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Friday, May 20, 2022

GRICE E CAMPA: NERONE

 L'INCENDIO DI ROMA E 1 PRIMI CRISTIANI   (1^ edizioue : Milano, ^Ibrjglii e Segati, 1900;  2* edizione: Torino, E. Loesclier, 1900; 3'-^ edizione: Paris, A. Fontennoing, 1902).     AL LETTORE/     L' opuscolo che qui ripresento agli studiosi ha su-  scitato dappertutto discussioni vivaci, ed era naturale  che le suscitasse. Era naturale, infatti, che molti fa-  cessero discendere la questione in un terreno scabro  ed irto di passioni ; e pur gli altri, avvezzi per abito  della mente e per austera severità di propositi, a non  mirare se non alle ragioni obbiettive, era naturale che  molto s' interessassero dell' argomento, vedendo qui  posti quesiti altissimi non di storia soltanto, ma al-  tresì di psicologia popolare, e tentatane, come meglio  si è potuto, la soluzione. Ora, dopo si lungo dibatter  di ragioni avversarie, è tempo che riprenda la parola  io. La mia tesi si fonda sopra alcune contingenze di  fatti, la cui evidenza non può sfuggire ad un esame  impregiudicato. Si riassumano, di grazia, le ragioni  delle due parti tra le quali pende 1' accusa dell' in-  cendio di Roma. Se da una parte troviamo un uomo,  scelleratissimo quanto si vuole, dall'altra troviamo una  comunità segreta, della quale alcuni membri sono de-  diti al delitto per testimonianza degli scrittori pagani,     * Questa prefazione fu pubblicata dinanzi alla seconda edi-  zione (Torino 1900), e dinanzi alla edizione francese (Paris, 1902).     118 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI   e dagli stessi apostoli son dichiarati indegni di pre-  dicare Cristo. Ma quell' uomo quando seppe che la sua  casa bruciava, tornò a Roma, tentò arrestare le fiamm e,  si mescolò in mezzo al popolo, girò di qua e di là  senza guardie^ prese tutti i provvedimenti consigliati  dalla immanità del disastro ; e, mentr'ei cercava porre  riparo, scoppiò novello incendio ; degli altri si sa che  di tanto in tanto prorompevano alla rivolta, che pre-  dicavano la conflagrazione del mondo, cui doveva  seguire il regno della giustizia; che tal regno essi aspet-  tavano dopo quello dell'Anticristo, che per essi l'An-  ticristo era Nerone, che credevano, durante la loro  vita, essere riserbati al nuovo regno di luce e di bene;  che a Roma augurarono ancora, pel corso di lunghi  secoli, distruzione e sterminio, che dopo la rovina  della potenza romana aspettavano il loro trionfo ; qual  meraviglia che tutto questo complesso di aspettazioni  e speranze abbia eccitato le menti incolte e fanatiche  degli schiavi miserrimi e li abbia spinti all' atto for-  sennato ? Si aggiunga a tutto questo, che gli arrestati  furon confessi, secondochè mi pare avere ora novella-  mente dimostrato. — In ogni movimento di rivendi-  cazione sociale che si determina nelle masse, vediamo  tosto scindersi due partiti : quello dei più esaltati,  pronti all' azione immediata, e quello delle menti più  calme, che mal giungono a tenere a freno i primi.  Quei generosi che, scorti dal raggio della loro fede,  vennero a dare alle plebi la coscienza dei diritti umani,  mal poterono con tutti i loro consigli di temperanza,  reprimerne le turbolenze impetuose. Qual nuova con-  cezione sarebbe mai questa, che la plebe romana, la  cui vita, da secoli, era stata tutto un seguito di con-  vulsioni e di fremiti, di sedizioni e rivolte, proprio  all' epoca di Nerone fosse diventata di tanti agnellini,  quando più ributtante era lo spettacolo delle umane  ineguaglianze, e più turbinavano nel suo seno le nuove     l'incendio di roma K I PRIMI CRISTIANI 119     correnti rivendicatrici! Tutt' altro ! Anche in quella  moltitudine erano i falsi dottori, dei quali parla la co-  siddetta Secunda Petri, i quali promettendo agli altri la  libertà^ erano però essi stessi servi della corruzione (II, 2, 19),  i quali dopo esser fuggiti dalle contaminazioni del mondo  per la conoscenza di Gesù., si erano di nuovo in quelle  avviluppati (II, 2, 20) ; e, secondo le brutali imma-  gini che ivi troviamo (II, 2, 22), erano come cani tor-  nati al vomito loro, come porche lavate che di nuovo  si voltolano nel fango. Quando certi stati di aspetta-  zione angosciosa si determinano nelle masse, basta una  scintilla per spingerle ad eccessi inopinati. L'aununzio  della distruzione ignea decretata da Dio per la loro  generazione, la credenza che il regno di Dio non ver-  rebbe, se non fosse distrutta la romana potenza, fu la  scintilla delle fiamme che divamparono sterminatrici.  Essi credevano compire la volontà divina, essere gli  esecutori della divina vendetta. Vano è parlare qui di  significati allegorici. Quando pur si potesse provare  che le allegorie che or si vogliono vedere sotto l' idea  del fuoco, si scorgessero pure dai primi proseliti, e  come tali si spiegassero (il che non è affatto), tutto  ciò sarebbe vano lo stesso. Il popolo interpreta le pa-  role nel loro senso materiale, e quando sente fuoco, in-  tende fuoco e nuli' altro.   Un' obbiezione, a prima giunta grave, mi fu fatta  da un chiaro critico : come mai ninno degli scrittori,  anche pagani, accusa di tale scempio i cristiani ? Pure,  la ragione di ciò credo poterla indicare. Il nodo della  questione credo che stia in ciò, che gii esecutori mate-  riali furono veramente i servi di Nerone, e che questi  interrogati perchè scagliassero le faci, dicevano di  agire per istigazione altrui. La credenza nella colpe-  volezza di Nerone si radicò quindi nelle coscienze, ed  ancor più crebbe dopo la morte di lui. Suole infatti  avvenire che a quelli che si rendono tristamente fa-     120 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI   mosi per le turpitudini loro, tutte il popolo attribui-  sca le altre scelleraggini, delle quali suoni incerta e  dubbiosa la fama. E l' accusa o il sospetto dovè na-  scere nel popolo per naturale reazione di pietà verso  i condannati, qualche tempo dopo il disastro e il pro-  cesso ; che altrimenti non si spiegherebbe come Ne-  rone non fosse stato ucciso dall' ira popolare, quando  si mescolò senza guardie in mezzo al popolo. E dovè  afforzarsi, quando Nerone o gli adulatori suoi espres-  sero l' intenzione di chiamar dal suo nome la rifatta  città: che allora l'ambizione parve al popolo suffi-  ciente motivo, a spiegar lo sterminio. E poiché Ne-  rone dall'incendio di Roma, che egli aveva visto, prese  poi r ispirazione per iscrivere il carme sulla rovina di  Troia, carme che forse cantò sul teatro della rinno-  vata sua casa, nacque più tardi in mezzo al popolo, la  fama che egli avesse cantato sulle rovine della patria.   Del resto, che vi fossero scrittori che esplicita-  mente accusassero i cristiani, non credo sia da revo-  care in dubbio. Tacito stesso, direttamente o indiret-  tamente, deve averne usufruito qualcuno, come mi pare  possa dimostrarsi. Perchè tali scrittori non sieno stati  conservati, è vano chiedere. Durò per secoli la di-  struzione sistematica di tutto ciò che fosse avverso al  Cristianesimo. Gli scritti contro la nuova religione  sono periti; le accuse che al Cristianesimo si facevano,  le conosciamo, salvo pochi accenni qua e là, solo per  bocca dei difensori. Or questi scritti apologetici sono  di alcuni secoli posteriori a Nerone e ciascuno di essi  parla delle dottrine e dei costumi dei cristiani del  tempo suo ; non potremmo dunque aspettarci di tro-  vare in essi alcun tentativo di difesa contro un' accusa  che ninno più muoveva, essendo ormai invalsa anche  tra i pagani 1' opinione che accusava Nerone. Ma se  del fatto determinato, e cioè dell' incendio Neroniano  non si fa più parola, si fa per contro parola molto     l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 121   spesso delle tendenze rivoluzionarie e distruggitrici.  Tali tendenze erano forse una di quelle « scellerag-  gini inerenti alla setta » (flagitia cohaerentìa nomini),  alle quali accenna Plinio, a proposito dei cristiani  di Bitinia. Ma della lettera di Plinio tocclieremo in  seguito. L' accusatore dei cristiani nell' Octavius di  Minucio Felice narra (capitolo Vili) che essi, raccolta  dalla peggior feccia i più ignoranti e le credule fem-  minette, naturalmente deboli per la debolezza del loro  sesso, istituiscono una plebe di sacrilega congiura ; e  più giù (cap. XI) che essi alla terra e perfino all'uni-  verso e alle stelle minacciano incendio (e cioè la con-  flagrazione cosmica), e macchinano rovina. Ottavio ne  li difende (cap. XXXIV), e la sua difesa è pur molto  istruttiva per noi. E, secondo lui, un volgare errore il  credere che non possa venire improvviso l' incendio  punitore; i saggi stessi dell'antichità, egli dice, e i  poeti han parlato della conflagrazione cosmica, del fiume  di fuoco e della Stigia palude, a punizione dei perversi.  « Ma niuno, ei soggiunge (cap. XXXV), che non sia  sacrilego, delibera che sieno puniti con tali tormenti,  per quanto meritati, coloro che non riconoscono Dio,  come gli empii e gì' ingiusti », (ahimè, mite filosofo  antico, la storia posteriore ti ha dato torto !). Non è  questa una risposta alle accuse e ai timori, che si nu-  trivano a riguardo dei cristiani ? Se dunque dell' ac-  cusa particolare, quella riguardante l' incendio Nero-  niano, non si fa più motito, per le ragioni sopradette,  non si può dire che- ogni eco dell' accusa generica sia  spenta per sempre.   Altra obbiezione mi fu fatta, circa il criterio in-  formatore di queste ricerche. Voi, mi si è detto, state  al giudizio degli scrittori pagani, per quanto riguarda  la moralità dei primi cristiani. Ora per lunghi secoli  continuarono le accuse contro i cristiani, e furono fra  le più atroci e terribili. Gli apologisti cristiani oppo-     122 l' incendio Dt ROMA E 1 PBIMI CRISTIANI   sere ad esse recise smentite. Perchè non si deve cre-  dere che sieno calunnie pur le accuse scagliate contro  i cristiani dei primi tempi ? — Senouchè, a proposito  di queste ultime, le accuse non partono solo da scrit-  tori pagani, ma altresì da cristiani, in passi dei quali  r interpretazione non può esser dubbia. ^ Ma tal giu-  dizio non riguarda tutta intera la comunità. Ohi nega  che in questa fossero spiriti superiori, ardenti del-  l' amore divino del bene ? Ma le novità, e novità tali,  quali eran quelle che nelF ordine sociale annunziava  il Cristianesimo, sogliono attrarre gli spiriti più tur-  bolenti, e più esaltati, cui non par vero di coprire con  la nobiltà di un vessillo la licenza degli atti proprii.  E, se guardiani bene, pure tutte quelle orrende accuse  fatte in seguito ai cristiani, i riti dell' uccisione del  fanciullo, della Venere promiscua dopo la cena ed  altri simili, hanno tale spiegazione. Anche gli scrittori  cattolici riconoscono che tali calunnie si debbano a  tutte quelle sette di Carpocraziani, Nicolaiti, Gnostici,  che tali orrendi riti praticavano, e si arrogavano il  nome di cristiani. Che la chiesa abbia potuto respin-  gere dal proprio seno questi sciagurati, e si sia an-  data man mano epurando, torna certo ad alta sua  gloria. Ma ciò stesso ne induce ad andar molto cauti,  quando vogliam negare a priori che nei primi tempi     2 Si è sostenuto da alcuni che la < ci-itica moderna » rife-  risca a quistioui di dogma e di gerarcliia i noti passi di Paolo,  nei quali esorta i Cristiani di Roma all' obbedienza e alla man-  suetudine; e si è citato in proposito il Renan. Ma il Renan dice  di quei passi (Saint Pani, pag. 475): « 11 semble qu'à l'epoque où  il écrivait cette épitre (aux Romains) diverses Eglises, surtout  l'Église de Rome comptaient dans leur sein soit des disciples de  Juda le Gaulonite, qui niaient la légitimité de l'impot et pré-  chaient la róvolte contre l'autorité romaine, soit des ébionites  qui opposaient absolument i'un à l'autre le régne de Satan et le  régne du Messie, et identificient le monde présent avec l'empire  du Démon {Epiph. haer., XXX, 16; Honiél. pseudo-clém., XV, 6,  7, 8) ». V, anche ivi pagg. 477-478.     l'incendio di roma 'e I PRIMI CRISTIANI 123     della chiesa potesse esservi ima moltitudine di faci-  norosi, pronti ad interpretare a lor modo le nuove  dottrine e a trascendere ad ogni eccesso.   E la lettera di Plinio (X, 96) si osserva, non è te-  stimonio dell' innocenza cristiana ? Migriamo pure, se  cosi vuoisi, da Roma in Bitiuia, dai tempi di Nerone  a quelli di Traiano. La lettera domanda all' impera-  tore se debba punirsi la setta come tale o i delitti  ad essa connessi, e riferisce che degli interrogati al-  cuni dichiararono repiicatamente esser cristiani, e, senza  voler sapere che cosa ciò significasse, Plinio, per la  loro ostinazione, li mandò al supplizio ; altri negavano  essere stati mai cristiani ; altri affermarono essere, e  poi il negarono, dicendo essere stati, or più non es-  serlo ; tutti questi maledicevano Cristo, e veneravano  l' immagine dell' imperatore. Pur nel tempo in cui  erano cristiani asserivano altro non aver fatto se non  raccogliersi, venerare Cristo come se fosse un Dio, ed  obbligarsi con giuramento non a commettere delitti,  ma anzi a non commetterne. Due ancelle messe ai tor-  menti, non rivelarono se non una superstitio prava,  ìmmodica. — Se questi infelici erano così invasi dalla  paura, da indursi a sconfessare la loro fede e male-  dire Cristo, si potrebbe mai aspettare da essi che ri-  velassero alcuna cosa che potesse danneggiarli ? — Ma  sieno stati pure innocentissimi i Cristiani di Bitinia  al tempo di Traiano ; che cosa prova ciò per alcune  fazioni dei cristiani di Roma al tempo di Nerone ?     Questo credemmo opportuno avvertire, circa le  ragioni generali e di metodo. Alle osservazioni sui sin-  goli punti si risponderà nelle note o anche nel testo.  Non era possibile confutare partitamente ciascuno de-  gli scritti venuti in luce. Quest' opuscolo sarebbe di-     124 l' incendio di roma e i primi cristiani     ventato un volume, con poco frutto dei lettori e degli  studii. Ne del resto era decente sottoporre alla consi-  derazione dei lettori, scritti, nella maggior parte dei  quali la forma irosa mal si dibatte fra le scabrosità  della materia, e dalle ambagi del ragionamento guizza  ed erompe il vituperio. I fatti e le ragioni apportate  io ho tenuto in conto ; dei vituperii non mi curo, né  di essi conservo rancore. Mi conforta il consentimento  pressoché unanime a me venuto da coloro che rap-  presentano il più bel vanto degli studii italiani. In  mezzo alle loro voci o alle voci di quelli che, pur di-  scordi, seppero tener la misura, suonò un coro stridulo  di voci insolenti. Persone rese fanatiche da religioso  ardore si scagliarono contro di me, a contaminare la  purità delle intenzioui mie. In tale impresa l' igno-  ranza e la malafede fecero l'estrema lor possa. Io non  perderò la calma per le intemperanze altrui. Quel me-  desimo coro ha accompagnato sempre ogni opera di ve-  rità e di luce. Mentre la procella batteva alla mia  porta, io ripensavo mestamente che cosa mai potesse  suscitare in tanti animi impeti cosi vivaci contro di  me. Era là, in quei cuori angosciati, tutto lo schianto  come di una cara visione che si dilegui, come di una  zona luminosa sulla quale inopinatamente si effondano  tenebre. Povere anime desolate, ebbre di radiose spe-  ranze, io non ho offeso la vostra fede. Potreste voi  mai sostenere che, pur quando gran parte del mondo  fu conquistata alla luce e all'amore della vostra idea,  il fanatismo e l'errore sieno tosto dispariti dalla terra,  e cieche cupidigie e biechi livori non abbiano ancora  agitato gli spiriti? Perchè dovrebbe dunque ripugnare  alla vostra fede, l'ammettere che ciò sia avvenuto pure  agl'inizii della nuova era umana, in mezzo a gente  nei cui animi era 1' eredità di secolari rancori ?     Il primo quesito che si presenti alla mente di chi  esamini i racconti degli storici snll' incendio neronia-  no, è questo: l'incendio fu ordinato da Nerone? Degli  scrittori più antichi lo affermano Suetonio e Dione  Cassio, i quali ci hanno pure esposto le ragioni di tal  loro convinzione: sicché la notizia da essi data ha solo  valore in quanto possano averlo tali ragioni: ^ di che  tosto vedremo. Tacito si avvale di fonti diverse, né  sembra aver fatto studio per rendere coerente il rac-  conto suo; sicché prendendo or dall'uno autore or dal-  l' altro, riesce ad indurre nel lettore ora 1' una convin-  zione or l'altra. Si mostra in principio esitante tra due  autorità di fonti: quelle che attribuivano il disastro  al caso e quelle che lo attribuivano a Nerone; '* ma     3 Si potrebbe obbiettare che uno storico può narrar cosa  vera, ma poi sbagliare nell' assegnare lo cause. E ciò è appunto  quello che penso io, e che dichiaro pure più sotto; le particola-  rità dell'incendio, narrate dagli storici non sono certo inventate  da essi, e sono, secondo ogni legittima presunzione, vere; la causa  dell'incendio, cioè l'ordine di Nerone, dobbiamo giudicarla alla  stregua delle ragioni che essi apportano di tal loro convinzione.  Giacche 1' attribuire l' incendio o al caso o all' ordine dell' uno  dell'altro, è convinzione o apprezzamento, non è fatto.   ^ Lo afierma anche Plinio il Veccbio ; e il suo accenno  {N. II., XVII, 1,1: « ad Neronis principis incendia, quihus cre-  mava Urbem), prova che pochi anni dopo l'incendio, l'opinione  era già invalsa. Verisimilmente la medesima convinzione espri-     l'26 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI   l' ipotesi del caso doveva cadere per lui, che poco dopo  narra come certo il fatto che nessuno osò opporsi alla  violenza del fuoco, poiché uomini minacciosi vietavano  di estinguere le fiamme, anzi le ravvivavano, dicendo  di agire per consiglio altrui. E bensì vero che Tacito  aggiunge essere incerto se ciò facessero, per potere  senza freno abbandonarsi alle rapine o per vero co-  mando: ma è evidente che la prima ragione non regge.  Giacché se essi giungevano a imporsi tanto con le mi-  nacele da impedire ogni tentativo di estinzione, pote-  vano pure senz' altro esercitare liberamente il sac-  cheggio.   E del resto il ripetersi della cosa, con i medesimi  particolari, per tutta Roma, non significa 1' obbedienza  ad una parola d' ordine? Questa esclude il caso. E lo  esclude pure il fatto che, tosto allo spegnersi del primo,  si riaccese un secondo incendio, che proruppe dagli     meva Plinio nelie Storie civili che furono fonte a Tacito. La  narrazione di Sulpicio Severo (II, 29) è presa interamente da  Tacito, di cui riproduce molte frasi. Quella di Orosio (VII, 7)  è derivata, con qualche esagerazione di notizia, da Suetonio.  L'iscrizione in C. I. L., VI, 826 ha qvando vrbs per novem   DIES — ARSIT NERONIANIS TKMPORIBVS.   Importanti monumenti sono pure le are site in ciascuna  regione della città, sulle quali nei tempi successivi si celebra-  vano il 23 Agosto i sagritìzi incendiorum arcendorum causa;  alcune di tali are sono conservate ; cfr. Lanciani, Bull. com.  1889, pag. 331 segg. ; Hùlsen, Rom. Mitt. 1S94, pag. 94 segg. ;  Richter, Top.j- pag. 209, 294, 301. Una minaccia d' incendio  è attribuita a Nerone dall' autore dell' Ottavia, v. 882, Stazio  nella Silva dedicata alla vedova di Lucano (II, 7, 61) ha infan-  dos domini nocentis ignes. In tutta la letteratura di opposizione  a Nerone l'accusa dovè essere accolta con fervore. Alcune di  versità di particolari dalla narrazione tacitiana sono nella cor-  rispondenza apocrifa di Seneca e S. Paolo, che è del IV secolo  (v. Ramorino, Vox Urbis, 1901, n. 4). Tra i moderni, oltre Aubè,  Schiller ed altri, lo Herstlet negò con buone ragioni, l'attribu-  zione a Nerone (Treppenwitz der Weltg. ■• pag. 165 segg.). Molti  l'attribuiscono al caso (ad es. AUard, Marucchi). I particolari  dell' incendio sono contrari a tale ipotesi: per ammetterla, biso-  gnerebbe ritenere falsi tutti i particolari narrati dagli antichi.     l' incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 127     orti di Tigellino e devastò un' altra parte della città.  Del resto Tacito sembra nou aver ridotto ad unità di  pensiero questa parte dell' opera sua: e aver piuttosto  abbozzato appunti da fonti discordi: vedremo infatti  essere molto probabile che una delle sue fonti accu-  sasse esplicitamente i cristiani. "^ — Suetonio, abbiamo  detto, accusa Nerone. E l'accusa egli fonda sopra tre  fatti. In un banchetto, avrebbe un convitato detto in  greco: « quando io sia morto, si mescoli la terra col  fuoco », e Nerone avrebbe soggiunto; « auzi quando  io sia vivo » ; di più, parecchi consolari sorpresero nei  loro possedimenti i servi imperiali, con stoppa e faci;  e per paura, neppur li molestarono; infine Nerone, de-     '-> Altro indizio che Tacito non abbia riassunto in una con-  cezione unica il fatto storico, ma abbia solo unito notizie di-  scordi da fonti diverse, si trae anche da questo. Ei riferisce  la voce che Nerone al tempo del disastro cantasse l'incendio  di Troia sul teatro domestico. Ma qual teatro? Quando ei 'tornò  da Anzio il palazzo imperiale bruciava ! Altra contraddizione  è in ciò che narra alla fine del capo 50 (lib. X7), come tosto  vedremo. — Debbo notare a tal proposito come a me abbia pro-  dotto ingrata meraviglia, che del mio giudizio su Tacito altri  abbia menato scalpore, come di giudizio a bella posta indotto  per iscemare l'autorità di lui ed infirmarne la fede. Dopo tanti  studii perseguiti da tanti anni, sul materiale storico di Tacito,  sul suo fosco vedere, sulle sinistre interpretazioni sue, sulla  sua costante avversione per alcuni personaggi, si avrebbe il  diritto di pretendere che tanta mole di lavoro non fosse stata  fatta invano. — Cfr. pure nota 27 in f. — Il Fabia, Le sources de  Tacite, pag. 413, osserva, contro L. Von Ranke, che Tacito si  astiene dall' accusare o dall' assolvere Nerone, adoperando frasi  come pervaserat rumor, videbatur, crederetnr. Ma a me paiono  giuste le seguenti considerazioni del Von Ranke, Weltgeschichte,  III Th. II Abtheil. Leipzig, 1883, pag. 313: Es ware nun unsin-  nig zu denken, dass Nero, der sich bei dern Brande wurdig  betragen batte, jetzt, um eia durchaus falsches Geriicht nieder-  zuschlagen, zur Verfolgung \inschuldiger Lente geschritten  wàre. Man kann nicht anders als annehmen dass diese Stelle  aus des zweiten Nero anklagenden Ueberlieferung stammt. Die  \Nichtsw^iirdigkeit des Kaisers liegt eben darin, dass er den  Brand selbst angelegt hat und auf anderen die Schuid schiebt.  So die zwejte Ueberlieferung.     128 l'incendio di roma e i primi cristiani   siderando sul Palatino l'area di alcuni granai costruiti  con pietra, li fece prima abbattere e poi fece ad essi  appiccare il fuoco. Anche Cassio Dione è esplicito, e  (juasi a riprova della sua accusa apporta due fatti:  die cioè Nerone aveva fatto voto di vedere la distru-  zione di Roma e che egli chiamò felice Priamo, perchè  aveva visto perire la patria sua.     Or veramente, se questi sono i fondamenti della  secolare accusa, lo storico spassionato dovrà rimanere  ben perplesso prima di confermarla. Certo fu uomo  di si efferate nefandezze Nerone, che non è a temere  gli si gravi troppo la soma dei delitti con un altro  misfatto; pure, giudicando senza prevenzioni, è facile  scorgere quanta sia la vacuità delle ragioni che gli  antichi apportano per incolparlo anche di questo.  Quanto ai servi di lui, sorpresi ad incendiare, il fatto  ha ogni verosimiglianza, ma ha ben altra spiegazione,  come si dirà in seguito. Quanto ai granai del Pala-  tino, è naturale che, quando tutto intorno era di-  strutto, visti superstiti quegl' informi ruderi, ei li fa-  cesse abbattere e incendiare, volendo liberare l' area  per la futura sontuosa sua casa. *' Quanto all' aneddoto,  raccontato da Dione Cassio, eh' egli avesse fatto voto  di veder distrutta la città, esso è infirmato dal fatto  che, .saputo appena che il fuoco s' approssimava al pa-     " Questo passo di Suetonio (Ner., 38) ha fatto uscire di  careggiata non pochi. L'abbattimento e l'incendio dei granai  Suetonio lo apporta, perchè serve a dimostrare, secondo lui,  che Nerone non fece mistero dell' ordine d' incendiare {incendit   urbem tam palam ut bellicis machinis lahefactata atqiie   infiammata sint, ecc.). E chiaro che 1' argomentazione non è va-  lida. Se Nerone dette senza mistero 1' ordine di abbattere quei  granai, dovè dunque darlo quando tornò da Anzio; e allora tutto  intorno era già divorato dalle fiamme.     l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 129   lazzo imperiale, egli rientrò in Roma, eppure non si  potè impedire (dice Tacito) che il Palatino e la reggia  e tutti i luoghi intorno fossero preda alle fiamme. '  Rimangono altri due aneddoti, e quello di Priamo e  quello del banchetto. E non è improbabile che Nerone  paragonasse sé stesso a Priamo, cui toccò di veder  distrutta la patria sua, e si chiamasse, ammettiamo  pure, fortunato di veder cosa unica al mondo: ma ciò  non si può apportare qual prova a confermare che  l'ordine partisse da lui. Ne tale deduzione si può  trarre dai motti di spirito, che secondo Suetonio ri-  ferisce, avrebbe egli scambiato con un suo convitato  in un banchetto. Che anzi, chi ben guardi, l'inter-  pretazione di qu3Ì motti è ben altra. Giacché se il  convitato disse: Ivj.oò Savóvro? Y^ia at/Gr^uo ttd.oi egli vo-  leva evidentemente significare: « purché io sia morto,  si mescoli la terra col fuoco », e cioè, a un dipresso:  purché io non abbia più a correrne pericolo, caschi  pure il mondo! » Ed è naturale quindi che Nerone  rispondesse: « anzi, purché io continui a vivere » (immo  inquit, i'j.o'j Cwvioc). — Ci siamo indugiati in siffatti par-  ticolari aneddotici, non per conchiudere da essi soli,  che fu ingiusta l'accusa, ma solo per affermare che  non ci è dato indagare la verità da siffatte fonti.  Questi scrittori hanno poco discernimento critico.  Quando raccolgono fatti, ci offrono materiale prezioso:  quando li interpretano e ne tra^ggono deduzioni, sco-  prono tutto il debole dell'arte loro. Noi dunque dob-  biamo battere altra via. Dobbiamo esaminare le par-   '' Ed era la casa sontuosa, eh' egli stesso aveva fatto smi-  suratamente ingrandire, sicché comprendeva ormai tutta l'area  dal Palatino all'Esquilino. Il nome di Domus Transitoria (Suet.  Nei'., 31) trasse in uno strano errore il Renan, il quale credette  vedere in quello l'intenzione di Nerone di far, poi, una casa  definitiva. Ma transitoria significa solo che quella casa metteva  in comunicazione, come dice Tacito {Ann. XV, 39) il Palatium  con gli orti di Mecenate !   C. Pascal. 9     130 l/ INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI     ticolarità tutte del disastro ìq relazione al carattere  ed ai fatti di Nerone. * Dobbiamo vedere quale poteva  essere per lui il movente ad emanare l'ordine sciagu-  rato, quali i mezzi per attuare l' immane disegno.     La capacità a delinquere di Nerone è fuori di ogni  discussione; e veramente, se solo ad essa noi doves-  simo aver ricorso, la questione non sussisterebbe più.  Ma vi ha tempre e caratteri diversi di delinquenza:  alcuni sono nati alle audacie più forsennate, alle più  temerarie scelleraggini: altri praticano il delitto per  coperte insidie e per nascosti raggiri. Nerone, quale  cÀ risulta da tutti gli atti della sua vita, fu insi-  dioso e vile; sospettoso di tutto e di tutti, sempre  premuroso d' ingraziarsi il popolo con feste e largi-  zioni; assalito alcuna volta da crisi convulse, e tre-  pidante per divina vendetta, superstizioso come un  fanciullo. Quando scoppiò l' incendio, egli era ad  Anzio. Scoppiò per ordine suo? Ma allora il suo  tristo segreto fu affidato non ad uno o due dei più  intimi, ma a centinaia, forse a migliaia di servi e  pretoriani!" Giacché per tutta Roma furono dissemi-     ■^ Mi si è mosso rimprovero che tali particolarità io de-  suma da quegli stessi scrittori, dei quali ho cercato infirmare  la fede. Ma le dichiarazioni che qui precedono sono esplicite ;  i fatti non sono certo inventati dagli scrittori : le deduzioni  che essi ne traggono sono erronee.   ■' In tutte le scelleratezze di Nerone si vede manifesto lo  studio di coprire nel segreto dei pochi fidati il misfatto. Il man-  dare l'ordine da Anzio a Roma a centinaia di servi e soldati, e il  tornare poi in mezzo al popolo, suppone un coraggio che non pos-  siamo davvero attribuirgli. Né è dato supporre che Nerone abbia  confidato l'ordine solo a qualche intimo. Questi non avrebbe po-  tuto fare se non trasmettere gli ordini imperiali; e Nerone capiva  che 1' ordine sarebbe stato quindi annunziato ai servi o soldati  solo come ordine suo.     l' incendio di EOMA e I PRIMI CRISTIANI 131     nati coloro che impedivano ogni tentativo di estin-  zione, *" ed erano come riferisce Dione Cassio, anche  vigili e soldati che ravvivavano il fuoco. E si sup-  ponga pure che costoro nell' ebbrezza forsennata di  quelle notti infernali, obbedissero, senza esitanza, ad  un ordine che si diceva lor mandato dall' imperatore  lontano: ma quando poi l'imperatore tornò, e tentò  arrestare le fiamme, (Tac. Ann. XV, 39), a chi obbe-  divano coloro che dagli orti di Tigellino fecero pro-  rompere novello incendio? "   E, se avesse dato l' ordine, sarebbe tornato Ne-  rone? '- — Un ordine, diffuso fra tanti servi e soldati,  non poteva rimanere un segreto per il popolo: avrebbe     *" Si potrebbe osservare : Perchè dovevano essere centi-  naia ? Non bastavano forse anche pochi per appiccare l'incen-  dio, se questo cominciò dalle bofteghe ripiene di merci accen-  sibili, e fu alimentato dal vento? Sennonché supposto pure che  pochi abbiano appiccato l' incendio, moltissimi dovevano pure  essere quelli che ordirono il complotto. Ed infatti per tutta  Roma erano sparsi coloro che impedivano ogni tentativo di  estinzione. Questi dovevano essere a parte del segreto, e per  essere sparsi in tutta Roma dovevano essere moltissimi. La  qual notizia della impedita estinzione non può essere revocata  in dubbio.- Se non v'era forte mano organizzata ad impedire  1' estinzione, molto prima dei nove giorni si sarebbero sedate  le fiamme.   ^^ Non potevano certo obbedire a Nerone, poiché da lui ri-  cevevano ormai l'ordine di arrestare le fiamme, non di riaccen-  derle. Si è sospettato potesse essere una finzione di Nerone il  tentativo di arrestare le fiamme. Ma ad ogni modo questa fin-  zione non poteva avere efletto se non con opere di estinzione.  E non è consentaneo al carattere di Nerone che egli in mezzo  alla disperazione del popolo si fosse esposto al pericolo di rin-  novare l'ordine incendiario. E Tigellino non avrebbe fatto in-  cominciare dalla casa sua, lasciando intatto il Trastevere.   ^- Si può pensare: col non tornare, avrebbe accresciuto i  sospetti. Ma questi apprezzamenti e calcoli di mente fredda di-  sdicono al carattere di Nerone. Si esamini, di grazia, il suo  contegno dopo 1' uccisione della madre (Tac. Ann. XIV, 10). E  cosi quando gli fu annunziata la defezione degli eserciti, non  osò presentarsi in pubblico, temendo esser fatto a brani (Suet.  Ner. XLVII).     132 1/ INCENDIO DI ROMA E 1 PRIMI CRISTIANI   egli affrontato la plebe, pazza d' ira e di terrore? ''  E perchè l' avrebbe dato, quest' ordine ? Perchè, si ri-  sponde, non soffriva le vie tortuose e irregolari, con  le loro pestifere esalazioni, e voleva il vanto d'essere  chiamato fondatore di Roma; ojDpure, perchè voleva  godere lo spettacolo delle fiamme e cantare l'incendio.  Ed altri ancora risponde : dette l' ordine in un accesso  di pazzia.   Or veramente, quanto alle vie tortuose e strette,  la ragione non regge. L' incendio fu appiccato a tutte  le regioni più nobili e suntuose di Roma; perirono i  templi vetusti, i bagni, le passeggiate, i luoghi di de-  lizia, le case più ricche. Le regioni dei poveri, rot>curo  Trastevere, il centro della comunità giudaica e cri-  stiana, furono rispettati. Eppure anche nel Traste-  vere aveva Nerone i suoi orti Domiziani e il suo circo,  che poteva desiderare di vedere sgombri dalle casu-  pole e dalle viuzze che li circondavano. ** — Voleva  godere lo spettacolo delle fiamme? Ma si sarebbe su-  bito mosso da Anzio; il ritardo poteva togliergli l'oc-  casione di goderlo! Rimane dunque che egli avesse  ordinato l' incendio in un accesso di pazzia. Ma quando  egli tornò a Roma, e, come riferisce Tacito {Ann. XV, 39\  cercò di opporsi al fuoco, ed aprì per ristoro al po-  polo il campo di Marte, i portici e le terme di Agrippa,   '■^ Che Nerone sin dalla prima notte del suo ritorno si ag-  girasse senza guardie per la città, è afìermato da Tacito stesso,  quando narra che Subrio Flavio aveva già prima della congiura  Pisoniana fatto il disegno di uccidere Nerone cum ardente domo  per noctem huc Ulne cursaret incustoditus ! {Ann., XV, 50j.   '' Non poteva regolare, si può dire, la direzione delle fiam-  me. — Ma certamente, se il suo scopo era quello di togliere le  viuzze stretto e le case luride non sarebbe ricorso alle fiamme.  Bastava che il suo disegno d' abbellire Roma egli enunciasse,  per essere esaltato da tutto il popolo, e avere il concorso di tutti  i cittadini. E quando anche alle fiamme avesse voluto ricorrere,  avrebbe cominciato dai quartieri luridi, non da quelli nobili e  sontuosi.     l/ INCENDIO DI ROMA K I PRIMI CEI6TIAXI 133   gli orti suoi, e fece costrnire provvisorie capanne, e  diminuì il prezzo del frumento, era certamente nel  possesso delle facoltà sue : e allora chi rinnovò l' in-  cendio negli orti di Tigellino? '* — Ed ancora, si  ponga mente ad altre osservazioni. Nerone voleva sal-  vare la casa sua, ed infatti vi si adoperò, tornato a  Roma: avrebbe egli ordinato che si cominciasse ad  appiccare il fuoco proprio a quella parte del circo.  che era contigua al Palatino? '* — Nerone amava cre-  dersi e farsi credere artista fine e di greco gusto. Non  avrebbe egli fatto mettere al sicuro le più belle opere  di scultura, i monumenti dei più chiari ingegni, i ca-  pilavori dell'arte greca? Anche questi perirono tutti,  e Nerone mandò gli emissarii suoi, per l'Asia e per la  Grecia, a depredarne dei nuovi. — Quanto più si con-  sideri l'accusa fatta a Nerone, tanto più essa risulta  incoerente e contradditoria. Ma dunque, chi ordinò  l'incendio? Quali furono gì' incendiarii? Quale scopo  ebbero? Chi incolpò i Cristiani? E quali erano i Cri-  stiani allora?     Dobbiamo, per l' esposizione nostra, cominciare  dall'ultimo quesito, e poi a mano a mano, attraverso  gli altri, giungere sino al primo.   Sulla prima comunità cristiana in Roma abbiamo   '■' E opportuno pnre notare che J racconto riguardante  Nerone, che sulle rovine «ii Roma canta i' incendio di Troia è  ritenuto, per buone ragioni, una leggenda. Y. Renan, JJ Anii-  christ (pag. 147, n. 2 , che prese probabilmente i suoi argomenti  dalla nota del Fabricio a Cassio Dione. LXII, 18.   •'' Non vale il dire: ricevuto il comando, non si badò più  a nulla. Sta pur sempre, che se il primo incendio cominciò dalla  casa di Nerone, e il secondo dalla casa di Tigellino, le fiaiume  forono appiccate da nomini che erano nemici di tatto l'ordine  sociale, che era rappresentato da quei di; e.     134 l' incendio di roma e i primi cristiani     scarsissimi documenti: pure ci viene da essi qualche  lume. Chi immagina i Cristiani al tempo di Nerone,  e anche prima, tutti intenti a bizantineggiare su que-  stioni di dogma, non può spiegare l' aggregarsi di  sempre nuovi proseliti alla parola evangelica. Se Ta-  cito dice che i cristiani erano allora « una immensa  moltitudine », ninna ragione v' ha per iscemare il  valore a siffatta testimonianza. *' Ora una immensa  moltitudine non si poteva commuovere per contro-  versie riguardanti solo il, dogma giudaico. Ci vuole  altro per muovere le turbe. Se soltanto tali quesiti  avessero formato oggetto della predicazione evange-  lica, i gentili avrebbero probabilmente risposto come  il proconsole Corinzio rispose ai Giudei che accusa-  vano Paolo: « sono questioni di parole: pensateci voi ».  Il cristianesimo dovè invece assumere ben presto in  Roma un contenuto sociale ed economico. Quel che  importava era il complesso delle aspirazioni e delle  rivendicazioni messianiche, era la parola dolce, che  per prima affermava 1' eguaglianza umana, e promet-  teva lo sterminio degli empii, e prossimo il regno della  giustizia. Ora questa sete ardente di rivendicazioni  umane era comune tanto al giudaismo quanto al cri-  stianesimo. La differenza era in ciò, che per il cri-  stianesimo il Messia era già venuto, ma doveva tosto  tornare a disperdere le potenze maleJBche sulla terra;  il giudaismo non sapeva accomodarsi all'idea di un  Messia, che non avesse levato sugli empi la sua spada  di fuoco, e assicurato la supremazia al suo popolo     " La testimonianza di Tacito è i-insaldata da quella di  Clem. Rom. Ad, Cor., I, 6 (nokò t:).YjOoc;), e da quella dell' ^joo-  calisse, VII, 9 {o/'koc, t:oXù<;) e da quella di S. Paolo che ai Fi-  lippesi dice, parlando dei cristiani di Roma : « Molti dei miei  fratelli nel Signore ». Contro siffatte testimonianze non v'è una  sola prova di fatto. — Nulla trovo in proposito nel lavoro del-  l' Harnach, GescJdchte der Verbreitung des Christenthuvis, in  Sitzunysb. d. Akad. d. Wiss. zu Berlin, 1901.     l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 135     eletto e feimato l' impero nella divina Gerusalemme,  bella d'oro, di cipresso e di cedro. Ma in sostanza  r una aspettazione e l' altra di un prossimo rinnova-  mento umano aveva un contenuto sociale; e a guardar  l'una e l'altra dal di fuori, era facile confonderle.  Quindi è che Giuseppe Flavio e Giusto di Tiberiade  non distinguono i cristiani dai giudei; e Tacito in un  passo (Bist, V, 5) confonde gli uni e gli altri; cosi  Suetonio, quando dice {Claud., 25) Jndaeos imimlsore  Chresto assidne tumultuantes Roma expnUf, intende evi-  dentemente (per quanto stranamente sia stato interpre-  tato questo passo) per Judaei i Cristiani, immaginando  Cristo ancor vivo ai tempi di Claudio,v anzi eccitatore  dei Giudei nei loro tentativi di riscossa. '* — Che poi  la coscienza umana si sia spostata non verso il giudai-  smo, ma verso il cristianesimo, la ragione è manife-     ** Impulsore non può voler dire « a cagione » bensi « per  eccitamento ». È da mettere a riscontro questo passo di Sue-  tonio con un passo degli Atti degli Apostoli, nel quale si ha  questa notizia (XVIII, 2-3) < [Paolo ^ trovato un certo Giudeo,  per nome Aquila, di nazione Pontico, da poco venuto in Italia,  insieme con Priscilla sua moglie (perciocché Claudio aveva co-  mandato che tutti i Giudei si partissero di Roma), si accostò  a loro ; e poiché egli era della medesima arte, dimorava in casa  loro ». Ora è importante il fatto che Aquila e Priscilla erano  appunto cristiani: cfr. Rom., XVI, 3; I Corint., XVI, 19; II  Tim., IV, 19; Ada, XVIII, 2, 18, 26. E che il fossero anche  prima d'incontrarsi con Paolo si può con qualche probabilità  dedurre dal fatto che appunto in casa loro andò ad abitare  Paolo a Corinto. Paolo, Eom. XVI, 3, li chiama suoi « coope-  ratori ». Cfr. De Rossi Bnll. ardi, crisi. 1867, pag. 43 segg.  1888-89 pag. 128 segg. ; Allard, Hist. des persécut., I, pag. 23.  E probabile dunque che Claudio scacciasse dalla città i Giudei  cristiani, non tutti i Giudei : tanto piìi che dei Giudei Cassio  Dione (LX, 6) dice che Claudio ritenendo pericoloso a cagione  del loro numero scacciarli dalla città, si limitò a interdirne le  adunanze. — E che 1' espulsione ordinata da Claudio non riguar-  dasse propriamente i Giudei viene indirettamente provato dal  fatto che Giuseppe Flavio, solitamente cosi bene informato di  tutto ciò che riguardai suoi compatrioti, non menziona di Clau-  dio se non atti di favore per essi {Ant, Ind. XIX, 5, 2; XX, 1, 1).     136 l' incendio di roma k i primi cristiani   sta. L'uno infatti rimaneva chiuso nel suo rigido par-  ticolarismo di razza, l'altro abbracciava nell'amor suo  l'universo. L'uno esaltava il popolo eletto dal Signore  e destinato al trionfo; l'altro predicando l'eguaglianza  umana volse la propaganda sua tra i Gentili. Di più  ancora, gli uni spostavano indefinitamente i termini  della dolce promessa, gli altri annunciando imminente  il desiderato ritorno, parevano soddisfare la impazienza  di rinnovamento umano, che è cosi caratteristica della  società romana del primo secolo.     È facile immaginare quanto larga e immediata  diffusione avesse il cristianesimo tra gli schiavi, i quali  sentivano più che mai prepotente la brama di riven-  dicazioni e da secoli prorompevano di tratto in tratto  alla rivolta. D' altra parte, come avviene in tutti i  movimenti umani, si aggregava alle idee nuove quel  sostrato tenebroso della società che spunta fuori solo  nei giorni più torbidi, giungendo ad ogni eccesso cui  spingano le bieche passioni e i rancori lungamente  soffocati. Tali uomini gettavano fosca luce su tutta  intera la chiesa. Tacito dice: « odiati pei loro delitti »  i Cristiani, e meritevoli di ogni « pena più esemplare »  (Ann., XY, 44); e Suetonio parla di essi come di gente  « malefica » (Ner. 16). Tacito e Suetonio hanno delle  virtù e delle colpe umane gli stessi concetti che ne  abbiamo noi. Quando essi parlano di delitti e male-  fizi, non è possibile assumere tali parole in signifi-  cato men tristo dell'usuale. La castità, la temperanza,  la rinuncia ai piaceri, l'odio per le turpitudini, erano  pure per essi tali pregi, che ne avrebbero commosso  di ammirazione reverente l'animo. Si potrebbe pen-  sare a calunnie sparse ad arte nel popolo. Ma è pur     l'incendio di eoma e r primi cristiani 137   vero che nelle stesse fonti cristiane abbiamo la prova  che molti nelle varie chiese fossero indegni di predi-  care la croce di Cristo. Paolo stesso, nella lettera  scritta da Roma ai Filippesi, così parla di alcuni, che  si erano aggregati alla nuova fede: « Molti dei fra-  telli nel Signore, rassicurati per i miei legami, hanno  preso vie maggiore ardire di proporre la parola di  Dio senza paura. Vero è che ve ne sono alcuni che  predicano Cristo anche per invidia e per contesa,  ma pure anche altri che lo predicano per buona af-  fezione. Quelli certo annunziano Cristo per contesa,  non puramente, pensando aggiungere afflizione ai  miei legami; ma questi lo fanno per carità, sapendo  ch'io son posto per la difesa dell' evangelo ». A quante  interpretazioni han dato luogo queste parole! Eppure  a dichiarazione di esse mi pare che possano servire  quelle che Paolo aggiunge poco dopo: « Siate miei  imitatori, o fratelli, e considerate coloro che cammi-  nano cosi.... Perciocché molti camminano, dei quali  molte volte vi ho detto, e ancora al presente vi dico  piangendo, che sono i nemici della croce di Cristo; il  cui fine è perdizione, il cui Dio è il ventre, la cui  gloria è nella confusione loro; i quali hanno il pen-  siero e l'affetto nelle cose terrene. Noi viviamo nei  cieli, come nella città nostra, onde ancora aspettiamo  il Salvatore ». '"E più giù: « La vostra mansuetudine     *'■' Tali parole scritte ai Filippesi liHiiiio riscontro con quelle  della lettera ai Romani (16, 18-18j. « lo vi esorto, fratelli, che  vi guardiate da coloro che commettono dissensi e scandali, con-  tro la dottrina che avete imparato e vi ritragghiate da essi.  Perciocché essi non servono al nostro Signore Gesù Cristo, ma  al proprio ventre, e con dolce e lusinghevole parlare seducono  il cuore dei semplici ». Dunque quelli che « non servono a Dio,  ma al proprio ventre », non si trovavano solo a Filippi, ma an-  che a Roma. Ingiusto è quindi l'appunto mossomi dal sig. Fr.  Cauer, in Beri, philol. Wock. 1901, pag. 1520. Sulla recensione  del Cauer v. anche App. II, nota 1. Circa le varie questioni ri-  guardanti la lettera ai Filippesi, e propriamente la sua genui-     138 l' incendio di roma e i primi cristiani     sia nota a tutti gii uomini, il Signore è vicino. Non  siate con ansietà solleciti di cosa alcuna ». "" Il Signore  è vicino! Dunque, egli dice, siate mansueti, e cioè non  vi abbandonate a moti incomposti, aspettate con  calma e fiducia. Il seme gettato aveva fruttificato do-  vunque ; era seme di amore e fruttificò la rivolta. Ed  in Roma quali erano coloro che predicavano Cristo per  invidia e contesa? Erano quelli che avevano l'animo  alle cose terrene, che avevano invidia dei beni al-  trui, e prorompevano in contese e sommosse: questi,  sì, aggiungevano afflizione ai legami di Paolo. Egli  infatti doveva essere giudicato da Cesare e aveva  tutto l'interesse che non apparisse perturbatrice dello  Stato la sua dottrina; sul puro campo religioso l'as-  soluzione era sicura, giacche Roma in religione non  conobbe mai l' intolleranza. La nascente chiesa cri-  stiana era già fin d' allora scissa in fazioni. AH' in-  fuori delle dispute dommatiche che tanto travaglia-  rono a Paolo la nobile vita, era vivo nel primitivo  cristianesimo il dissenso tra quelli che cercavano in-  culcare l'aspettazione fidente della divina giustizia,  e quelli che volgevano le nuove dottrine a scopi di  immediate rivendicazioni materiali. Dagli scrittori mo-  derni è stato ampiamente studiato in che cosa consi-     nità e l'unicità della sua composizione, v. gli autori citati presso  Clemen, Proleqom. z. Chron. der Paulinischen Briefe, Halle,  1892, pag. 37-39.   -'^ Qualche scrittore ha accennato che tutti questi passi si  riferiscano a scismi e divisioni interne della nascente Chiesa,  per questioni di dogmi e di gerarchia. Quale relazione abbiano  il dogma e la gerarchia col ve>itre, di cui parla Paolo, col pen-  siero e V affetto volto ai beni terreni, non so vedere. Che se poi  invece si vuol parlare di scismi e divisioni riguardanti vera-  mente l'attaccamento ai beni terreni, si vuol supporre cioè che  avessero assunto il nome di Cristiani, uomini avidi ed invidiosi  dei beni altrui, allora siamo pienamente d'accordo; ed io posso  anche nutrire non vana speranza che i miei contraddittori siano  per venire nell' avviso mio.     l'iNCKNDIO di roma e 1 PRIMI CRISTIANI 139     stessero i dissensi dommatici; ma non per questo dob-  biamo noi credere che solo ad essi si riducessero le  divisioni della prima chiesa. Anzi, chi ben guardi, a  riprovare il partito delle rivendicazioni sociali si tro-  vavan concordi pur quelli che nel dogma eran dissen-  zienti; e se da una parte Paolo protesta esservi nella  Chiesa alcuni che sono nemici della croce di Cristo,  perchè il loro Dio è il ventre, il loro affetto è alle cose  terrene, Pietro parla a lungo di quelli tra i Cristiani  che sono schiavi di lor lascivia, che come animali senza  ragione vanno dietro all' impeto della natura, desti-  nati a perire nella loro corruzione, essi che reputano  tutto il loro piacere consistere nelle giornaliere de-  lizie, e non restano giammai di peccare, adescando le  anime deboli, ed avendo il cuore esercitato all' avarizia  (II Petrij 2). E, come Paolo, anche Pietro, nella P'' epi-  stola (la cui attribuzione è sicura) esorta i Cristiani alla  soggezione verso le autorità terrene, i sovrani e i go-  vernatori, e a ritenerli come inviati da Dio stesso, per  punire i malfattori e premiare quelli che fanno bene  (I, 2, 13-14). L'esortazione prova appunto che tra i Cri-  stiani fosse una fazione turbolenta (cfr. I. Tim. 6, 3-4).  È dato pensare col Eénan {Saint Paul, p. 475) a quelle  sette cristiane che negavano la legittimità dell' im-  posta, che predicavano la rivolta contro l' impero, e  identificavano anzi l' impero al regno di Satana. La  maggior parte della prima chiesa sarà stata di per-  sone invase dall'amor del bene e da fraterna carità; ma  la turbolenza fremeva in quella massa disforme, e la  parola apostolica mal giungeva a frenarla. Or qui è da  richiamare quel che abbiam sopra visto, riferito da  Suetonio, che cioè sotto Claudio i Cristiani tumul-  tuassero e fossero espulsi da Roma. Anche quel passo  è stato soggetto a tante interpretazioni! Pure a con-  ferma della nostra, basta rammentare il passo di Tacito  [Ann. XV, 44) « quella perniciosa superstizione soffo-     140 l' incendio di roma e I PRIMI CBISTIAKI   cata per il momento, prorompeva di nuovo », il quale  passo ci lascia anche comprendere che più d' uno do-  vettero essere i tentativi di soffocare il cristianesimo  nascente. -' Perchè soffocarlo, se non fosse stata in esso  una fazione rivoluzionaria? In Roma tutti i culti vi-  vevano alla luce del sole. '" E che tal fazione avesse in  Roma il Cristianesimo, si deduce dalia lettera stessa  di Paolo ai Romani. Vi s' industria in ogni maniera di  incutere il rispetto all' autorità, tenta perfino di far  credere divina la potestà terrena: « Ogni persona sia  sottoposta alle potestà superiori, perciocché non vi è  potestà se non da Dio ; e le potestà che sono, sono da  Dio ordinate. Talché chi resiste alla podestà, resiste  all'ordine di Dio, e quelli che vi resistono riceveranno  giudizio sopra di loro » ecc. (7?o?»., 13). Indi pure si  spiega perchè ai cristiani si facesse accusa di professare  l'odio del genere umano. Tacito anzi dice che 1' accusa  fu provata (Ann.. XV, 44) odio humanis generis conoictì  sunt ^'' Si è tentato d' interpretare il passo, adducendo     -' Pih d" uno, ho detto.^Le parole di Tacito sono : Auctor  nominis eius Christus, Tiberio iviperitante, jyer procuratorem P.  Pilatum sujypiicio adfectus fuerat; represscique in praesens exi-  tiabilis superstitio rursum erumpebnt. Se Tacito avesse voluto  dire che la repressione fu una sola, avrebbe detto eruperat;  invece eruinpebat è imperfetto iteratiro, in relazione con quel-  V in praesens. E il significato è: « ogni volta che era repressa  erompeva di nuovo ».   2- I provvedimenti repressivi presi in Roma contro certi  culti e cerimonie fui-ono determinati da ragioni di moralità e di  quiete pubblica ; cfr. Aubé, Histoìre des pemécutionfs, I, pag. 77 ;  De Marchi, Rendiconti Istituto Lomb. Giugno 1900; Ferrini,  Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, Mi-  lano, 1901, pag. 345 segg. Se il Cristianesimo avesse avuto un  solo carattere religioso sarebbe stato tollerato, come era tol-  lerato anzi qualche volta (Joseph. Ant. jud., XVI, 6, 2), anche  favorito il giudaismo, che pur pretendeva all'esclusiva verità  del suo unico Dio, e pure aveva contrario il sentimento pubblico   2^ Di simili accuse parlano spesso più tardi gli apologisti,  v. Tertulliano, Apol. 37 ; hostes maluistis rocare generis humani;  e tutto il cap. 35; sicché a me sembra vano il tentativo d'in-     I.' INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI 141   la rinuncia, che i cristiani professavano, ai beni e ai  piaceri della vita. Vani sforzi! Il mondo classico aveva  visto in tal genere le aberrazioni estreme della scuola  cinica, la quale tuttora vigeva (A)tn., XVI, 34); ed aveva  ancora, fiorente nel suo seno, l'ideale della virtù stoica.  Gli è elle ogni rivendicazione di una classe sociale  contro l'altra, diventa necessariamente lotta e quindi  odio di classe. Strana sorte! Cristo e i suoi apostoli  insegnavano 1' amore; gettata la loro parola nelle mol-  titudini, era seme che fruttava 1' odio umano.     Fra quelle turbe, inasprite da secolari dolori, avide  della agognata riscossa, passò la figura dolce e confor-  tatrice di Paolo. Persegui tenacemente e con fervore  divino, l'opera sua; diresse con la mansuetudine quei  cuori tempestosi, convertì quanti più potè tra i Preto-  riani ed i servi di Nerone (Ai Filipp., I, 13; IV, '22).  Finito poi, con l'assoluzione, il processo a suo carico,  non è certo che egli sia rimasto in Roma (63 dopo Cr.). '"'  L' ajino seguente, proruppe l'incendio.   Il Signore è vicino ! aveva annunziato Paolo, e  tutta la letteratura evangelica contiene questo grido  angoscioso di aspettazione : « Io vi dico in verità che  alcuni di quelli che sono qui presenti, non proveranno  la morte, primachè non abbiano veduto il Figliuolo  dell' uomo venire nel suo regno ». — « Io vi dico che     terpretare : « d' essere odiati dal genere umano ». Come può es-  sere per alcuno un capo di accusa l'odio alti-ui? E si poteva  asserir seriamente che tutto il genere umano si unisse ad odiare  quella Chiesa segreta ed ignota? E ad ogni modo quando pur  si volesse sforzare la frase sino a tal senso, ci si guadagne-  rebbe ben poco.   •' V. però su tutta la cronologia di Paolo, Harnack A., Die  Chronologie des altchristlichen Litteratur, 1, 231-243.     142 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI     questa generazione non perirà, prima che tutto questo  avvenga. Cielo e terra periranno, ma non periranno le  mie parole ». Così concordemente gli evangeli di Mat-  teo, di Marco e di Luca. E la lettera di Jacopo : « Siate  pazienti, fortificate i cuori vostri, la venuta del Signore  è vicina ». E la lettera agli Ebrei : « Ancora un breve  tempo e colui che deve venire, verrà e non tarderà ».  E Paolo stesso ai Romani : « La notte è avanzata, e il  giorno è vicino ». È noto che il dogma posteriore spostò  indefinitamente la speranza di questo avvento divino :  ma i cristiani di allora l'aspettavano per la loro ge-  nerazione. Paolo nella prima ai Tessalonicesi così dice:  « Noi viventi siamo riserbati sino alla venuta del Si-  gnore ». E gli oppressi, i conculcati, i disprezzati, si  estasiavano al prossimo adempimento della dolce pro-  messa. Ma quando, quando tornerà il liberatore, a sol-  levare gli umili, a punire gli empi ? « Quando avrete  veduto l'abbominio della desolazione, detta dal profeta   Daniele, posta dove non si conviene » rispondevano   gli evangelii {Marc, 13). « In quei giorni vi sarà affli-  zione tale, qual mai non fu dal principio della creazione  delle cose finora, ed anche mai non sarà! E se il Si-  gnore non avesse abbreviati quei giorni, ninna carne  scamperebbe ; ma per gli eletti suoi, il Signore li ha   abbreviati Allora se alcuno vi dice: Ecco qua Cristo,   ovvero: Eccolo là, noi crediate Ma in quei giorni,   dopo quell'afflizione, il sole oscurerà, la luna non darà  più il suo splendore. E le stelle dal cielo cadranno, e  le potenze nei cieli saranno scrollate. E allora gii uo-  mini vedranno il Figliuolo dell'uomo venir dalle nuvole,  con gran potenza e gloria». Così l'idea del prossimo ri-  torno di Cristo era congiunta con quella della fine del  mondo, cui doveva far seguito la rinnovazione delle  cose, e la rigenerata umanità. Cristo stesso indicando  i superbi palagi di Gerusalemme aveva detto : « Vedi  tu questi grandi edifici ? Ei non sarà lasciata pietra     l/ INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI 143     sopra pietra». E Griovanni aveva annunziato :.« Fi-  gliuoli è l'ultima ora », (I Giov.^ '2, 18), e Pietro : « È  prossima la fine delle cose ». È prossima? ma non era  r età di Nerone 1' abbominio della desolazione di cui  aveva parlato il profeta ? ^° E non aveva promesso il  Signore, che sarebbero brevi quei giorni, perchè altri-  menti niuno si salverebbe ? E dopo la distruzione, il  rinnovamento : dopo le ingiustizie secolari, 1' egua-  glianza e la pace ! E il recente convertito trovava nel  fondo oscuro della sua coscienza le reliquie del pagane-  simo, che vi persistevano tenaci : dunque, pensava, lo  stoicismo non s'ingannava, e pure attraverso il mondo  nostro era penetrato un raggio del vero: era penetrato  per gli oracoli delle Sibille, per le predizioni etrusche,  per le dottrine degli stoici : tutti annunziavano la fine  delle cose e la novella progenie umana; tutti annun-  ziavano il prossimo regno del Sole, cioè del fuoco, che  rigenererebbe l' universo, e Vergilio stesso lo aveva  cantato {Ed., IV, 10). Ma sopratutto lo stoicismo pareva  dare a queste anime turbate il cupo consiglio, lo stoi-  cismo, che essi sostanzialmente non distinguevano dal  Cristianesimo per il suo contenuto morale, e che come  contenuto sociale aveva le stesse aspettazioni di rinno-  vamento umano. Or lo stoicismo predicava l'ecp^ros/V,  combustione cosmica, come fine del mondo, e prin-  cipio della nuova era umana.   Per alcuni stoici questa combustione cosmica do-     -'"' Nerone era veramente per i cristiani l'Anticristo, la be-  stia nera {-o OY,piov lo chiama V Apocalisse), l'uomo del peccato,  il figliuolo della perdizione, di cui parla la II di Paolo ai Tessa-  lonicesi (2, 3). Il suo regno era dunque annunzio dell' imminente  regno di Dio (v. la citata lettera di Paolo, cap. II); cfr. Renan,  S. Paul, 252 e sogg. L' àvOpiD-o; T-r,v àv&[j.[a; è personificazione  della potenza mondana, che deve rivelarsi con impeto prima  della fine del mondo; cfr. Ferrar, The Life and Work of St. Paul,  1890, pag. 728 seg. — Sulla genuinità della Seconda ai Tessa-  lonicesi, V. Weizsàcker, Zeilschr. f. iciss. TlievL, 1890, pag. 249;  Briickner, Chronol. Reihenfolge, pag. 263 segg.     144 l' INCKNDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI   veva essere preceduta dal diluvio, secondo l'idea antica  di Eraclito (v. il framm. presso Clemente, Strom. V, 599).  Tale è pure l' idea di Seneca, nel quale è così ardente  il desiderio di rinnovamento, che alcune parole di lui  sembrano uscite dalla bocca di un apostolo [Nat. Qw., Ili,  28-30). Anch' egli cupamente anìiunzia : « Non tarderà  molto la distruzione ! »   E come il vecchio Eraclito, e dietro di Ini le scuole  stoiche, simboleggiando nel fuoco l'anima divina del-  l' universo, aveva detto (presso Ippolito IX, 10) : « il  fuoco tutto assalendo giudicherà ed invaderà », così nel  dogma cristiano si assegnò all'incendio del mondo l'uf-  ficio di purificazione e giudizio finale. Gli antichi pro-  feti d'Israele erano t\itti pieni di fremiti sdegnosi, di  ansiose aspettazioni dell' ora punitrice. Neil' anima di  Isaia pare accogliersi tutta la protesta dei miseri, l'onta  per la dominazione assira, l'odio per chi procurava la  rovina al popolo. Egli scatta e minaccia : « Voi sarete  come una quercia di cui son cascate le foglie, come un  giardino senz' acqua. Il forte diventerà stoppa, l'opera  sua favilla; l'una e l'altra saranno arse insieme: non  vi sarà niuno che spenga il fuoco » (I, 30-31). Questi  fremiti sdegnosi si risentiranno più tardi nell'Apoca-  lisse cristiana. E l'idea della combustione del mondo  fu pur congiunta, nel dogma cristiano, a quella del se-  condo avvento di Cristo : « I cieli e la terra del tempo  presente per la medesima parola son riposti, giac-  ché sono riserbati al fuoco, nel giorno del giudizio e  della perdizione degli empi. Or quest'unica cosa non  vi sia celata, diletti, che per il Signore un giorno è  come mille anni, e mille anni come un giorno. Il Si-  gnore non ritarda, come alcuni reputano, la sua promessa,  anzi è paziente verso di noi, non volendo che alcuni pe-  riscano, ma che tutti vengano a penitenza. E il giorno  del Signore verrà come un ladro di notte ; in quello i  cieli passeranno rapidamente, gli elementi divampati     1.' INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI 145     si dissolveranno ; la terra e le opere che sono in essa  , saranno arse. Poiché tutte queste cose hanno da dis-  solversi, quali vi conviene essere in sante conversazioni  e pietà, aspettando e affrettandovi all' av venirti ento del  giorno di Dio, nel quale i cieli infuocati si dissolve-  ranno, gli elementi infiammati si distruggeranno ! (Così  la così detta II Petri, 7-12. V. anche Cai-m. sibyll. IV,  172 e segg. ; VII, 118 e segg.). — E certamente, questi  apostoli della dottrina avranno fatto ogni sforzo per  provare che il fuoco era divino, non umano, e per esor-  tare alla calma e all'aspettazione fidente di Dio. Questo  risulta dalle parole che abbiamo citato, anzi risulta da  tutta intera la letteratura apostolica, che è piena di  consigli miti. Ma risulta altresì l'impazienza di alcuni.  Gettate una dottrina come questa, dell'imminente fuoco,  punitore di tutti i gaudenti della terra, in mezzo ad  una turba di schiavi, di gladiatori, di oppressi; e voi  vedrete a tale annunzio in diversa guisa manifestarsi  r animo di ognuno, altri raccogliersi nelle trepidanze  angosciose, altri, i più violenti, i tristi per natura,  correre a sfogare le ultime agognate vendette. Rotti i  vincoli e i freni umani, erompe l'animo dei tristi a sod-  disfare con facile ardire le passioni prima represse o  celate. Le vendette, le violenze e il saccheggio sono le  forme consuete cui irrompono, in tal condizione di spi-  riti, le turbe forsennate. Altri forse, illusi o fanatici,  avranno creduto trovare giustificazione nella stessa jia-  rola divina. Cristo stesso aveva detto : « io sono venuto  a portare il fuoco sopra la terra » (Luca, 12), Essi cre-  devano essere gli esecutori della divina vendetta, essi  dovevano iniziare l'opera redentrice. Le masse esaltate  dal fanatismo sprezzano i consigli della moderazione  e della calma. Fermentano allora in quelle coscienze  commosse tutte le ire e tutti i rancori ; perduti ritegni  e timori umani e divini, gli animi si spingono ad ogni  eccesso.   e Pasotil. ' 10     14r; l' incendio di roma K 1 TRIMI CRISTIANI     lu quale altra comunità romana in quel tempo po-  tevano essere così vivaci gl'impulsi all'atto forsennato?  Certo, anche gii Ebrei auguravano a Roma stermioio;  ma non aspettavano fiamme vendicatrici per la loro  generazione ; nella Corte di Nerone erano bene accetti;  in lui non vedevano l'Anticristo, il mostro, l'uomo del  peccato, annunzio del prossimo regno di Dio. Solo  dunque 1' ultimo strato sociale, cui si era portata la  parola dell' eguaglianza e dell'amore, poteva erompere  all' opera distruttrice. QuelT ultimo strato sociale era  abbeverato di odio contro tutto 1' ordine presente. Gli  apostoli davano bensì consigli di obbedienza ai loro  padroni; ma dalle loro stesse parole risulta che alcuni  andavan predicando dottrine ben diverse. Si ascolti  Paolo a Timoteo (IV, 1-5): « Tutti i servi che sono  sotto il giogo reputino i loro signori degni di ogni  onore, perchè non sieno bestemmiati il nome di Dio  e la dottrina. E quelli che hanno signori fedeli non  manchino ai proprii doveri verso di essi, perchè son  fratelli; anzi molto più li servano, perchè son fedeli  diletti e che partecipano del benefiziG^. Insegna queste  cose ed inculcale. /Se alcuno insegna/ diversa dottrina, e  non si attiene alle sane parole del signore Gesù Cristo, e  alla dottrina che è secondo pietà, esso si gonfia senza saper  nulla, vaneggiando tra dispute e logomachie, onde sorgono  odi, contese, bestemmie, tristi sospyetti, conjiitti di uomini  viziati di mente e alieni dal vero, che credono la pietà  abbia ad essere un guadagno ». Come scruta addentro  nelle latebre dell'anima lo sguardo profondo di Paolo!  L' amore universale, che egli aveva annunziato diven-  tava naturalmente per il popolo pretesa di rivendica-  zione : la pietà diventava guadagno. E non pure v' erano  quelli che agitavano la questione dello scuotere il giogo  secolare, come indubbiamente risulta dalle parole or  citate di Paolo; ma contro tutta la compagine e l'orga-  nizzazione sociale e l' imjjero stesso si appuntavano gli     l' incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 147     odii loro. Anzi nel primitivo dogma era che allora av-  verrebbe l' incendio del mondo e quindi il regno della  giustizia, (luaiido avvenisse la fine dell' impero. Certo, in  tale forma noi troviamo più tardi il dogma in Tertul-  liano. « Noi preghiamo, egli dice {Apolog. 32), per 1' im-  pero e per lo stato romano, noi i quali ben sappiamo  che la massima rovina che sovrasta all'universo intero,  il chiudersi dell' èra nostra, che ci minaccia orrende  sciagure, di tanto sarà ritardata di quanto si prolun-  gherà il romano impero » (così pure nel liher ad Sca-  p ulani, cap. II).   Qui 1' appressarsi del fato estremo è cagione di  trepidanza, come nel mille; nell'epoca neroniana era  aspettata con fervore di desiderio e si accusava Dio  della ritardata promessa {11 Petri, 3, 9). Molti passi  della letteratura apostolica attestano il fermento degli  spiriti e la loro desiosa aspettazione dell'ora finale.  A più eccitarli si facevano perfino correre false apo-  calissi [li Tessal. 2, 2). Si spiega quindi come solo  all' epoca neroniana, potè erompere l' impazienza al-  l' atto forsennato. — E che anche nell'epoca neroniana  si unissero i due concetti della fine del mondo e della  fine dell' impero, si deduce da quel che sopra abbia-  mo visto, che il regno di Dio doveva esser preceduto  dal regno del mostro (11 Tessal. 2, 3-12); il mostro era  Nerone.   Se dunque la distruzione dell' impero, rauuienta-  raento dell'Anticristo era il principio della divina giu-  stizia, si richiederà, credo, una volontà ben salda per  negare ancora che questi poveri fanatici, forse indotti  da eccitamenti malvagi, abbiali voluto farla finita con  r impero e con Roma. 11 fuoco, il fuoco devastatore  avrebbe posto fine all'abbominio e rigenerata l'umanità  neir innocenza. Come la potenza della luce era prece-  duta da quella delle tenebre, e il regno di Dio da quello  del mostro, cosi il fuoco divino doveva esser preceduto     148 !>' INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI     dal fuoco umano, che avrebbe annientata la sede stessa  dell' impero. ■"     Ed ora, dopo aver esaminato quali passioni fre-  mevano nel cuore, quali dottrine esaltavano le menti  di una parte di questa comunità cristiana, torniamo  alla narrazione dell'incendio. Di tante centinaia di sol-  dati e servi incendiari, è possibile che nessuno fosse  riconosciuto ? Non è possibile, che anzi si sapeva che  erano i servi del cubicolo imperiese e i soldati del pre-  torio. E quando furono riconosciuti ed arrestati, perchè  non avrebbero addotto 1' ordine di Nerone ? E Nerone  si sarebbe messo, dinanzi al popolo, allo sbaraglio di  questa terribile prova ? Invece i primi arrestati con-  fessarono. « S' iniziò il processo primamente, dice Ta-  cito {Ann. XV, 44), contro i rei confessi ; dipoi mol-  tissimi altri, per denunzia di essi, non furono tanto  convinti di avere appiccato il fuoco, quanto di odiare  il genere umano » ^' (o secondo altri : di essere odiati !).     •^' Non come prova, ma come elemento di fatto che può avere  relazione col nostro argomento, crediamo far menzione di una  curiosa scoperta fatta nel 1862 a Pompei. Sopra una muraglia,  tracciate col carbone, si scopersero alcune lettere. Il Kiessling  {Bull. Ist. corr. ardi. 1862, pag. 92) che primo, col Miuervini e  col Fiorelli vide il documento, credette poter leggere ignì gavdb  CHRISTIANE. Le lettere al contatto dell' aria si dileguarono. Due  anni dopo il De Rossi non ne vide più nulla e dovette conten-  tarsi di un fac-simile tracciato dal Minervini. Sul fac-simile  credette dover leggere : avdi cukistianos ; e con altri residui  di lettere sparsi qua e là per le muraglie, tentò tutta una ri-  costruzione, a dir vero un po' romantica, contro la quale qual-  che buona osservazione fece i' Aubé, lILst. des pers. I, pag. 418.   •'■ Nell'interpretazione di questo passo troppe volte la pas-  sione ha fatto velo all'intelligenza. Riportiamo tutto il passo,  ed esaminiamo le singole espressioni, avvalendoci, in parte,  delle prove già apportate da H. Schiller, in Commentationes  in honorem Th. Mommseni, pag. 41 e segg., per quanto noi non  vogliamo giungere alle esagerate sue conclusioni.     l'incendio di roma e I PKim CRISTIANI 149   La reità dunque fu provata solo in parte per la prima  accusa ; j)er tutti fu provata la seconda accusa, quella     « Ergo, aholrndo rumori Nero subdidit reos et quaesitift-  simis poenis affecit quos per flagitia invisos, vulgus christianos  appellabat. Auctor noìinnis e'ms Christus, ecc. Igitur primiim.  correpti qui fatebantur ; deinde indicio eorum mnltitudo ingens,  haud perinde in crimine incenda quam odio humani generis  convicti sunt ».   Il subdidit reos si vori-ebbe spiegare « sostituì al vero col-  pevole i falsi ». Rimandiamo, per il valore della frase, all' app.  Ili di qnesto studio. Passiamo al primum correpti qui fate-  bantur. Corripere denota l' inizio della procedura penale : cfr.  Ann. II, 28; III, 49, 66; IV, 19, 66; VI, 40; XII, 42. Se la pro-  cedura penale fu iniziata, dovè iniziarsi per il delitto di cui si  tratta, il crimen incenda ; non potè essere per una causa di  religione, che del resto si sarebbe dovuto svolgere dinanzi al  Senato (cfr. Tac. Ann. II, 85; Suet. Tib. .86 : Dione LX, 6; Suet.  Claudio, 25). Nerone era scelleratissimo, ma non era sciocco ;  e una sciocchezza sarebbe stato accusare per il delitto d' in-  cendio, e fare un processo di religione. Pretendere che Nerone  abbia fatto questo, significa supporre senza prove che egli ab-  bia introdotto nella legislazione penale un delitto nuovo ; e ciò  proprio all'indomani dell'assoluzione di Paolo, il quale aveva  potuto per due anni predicare Cristo con ogni franchezza e  senza divieto {Atti upost. 28, 31). « Furono dunque prima-  mente processati d'incendio quelli che via via confessavano ».  Confessavano che cosa ? Quando fatevi o confiteri sono adope-  rati assolutamente in relazione a un processo significano: «di-  chiararsi reo di quello per cui si è accusati » ; cfr. Ili, 67 ; XI,  1 ; XI, 35 ; Cic. : Mil. 15 ; Lig. 10. Si vuole invece supplire se  Christianos esse. Ma per tal significato il verbo di Tacito sa-  rebbe stato profiteri; cfr. Ilist, III, 51; III, 54; IV, 10; IV,  40. Ann. I, 81 ; II, 10, 42. K dovendo giudicare dell' incendio  era assurdo il chiedere la confessione di altra colpa, dì cui era  competente a decidere solo il Senato. Altra colpa ? Si può pro-  prio seriamente affermare che si ritenesse allora dai Romani  colpa il professare una religione qualsiasi ? In ogni altro caso,  trattandosi di una accusa determinata, quella dell' incendio, a  niuno mai sarebbe venuto in mente che la confessione degli  accusati potesse intendersi di altro che di incendio; e il pre  sentare tale ipotesi sarebbe parsa tale enormità, qual sarebbe  quella ad esempio di colui che nel passo di Cicerone, Mil. 15  « ni,si vidisset posse absolvi eum. qui fateretur » volesse inten-  dere il fateretur in un significato diverso da quello di « essere  reo confesso di omicidio ». Ma la passione spiega qualsiasi  aberrazione. — Segue indicio eorum. Indicium è la denuncia se-     150 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI     più generica. E cioè : i primi, gli esecutori materiali,  confessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum):     greta o la rivelazione fatta da accusati o da colpevoli contro al-  tri colpevoli (Ann. VI, 3; XI, 35; XIII, 21; XIV, 44; XV, 51, 54,  55, 73). E poiché l'accusa qui è delV incendio, anche indicium si  riferisce a tale accusa. Nella lettera di Plinio, X, 96 1' accusa è  invece deire.<fser cristiani; e index quindi (§6) significa « denun-  ziatore dei Cristiani » e per questo anche nella medesima lettera  cuìifitentes vale « quelli che si confessavano cristiani » : l'accusa  era proprio questa! — Si è obiettato che i Cristiani non pote-  vano denunziare i loro fratelli. Il che può significare che questi  non erano veri Cristiani, che erano povero volgo ignai-o, aggre-  gatosi al partito delle novità per ispirito di rivolta; ma non  ci potrà indurre a sostituire una interpretazione falsa ad una  vera. Anche i Cristiani di Bitinia, interrogati da Plinio, non  potevano maledire Cristo, sconfessare la fede e venerare l'im-  magine di Traiano ; eppure « omnes et imaginem. tiiam deorum-  que mnulacra venerati suni et Christo male dixenmt » (Plinio  7?p., X, 96, 6). — Segue : « haud, jìprinde in crimine incenda  quam odio Immani generis convicti sunt*. Haud perinde quam,  {haud proinde quam), non perinde quam significano : « non  tanto..., quanto » ; cfr. Ann., VI, 46; XV, 37; XV, 42. La se-  conda cosa si afferma dunque in proporzioni maggiori della  prima, ma tutte e due si affermano. E cioè, nel caso nostro,  la prova della partecipazione all' incendio si ebbe solo per al-  cuni ; tutti furono provati rei {convicti sunt) deW odio Immani  generis. Provati rei, da chi? mi si è detto. Dai ministri di Ne-  rone. Non è questo il significato del convicti sunt, che non de-  nota la dichiarazione di reità fatta da un giudice, bensi la  prova inconfutabile e che non può essere disconosciuta dallo  stesso accusato. Qualcuno ha suggerito invece del convicti co-  niuncti del Mediceo. Il coniuncti è stato forse indotto ilal co-  pista a cagione di quell' in crimine, che pareva non convenirsi  alla costruzione del convicti. E ad ogni modo non potrebbe si-  gnificare se non: « furono congiunti non tanto nell'accusa d'in-  cendio quanto.... ». Il che tornerebbe a quel che dico io, indi-  cherebbe cioè che 1' accusa di incendio non fu abbandonata :  ma poiché non tutti furono trovati colpevoli d' incendio, furono  tutti coinvolti nell'accusa di odio contro il genere umano. —  Debbo pure avvertire che le parole di Tacito [im) : miseratio  oriebatur, tamquam non utilitate pnblica sed in saevifiam unius  absumerentur non significano già che Tacito credesse inno-  centi i Cristiani, e non sono quindi in contraddizione con tutto  ciò che precede Tacito non dice nam,.... absumebantur ; dice:  < nasceva compassione nel popolo quasiché {tamquam) i Cri-  stiani si facessero perire non per utilità pubblica, ma per sod-     l' incendio di roma e 1 PRIMI CRISTIANI 151     allora non si volle sapere altro, si fece l'arresto in  massa dei cristiani, e ninno di essi smenti la sua fede;  solo questi ultimi- dichiararono non aver preso parte  all'incendio, come i primi; ma era lo stesso, erano tutti  rei di queir odio umano che aveva armato le mani di  fiaccole : furono tutti condannati.   Come si vede. Tacito prese questi particolari da  una terza fonte, e credette doverli registrare come fatti  accertati, pure cercando di smorzare le tinte e adope-  rare espressioni un poco oscure, per non nuocere all'in-  tento suo di gettare qualche sospetto su Nerone.   Il che si rivela pure dalle parole seguenti : « na-  sceva compassione (per i Cristiani condannati ai suppli-     disfare la crudeltà di un solo », il che si riferisce alle voci che  correvano nel popolo accusafcrici di Nerone. Quando il popolo  vide tra i condannati i servi di Nerone e i soldati del pretorio,  non potè non sospettare che essi avessero agito per ordine del-  l' Imperatore. Tacito parla dei Cristiani come colpevoli, o con-  vinti o confessi, ma distinguendo evidentemente gli esecutori  materiali da colui che poteva aver dato 1' ordine, riferisce non  senza qualche compiacimento le voci popolari accusatrici di  Nerone. Cosi in Ann., XV, 67 gli fa volgere da Subrio Flavio  l'accusa di incendiai'iìis. In principio, egli presenta due sole  ipotesi : forte an dolo principis, parole alle quali si è attri-  buito il senso che Tacito stesso escludesse ogni sospetto a ri-  guardo dei Cristiani. Ciò non è esatto. Bisogna distinguere gli  esecutori materiali da colui che poteva aver dato l' ordine.  Quanto ai primi egli non ha alcun dubbio, poiché li chiama  sontes et novissima exempla meì'itos, parole che mal s' inten-  derebbero, se non si riferissero ad un determinato ed unico  delitto. Quanto al secondo, egli esprime la convinzione che  1' ordine partisse da Nerone. Convinzione che egli derivò forse  dalle Storie Cimlt di Plinio, e che ebbe del resto origine dal  fatto che tra gli esecutori materiali furono veramente gli schiavi  di Nerone : ma appunto tra questi schiavi erano numerosi i  cristiani. Tacito riferisce pur l'ipotesi del caso: ma la sua nar-  razione esclude l'ipotesi.   Non altrimenti, ad esempio, ei dichiara non potersi incol-  pare Tiberio per la morte di Druso, eppur getta su lui anche  per questo qualche ombra. Non vuol pronunziarsi se Agricola  sia morto di veleno per opera di Domiziano, ed ogni tanto  l' insinua.     152 l'incendio di roma e i primi cristiani   zii), benché si trattasse di uomini colpevoli e meritevoli  di ogni più inaudita pena esemplare ».   Ma perchè avrebbero confessato i primi cristiani?  Perchè avrebbero denunciato i compagni ?   E qui, oltre che può tornare in campo la ragione  già detta del necessario riconoscimento di alcuni, si può  volgere la mente anche ad altro.   Neil' ardore del fanatismo, essi avranno creduto  immediato il miracolo. Iddio, Iddio ora tornerebbe,  egli che aveva promesso di tornare dopo la desola-  zione estrema : non finirebbe la loro vita prima che  Iddio tornasse. E confessavano, gloriosi, e denuncia-  vano, per far partecipi alla gloria. " Immaginate que-  sti esaltati a spiegare l'opera loro, la fede loro : l'egua-  glianza dei diritti umani voluta da Dio, la distruzione  di tutto, necessaria per 1' avvento suo. I Romani pri-  mamente allora s' accorsero che quella fede aveva un  contenuto sociale, ed era un pericolo per lo Stato. E  la qualificarono dottrina di odio contro il genere  umano. Era invece la rivendicazione degli oppressi  e degli schiavi : ma questi con erano uomini.   Ma c'è ancora di più: anche dopo, i cristiani non  cessarono di sperare ancora quelle fiamme vendicatrici,  e di auspicarne il ritorno. Alcuni anni dopo, il bagliore  sinistro di quelle fiamme accende la fantasia allo scrit-  tore deìV Apocalisse. Si riconosce oramai da tutti, anche  dagli scrittori cattolici, che in questa, sotto il nome di  Babilonia, si cela quello di Roma, Ora ascoltate il grido  di maledizione e di vendetta su Roma, baccanale di     -^ Ripugna il pensiero che i livori delle fazioni nella na-  scente chiesa, quei livori dei quali abbiamo visto muovere la-  gnanza Paolo, li spingessero alle reciproche accuse. Clemente  Rom. (ad Cor., I, 3, 5, 6) dice che le sciagure dei Cristiani  furono effetto della gelosia (St^/ Cr,)vOv). Anche l'Arnold, Die  neronische Christenverfolgung, Leipz. 1888, pag. 69 e 114 crede  che le denunzie contro i Cristiani sieno state fatte da Cristiani  dissidenti.     l' incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 153   Ogni turpitudine, che scaglia il profeta dell' Apocalisse :  « Poi udii un' altra voce che diceva : uscite da essa, o  popolo, mio, acciocché non siate partecipi dei suoi pec-  cati, e non riceviate delle sue piaghe. I suoi peccati  sono giunti l'uno dietro all'altro insiuo al cielo, e Iddio  si è ricordato delle sue iniquità. Rendetele il cambio  di quello che essa vi ha fatto ; anzi rendetele secondo  le sue opere, al doppio : nella coppa nella quale ella  ha mesciuto a voi, mescetele il doppio. Quanto ella si  è glorificata ed. ha lu.<suriato, tanto datele tormento e  cordoglio : perciocché ella dice nel cuor suo : io seggo  regina e non sono vedova, e non vedrò giaminai duolo.  Perciò in uno stesso giorno verranno le sue piaghe ;  morte e cordoglio e fame : e sarà arsa col fuoco ; per-  ciocché possente è il Signore Iddio, il quale la giudi-  cherà. E i re della terra, i quali fornicavano e lussu-  riavano con lei, la piangeranno, o faranno cordoglio di  lei, quando vedranno il fumo del suo incendio ».... e così  di seguito, per tutto il capitolo XVIII, che è un sol  fremito di protesta, un sol grido di vendetta contro la  meretrice « ebbra del sangue dei santi e del sangue dei  martiri di Gesù ». E nel capitolo seguente si pregusta  con voluttà frenetica la gioia della sua rovina; « Allel-  luia! la salute e la potenza e la gloria e 1' onore al Si-  gnore Iddio nostro. Perciocché veraci e giusti sono i  suoi giudizii ; e infatti egli ha giudicato la gran me-  retrice che ha corrotto la terra con la sua fornicazione,  e ha vendicato il sangue dei servi suoi, dalla mano di  lei.... Alleluia! e il, fumo di essa sale nei secoli dei  secoli ».   Come si vede, appena pochi anni dopo l'incendio,  si tornava ai folli eccitamenti. Ed il sogno di Roma  divenuta preda alle fiamme turbò anche in seguito le  menti cristiane. In quella strana e lugubre miscela di  fantasie giudaico-cristiane, non senza qualche elemento  pagano, che é conosciuta sotto il nome di « Oracoli si-     154 l' incendio di roma e i primi cristiani   billini » esso ritorna con cupa insistenza: VII, 113-114;  Vili, 37-47; XII, 32-40. « Verrà dall'alto anche su te,  superba Roma, la celeste sciagura : tu piegherai prima  la cervice, tu sarai distrutta, il fuoco ti consumerà tutta,  piegata sulle fondamenta; la tua ricchezza perirà; il tuo  suolo sarà occupato dai lupi e dalle volpi; sarai allora  tutta deserta, come se giammai fossi stata. Dove sarà  allora il tuo Palladio ? Qual Dio ti salverà ? Un Dio  d'oro, di pietra o di bronzo? Dove saranno allora i  decreti del tuo Senato? Dove quelli di Rea o di Crono?  E la schiatta di Giove e di tutti gli Dei che tu ado-  ravi?... (VIII, 37 e segg.). Per quanto la punizione qui  sia immaginata come celeste, non è possibile non sen-  tirvi la voce di una umana vendetta. « Quando potrò  io vedere tal giorno? » dice poco dopo (v. 151) il poeta.  E pure il più antico dei poeti latini cristiani, il pio  Commodiano, ha il medesimo voto {i'arm. ap. 923).  Dov'è più la dottrina della mansuetudine e del per-  dono? La disposizione d'animo dei primi cristiani era  ben altra. Il loro grido di vendetta sembra, come si  vede dagli esempii apportati, quasi echeggiare pure in  tempi più lontani. « A noi basterebbe, dice Tertulliauo  {Apol. 37), se volessimo vendicarci, una sola notte e  qualche fiaccola ». E poi tosto soggiunge: « Ma non  sia che con umano fuoco si vendichi la divina setta». ""     Infine, notiamo che attribuendo a queste prime  turbe cristiane, fanatiche ed avide delle loro rivendi-     -^ Non vorrei che tali parole venissero tratte da critici  benigni a peggior sentenza eh' io non tenni. Nelle parole di  Tertulliano echeggia un grido di vendetta, cui tosto segue un  consiglio di moderazione, non di perdono. La vendetta, la pu-  nizione si aspetta ancora, si aspetta dal fuoco divino. Che cosa  sia questo fuoco divino, spiegano a lungo gli apologisti, ad-     l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 155   cazioni, l' incendio, le particolarità di esso si spiegano  tutte, che invece abbiamo mostrato inesplicabili, se-  condo la tradizione comune. Anzi dalle notizie che ab-  biamo, ci è dato discernere perfino il piano della scia-  gurata impresa. Anzitutto, si proiittò della lontananza  di Nerone da Roma; la vigilanza era allora diminuita;  i principali cittadini, le cui case erano sacrate al fuoco  devastatore, avevano seguito la corte imperiale. Tra i  pretoriani ed i servi di Cesare erano numerosi i cri-  stiani (Paolo, Ai FilijJ. I; 13 e IV, 22) : si stabilì che  fossero questi ad appiccare 1' incendio e ad impedire  l'estinzione: così tutti avrebbero creduto trattarsi di  ordini imperiali e ninno avrebbe osato opporsi. Ri-  chiesti perchè scagliassero le faci, risponderebbero che  agivano per istigazione altrui, senza dir di chi (Tac:  esse sihi mictorem vociferahantur); tutti avrebbero inter-  pretato che essi avevano il comando da Cesare e il  divieto di nominarlo. Tutti i portici, le passeggiate, le  opere d'arte, che avevano allietatogli czii dei potenti,  i templi ove si adoravano gì' idoli della corruzione e  della menzogna, tutti andrebbero distrutti. Il Tra--te-  vere, ove era stata primamente accolta l' idea reden-  trice, le case dell' umile plebe, sarebbero salve. Si  comincerebbe dai magazzini di materie infiammabili  presso il Palatino : la prima a bruciare sarebbe la  casa del mostro. Questo fu il piano attuato e riuscito.  Finito il primo incendio, si doveva riappiccare l'in-  cendio alla casa del secondo mostro dell'impero, il mi-  nistro delle turpitudini imperiali, Tigellino. E di là  nuovamente proruppero le fiamme devastatrici.   Per questi fanatici illusi, Nerone, nel parossismo  della ferocia, escogitò incredibili tormenti. Li fé' ero-     ducendo i fulmini e i vulcani (Miuucio, 35; Tertul. Apol. 48):  ina la distinzione sarà stata fatta sempre, o meglio ancora,  sarà stata fatta mai dalle infime turbe ?     156 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI     cifiggere, o sbranare dai cani, o dannare alle fiamme.  Grli orti suoi furono illuminati da quelle fiaccole umane,  in mezzo alle grida selvagge della turba briaca e plau-  dente. Ma da quelle fiaccole spirò più gagliardo il soffio  della idea cristiana. D' allora in poi quella idea, inocu-  lata nel sangue della umanità, ne resse le sorti. Tutta  la trama della storia umana si svolse intorno ad essa.  Quella idea fu gloria e bassezza, eroismo e viltà, amore  e ferocia. Per essa quanto altro sangue fu sparso, quante  altre volte le turbe furono trascinate ad impeti forsen-  nati! Pure, una volta, tornò a risuonare tra gli uomini  la parola buona, ed aleggiò sugli spiriti l'amore, e sor-  rise alle genti affaticate la pietà del Francescano. Quella  volta Cristo re^nò sulla terra.     \^^^-f;A.^(45'^l)^A^è(5^^^4^A'%,.^     APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE.     APPENDICE I.   Di una nuova fonte per l' incendio neroniano.   {l>:i\V Atene e Roma, iiuiirgio 1901).     « Ludis quos prò aeternitate imperii susceptos appel-  lavi Maxiinos voluìt ex utroqiie ordine et sexit plerique  ludicras partes sustinuerunt. Nntissimus eques romanus  elephanto supersedens per catadromum decucurrit. Inducta  est et Afranii togata qiiae Incendium inscribitur: conces-  sumque ut scenici ardentis domus suppellectilem diriperentj  ac sihi haberent. Sparsa et popido missilla omnium rerum  per omnes dies ; singida (/uot/die millia avium cuiusque ge-  neris^ multiplex 2)(^nus^ tesstrae frmnentarlae^ vestis, auruvi,  argentum, gemmae, mn.rgaritae. tabulae pictae^ mancipia,  iumenta, atque etiam maìistietae ferae; novissime naves, in-  sulae, agri.   Hos ludos spectavit e proscenii fastigio ».   Così Snetonio in Nero^ XI-XII. In quale occa-  sione celebrò Nerone questi ludi Maximiì Suetouio in  questa parte dell' opera sua enumera disordinatamente  gli spettacoli dati da Nerone. Quello qui accennato è  stato identificato con quello di cui fa menzione Cassio  Dione, o meglio il suo compendi atore Xifilino, in LXI,  17 e 18. La somiglianza infatti è grande: i nobili ro-     158 APPENDICI ALLO STUDIO PRKCKDENTE.   mani che si prestarono a far da attori e giocatori,  1' elefante funambolo che portava sul dorso un uomo;  i doni gettati al popolo. Di più Cassio Dione ram-  menta le commedie e tragedie rappresentate. Chiama  la festa |j.£7'.atT| 7.7.1 TtrAnizlzozc/.rq: ma l'unione dei due  aggettivi parmi che mostri che [j.sYiatYj è una semplice  qualifica data dall' autore alla festa, non è il nome  proprio di essa, e non risponde perciò al Maximos di  Suetonio. Così pure gli altri punti di simiglianza noii  souo co^i caratteristici clie ci facciano concludere alla  identità delle due feste. Elefanti camminanti sulla fune  {per catadromum) si vedevano in tali feste (cfr. Siiet.  Galb. 0) ; senatori e cavalieri lottanti nell' arena se ne  videro spesso sotto Nerone (cfr. Suet. Kero^ 12); dona-  zioni al popolo Nerone ne fece immense, ne fece, se-  condo Tacito {Hist. I, 20) per più di due miliardi di  sesterzi. Se dunque le somiglianze sono grandi, non  sono tali che ci obblighino a credere all' identità tra  i giuochi rammentati nel passo di Suetonio e quelli  rammentati nel passo di Dione. '   Il passo di Dione parla di festività celebrate in  onore della madre. Corrispondono queste ai circensi,  rammentati da Tacito, in Ann. XIV, 14. E possibile che  a tali circensi alluda Suetonio nelle parole immediata-  mente precedenti a quelle da noi riportate: circensihus  loca equitl secreta a ceteris trihuit ; di essi infatti dice  Tacito che furono liaud promiscuo speciacido. — Noi cre-  diamo che il passo di Suetonio riguardi i ludi celebrati  dopo V incendio 1 e cioè, probabilmente, celebrati dopo     ' È pur da notare che Cassio Dione (LXI, 21) parlando  dei giuoclii detti Neronéi, li dice istituiti da Nerone per la in-  columità e diuturnità del suo regno. Ma probabilmente confonde  tali giuochi con quelli prò aeternitate impern, secondocliè già  da gran tempo fu riconosciuto (Pauly, lì. Encycì. s. v. Nero,  V, 580). I giuochi Neronéi furono gare quinquennali di arte e  di foiza, istituite sul modello dei giuochi greci; cfr. Tac. Ann.  XVI, 20-21; Suetonio, Nero, 12 e 21.     APPKNDICK I. 150     che Roma era stata già in gran parte riedificata, per  propiziarla agli dei. Saetonio dice che Nerone volle si  chiamassero ludi maximi, e cioè, parmi, volle sostituire  al positivo magni il superlativo maxìmi. Ora i ludi  magni si celebravano in occasione di grandi [jericoli,  da cui Roma fosse salva; in occasione cioè di guerre  rischiose (Liv. 36, 2) o di tumulti (Liv. 4, 27). Si po-  trebbe pensare che 1' adulazione avesse suggerito tale  idea, adulazione a Nerone, che si diceva scampato  dalle trame di Agrippina. Ma i ludi, menzionati da  Suetonio, furono 2^'''^ aeternitate imperii; e mi par che  questo ci porti ben lontano dall' ipotesi che si volesse  alludere al preteso pericolo, da cui Nerone era scam-  pato; e i ludi menzionati da Dione neppur furono per  lo scampato pericolo di Nerone, ma anzi furono in  onore della madre. Qual sarà dunque il fatto, durante  il regno di Nerone, che metta in dubbio l' esistenza  stessa dell' impero? Io credo che sia 1' incendio; e ciò  crederei pure, quando non fosse molto suggestiva  quella rappresentazione della togata di Afranio inti-  tolata Incendinm.   Che in questi ludi solenni, destinati ad auspicare,  dopo la riedificazione di Roma, l'eternità dell'impero,  sieno stati celebrati alcuni degli spettacoli che avevano  più stupito i Romani durante i giuochi circensi fatti  dopo la morte di Agri])pina, quale ad esempio quello  dell' elefante funambolo, non può, credo, far meraviglia  ad alcuno. Qualche altro indizio che andremo ora rac-  cogliendo conferma la nostra ipotesi circa l'occasione  e lo scopo di questi ludi maxìmi. Nerone, verista in  arte, volle riprodurre sul teatro la scena deli' incendio :  la casa rappresentata in mezzo alle fiamme (Suet. ar-  dentis domiis) era probabilmente la casa sua, la domus  transitoria che era bruciata (cfr. Tac. XV, 50 ardente  domo). Egli volle che la scena dell' incendio fosse in-  tera, che gli antori depredassero la casa e si tenessero     160 APPKNDICl ALLO STUDIO PRECEDENTE.   la preda: ut scenici ardentis doinus stopellectilem diripe-  I ì^eiit ac sihi habevent; cfr. Tao. Ann. XV, 38 ut raptus  licentiiis exercerent.     Se il carattere stesso dei ludi maximi deve con-  netterli con una grande pubblica calamità, se la rap-  presentazione dell' Incendium è così suggestiva per noi,  ci si consenta ora di fermarci brevemente su quel che  Suetonio dice, che i ludi furono sUscepti prò aeternitate  imiperii. Nella ricostruzione, che noi tentammo, del pro-  cesso, noi ponemmo che, dopo i primi confessi, arre-  stati in massa i Cristiani, quando s' indagò più adden-  tro la loro dottrina, e si seppe che essi aspettavano la  fine dell'impero e l'imminente regno di Dio, la dot-  trina stessa dovè essere qualificata « di odio contro il  genere umano ». Questa parte della propaganda era  stata certamente svolta solo nelle predicazioni segrete:  quindi il modo misterioso, e per noi incomprensibile,  con cui parla dell' Anticristo e del prossimo regno di  Dio Paolo ai Tessalonicesi, (II Tess. 2, 2 e segg.; cfr.  specialmente i n' 6 e 7). Fin da quando Caligola, con  sacrilega follia aveva voluto essere adorato come Dio,  era cominciato il fermento delle comunità cristiane che  vedevano nell' imperatore divinizzato l' immagine vera  dell'Anticristo, ed aspettavano quindi imminente la  fine dell' impero ed il trionfo loro. A calmare tale fer-  mento è appunto diretta quella parte della lettera di  Paolo. E la dottrina sopravvisse pure all' eccidio; giac-  che ancora in Tertulliano {Apolog. 32; Ad Scap. cap. Il)  coincidono i due termini; la fine dell'impero e l'inizio  del nuovo regno nel mondo. Se tal dottrina sentivano  spiegare da quei fanatici i Romani, è naturale che la  qualificassero dottrina di odio contro il genere umano,  e cioè contro la civiltà romana, contro l' impero ro-     APPENDICE I. 161     mano, ' ed è pur naturale che, riedificata Roma, auspi-  cassero l'eternità dell'impero.   Mi si consenta un' altra osservazione. Non fra le  sole turbe impazienti e insoddisfatte era 1' aspettazione  della prossima fine dell' impero. Era altresì negli alti  gradi sociali, fra i filosofi, specialmente stoici, fra gli  aristocratici di antica tempra. La congiura pisoniana  mosse anzi, secondo Tacito, da questo principio:  (Ann. XV, 50) cium scelera princlpis et tìnem adesse  imperii deligendumque qui fessis rebus succurreret inter  se aut inter amicos iaciunt. Dopo tal congiura gran parte  della città doveva essere già riedificata; ed è naturale  quindi che allora si celebrassero i ludi maximi. E poiché  i due gravi avvenimenti ultimi avevan dato la prova di  tante volontà decise ad aspettar la fine dell'impero, era  naturale pure che all' eternità dell' impero si dedicas-  sero i ludi. Il racconto dei quali doveva quindi cadere  in una delle parti perdute di Tacito, dopo il cap. 35  del lib. XVI degli Annali.     Tutto questo, si dirà, è una ricostruzione ipote-  tica. Ma v' è pure un documento che può dare a tale  ricostruzione non lieve conferma, documento che, ben-     - Tac. Ann. XV, 44 odio Immani generis. Genus humanian  in Tacito ed in altri scrittori vfvle egli abitanti dell'impero»;  cfr. Coen, Persecuz. neron. pag. 69 dell' estr. — Un mio illustre  maestro, il prof. A. Ohiappelli {in Atti della R. Accademia di  Scienze Morali e Politiche di Napoli, voi. XXXIII) sostiene che  odiiim humani generis debba essere interpretato per « misan-  tropia». Che questo sia il significato della frase, quando sia  adoperato in senso filosofico, niuno nega. Ma il nostro caso è  diverso. La rinunzia ai piaceri, la vita ritirata e sdegnosa, la  misantropia insomma, o fosse cristiana, come forse per Pom-  ponia Grecina (Ami. XIII, 3'2), o fosse stoica, come per Rubellio  Plauto {Ann. XIV, 22), Trasea Peto {Ann. XVI, 22) e tanti altri,  desta l'ammirazione di Tacito, gli commuove di reverenza il  C. Pascal. 11     162 APPENDICI AIA.O STUDIO PRECEDENTE.     che non riguardi i ludi maccimi, riguarda però cerimo-  nie pur dedicate all' eternità dell' impero. Questo do-  cumento è un frammento degli Atti degli Arvali, che  si riferisce all'anno 66 d. Cr. [Corp. Inscr. Lat. VI, p. I,  pag. 491, n. '2044). Vi si notano i sagrifizii stabiliti  dagli Arvaii ob detecta nefariorum Consilia, e tra gli  altri quello aeternitati ìinperii (Un. 6). Così pure alla   linea 21: reddito sacrificio, quod fratves Arvcdes   voverant oh detecta nefariorum Consilia. Quali erano que-  sti nefariorum Consilia? Qu&Ui dei congiurati di Pisone,  giacché anch' essi, come abbiamo visto, aspettavano la  fine dell' impero; ma pure quelli degl' incendiarli; giac-  ché il nesso tra le cerimonie dedicate all' eternità del-  l' impero e l' incendio è stabilita dal fatto, che durante  quelle cerimonie si rappresentò la fabula Incendium. '  Né bisogna dimenticare un altro fatto. Riman-  gono gli Atti degli Arvali del regno di Nerone, dal-  l' anno 55 in poi (C. I. L. VI, n. 2037-2050); salvo  quelli dell' anno 64, l' anno dell' incendio, e del se-  guente. Ora gli Atti del 66 sono i primi nei quali alla  serie di tutti gli altri voti, fatti alle altre divinità si  aggiungono quelli all' Aeternitas imiMrii.     Claudite rivos. Spero di non occuparmi più né  dell' incendio né di Nerone. Non fu forse vana questa  lizza d' ingegni, che ebbe origine, su tale speciale que-     petto, non è da lui quaUficata fìagitmm, uon odium hìimoni  generis. Non si possono dunque spiegare né i fìagitia ne V odùim  con ia misantropia. Neil' un caso e nell'altro deve trattarsi,  credo io, di ben altro.   > È qui importante il notare che per Nerone sono distinti i  vota prò aeternìtate imperii dai vota prò salute principis, che sono  menzionati altrove (C. I. L. VI, parte I, pag. 493, lin. 2, 3 e 8:  Tac. Ann. XVI, 22; Suet. NerOy 46). Per Domisciano invece le ce-     APPENDICE I. IGB     stione, dal romanzo del Sienkiewiecz ; lizza nella quale  spiegarono armi poderose di critica e di dottrina uo-  mini quali il Negri, il Coen, il Ramorino, il Chiap-  pelli, il Semeria, il Boissier; né dovrò tacere i lavori,  cosi corretti nella forma polemica, del Mapelli, del-  l' Abbatescianni e del Profumo; ne quello, per più  rispetti notevole, del Ferrara. * Impulsi non nobili e  ambizioncelle presuntuosette e piccine trassero altri,  impreparati, a scritture o invereconde o insensate, ^  ma in una questione siffatta, nella quale sembra esser  così facile l' erudizione, era naturale aspettarselo.     rimonie si congiunsero (C /. L. VI, 2064, pag. 510, lin. 3y segg.;  2065, pag. 512, lin. 9; 2067, pag. 520, lin. 40). Cosi pure per Set-  timio Severo (C /. L. II, 259). V. De Ruggiero, Diz. epigraf. I,  pag. 320. A Domiziano dunque allude Plinio il Giovane quando  dice a Traiano {Fanegyr. 67): Nuncupare vota et prò aetei'nitate  impeni et prò salute civium, immo prò salute principum ac  pì'oj)ter illos prò aetermtate imperii solebamus. Haec prò impe-  rio nostro in qiiae sint verba suscepta, ojjerae pretium est adno-  tare : si bene rem ]}ublicavi , et ex utilitate omnium  rexeris: digna vota quae semper suscìpiantur semperque sol-  vantur. Diversa naturalnjente àdiW aeternitas imperii è V aeter-  nitas Augusta, titolo che prima fu attribuito solo agli Augusti  morti e consacrati (Boutkowski, Dici, num., pag. 804, n' 1544,  1546), e poi anche agli Augusti viventi; cfr. Eckhel, Doctr.  num. VII, pag. 181. Aeternitas imperii non si trova, ch'io sap-  pia, prima di Nerone, anzi prima dell'anno 66. Si trova poi più  tardi, per Domiziano. Settimio Severo, sulle monete di Caracalla,  di Geta, ecc.: cfr. Eckhel, VII, 202, 228, 238.   ^ Non lavori speciali, ma riassunti o giudizii pubblicarono  il Vaglieri, il Borsari, A. Avancini, D. Avancini, il Ricci (Corrado),  il Thomas, il Toatain, il Martinazzoli, il Dufourcq, il Grasso, il  Fabia, il Bouvier, il Reville, 1' Andresen, ed altri moltissimi.   ^ Molti altri articoli ed opuscoli sbocciarono qua e là in  confutazione del mio: nella maggior parte il fervore dell'in-  tenzione non corrispose al valore. Chi ne vorrà sapere qualche  cosa, potrà leggere i miei articoli in Vox Urbis, III. 24; e IV  nn. 1 e 2 ; in Cultura, anno XIX, u. 13, e n. 15, e in Bollett.  Filai, class, febbr. 1901. Ma, pur dopo, gli scritti continuarono;  e vi fu perfino chi nascondendosi sotto il nome di Vindex pub-  blicò un impudente volume. Fortunatamente si tratta di cosa  destituita di ogni valore ; e disdice quindi alla dignità della  scienza farne parola.     164 APPKNDICI ALLO STUDIO PIIECICDENTE,   APPENDICE IL   Osservazioni  sopra (lue stiuìii riguardauti 1' fnrpiulio di Roma.     Il prof. Achille Coen pubblicò ììbìV Atene e Roma  (Anno III, 1900) un lungo studio sulla persecuzione  neroniana. Crediamo opportuno informare i lettori  della parte che riguarda le obbiezioni mosse alla mia  tesi; e fare infine qualche breve osservazione circa  l'ipotesi presentata dal chiaro Autore.   Che l'una o l'altra delle opinioni che io mi provai  ad avvalorare di argomenti nel mio opuscolo: L' in-  cendio di Roma e i primi Cristiani fosse stata già addotta  da altri, è cosa rimproveratami da più d'uno. Ma, a dir  vero, i lettori del mio opuscolo debbono riconoscere  che io esamino e discuto le sole fonti antiche, da cia-  scuna delle quali cerco trarre qualche elemento, che  mi giovi poi a ricostituire in una concezione unica il  fatto storico. Il fare una rassegna, sia pur fugace, delle  opinioni e interpretazioni moderne su ciascun passo,  mi pareva lavoro arido, lungo e pressoché vano, e per  giunta, di necessità monco e incompiuto (ad es., il Coen  stesso non fa menzione dello Cliirac, che va molto al  di là dell' Havet, Rev. Socialiste, Agosto 1S97).   Fondamento principale alla mia tesi io posi nella  credenza diffusa tra i cristiani del primo secolo, che  fosse imminente l'incendio del mondo decretato da  Dio, che dopo tale incendio verrebbe il regno della  giustizia, che la distruzione del mondo presente coin-  ciderebbe con la distruzione dell' impero romano. Tutta  la letteratura apostolica mostra l'impazienza di al-     APPliXDICK il. IfìÓ   cune fazioni cristiane nell' aspettare il regno divino.  Se c'è ipotesi che esca alla luce fornita di tutti i nu-  meri delia probabilità, panni proprio questa, che tale  impazienza abbia trascinato le turbe al fanatismo. Di  tutto ciò non fanno quasi parola i miei contraddit-  tori. Xel citare le antiche scritture cristiane, nelle  quali tali dottrine sono contenute, io non ho preteso  che proprio quelle i Cristiani di Roma leggessero. Ho  addotto quei passi per dichiarare qual fosse il dogma  dei Cristiani del j^rimo secolo, dogma che sarà stato  spiegato principalmente mediante la predicazione orale,  come del lesfco il Coen stesso riconosce (p. 302).   Altra obbiezione mi muove il chiaro autore: onde  io sappia che, prima del 64, Nerone fosse per i Cri-  stiani r Anticristo. La seconda di Paolo ai Tessaloni-  cesi, egli argomenta, è scritta, secondo la data più  discreta, nel primo anno dell' impero di Nerone, o an-  che prima; dunque i contemporanei non potevano ve-  dere allusione a lui nelle parole dell'Apostolo. — Se-  nonchè nel mio opuscolo io non sostengo che contro  l'imperatore coìne persona si appuntassero gli odii di  alcune fazioni cristiane; bensì come imperatore e ado-  rato con divini onori (II Tessal. 2, 4). L'imperatore  rappresentava 1' ordine costituito, che era per quelle  fazioni il regno di Satana; come Roma rappresentava  la forza e la potenza centrale di tal regno.   Che ninno degli scrittori pagani (all' infuori di  Tacito Ann, fslV, 44) parli dei Cristiani come colpe-  voli dell'incendio, malgrado tutte le accuse volte con-  tro di essi in seguito, io spiegai con l'ipotesi che  r accusa contro Nerone nascesse tra i Pagani stessi,  al vedere tra gì' incendiarli i servi di lui. Il Coen mi  obietta: « Non consta che l'opinione la quale faceva  Nerone autore dell' incendio sia invalsa in maniera  così definitiva da far cadere in oblìo ogni altra ver-  sione ». Consta anzi, egli dice, il contrario, se cin-     166 APPENDICI ALLO STUDIO PREGKUENTK.     quant' anni dopo Tacito pone ancora l'ipotesi del caso.  Che r opinione prevalesse in modo definitivo, solo  dopo molti anni, credo probabile; ciò non è infirmato  dall' accenno che Tacito fa al caso. Tutta la narra-  zione che egli fa esclude 1' ipotesi del caso. Tacito  però 1' ha registrata, perchè, com' egli dice, 1' ha tro-  vata in una delle sue fonti. — Ma nessuna fonte po-  teva contenere tale versione, obietta ancora il Coen,  se fosse vera la ricostruzione eh' io faccio degli av-  venimenti. Perchè nessuna f Una fonte trascurata o  non informata di tutti i particolari narrati da Tacito,^  Suetonio e Dione. — Ed ora, il numero dei primi Cri-  stiani in Roma. Tacito, Clemente Romano e l'Apo-  calisse affermano che erano una gran moltitudine o nu-  mero. I primi due, si dice, hanno esagerato; quanta  all' Apocalisse si elevano dubbii di natura diversa.  Esagerato? E perchè? Perchè altra volta Tacito esa-  gera. E sarà vero; ma qual prova v' è che abbia esa-  gerato questa volta ì E perchè avrebbe esagerato anche  Clemente Romano? Sia lecito del resto rammentare  che Paolo (^h* Filii). 1, 14), dice dei cristiani di Roma:  « MOLTI dei fratelli nel Signore » e concludere quindi  ancora una volta che ad infirmare 1' autorità di tali  fonti non ?;'è una sola prova di fatto.   Quanto ai Jìagitia, posso dispensarmi per ora dal  discutere i singoli passi, se l'Autore stesso dichiara  (p. 317) « flagitium contiene ordinariamente il duplice  concetto di azione turpe e colpevole ad* un tempo y.  Non sarà dunque errata nell' uso italiano la parola  delitto. E che nei due paesi di Tacito (XV, 44) e di  Plinio (X, 96) si tratti di veri e propri delitti, io con-  fermo per la seguente ragione: che nell'uno seguono  le parole: « colpevoli e meritevoli di ogni maggior pena »,  e nell' altro i flagitia son da mettere in relazione con  gli scelera, dei quali Plinio parla dopo (v. qui appr.  App. IH).     APPKNDICE II. 167     Circa al fatebaiitur, io aspetterò dai miei contrad-  dittori la prova, che esso, detto a proposito di uà pro-  cesso, possa significare altro che la confessione di un  reato. Per ora, rimangono le prove opposte, apportate  nella mia nota 27.     Mi sia lecito ora fare qualche breve motto, an-  che sull'ultima parte dell'articolo del prof. Coen (n. 23,  Nov. 1900). Questa parte tende a ricercare la ragione,  per la quale gli occhi di Nerone si appuntarono sui  Cristiani. L'indicazione gli sarebbe dunque venuta  non dagli Ebrei, ma dal popolo stesso, che vedeva i  Cristiani rifiutarsi alle cerimonie propiziatorie, e con-  cepì su di essi il tristo sospetto. Con ciò 1' A., nella  sua cauta riserva, rinunzia ad esprimere il suo avviso  sugli autori veri dell' incendio. Lascia cioè sussistere  ancora le due ipotesi: o il caso o l'ordine di Nerone.  Io oso credere tuttora, che 1' una ipotesi e 1' altra non  resistano all'esame di tutti i particolari dell'incendio,  tramandatici dagli scrittori. Tale esame mi sono ado-  perato a fare nel mio opuscolo; né credo sarebbe op-  portuno ripeterlo qui. Mi basti solo accennare: per at-  tribuire l'incendio o al caso o a Nerone bisognerebbe  ritener falsi tutti i fatti narratici dagli antichi: che  1' ipotesi del caso non ispiega come mai vi fossero sca-  gliatori notturni di faci; e l'ipotesi dell'ordine nero-  uiano non ispiega (a tacer di altre ragioni minori)  come mai l' incendio prorompesse proprio accanto al  palazzo imperiale; e come mai, quando Nerone tornò  a Roma, e cercò arrestare il fuoco, e prese tutti i  provvedimenti atti a lenire il disastro, le fiamme di  nuovo si rinnovassero dagli orti di Tigellino, il se-  condo mostro dell' impero. Nuovo ordine anche questo?  Tutto si può supporre; ma si può proprio credere che     168 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE.   si sarebbero fatte abbruciare le regioni più belle e  più nobili di Roma, lasciando intatto il lurido Tra-  stevere, il ceutro della comunità giudaica e cristiana?  Si può proprio credere che un uomo, dopo sei giorni  d' incendio, mentre con tutte le sue forze si adopera  a dar ric^to e pane alla plebe furibonda, possa ci-  mentarsi, in mezzo alla disperazione del popolo, a rin-  novare un ordine simile? Un uomo vile, e che dinanzi  all' ira popolare fuggiva tremebondo, come Nerone?  Le due ipotesi quindi, il caso e 1' ordine di Nerone,  non possono, a mio parere, sussistere. Tacito le enun-  cia, ma perchè utriimque auctores prodidere; ma la nar-  razione stessa che egli fa, esclude 1' una ipotesi e l'al-  tra. Egli evidentemente distingue gli esecutori matericdi  dell' incendio, da colui che poteva aver dato 1' ordine;  che i primi fossero i Cristiani non ha alcun dubbio,  giacché parla di essi come confessi; solo è in dubbio  chi fosse qiieìV auctor che essi dicevano averli incitati;  e riferisce la voce popolare che 1' auctor fosse Nerone.  E perciò appunto alla fine del cap. 44 aggiunge che  i Cristiani benché colpevoli, e meritevoli delle mag-  giori pene, muovevano a pietà, quasiché perissero non  pel pubblico bene, ma per la soddisfazione della cru-  deltà di un solo (in saevitiam unius), e cioè per averne  eseguito gli ordini crudeli, secondochè mi pare che si  debba interpretare questo passo.     Ad ogni modo, l'ipotesi che il Coen oppone alla  mia, che cioè l'indicazione dei Cristiani venisse fatta  a Nerone dal popolo, sdegnato che essi si negassero di  partecipare alle cerimonie di espiazione, non urta, se  ben veggo, contro l' ipotesi mia. Per qualunque ragione  tale indicazione sia stata fatta, quel che importa è di     APPENDICE li, 169     vedere se 1' indicazione fu giusta o no. Io penso pur  sempre che l' indicazione fu fatta per il necessario ri-  conoscimento di molti. Non è jjossibile che non fossero  riconosciuti, giacche anzi si sapeva che erano stati i  pretoriani ed i servi di Nerone. Li dovettero, ad esem-  pio, riconoscere quegli uomini consolari, i quali, come  riferisce Suetonio, li sorpresero nei loro fondi ad ap-  piccar l'incendio; e certamente anche molti altri. Ri-  conosciuti, fu giuocoforza che essi confessassero, e che  quindi contro di loro s'iniziasse il processo (Tac. car-  repti qui fatebantur). E logico il supporre che nel fu-  rore di repressione che invase gli animi a tale scoperta  non si badasse più che tanto; non si distinguessero i  Cristiani innocenti dai colpevoli, i calmi e pii dai fa-  natici e dagli esaltati; è logico, perchè è umano; e in  ogni repressione violenta avviene sempre cosi; si sup-  ponga dunque pure che, oltre al necessario riconosci-  mento di alcuni veri colpevoli, e alle denunzie di que-  sti, molte indicazioni di Cristiani venissero fatte per la  ragione supposta dal Coen; che cosa proverebbe ciò  contro l' ipotesi mia?   Senonchè la congettura del Coen si fonda sopra  un presupposto, a proposito del quale pur mi tocca la  mala ventura di non trovarmi d' accordo con lui. Su  questo presupposto, cioè, che in momenti di furore, il  popolo potesse aver tanta calma da ragionare così:  gli ebrei sono nel loro diritto, di non partecipare alle  nostre funzioni; i gentili noi sono. Sarebbero stati,  credo io, ebrei e cristiani coinvolti insieme nella me-  desima accusa; né i Cristiani erano allora considerati  altrimenti che come fazione dei giudei.     Esce fuori dei limiti della mia ricerca la seducente  congettuì-a del Coen, sulle Banaidi menzionate da Cle-     170 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE.     mente Romano, e sulla probabile relazione che è tra  il passo di Clemente {ad Cor. I, 6) e il passo di Tacito:  « profittata lurio per matronas^ prhnum in Capitolio, deinde  apud proximum mare, vnde hausta aqua temphim et simu-  lacrum deae perspersiìm est ». Poiché le cerimonie qui  descritte sono, come il Coen ben nota (pag. 347-348),  singolari, mi piace richiamare a proposito di quella lu-  strazione apud proximum mare, alcuni versi oraziani:   « Vel nos in inare proximum  Gemmas et lapides aurum et inutile,  Summi materiem mali,  Mittamus, scelerum si bene paenitet ».   {Carm. Ili, 24, 47-50).   La cerimonia apud proximum mare era adunque  rituale per espiazione di delitti?     Anche Gaston Boissier ha voluto volgere al no-  stro argomento la sagacia del suo ingegno; e gli stu-  diosi saran certo grati al grande scrittore ed erudito  francese dello studio pubblicato nel Journal des Savants,  Mars 1902, Dopo una esposizione sommaria della que-  stione e della tesi da me sostenuta, il Boissier così  dice (pag. 161): « Assurément, tout cela n'est pas im-  possible: quelques insensés, quelques anarchistes se  seraient glissés parmi les premiers disciples du Maitre,  qu'il n'en faudrait pas étre trop surpris, ni en l'en-  dre le christianisme responsable. Remarquons pour-  tant qua la société paienne n'avait pas encore mani-  feste sa baine implacable pour les chrétiens, et n'ayant  pas eu encore l'occasion de leur étre trop sevère, leur  devait étre moins odieuse. C est plus tard, quand'ils  furent poursuivis sans miséricorde qu'on rn'> s' éton-  nerait de trouver chez eux des fanatiques capables de     APPENDICE li. 171     tous les excés. Or, nous voyons qn'à ce moment; méme,  où ils sont si durement traités par l'autorifcè et par  le peuple, ils se vantent d'étre des sujets soumis, ir-  reprochables, d'accepter Jes persécutions sans ré volte,  de prier pour les princes qui les envoient au supplice,  et de ne répondre que par le bien au mal qu'on leur  faisait: il serait dono assez surprenant qu'ils eussent  mis le feu à Rome lorsqa'ils avaient moins à se venger  d'elle ». Se non m'inganno, questo che il Boissier ha  notato, è il corso fatale di ogni setta, è la condizione  stessa del suo vivere. Ogni setta cioè comincia per es-  sere rivoluzionaria, e, messa allo sbaraglio delle dure  prove, delle persecuzioni, dei tentativi di soppressione  di ogni sorta, va perdendo a poco a poco il suo ca-  rattere di opposizione e d' intransigenza, cerca acco-  modarsi ai tempi, vivere nei suoi tempi, diventare,  come oggi si dice, legalitaria. È un processo naturale  ed umano: che meraviglia è che il vediamo riprodotta  qui nella storia del cristianesimo? Non vediamo noi  un fatto che a prima giunta può parere più straordi-  nario ancora : che cioè quando le persecuzioni cessa-  rono e il cristianesimo si fu affermato vittorioso, al-  lora appunto esso cominciò più tenacemente ad abbattere  istituzioni, monumenti, templi, cui gli editti imperiali  mal giungevano a salvare da quelle furie devastatrici?  Non potrebbe qui pure il Boissier domandarsi: perchè  abbattere tutto, se ormai non avevano più da odiare  o da temere nulla, essi, i vittoriosi? li vero è che du-  rante le repressioni violente non scattano gl'impeti  sovversivi; scattano prima, quando ogni furia sembra  ministra di giustizia contro un ordine di cose odiato;  scattano dopo, nell'irruenza dell'agognata vittoria: e  scattano nei più impulsivi e più fanatici, pur contro  i consigli di moderazione e di calma dei prudenti.   Il Boissier continua: « Tout ce qu'on peut dire c'est  que M. Pascal s'est fort habilement servi de son hj'^po-     172 APPENDICI Al>1.0 STUDIO PKECEDENTE.   thèse pour expliquer les iacidents dont il vient d'étre  question dans le récit de Suétone et de Tacite. Si l'on  crut recounaìtre, dans le gens qui jetaient sur les mai-  sons des étoupes eiiflamraées, des serviteurs de l'empe-  reur, c'est qu'en effet il y avait des chrétiens dans le  palais de Néron ; saint Paul nous le dit, et M. Pascal  pense que ce sout ceux-là qui ont allume l'inceudie.  Les consulaires, qui avaient l'occasion de les reucon-  Irer souvent au Palatin, ne s'y sont pas trompés et  l'on comprend que, saisis de frayeur à leur aspect,  et croyant qu'ils agissaient par l'ordre du prince, ils  les aient laissés faire. L'hypothèse est ingénieuse, mais  ce n'est qu'uue hypothèse; pour voir si elle est d'ac-  cord avec les faits, reprenons le récit de Tacite ». E  qui il Boissier si fa ad esaminare il famoso passo di  Tacito, di che è discorso nel nostro studio nella nota 27  e qui appresso in app. III. Egli riconferma la sua opi-  nione, già altre volte espressa, sopra il gran numero  dei cristiani di Roma; ed in ciò ho la fortuna di tro-  varmi d' accordo con lui. Ma tal fortuna non mi tocca  per 1' interpretazione del fatehantur tacitiano. Se il  processo era d' incendio, avevo detto io, la confessione  dei cristiani non può intendersi se non per il delitto  d'incendio. E il Boissier mi oppone (pag. 163): « La  nouvelle a dù s'en repandre partout; si elle était aussi  sùre, aussi evidente que le texte de Tacite, inter-  prete de cette manière, semble le dire, Néron avait  tout intérét àia propager; il est impossible qu'il n'ait  pas profité avec empressement de cet aveu, qu'il tra-  vaillait à obtenir, pour se giustifier lui-méme. Quel-  que détesté qu'il pùt étre, il u'j' avait pas moyen  qu'on persistàt à l'accuser d'un crime dont d'autres  se reconnaissaient les auteurs. Comment se fait-il donc  que Tacite, presque au moment méme où il nous rap-  porte cet aveu, ait pu dire qu'on ne sait s'il faut  attribuer l'incendie au hasard ou à la malveillance? Et     APPENDICE ir. 173     Suétone, si bien informe d'ordinaire, comment n'a-t-il  rien su de cette procedure, qui, pourtaiit, dufc étre ren-  due publique? Comment le peuple, qui perdait tout à  ce désasfcre, a-t-il été touché de pitie pcur des gens,  qui en étaient la cause et a-t-il crii qu'on les sacri-  fìait uniquement à la cruauté d'un homme? M. Coen  fait remarquer avec beaucoup de force qu'il est aussi  fort étrange que dans la suite, lorsqu'on poursuivait  avec tant d'acharnement les chrétiens et pour tant  de crimes imaginaires, aucune allusion n' ait été faite  à celui dont ils ne pouvaient pas se défendre puisqu'ils  l'avaient avoué ». Ora a ciascuna di queste ragioni le  risposte furono da me qua e là date: e mi converrà ri-  peterle ora, poiché quelle ragioni, messe cosi tutte in-  sieme in fila serrata, sembrano invitto manipolo. Nerone,  dice il Boissier, aveva il maggiore interesse a divulgare  la confessione. Certo, ed anzi appunto per questo forse  egli diede la maggiore pubblicità alle pene nefande! —  Secondo quesito: « se Tacito pone il dubbio che l'in-  cendio fosse dovuto al caso, come può parlare di rei  confessi d'incendio? » A mia volta domanderò: « se Ta-  cito pone il dubbio che l'incendio fosse dovuto al caso,  come può dire che vi erano coloro che impedivano ogni  tentativo d'estinzione, aggiungendo l'ipotesi che ciò  facessero per comando altrui? Gli è che Tacito non  sempre è conseguente (v. note 25 e 27 in f.); prende  da una fonte la ipotesi del caso, ma la sua narrazione  tutta esclude tale ipotesi. — Terzo quesito: « Suetonio,  sì bene informato, come non ha saputo niente di questo  processo, che pur dovette essere pubblico? » O chi dice  che non abbia saputo niente? Suetonio accusa Nerone  di avere ordinato l'incendio, non di averlo appiccato:  dice che gli esecutori materiali furono i servi di Ne-  rone; e del processo non fa menzione, forse appunto  perchè si trattava di uomini di infima condizione, che  egli supponeva esecutori di ordini imperiali. In altro     174 APPENDICI ALLO STUDIO PKECEDENTK.     luogo però pone tra le cose lodevoli del regno di Ne-  rone i supplizii inflitti ai Cristiani. — Quarto quesito:  come il popolo, che perdeva tanto, fu mosso da pietà  per questi uomini, e credette che essi fossero immolati  alla crudeltà di un solo? » Tacito dice che il popolo fu  mosso a pietà per l'inaudita crudeltà delle pene, « òeu-  chè si trattasse dì uomini colpevoli, e meritevoli delle lìing-  giori pene»; si può esser più chiari? ed aggiunge;  « come se essi fossero immolati non al bene pubblico,  ma alla crudeltà di un solo », di quel solo cioè, che,  secondo egli presume, aveva ad essi dato 1' ordine.   Erano poveri schiavi esecutori di ordini : erano  colpevoli, si, ma vittime della crudeltà di chi aveva  dato 1' ordine : questo il pensiero di Tacito. Ma come  potè spargersi la fama di quest' ordine dato da Ne-  rone ? A me non par difficile ravvisarlo. Dice Tacito,  che durante l' incendio, gì' incendiarli interrogati ri-  spondevano agir per ordine. Probabilmente lo stesso  risposero al processo, né discoprirono il loro tristo  consigliere. E poiché tra quelli colti in flagrante e  processati erano pure i servi di Nerone, l' ordine fu  interpretato da molti come ordine dell' imperatore. Si  potè credere che essi non volessero nominarlo per  paura di peggio, o jDerchè ne sperassero le ultime  grazie. Ad ogni modo , nato nel popolo il sospetto  della colpa di Nerone, non era possibile che si dile-  guasse : ne si dileguò. — Ultimo quesito : « ma come  mai, dopo, furono accusati i cristiani di tutti i delitti,  ma non di questo ?» È facile rispondere : i pagani  stessi accusarono Nerone; la persecuzione contro i cri-  stiani fu messa come cosa affatto indipendente dall'in-  cendio, e come tale è già in Suetouio ; chi più pensava  che il fanatismo religioso fosse stato impulso all'incen-  dio ? Il popolo aveva ormai formato la leggenda sua :  l'ordine dato da Nerone ai propri! servi, per loro stessa  confessione : chi distingueva tra quei servi i cristiani     APPENDICE II. 175     dai non cristiani? I due fatti, incendio e persecuzione,  furono interamente disgiunti ; e la leggenda di Nerone  incendiario tenne il campo incontrastato.     Il Boissier aggiunge due considerazioni d' indole  filologica (pag. 164). Affinchè la frase famosa di Ta-  cito correpti qui fatebanhir, avesse il significato eh' io  le attribuisco, egli crede che dovrebbe suonare cosi:  qui c07-repti erant confessi sunt. Ma coìtìjjìo non ha il  significato di « arrestare », bensì quello di « iniziare  il procedimento penale » ; cfr. nota 27 ; dunque cor-  ì-epti qui fatebantur ha precisamente il significato di:  « si processarono quelli che erano rei confessi, e cioè  di volta in volta che alcuno confessava, veniva sotto-  posto a processo ».* Egli aggiunge che nel significato  da me voluto, si sarebbe aspettato confiteri, non fatevi,  trattandosi di delitto, e cita Cicerone, Pro Caecina^ IX:  ita libenter confitelur ut non solum fatevi sed etiam projìtevi  videatur. Faccio osservare prima di tutto che, secondo  la ipotesi mia, i cristiani confessi non dovevano pen-  tirsi o vergognarsi di quel che avevano fatto ; e poi,  che, quando pure le norme dello stile ciceroniano po-  tessero valere per Tacito, questa che qui si j)one, non è  costante neppure per Cicerone: giacche Cicerone stesso  adoperava /aferi per la confessione di omicidio (Mil. 15).  Ma, aggiunge il Boissier, se Tacito avesse voluto dire     ' Il signor Fr. Cauer cosi sentenzia {Beri, philolog. Woch..  1901, pag. 1519): « Tacitus sagt : Die Gestàndigen wurden  verhattet, nicht: die zuerst Verhafteten waren gestilndig. Das  Gesttlndnis ging also der Verhaftung vorheri-. Ma covrepti  non designa la cattura, bensì il processo; ed è naturale clie la  confessione fosse anteriore al processo. - Bene dunque hanno  fatto il Gerber e il Greef nel loro Lexikon 2'aciteum, col sottin-  tendere al fatebantur del nostro passo .se incendisse urbeni.     176 APPENDICI ALI.O STUDIO PRECEDENTE.     che i priini cristiani si vantavano nel confessare l'in-  cendio, si sarebbe servito di yrofiteri. O donde mai que-  sta regola? Si vuole un esempio di Tacito in qwì fatevi^  denota un delitto confessato e di cui il colpevole si glo-  ria? Eccolo qui: Ann. XI, l: « praecipuum auctorem  Asiaticum interficiendi C. Caesaris non extimuisse in  contiene populi Romani fateri gloriamque facino-  ris ulfcro petere.   Infine circa il capo di accusa contro i Cristiani,  la conclusione cui giunge il Boissier è la seguente :  pag. 116 n.) « L'expression non tam in crimine incendii  qtiam odio generis Immani coniunctì siint (cosi egli legge),  semble bien indiquer qua l'accusation d'incendie ne fut  pas abandonnée, mais que, comme ou n'esperait guère  la faire accepter du public, on la dissimula suos celle  à^odium generis immani, qu'on étendit à tout le monde ».  Il che mi pare corrisponda all' opinione mia, che ho  scritto apj)Uuto: « i primi, gii esecutori materiali, con-  fessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum) :  allora non si volle sapere altro, si fece 1' arresto in  massa dei ci'istiani, e ninno di essi smentì la sua fede;  solo questi ultimi dichiararono non aver preso parte al-  l'incendio, come i primi; ma era lo stesso, erano tutti  rei di queir odio umano che aveva armato le mani di  fiaccole : furono tutti condannati ». — Ed aggiungerò  che la pena stessa del vivicomburio è un indizio che  l'accusa d'incendio rimase; giacché tal pena è ap-  punto quella che fino dal tempo delle XII Tavole era  comminata per gì' incendi dolosi (cfr. Ferrini, Espo-  sizione storica e dottrinale del diritto penale romano, 1901,  pag. 148).     APPENDICE 111. 177     APPENDICE III.     Osservazioni sul passo di Tacito  riguardante l'accusa contro i Cristiani.     SUL SIGNIFICATO  DI FLAGITIUM E DI SUBDERE IN TACITO.   (Uallfi Rivista di Filologia, Luglio 1901).     Una delle molte qne.stioni scaturite dalla tratta-  zione di una tési, che è stata in questi ultimi tempi  in vario senso discussa, e che tuttora è oggetto di di-  scussioni non poche, si è quella relativa al significato  della voce jlagitium. Può Jlagitiuvi equivalere a « de-  litto « « scelleraggine, » oppur sempre si deve limi-  tarne il significato, si che esso designi un' azione che  sia solo « ignominiosa « o « vergognosa » ? Affinchè  tal questione non sembri peccare di sottigliezza sover-  chia, e si ravvisi anzi subito qual vantaggio ridondi  dalla soluzione di essa all'intelligenza di alcuni passi,  ci si consenta richiamare qui il ricordo di quei luoghi,  dalla cui controversa interpretazione questo nostro pic-  colo quesito si può dire sbocciato. Tacito in Ann. XV,  44 chiama i Cristiani jper fiagitia invisos. Così Plinio il  Giovane, nella famosa lettera a Traiano sui Cristiani  di Bitinia (X, 96) parla, a proposito di essi, di fiagitia  cohaerentia nomini. Che cosa è dunque che si imputa ai   e. l'ancal. 12     178 APPENDICI ALLO STUDIO PEECEDEKTE.   Cristiani con la -pavola, Jlagitia? Quelli che ne vogliono  limitare il significato entro i termini più angusti, ram-  mentano come alla mente dei pagani dovessero sem-  brare vergognosi i severi disdegni dei Cristiani per  tutto ciò che fosse piacere ed ambizione terrena; e  come tutto insomma il contegno loro di rinunzia e di  avversione al mondo si avesse tal taccia. Ma non pochi  scrittori e traduttori vedono in quei Jiagitia dei veri  « delitti », che i pagani, a ragione o torto, attribui-  vano alla nascente sètta cristiana. Non istarò, per ora,  ad esaminare se sia giusto il concetto, che, agli occhi  di scrittori, quali Tacito e Plinio, potesse sembrar ver-  gognoso il contegno austero di rinunzia e di spregio  per tutti i piaceri mondani, che si suole attribuire ai  Cristiani; scrittori i quali, anzi, pare che allora solo si  commuovano di ammirazione reverente, quando si tro-  vino a discorrere di uomini nei quali sia invitta l'ener-  gia del carattere, non cedevole a lusinghe di ambizione  e di potenza o a blandizie ed allettamenti terreni.  Keppur domanderò, se, qualora di semplice rinunzia  al mondo si voglia parlare, trovino spiegazione le per-  secuzioni feroci delle quali Plinio stesso si rese colpe-  vole, condannando, senza processo, i Cristiani; e trovi  spiegazione la domanda che egli fa a Traiano, quando,  sgomento dal continuar la persecuzione, si ferma a  porre il quesito, se la sètta cristiana in sé stessa o i  Jiagitia ad essa inerenti egli debba imnire; era dunque  passibile di pena, per un Plinio, pure la rinunzia ai  mondo? Gioverà però, all' infuori di tali questioni,  trattare l'argomento nostro; ed esaminati altri esempli  ed indagato il significato di fiagìtium in essi, tornare  poi, col risultato ottenuto, al quesito onde prendemmo  le mosse.   L'opinione che il significato di Jlagitiuin debba re-  stringersi in più angusti confini rispetto a quello di  malejìcium, scehis, e simili, trova qualche consenso negli     APPENDICE HI. 179     scrittori di siuouimie. '■ Così lo Schmaifed, Lateìnisclie  Syìionymik, § 209, pag. 183: « Flagitiwn heisst eine den,  der sie ausfiihrt, e n teli rende Haudluug, Schandthat  und b) oft geradezu Schande, infamia, dedecus », e  il passo apportato (pag. 184) a suffragare tal signifi-  cazione è quello noto della Germania di Tacito, 12:  « tamquam scelera estendi oporteat dum puniuutur,  fiagitia abscondi », passo nel quale la parola flagltia  si riferisce alle colpe degl' ignavi et imhelles. Con lo  stesso esempio tacitiano prova lo Schultz, Sinon. la-  tini, trad. Germano-Serafini, § 243, la sua definizione:  « Flagitium^ bruttura, è un delitto contro sé stesso, una  violazione di sé stesso, non già con azioni violente,  ma con azioni moralmente turpi e vergognose ». Con  lo stesso esempio infine il Coen, La persecuzione nero-  niana dei Cristiani, pag. 13 dell' esbr., conferma che  '^fiagitia significhi azioni turpi piuttostochè crinunose »;  e a pag. 83, sulla scorta anche di altri passi, determina  il suo concetto cesi: « ftagitium contiene ordinariamente  il duplice concetto di azione turile e colpevole ad un  tempo; però quello della turpitudine primeggia; e pri-  meggia tanto che qualche volta l'altro manca ».   Ora in quel passo di Tacito, e in altri passi affini,  è evidente che fagitium è adoperato in significato ben  ristretto. Ma quando tal significato si vuol porre come  costante in Jlagitium, ed applicarlo in tutti i casi, a me  pare che si vada troppo oltre. Un utile riscontro può  esser dato dalla nostra parola « vergogna ». Certo se  « vergogna » è adoperato da solo, in opposizione a pa-  role di significato più grave, quali « scelleratezze » o  « delitti », ciascuno intenderà trattarsi, di azioni mo-  ralmente, non penalmente condannabili. Ma « una fa-  miglia coperta di vergogna » si dirà pur quella, nella     ^ Nulla trovo nello Schmidt, Handbuch des Lat. u. Griech,  Synonymik, Leipzig, 1889.     180 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE.     quale il figlio sia ladro o la moglie adultera; e del  figlio, ad es., di un assassino si dirà che egli sente il  peso delle familiari vergogne. Gli è che tali parole  hanno duplice significato: l'uno specifico e l'altro ge-  nerico; e per questo secondo significato si trovano ad  essere applicate a quelle medesime azioni, a denotare  le quali si richiederebbero nomi specifici ben più  gravi. Ne segue che a determinare di volta in volta  il significato di tali parole, occorra anzi tutto vedere  a quali fatti si accenni, dei quali sia nei singoli passi  discorso. Non altrimenti io credo sia il caso per jla-  gitium. Credo cioè che, quando jlagltnim sia adoperato  in senso specifico, denoti azione turpe e sol moral-  mente condannabile; ma che in senso più lato, e con  riferimenti a fatti concreti, possa applicarsi ad azioni  ben più gravi, a vere scelleratezze. A conferma del qual  significato, ne sia lecito apportare qualche esempio,  che io sceglierò esclusivamente da Tacito: Hist. IV, 58,  « an si ad moenia urbis Germani Gallique duxerint, avvia  patriae inferetisì horret animus tanti flagitiì imagine ».  Trattandosi qui del portare le armi contro la patria,  credo non si reputerà adatta a rendere quel Jiagitium  qualche parola come « turpitudine » o « bruttura »; qui  si tratterà invece di vera e propria « scelleratezza » o  « infamia » o « delitto » ; si tratterà insou^ma di uno  scelìis; e scelus è infatti, immediatamente dopo, chia-  mata una tale azione: « quis deinde t^celeris exitus, cwn  Romanae legiones se cantra derexerint) »   La medesima identità tv a Jiagitium e scelus si scorge  pure nel capitolo precedente, a proposito del giura-  mento fatto dai soldati romani allo straniero. Ivi in-  fatti si legge: {Hist. IV, 57) « ut, flagitium incognitum  Romani exercitus, in externa verba iurarent, pignusquò  tanti sceleris nece aut vinculis legatorum daretur ». Pure  utile al nostro intento è 1' altro passo {Ann. I, 18, 10)  « leviore flagitio legatnm ìnterficietis, qnam ab impe-     APPENDICE III. 181     ratore descìscitis », e 1' altro (Ann. XV, 45, 8) nel quale  il liberto Aerato, inviato nella Grecia e nell'Asia a  commettere sacrilegi nei templi, è chiamato « cuicum-  queflagitioiyvomptus », e l'altro ancora (i4?in. XIV, 11,9),  nel quale si dice che Nerone imputava ad Agrippina  tutti i flagìtia di Claudio, ^a^tYm dai quali quindi non  si potrebbero logicamente escludere le uccisioni di Si-  lano e di Statilio Tauro e delle ricche matrone e dei  molti cavalieri, procurate da Agrippina, dopo il matri-  monio con Claudio. Non sarebbe difficile addurre altri  esempii: quelli addotti mi paiono per ora sufficienti a  provare questo: che fiagitium sia parola di significato  molto vario circa la gravità del fatto che con esso si  imputa; tanto vario, che da semplice azione « scanda-  losa » può di grado in grado discendere fino a denotare  vera e propria azione « delittuosa » e « scellerata »; ed  essere, come abbiamo già visto, sinonimo di scelns. Il  che tanto più deve valere, se la parola è adoperata in  senso giudiziario: scelas, peccatnm, Jlagitùcm, maleficium,  ^jrohriim, facinus si usano, dice il Ferrini, [Esposizione  storica e dottrinale del diritto penale romano^ P^g- 18j,  promiscuamente nelle fonti medesime, per indicare gli  stessi reati. Vuol dire che, a determinare la gravità  della colpa indicata da fiagitium, converrà esaminare  nei singoli passi a quali fatti esso alluda. E poiché  nel passo di Tacito, Ann. XV, 44 « per fiagitia invisos »  si tratta di tali tatti, per i quali l'A. ritiene evideate-  mente non disdicevole ai Cristiani 1' accusa di « incen-  diarli », quell'accusa cioè per la quale egli dice poco  dopo i Cristiani « colpevoli e meritevoli delle maggiori  pene » ; e poiché nel passo di Plinio (X, 96) « fiagitia  cohaerentia nomini » non può esser dubbio che i fiagitia  sieno gli scelera dei quali l'A. parla poco dopo {/urta,  latrocinia ecc.), deve rimaner ferma la conclusione che  anche in questi due -pàssi fiagitia denoti vere e proprie  « scelleratezze » o « delitti ».     182 APPENDICI ALLO 8TUDI0 PRECEDENTE,     II.     È stata oggetto di controversia la frase sitbdere  reum, che si ritrova tre volte adoperata da Tacito. I  passi sono i seguenti:   Ann. I, 6 17 «■ metuens ne reus suhderetuv ».   Ann. I, 39, 6 « mos vulgo [esf] quamvis falsis reum  suhdere ».   Ann. XV, 44, 10 « abolendo rumori Nero stihdidit  reos... qiios... ».   La maggior battaglia si è veramente addensata  sul terzo passo, quello riguardante i Cristiani. Che  cosa vuol dire Tacito? Che Nerone accusò falsamente  i Cristiani? Che li sostituì a se quali colpevoli dello  incendio? O semplicemente che, per isviar la voci  pubbliche che lo accusavano, fece iniziare il processo  contro di loro? Sull'opinione di molti ha avuto cer-  tamente efficacia non poca la frase sìibdere testamen-  tum « far comparire un altro testamento » e cioè, evi-  dentemente, falso), che si ritrova in Tacito stesso,  Ann. XIV, 40, 5. Ma questo verbo siibdere ha sì sva-  riati significati, che, se dovesse valere questa ragione  analogica, si potrebbe, con pari diritto, giungere alle  più avventate conclusioni. E per limitarci a Tacito  solo, si vegga di grazia quanti sono gli usi e i signifi-  cati diversi che può presentare tal verbo. Pugionem  capiti subdere in Hist. II, 49, 9 è certamente « nascon-  dere il pugnale sotto al guanciale » ; facem subdere in  Hist. II, 35, 6 e Ann. XV, 30, 4 è « accostar di sotto la  face » ; amphitheatro fundamenta subdere in Ann. IV, 62, 5  e animalia aratro subdere in Aìdi. XII, 24, 5 è « sotto-  porre »; imj)erio aliquem subdere in Ann. XII, 40, 16  è « assoggettare all' imperio » ; rumor eni subdere in  Hist. III, 25, 1 e Ann. VI, 36, 3 è « far circolare la  voce »; subditis qui accusatorum nomina sustinerent m     APPENDICE III. 183     Ann. IV, 59, 12 è « avendo subornato alcuni a soste-  nere le parti di accusatori » e « subornare » è pure  in XI, 2, 10. Una espressione poi che si accosta molto  alla nostra è quella degli Ann. Ili, 67, 13 « ne qìds  necessarionim iuvaret j^ericUtantem^ maiestatis crìmina suh-  dehantur ». Qui si tratterà probabilmente dell'» imbastire  processi di maestà ». Che sia pur questo il significato  della frase subdere reos? Al passo nostro Ann. XV, 44, 10  « abolendo rumori Nero subdidit reos.... quos » tal signi-  ficato non disconverrebbe. Da tutto il passo risulta  anzi che il processo contro i Cristiani fu raffazzonato  o imbastito alla peggio; tanto è vero, che non solo i  rei confessi d' incendio furono condannati, ma altresì  tutti gli altri che essi denunciarono quali aggregati  alla loro sètta, e che quindi furono convinti delVodium  humani generis. Ma v' è un altro passo cui tal signifi-  cato non s' attaglia ed è Ann. I, 39, 6 « utcjue mas vìdgo  qìiamvis falsis reum .subdere ». Qui evidentemente Tacito  vuol dire che il volgo suole delle sue disavventure in-  colpare sempre qualcuno, anche se colpa in realtà non  esista. Saremmo dunque qui a un semplice « incolpare »  o « attribuir la colpa », ma è da notare che reus è qui  adoperato in un senso traslato, non nel senso giudizia-  rio; negli altri due passi invece nei quali si ritrova  presso Tacito 1' espressione subdere reiim, si tratta di  vero e proprio processo, e reus ha quindi il suo signi-  ficato proprio di « accusato ». Qual sarà dunque in que-  sti due passi il significato della frase ? A me pare che  l'uno di essi sia molto chiaro, e ci dia pur modo di  scorgere il significato di quello cosi controverso. Questo  uno è il passo Ann. I, 6, 17, che narra della uccisione  di Agrippa Postumo. Tacito dice probabile che Tiberio  e Livia abbian procurato la morte di quel giovane so-  spetto ed odiato. Ma quando il centurione andò ad an-  nunziare a Tiberio essere stato eseguito l'ordine, Tibe-  rio rispose non aver nulla ordinato, e che se ne doveva     184 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE.   rendere ragione al Senato, Allora cominciò a temere  Sallustio Crispo, il quale era a parte del segreto, ed  aveva mandato al tribuno il biglietto con 1' ordine della  uccisione; cominciò a temere che non ci andasse di  mezzo lui, che non fosse incolpato lui, semplice man-  dabario: mefuens ne reus subderetnr. Si tratta dunque qui  di un mandante che rimane nell' ombra, e di un man-  datario, il quale agisce per ordine suo, e si compro-  mette, e può essere incolpato lui di tutto. Il caso del  processo contro i Cristiani è identico a questo. Tacito  cioè fa capire ogni tanto che Nerone possa essere il  mandante^ quegli che ha dato 1' ordine (cfr. dolo jprinci-  pis'. mssum incendium): ma non ha dubbio che i Cristiani  sieno gli esecutori^ giacché anzi li dice confessi; ^ quando  dunque dice che Nerone suhdidit reos i Cristiani, egli  vuol solo dire che li « mise sotto processo »; benché  egli come mandante avesse la colpa maggiore. ' Questo  il pensiero di Tacito: altra questione è poi se sia at-  tendibile la notizia, oppur solo il sospetto, che l'ordine  partisse realmente da Nerone. Intanto mi preme ram-  mentare come questa frase del suhdidit reos sia stata  addotta da moltissimi come lo scoglio contro cui sa-  rebbe sempre andata a infrangersi l' interpretazione  ohe di tutto il passo Ann. XV, 44 presentai nell' opu-  scolo. « L'incendio di Roma e i primi Cristiani ». Questi  rei erano dunque subditicii! si è detto. Sì, subditicìij a     2 Tac. Ann. XV, 44: correpti qui fatehantur. Fatevi adope-  rato assolutamente a proposito di un processo può riguardare  solo la confessione di quello appunto, che forma materia di ac-  cusa. V. V ine. di Roma, nota 27, in questa ediz. Qui si tratta  di un processo d'incendio; dunque la confessione è d'incendio.  Nella lettera di Plinio X, 96 [97J l' accusa è « di esser cri-  stiani » ; e confitentes sottintende se Christianos esse.   ■'■ Tacito stima più colpevole chi ordina il male che chi  lo eseguisce per ordine. Cfr. An7i. XIV, 14 « et eius flagitium  est, qui jìecuniam oh delieta.... dedit » ; e poco dopo : < merces  ab eo qui iubere potest vim necessifatis affert ».     APPENDICE HI. 185     quello stesso modo che era subditìcius Sallustio Crispo,  che per comando di Tiberio aveva fatto uccidere Po-  stumo! Nell'uno caso e nell'altro il maggior colpevole  per Tacito è chi ha dato V ordine, non chi 1' eseguisce.  Questo passo, non che dunque infirmi, conferma anzi  tutta l' interpretazione mia; la quale fu, sempre, ap-  punto questa: che, nella mente di Tacito, i colpevoli  di avere appiccato le fiamme fossero i Cristiani, il col-  pevole di averlo ordinato fosse Nerone. 

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