative del sogno stesso da scritti pitagorici : poiché so bene che studi fatti recentemente da valentissimi cri- tici come il Gylden (2), il Corssen (3), il Pascal (4), hanno messo in chiaro che fonti ciceroniane per la materia di esso furono o poterono essere Platone, Posidonio ed Era- tostene. Ma sta di fatto che noi troviamo raccolti in esso tutti quasi i concetti suesposti, che Cicerone stesso at- tribuiva a Pitagora e ai suoi seguaci ; il che dimostra ancora una volta, se pur ve ne fosse bisogno, che i filo- sofi posteriori fecero proprie e tramandarono l'uno all'altro molte delle idee e degli insegnamenti della scuola croto- niate. L' idea poi di valersi d' un sogno per fare un'espo- sizione di principi filosofici già era venuta, agli albori della letteratura romana, a un grande scrittore e poeta, pitagorico per giunta: voglio dire Ennio, del quale si é già veduto nel capitolo secondo. (1) Somnium Seipionis. The vision of Scipio considered as a fragment of the Mysteries, London, 1899. (2) Vestigia Platonis in Gieeronis Somnio Scipioìiis, 1848. (3) De Posidonio Rhodio M. T. Gieeronis in l. I Tuscul. disp. et in Somnio Seipionis auctore. Bonnae, 1878. (4) Di una fonte greca del « Somnium Seipionis » di Cicerone, nei rendiconti della R. Accademia di Archeologia, Lettere e belle Arti di Napoli, 1902. Ripubblicato in « Oraecia Capta », Firenze, Le Monnier, 1905. — 117 — Sicché possiamo ben dire pitagorica l' ispirazione di questo bellissimo frammento ciceroniano: tanto più che abbiamo sentito or ora, per bocca dello stesso Cicerone, che opinione Pitagora e i suoi avessero intorno al sonno e alle forze conoscitive dello spirito nel riposo e nella quiete del corpo. Questo sogno, poi, secondo le osservazioni di Macrobio, partecipava contemporaneamente di tutte e tre le forme principali o profetiche dei fenomeni del sonno, oracolo, visione e sogno: oracolo (oraculum =^ xpr^pta-ctafió?), in quanto apparvero a Scipione addormentato il padre Lucio Emilio Paolo e il padre adottivo Scipione Africano Mag- giore, uomini venerandi, che avevano anche coperto ca- riche sacerdotali, e gli predissero quello che egli avrebbe fatto come generale e come magistrato e la sua morte a 56 anni ; visione (visio = Spajjta), in quanto durante il sonno parve all' Emiliano di essere trasportato in cielo e più precisamente nella via lattea, — dove avrebbe poi dovuto tornare dopo morto a godervi la felicità concessa da Dio ai buoni reggitori degli Stati — e di lassù con- templare r universo e i pianeti e la terra stessa divisa nelle sue cinque zone ; sogno propriamente detto {som- nium 3= ovetpo?), perchè la profonda verità delle cose a lui dette dalla grande anima di Scipione non poteva essere svelata e chiarita senza il lume dell' ermeneutica (1). Tanto è vero che il commento interpretativo di Macrobio è di gran lunga più esteso che tutti i sei libri della Re- pubblica, e non meno lunga è la dissertazione di Eulogio, che verte specialmente intorno alle qualità mistiche dei numeri e alla musica delle stelle. (1) Macbobio, 1. I, e. 3. — 118 - b) Volendo dunque Cicerone esaltare i grandi uomini che -si resero benemeriti della patria e mostrare quale premio, dopo la morte, fosse dato alle loro virtù, quello cioè di ritornare alla loro patria celeste, immaginò che uno degli interlocutori dei dialoghi intorno alla Repub- blica, Publio Cornelio Scipione Emiliano, narrasse agli altri interlocutori un sogno da lui fatto quando, essendo tribuno in Africa, fu ospite del re Massinissa, grande amico di Scipione il Maggiore. Uscita dal corpo durante il sonno, V anima dell' Emi- liano si trova trasportata, a un tratto, nella via lattea, dove, giusta le credenze dei Pitagorici, avevano loro sede le anime degli eroi, tanto prima di scendere in terra a vestirsi d' umana carne, come dopo aver fatto il loro pel- legrinaggio quaggiù (1). Ascoltata dall' Africano la predizione delle sue imprese e della sua morte, che sarebbe avvenuta quando la sua (1) Somnium 5, 13 : « Omnibus qui patriani conservaverint, adiuverinty auxerint, certuni esse in caelo defìnitum locum, ubi beati aevo sempiterno fruantur Harum rectores et conservatores hinc profeeti huc revertuntur ». Al qual proposito osserva il Cors- SEN (op. cit. p. 46) che l' idea è forse presa dai Pitagorici. Infatti a proposito dei versi 12-13 del 1. XXIV della Odissea, in cui è detto che le anime dei Proci guidate da Hermes « andavano alle porte del Sole e al popolo dei Sogni e poi giunsero nel prato degli asfodeli, dove abitano le anime, ombre dei trapassati » scrisse Por- firio (àe antro ISiympharum, e. 28) che il popolo dei sogni non sono altro che, secondo Pitagora, le anime che dicono raccogliersi nel cerchio della via lattea. Poiché il prato degli asfodeli i Pitago- rici appunto lo immaginarono in quel cerchio. Anche Plutarco (de faeie in orbe lun., p. 943 G.) scrisse che le anime dei buoni si indugiavano per un certo tempo nella parte più tranquilla del cielo che chiamavano prati dell' Ade. - 119 — età avesse percorso « uno spazio di otto volte sette giri e rivoluzioni del sole e questi due numeri (ognuno dei quali, per ragioni proprie a ciascuno di essi, era ritenuto perfetto) avessero compiuto col naturale succedersi degli anni la somma a lui predestinata » (1), e saputo — quasi a conforto del suo triste destino — che egli pure sarebbe salito lassù, dove si trovava anche suo padre Paolo, « dunque, chiede, siete vivi tu e mio padre e gli altri che crediamo estinti ?» « E come ! gli risponde Scipione, anzi noi che siamo volati quassù liberandoci dai legami corporei come da un carcere siamo veramente vivi ; la vostra, che si chiama vita, è morte ». E riveduta, con intensa commozione, 1' anima del padre, chiede ad essa : « Perchè dunque, se questa è la vera vita, debbo in- dugiarmi e vivere ancora sulla terra ? » « Perchè, gli viene risposto, se quel Dio a cui appartiene tutto l'uni- verso non ti ha prima liberato dal carcere corporeo, non ti può essere aperto l'adito a queste sedi beate. Gli uomini sono stati creati per dimorare sulla terra, che occupa il centro del creato, ed è stato dato ad essi l'animo, originario di quei fuochi eterni che chiamate costellazioni e stelle e che, di forma sferica e circolare, animati da menti divine, fanno i loro giri e descrivono le orbite loro con prestezza mirabile. Perciò tu e tutti gli uomini pii dovete trattenere l'animo vostro nei legami corporei e non disertare, contro la volontà di chi ve l'ha data, dalla vita d' uomini, perchè non sembri che voi vogliate (1) Somnium 4, 12. Della pienezza o perfezione dei due nume- ri 8 e 7 parla a lungo Macrobio nei capitoli Y e VI, adducendone partitamente le ragioni ; e ciò, naturalmente, secondo le teorie e le speculazioni pitagoriche. Altrettanto dicasi di Eulogio. — 120 — sottrarvi al compito umano assegnatovi da Dio (1) » . Perciò il padre lo esorta ad essere giusto ed a coltivare la pietà, perchè così vivendo si aprirà la via per ritornare al cielo fra quel santo stuolo di anime che, già vive ed ora se- parate dalla materia corporea, abitano la via lattea (2). Dalla quale poi l' Emiliano contempla estatico lo spettacolo dell' universo stellato e il roteare dei nove cerchi o meglio globi, di cui il pili esterno, che abbraccia gli altri, è quello delle stelle fisse, o firmamento, lo stesso dio su- premo che tiene uniti e racchiude in sé tutti gli altri, cioè i cieli di Saturno, di Griove, di Marte, del Sole, di Venere, di Mercurio, della Luna, nel mezzo dei quali sta, immobile, la Terra (3). E mentre osserva i cieli roteanti, ecco lo colpisce un' armonia solenne e dolce, quella cioè che è prodotta dal movimento delle sfere e dal loro per- cuotere neir aria, onde si producono suoni acuti e gravi, che insieme formano i sette accordi della lira (4) : proprio secondo la dottrina pitagorica, che ho già chiarita nel capitolo precedente. L' ammirazione per la grandezza e la novità delle cose che vede e ode non fa però che Scipione distolga gli occhi dalla terra, sì che l'Africano (1) Somnium, 7, 15. Cfr. il luogo già ricordato del De seneetute (20, 73) dove è detto esplicitamente che questo concetto è di Pi- tagora : « vetat Pythagoras iniussu imperatoris, id est dei, de praesidio et statione vitae decedere ». (2) Somnium, 8, 16. (3) Tutta questa concezione della terra immobile nel centro di un ambiente sferico, intorno al quale s'aggirano col firmamento i sette cieli planetarii, è prettamente pitagorica ; e tale fu pure, se- condo il Martini, la scoperta della direzione del corso dei pianeti e della eclittica. Vedasi il Gìjnther, Oeschichte der antiken Natur- wissenschaft in Miiller's Handbuch V, 1. (4) Somnium 10, 18-19. Cfr. Quintiliano, Insite, oratoria, I, 10, 12. — 121 — gliene mostra parte a parte i circoli, le zone, le acque e conclude che essa è campo ben ristretto per la gloria degli uomini : onde la vanità della gloria stessa, la quale non può neppur durare lo spazio di uno solo dei grandi anni mondani (1). « Se tu dunque, conchiude la grande anima, vorrai mirare in alto e tenere volto lo sguardo a questa dimora eterna, non curarti dei discorsi del volgo né porre la speranza delle tue azioni nei premi degli uomini : bisogna che la virtù per sé stessa con le sue blandizie ti tragga alla vera gloria » (2). Esaltato dallo spettacolo delle cose viste e dalle promesse, dalle predi- zioni, dai consigli uditi, l' Emiliano promette di adope- rarsi con tutta r anima per il bene della patria e 1' avo lo conferma nel suo proposito dichiarandogli V immorta- lità dell' anima. « Ricordati che non tu, ma il tuo corpo è mortale ; e che tu non sei quello che codesta forma corporea fa apparire: ciascuno é ciò che é l'anima sua, non quella parvenza che può mostrarsi a dito. Sappi che tu sei DÌO; se divina è quella forza che anima, che sente, che ricorda, che prevede, che regge e modera e muove questo corpo, a cui è preposta, così come il sommo Dio regge, modera, muove il mondo ; e come lo stesso Dio eterno muove il mondo per qualche rispetto mortale, così il fragile corpo è mosso dall' animo sempiterno » (3). (1) Della durata di circa 12000 anni' comuni, secondo le dottrine dei Genetliaci, dei quali ho accennato nel capitolo terzo. (2) Somnium, 17, 25. (3) Somnium, 18, 26 : «^ Tu vero enìtere et sic haheto, non esse te mortalem sed corpus hoc; nee enini tu is es, quem forma ista declarat : sed mens cuiusque is est quisque, non ea figura, quae digito demonstrari potest. Deum te igitur scito esse, siquidem est deus, qui viget, qui sentit, qui meminit, qui providet, qui tam — 122 — « Tu esercita questo nelle più nobili cure: e nobilissime sono le cure spese per il bene della patria (1); onde l'animo che in esse si adopera e si esercita volerà piti velocemente in questa sede e dimora sua. Anzi tanto più presto vi verrà se, fin da quanto è chiuso nel corpo saprà uscirne e, contemplando quel che è fuori di esso, stac- carsene il più possibile. Perchè gli animi di quelli che si abbandonano ai piaceri del corpo e si rendouo quasi schiavi di essi e, sotto l'impulso dei desideri obbedienti ai piaceri, violano i diritti divini e umani, usciti dal corpo vanno svolazzando intorno alla terra e non ritornano a questo luogo se non dopo aver trascorso in perenne agi- tazione molti secoli » (2). E con 1' enunciazione di questi concetti pitagorico-platonici il magnifico sogno finisce. regit et tnoderatur et movet id corpus, cui praepositus est quam kune mundum ille princeps deus ; et ut mundum ex quadam parte mortaleni ipse deus aeternus, sic fragile corpus animus senipiternus movet ». (1) Anche questo, è bene ricordarlo, era un concetto pitagorico; tanto è vero che Pitagora, serbava come insegnamento ultimo ai suoi discepoli quello relativo all' esercizio dei pubblici poteri. V. S. Agostino, de ordine II, 24, 54. (2) Somnium, 21, 29 : « Hanc tu exerce optimis in rebus : sunt autem optimae curae de salute patriae, quibus agitatus et exer- citatus animus velocius in hanc sedem et domum suam pervolabit. Idque ocius faeiet, si jam tum, cum erit inclusus in corpore, eminebit foras et ea, quae extra erunt, contemplans quam maxime se a corpore abstrahet. Namque eorum animi, qui se corporis voluptatibus dediderunt earumque se quasi ministros praebuerunt impulsuque libidinum voluptatibus oboedientium deorum et homi- num iura vìolaverunt, eorporibus elapsi circum terram ipsam volutantur nec hunc in locum nisi multis exagitati saeculis rever- tuntur ». lY. Mimi — Q. Orazio Placco — P. Virgilio Marone. l. Riflessi pitagorici nel teatro popolare. — 2. Pitagora nella poe- sia oraziana : fave, metempsicosi, Euforbo. — 3. Virgilio e la filosofia. — 4. La <iuarta ecloga. — 5. Le Georgiche. — 6. La « storia dell' anima » nel sesto libro dell' Eneide. — 7. Ragioni artistiche di essa e suo valore per la determinazione del pensiero filosofico virgiliano. 1. — Nel tempo del quale ci stiamo occupando non è a credere che la conoscenza del Pitagorismo avesse i suoi riflessi soltanto negli scritti di prosa e di poesia del genere di quelli che abbiamo già visti, destinati a un pubblico eletto e relativamente limitato ; che anzi l' inse- gnamento fondamentale della dottrina di Pitagora, cioè la metempsicosi, e il precetto dietetico dell'astinenza dalle fave erano così entrati, come oggi si direbbe, nel domi- nio pubblico, da essere oggetto di satira e di riso nel teatro popolare. Fra quelle specie di farse infatti che fu- rono i mimi è ricordata una Nekyomanthia (Evocazione di morti) di Decimo Laberio, che fu contemporaneo di Cicerone (105-43 a. C.) e del quale Tertulliano ricorda una satirica interpretazione della metempsicosi : « Insom- ~ 124 — ma, se qualche filosofo affermasse, come dice Laberio secondo 1' opinione di Pitagora, che 1' uomo si fa dal mulo e la serpe dalla donna, e in tavore di questa opinione volgesse, con parola efficace, tutti gli argomenti possibili, non incontrerebbe 1' approvazione di tutti e non indur- rebbe forse anche a credere che ci si debba perciò aste- nere dalle carni animali? Chi potrebbe esser sicuro di non comperare eventualmente del manzo di qualche suo antenato ? » (1). Laberio dunque avrà tirato scherzosa- mente in ballo in qualche farsa, della quale nulla peraltro sappiamo, la teoria di Pitagora ; e non è neppur difficile pensare che gliene abbia data occasione una situazione comica in cui fossero in contrasto 1' ostinata cocciutag- gine d' un uomo e la velenosa malizia d' una donna. Il commento e le deduzioni ironiche circa l'astensione dalle carni che aggiunge Tertulliano ricordano quella che è forse la prima testimonianza, in ordine di tempo, che ci rimanga intorno alla metempsicosi pitagorica ; voglio dire i noti versi di un'elegia di Senofane {contemporaneo di Pitagora, ma un po' più giovane di lui) : E dicon eh' egli un giorno, vedendo un cagnuol maltrattato, Ebbe di lui pietà, poscia in tal guisa parlò : € Cessa, ne bastonarlo, poiché vive in lui d' un amico r anima, che ravvisai, quando 1' ho udita guair » (2). (1) Tertulliano, Apologia, 48: « Age jam, si qui philosophus adfirmet, ut ait Laherius de sententia Pythagorae, hominem fieri ex m,ulOy colubram, ex muliere, et in eam, opinionem, omnia argu- m,enta eloquii virtute distorserit, nonne consensum movebit et fìdem, infiget etiam ah animalibus abstinendi propterea ? persuasum, quis habeat, ne forte bubulam de aliquo proavo suo obsonet ? » (2) I versi ci furono conservati da Diogene Laeezio (Vili, 36) — 125 — Anche in questi versi infatti, come nel commento di Tertulliano, attribuendosi a Pitagora la metempsicosi an- che animale (per una falsa estensione però, come ho già detto), se ne mette scherzosamente in mostra il lato ri- dicolo. Di un altro mimo dello stesso autore, intitolato Cancer, è rimasto uno spunto di verso, in c«i si accenna a un « dogma pitagorico », che molto probabilmente possiamo ritenere che fosse la stessa metempsicosi (1). Finalmente Cicerone e Seneca ci hanno conservato il ricordo di un terzo mimo, di autore sconosciuto, intitolato Faba (2), del quale sarà forse stato argomento la satira dello stesso dogma di Pitagora e dei precetti riguardanti il vitto e 1' astensione dalle fave (3). Né è davvero il caso di me- e prendendoli da lui, li ha citati anche Suida (sotto la voce Xeno- phanes). Si veda a proposito di essi e delle altre antiche testimo- nianze pitagoriche che risalgono ad Eraclito, Empedocle, Ione, ecc. ciò che ha scritto lo Zeller nei Siizungsber. d. preuss. Akad. 1889, n. 45, pag. 985. Si è recentemente messo in dubbio che questi versi si riferiscano a Pitagora ; ma tali dubbi sembrano al GoMPERz (Penseurs de la Orèce, p. 135 nota) infondati. Ed ha per- fettamente ragione. (1) Prisoiano. vi, 2, pag. 679 P. e Anon. Bern. negli Anal. Helvet. dell' Hagen, pag. 98, 33 e 109, 3 : « nec pythagoream dogmam docius ». (2) Cicerone, ad AH. XVI, 13 : « videsne consulatum illum no- strum, quem Curio antea apotheosin vocabat, si hic factus erit, fabam mimum futurum ? » e Seneca Apocoloc. 9 : o olim magna res erat deum fieri, iam fabam mimum fecistis ». Debbo tuttavia notare che da qualcuno si è proposto di leggere ■8-aù[jia in luogo del primo fabam, e famam in luogo del secondo. V. in proposito la Eiv. di filol. class, del gennaio 1913, pag. 75-76. (3) D. Capocasale in un suo breve lavoro {Il mimo romano, Monteleone, 1903, pag. 49) pensa che « forse vi si dovea mettere — 126 — ravigliarsene, solo che si consideri con che argomenti piccini e con che sciocche ragioni si cercava di persua- dere della necessità di tale astensione (1). 2. — Del resto anche Orazio (65-8 a. C.) si prese amabilmente gioco di questi due stessi punti della dot- trina pitagorica. Che se in una delle sue satire rievocava con vivo senso di nostalgia le parche cenette di campa- gna fatte di fave e di erbaggi conditi col lardo, è evi- dente che egli — da buon epicureo — si infischiava del precetto del filosofo; non solo, ma lo prendeva anche un po' in giro, facendo addirittura la fava « consaguinea di Pitagora » (2). E la prima parte della famosa ode d' Archita non pare, per dirla col Pascoli, « un attacco ai sistemi filosofici in azione la parentela che esiste — secondo Pitagora — tra la fava e r uomo, ed il passaggio dell' anima in una fava ». Ora queste, più che opinioni del severo filosofo, furono certo stramberie di begli spiriti, che gliele attribuirono per burlarsi meglio di lui e delle suo idee, come fece Orazio, per esempio. (1) Si veda, per esempio, il. capitolo 43 della vita di Poefirionk. (2) Orazio. Sat. II, 6, 63-64: quando faba Pythagorae cognata siwiulque XJneta satis 'pingui ponentur oluscula lardo ? Un' altra scherzosa allusione vogliono vedere i più degli inter- preti d' Orazio nel v. 21 della XII Epist. del libro I {veruni seu pisces seu porrun et caepe trucidas)^ dove riferendosi il verbo tru- cidare non solo ai pesci, ma anche ai porri e alle cipolle {quasi che anche in queste, come nella fava, si trovassero anime dei morti) verrebbe a prendersi un po' in giro 1' amico Iccio — che s' occupava di filosofia — e con lui la dottrina pitagorica della metempsicosi, alla quale verrebbe data una ben larga estensione. Qualcuno peraltro (per es. il Ritter) nega ogni allusione. — 127 — che ammettono la sopravvivenza dello spirito, sistemi quasi personificati in Archytas, per opera del quale il Pythagorismo entrò nelle dottrine di Platone ? » (1). Dice infatti il poeta : « Te, o Archita, che misuravi il mare e la terra e l' innumerabile arena, tiene ora fermo presso il lido di Matinata lo scarso dono di poca sabbia, e nulla ti giova aver esplorato 1' aria, dove altri che l'uomo abita, e aver corso per la volta del cielo con Tanimo destinato a morire. È morto anche il padre di Pelope, che pur banchettava con gli dei, e Titone, che fu tolto alla terra e sollevato neir aria, e Minosse, che fu ammesso agli ar- cani di Giove, e il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto (Euforbo), che scese alF Orco un' altra volta (dopo la sua nuova incarnazione in Pitagora), sebbene, con lo scudo che fece staccare (dalla parete del tempio di Giunone argiva in Micene) data testimonianza del tempo della guerra trojana, non avesse concesso alla nera morte (così affermava lui) niente più che i nervi e la pelle (2); e tu (che eri un grande pitagoreo), splendido mallevadore della verace scienza del tutto lo sai bene.- Ma tutti ne attende un' uguale notte senza fine e tutti dobbiamo calcare una volta sola (e non più, come tu credi) la via che conduce sotterra. Le furie offrono alcuno gra- (1) Pascoli, Lyra romana, Livorno, Giusti, 1895, p. 163. Per altri modi d' intendere quest' ode, che è la 28* del lib. I, si veda il commento dell' Ussani, Le liriche di Orazio, Torino, Loescher, 1900, voi. I, pag. 119-L22, e in particolare 1' opuscolo dello stesso autore Uode d' Archita. Roma, 1893. (2) habentque Tartara Panthoiden iterum Orco Demissurn, quamvis clipeo Trojana refixo Tempora testatus nihil ultra Nervos atque cutem morti concesserat atrae. — 128 — dita vista al bieco Marte ; il mare insaziabile è ministro di morte ai naviganti ; si susseguono senza posa i fune- rali sì dei vecchi che dei giovani, l'implacabile Proserpina non ebbe mai rispetto ad alcun capo ». E. evidente che qui Orazio, affermando recisamente che tutti, senza distinzione, subiremo un egual destino mor- tale, e contrapponendo in particolare la sua affermazione al ricordo « di Pitagora redivivo » , come lo chiama altra volta (1), fa doli' ironia bella e buona alle spese del « fi- gliuolo di Panto ». 3. — E Virgilio (15 ott. 70-21 sett. 19 a. C.j in qual conto tenne le dottrine pitagoriche ? Esercitarono esse qualche influsso sul suo pensiero e lasciarono traccio vi- sibili neir opera sua, dal momento che sappiamo — per quello che ce ne dice egli stesso e per quello che ci hanno tramandato i suoi biografi e commentatori — che egli ebbe grande inclinazione agli studi filosofici e che desiderio di tutta la sua vita fu quello di potervisi de- dicare di proposito ? Nel tempo in cui Figulo e i Sestii tentarono di far rivivere in Roma la filosofia pitagorica, è possibile pen- sare che uno spirito come quello di Virgilio, colto, cu- rioso e naturalmente portato alle speculazioni filosofiche, non ne abbia avuto conoscenza? Per me non solo non v' è argomento di dubbio, ma credo di poter dire anche (1) In uno degli Epodi (XV, 21) Orazio accenna ancora alle varie vite di Pitagora nel verso « nee te Pythagorae fallant arcana renati », dove è da notare anclie 1' allusione al carat- tere segreto e misterioso della dottrina (arcana) Nelle Satire no- mina una volta (II, 4, 3) Pitagora con Socrate e con Platone e nelle Epistole ricorda il sogno pitagorico di Ennio (II, 1, 52). — 129 — a; ì^i1^ Dicerone, come ho già mo strato nelle precedenti credette di ravvisare nelle pratiche e nei prin- Pitagorismo Torigine di molte delle più antiche L romane, e con Cicerone lo avranno creduto na- ;e anche altri. Orbene Virgilio, che con 1' opera giore mirò a rappresentare in un meraviglioso r insieme le origini e lo svolgersi della potenza (1) e che perciò fece lunghi studi intorno alle ) e alle antichità romane, dovette proprio in modo re rivolgere la sua attenzione alla filosofia pita- a quale per di più aveva già ispirato anche il Ennio^ la cui opera degli Annali fu uno dei mo- i quali fu condotta 1' Eneide. Questo mi par che i affermare con certezza, anche indipendentemente 3same analitico dell' opera poetica di Virgilio ; che procediamo a questo esame — ancorché molto rio — non solo sarà confermata a posteriori la induzione, ma dovremo senz'altro assentire al giu- )he di lui fece il Fontano, quanda lo disse esplici- te « poeta augurale e profondo conoscitore della la di Pitagora » (2). ne tutti sanno, agli studi filosofici Virgilio attese alla prima giovinezza e fu avviato in essi da un ;ro epicureo, dal gran Sirene, com'egli lo chiama. r amore dei « docta dieta » di lui egli avrebbe (1) Servio, ad Aen. VI, 752: « Qui bene consideret inveniet omnem romanam historiarti ab Aeneae adventu usque ad sua tempora summatim celebrasse Virgilium, quod ideo latet quia eonfusus est ordo, etc. ». (2) « Poeta auguralis pythagoricaeque doctrinae peritissimus » , come è detto in una nota al Commento di Macrobìo al Somnium Seipionis, nella edizione di Lione del 1670, pag. 66. 9. — 130 — anche rinunziato in gran parte alle « dolci Muse ^ ! Yano proposito ! che queste tennero sotto la loro amabile tirannia 1' animo suo, e Virgilio fu poeta prima che filo- sofo. Filosofia fu in lui solo in potenza : i germi latenti nel suo pensiero — che pur si delinea abbastanza chia- ramente a chi ne mediti l' opera poetica — sarebbero certo cresciuti in fioritura d' arte, se fosse vissuto più a lungo, sì che, condotta a perfezione 1' Eneide, egli avesse potuto finalmente appagare il desiderio — lungamente maturato e più volte espresso — di poter attendere alla poesia filosofica : così noi avremmo forse, accanto al poerna di Lucrezio, alta e mirabile esposizione del materialismo epicureo, un poema virgiliano informato ai principi del- l' idealismo pitagorico-stoico. L' avviamento epicureo eh' egli ebbe da Sirone, e l'ani- mirazione che sentì per la grande arte di Lucrezio la- sciarono bensì qualche traccia, e non soltanto formale, neir opera sua giovanile, nei poemetti bucolici e nelle Georgiche ; ma in queste stesse poesie già si manifesta abbastanza chiaramente un indirizzo filosofico affatto op- posto. Sulla concezione epicurea, ma con molta libertà e larghezza di movenze, è foggiata quella specie di teoria sull'origine del mondo che Sileno espone nella sesta ecloga (vv. 31 e seguenti) ; ma dobbiamo ben guardarci dal darle un' importanza maggiore di quella che essa ha realmente, col trasferirla da Sileno a Virgilio e col dedurne perciò che questi fosse epicureo ; poiché nel campo dell' arte e della poesia sono possibili ben altre finzioni, e 1' artista fa parlare i personaggi che sono figli della sua fantasia secondo criteri e leggi lor proprie. Non solo, ma alla stessa stregua allora altri potrebbe ritenere specchio delle idee e concezioni virgiliane la quarta ecloga, che fu scritta — 131 — poco prima della sesta ; anzi lo potrebbe a maggior ra- gione, anzitutto perchè in essa il poeta canta in persona propria, in secondo luogo perchè il concetto che l' informa tornerà insistente e sempre più preciso negli scritti po- steriori. Ma in verità il pensiero di Virgilio non doveva in quegli anni essere ancora definitivamente orientato e formato. 4. — La quarta ecloga fu composta quando il poeta aveva ventinove anni, e precisamente alla fine del 41 a. C, allorché stava per entrare in carica Asinio Pollione, console designato per 1' anno successivo (1). Sulla inter- pretazione di questo carene, così stranamente suggestivo, s' è tanto discusso, che non si sente davvero il bisogno d' una nuova discussione. Basti quindi accennare che dai commentatori cristiani si credette di poter vedere in que- st' ecloga, scritta in tempi così vicini all' apparizione del Cristo, qualche accenno alla imminente venuta del Messia; anzi il fanciullo di cui si celebra la nascita fu addirittura identificato col Nazareno. Non e' è da meravigliarsene, che r intuizione artistica — nei grandi — giunge tal- volta a tali profondità e 1' espressione poetica acquista tal forza di significazione e un tale carattere "di univer- salità, che essa par quasi attingere inesauribilmente, dalle (1) Oeneralraente si ritiene composta al principio del 40, anziché alla fine del 41; ma essendo la pace di Brindisi stata conchiusa sul finire del 41, ed essendo avvenuta pure in quello scorcio di anno la nascita del figlio di Pollione, Asinio Gallo (che, secondo Servio, nacque appunto Pollione eonsule designato), mi pare che non possa esservi ragione di incertezza ; tanto più che in tal modo meglio s' intende il futuro inibii che accompagna il te eonsule del y. 11. . — 132 — disposizioni dell'animo e dagli atteggiamenti del pensiero di chi legge, aspetti e valori sempre nuovi. Ma che poi proprio Virgilio abbia consapevolmente profetizzato la venuta di Cristo per conoscenza che avesse delle predi- zioni messianiche, questa è un' altra quistione, risoluta dai critici in senso non del tutto negativo (1). Certo è che, in occasione della nascita d' un fanciullo — che si ritiene generalmente sia stato Asinio Gallo, figlio di Pollione, a cui è dedicata l' ecloga — il poeta affermava ormai venuta 1' ultima età (quella di Apollo) predetta dal- l' oracolo in versi della Sibilla di Cuma, e sul punto di iniziarsi da capo, incominciando dall' anno del consolato di Pollione (40 a. C), una nuova serie di generazioni umane, un nuovo anno mondano, col quale sarebbe tor- nata sulla terra la vergine Astrea (la giustizia) e sareb- bero tornati i beati tempi del regno di Saturno (ossia r età dell' oro) e « dall' alto cielo sarebbe fatta scendere (1) Il Mancini p. es., nel suo commento alle Bucoliche (Sandron, 1903) ha scritto (p. 48/ : « Non si può appunto escludere assolu- « tamente (sebbene io non lo creda necessario) che Virgilio avesse « in qualche modo conoscenza delle profezie messianiche certo « pervenuta a Eoma, e che ne traesse qualcosa per tratteggiare « il suo puer, che di questa conoscenza sentisse insomma gli ef- « fotti l'economia del carme ». Per la rinomanza che Virgilio si acquistò fra i Cristiani con questa ecloga, per ha quale fu sollevato alla dignità dei profeti che predissero la venuta di Cristo, si veda il CoMPAEETTi, Virgilio nel Medio Evo (Firenze, 1896, I, p. 133 e seg.) e gli scritti ivi citati. L' interpretazione cristiana di questa poesia era già molto in voga presso gli scrittori del quarto secolo. Si vedano anche i lavori di C. Pascal : Il culto rf' Apollo in Roma nel secolo di Augusto e La questione delV Ecloga IV di Virgilio (Torino, 1888), ristampati nel volume Commentationes vergilianae (Palermo, R. Sandron, 1903). — 133 — una nuova progenie d' uomini » (v. 7 : jaw, nova pro- genies caelo demittitur alto). Sì che il fanciullo, allora nascente, avrebbe visto scomparire del tutto la « gens ferrea » e crescere insieme con lui la « gens aurea » e « ricevendo la vita degli dei » avrebbe veduto sulla terra dei ed eroi e anch' egli si sarebbe mescolato con loro: nella giovinezza avrebbe veduto ancora — residui delle colpe delle età trascorse (e in pari tempo condizione necessaria al ripetersi delle vicende umane) — nuove spedizioni marittime, come quella d' Argo, e nuove guerre, come la trojana, finche poi nella maturità avrebbe goduto a pieno la felice pace della nuova età, della quale già si allietavano e cielo e terra e mare. Come si vede da questo accenno, siamo lontani le mille miglia da Epicuro ! E che cos' è poi questa conce- zione d' una palingenesi che Virgilio tratta con sì pro- fondo entusiasmo poetico ? Pura finzione del suo spirito? No, senza dubbio. Una predizione dei carmi sibillini pro- metteva certo con V età d' Apollo — 1' ultimo dei grandi periodi della vita universale — il rinnovamento del mondo e il ritorno dell'età dell'oro; non solo, ma teorie filoso- fiche allora correnti e che ho già avuto occasione di ri- cordare, ammettevano anch' esse il rinnovarsi periodico dell' universo e il ripetersi perfettamente identico dei me- desimi eventi e il ritorno alla vita degli stessi corpi e delle stesse anime (teoria pitagorico-stoica e dei genetliaci). Pensò dunque Virgilio, nel fingere che proprio col co- minciare dell'anno 40 si iniziasse l'ultima età mondana designata dai carmi sibillini, a queste teorie ? A me pare che non se ne possa dubitare. Solo ci si potrà chiedere se queir < altro Tifi » , quell' « altra nave Argo che tra- sporterà ancora gli eroici compagni », « le altre guerre » — 134 — che si rinnoveranno e « il grande Achille », che ancora « sarà mandato a Troja», indichino l'identico ripetersi di tali eventi, il ritorno al medesimo punto della vita universale, oppure indichino soltanto una generica legge dei ricorsi storici. Il vecchio Servio infatti, pur così vi- cino ai tempi del poeta, non seppe decidere: potendo quei nomi simboleggiare genericamente il ritorno di eventi simili, ma non proprio gli stessi. "Certo però che, asse- gnando Virgilio alla seconda età dell' oro già imminente quei medesimi, identici caratteri che la tradizione dotta e popolare assegnava alla prima, si sarebbe piuttosto in- dotti ad ammettere 1' ipotesi che il poeta abbia raffigurato e rappresentato in atto, coi colori smaglianti della sua arte divina, l' avverarsi della teoria pitagorico-stoica della palingenesi. E ancora : parlando della <^ nova progenies », la quale « eaelo demittitur alto » , a che cosa ebbe pre- cisamente il pensiero il poeta ? Ebbe innanzi alla sua immaginazione come un flusso di anime emananti dal- l'anima universale all' inizio del nuovo anno o periodo mondano posto sotto 1' egida di Apollo ? (1). L' anima del fanciullo — nel pensiero del poeta — non v'ha dubbio che appartenesse a questa nuova progenie spirtale: ora, poiché il fanciullo è chiamato « cara deum suboles, magnum lovis mcrementum » (v. 49), non par- rebbe che si dovesse intendere altrimenti che la sua anima è emanata pura e semplice direttamente da Giove, e Giove starebbe qui a indicare, più che il supremo dio dell'Olimpo pagano, quel principio divino che è l' anima (1) Mi pare, non ostante il diverso parere di qualche commen- tatore (p, es. del Pestalozza), che si debba precisamente dare al- l' espressione il suo senso proprio e letterale. — 135 ~ dell'universo, secondo la teoria che "Virgilio doveva an- cora riprendere piìi tardi, nel secondo delle Georgiche, e che doveva svolgere più compiutamente là dove, dall'ani- ma di Auchise, fa esporre ad Enea, giù negli Elisii, la famosa « storia dell' anima ». Vero è che, come ho già rilevato, bisogna andar molto cauti nella interpretazione di siffatti motivi poetici e nel- r inferire da essi il pensiero filosofico animatore operante neir artista; che questi può, indipendentemente dai pro- cessi logici normali, assurgere per pura intuizione alla visione totale o parziale di grandi verità. Nel caso nostro il poeta, prendendo bensì lo spunto da un fatto reale com'era la predizione sibillina, ha forse raccolto intorno ad essa reminiscenze d'altra origine ed aggiunti elementi nuovi di pura elaborazione fantastica; ed espressioni poe- tiche di tale natura sono per sé indeterminate e male si prestano ad essere analizzate e misurate con le rigide seste della logica. Non potevamo però non tenerne conto, almeno come indice di quella tendenza mistico-idealistica, che ancora e meglio doveva rivelarsi più tardi, in suc- cessivi momenti dell' attività poetica del nostro autore. 5. — Da ispirazioni così diverse e lontane come quelle della sesta e quarta ecloga appar probabile dunque che prima dei trent'anni Virgilio non avesse ancora definiti- vamente orientato e fermato il suo pensiero ; e forse non lo aveva neppure orientato definitivamente quando — dal 37 al 30 — compose le Georgiche ; poiché in queste si osservano ancora da un lato somiglianze di pensiero e di forma con il poema lucreziano, e dall'altro si incontrano immagini e concetti stoico-pitagorici. Mi basti ricordare, per questi ultimi, i bellissimi versi del quarto libro (219- ~ 136 — 227), nei quali il poeta accenna, senza ancora accettarla come propria, ma con evidente simpatia, la concezione panteistica (che fu prima di Pitagora e poi di Platone e degli stoici) secondo la quale 1' anima di tutti gli esseri viventi non è che una parte, più o meno grande, dello spirito divino che, suscitando in mille forme la vita, per- vade e penetra tutto 1' universo, e a cui tutto ritorna. His quidam signis atque kaec exempla secuti 220 esse apibus partem divinae mentis et haustus aetherios dixere : deum namque ire per omnia, terrasque traefusque maris eaelumque profundum. Hine peeudes, armenta, viros, genus omne ferarum^ quemque sibì tenues naseentem arcessere vitas ; 225 seilieet hue reddi deinde ae resoluta referri omnia, nec morti esse locum, sed viva volare \ sideris in numerum atque alto succedere eaelo. Il filosofo, esponendo il pensiero come di altri (quidam... dixere)^ fa ancora le sue riserve; ma il poeta evidente- mente vi aderisce, e l'altezza dell'arte ci dice la profon- dità dell' adesione sentimentale. Non solo ; ma il fatto che uno di questi versi mirabili (il 222) non è nuovo, ma Virgilio lo ha ripreso tal quale dalla quarta ecloga (v. 31), lega idealmente questa col passo delle Georgiche. L' animo di Yirgilio ha dunque ondeggiato certo a lungo prima di aderire a quelle idee contro le quali ave- vano combattuto la dottrina di Sirone e 1' arte di Lucrezio; ma il suo temperamento prima e poi le convinzioni che via via si vennero elaborando in lui col maturare degli anni e degli studi dovettero riportarvelo fatalmente ; sic- ché quando, iniziati gli studi per 1' Eneide, immergendosi tutto nelle ricerche intorno alle origini e alle antichità romane, si trovò di fronte al Pitagorismo, che la leg- — 137 — genda collegava colla sacra figura del re Numa, che aveva ispirato anche l' arte di Ennio e che aveva in que- gli anni cultori come Nigidio e come i Sestii, egli do- vette sentirsi preso tutto quanto da quelle idee e assimi- larle ancora più profondamente, tanto che ad esse volle poi dare anche più precisa e più degna espressione là pro- prio dove il poema attinge la più alta romanità e acquista nel medesimo tempo carattere di universalità. 6. -- Al principio del sesto libro dell'Eneide, che si riteneva generalmente dagli antichi contenesse la più pro- fonda dottrina virgiliana, Servio credette di dover premet- tere queste parole: « Tutto Virgilio è pieno di scienza, nella quale tiene il primo luogo questo libro, di cui la parte principale è tolta da Omero (cioè dalla Nékyia del canto XI dell' Odissea). Alcune cose sono dette semplice- mente (cioè senza allegoria), molte sono prese dalla storia, molte provengono dall'alta sapienza dei filosofi e teologi egizi; talché parecchi hanno scritto interi trattati su cia- scuna di tali cose che trovansi in questo libro». Di que- sti trattati peraltro a noi non ne è giunto alcuno, nemmeno quello, certo assai interessante dal punto di vista del nostro tema, che scrisse Macrobio, 1' erudito grammatico del quinto secolo ; poiché dei suoi Saturnali, che pure ci restano in buona parte, è andata perduta proprio quella parte in cui si conteneva l' esame del valore filosofico dell' opera virgiliana (1). E un peccato, perchè Macrobio, (1) Il compito di tale esame se 1' era assunto, nei dialoghi dei Saturnaii, Eustaxio, filosofo per i suoi tempi assai erudito, come ci fa sapere Macrobio stesso l'I. I, e. V) ; anzi, per la superiorità della filosofia sopra ogni altro ordine di cognizioni, 1' esposizione di Eustazio era la prima di tutte, come appare da ciò che è detto — 138 — come neo-platonico, avrà certo messi in rilievo gii ele- menti pitagorico-platonici del pensiero di Virgilio, del quale, per esempio, ricordando nel commento al Somnium Scipionis (I, 6, 44) il terque quaterque beati, riconosce neir espressione la dottrina pitagorica dei numeri (1). Non è certo il caso di andar cercando, come qualche antico ha fatto (2), in ogni espressione, in ogni parola di questo mirabile libro, al quale doveva ispirarsi Dante Alighieri, i sensi più reconditi, le piti astruse allegorie, e di immaginare le intenzioni più riposte del poeta nel comporlo. Ma sopra un punto in particolare, che è come la chiave di volta di questo canto e che indubbiamente è di quelli che Servio ha detto provenire dall'alta sa- pienza dei filosofi e teologi egizi, noi fermeremo la nostra attenzione. ♦ Enea, con la scorta della Sibilla di Cu ma è sceso al- l' Inferno. Passata la palude Stigia sulla barca di Caronte, attraversato 1' anti-inferno o limbo (dove sono le anime dei neonati, dei condannati a morte ingiustamente, dei suicidi) e ai campi dolorosi (dove sono i morti per causa d' amore e famosi guerrieri), lasciato a sinistra il Tartaro nel e. XXIV dello stesso 1. I. Senonchè il libro seguente è mu- tilo ; e la mutilazione è forse dovuta allo zelo degli scrittori cri- stiani, e si deve far risalire al tempo in cui questi tendevano ad accentuare il carattere profetico-cristiano di Virgilio. (1) Por Maorobio, Virgilio non solo è dotto in ogni genere di sapere, ma è decisamente infallibile. Nel commento al Somnntm lo dice nullius disciplinae expers (I, 6, 44) e diseiplinarum om- nium perìHssimus (I, 15, 12) ; così nei Saturnali (I, 16, 12) : omnium diseiplinarum peritus. (2j Per esempio Elio Donato, il quale attribuiva a Virgilio un sapere straordinario e cercò nei suoi versi dottrine risposte e scopi filosofici ai quali certamente non aveva pensato mai. — 139 — (dove subiscouo. le pene più orribili le anime di tutti co- loro che in qualche modo hanno violato le Jeggi umane e divine) è giunto nell' ampio Elisio, liete pianure che sono il felicissimo regno dei beati locos laetos et amoena mrecta 630 fortunatorum nemorum sedesque heatas. Quivi, in una luce perpetuamente serena e fiammante, le anime dei beati (eroi morti per la patria, sacerdoti, poeti, filosofi ed artisti, benemeriti della umanità) trascor- rono la vita su colli ameni e per valli, in prati ed in bo- schetti, sulle rive di ameni ruscelli, continuando le loro abitudini ed occupazioni terrene : fra esse è Museo, al quale Enea chiede notizie d' Anchise e che gli si offre per guida. Il padre d' Enea stava in quel momento ad osservare con attenzione le anime che si trovavano chiuse nel fondo di una valle verdeggiante, destinate a ritornare alla vita terrena, passando in rassegna fra esse quelle che dovevano rincarnarsi nei suoi discendenti, per cono- scerne il destino, le vicende, il carattere, le opere future. At pater Anchises penitus eonvalle virenti 680 inclusas animas superumque ad lumen ituras lustrabat studio recolens omnemque suorum forte recensebai numeruni carosque nepotes fataque fortunasque virum 7noresque manusque. Avviene fra padre e figlio un commoventissimo incon- tro, dopo il quale Enea vede da un lato della valle un bosco appartato e cespugli pieni di suoni e il fiume Lete (il fiume dell' oblio) che lambisce quelle placide sedi e intorno a questo una infinita moltitudine di anime svo- lazzanti e che riempiono tutta la pianura del loro sus- — 140 — surro, simile al ronzio che fanno pei prati, nei sereni meriggi estivi, le api, quando si posano su ogni sorta di fiori e si addensano intorno ai candidi gigli (1). L' eroe, stupito, ne chiede al padre la ragione, e che fiume sia quello, e che uomini quelli che si affollano così nume- rosi sulle sue rive. E il padre subito gli risponde : « Le anime alle quali è dovuto per destino un altro corpo, bevono alle onde del fiume Lete le acque che sigilleranno in loro per lungo tempo il ricordo degli affanni e della vita trascorsa »: animae, quibus altera fato corpora debentur, Lethaei ad fluminis unda'm 715 seeuros latices et longa oblivia potant. Queste anime appunto egli si accinge a mostrargli, enumerandogli e indicandogli fra esse tutti i suoi di- scendenti (i re Albani e gli eroi gloriosi di Roma da Silvio a Marcello il giovane) perchè s' allieti con lui di essere finalmente giunto alle spiaggie d' Italia. Ed Enea subito gli chiede : « padre, si deve dunque credere che alcune anime di qui tornino alla luce del cielo e ri- tornino una seconda volta nell' impaccio del corpo ? qual mai assurdo desiderio della vita terrena hanno le infe- lici ? » : pater, anne aliquas ad caelum hinc ire puiandum est 720 sublimis animas iterumque ad tarda reverti corpora ? quae lueis miseris iam dira cupido ? (1) Nella concezione orfica pare che le anime destinate alla pa- lingenesi fossero chiamate api ; donde la ragione della similitudine (Sabbadini). — 141 — Ed ecco subito Anchise esporgli quella eh* io ho chia- mata la storia dell'anima : « Anzitutto un' interiore forza spirituale anima il cielo, la terra, i mari, la luna, il sole, le stelle, e un' intelli- genza infusa per tutte le sue parti agita e compenetra la gran mole dell' universo. Di qui gli uomini e gli ani- mali che vivono sulla terra, che volano per 1' aria^ che si muovono negli abissi del mare : essi, particelle dell'a- nima universale disseminate nello spazio, hanno vigore etereo e origine celeste ; ma, più o meno, li inceppa la lue corporea e le membra terrene e periture li ottun- dono. Oud' è che essi vanno soggetti a timori e desideri, a gioie e dolori e, chiuse nelle tenebre e in cieco car- cere, le anime disconoscono il cielo onde derivano. Tanto che, anche quando nel dì del trapasso le abbandona la vita, non si stacca tuttavia dalle infelici ogni male né le lasciano interamente le sozzure corporee ; molte delle quali anzi; avendole profondamente intaccate, devono ne- cessariamente crescere nel loro intimo per lungo tempo in modi meravigliosi. Perciò sono sottoposte a pene e pagano con supplizi il fio delle passate colpe : delle cui infezioni alcune si purificano rimanendo sospese ed espo- ste all' azione dei venti, altre immerse in un profondo abisso d' acqua (negli abissi oceanici ?), altre bruciando nel fuoco. Tutti subiamo da morti la nostra espiazione, dopo la quale passiamo nell' ampio Elisio ; e pochi sol- tanto restiamo nelle sue liete pianure, finche un lungo volgere d'anni, compiuto il tempo prescritto, cancella le traccio d'ogni sozzura contratta nel corpo e lascia puro il senso etereo e il fuoco della semplice aura. Tutte queste invece, quando son volti mille anni, sono chiamate da Dio in gran numero al fiume Lete, perchè, immemori — 142 — del passato, rivedano la volta del cielo e comincino a sentire di nuo^vo la volontà di rincarnarsi nei corpi v. « Principio caelum ac terras camposque liquentis 725 lucentemque globum lunae Titanìaque astra spiritus intus alit totamque infusa per artus mens agitai molem et magno se corpore miscet. inde hominum pecudumque genus vitaeque volantum et quae marmoreo feri monstra sub aequore pontus. 730 igneus est oUis vigor et caelestis origo seminibus, quantum non noxia corpora tardant terrenique liebetant artus moribundaque membra. hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, neque auras dispiciunt clausae tenebris et carcere caeco. 735 quin et supremo cum lumino vita reliquit, non tamen omne malum miseris nec funditus omnes corporeae excedunt pestes, penitusque necesse est multa diu concreta modis inolescere miris. ergo exercentur poenis veterumque malorum 740 supplicia expendunt. aliae panduntur inanes suspensae ad ventos, aliis sub gurgite vasto infectum elicitur scelus aut exuritur igni ; quisque suos patimur manis ; exinde per amplum mittimur Elysium ; et pauci laeta arva tenemus, 745 donec longa dies, perfecto temporis orbo, concretam exemit labem purumque relinquit aetherìum sensum atque aurai simpliois ignem. has omnis, iibi mille rotam volvere per annos, Lethaeum ad fluvium deus evocai agmine magno, 750 scilicet immemores supera ut convexa revisant rursus et incipiant in corpora velie reverti ». Qui non siamo più di fronte evidentemente a concetti vaghi e imprecisi, ma all' esposizione alta e solenne di una teoria, nella quale è riaffermato anzitutto (vv. 725- 729) il concetto di uno spirito immanente nell' universo, di carattere divino e intelligente, di cui tutti gli esseri — 143 — animati — uomini e bruti — sono delle manifestazioni ; cioè il medesimo concetto che abbiamo già veduto nel quarto delle G-eorgiche, e perfettamente identico a quello che Cicerone, come s' è visto, attribuiva a Ferecide, mae- stro di Pitagora (1). Di piti la forza spirituale, di origine divina ed eterea, che è nell' uomo e negli animali, e concepita in perfetta antitesi con la materia del loro corpo, che è per l'anima un carcere, un peso, un impe- dimento, e che è la causa degli errori, delle passioni, delle colpe, dei traviamenti. Sicché la vita è un male (vv. 730-734). Anche questo concetto di un dualismo o antagonismo fra spirito e materia non ò nuovo ed ap- partenne già anch' esso all' antica filosofia pitagorica, come s' è pure veduto (2). Ma se la vita è un male per tutti, per i malvagi e per i buoni, tutti, dopo la morte, deb- bono purificarsi delle infezioni corporee. La purificazione infatti avviene per mezzo di pene e di tormenti, non però eterni, che debbono subirsi per il tempo necessario all' espiazione perfetta. Ne sono mezzi i tre elementi dell' aria, dell' acqua e del fuoco (quelli stessi che si adoperavano appunto nelle cerimonie simboliche dei misteri). Dopo 1' espiazione pu- rificatrice tutte le anime passano nell' Elisio, luogo di beatitudine, dove alcune poche, quelle degli eletti che furono in terra i migliori, rimangono a godere una serena felicità, anche questa non eterna, ma che dura fintantoché non sia compiuto il tempo prescritto — tempo assai lungo, quanto è necessario perchè si esaurisca e scom- paia da sé il loro attaccamento alla vita terrena e il ri- Ci i De Natura Deorum 1, li, 27 e De Senectute 21, 78. (2) Cicerone, Somnium Seipìonis, ?, 15 e altrove. — 144 — cordo delle belle opere umane (1) — per riprendere poi la primitiva natura eterea e spirituale e di nuovo dis- solversi in seno all' anima universale. Le altre invece, e sono la gran maggioranza, trascorsi mille anni in una delle convalli confinanti con 1' Elisio, vengono chiamate da Dio a bere nelle acpue purificatrici del fiume Lete r oblio della vita trascorsa e si incarnano in nuovi corpi. Non s' intende peraltro, poiché Anchise non lo dice, se queste ultime anime, destinate a nuova vita, quando ri- torneranno poi ancora, dopo la seconda morte e conse- guente espiazione negli elementi, all' Elisio, vi resteranno tutte in attesa di convertirsi in puro etere e spirito, o se parte di esse dovrà ritornare nuovamente sulla terra. Nel primo caso il numero delle esistenze terrene sarebbe limitato ad un massimo di due — una con prevalenza del male e una del bene — , nel secondo sarebbe inde- finito. Ma in un modo o nell' altro la teoria della resur- rezione è assai chiara e il ciclo dell' esistenza, dal mo- mento in cui r anima si stacca dallo spirito universale fino al momento in cui si ricongiunge ad esso, è perfet- tamente conchiuso ; il concetto panteistico e il processo di involuzione ed evoluzione dello spirito, appena accen- nati nel quarto delle Georgiche, sono qui svolti compiu- tamente. Né si può dubitare che anche 1' ultima parte che si riferisce alle pene e ai premi d'oltretomba (vv. 735- 747) e che espone la dottrina della metempsicosi (vv. 748- 751), sia, come le prime, foggiata secondo i principi del- l' Orficismo e del Pitagorismo. (1) Appunto per tale attaccarne nto, esse continuano nell' Elisio le occupazioni a cui attendevano sulla terra. — 145 — 7. — Sarebbe certo oltremodo interessante svolgere questi principii fino alle ultime conseguenze logiche, e chiederci, per esempio, se in tale concezione il processo di emanazione delle anime dallo spirito universale avve- nisse una volta tanto, o ad intervalli, o ininterrottamente. Si vedrebbe allora che, non potendo avvenire ne una volta tanto (perchè in tal caso, col ritornare continuo delle anime individuali in seno all' anima universa, ne sarebbe seguita in un determinato momento la scom- parsa della vita dalla terra), né ininterrottamente (parche in tal caso, essendo sempre infinitamente maggiore il numero dei cattivi che non quello dei buoni, a un certo punto sarebbe prevalso irrimediabilmente sulla terra il male), ma dovendo considerarsi come avverantesi ad in- tervalli, r idea di tale processo d' emanazione si ricolle- gherebbe alla teoria già accennata dei grandi anni mon- dani (1). Così ancora, poiché dall' anima universale ema- nano non solo quelle degli uomini, ma anche quelle dei bruti, ci si potrebbe chiedere che cosa dovesse avvenire di queste, alla morte dei loro corpi. E si vedrebbe come, dal modo in cui dovette esser risolto questo problema da qualcuno, potrebbe esser nata appunto l'ipotesi —- quasi (1) Ognuno di questi anni o periodi della vita universale era diviso in dieci mesi (di mille anni ciascuno) e ogni mese era sotto il particolare influsso d' una delle divinità maggiori, concepita forse, filosoficamente, come aspetto, manifestazione, atteggiamento, ema- nazione particolare del dio universale. La durata però degli anni stessi era computata anche altrimenti, ma sempre di parecchi se- coli ; e in ciascun anno, che si iniziava con un processo sempre identico di emanazione, ritornavano sulla terra le stesse anime e si ripetevano gli stessi eventi. Si ricordi quel che abbiamo visto più su (§ 4) parlando della quarta ecloga. 10. — 146 — unanimemente attribuita a Pitagora — d' una metempsi- cosi anche animale (1). Ma prescindendo da queste considerazioni, che ci por- terebbero al di là di quello che Virgilio ci ha voluto o potuto dire, come si concilia questa storia dell' anima con tutta la rappresentazione precedente dell' anti-inferno e del Tartaro ? È evidente che una contraddizione fon- damentale esiste : che 1' esistenza delle anime nel prein- feruo e le punizioni evidentemente eterne che subiscono quelle dei malvagi nel Tartaro non si possono accordare con le pene temporanee per mezzo dei tre elementi. Sic- ché noi siamo indotti a pensare che nella rappresentazione virgiliana dell' oltre tomba si debba forse vedere un ten- tativo mal riuscito — per la mancata elaborazione ultima del poema, impedita dalla immatura morte di Virgilio — di fondere insieme quella che era rappresentazione po- polare e il concetto o rappresentazione filosofica del poeta. E poiché, considerata in sé stessa, questa storia sug- gestiva e profonda ha un senso compiuto e perfetto, e d' altra parte sappiamo che Virgilio compose 1' Eneide a pezzi staccati, che poi collegava insieme, non vorrebbe la voglia di credere che essa sia stata scritta a parte, fors' anche indipendentemente e in tempo anteriore a quello della composizione del poema, e poi opportuna- mente inserita in questo, allorché il poeta — artista, fi- (1) Qualcuno cioè potrebbe aver pensato che le incarnazioni del- l' anima fossero non tutte necessariamente in corpo umano, ma anche in corpi d'animali, terrestri, acquatici od aerei, secondo che le colpe precedenti fossero da espiare nell'uno piuttosto che nel- r altro elemento : e la vita animale avrebbe perciò rappresentato uno stato di vita intermedio fra due vite umane. — 147 — losofo, cittadino nello stesso tempo — concepì l'idea di valersi, per esaltare la grandezza della Patria e per la rappresentazione dei grandi spiriti di Roma, della dot- trina della metempsicosi, antichissima e largamente dif- fusa e conforme alle credenze religiose dei suoi concit- tadini e già consacrata dall' arte di Ennio ? Anzi non mi parrebbe neppure arrischiato il pensare che si dovesse proprio vedere in essa un brano di quel poema della Natura al quale Virgilio già pensava quando finì il se- condo canto delle Georgiche (vv, 475-494), e forse ad- dirittura il principio del poema stesso o 1' idea madre eh' esso avrebbe svolta : principio ed idea eh' egli certo prese e imitò da Ennio, i cui Annali, come abbiamo ve- duto, si iniziavano appunto con 1' esposizione della dot- trina della metempsicosi (1). In tale, ipotesi dunque la teoria messa in bocca ad Anchise non sarebbe soltanto una finzione poetica, un mezzo artisticamente perfetto per ottenere una grande e suggestiva efficacia di rappre- sentazione, ma esprimerebbe la genuina e schietta con- cezione di Virgilio, il risultato ultimo di quel contra^^to (1) Molti raffronti fra Ennio e Virgilio fa Macrobio nel l. VI dei Saturnali; ma, per dire la verità, non vi è cenno alcuno di rapporti formali o sostanziali fra 1' esposizione di Anchise ad Enea e quella di Omero ad Ennio. Potrebbe darsi tuttavia che se ne parlasse in quella parte dei Saturnali che è andata perduta e nella quale appunto si conteneva 1' esame del valore filosofico dell'opera virgiliana fatto da Eustazio. D' altra parte però è indubitabile una effettiva somiglianza di contenuto fra i due squarci poetici, come sono indubbie alcune analogie di pensiero fra i due poeti. E gli arcaismi che si trovano in Virgilio {ollis, aurai) potrebbero essere un altro indizio d' imitazione enniana. — Anche il Pascal (Gom- mentat. vergilianae, p. 143 sgg.) ha dimostrato che Virgilio ha derivato la sua esposizione dottrinale dal proemio degli Annales. — 148 — a cui abbiamo accennato fra l' idealismo pitagorico-stoico e il materialismo epicureo, sarebbe insomma il suo testa- mento filosofico. Mirabile testamento davvero, che la- sciava in eredità alle più lontane generazioni l' alta e sublime espressione artistica d'una teoria che, sorta agii albori del pensiero nelle più remote età dell' uomo, tra- smessa di generazione in generazione da una civiltà al- l' altra, dall' Oriente all' Occidente, custodita con cura gelosa nel mistero dei santuari, insegnata come la verità più sacra e più recondita, s' illuminò ancora una volta, come già nei miti immortali di Platone, alla luce della poesia e dell' arte. V. Pitagora e U sne dottrine nella poesia di Ovidio. 1. La tradizione di Numa scolaro di Pitagora in Ovidio. — 2. Na- • tura, estensione, contenuto degli insegnamenti pitagorici secondo il canto XV delle Metamorfosi ; vegetarianismo ; metempsicosi ; flusso universale della materia e trasformazioni cosmiche e so- ciali; Pitagora profeta della grandezza di Roma e d'Augusto. — 3. Ovidio e il Pitagorismo. — 4. Fonti e valore storico della esposizione ovidiana. — 5. Conclusione. 1. — Ho già parlato nel cap. I della tradizione, se- condo la quale il re Numa Pompilio sarebbe stato sco- laro di Pitagora. Raccogliendo là tutte le testimonianze di questa tradizione, ho anche accennato a quella che ne fa Ovidio (43 a. C. - 17 d. C.) nel quindicesimo e ultimo canto delle Metamorfosi (vv. 1-8, 479-484). Essa ha una importanza specialissima e merita di essere studiata sepa- ratamente dalle altre anche per questo, che della tradi- zione stessa il poeta si vale per fare un'esposizione, se non profonda, tuttavia molto estesa — la più estesa e la pili organica che ci rimanga nella letteratura romana — 150 della tìlosofia pitagorica, specialmente in attinenza a due punti fondamentali di essa: l'astensione dai cibi carnei e la metempsicosi. Dice dunque Ovidio (vv. 1S\ che, scomparso Romolo, si cercò subito chi potesse addossarsi un peso tanto grave com'era il governo di Roma, succedendo a un tal re, e che una fama non menzognera designò all'impero Numa, già famoso per la sua giustizia, per la sua pietà, e, so- pratutto, per la sua sapienza: che, non solo conosceva a perfezione i riti della sua gente, la gente Sabina, ma, abbracciando con la vasta anima più larghi concepimenti ed essendo avido di scrutare i più ardui problemi della natura, aveva abbandonato la nativa Curi e si era recato a Crotone : Quaeritur interea qui tantae pondera niolis Sustineat, tantoque queat succedere regi. Destinai imperio elarum praenuntia veri Fama Numam. Non ille satis cognosse Sabinae 5 Oentis habet ritus : animo maiora capaci Goncipit, et quae sit rerum naiura requirit. Iluius amor curae, patria Guribusque relictis, Fecit, ut Herculei penetraret ad hospitis urbem. Quivi insegnava Pitagora — e segue appunto nei versi 60-478, l'esposizione delle dottrine di questo filosofo, che or ora esamineremo — e Numa ne ascoltò le lezioni; dopo di che ritornò in paCria e prese le redini del governo di Roma, insegnando al popolo del Lazio i riti sacrificali e le arti della pace: Talibus atque aliis instructo pectore dictis 480 tn patriam remeasse ferunt., ultroque petitum Acoepisse Numam> populi Latiaris kabenas: Goniuge qui felix nym^pha ducibusque Gamenis — 151 — Sacrificos docuit ritus, gentemque feroci Adsuetam bello pacis traduxit ad artes. Come si vede — e l'ho già rilevato, — Ovidio non solo accetta senza discuterla, come cosa ovvia e risaputa^ la tradizione che faceva di Numa un discepolo di Pita- gora, ma vien pure in certo modo a mettere in connes- sione di dipendenza le istituzioni religiose attribuite a Numa e l' educazione pitagorica da lui ricevuta ; per quanto con l'accennata collaborazione della ninfa Egeria e delle Camene la leggenda abbia certamente voluto rap- presentare la parte che ebbe l'elemento indigeno nella creazione degl'istituti religiosi romani del piìi antico pe- riodo regio (1). Il poeta pertanto, non tenendo conto dei dubbi e delle critiche messe innanzi da qualche erudito, preferì seguire senz'altro la tradizione leggendaria, che pur Cicerone aveva chiamata inveteratus hominum ei-ror; e ciò non tanto perchè siffatta tradizione gli offriva mi- rabilmente il modo di esporre quella dottrina della me- tempsicosi ch'era la piìi naturale conclusione d'un poe- ma come le Metamorfosi, quanto perchè, molto probabil- mente, la tradizione era più che mai viva nella coscienza dei contemporanei, per i quali il poeta scriveva (2), mas- sime dopo la recente rinascita del Pitagorismo in Roma. (1) Lo stesso Ovidio, in altro luogo {Fast. Ili, 151-154) accenna alla possibilità che la riforma del calendario sia stata ispirata a Numa dal filosofo di Samo : « Primus Pompilius menses sen- sit abesse duos Sive hoc a Samio doctus, qui posse renasci Nos putat, Egeria sive monente sua ». (2) Un ultimo accenno alla medesima tradizione si legge nella terza elegia dei terzo libro delle Pontiche, dove il poeta, immagi- nando di parlare in sogno all' Amore di cui si professa maestro, lo rimprovera di essersi comportato verso di lui ben altrimenti da quello che fecero altri discepoli verso i loro maestri : Eumolpo verso Orfeo, Achille verso Chiroue, Numa verso Pitagora., ecc. : — 152 - 2. — In Crotone teneva dunque scuola Pitagora; il quale, nativo dell'isola di Samo, aveva abbandonato spon- taneamente la patria, mal sopportando la tirannide onde era governata, e s'eia dato a profondi studi di filosofia. Per virtù di questi « egli potè elevarsi con la mente, per quanto fossero lontani nella immensità dello spazio celeste, fino agli dei e scrutare con gli occhi dell'intel- letto ciò che la natura ha negato alla vista degli uomini»: 60 Vir fuit hic, ortu Satnius ; sed fugcrat una Et Samon et dominos^ odioque tyrannidis eocul Sponte erat. Isque^ licet caeli regione remotos^ Mente deos adiit et quae natura nogabat Visihus humanis^ oculis ea pectoris hausit. Ecco subito, in questi magnifici versi, messo in evi- denza Pitagora, e determinata con molta precisione e con grande efiìcacia rappresentativa la natura del suo misti- cismo, fondato sopra l'esercizio assiduo dell'intelletto e la profonda intensità del meditare, per giungere alla vi- sione e alla comprensione delle più alte verità. 65 Cumque animo et vigili perspexerat oinnia cura In medium discenda dahat, coetusque silentum Dictaque mirantum magni primordia mundi Et rerum causas et, quid natura, docebat : Quid deus, unde nives^ quae fulminis esset origo, 70 luppiter an venti discussa nube tonarent^ Quid quateret terras, qua sidera lege fnearent, Ed quodcumque latet. At non Chionides Eumolpus in Orphea talis ; In Phryga nee satyrum talis Olympus erat ; Praemia nec Chiron ab Achilli talia eepit, Pythagor aeque ferunt noti nocuisse Numam. Nomina neu referam longutn collecta per aevum, Discipulo perii solus ab ipse meo. — 153 — E in questi altri versi ecco parimenti accennata con grande chiarezza la vastità e larghezza degl'insegnamenti, che il filosofo impartiva all'attonita e silenziosa schiera dei discepoli e che abbracciavano « le origini primordiali dell'universo, Je cause della materia e l'essenza della na- tura e della divinità, l'origine delle nevi e del fulmine, del tuono e del terremoto e le leggi onde è regolato il corso degli astri: insomma, tutti i problemi più reconditi della filosofia naturale e della scienza » (1). Egli 'per primo, aggiunge ancora il poeta, vietò di ci- barsi di carne, sconsigliando bensì tale astensione con molta dottrina, ma senza riscuotere la meritata approva- zione : Primusque anitnalia mensis Arguii imponi : primus quuni talibus ora Docta quidem solvit, sed non et eredita, verbis. Ed ecco appunto il filosofo combattere, in prima per- sona, l'uso delle carni (vv. 75-95) e descrivere l'età del- l'oro, quando gli uomini non conoscevano ancora tale uso (vv. 96-142); e poi, ispirato dalLi divinità, eccolo ac- cingersi, con più alto afilato poetico, a trattare questioni più ardue e a svelare più riposti misteri : Et quoniam deus ora movet, sequar ora moventem Rite deum, Delphosque meos ipsumque recludarn 145 Aethera et augustae reserabo or acuta mentis. Magna, nee ingeniis evestigata priorum, Quaeque diu latuere, canam. luvat ire per alta il) I vv. 67-71, cke riassumono la supposta fisica pitagorica, sono manifestamente ispirati da Lucrezio, dice il Lafaye, Les mé- tamorphoses d' Ovide et leurs modèles grecs, Paris, Alcan, 1904, p. 197; masi accordano pure benissimo coi principii dello stoicismo. — L54 — Astra \ iuoat terris et inerti sede relieta Nube vehi, validique umeris insistere Atlantis^ 150 Palantesque homines passim ac rationis egentes Despectare procul^ trepidosque obitur/ique timentes Sic exhortari, seriemque evoltere fati. « E poiché sento di parlarvi per ispirazione divina, seguirò gl'impulsi del dio che mi fa parlare secondo il rito, e vi svelerò i miei arcani e lo stesso etere e vi schiuderò gli oracoli fin qui nascosti nel profondo della mia mente. Vi canterò cose grandi, né mai scrutate dalle menti dei padri, e che per lungo tempo restarono occulte. Mi piace andare tra le sublimi stelle ; mi piace abban- donata la terra e questa inerte dimora, lasciarmi traspor- tare da una nube e poggiare sulle spalle del vigoroso Atlante e guardare da lontano gli uomini sparsi qua e là e ancora irragionevoli, e ad essi, che aspettano con trepido timore la morte, infondere coraggio e schiudere la visione del loro destino con queste parole... » Siamo alla rivelazione della metempsicosi, la cui cono- scenza appunto deve distruggere negli uomini il timore della morte : genus attonitu7n gelidae formidine ìnortis ! Quid Styga, quid tenebras et nonnina vana timetis, 155 Materieni vatum^ falsique perieula mundi? (1) Corpora, sive rogus fiamma, seu tabe vetustas Abstulerit^ mala posse pati non ulla putetis, ^ Morte careni animae; semperque priore relieta Sede novis domibus vivunt habitantque reeeptae. (1) Cade ovvio a questo punto il raffronto coi famosi versi delie Georgiche (II, 490-492) : Felix, qui potuit rerum eognoscere caussas, Atque metus omnis et inexorabile fatum Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari, — 155 — « schiatta attonita per lo spavento della fredda morte ! Che temete lo Stige, la tenebra e i suoi nomi vani, fan- tasie di poeti e pericoli d'un mondo inesistente? Non crediate che i corpi, o li abbia distrutti il rogo con la sua fiamma, o il tempo con la putredine, possano soffrire mali di sorta, E quanto alle anime, esse non muoiono ; e sempre, abbandonata una sede, vivono e abitano in di- more che nuovamente le accolgono ». E in prova di ciò Pitagora ricorda (vv. 160-164) d'es- sere vissuto ancora, al tempo della guerra troiana, nel corpo d' Euforbo. Poi segue, piìi specificatamente chiarita ed espressa, la dottrina della metempsicosi animale, vol- garmente attribuita a Pitagora : 165 Omnia mutantur, nìhil interit : errai et illìne Hue venit^ hine illuc, et quoslibet occupai artus Spiritus: eque feris humana in corpora transita Inque feras noster, nec tempore deperii ullo, ■ Utque novis facilis signatur cera figuris, 170 Nec manet ut fuerat^ nec formas servai easdem, Sed iarnen ipsa eadeni est; animam sic semper eandem Esse^ sed in varias doceo migrare fèguras. « Tutto si trasmuta, niente muore. Lo spirito va er- rando e si muove di là a qui, di qui a là, e s'incarna nel corpo che si presceglie; e dalle fiere passa nei cor- pi umani e viceversa, né mai vien meno. E come la molle che si sogliono riferire ad Epicuro. Entrambi i filosofi dunque giun- gevano alla medesima conseguenza pratica (inanità del timore della morte) partendo da premesse assolutamente opposte : 1' uno, cioè Pitagora, dimostrando che il morire è soltanto trasformazione, o passaggio dell' anima d'una in altra forma di vita corporea; l'al- tro, cioè Epicuro, dimostrando che il morire è annientamento to- tale e definitivo della personalità per il disgregamento degli atomi onde l'anima si compone. 156 cera si foggia in nuove figure, sì che, pur non restando quale era prima e non conservando le stesse forme, tut- tavia è sempre la stessa, così vi dico che l'anima ò sem- pre la medesima, senonchò passa sotto varii aspetti » (1). Da ciò un nuovo argomento per astenersi dall'usar carne (vv. 173-175). A questo punto la trattazione di Pitagora si allarga, e il filosofo passa a dimostrare 1' evoluzione perpetua e il divenire incessante di tutto il creato : Et quoniam magno feror aequore plenaque ventis Vela dedi : nihil est tato, quod perstet, in orbe. Cuncta fluuni, omnisque vagans formatur imago. « E poiché, aperte le vele al vento, navigo in alto mare, sappiate che non vi è nulla di immobile in tutto l'universo. Tutto fluisce, e si foggia incessantemente ogni mutevole aspetto ». E questa nuova proposizione illustra con una lunga serie di esempi, tratti dai fenomeni celesti, dall' avvicen- darsi delle stagioni, dalla vita dell'uomo e dalle vicissi- tudini degli elementi (vv. 179-251). Ma la natura non ci offre solo lo spettacolo di muta- menti regolari, determinati da leggi immutabili ed uni- versali ; si compiono anche intorno a noi, nei corpi inor- ganici e negli organici trasformazioni impreviste, che i saggi osservano con curiosità, ma di cui essi ignorano le cause : questi fenomeni straordinari — spesso elencati e descritti nel periodo alessandrino, in opere intitolate (1) Questa, prima parte deiresposizione ovidiana è molto proba- bilmente modellata sul « Sogno » degli Annali di Ennio di cui si è già visto. — 157 — Paradoxa — Ovidio li fa esporre da Pitagora, non sen- za qualche anacronismo, nei vv. 252-417 (i vv. 307-336 riguardano le proprietà di certi corsi d'acqua^ mirabiiia fontium et fiuminum)^ a cui fanno seguito altri (vv. 418- 452), che descrivono le rivoluzioni avvenute nelle società umane, sino al glorioso principaio d'Augusto, predetto già da un oracolo fin dal tempo della caduta di Troia : Nune quoqiie Dardaniam fama est eonsurgere Rotnam^ Appenninigenae quae proxiyna Thybridis undis Mole sub ingenti rerum fundamina pomi. Haec igitur forviam crescendo mutata et olim 435 Immensi caput orbis erit. Sic dicere vates Vaticinasque ferunt sortes : quantumque recordor, Dixerat Aeneae^ cum res Troia?ia labaret^ Prìamides Helenus /lenti dubioque salutis : (1) « Nate dea^ si nota satis praesagia nostrae 440 Mentis habes^ non tota cadet te sospite Troia. fiamma libi ferrumque dabunt iter: ibis, et una Pergama rapta feres, donec Troiaeque tibique Externum patria contingat am,ieius arvum, Urbem etiam cerno Phrygios debere nepotes, 445 Quanta nec est nec erit nec visa prioribus annis. Hanc aia proceres per saecula longa potentem^ Sed doininam rerum de sanguine natus Tuli Efficiet. Quo cum tellus erit u>sa, fruentur Aetheriae sedes^ caelumque erit exitus illi ». Raec Helenum eecinisse penatigero Aeneae Mente mem,or refero, cognataque moenia laetor Crescer e, et utiliter Phry gibus vieisse Pelasgos. Così Pitagora è fatto profeta della divina e fatale po- tenza d'Augusto, come con analogo procedimento, nel (1) La sola predizione che troviamo accennata, a proposito di Enea, nei poemi omerici, si legge nel e. XX &q\V Iliade (vv. 302, 306-308), e fu riprodotta da Virgilio {Aen., IH, 97-98). — .158 -^ poema virgiliano la dottrina pitagorica della metempsicosi è assunta quale mezzo artistico per la predizione della futura grandezza di Rom3. Nei pochi versi che seguono (453-478) Pitagora final- mente ritorna al punto di partenza e conchiude : « Poi- ché tutto cambia, poiché al termine della vita la nostra anima passa in nuovi corpi, anche animali, non uccidia- mo le bestie; chi può sapere se, uccidendole non faccia- mo scorrere il sangue di nostri congiunti ? » . 3. — Analizzato così il contenuto della esposizione ovidiana, vien fatto naturalmente di chiedersi quale sia stato r atteggiamento del poeta di fronte al Pitagorismo. Ne fu egli per avventura un seguace ? A questa do- manda noi possiamo rispondere negativamente senz' om- bra di esitazione : la vita e l'operosità poetica di Ovidio, anche nel periodo posteriore alla composizione delle Me- tamorfosi, furono in antitesi troppo stridente con gl'inse- gnamenti e la pratica pitagorica, per poter immaginare pensare che egli fosse dedito con qualche fervore a quelle dottrine ; d' altra parte Ovidio non ebbe certo tem- pra di filosofo né eccessivo amore per le ricerche e spe- culazioni astruse. Che però una certa simpatia, o almeno una certa insistenza del suo pensiero su quella filosofia ci sia stata, pare evidente, se non solo nell' opera sua maggiore le ha fatto così larga parte, con una esposizio- ne quasi sistematica, ma altre volte ancora accenna ad essa, come nel citato luogo dei Fasti e in alcuni versi delle Tristezze (1). (1) ìrist,, III, .3, 59-64: Atque utinam pereant anhnae cum eorpore hostrae^ Effugiatque avido» pars mihi nulla rogos. — 159 — E quasi certamente poi questa predilezione del poeta si deve ritenere l'effetto della rinascita del Pitagorismo, che era stata operata in Roma da Nigidio nella prima metà del secolo (onde abbiamo già visto quan te e quali traccie se ne riscontrino nella letteratura dell' età di Ci- cerone e di Yarrone), e che al tempo stesso del poeta fece sorgere la scuola dei Sestii : sì che Ovidio potè averne notizia sia dalle opere degli scrittori che appartenevano alla generazione precedente alla sua, sia dalla viva voce e dagli scritti di qualcuno dei nuovi seguaci. 4. — Gli studiosi infatti che, proponendosi la questio- ne delle fonti di quest'ampia trattazione ovidiana del Pi- tagorismo, hanno cercato di risolverla, per poter quindi determinare il valore storico della trattazione stessa, hanno riconosciuto in sostanza che tali fonti debbono essere state le opere varroniane (le Antiquitates rerum divi- narum e sopratutto il dialogo Gallus^ de admirandis) Nam si morte carens vacua volai altus in aura Spiritus, et Samii sunt rata dieta senis, Inter Sarmaiicas Romana vagabitur umbras^ Ferque feros manes kospita semper erit. Il poeta si augura che abbiano ragione coloro che « 1' anima col corpo morta fanno » e che nessuna parte del suo essere sfugga alle fiamme del rogo, poiché diversamente, egli dice, « se lo spi- rito, immortale, vola alto nelle vuote regioni dell' aria e sono veri gì' insegnamenti del vecchio di Samo, 1' ombra di un Romano sarà costretta a vagare fra le ombre dei Sarmati e sarà sempre un'e- stranea tra feroci anime di morti ». Il passo è importante, perchè mostra che, di fronte al pensiero della morte, il poeta era in so- stanza ancora incerto fra coloro che negavano e quelli che affer- mavano la immortalità dell'anima. — 160 — oppure gli scritti di Nigidio, o dei Sestii, od anche dei loro discepoli Papirio Fabiano e Sozione (1). Sicché, qualunque si accetti delle ipotesi messe innanzi, sta di fatto che le fonti a cui Ovidio ha attinto non sono moìto anteriori a lui. D'altra parte, anche tenendo conto del fatto che Ovidio, più poeta che filosofo, non intese certo di trattar l'argo- mento con rigore di metodo scientifico e filosofico, atte- nendosi scrupolosamente a questo o a quell'autore ; ma che avrà usato di una certa libertà e indipendenza, e che (pur valendosi, se si vuole di uno o più modelli, oltre che dei ricordi e delle cognizioni sue personali) avrà se- guito soprattutto il suo sentimento artistico, giovandosi della materia dogmatica nella forma genuina soltanto nei limiti atti a recare efficacia estetica all' opera sua e non poco forse aggiungendo, sopprimendo o modificando di sua propria intenzione; si è riusciti tuttavia a mo- strare, per esempio, che certe intrusioni nel sistema pi- tagorico di principii appartenenti ad altri sistemi — come a quelli di Eraclito e di Empedocle — non sono affatto imputabili ad Ovidio, ma dovevano già essere avvenute negli scrittori dai quali egli attinse (2). La sua esposi- (1) Si vedano in proposito le opere seguenti : Hottingee, De Pythagora omdiano \ìn Opuseula philologica, Leipzig 1817, pag. 100-107); A. ScHMEKKL, De omdiana Pythagoreae doctrinae adum- hratione, Gryphiswad, 1885 e Die Philosophie der mìttleren Stoa, Berlin, 1892, pag. 434, 451, ecc. (dove sono modificate in parte le conclusioni dell'opera precedente); G. Lafaye, op. cit., cap. X. (2) Per Eraclito si veda C Pascal, La dottrina pitagorica e la eraclitea nelle Metamorfosi ovidiane^ Mantova, 1909 ripubblicato nel volume Scritti varii di Letteratura Latina, 1920, p. 207; e per Empedocle il volume dello stesso autore Graecia capta ^ Firen- ze, Le Mounier, 1904, pag. 129-15]. — 161 — zione del sistema di Pitagora acquista pertanto il valore di documento storico, in quanto che, supplendo in parte alla deficienza delle nostre cognizioni m proposito, dovuta alla perdita delle opere di Yarrone, di Nigidio, dei Sestii,^ ci mostra molto approssimativamente in che consistesse il neo-pitagorismo romano del primo secolo avanti Cristo. 5. — L'esame che abbiamo così compiuto della lettera- tura latina dalle origini fino a tutto il secolo della sua maggior fioritura ci ha dimostrato non solo che il Pita- gorismo fu nelle varie età di Roma abbastanza largamente conosciuto, ma che d'ispirazione pitagorica sono alcune delle pili eloquenti pagine che quei tempi ci hanno tra- mandate, come il sogno di Ennio, il sogno di Scipione e il sesto canto dell' Eneide : sicché dobbiamo concludere che nelle idee che quel sistema svolse era implicita una grande e mirabile virtìi di esaltazione poetica ed artistica. Se riflettiamo d'altra parte che quelle idee esercitarono notevole influsso nel sorgere delle più antiche istituzioni romane, e che contro di esse mossero guerra invano l'arte titanica di Lucrezio, la satira maliziosa di Orazio, la forza politica di Cesare e di Augusto (nella lotta contro il so- dalizio di Nigidio Figulo e la scuola dei Sestii), dobbiamo tenere per certo che in esse fosse insita una grande forza di resistenza e quella specie di malìa fascinatrice che su- scita le pili alte energie morali. Se le idee tanto piii val- gono quanto maggiore è il sentimento che le accompagna e che le trasforma in forze vive cioè operanti nella vita degli individui e dei popoli, le concezioni pitagoriche, venute da sì lontane scaturigini e assurte a così varie, molteplici, alte manifestazioni d'arte, di pensiero, di mo- li. — 162 — ralità nel periodo della civiltà romana, ebbero certo valore altissimo. Che se poi, uscendo fuori dai limiti del nostro tema, pensiamo, alla forza di resistenza che esse mostrarono, al loro persistere attraverso i secoli e attraverso tante vicis- situdini del pensiero, ai loro successivo e alterno rina- scere con sempre rinnovato vigore nei momenti di più intensa attività spirituale — nella Magna Grecia con Pi- tagora, in Atene con Platone, in Alessandria coi teosofi neo-platonici, in Roma con Ennio e con Virgilio, in Co- stantinopoli con l'imperatore Giuliano, nell'Italia dell'ul- timo rinascimento con Giordano Bruno — e se riflettiamo che oggi ancora esse vivono nell' Oriente asiatico, ope- ranti con la forza della fede in milioni di coscienze, e che accennano per diversi segni, in questa nuova prima- vera dell'idealismo, a risorgere anche nel mondo occiden- tale (1), noi possiamo con sicurezza affermare che esse non furono apparizione fugace ed effimera d'un pensiero individuale, ma parole di quel linguaggio eterno che sgorga perenne dalle più profonde radici dell'anima umana. (1) Si veda, per esempio, tanto per citare un magnifico libro di scienza, V opera di W. Mackenzie Alle fonti della vita (Genova, Formiggini, 1912) e la recensione che io ne feci nel Giornale del Mattino di Bologna del 7 marzo 1912. APPENDICI I. p: U P H O R B o s. Pubblicato nella Rivista Ligure di Scienze , Lettere ed Arti^ a. XXXIX, fase. 2 (marzo-aprile 1912) Genova. 1. La figura di Eùphorbos nell' Iliade. — 2. Pitagora rincaraazione di Eùphorbos. — 3. Altre incarnazioni di Pitagora. 1. — Y'è forse alcuno per il quale, meglio che per Eùphorbos figlio di Panto, possa ripetersi il famoso ver- so dell'antico commediografo, che il Leopardi tradusse « muor giovane colui ch'ai cielo è caro » ? Poiché ve- ramente fu caro agli dei, se, morto nel fior degli anni sotto le mura della sua Troja per mano del divino Me- nelao, dopo aver ferito, primo fra i Trojani, il fortissimo Patroclo, Eùphorbos ebbe la ventura non solo di una spiritual vita immortale ne la immortalità dell'Iliade, ma di lasciare altresì il suo nome, come ora vedremo, legato per sempre al ricordo di un grande pensiero e di una più grande vita : al pensiero e alla vi+a di Pitagora. Fusa nel vivo indistruttibile metallo della poesia d' 0- mero, la figura dei giovinetto eroe appare, nel racconto dell' antica gesta, nel momento più acuto dell' azione guer- resca. Quando, per l' ostinato disdegno di Achille , più grave è per i Greci il pericolo nella memoranda giornata del combattimento presso alle navi, Patroclo, indossate le armi dell'amico e ricondotti i Mirmidoni alla battaglia, — 166 — verso l'ora del tramonto si trova coi suoi di fronte ad Ettore, che Apollo protegge : in tre assalti egli ha uccisi « tre volte nove » nemici, ma al quarto assalto un colpo del dio gli ha tolto l'elmo, infranta la lancia, fatto cadere lo scudo, slacciata la corazza: II. XVI, 805 Smarrito il cor, fiaccate le valide membra, fermossi e titubò. Di dietro allor con la punta de l'asta infra le spalle, al dosso, Io colse da presso un trojano, il Pantoide Euforbo, che tutti vinceva gli eguali con la lancia e sul cocchio e al muover degli agili piedi, 810 ed anche allor, venuto appena sul carro, sbalzati venti nemici avea, di guerra già prode campione. Primo ei vibrò con 1' asta un colpo su Patroclo auriga ; ne lo scrollò ; poi corse indietro e tornò ne la mischia, tratta fuor da le carni la lancia di frassino; incontro 815 Patroclo, ancor che ignudo, ei già non attese a l'assalto (1). Patroclo allor, stordito dall'urto di Febo e da l'asta, anco a 1' amiche schiere traeva, fuggendo la morte. Ma com' Ettore vide dal ferro piagato ritrarsi Patroclo generoso, il varco s' aprì tra la mischia, 820 presso gli venne e, d'asta vibratogli un colpo, lo giunse sotto a r addome : fuori n' uscì da l'opposto la punta. Quei con fragor giù cadde, e grave fu il lutto de' Danai. (1) I versi 814-815 trovo segnati come spurii nella quinta edi- zione del DiNDORF, curata dallo Hentze" (Lipsia, 1890), sulla quale è stata condotta la presente traduzione. Ma non mi pare ohe sia proprio necessario inquadrare fra parentesi i due versi, così ome- rici pur nell'apparente disordine dei particolari accennati : prima la pronta ritirata del giovinetto trojano, poi il trarre dalle carni di Patroclo 1' asta ; l' idea preponderante per il poeta (cantore in- nanzi a un pubblico di ascoltatori), dopo accennato 1' ardito colpo del giovine, è quella del suo rapido sottrarsi alla vendetta di Pa- troclo ; fermata questa, il poeta si riprende p3r aggiungere an- cora un particolare descrittivo (lo sforzo dello strappare dalla fe- rita la lancia) e per rincalzare l'idea della fuga di fronte a Patroclo, — 167 — Suir eroe atterrato Ettore si vanta e lo schernisce, ma il caduto ne rintuzza 1' orgoglio, affermando che la vitto- ria non è stata merito suo, sì degli dei: che lo hanno ucciso la Moira e il figlio di Latona « e, degli uomini, Eùphorbos »; e predettagli la fine imminente per mano d'Achille, muore e rimane supino in mezzo al campo di battaglia, mentre Ettore insegue Automedonte, che cerca di portare in salvo il cocchio d'Achille. A guardia del cadavere di Patroclo si fa innanzi l'A- tride Menelao, armato di lucido bronzo, tenendo davanti al morto, in sua difesa, la lancia e il rotondo scudo, fer- mo d'uccidere chiuncfue osi accostarsi. Ed ecco ancora Eùphorbos, il cui intervento dà luogo ad uno dei piìi begli episodi della battaglia : II. XVII, 9 Pronto di Panto il figlio, esperto nel' asta (1), s'avvide ch'era atterrato Patroclo, e fattosi subito innanzi che, pur ferito e spoglio della difesa delle armi, era sempre un troppo temibile nemico, anche per un più esperto guerriero che non fosse Eùphorbos. Poiché Omero non ha voluto certo rappresen- tare questa fuga come atto di viltà ! È tutt'altro che vile il figlio di Panto, come dimostrerà fra poco nell' impari duello con Mene- lao. Sicché non mi pare corrispondente né allo spirito né alle pa- role del testo omerico la traduzione che dà il Monti di questo passo: Anzi dal corpo ricovrando il ferro Si fuggi pauroso, e nella turba Si confuse il fellon, che di Patroclo Benché piagato e già dell'armi ignudo Non sostenne la vista. {IL XVI, 1146-1150) (1) L'epiteto (eummelies) non é certo ozioso : infatti già il poeta ha detto che Eùphorbos primeggiava fra i coetanei « con la lancia » (XVI, 809), e che « con l'asta acuta » ha ferito Patroclo (XVI, 806 e XVII, lo), come con l'asta dà un colpo J' ultimo !) nello scudo di Menelao (XVIi, 43-45). 168 disse al figlio d'Atreo, al prode guerrier Menelao : « Menelao, divino germoglio, signor di gran genti, vanne, abbandona il morto, qui lascia le spoglie cruento (1). Prima di me nessuno, fra' Teucri o gì' illustri alleati, 15 giunse con 1' asta Patroclo, in mezzo al furor de la mischia: lascia eh' io m' abbia dunque quest'inclito onor fra' Trojani, che la dolce vita dal petto ti strappi il mio ferro ». Bieco d'ira rispose il biondo figliuolo d'Atreo : « Bello davver, gran Giove, con tanta insolenza vantarsi ! 20 Certo mai fu sì grande '1 furor di pantera o leone di cignal feroce, a cui nel fiorissimo petto gonfiasi il cor superbo, alter di sua grande possanza, qual de' figli di Pauto, esperti ne l'asta, è la boria ! Ne ad Iperènor tuo, rettor di cavalli, già valse 25 di giovinezza il fiore, allor che sprezzante affrontommi e disse me fra' Danai il più dispregevol guerriero ! Or ei non più, te '1 dico, da' suoi propri piedi portato, ad allietar ritorna la cara consorte e i parenti ! Così la tua baldanza, se pur d'affrontarmi tu ardisci, 30 rintuzzerò. Ma io ancor ti consiglio a ritrarti dov'è folta la turba. Chi è saggio prevede l'evento ». Disse così, ma quello ne pur gli die retta e rispose : « Or, Menelao divino, trar dunque dovrò gran vendetta pel fratel eh' uccidesti - e ancor tu me '1 dici vantando - 35 e nel segreto talamo tu n'hai vedovata la sposa, e i genitor nel lutto e in muto cordoglio gittasti ! Oh ! che per me dei miseri avrebbe il cordoglio una tregua, se la tua testa io stesso e l'armi portandomi in Troja, fra le man lo gittassi a Panto e a la diva Frontide! 40 Ma non più a lungo, ornai, s' indugi a far prova con l'armi s' io m' abbia saldo il core o pieno di vile paura ». Detto così, die un colpo nel tondo perfetto suo scudo, ma non lo franse il ferro ; bensì gli si torse la punta nel poderoso usbergo. S' avventa secondo con 1' asta (1) Le armi di Patroclo, sciolte e fatte cadere dal colpo d'Apollo, giacevano in terra poco lungi dal cadavere. ~ 169 — 45 l'Atride Menelao, pregato in suo cor Giove padre, e, mentre quei s' arretra, il coglie a la fossa del collo; dentro spinge con forza calcando la mano pesante, e dall'opposto n' esce pel tenero collo la punta. Cadde, die un tonfo e V armi su lui con fragor risonare ; 50 s' insanguinar le chiome, che simili aveva a le Grazie, (1) i capelli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d' argento. Come talora un florido arbusto d'ulivo si nutre in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di rigoglio, e poi, come l' agita il soffio 55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, (2; ma piombando improvviso un vento con turbine grande dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte; tale di Panto il figlio, esperto ne l' asta, Eiiforbo l'Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi, 60 Come — allor eh' un robusto leone cresciuto fra' monti * da pascolante gregge rapì la giovenca più bella, (1) Cioè ricciute, come dice nel verso seguente, e non bionde^ co- me ha interpretato alcuno, per es. il Koppen, forse ricordando Pin- daro Nem>. 5 fine. Le Grazie furono sempre rappresentate con lun- ghi ricci spioventi sì nelle arti plastiche e figurative, sì nella let- teratura dei Greci (cfr. Omero, Inno ad Apollo, 194 sg. e Stesicoro, fr. XIII neìV Antol. della melica greca di A. Taccone). — Si veda in proposito quello -che scherzosamente Luciano, noi Sogno, fa dire a Micillo : questi, fra le altre cose dice al suo gallo-Pitagora: « e « mi sembra che Omero per questo abbia detto le tue chiome si- « mili alle Grazie, perchè « avvinte eran d'oro e d' argento »: in- « trecciate infatti con 1' oro e rilucendo con esso apparivano, evi- « dentemente, molto piiì pregevoli e desiderabili » (XIII). (2) Accenna forse il poeta coi « soffi di tutti i venti » la sta- gione di primavera, quando — fra il marzo e 1' aprile — le piante s' incurvano bensì sotto i venti, ma si rivestono anche della loro fioritura annuale ; anzi parmi che accenni qui proprio alla prima fioritura* del bell'arboscello d'ulivo, che poi il primo turbine schian- ta, cosi come l'asta di Menelao, troncando la vita del giovinet- to forte ed ardimentoso, fa cadere il serto di fiVite speranze che già s' intesseva intorno al suo capo. — 170 — cui la cervice infranse tenendola forte co' denti, poi, facendola a brani, le viscere ingolla col sangue — intorno a lui, da lunge, si nnuovon con grande frastuono 65 cani, villan, pastori, ma farglisi presso ad alcuno non regge il cor, che tutti li fa scolorir la paura; così Jiessun de' Teucri ha l'alma nel petto sì ardita, eh' osi affrontar da presso la forza del gran Menelao, E questi agevolmente porterebbe via le splendide armi di Eùphorbos, se non glielo impedisse Febo Apollo, il quale, presentatosi ad Ettore sotto 1' aspetto di Mente, lo consiglia a desistere dall' inutile inseguimento dei cavalli d'Achille e ad accorrere invece là dove or Menelao frattanto, il figlio pugnace d'Atreo, 89 corso a difender Patroclo, uccise il miglior de' Trojani, il Pantoìde Euforbo e spento n' ha il valido ardire. Ettore infatti, pronto, si fa largo tra le schiere, vede r uno che toglie le magnifiche armi, 1' altro disteso in terra e il sangue che sgorga dalla ferita, irrompe fulmi- neo con orribili grida, e Menelao, riconosciutolo subito, non osando da solo tenergli testa, lascia a malincuore il corpo di Patroclo e si ritira verso i suoi, per chiamare qualcuno in soccorso. Così egli non ha potuto neppure portar via con sé sul suo cocchio la preziosa armatura; della quale tuttavia dovette certo impadronirsi più tardi, quando i Trojani sconfitti furono costretti a rinchiudersi entro le mura. E non sarà stato quello il meno glorioso trofeo di guerra che avrà riportato con se a Micene. 2. — Ma Eùphorbos, morto di così bella morte e glo- rificato già dalla divina arte d' Omero, non rinacque per avventura, dopo quattro secoli, a nuova vita e ad opere non meno belle e gloriose? — 171 — Poiché alcune antiche testimonianze ci hanno traman- dato che Pitagora, il celeberrimo fondatore della scuola italica, l'assertore più famoso della dottrina della metempsi- cosi, « nel tempio di Hera Argiva, veduto uno scudo di « bronzo, disse che quello portava e gli era stat^ tolto « da Menelao quando era Eùphorbos. E degli Argivi, « staccato lo scudo, vi videro realmente inciso il nome « d'Eùphorbos ». Così afferma uno scoliaste d'Omero (//. XVII, 28) e così altri, fra gli antichi scrittori, ricor- dano accennano la cosa. Chi non rammenta infatti, tanto per citare i piìi noti, quella famosa ode d'Archita, dove Orazio afferma appunto, non senza una sottile ironia, che « il regno dei morti tiene anche il figlio di Panto, sceso « all'Orco un'altra volta, sebbene, con lo scudo, che fece « staccare, data testimonianza dei tempi della guerra troja- « na, non avesse concesso alla nera morte niente più che « i nervi e la pelle? » (1) Il buon Orazio, tra scettico ed epicureo, non ebbe evidentemente molta fede nella me- tempsicosi e si burlò un poco di « Pitagora redivivo! » (2) Anche Ovidio, che nell' ultimo canto delle Metamorfosi fa esporre da Pitagora stesso le sue dottrine, lasciò espli- cito ricordo della tradizione, facendo dire al filosofo : Ben io — sì lo rammento — nei dì della guerra di Troja ero il figliuol di Panto, Euforbo, cui stette nel petto (1) Orazio, Garm. I, 28 vv. 9-13 : habentque Tartara Panthoiden iterum Orco Demissum, quamvis clipeo Trojana refixo Tempora testatus, nihil ultra Nervos atque cutem morti concesserat atrae. (2J Id. Epod. VI, 21: « nec te Pythagorae fallant arcana renati » 172 la grave lancia infissa, per man .del più giovine Atride, Riconobbi lo scudo, che già la sinistra mia tenne, or non è molto in Argo nel tempio sacrato di Giuno ». (1) E ancora due secoli dopo il filosofo neo-platonico Por- firio^ raccogliendo in una breve biografia molte notizie intorno a Pitagora, lasciò scritto che questi « ricordava « a molti di quelli che si recavano da lui la precedente « vita che 1' anima loro aveva vissuto già un tempo pri- « ma di essere legata nel corpo d' allora. E di sé stesso « rivelò con prove indubitabili d'essere stato Euphorbos « figlio di Panto. E dei versi omerici cantava, accompa- « gnandosi mirabilmente con la lira, quelli di preferenza: 50 s' insaguinàr le chiome, che simili aveva a le Grazie, i caj)elli ricciuti, eh' avvinti eran d'oro e d'argento. Come talora iTn florido arbusto d'ulivo si nutre in solitario loco, allor che molt' acqua vi sgorghi, bello, pien di rigoglio, e poi, come 1' agita il soffio 55 di tutti i venti, un velo di candidi fior lo ricopre, ma piombando improvviso un vento con turbine grand® dalla fossa lo schianta e a terra disteso lo abbatte ; tale di Panto il figlio, esperto ne 1' asta, Eiiforbo r Atride Menelao uccise e spogliava de l'armi. < Poiché quel che si racconta dello scudo di questo « Euphorbos frigio, che si trovava in Micene, nel bottino (1) Ovidio, Metamorph. XV, vv. 160-164: Ipse ego — nam memini — Trojani tempore belli Panthoìdes Euphorbus eram, cui pectore quondam Haesit in adverso gravis basta minoris Atridae. Cognovi clipeum, laevae gestamina nostrae, Nuper Abanteis tempio lunonis in Argis, — 173 — « trojano dedicato a Giunone Argiva, lo passo sotto si- « lenzio come cosa ben nota » (1). La tradizione dunque era assai diffusa Tra gli antichi. Ora quale ne sarà stata 1' origine? Un'invenzione pura e semplice ? Potrebbe anche essere; nel qual caso dovrem- mo evidentemente pensare a qualche discepolo o seguace del Maestro, il quale, per confermarne meglio la dottrina della metempsicosi, avesse immaginato di sana pianta la storiella, cercando poi di accrescerle autorità col farne autore lo stesso Pitagora. l' invenzione sarebbe nata da quel che abbiamo udito or ora narrare da Porfirio, che il filosofo, appassionato lettore d' Omero, recitava e can- tava spesso i delicati e soavi versi della morte d' Eùphor- bos ? Anche questo è possibile. Ma a me pare molto più semplice e forse più ovvio — senza andare vanamente fan- tasticando in ipotesi — credere senz'altro alla concorde testimonianza degli antichi. Vi è forse nella cosa alcun- ché che trascenda i limiti della credibilità e della vero- simiglianza? Pitagora non credeva davvero alla metempsi- cosi, e non era anzi questo il pernio della sua psicologia e della sua morale, e convinzione (non pura ipotesi spe- culativa) profonda, certa, inoppugnabile sua e dei suoi seguaci ? Dunque e ben possibile che egli, il quale aveva virtù taumaturgiche (tanto che nella sua vita il meravi- glioso, anzi il miracoloso, ebbe gran parte)^ egli, che tante profonde e misteriose cose aveva imparato nei suoi viaggi in Egitto e nell' Oriente, esercitando quelle sue pratiche magiche ai vita, profondando lo spirito in quelle sue me- (1) PoRPHTRii, Vita Pythagorae^ 26, 27. Così presso Luciano nei Dialoghi dei morti (20), quando Eaoo presenta Pitagora a Menippo, questi si rivolge subito a lui con le parole: «Salve, o Eùphorbos ». — 174 — ditazioni — così intense, che erano quasi astrazioni dal corpo ed estasi vere e proprie — , credesse di leggere nel suo passato la storia della propria anima e ne desse notizia ~ se non proprio alle turbe — agi' iniziati della sua scuola, . agi' intimi, ai più perfetti, da qualcuno dei quali poi la cosa sarà stata divulgata. Insomma per me r attribuire a Pitagora stesso, anziché allo spirito inven- tivo di qualche zelante discepolo, 1' accenno alle sue vite anteriori non ha nulla di inammissibile e di men che credibile : lo zelo dei seguaci avrà forse potuto aggiunge- re qualcosa, inventare qualche nuovo particolare o ma- gari immaginare qualche nuova esistenza, ma l' origine prima di siffatti racconti si può proprio far risalire allo stesso Maestro. Il quale dunque potè realmente dire e naturalmente anche credere — poiché non é ammissibile la malafede in un uomo di tanta autorità, la cui vita fu tutta un apostolato di verità e di bene — di essere stato Eùphorbos. Ma in tal modo — si potrebbe osservare — se noi accettiamo per vero quello che 1' antichità concorde ci ha tramandato, che cioè Pitagora credette e diede a credere di essere stato il giovinetto figlio di Panto, ne verrebbe di conseguenza che egli avrebbe anche creduto nella realtà storica d' Eùphorbos, non già iato dalla feconda fantasia d' Omero, ma vissuto in carne ed ossa. E che per que- sto ? Chi mai dei Greci del sesto secolo avanti Cristo — per non dire di quelli dei secoli posteriori - - non credette nella realtà della guerra trojana, e dubitò della esistenza di Agamennone, di Achille, di Menelao, di Ulisse, di Ettore, di tutta la bella schiera degli eroi dell' Iliade e dell' Odissea? Né la critica storica demolitrice, né la qui- stione omerica erano nate ancora, e Federico Augusto — 175 — Wolf doveva tardare ancora ventiquattro secoli a nascere e a lanciare pel mondo la stupefacente teutonica mostruo- sità dei suoi Prolegomeni ad Omero ! (1) 3. — Di Pitagora gli ''antichi conobbero anche altre incarnazioni, anteriori e posteriori. Soggiunge infatti Por- firio, un poco più innanzi : « Affermava di essere già vis- « suto precedentemente, dicendo d' essere stato prima Eù- « phorbos, poi Etàlide, in terzo luogo Ermótimo, poi Pirro « e allora Pitagora. Con che dimostrava che 1' anima è « immortale e riesce, in chi sia purificato, a ricordarsi « dell'antica sua vita » (2). Ma Diogene Laerzio ci ha conservato in proposito una testimonianza — che risali- rebbe ad Eraclide Pontico (discepolo di Platone, Speu- sippo ed Aristotile) — la quale differisce da quella di Porfirio non solo perchè fa di Eùphorbos la seconda in- carnazione, essendo stata la prima quella di Etalide, ma anche perchè riferisce ad Ermótimo (terza incarnazione), anziché a Pitagora, 1' episodio dello scudo, che sarebbe (1) Veramente si é incominciato già da qualche tempo ~ anche in Germania — ad essere un po' meno radicali in fatto di nega- zioni. E a quel modo che il Beloch, per esempio, ammise come possibile che « fra gì' innumerevoli eroi venerati nelle diverse parti del mondo greco ve ne fosse qualcuno che in realtà una volta si mosse sulla terra in carne ed ossa » (I, p. 121), così il Drerup {Ornerò^ Bergamo, 1910) afferma d'esser « disposto a vedere in Agamennone, Menelao, Nestore, Ajace, forse anche in Priamo e in altre figure dell' epopea, reali persone storiche » (p. 226). Gli rimangono però gravi dubbi sulla realtà storica della spedizione contro Troja (p. 231 e seg.). (2) l. e, 45. Della cosa discussero anche gli scrittori cristiani, come Tertulliano (de anima 28, 31, 34), Lattanzio {Epit. Instit. dio. 36), Sant'Agostino {Irinit. XII, 24). — 176 ~ inoltre stato appeso nel tempio di Apollo a Branchidas, e non a Micene. Ma ecco senz' altro le parole di Laerzio : « Dice Eraclide Pontico che egli (Pitagora) afPermava di « se d' esser già stato Etalide e ritenuto figlio di Her- « raes (1). E che Hermes gli disse di scegliere quel che « volesse, tranne F immortalità : onde egli chiese il dono « di conservare da vìvo e da morto il ricordo di tutti « gli eventi. Che pertanto in vita si ricordava di tutto, « e dopo che fu morto conservò egualmente la memoria. « Che in seguito rinacque Euphorbos e fu ferito da Me- te nelao ; ed Euphorbos diceva d' essere stato un tempo « Etalide e di aver avuto da Hermes quel dono e ricor- « dava le trasformazioni dell'anima com'erano avvenute, « e attraverso quali piante ed animali fosse passata, e « che cosa l'anima avesse sofferto nell'Ade, e qual sorte « attenda le altre anime. E che quando Euphorbos morì « la sua anima passò in Ermòtimo, che alla sua volta, « volendo dare una prova dell'esser suo, andò a Bran- « chidas ed entrato nlel tempio d' Apollo mostrò lo scudo « che Menelao vi aveva appeso, ormai imputridito, re- « stando solo la parte esterna d'avorio (2). E che quan- ti) Dobbiamo forse in questa ipotetica discendenza da Hermes, il dio dei misteri, vedere significata la iniziazione di Pitagora alle dottrine ermetiche? Mi par probabile; se pure non dobbiamo vedere in ciò, come noli' altra comune tradizione che faceva di Pitagora un « figlio d'Apollo », delle espressioni del linguaggio mistico fraintese. (2) Pausania, nella descrizione che ci ha lasciata dell' Heraion di Micene, dice ben chiaro che nel pronao del tempio, a destra, dov' era la statua della dea, vi era « anche appeso in voto uno scudo, quello che Menelao già tolse ad Euphorbos in Ilio ». (De- scriptio Graeciae II, 17, 3). Ora, poiché sappiamo che Pausania descrive nell' opera sua proprio quel che ha visto coi suoi occhi — 177 - « do Erraótimo morì, rinacque Pirro pescatore di Delo ; « e di nuovo si ricordava tutto : come fosse stato prima « Etalide, poi Eùpborbos, poi Ermótimo, poi Pirro. E « che quando Pirro morì, rinacque Pitagora e si ricorda- « va di tutto quel che s' è detto » (1). Non solo, ma a sentir Gelilo anzi i due filosofi Clearco e Dicearco — vis- suti fra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo — avreb- bero lasciato scritto che Pitagora rivisse ancora altre tre volte, come Pirandro, come Calliclea e finalmente come una bella etera chiamata Alce (2). E così r anima d' Eùphorbos, essendo vissuta otto volte- e avendo sperimentato, chiusa nel carcere corporeo, le più varie condizioni d' esistenza, sarà essa — dopo aver compiuto il ciclo assegnatole dal suo proprio destino -— tornata a dissolversi nel gran mare dell' anima univer- sale ? (3) o non avrà continuato ancora a vestirsi d'uma- na carne, indefinitamente, secondo la favola di Luciano? (tanto che una sua indicazione guidò lo Schhemann alla scoperta delle famose tombe dei re nel foro di Micene), avrà egli veduto quell'antichissimo logoro avanzo, o una copia in bronzo fattane fare di poi, o addirittura un qualunque scudo che i sacerdoti del tempio vi abbiano appeso in tempi tardivi a ricordo e testimonianza dell'antica notissima tradizione? Pausania in ogni modo visse nella 2^ metà del secondo secolo dopo Cristo. (1) Diogene Laerzio, Vili, 4-5. (2) Gellio, Noctes Attieae, IV, 11 : «... . Pythagoram vero « ipsum, sicut celebre est, Euphorbum primum fuisse, dictitasse; ita « haec remotiora sunt bis, quae Glearchus et Dicaearchus memo- « riae tradiderunt, fuisse eum postea Pyrandrum, deinde Callicleam, « deinde feminam pulchra facie meretricem, cui nomen fuerat « Alce ». (3) Se, come è probabile, Platone ha desunto dal Pitagorismo i principii a cui informa la teoria delle pene d' oltretomba nel De republica (X, 615) — secondo la quale chi aveva commesso ingiu- 12. — 178 - « Lungo sarebbe a dire — così parla il suo gallo fìlo- « sofo (Pitagora redivivo anche questo!) — in qual forma « r anima mia venisse via da Apollo volando, ed entrasse « in corpo di uomo, e qual pena sofferisse in tal guisa... « Mentre eh' io era Eùphorbos combattei a Troja, e quivi « ucciso da Menelao, dopo qualche tempo ne venni a stare « in Pitagora ; ma fra 1' un tempo e V altro non ebbi « casa, aspettando che Mnesarco (1) mi apparecchiasse « r abitazione.... — Ma quando ti spogliasti di Pitagora « (domanda Micillo al suo gallo) di che ti vestisti? — Di « Aspasia, femmina di mondo, di Mileto — . . . — E dopo « Aspasia qual uomo o qual nuova donna diventasti? — « Grate, cinico. — figliuolo di Giove, qual differenza! « Di femmina di mondo, filosofo ! — Poi re, poi un po- « verello, poi satrapo, poi cavallo, poi gazzera, poi ranoc- « chio, e mille altre cose che non finirei mai a dirle tutte. « Ma sopra tutto fui gallo spesso (vita da me sopra le stizia verso un altro doveva subire dieci volte quella medesima ingiustizia e occorreva quindi lo spazio di dieci vite per scontare le colpe della prima — bisognerebbe veramente ammettere (s' in tende bene, dal punto di vista di Pitagora e della sua dottrina) almeno altre due vite. — - Per il luogo platonico e le relazioni che esso può avere avuto con il dogma cristiano della resurrezione si veda ciò che ha scritto il Pascal nella Rassegna Contemporanea del dicembre 1911 (ripubblicato in Credenze d'oltretomba^ II, pa- gina 199). (1) Padre di Pitagora. Si noti poi che qui Luciano sorvola sul- le altre note incarnazioni del filosofo. Ma altrove {Vera Historia^ II, 21) egli dice: « In quel tempo appunto ci venne (nella città di « Soveria nell' isola dei Beati) Pitagora di Samo, che allora aveva « finita la settima mutazione, vissuto le sette vite, compiuti i sette « periodi dell'anima, ed aveva d'oro tutto il lato destro. Fu de- « ciso d' ammetterlo con gli altri beati, ma non si sapeva se chia- « marlo Pitagora od Euforbo ». — 179 — « altre amatissima) servendo ad altri molti, a re, a pove- « relli, a ricchi uomini; e finalmente vivo in tua compa- « gnia, facendomi beffe cotidianamente di te, che ti que- « reli della tua povertà, e piangi e ammiri i ricchi perchè « non sai i mali che comportano... » (1). E con l'amabile arguzia lucianea possiamo ben chiu- dere questa singolare istoria d' Eùphorbos figlio di Panto, il quale fu veramente molto caro ai celesti. (1) Luciano, Il Sogno o il Gallo (secondo la traduzione di Ga- sparo Gozzi). Si legga tutto questo piacevolissimo dialogo. Il no- stro autore del resto scherza in parecchi altri luoghi su Eùphor- bos; mi sembra inutile riferirli; basterà vedere un qualunque indice delle opere di Luciano. II. IL SODALIZIO PITAGORICO DI CROTONE. Edito nel 1904 dalla ditta Nicola Zanichelli di Bologna. Tradotto e pubblicato in The Theosophieal Review (Londra) voi. XXXVII, n. 219-20 (nov.-dic. 1905). 1. Oggetto del presente studio. -- 2. Origiiae o formazione del So- dalizio pitagorico. — 3. Carattere e scopi di esso. — 4. Sua du- rata. — 5. Suo ordinamento. — 6, Natura degl'insegnamenti che vi si impartivano. — 7. Conclusione. L — Una tradizione che fu diffusa e concorde nel- r antichità anche prima dell' apparizione del neo-pitagori- smo, narra che il filosofo di Samo, dopo aver viaggiato nelle regioni d' Oriente — in Fenicia, nella Babilonia, in Caldea, nella Persia, nell' India e in particolare nell' E- gitto — e ^ver presa quivi conoscenza delle dottrine se- grete che i saggi ed i sacerdoti vi professavano, proprio nello stesso tempo in cui fiorivano nella Cina Lao-Tse (604-520 a. C.) e nell'India Gotamo Buddho (560-480) (1) venne a Crotone, una delle più fiorenti fra le città della Magna Grecia, dove, acquistato subito largo seguito di ammiratori, istituì un celebre Sodalizio. Di questo ap- punto intendo ora di esporre le origini, la durata e la costituzione, valendomi delle notizie abbastanza numerose e particolareggiate, perchè possiamo farcene un' idea esatta. (1) Cfr. le osservazioni contenute nel cap. I dello studio di G. De Lorenzo suU' Bidia e il Buddhismo antico (Bari, Laterza, 1904, 22 ediz. 1919). — 184 — che ce ne hanflo lasciato, fra gli altri, Diogene Laerzio (1), Porfirio (2), GiambJico (3), Clemente Alessandrino (4), nonché, incidentalmente, gli scrittori classici maggiori, delle quali poi si servirono, in misura piii o meno larga, con criteri più o meno discutibili, gli storici moderni del- la filosofia greca in generale e del movimento pitagorico in particolare, come il Krische (5), lo Chaignet, il Cen- tofanti, lo Zeller, il Cognetti de Martiis, lo Schuré (6) ed altri. 2. — Quanto SiìVorigme dell' Istituto, la tradizione con- corde narra che verso la LXIP Olimpiade (530 a. C.) o poco dopo (7) Pitagora, giunto a Crotone, forse accom- pagnato da numerosi discepoli che ve lo seguirono da Samo (8), cominciò a tenere in pubblico discorsi tali da conquistare subito la simpatia degli uditori, accorrenti in gran numero ad ascoltare la sua parola ispirata (9), che (1) Vitae et placìta clarorum philosophorum 1. YIII e. I. (2) De vita Pythagorae. (3) De pythagorica vita. (4) Stromat. libri, passim. (5) De soeietatis a Pythagora in urbe Orotoniatarum conditae scopo politico commentano^ Gotting, 1831. (6) Les Qrands Initiès, Paris 1902, pp. 267 sgg. Ed. ital. (Bari, Laterza, 1905). Per gli altri autori v. note a p. 186 e 192. (7) Variano dal 529 al 540 le date proposte relativamente all' anno della sua partenza da Samo; la prima data è ammessa dall' Ueberweg, Qrundr. I, 16, 1' altra è in Bernhardy, Orundr. d. gr. Liti. p. I, pag. 755. Il Lenormant {La Grande Orèee) sta pel 532. Quanto all' arrivo in Crotone, il Bernhardy crede che nel 540 Pitagora vi si trovasse già. (8) GlAMBL. 29. (9) V. Porfirio /. e. 20, che riferisce la notizia da Nicomaco e Cfr. GlAMBL. l. e. 30. ^ 185 — predicava verità non mai udite prima d'allora in quella regione e da quegli uomini. Accolto con molta deferenza tanto dal popolo quanto dalla parte aristocratica, che al- lora aveva nelle mani il governo, per V entusiasmo su- scitato dalla sua predicazione, fu eretto dai suoi ammira- tori un ampio edificio in marmo bianco — homakoeion od uditorio comune (1) — nel quale egli potesse inse- gnare comodamente le sue dottrine ed essi ridursi a vi- vere sotto la sua guida. La tradizione, quale la troviamo presso Giamblìco e presso Porfirio, aggiunge altri parti- colari: Pitagora, entrato nel ginnasio, avrebbe parlato ai giovani che vi si trovavano suscitandone l' ammirazione (2), del che venuti a conoscenza i magistrati e i senatori avrebbero manifestato il desiderio di sentirlo anch' essi ; ed egli, venuto dinanzi al Consiglio dei Mille, vi ottenne tale approvazione da essere invitato a rendere pubblico il suo insegnamento^ al quale infatti molti accorsero pron- tamente, mossi dalla fama, subito dilBFusa per tutto il paese, della grande austerità d' aspetto, della dolce soavità d'eloquio, della profonda novità di ragionamenti del fo- restiero. Via via, la sua autorità crebbe in modo che egli potè esercitare nella città una vera dittatura morale; poi (1) Si noti che Clemente (Strom. I, lo) lo identifica con quella che al suo tempo chiamavasi Ecclesia, cioè alla Chiesa cristiana. (2) V. in Giamblìco op. cit. 37-57 un largo sunto di questo di- scorso, che ci dà un' idea di quello che fosse l' insegnamento esso- terico di Pitagora. La diversità notata a questo proposito dallo Zeller fra il racconto di Giainblico e quello di Porfirio non mi pare sufficiente per trarne, com' egli fa, l' induzione che il discorso ri- ferito dal primo non può essere stato preso da Dicearco, citato dal secondo ; ad ogni modo è fuori di dubbio che Dicearco stesso lo co- nosceva, se potè dire che conteneva « molte belle cose ». 186 si allargò, diffondendosi nei paesi vicini della Magna Gre- cia e nella Sicilia, a Sibari, a Taranto, a Reggio, a Ca- tania, ad Imera, a Girgenti; dalle colonie greche, dalle tribù italiche dei Lucani, dei Peucezi, dei Messapii ed anche da Roma (1) vennero a lui discepoli di ambo' i sessi ; e piìi celebri legislatori di quelle regioni, Zaleuco, Caronda, Numa ed altri, l' avrebbero avuto per maestro (2), sì che per merito suo si sarebbero ristabiliti dovunque r ordine, la libertà, i costumi e le leggi (3). In questo modo, dice il Lenormaiit (4), « egli potò giungere a rea- lizzare l'ideale d'una Magna Grecia composta in unione nazionale^ sotto l' egemonia di Crotone, non ostante la diffeirenza di razze degli Elleni italioti » ; il che peraltro ò inesatto, poiché, come vedremo, l'intendimento di Pi- tagora nella sua azione e nella sua predicazione non fu politico nazionale, ma essenzialmente umano. Forse, ag- giunge un altro scrittore (5), non fu estranea all'acco- glienza avuta dal filosofo ed al successo da lui riportato, una persona con la quale egli doveva essersi trovato in rapporto quand'era a Samo, cioè il celebre medico ero- tonese Democede. Ma senza dubbio, più che a conoscenze personali, l'approvazione ottenuta da Pitagora in Crotone e l'entusiasmo da lui suscitato in tutta la Magna Grecia (1) DiOG. VITI, 15; PoEF. 22 ecc. (2) V. Seneca, 90, 6 che cita Posidonio ; Diog. Vili, 16; Forf. 21 ; GiAMBL. 33, 104, 130, 172; Eliano, Var. Hist. Ili, 17 ; Diod. XII, 20. (3) V. DioG. Vili, 3; Porf. 21 sg , 54; Giambl. 33, 50, 132, 214; Cic. Tusc. V, 4, 10; Diod, ìragm. p. 554; Giustino XX, 4; Dione Crisost. or. 49, p. 249 ; Plut. c. princ. philos. I, 11, p. 776. (4) Op. ciL, V. I, p. 75, (5) Cognetti De Martiis, Socialismo antico^ (Torino, 1889Ì p. 465. — 187 — furono piuttosto l'effetto da un lato delle virtù intrinse- che delle sue dottrine e del suo insegnamento, e dall' al- tro della disposizione e attitudine di quelle genti a in- tenderlo ed apprezzarlo. Poiché il misticismo ed ogni moto idealistico trovò sempre fra loro un generale e pron- to assenso e un gran numero di seguaci, sia nei tempi più antichi, sia durante il medio evo e nell' età moder- na (1). In queste attitudini dei popoli del mezzogiorno sta la ragione del rapido diffondersi delle dottrine pita- goriche, che furono accettate quasi universalmente : tanto che molti (2), i migliori per intelligenza e per elevatezza morale, presi d'ammirazione per la profonda scienza del Maestro, si accostarono a lui, e, desiderosi di penetrare più addentro nella conoscenza del suo sistema filosofico, di cui intravvidero ed intuirono la vastità e la compren- sione, si ridussero a poco a poco a vivere con lui, atti- rati nella sua orbita d'azione e di pensiero da quella spontanea simpatia che hanno sempre esercitato sugli al- tri tutti i grandi apostoli dell' umanità. Così fu formato il Sodalizio, del quale fu poi aperto (1) Così p. es. l'idea religiosa di cui si fece poi paladino e ca- valiere S. Francesco, partì appunto dalla Calabria, con l'abate Gioac- chino da Fiore (V. Tocco L'Eresia nel M. E.^ lib. li, eie II). Del resto il Pitagorismo si mantenne sempre vivo nell' Italia Me- ridionale, (di dove penetrò in Roma con Ennio) e vi sorse a nuo- vo splendore nei sec. XYI e XVII con la Scuola di Bernardino Telesio, dalla quale uscirono, fra gli altri, il Campanella e il Bru- no— Cfr. David Levi, Giordano Bruno^ Torino, 1888 pp. 124 sgg. (2) Porfirio op. cit.^ 20 sgg., racconta che più di duemila cit- tadini con le mogli e i figli si raccolsero nell' Homakoeion e vis- sero mettendo in comune i loro beni e reggendosi con statuti dati loro dal filosofo, che veneravano come un Dio. — 188 — l'accesso a tutti i buoni — uomini e donne (1) — : e alla sua filosofica famiglia il Maestro diede quel medesimo or- dinamento che aveva forse visto attuato nelle scuole del- l' Oriente e dell' Egitto, nelle quali come s' è accennato, egli aveva probabilmente preso conoscenza dei Misteri. L'istituto divenne ad un tempo un collegio d'educazione, un'accademia scientifica e una piccola città modello, sot- to la direzione d' un grande iniziato ; e per mezzo della teoria accompagnata dalla pratica, delle sciq^ze unite alle arti, vi si giungeva lentamente a quella scienza delle scienze, a queir armonia magica dell' anima e dell' intel- letto con l'universo, che i Pitagorici consideravano come l'arcano della filosofia e della religione. La scuola pita- gorica ha perciò un'importanza assai grande, perchè fu il piti notevole tentativo d' iniziazione laica : sintesi an- ticipata dell' ellenismo e del cristianesimo, essa innestò il frutto della scienza sull'albero della vita, e conobbe quin- di quell'attuazione interna e viva della verità che sola può dare la fede profonda; attuazione efiìmera, ma d'im- portanza capitale, perchè ebbe la fecondità dell' esempio (2). 3. — Secondo che fu data maggiore importanza all'uno all'altro degli elementi costitutivi della dottrina pita- gorica alle forme e agli effetti esteriori di essa, diverso (1) Sulle donne pitagoriche sarebbe opportuno e desiderabile uno studio, che darebbe certo gran luce su molti fatti. Ad esse era impartito un insegnamento particolare ed avevano iniziazioni pa- rallele, adattate ai doveri del loro sesso. Giamblioo, op. eit. 267, dà i nomi di 17, tutte chiarissime— -Cìt. ihid. 30, 54, 132; Dioo. Vili, 41 sg. ; PoRF. i9 sg. ecc. —V. anche Schure, op. cit. pa- gine 379 sgg. (2) ScHURÈ op. cit. p. 314. 189 fu il criterio che gli studiosi portarono nel giudicare per quali intendimenti il filosofo avesse voluto creare questo Sodalizio. Alcuni non ne videro che l'intento politico; così, se- condo il Krische, « la società ebbe meramente lo scopo di restaurare, consolidare e. accrescere il potere decaduto degli ottimati e, subordinati a questo, due altri scopi, uno morale e l'altro di coltura: di rendere cioè i suoi mem- bri buoni ed onesti, affinchè, se fossero chiamati al reg- gimento della cosa pubblica, non abusassero del loro po- tere con l'opprimere la plebe, e questa comprendendo che si provvedeva al suo benessere, stesse contenta al suo stato ; e di far studiare la filosofia a coloro che si accingessero al governo dello Stato, perchè non si può aspettare un governo buono e sapiente se non da chi sia colto ed erudito » (1). Ora quanto sia incompiuta ed im- perfetta questa opinione del Krische apparirà dal seguito del nostro studio. Gli intenti del riformatore non furono politici soltanto, ma anche morali, filosofici e religiosi ; né il suo insegnamento voleva mirare solo a Crotone, o alla Magna Grecia, sibbene ^Wuomo in generale ; il con- tenuto politico che esso poteva avere era quindi appena una parte, e neppure la principale, di un larghissimo sistema scientifico e filosofico, che abbracciava tutto lo scibile. Altrimenti, nota giustamente lo Zeller, non si spieghe- (1) l. e. p 101 — Cfr. il giudizio del Meinees, Hist. d. scienc. etc. V. II, p. ]85 e quello molto strano del Mommsen, St. di Roma antica^ Roma-Torino 1903, v. I, p. 124 sg. : « Siffatte tendenze « oligarchiche informavano la lega solidaria degli « Amici » (?), « fregiata del nome di Pitagora ; essa ingiungeva di venerare la « classe dominatrice come divina, di trattare come bestie quei « della classe servile ecc. » ! — 190 — rebbe l' indirizzo fisico e matematico della scienza pitago- rica, e il fatto che le testimonianze piti antiche intorno a Pitagora ci mostrano in lui più che l'uomo di Stato, il teurgo, il profeta, il sapiente e il riformatore morale (1). In realtà egli mirava ad elevare nello spirito e nei costu- mi i suoi discepoli, sia impartendo loro una cultura e una scienza univ ersale, sia facendo ad essi praticare la più rigorosa disciplina dell'animo e delle passioni. Con questo egli otteneva anche lo scopo, eminentemente civile e umanitario, di migliorare via via sempre più facilmente e largamente i cittadini e gli uomini tutti, poiché ogni discepolo portava poi necessariamente fuori della scuola, nella sua vita domestica € pubblica, la moralità e la dot- trina in quella acquistata, diffondendola con la parola e con l'esempio tra i famigliari, i parenti, gli amici. E in conseguenza di ciò dovette compiersi a poco a poco un mutamento anche nel governo della città, per il fatto che i primi ad approfittare e a .far tesoro delle nuove dottrine essendo stati probabilmente gli ottimati, questi direttamente, se ne facevano parte, o indirettamente, se erano privati cittadini, dovettero portare nel governo un nuovo indirizzo razionale e una più rigorosa moralità. L' alleanza quindi fra il Pitagorismo e l'aristocrazia, come osserva ancora lo Zeller, fu non la ragione, ma l'effetto dell'indirizzo generale della scuola che chiamava a sé i migliori ; e se la tradizione ci rappresenta il Sodalizio co- me un' associazione politica, ciò è vero a patto che non vogliamo anche affermare che il suo indirizzo religioso, etico e scientifico sia stato una conseguenza della posi- ci) V. Eraclito pr. Dioc. Vili, 6; Erodoto IV, 95 — Zeller, D. PhiL d, Oriech. P p. 328. 191 zione che i pitagorici presero nel campo politico ; perchè invece fu proprio il contrario. Assai diversamente giudicò la natura della società pi- tagorica il Grote (1), che la disse di carattere religioso ed esclusivo, e ad un tempo attivo e spadroneggiante, poiché i suoi membri attivi avevano appunto 1' ufficio di influire nel governo e sul governo, mentre i contempla- tivi attendevano agli studi; proprio come nella organizza- zione dei Gesuiti coi quali, dice, i Pitagorici presentano una notevole somiglianza. Secondo lui insomma i seguaci del filosofo non furono che « un privato e scelto nucleo d'uomini, di fratelli^ che abbracciarono le fantasie reli- giose del Maestro, il suo canone etico, i suoi germi (? !) d' una idea scientifica e manifestarono la loro adesione con particolari osservanze e riti ». In tutto questo vi è appena qualche ombra di vero; 1' esagerazione ha tolto la mano all'autore. Il concetto religioso ci fu senza dubbio in Pitagora, esso costituiva anzi il pernio di tutto l' in- segnamento esoterico, e il punto di partenza della mera- vigliosa dottrina dei numeri che lo simboleggiava; ma non si trattò punto di fantasie più o meno strane e irrazio- nali ch'egli volesse dare ad ii\ tendere ai suoi seguaci, sì bene di quella stessa dottrina religiosa che in Egitto, in Oriente e in Grecia si insegnava nei Misteri e nelle scuole filosofiche, unica nella sua sostanza — benché diversa nelle forme e nei simboli esteriori — perché dovunque derivata dalla stessa tradizione, e, per quanto mistica, fondata tuttavia saldamente sopra una verace e controlla- bile esperienza. Il paragonare poi il sodalizio stesso alla (] ) Hist. of. Oreeee^ T. IV, p. 544; cfr. Ritter, Oeseh. d, Phi- los, I, p. 365 sgg. 192 setta gesuitica, è un errore, che dimostra in chi ha po- tuto fare simile raffronto ben poca penetrazione nello spi- rito che informava quell' antichissimo istituto ; è un giu- dicarlo dalle sole apparenze esteriori, un disconoscerne gì' intenti non settarii, ma plrofondamente umani, uno svi- sare infine l'opera di uno dei pili grandi pensatori e apo- stoli che r umanità abbia avuto. Più vicino al vero è il giudizio del Lenormant, in quan- to egli seppe vedere sotto le fo'^m^ della religione l' in- tendimento morale di Pitagora (1); ma ancora più giusto e compiuto, perchè rispondente a tutti i dati di fatto la- sciatici dalla tradizione, è quello che del Sodalizio diede uno storico italiano, il Centofanti, col definirlo una So- « ci età modello, la quale, se intendeva a migliorare le « condizioni della civiltà comune e aspirava ad occupare « una parte nobilissima e meritata nel governo della cosa « pubblica, coltivava ancora le scienze, aveva uno scopo « morale e religioso e promoveva ogni buona arte a per- « fezionamento del vivere secondo un' idea tanto larga « quanto è la virtualità delV umana natura » (2). Con lui si accordarono press' a poco lo Chaignet (3) e lo Zel- ler (4), per il quale la scuola si distingueva da tutte le associazioni analoghe « per il suo indirizzo morale » pog- giato su motivi religiosi or guidato da sani metodi d'edu- cazione e di istruzione scientifica. Il Duncker quindi scris- se con molta verità che Pitagora fu « non solo il Maestro « d' una nuova sapienza, ma altresì il predicatore di una (1) Op. Git. l, p. 83. (2) Studi sopra Pitagora, nel voi. La Letteratura greca (Fi- renze, Le Monnier), Opere^ p. 401 sg. (3) Pythagore et la philos. pythag. I, p. 98. (4) Die Philos. der Orieehen V" p. 328. — 193 ~ « nuova vita, il fondatore di un culto nuovo e il bandi- « tore d' una nuova fede » (1). Soltanto tale novità , va intesa come relativa ai luoghi e ai tempi ; poiché, come ho detto sopra, il fondo esoterico della dottrina aveva ori- gini assai remote. 4. — Se tale era dunque l' intento della Società pita- gorica, se al di sopra di ogni altra considerazione il grande di Samo pose quella di riformare interiormente gli uomini e con ciò di modificare anche — necessariamente — le condizioni esterne della vita individuale e sociale, se egli mirò a costituire una religione fondata sul sentimento in- teriore e non sulle pratiche esterne del culto, alle quali ben raramente ed in pochi corrisponde un'adeguata cono- scenza e persuasione, e che perciò acquistano un valore di mera superstizione e di vuoto formalismo dogmatico, era troppo naturale che la nuova istituzione dovesse su- scitare i timori degli elementi conservatori della società crotouese ed italiota, e sopra tutto le ire di quegli ari- stocratici ignoranti che ne erano stati esclusi per deficien- za intellettuale e morale, e dei sacerdoti che vedevano allontanarsi dalla religione tradizionale e quindi sfuggire al loro dominio tanta parte — la parte migliore — della gioventìi. E le calunnie che tutti costoro seppero sparge- re, dovevano purtroppo trovare, come sempre, facile cre- dulità nel volgo e pronto aiuto in tutti coloro che dalle nuove idee vedevano lesi o minacciati i loro interessi per- sonali; tanto pili che — come accade in ogni nuovo mo- vimento d'idee che tocchi e trasformi l'assetto politi- co e sociale, — delle incertezze, degli errori, delle de- (5) Qeseh. d, Alter. VI, p. 636. 13. — 194 — bolezze, della violenza partigiana di qualcuno fra gli adepti e fautori della Società avranno ben tosto cercato di trarre partito, mettendole in rilievo, gli avversari delle nuove dottrine. Ma di questo noTi è fatto ricordo da nessun au- tore. È fatto invoce espresso ricordo di un tal Cilene, aristocratico, che per la sua crassa ignoranza e per la sua inettitudine non potè essere ammesso a far parte del So- dalizio interno, e che « pien d' ira e di corruccio » co- minciò a brigare fra i malcontenti, a spargere voci calun- niose, a mettere in cattiva luce le cerimonie e 1' azione segreta della Società, continuando la lotta con quell'a- sprezza e quella tenacia che gli veniva dall'orgoglio gra- vemente offeso e dalla certezza di essere spalleggiato da molti. Egli in questo modo, favorito com' era anche dalla sua elevata condizione sociale e dalle idee democratiche, allora penetrate nella Magna Gi'ecia da cui seppe abil- mente trarre vantaggio, potò creare nel Consiglio Sovrano dei Mille una forte opposizione, che, allargandosi e diffon- dendosi fra il popolo, facilmente ingannato dalle apparen- ze esteriori sotto alle quali non vedeva altro che mistero, dette poi luogo ad una vera e propria sommossa contro il filosofo ed i suoi seguaci (500 a. C. circa). Così che, se il moto fu effettivamente moto di popolo contro il reggi- mento arivStocratico, l'ispirazione tuttavia venne dalla parte meno buona dell' aristocrazia e dal sacerdozio ufficiale (1). Un decreto di proscrizione bandì senz' altro Pitagora, die, dopo aver cercato invano ospitalità a Caulonia ed a Locri, fu accolto in Metaponto, dove morì non molto tempo do- po ; ed una fiera persecuzione fu iniziata contro i pitago- (1) V. in proposito ciò che dice con molta verità il Centofanti, op. cit. p. 4l6 sgg. — 195 — rici, parte uccisi e parte cacciati anch' essi in bando e profughi nelle terre vicine. La durata del Sodalizio fu dunque assai breve, di non pili che quarant' anni ; tuttavia 1' efficacia dell' insegna- mento pitagorico durò per lungo tempo attraverso i se- coli (1) e la sua fiamma non si spense mai, conservata religiosamente e religiosamente trasmessa di generazione in generazione dagli eletti a cui fu affidato via via il sa- cro deposito (2) ; cosicché il fondo delle dottrine esoteri- che si mantenne, e i tempi successivi in grande o in pic- cola parte poterono conoscerle. 5. — Nel sodalizio si distinguevano due classi di adepti; quella degli ammessi ad un grado di iniziazione (disce- poli genuini o famigliari) e quella dei novizi o semplici uditori (acustici o pitagoristi); ai primi, distinti alla loro volta in varie classi, forse in corrispondenza coi diversi gradi, (pitagorici, pitagorei, fisici, matematici, sebastici) e discepoli diretti del Maestro, era fatto l'insegnamento eso- terico segreto; gli altri potevano assistere solo alle le- ziorìi esoteriche, di contenuto esr^enzialmente morale (3), e (1) AmsTOTiLE ci fa sapere (Polii. V, lO) che \q sissitie italiche, anteriori a tutte le altre, duravano tuttavia nel suo secolo; certo per la congiunzione loro coi posteriori istituti pitagorici. V. Cen- TOFANTi, op. ni. p. 383 e cfr. Cognetti De Martiis, op. cit. p. 466. (2.) Il Pitagorismo appare nel mondo romano e noli' Italia me- dioevalo e moderna in tutti i periodi di risorgimento filosofico. La repubblica utopistica di Platone come quella del Campanella ripro- ducono molto da vicino l' ideale di vita che fu realmente praticato neir istituto Crotonese. !3; V. Clem. Stromat. V. 575 D ; Ippol. Eefut. I, 2, p. 8, 14 ; PoRF. 37 ; GiAMBL. 72, 80 sg., 87 sg.; Gell. I, 9, Cfr. anche Yil- LOisoN, Anecd. II, 216. - Secondo uno scrittore dal quale attinse 19t) non erano ammessi alla presenza di Pitagora, ma, come dice la tradizione, lo sentivano, talvolta, parlare da die- tro un velario che lo nascondeva ai loro occhi. Prima di ottenere l'ammissione non solo ai gradi d'i- niziazione, ma anche al noviziato, bisognava subire prove ed esami rigorosissimi, poiché, diceva Pitagora, « non ogni legno era adatto per farne un Mercurio »; anzitut- to, come ci narra Aulo Gelilo (1), un esame fisionomico che attestasse della buona disposizione morale e delle attitudini intellettuali del candidato (2); se questo esame era favorevole e se le informazioni procurate intorno alla moralità e vita anteriore erano soddisfacenti, egli era ammesso senz'altro e gli era prescritto un determinato periodo di silenzio (echemythia), che variava, secondo gli individui, dai due ai cinque anni, durante i quali non gli era lecito che di ascoltare ciò che era detto da altri, senza mai chiedere spiegazioni nò fare osservazioni. In questo come nel lungo meditare e nella piìi rigorosa e severa disciplina delle passioni e dei desideri praticata per mezzo di prove assai difficili, prese dall'iniziazione egiziana, consisteva il noviziato (parashevé). a cui erano Fozio (Cod. 349), gh adepti erano distinti in Sebastici, politici, matematici, Pitagorici, Pitagorei e pitagoristi ;. e lo stesso scrittore aggiunge che i discepoli diretti di Pitagora erano chiamati pitago- rici, i discepoli di questi pitagorei e i discepoh essoterici o novizi pitagoristi. Dal che il Roeth (II, pag. 455 sg., 756 sg., 823 sg., 966; b 104) deduce che i membri della piccola scuola pitagorica erano chiamati pitagorici e quelli della grande pitagorei ; ed a ra- gione, purché non si identifichino questi ultimi con i pitagoristi o discepoli essoterici, ma bensì si considerino come gh iniziati di pri- mo grado. (1) Noci. Att. I, 9. (2) OmaiNE fa Pitagora inventore della « fisionomica ». — 197 — sottoposti gli acustici. Costoro appena avevano imparato, col lungo tirocinio, le due cose piti difficili, cioè l'ascol- tare e il tacer e, erano ammessi fra i matematici (1) e allora soltanto potevano parlare e domandare, ed anche scrivere su ciò che avevano udito, esprimendo liberamen- te la loro opinione. Nel tempo stesso che imparavano ad accrescere la potenza delle loro facoltà psichiche, la loro sapienza si faceva a grado a grado più elevata e più va- sta, sino a giungere all'intelligenza deìV Essere assoluto, immanente neil' universo e nell' uomo : chi arrivava a questa che era la più alta cima della speculazione filo- sofica, e che segnava la fine di tutto l' insegnamento eso- terico, otteneva il titolo corrispondente a questa inizia- zione epoptica, cioè il titolo di perfetto (teleìos) e di ve nerahile (sehastikós) ; oppure chiamavasi per eccellenza nomo. L' obbligo essenziale che si imponeva agli adepti era quello del silenzio (2) e della segretezza verso gli altri, senza eccezione per parenti o per amici. Tanto che per- sino i già iniziati, se avessero lasciato trapelare qualche cosa agli estranei, erano espulsi come indegni di appar- tenere alla Società e considerati come morti dagli altri confratelli, che innalzavano ad essi nell' interno dell' isti- (Ij Così chiamati dalle discipline che professavano, cioè la geo- tnetria^ la gnomonica, la medicina^ la musica ed altre d' ordine superiore, per mezzo delle quali si elevavano alle più sublimi ed eccelse vette della scienza umana e divina. - Sulla medicina v. E- LiANO, Var. Hist. IX, 22. (2) V. Tauro pr. Gellio, L e; Diog. Vili, 10; Apul. Fior. II, 15; Clem. Strom. V, 580 A; Ippol. Refut. I, 2, p. 8, 14; Giamel. 71 sg., 94; cfr. 21 sg.; Filop. De an. D 5 b; Luciano, Vii. auct. 3; Plut, De curios. p. 309. — 198 — tuto un cenoiafio (1). È rimasta famosa e proverbiale quindi la fermezza con la quale i Pitagorici sapevano cu- stodire il segreto su tutto ciò che riguardava la scuola (2). Allo stesso modo era considerato come morto chi, pur avendo dato buone speranze di sé e della sua elevatezza spirituale, finiva col mostrarsi inferiore al concetto che aveva fatto nascere dalla sua capacità. Tali casi però, ò bene notarlo, dovettero essere assai rari, poiché la lun- ghezza del tempo di prova che precedeva il passaggio da un grado a un altro aveva appunto lo scopo di rendere impossibili o di limitare al minimo gl'inganni e le de- lusioni. L'essere stato accolto fra i novizi ed anche la ricevuta iniziazione non obbliga^^a per nulla alla vita cenobitica. Molti anzi, o per la loro condizione sociale o perchè non sapessero rinunziare interamente al mondo o per altre (1) A questo proposito sappiamo da Clemente (^S^row. V, 574 D), che riferisce una tradizione ben nota, come Ipparco, a causa ap- punto dell' avere fatto conoscere la dottrina segreta del Maestro con un suo famoso scritto in tre libri, del quale ci parlano anche Diogene Laerzio (VITI, lo) e Giamblico (199), fu cacciato dalla Scuola. Cfr. Oeigune, Cantra Celsurn III, p. 142 e II, p. 67 Can- tab,; GiAMBL. 17; Th. Canterus, Var. Leet. I, 2. (2) V. Plut. Numa^ 22; Aristocle p. Edseb. pr. ev. XI, 3, 1; PSEUDO Liside pr. GiAMBL. 75 sg. e Diog. VIII 42; Giambl. 226 sg., 246 sg. (ViLLOisoN, Aneed. II, p. 216); Porf. 58; un anonimo pr. Menagio in DioG. VIII, 50. Cfr. Platon., jS'p. II, 314, l'afferma- zione di Neante su Empedocle e Filolao, e il racconto dello stesso scrittore e di Ippoboto (pr. Giambl. 189 sg.) secondo il quale Myl- lia e Timycha sopportarono i più crudeli tormenti e 1' ultima si tagliò la lingua, piuttosto che rivelare a Dionigi il vecchio la ra- gione dell'astinenza dallo fave. Così Timeo (pr. Diog. Vili, 54) af- ferma che Empedocle e Platone furono esclusi dall' insegnamento pitagorico, perchè accusati di « logoklopia ». - 199 — ragioni, continuavano la loro vita ordinaria, che natural- mente informavano ai principii morali e alle conoscenze acquisite, diffondendo così con la pratica e con la parola il bene a cui l'insegnamento appunto mirava. Erano questi i membri attivi^ di cui ci parlano alcune testimo- nianze; gli altri invece, gli speculativi^ vivevano sempre nell'Istituto, dove, in perfetto accordo con tutte le altre pratiche e leggi dell'Istituto stesso, le quali miravano so- pratutto a far scomparire ogni forma di egoismo e di orgoglio individuale, era praticata un'assoluta comunione di beni. E non è poi così strano da doversene negare la verità (1), che uomini dati a speculazioni filosofiche e re- ligiose e a pratiche morali, e che vivevano insieme' per uno scopo unico, mettessero in comune i loro beni, per il vantaggio dell'insegnamento e per la diffusione delle loro idee. Che cosa poteva trattenere i discepoli interni^ non legati più dai vincoli del mondo, da questa comu- nione di beni ? E quanto agli esterni, non è naturale pensare che, per la virtù della fratellanza e dell'amore acquistata nel comune insegnamento, ciascuno mettesse spontaneamente tutte le sue sostanze, anzi tutto se me- (1) Secondo lo Zeller lo testimonianze di Epicuro (o Diocle) pr. Diog. X, Il e di TiMKO di Taurom. ibid.^ Vili, 10) che fu anche, secondo Fozio (Lex. y. v. Koinà) introdurre da Pitagora la comu- nità dei beni fra gli abitanti della Magna Grecia sono troppo re- centi. Ma cfr. anche gli Schol. in Fiat. Phaedr. p. 312 Bekk., e le testimonianze che troviamo in Dioo. VILI, IO; Gell. I, 9; Ippol. Refut. I, 2 p. 12; Porf. 20; Giamrl. 30, 72, 168, 257 ecc. — Il Krische {l. e. p. 27) crede che fonte di questa tradizione sia stata una falsa (?) interpretazione della nota massima « le cose degli amici sono comuni »; il che mi pare ben poco fondato, se si pensi che non è neppur corto che questa massima appartenesse in modo particolare ai pitagorici (Aristot. FAh. Nic. IX, 8, 1168 b 0). - 200 — desimo a disposizione dei suoi confratelli ? (1). Ed infatti noi sappiamo che i Pitagorici usavano particolari segni di riconoscimento (2) ~ come il pentagono (3) e lo gno- mone (4), incisi sulle loro tessere, e la forma caratteri- stica del saluto (5) — dei quali dovevano servirsi sia per conoscersi ed aiutarsi subito a vicenda nei loro bisogni sia per essere accolti, fuori di Crotone, dagli adepti di altre scuole consimili, numerose così nella Magna Grecia come nella Grecia e nell'Oriente (6). La vita che si conduceva nell' istituto da quei disce- poli che vi rimanevano in permanenza ci e sufficiente- mente nota per le narrazioni dei neo-pitagorici e per le notizie sparse qua e là nelle opere dei più antichi autori. Tutto era ordinato con norme precise che nessuno tra- sgrediva mai (7); il che si intende facilmente, se si pen- si che ognuna di esse aveva la sua giustificazione razio- nale e che, salvo alcune rigorosamente prescritte, erano (1) V. DioD. Siculo Exeerpt. Val. Wess. p. 554; Diog. Vili, 21. (2) GiAMBL. 238. ^3) V. gU Sckol, alle Nuvole di Aristofane 611, I, 249 Dind. (4) Krische l. e. p. 44. (5) Luciano, De Salut.^ e. 5. (6) Per questo, e forse per altre analogie (come quella delle a- dunanze notturne di cui ci parla Diog. VIII, 15) si è paragonato da alcuno l' Istituto pitagorico con altre società segrete dei nostri tempi. V. su questo proposito un cenno fuggevole nel Dici, de biogr. génér.^ Firmin-Didot, Paris, 1862, t. 41, col. 243-244: « Les souvenirs de collège formaient sans doute pour les pythagoriciens ce lien sacre qu' on a depuis voulu assimiler à je ne sais quelle société de Roseeroix ou de Francs-ma^ons ». (7) PoBF. 20, 22 sg. che cita Nicomaco e Diogene (autore d' un libro sui prodigi); Giambl. 68 sg., 96 sg., 165, 256. — 201 — date più in forma di redola o di consiglio, che di vero e proprio comando (1). Di buon mattino, dopo Ja levata del sole, i cenobiti si alzavano e passeggiavano per luoghi tranquilli e silen- ziosi, fra templi e boschetti, senza parlare ad alcuno pri- ma di avere ben disposto il loro animo con la medita- zione ed il raccoglimento. Poi si adunavano nei templi in luoghi simili, ad imparare e ad insegnare — poi- ché ciascuno era e maestro e discepolo (2) — e pratica- vano continuamente particolari esercizi per acquistare la padronanza delle passioni e il dominio dei sensi, svilup- pando in modo speciale la volontà e la memoria e le fa- coltà superiori e più riposte dello spirito. Non si trat- tava peraltro né di mortificazione della carne e rinun- zia forzata ed obbligatoria ai piaceri normali delia vita, ne di altre simili aberrazioni fratesche e conventuali: Pi- tagora voleva soltanto che ognuno si mettesse in grado di assoggettare il corpo allo spirito, per modo che que- sto fosse libero nelle sue operazioni e nel suo svolgi- mento interiore : ma il corpo doveva essere mantenuto sano e bello, perchè in esso lo spirito avesse uno stru- mento perfetto quant' er : possibile : onde gli esercizi gin- nastici d' ogni genere fatti ali' aria aperta, e le prescri- zioni minuziose intorno all' igiene e specialmente ai cibi e alle bevande. In generale i pasti erano assai parchi, (1) Il rispetto alia libertà individuale era una delle caratteristi- che, e forse la più bella del metodo pedagogico pitagoreo. V. su tale metodo F. Cramek, Pythag. quomodo educaverit atque insti- siuerit (1833). (2) Anche questa era una sapiente e razionale disposizione, abi- tuando i discepoli alla virtù attiva. — 202 — ridotti al puro necessario, eJiminaudo tutto ciò che potes- se offuscare la serena funzione dello spirito ed aggravare inutiluiente lo stomaco. Pane e miele al mattino, erbe cotte e crude, poca carne e solo di determinate qualità ed animali, raramente il pesce e pochissimo vino la sera durantB il secondo pasto (1), il quale doveva essere ter- minato prima del tramonto, ed era preceduto da passeg- giate, non pili solitarie, ma a gruppi di due o tre, ■ e dal bagno. Terminato il pranzo, i commensali, riuniti intorno alle tavole in numero di dieci o meno, si trattenevano a discorrere piacevolmente, a leggere ciò che il più anzia- no prescriveva, di poesia e di prosa, e ad ascoltare della buona musica che disponeva gli animi alla gioia e ad una dolce armonia interiore. Poiché « la musica, onde tutte le parti del corpo sono composte a costante unità di vigore, è anche un metodo' d'igiene intellettuale e mo- rale, e però compieva i suoi effetti nell'anima perfetta- I (1) La tradizione più diffusa ci parla di assoIui;a astinenza dalle carni, dal vino e dalle fave. Pitagora forse era un puro vegetaria- no, come ci attestano Eunosso pr, Porf. 7 ed Onesicreto (sec. IV a. C.) pr. Strab. XV. 1, 65 p. 716 Gas. Ma non possiamo affer- mare che tale dieta fosse assolutamente obbhgatoria per tutti : al- trimenti non potremmo spiegarci come mai alcune testimonianze parlino di certe qualità di carne rigorosamente proibite. Probabil- mente P astinenza dalle carni e dal vino ( quella delle fave pare fosse prescritta nel modo più formale e categorico) fu un semplice uso, derivante dal. bisogno o dal desiderio di manteaer sempre sve- glio lo spirito e di rendere meno tirannico — pur conservandolo sano — il corpo e meno forti le sue esigenze. La dottrina della trasmigrazione delle anime non entrava per nulla in tale divieto ; poiché essa aveva un significato e un valore assai diverso da quel- lo normalmente attribuitole, secondo la comune credenza della sua derivazione dall' Egitto. — 203 — mente disciplinata di ciascun pitagorico » (1). Non man- cavano iiifìno, durante la giornata, alcune semplici ceri- monie religiose, piii precisamente simboliche, che servi- vano a mantenere sempre vivo e presente in ognuno il culto ed il rispetto di quell'Essenza da cui emanava e a cui doveva tornare — secondo la dottrina mistica del Maestro — il principio animico e sostanziale di ciascun individuo umano. Altre testimonianze ci parlano di astensione dalla cac- cia, dell'uso di vesti bianche !2) e di capelli lunghi (3). Quanto slìV obblUjo del celibato di cui parla lo Zeller, non solo non ò dato da alcuna testimonianza (4), ma è contrario anzi a quelle molte che ci parlano di Teano, moglie di Pitagora, dalla quale questi avrebbe avuto piìi figli (5) ed alle altre ove sono determinate le norme ri- (1) Cento FANTI, op. cit. p. 390. i2) GiAMBL. 100, 149 che desunse forse la notizia da Nicomaco cfr. RoHDE, Rh, Mas. XXVI, 3 5 sg., 47). Aristosseno, da cui è forse presa — mediatamente — la notizia contenuta nel § lOO, non parlava che dei Pitagorici del suo teuipo. V. Apul. De Magia e 56; Filostb. Apollo??.. I, 32, 2; Elian(., V. (Iht. XTI. 32. (3) FlLOSTR. l. C. (4) Egli cita veramente Clem. Strom. IH, 435 C. e Diog. Vili, 19 ; ma nel primo di questi luoghi è detto solo . che da alcuni si affermava i^he i Pitagorci « si tenevano lontani dall'amore carna- le »; ciò che non significa punto che l'amore stesso fosse loro proibito : anche qui probabilmente si trattava di una semplice pra- tica liberamente voluta dai più degli adepti. Nel secondo luogo ci- tato è detto semplicemente che Pitagora « non si seppe mai che si abbandonasse a pratiche sessuali » . (5) Ermesianatte pr. Ateneo XllI, 599 a; Diog. Vili, 42; Porf. 19 ; GiAMBL. 132, 146, 265; Clem. Paedag. Il, e. 0, p. 204; Strom. I, 309, IV, 522 D.; Plut. Coniug. praec. 31, p. 142 ; Stob. Eel. I, 302; Fiorii. 74, 32, 53, 55; Fiorii. Monac. 268-270 (Stob. Fior. ed. Mein. IV, 289 sg.); Teodoreto, Semi. 12. — 204 — guardo al tempo più opportuno per dedicarsi all'amore (1); e contrario poi — ciò che è piìi importante — allo spirito della dottrina del filosofo, per il quale la famiglia era sa- cra, e i doveri ad essa inerenti erano indicati con molta precisione ed accuratezza, massime nell'insegnamento fatto alle donne. Anche il celibato insomma non dovette essere che una pratica dei piìi ferventi discepoli, i quali, dediti interamente alle speculazioni filosofiche ed agli studi, cre- dettero forse di trovare nei vincoli di famiglia un osta- colo alla libertà dei loro studi e delle loro meditazioni. 6. — Queste, in breve le notizie che ci restano della storia esterna dell' Istituto e del suo ordinamento interno. Per quello che riguarda in particolare l'insegnamento, ab- biamo dunque veduto che esso era duplice e che per essere ammessi a quello chiuso o segreto era necessario aver dimostrato, con lunghi anni di prova, di esserne de- gni e di avere tutte le attitudini necessarie a riceverlo. Chi non dava tali garanzie poteva usufruire soltanto del- l' insegnamento esoterico o comune, privo di ogni sim- bolismo e alla portata di tutti, di carattere essenzialmente morale. Abbiamo anche accennato che i discepoli esote- rici erano iniziati gradatamente a forme sempre piìi ele- vate di conoscenze — teoriche e pratiche — , nascoste sotto il velo di particolari formule simboliche, facili da ricordare e schematiche, le quali avevano il vantaggio che, conosciute dai profani, non rivelavano per nulla il loro senso riposto e metaforico (2). Con ciò si voleva evi- I (1) DioG. vili, 9. (2) L' Arte Mnemonica di Eaimondo Lullo (sec. XIII-XIV), uno dei precursori del Beuno e maestro di Gioacchino da. Fiore, di Cor- — 205 — tare il pericolo che conoscenze d'ordine superiore fossero date in balia a menti inette a comprenderle, le quali, appunto per questo, le divulgassero poi con restrizioni, limitazioni e imperfezioni derivanti dalla loro intelligenza inadeguata e così nascesse il discredito e il ridicolo sulle dottrine fondamentali e su tutto l'insegnamento. Il cri- terio usato neir impartirle era dunque che « non si do- vesse dir tutto a tutti » e tale criterio — aristocratico nel senso più ampio e più bello della parola — del pro- porzionare le conoscenze alla capacità individuale, non può certo reputarsi illogico o segno di vana superbia e di orgoglio intellettuale : anzitutto ò accaduto in ogni tempo che dottrine intrinsecamente buone abbiano via via perduto, col troppo diffondersi, gran parte della loro per- fezione primitiva ed abbiano finito o con V andare sog- gette ad ogni sorta di travestimenti e di inquinamenti od anche col perdere affatto il loro contenuto sostanziale, pur conservando le manifestazioni esterne e i segni for- mali di esso ; in secondo luogo non essendo mai chiesto all'individuo più di quello che le sue facoltà naturali e le sue conoscenze effettive potessero comportare, e lo svol- gimento delle facoltà stesse procedendo secondo quella progressione che la natura pone nell' esplicarle e secondo i gradi della superiorità loro nell' ordinata ed armonica conformazione della persona umana, non veniva ad esse- re turbato in nessun momento quell' equilibrio, nel quale sì conteniperano in armonia perfetta le varie attitudini di ciascuno, e ne nasceva per l' individuo stesso una pace indisturbata e una fiducia in se medesimo, che non dava NELio Agrippa, del Paracelso ecc., ebbe lo stesso carattere di una. simbolica universale, intelligibile ai soli iniziaci. — 206 — mai luogo allo scoraggiamento e allo sconforto. Tutta la vita era quindi sottoposta alla legge d'un' educazione si- stematica e c(mtiuua, e delle attitudini individuali face- vano uno studio diligente, coscienzioso ed incessante quelli che erano piti in alto nell' ascesa verso la perfezione. Nei rapporti degli adepti fra loro e con gli altri uomi- ni era legge suprema l' amore, e questo infatti regnava sovrano tra quelle anime, avide soltanto di ben© e desi- derose di attuare quant' ò possibile in questa vita quel- l'ideale di giustizia che è, attraverso i secoli, la perenne aspirazione di tutti i buoni. Nella scuola e nell' insegna- mento invece era il principio autoritario che prevaleva ; principio razionale e giusto quando corrisponda a una vera gradazione di merito e di valore individuale, e per nulla insopportabile, quando l'insegnamento sia animato vivificato dall' amore reciproco fra discepoli e maestri, e quelli abbiano in questi fiducia e stima illimitata. Chi si avvia per la stiada del sapere e vuole arrivare all'ac- quisto di un qualsiasi sistema di conoscenze ha sempre nozione imperfetta e inadeguata delle verità che impara, finche non sia giunto a comprenderne per intero l'ordine necessario ; e le verità stesse, imparate che siano, non sono mai sufficienti a costituire il sapere, se non vi si unisca l'esperienza positiva della loro realtà. Ma poiché non tutte le nozioni, come si è già detto, potevano es- sere intese da tutti pienamente e ciò non di meno era necessaria la loro conoscenza, anteriore a quella delle lo- ro ragioni intrinseche ed ideali, non era possibile l'inse- gnamento di esse senza il principio d'autorità. E d'altro lato, non potendo questa medesima autorità essere tolle- rata a lungo dai discepoli, se alla simpatia non si fosse accompagnata anche la persuasione, nata dal riconosci- 207 mento sperimentale di altre verità prima soltanto apprese, era giustissimo il priocipio di coordinare l'insegnamento teorico ed il pratico. Oud' è che gli adepti accettavano volentieri e senza discutere le dottrine che gli iniziati superiori insegnavano in forma di precetti brevi, sempli- ci, facili, simbolici, sìa perchè erano rafforzate dall'auto- rità suprema del Maestro da cui derivavano, sia perchè gradatamente era anche insegnato a ciascuno il metodo per verificarle praticamente da se medesimo. Uipse dixit era pertanto, come dice benissimo il Centofanti (1), « la parola dell'autorità razionale verso la classe non ancora condizionata alla visione delle verità più alte e non par- tecipante al sacramento della Società », mentre poi il vedere in ?>7/r> Pitagora «valeva appunto la meritata ini- ziazione all'arcano della Società e della scienza ». 7. — Resterebbe ora da dire in che cosa consisteva l'insegnamento impartito con un metodo così rigoroso e prudente, quale era la nuova parola che Pitagora portò fra quelle popolazioni, così piena di fascino da persuadere tante nobili intelligenze ed ammaliare tanti cuori, e a quale spirito era informato un. sistema educativo, che non solo sui giovani, ma anche sugli uomini aveva tanto po- tere da trasformarne la natura morale e tutta la costitu- zione psichica. Ma poiché questa esposizione della dottri- na pitagorica è già stata fatta da molti (2), basti qui il dire che eèsa, riprendendo ed ampliando il pensiero reli- (1) Op. cit. p 405. (2) Puoi vederla esposta assai bone nei citati lavori del Cento- fanti e dello ScHURÈ ; per quanto a quost' ultimo manchi in parte il necessario corredo di prove e di testimonianze. — 208 — gioso che la tradizioDe leggendaria personificò in Orfeo, coordinava le ispirazioni orfiche in un sistema vasto e compiuto, e che, essendo fondata su un sapere sperimen- tale e accompagnata da un ordinamento razionale di tutta la vita, mirava a perfezionare gli individui, non solo con l'approfondirne e l'estenderne le conoscenze teoriche, ma anche essenzialmente con l'accrescerne a grado a grado la ricchezza delle forze interiori, per lo sviluppo — ot- tenuto con lunghe e pazienti pratiche (1) — delle facoltà latenti del riposto ego divino, principio sostanziale di ogni attività dell* uomo. (1) Erano pratiche magiche che si usavano del resto in tutte le scuole mistiche e che non eccedevano, se non apparentemente e solo per i profani, i limiti della natura ; e chi abbia una cono- scenza anche superficiale di questi studi sa bene che la magia non era altro che un'arte, che si acquistava con cognizioni ed esercizi particolari e s.egreti. Per le testimonianze sull' uso di queste pra- tiche V. Plut. Numa 8, Apul. De Magia 3l ; Porf. 23 sgg., 34 sg.; GiAMBL. 36, 60 sgg., 142, dove sì parla di « antichi scrittori degni di fede ». Cfr. anche Ippol. Refut. I, 2, p. 10 , Euseb. pr. ev. X, 3, 4 ; Aristot. p. Eliano II, 26 e lY, 17 ecc. NDICE DEL VOLUME 'ag VII » 1 » 5 » 21 Prefazione ........ Introduzione Capitolo peimo : Inizii leggendarii e storici . » secondo : Quinto Ennio e i suoi tempi . ■» TERZO : Sette e scuole pitagoriciie in Rojna nel I secolo a. C >> 45 » QUARTO : Pitagora e le sue dottrine negli scrit- tori latini del primo secolo a. C. . . » 69 I. — Lucrezio e il poema « Delia Natura », » ivi II. — . Frammenti della dottrina di Pitagora de- sunti dalle opere di M. Terenzio Varrone . » 91 III. — Appio Claudio Pulcro — Cicerone e il « Somnium Scipionis » .... » 107 IV. — Mimi — Q. Orazio Fiacco — P. Virgilio Marone ........ 123 V. — Pitagora e le sue dottrine nella poesia di Ovidio , » 149 Appendici I. — Eitphorhos . . . . . . • . . » 163 II. — Il Sodalizio pitagorico di Crotone ...» 181 ERRATA-CORRIGE tg. 6 rigs i 2 pytagoreum pythagoreum » 8 » ultima Turis Turio -> 15 » !3 fatto fatta » 16 > 14 persino e persino » 26 » 27 permaneant permanont » 34 * 34 stituiti istituti » 40 » 16-21 Queste 6 righe sono rimaste inter nel testo, mentre andavano in i pie di pagina • » 44 » 6 ist isti » 47 » 10 per fra » 53 » 15 intellegibili intelligibili » » » ultima Geory. Georg. » 61 » 19 ferun ferunt » » » 22 prae vista praevisa » 63 » 26 aequo aeque » » » 27 ilUis illis » 65 » 18 maior maiore » 66 9 32 Mullach V. Mullach (v. » » » ultima Leipzg Leipzig » 67 » 3? « (Centra ( « Centra •» 70 » 7 a poco a poco a poco » 72 » 3 senza altro senz'altro B Gianola, Alberto 21^ La fort-una de Pitagora G5 presso i Romani dalle origini fino al tempo di Augusto
Monday, May 16, 2022
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