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Is Grice the greatest philosopher that ever lived?

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Sunday, May 15, 2022

 Grice e Carbonara


Queste conferenze, tenute nel 1804-05, si direbbero quasi altrettanti  aifreschi di filosofia della storia, di cui lo Herder aveva dato il mo.          X    sino ai Discorsi alla, nazione tedesca (*), attraverso la serie  di opuscoli politici intermedi ( 2 ), hanno potuto giustamente  apparire come la radice del pangermanismo, non ne segue  perciò che il Pielite stesso fosse un pangermanista. u Come !  esclama il Basoh ( 3 ), pangermanista quel Fichte che parla  nel 1807-08 a Berlino, ancora occupata dai francesi, dinanzi  a spie francesi, dopo Auerstftdt e Iena, dopo Eylau e Fried  iand, dopo quel trattato di Tilsit di cui sappiamo le stipu¬  lazioni draconiane ! Chi non vede che appunto perchè il  suo popolo era asservito, umiliato, esposto a essere can¬  cellato dalla carta d Europa con un tratto di penna del-  l’onnipossente imperatore francese, e appunto perchè la  Germania era stata spezzettata, la Prussia smembrata, egli  ha, per legittima reazione e con sflflrzo ammirevole, esaltato,  idealizzato, divinizzato quel popolo, opponendo alla realtà  la visione magnifica di un avvenire che a lui stesso appa¬  riva problematico ? Le Reden sono un’ utopia ; un’ utopia  cento volte quel Germano autoctono, quel Mut ter land ,  quella lingua madre ; e il Fichte lo sapeva bene e 1’ ha    dello, e in cui il Ciclite, con una miscela di nazionalismo mistico o di  cosmopolitismo umanitario, tratteggia a grandi periodi l’evoluzione dei  genere umano dalle sue più lontane origini sino ai suoi più remoti  destini futuri, passaudo attraverso le cinque età: ni dell’ innocenze o  ragiono istintiva, b) dell’ autorità o ragione coercitiva, c) del peccato o  ribellione contro la ragione sia istintiva sia coercitiva, d) della giu¬  stizia o arte della ragione, e) della santità o scienza della ragione.   (') Reden an die deutsche Nailon ( Summit. Werke, VII).   (-) Segnaliamo, tra gli altri, i Discorsi ai combattenti tedeschi al-  1 inizio della campagna del 1806 (Reden an die deutschen Kricgev zu  All funge des Feldzuges) (Stillanti. 11 erke t VII) e i dialoghi patriottici  dell’anno 1807, Il patriottismo e il suo contrario (Dei- Patriotismus  und sein Gegentheil), (Sananti. Werke, XI, Nacliyel. Werke, III).   ( 3 1 V. art. cit., pp. 783-784.      det-.fo egli st.esso. Questa lingua, questo popolo egli li póneva  non come già esistenti, ma come qualcosa che bisognava  creare, se si voleva salvare la nazione tedesca dalla rovina  totale e impedire che fosse radiata dal numero dei popoli  \ilidipendenti. Questa lingua e questo popolo non erano una  Veallà, ma un ideale, o meglio un imperativo „ ('). Del  lèsto non abbiamo avuto anche noi, nella nostra letteratura,  un (fenomeno analogo ai Discorsi alia nazione tedesca, in  <\\i<\Primato morale e virile degli italiani , in cui, inver¬  tendo, il puuto di vista fichtiano, il Gioberti costruiva una  filosofa della storia non meno utopistica, ma che pur tanti  petti sdpsse, taute anime accese negli anni più belli del  nostro riscatto (*) ? Che se poi il libro eloquente ed essen¬  zialmente. opera di fede del Fichte sia inteso non alla let¬  tera ma nel suo profondo significalo filosofico, spogliato  dei suoi particolari riferimenti spaziali e temporali e con¬  siderato sub specie aeternitatis , allora non solo oltrepassa  il valore di ubo scritto d’occasione, ma si eleva all’altezza  di un’ opera sublime, perennemente suggestiva di nobili  pensieri e di eroiche azioni. L’ autore, sempre ispirandosi  a quel suo idealismo immanente, che egli contrappone a    (') Li il leit-motiv proprio di tutta la filosofia fichtiana porre il  “ dover essere ossia 1' “ idealo „, come condizione creatrice e ragione  sufficiente e spiegazione finale dell’ u essere ossia del “ reale „. Se  il Kant potè dirsi il Coporuico dolla filosofia, in quanto trasferì il  punto di vista del problema filosofico dall' oggetto al soggetto, dal¬  l'essere al conoscere, il Fichte può dirsi anch’egli il Copernico della  filosofia, in quanto spostò di nuovo quel punto di vista dal conoscere  al fare, dall’essere al dover-esserc : la vera realtà, il vero assoluto  sta per lui nell’ideale, nel dovere.   ( ! ) V., in Rivista di Filosofa (ott.-dec. 1915 ), A. Faggi, Il “ Pri¬  mato „ del Gioberti e i “ Discorsi alla nazione tedesca „ del Fichte.     qualsivoglia dogmatismo, specialmente se materialistico,  sostiene in sostanza che non c’è possibilità di filosofia  e di poesia, di religione e di educazione, di libertà e di  progresso, se non là dove lo spirito crei o trovi in sè, e in  nessun modo attinga dal di fuori, il principio propulsore e  direttivo di tutta l’esistenza (*). Questo idealismo immanent/  egli chiama filosofia tedesca, ossia viva, di fronte a qualsiasi  filosofia straniera, ossia morta. E che intende egli , per  tedesco ? /    (*) Non occorre ricordare che secondo il Fichte vi sono dué sistemi  filosofici rigorosamente conseguenti, ciascuno dal suo punto/di vista:  a) il dogmatismo, b) l’ idealismo. Ul^cio della filosofia è spiegare l’espe¬  rienza, la quale è costituita dalle rappresentazioni delle Còse. Ora si  può a) o far derivare la rappresentazione dalle cose, come fa il dogma¬  tismo, b) o far derivare la cosa dalla rappresentazione, cóme fa l’idea¬  lismo. Lo scegliere l’una piuttosto che l’altra delle dué vie possibili  dipende dal carattere individuale. Un sistema filosofico — bastereb¬  bero queste parole a mostrare quanta fede pratica, quanta iniziativa per¬  sonale ed energia spirituale il Fichte mettesse nella sua filosofia e  quanta ne esigesse da chi questa filosofia voglia comprendere — non è  uno strumento inanimato che si possa a piacimento possedere o alie¬  nare : esso scaturisce dal più profondo dell’anima umana: “ Iras far  eine Philosophie man wàihle, hangt... davon ab, was man far ein Mensch  ist: demi ein philosophisclies System ist nicht ein todter Hausrath , dea  man ablegen oder abnehmen honnte, irte es mis beliebte, sonderà es  ist beseelt durch die Seele des Menschen, der es ìiat. „ (Erste Ein lei-  tung in die Wissensehaftsle'ire , Scimmtl. IVerke, I, p. 434). La scelta  sarà diversa secondo che prevarrà in noi il sentimento dell’indipen¬  denza e dell’attività o il sentimento della dipendenza e della passi¬  vità; un carattere flaccido per natura, ovvero rilassato e incurvato  dalla schiavitù dello spirito, dal lusso raffinato o dalla vanità, non  s’innalzerà mai all’idealismo: 11 ein von Notar schiaffar oder durch  Geistesknechtschaft gelehrten Luxus and Eitelkeit erschla/fler und  gekrùmmler Chardhter toird sich nie zum Idealismus erheben. „ (ibid.).  E ciò, indipendentemente dalle ragioni teoretiche che anch’esse dànno  un’incontestabile superiorità di filosofia esaurientemente persuasiva  all’idealismo di fronte all’in9ufficiente e assurdo dogmatismo.     XIII    Nel settimo discorso, in cui si approfondisce il .con- '  cotto àe]Y originarie là, e germanicità di un popolo (‘) l’au¬  tore stesso ha cura di far rilevar^ u con chiarezza per¬  fetta „ ciò che in tutto il suo libro ha intesò per tedesco  (was uoir in unsrer bishcrigen Schilderung unter Deut-  schen verstanden haben). “ Il vero e proprio punto di di¬  visione — egli scrive — sta in questo: o si crede che nel¬  l’uomo ci sia qualcosa di assolutamente primo e originario,  si crede nella libertà, nell’infinito miglioramento e nell’e¬  terno progresso della nostra specie, oppure si nega tutto  ciò e si crede di vedere e comprendere chiaramente che è  vero tutto il contrario. Coloro che vivono creando e pro¬  ducendo il nuovo, coloro che, se non hanno questa sorte,  almeno abbandonano decisamente quel che non ha valore  (,das Nichtige) e vivono aspettando che da qualche parte  la corrente della vita originaria venga a rapirli con sè,  coloro che, non essendo neppure tanto avanti, almeno pre¬  sentono la verità, e non l’odiano o non la paventano, ma  l’amano: tutti costoro sono uomini originari e, considerati  come popolo, sono un popolo vergine ( Urvolk), sono il  popolo per eccellenza, sono tedeschi. Coloro, invece, che si  rassegnano a essere un che di secondo e derivato e chia¬  ramente concepiscono e riconoscono sè stessi come tali,  tali sono in realtà, e sempre più tali divengono in forza  di questa loro credenza; essi sono un’appendice della vita  che una volta prima di loro o accanto a loro viveva per  impulso proprio, essi sono l’eco che la roccia rimanda di    (■) S’intitola: Noch tiefere Erfassung der Ursprunglichkeit utid  Deutscheit eines Volkes (Sammtl. Werke, VII, pp. 359-377), (nella trad.  ita!. Burich, Palermo, Sandron, 1915, pp. 125-147).         — XIV    una voce già spenta, e, considerati come popolo, non sono  un popolo vergine, anzi di fronte a questo sono stranieri  ed estranei (Fremete und Andando-) „ (»). Ecco, dunque,  che cosa significa: tedesco! non già il tedesco considerato  Ine et nune, ma il simbolo di un tipo ideale, onde il Fichte,  continuando, aggiunge: u Chiunque crede nella spiritualità,  nella libertà e nel progresso di questa spiritualità mediante  la libertà, egli, dovunque sia nalo, qualunque lingua parli  (wo es auch geboren seg und in welcher Sprache cs reile)  e dei nostri, appartiene a noi, ci seguirà; chiunque, invece,  crede nella stasi generale, nella decadenza, nel ricorso circo¬  lare e pone a governo del mondo una natura morta, egli,  dovunque sia nato, qualunque^lingua parli, è non-tedesco  (undeutscll), è per noi uno straniero, ed è desiderabile che  quanto prima si stacchi completamente da noi „ ( 2 ). I Di¬  scorsi alla nazione tedesca, dunque, soltanto occasional¬  mente si rivolgono al popolo germanico, mentre nella loro  profonda verità si rivolgono a tutti i popoli moderni, a  tutti gli uomini che hanno fede nella libera spiritualità,  di qualunque paese essi siano, additando a ciascuno la via  sulla quale si può servire alla propria patria particolare  e insieme alla gran patria comune, si può essere a un  tempo nazionalista e cosmopolita, perchè gl’ interessi su¬  premi ed essenziali dell’umanità sono sempre e dovunque  gli stessi.   Ma a dimostrare in modo* 1 definitivo quanto l’autore  dei Discorsi sia alieno dal cosidetto pangermanismo sta il   (■) Reden an die deutsche Nalioti (Stimmll. Werke, VII, p, 874),  (nella trad. ital., pp. 143-144).   (’) Ibid. p. 375, (nella trad. ital., pp. 144-145); il nerette delle  parole " dovunque sia nato ecc. „ è nostro. .      XV    discorso decimoterzo, donde trae maggior luce il significato  di tutti gli altri. Si direbbe che i pangermanisti, ai quali  piace farsi forti dell’auLorità del uostro filosofo, si siano di  proposito arrestati dinanzi a questa sua arringa, che pure è  il punto culminante verso cui tendono le rimanenti e che  può dirsi un vero catechismo antimperialistico. Tutto ciò  che all’imperialismo della Germania odierna sembra l’ideale  che essa sarebbe chiamata ad attuare: il possesso di colonie,  l’esclusiva libertà dei mari, il commercio e l’industria mon¬  diali, le guerre di aggressione e ili conquista, la barbarie  scientificamente organizzata, le vessazioni sui paesi invasi,  la visione di una monarchia universale, l’egemonia assoluta,  vi ò rappresentato come odioso e insensato (‘).   Ammettiamo pure che il Fichte abbia combattuto questa  criminosa megalomania perchè essa nel 180G s’incarnava  sotto i suoi occhi nella Francia napoleonica; non è men vero,  però, che l’ideale opposto, a lui caro, rispondeva in modo re¬  ciso a tutta una concezione politica che fa di lui il figlio e  il rappresentante più genuino della rivoluzione francese. La  sua vita, i suoi scritti di filosofia pratica e di filosofia della  storia nte sono prova ampia, piena, sicura, e se anche su¬  birono modificazioni, queste riguardano non il suo pen¬  siero e i suoi sentimenti, i quali in fondo rimasero sempre  gli stessi, ma le mutate circostanze esteriori, il mutato  aspetto della Francia, divenuta, da repubblicana e libera¬  trice, imperialistica e liberticida. Nato popolo — figlio di  un povero tessitore, infatti, comincia la vita avviandosi al  mestiere paterno e guardando le oche — , egli sempre po-    (*) Kedeii ecc. (Sàmmll. I Verke, VII, pp. 459-480), nella irad. ital.,  pp. 256-280).     XVI    polo è rimasto nel più profondo dell’anima, per quanto  ricca e forte sia divenuta poi la sua coltura, a qualunque  sommità della scienza, dell’eloquenza e della gloria siasi  inalzato il sùo genio. Già sin dagl’ inizi della sua fama si  rivela un democratico ardente, giacobino quasi, irrecouci-  1 iabile avversario di ogni pregiudizio religioso, politico e  nazionalistico. Subito dopo la sua Rivendicazione delia li-  berlà di pensiero dai principi d'Europa die /ino allora  l'acecano oppressa (1793) (‘), egli, nei suoi Contributi alla  rettifica dei giudizi del pubblico sulla rivoluzione fran¬  cese (1793) (*), plaude ai principi dell’89 col fervido entu¬  siasmo d’un uomo la cui classe usciva redenta da quel grande  atto di liberazione sociale, e aterina la sua fede nella rivo¬  luzione stessa, proclama i diritti del popolo, frusta a sangue  il militarismo, maledice alle guerre mosse da interessi o da  capricci dinastici, e lancia contro principi e monarchie as¬  solute i primi strali di quell’eloquenza appassionata che fa  di lui forse il più grande oratore della Germania ( 8 ).    (') Zuruckfarderung der Denkfreihe.it von den Filrsten Europas,  die eie bisher unterdriikten (Sdmmtl. If erke, VI).   (*) Beitriige zar Berichtigung der Urtheile des PubVcuins iiber  die franzòsische Revolution (Sananti. Werke, VI).   C) In queste sue prime opere politiche, elio per lungo tempo furono  messe all’indice in tutta la Germania, il Fichte mostra che la ri¬  voluzione francese fu il prodotto necessario della libertà del pensiero,  che la persona morale ha il diritto di elevarsi contro lo Stato, e che  l’uomo uscito dalle mani della natura è autonomo, e che è inaliena¬  bile il diritto dei cittadini di moditicare la costituzione, di uscire da  un’associazione politica per crearne una nuova, di fare ciò che ap¬  punto si chiama una rivoluzione. Fine ultimo degli uomini ò   la coltura di tutti per la libertà, ma le monarchie, egli afferma, invece  di lavorare al perfezionamento dei sudditi, sono state centro di de¬  pravazione morale. Come hanno inteso, infatti, i sovrani la coltura  dei sudditi a loro affidati? Sotto forma di educazione alla guerra;  perchè, dicono essi, la guerra coltiva. « Qra, è vero che la guerra      — XVl( —    Il Fondamento del Diritto naturale secondo i principi    inalza le nostre anime a sentimenti e azioni eroiche, al disprezzo del  pericolo e della morte, alla noncuranza dei beni continuamente esposti  ni saccheggio, a una simpatia per tutto ciò che ha aspetto umano,  perchè i pericoli e i dolori sopportati in comune stringono di più gli  altri a noi. Ma non crediate di vedere in queste mie parole un pa¬  negirico della vostra follia bellicosa, o fors’anco l’umile preghiera che  l’umanità dolente v’indirizzerebbe perchè non cessiate dal decimarla  con guerre sanguinose. La guerra non inalza all’eroismo se non le  anime già per natura eroiche; incita, invece, le anime poco nobili alla  ruberia e all'oppressione della debolezza priva di difesa. La guerra  crea a un tempo eroi e vili rapinatori, ma aitimi ’ delle due specie  quale in numero maggiore ? „ (cfr. Sàmmtl. Werke, VII, pp. 90-91). Nel  fondare e governare i loro Stati i monarchi mirano a rafforzare la  loro onnipotenza all’interno, ad allargare le loro frontiere all’esterno:  due fini, questi, tutt’altro che favorevoli alla coltura dei loro sudditi.  1 monarchi pretendono di essere i custodi del necessario equilibrio  delle forze europee; ma questo fine, se è il loro, è perciò anche quello  dei loro popoli? “ Credete proprio — egli domanda ai principi tede¬  schi — che l'artista o il contadino lorenese o alsaziano abbia molto  a cuore di veder menzionata la propria città o il proprio villaggio, nei  manuali di geografia, sotto la rubrica dell’impero germanico, e che  por ottenere ciò butti via lo scalpello o l’aratro ? Il pericolo della  guerra, ossia di ciò che lede e ferisce a morte la coltura, ultimo fine  dell’evoluzione umana, deriva unicamente dalla monarchia assoluta,  la (piale tende per necessità alla monarchia universale. Sopprimete  questa causa, e tutti i mali che ne derivano scompariranno anch’essi,  e le guerre terribili e i preparativi della guerra, ancor più terribili,  non saranno più necessari (ibid. p. 95).  

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