L'INCENDIO DI ROMA E 1 PRIMI CRISTIANI (1^ edizioue : Milano, ^Ibrjglii e Segati, 1900; 2* edizione: Torino, E. Loesclier, 1900; 3'-^ edizione: Paris, A. Fontennoing, 1902). AL LETTORE/ L' opuscolo che qui ripresento agli studiosi ha su- scitato dappertutto discussioni vivaci, ed era naturale che le suscitasse. Era naturale, infatti, che molti fa- cessero discendere la questione in un terreno scabro ed irto di passioni ; e pur gli altri, avvezzi per abito della mente e per austera severità di propositi, a non mirare se non alle ragioni obbiettive, era naturale che molto s' interessassero dell' argomento, vedendo qui posti quesiti altissimi non di storia soltanto, ma al- tresì di psicologia popolare, e tentatane, come meglio si è potuto, la soluzione. Ora, dopo si lungo dibatter di ragioni avversarie, è tempo che riprenda la parola io. La mia tesi si fonda sopra alcune contingenze di fatti, la cui evidenza non può sfuggire ad un esame impregiudicato. Si riassumano, di grazia, le ragioni delle due parti tra le quali pende 1' accusa dell' in- cendio di Roma. Se da una parte troviamo un uomo, scelleratissimo quanto si vuole, dall'altra troviamo una comunità segreta, della quale alcuni membri sono de- diti al delitto per testimonianza degli scrittori pagani, * Questa prefazione fu pubblicata dinanzi alla seconda edi- zione (Torino 1900), e dinanzi alla edizione francese (Paris, 1902). 118 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI e dagli stessi apostoli son dichiarati indegni di pre- dicare Cristo. Ma quell' uomo quando seppe che la sua casa bruciava, tornò a Roma, tentò arrestare le fiamm e, si mescolò in mezzo al popolo, girò di qua e di là senza guardie^ prese tutti i provvedimenti consigliati dalla immanità del disastro ; e, mentr'ei cercava porre riparo, scoppiò novello incendio ; degli altri si sa che di tanto in tanto prorompevano alla rivolta, che pre- dicavano la conflagrazione del mondo, cui doveva seguire il regno della giustizia; che tal regno essi aspet- tavano dopo quello dell'Anticristo, che per essi l'An- ticristo era Nerone, che credevano, durante la loro vita, essere riserbati al nuovo regno di luce e di bene; che a Roma augurarono ancora, pel corso di lunghi secoli, distruzione e sterminio, che dopo la rovina della potenza romana aspettavano il loro trionfo ; qual meraviglia che tutto questo complesso di aspettazioni e speranze abbia eccitato le menti incolte e fanatiche degli schiavi miserrimi e li abbia spinti all' atto for- sennato ? Si aggiunga a tutto questo, che gli arrestati furon confessi, secondochè mi pare avere ora novella- mente dimostrato. — In ogni movimento di rivendi- cazione sociale che si determina nelle masse, vediamo tosto scindersi due partiti : quello dei più esaltati, pronti all' azione immediata, e quello delle menti più calme, che mal giungono a tenere a freno i primi. Quei generosi che, scorti dal raggio della loro fede, vennero a dare alle plebi la coscienza dei diritti umani, mal poterono con tutti i loro consigli di temperanza, reprimerne le turbolenze impetuose. Qual nuova con- cezione sarebbe mai questa, che la plebe romana, la cui vita, da secoli, era stata tutto un seguito di con- vulsioni e di fremiti, di sedizioni e rivolte, proprio all' epoca di Nerone fosse diventata di tanti agnellini, quando più ributtante era lo spettacolo delle umane ineguaglianze, e più turbinavano nel suo seno le nuove l'incendio di roma K I PRIMI CRISTIANI 119 correnti rivendicatrici! Tutt' altro ! Anche in quella moltitudine erano i falsi dottori, dei quali parla la co- siddetta Secunda Petri, i quali promettendo agli altri la libertà^ erano però essi stessi servi della corruzione (II, 2, 19), i quali dopo esser fuggiti dalle contaminazioni del mondo per la conoscenza di Gesù., si erano di nuovo in quelle avviluppati (II, 2, 20) ; e, secondo le brutali imma- gini che ivi troviamo (II, 2, 22), erano come cani tor- nati al vomito loro, come porche lavate che di nuovo si voltolano nel fango. Quando certi stati di aspetta- zione angosciosa si determinano nelle masse, basta una scintilla per spingerle ad eccessi inopinati. L'aununzio della distruzione ignea decretata da Dio per la loro generazione, la credenza che il regno di Dio non ver- rebbe, se non fosse distrutta la romana potenza, fu la scintilla delle fiamme che divamparono sterminatrici. Essi credevano compire la volontà divina, essere gli esecutori della divina vendetta. Vano è parlare qui di significati allegorici. Quando pur si potesse provare che le allegorie che or si vogliono vedere sotto l' idea del fuoco, si scorgessero pure dai primi proseliti, e come tali si spiegassero (il che non è affatto), tutto ciò sarebbe vano lo stesso. Il popolo interpreta le pa- role nel loro senso materiale, e quando sente fuoco, in- tende fuoco e nuli' altro. Un' obbiezione, a prima giunta grave, mi fu fatta da un chiaro critico : come mai ninno degli scrittori, anche pagani, accusa di tale scempio i cristiani ? Pure, la ragione di ciò credo poterla indicare. Il nodo della questione credo che stia in ciò, che gii esecutori mate- riali furono veramente i servi di Nerone, e che questi interrogati perchè scagliassero le faci, dicevano di agire per istigazione altrui. La credenza nella colpe- volezza di Nerone si radicò quindi nelle coscienze, ed ancor più crebbe dopo la morte di lui. Suole infatti avvenire che a quelli che si rendono tristamente fa- 120 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI mosi per le turpitudini loro, tutte il popolo attribui- sca le altre scelleraggini, delle quali suoni incerta e dubbiosa la fama. E l' accusa o il sospetto dovè na- scere nel popolo per naturale reazione di pietà verso i condannati, qualche tempo dopo il disastro e il pro- cesso ; che altrimenti non si spiegherebbe come Ne- rone non fosse stato ucciso dall' ira popolare, quando si mescolò senza guardie in mezzo al popolo. E dovè afforzarsi, quando Nerone o gli adulatori suoi espres- sero l' intenzione di chiamar dal suo nome la rifatta città: che allora l'ambizione parve al popolo suffi- ciente motivo, a spiegar lo sterminio. E poiché Ne- rone dall'incendio di Roma, che egli aveva visto, prese poi r ispirazione per iscrivere il carme sulla rovina di Troia, carme che forse cantò sul teatro della rinno- vata sua casa, nacque più tardi in mezzo al popolo, la fama che egli avesse cantato sulle rovine della patria. Del resto, che vi fossero scrittori che esplicita- mente accusassero i cristiani, non credo sia da revo- care in dubbio. Tacito stesso, direttamente o indiret- tamente, deve averne usufruito qualcuno, come mi pare possa dimostrarsi. Perchè tali scrittori non sieno stati conservati, è vano chiedere. Durò per secoli la di- struzione sistematica di tutto ciò che fosse avverso al Cristianesimo. Gli scritti contro la nuova religione sono periti; le accuse che al Cristianesimo si facevano, le conosciamo, salvo pochi accenni qua e là, solo per bocca dei difensori. Or questi scritti apologetici sono di alcuni secoli posteriori a Nerone e ciascuno di essi parla delle dottrine e dei costumi dei cristiani del tempo suo ; non potremmo dunque aspettarci di tro- vare in essi alcun tentativo di difesa contro un' accusa che ninno più muoveva, essendo ormai invalsa anche tra i pagani 1' opinione che accusava Nerone. Ma se del fatto determinato, e cioè dell' incendio Neroniano non si fa più parola, si fa per contro parola molto l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 121 spesso delle tendenze rivoluzionarie e distruggitrici. Tali tendenze erano forse una di quelle « scellerag- gini inerenti alla setta » (flagitia cohaerentìa nomini), alle quali accenna Plinio, a proposito dei cristiani di Bitinia. Ma della lettera di Plinio tocclieremo in seguito. L' accusatore dei cristiani nell' Octavius di Minucio Felice narra (capitolo Vili) che essi, raccolta dalla peggior feccia i più ignoranti e le credule fem- minette, naturalmente deboli per la debolezza del loro sesso, istituiscono una plebe di sacrilega congiura ; e più giù (cap. XI) che essi alla terra e perfino all'uni- verso e alle stelle minacciano incendio (e cioè la con- flagrazione cosmica), e macchinano rovina. Ottavio ne li difende (cap. XXXIV), e la sua difesa è pur molto istruttiva per noi. E, secondo lui, un volgare errore il credere che non possa venire improvviso l' incendio punitore; i saggi stessi dell'antichità, egli dice, e i poeti han parlato della conflagrazione cosmica, del fiume di fuoco e della Stigia palude, a punizione dei perversi. « Ma niuno, ei soggiunge (cap. XXXV), che non sia sacrilego, delibera che sieno puniti con tali tormenti, per quanto meritati, coloro che non riconoscono Dio, come gli empii e gì' ingiusti », (ahimè, mite filosofo antico, la storia posteriore ti ha dato torto !). Non è questa una risposta alle accuse e ai timori, che si nu- trivano a riguardo dei cristiani ? Se dunque dell' ac- cusa particolare, quella riguardante l' incendio Nero- niano, non si fa più motito, per le ragioni sopradette, non si può dire che- ogni eco dell' accusa generica sia spenta per sempre. Altra obbiezione mi fu fatta, circa il criterio in- formatore di queste ricerche. Voi, mi si è detto, state al giudizio degli scrittori pagani, per quanto riguarda la moralità dei primi cristiani. Ora per lunghi secoli continuarono le accuse contro i cristiani, e furono fra le più atroci e terribili. Gli apologisti cristiani oppo- 122 l' incendio Dt ROMA E 1 PBIMI CRISTIANI sere ad esse recise smentite. Perchè non si deve cre- dere che sieno calunnie pur le accuse scagliate contro i cristiani dei primi tempi ? — Senouchè, a proposito di queste ultime, le accuse non partono solo da scrit- tori pagani, ma altresì da cristiani, in passi dei quali r interpretazione non può esser dubbia. ^ Ma tal giu- dizio non riguarda tutta intera la comunità. Ohi nega che in questa fossero spiriti superiori, ardenti del- l' amore divino del bene ? Ma le novità, e novità tali, quali eran quelle che nelF ordine sociale annunziava il Cristianesimo, sogliono attrarre gli spiriti più tur- bolenti, e più esaltati, cui non par vero di coprire con la nobiltà di un vessillo la licenza degli atti proprii. E, se guardiani bene, pure tutte quelle orrende accuse fatte in seguito ai cristiani, i riti dell' uccisione del fanciullo, della Venere promiscua dopo la cena ed altri simili, hanno tale spiegazione. Anche gli scrittori cattolici riconoscono che tali calunnie si debbano a tutte quelle sette di Carpocraziani, Nicolaiti, Gnostici, che tali orrendi riti praticavano, e si arrogavano il nome di cristiani. Che la chiesa abbia potuto respin- gere dal proprio seno questi sciagurati, e si sia an- data man mano epurando, torna certo ad alta sua gloria. Ma ciò stesso ne induce ad andar molto cauti, quando vogliam negare a priori che nei primi tempi 2 Si è sostenuto da alcuni che la < ci-itica moderna » rife- risca a quistioui di dogma e di gerarcliia i noti passi di Paolo, nei quali esorta i Cristiani di Roma all' obbedienza e alla man- suetudine; e si è citato in proposito il Renan. Ma il Renan dice di quei passi (Saint Pani, pag. 475): « 11 semble qu'à l'epoque où il écrivait cette épitre (aux Romains) diverses Eglises, surtout l'Église de Rome comptaient dans leur sein soit des disciples de Juda le Gaulonite, qui niaient la légitimité de l'impot et pré- chaient la róvolte contre l'autorité romaine, soit des ébionites qui opposaient absolument i'un à l'autre le régne de Satan et le régne du Messie, et identificient le monde présent avec l'empire du Démon {Epiph. haer., XXX, 16; Honiél. pseudo-clém., XV, 6, 7, 8) ». V, anche ivi pagg. 477-478. l'incendio di roma 'e I PRIMI CRISTIANI 123 della chiesa potesse esservi ima moltitudine di faci- norosi, pronti ad interpretare a lor modo le nuove dottrine e a trascendere ad ogni eccesso. E la lettera di Plinio (X, 96) si osserva, non è te- stimonio dell' innocenza cristiana ? Migriamo pure, se cosi vuoisi, da Roma in Bitiuia, dai tempi di Nerone a quelli di Traiano. La lettera domanda all' impera- tore se debba punirsi la setta come tale o i delitti ad essa connessi, e riferisce che degli interrogati al- cuni dichiararono repiicatamente esser cristiani, e, senza voler sapere che cosa ciò significasse, Plinio, per la loro ostinazione, li mandò al supplizio ; altri negavano essere stati mai cristiani ; altri affermarono essere, e poi il negarono, dicendo essere stati, or più non es- serlo ; tutti questi maledicevano Cristo, e veneravano l' immagine dell' imperatore. Pur nel tempo in cui erano cristiani asserivano altro non aver fatto se non raccogliersi, venerare Cristo come se fosse un Dio, ed obbligarsi con giuramento non a commettere delitti, ma anzi a non commetterne. Due ancelle messe ai tor- menti, non rivelarono se non una superstitio prava, ìmmodica. — Se questi infelici erano così invasi dalla paura, da indursi a sconfessare la loro fede e male- dire Cristo, si potrebbe mai aspettare da essi che ri- velassero alcuna cosa che potesse danneggiarli ? — Ma sieno stati pure innocentissimi i Cristiani di Bitinia al tempo di Traiano ; che cosa prova ciò per alcune fazioni dei cristiani di Roma al tempo di Nerone ? Questo credemmo opportuno avvertire, circa le ragioni generali e di metodo. Alle osservazioni sui sin- goli punti si risponderà nelle note o anche nel testo. Non era possibile confutare partitamente ciascuno de- gli scritti venuti in luce. Quest' opuscolo sarebbe di- 124 l' incendio di roma e i primi cristiani ventato un volume, con poco frutto dei lettori e degli studii. Ne del resto era decente sottoporre alla consi- derazione dei lettori, scritti, nella maggior parte dei quali la forma irosa mal si dibatte fra le scabrosità della materia, e dalle ambagi del ragionamento guizza ed erompe il vituperio. I fatti e le ragioni apportate io ho tenuto in conto ; dei vituperii non mi curo, né di essi conservo rancore. Mi conforta il consentimento pressoché unanime a me venuto da coloro che rap- presentano il più bel vanto degli studii italiani. In mezzo alle loro voci o alle voci di quelli che, pur di- scordi, seppero tener la misura, suonò un coro stridulo di voci insolenti. Persone rese fanatiche da religioso ardore si scagliarono contro di me, a contaminare la purità delle intenzioui mie. In tale impresa l' igno- ranza e la malafede fecero l'estrema lor possa. Io non perderò la calma per le intemperanze altrui. Quel me- desimo coro ha accompagnato sempre ogni opera di ve- rità e di luce. Mentre la procella batteva alla mia porta, io ripensavo mestamente che cosa mai potesse suscitare in tanti animi impeti cosi vivaci contro di me. Era là, in quei cuori angosciati, tutto lo schianto come di una cara visione che si dilegui, come di una zona luminosa sulla quale inopinatamente si effondano tenebre. Povere anime desolate, ebbre di radiose spe- ranze, io non ho offeso la vostra fede. Potreste voi mai sostenere che, pur quando gran parte del mondo fu conquistata alla luce e all'amore della vostra idea, il fanatismo e l'errore sieno tosto dispariti dalla terra, e cieche cupidigie e biechi livori non abbiano ancora agitato gli spiriti? Perchè dovrebbe dunque ripugnare alla vostra fede, l'ammettere che ciò sia avvenuto pure agl'inizii della nuova era umana, in mezzo a gente nei cui animi era 1' eredità di secolari rancori ? Il primo quesito che si presenti alla mente di chi esamini i racconti degli storici snll' incendio neronia- no, è questo: l'incendio fu ordinato da Nerone? Degli scrittori più antichi lo affermano Suetonio e Dione Cassio, i quali ci hanno pure esposto le ragioni di tal loro convinzione: sicché la notizia da essi data ha solo valore in quanto possano averlo tali ragioni: ^ di che tosto vedremo. Tacito si avvale di fonti diverse, né sembra aver fatto studio per rendere coerente il rac- conto suo; sicché prendendo or dall'uno autore or dal- l' altro, riesce ad indurre nel lettore ora 1' una convin- zione or l'altra. Si mostra in principio esitante tra due autorità di fonti: quelle che attribuivano il disastro al caso e quelle che lo attribuivano a Nerone; '* ma 3 Si potrebbe obbiettare che uno storico può narrar cosa vera, ma poi sbagliare nell' assegnare lo cause. E ciò è appunto quello che penso io, e che dichiaro pure più sotto; le particola- rità dell'incendio, narrate dagli storici non sono certo inventate da essi, e sono, secondo ogni legittima presunzione, vere; la causa dell'incendio, cioè l'ordine di Nerone, dobbiamo giudicarla alla stregua delle ragioni che essi apportano di tal loro convinzione. Giacche 1' attribuire l' incendio o al caso o all' ordine dell' uno dell'altro, è convinzione o apprezzamento, non è fatto. ^ Lo afierma anche Plinio il Veccbio ; e il suo accenno {N. II., XVII, 1,1: « ad Neronis principis incendia, quihus cre- mava Urbem), prova che pochi anni dopo l'incendio, l'opinione era già invalsa. Verisimilmente la medesima convinzione espri- l'26 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI l' ipotesi del caso doveva cadere per lui, che poco dopo narra come certo il fatto che nessuno osò opporsi alla violenza del fuoco, poiché uomini minacciosi vietavano di estinguere le fiamme, anzi le ravvivavano, dicendo di agire per consiglio altrui. E bensì vero che Tacito aggiunge essere incerto se ciò facessero, per potere senza freno abbandonarsi alle rapine o per vero co- mando: ma è evidente che la prima ragione non regge. Giacché se essi giungevano a imporsi tanto con le mi- nacele da impedire ogni tentativo di estinzione, pote- vano pure senz' altro esercitare liberamente il sac- cheggio. E del resto il ripetersi della cosa, con i medesimi particolari, per tutta Roma, non significa 1' obbedienza ad una parola d' ordine? Questa esclude il caso. E lo esclude pure il fatto che, tosto allo spegnersi del primo, si riaccese un secondo incendio, che proruppe dagli meva Plinio nelie Storie civili che furono fonte a Tacito. La narrazione di Sulpicio Severo (II, 29) è presa interamente da Tacito, di cui riproduce molte frasi. Quella di Orosio (VII, 7) è derivata, con qualche esagerazione di notizia, da Suetonio. L'iscrizione in C. I. L., VI, 826 ha qvando vrbs per novem DIES — ARSIT NERONIANIS TKMPORIBVS. Importanti monumenti sono pure le are site in ciascuna regione della città, sulle quali nei tempi successivi si celebra- vano il 23 Agosto i sagritìzi incendiorum arcendorum causa; alcune di tali are sono conservate ; cfr. Lanciani, Bull. com. 1889, pag. 331 segg. ; Hùlsen, Rom. Mitt. 1S94, pag. 94 segg. ; Richter, Top.j- pag. 209, 294, 301. Una minaccia d' incendio è attribuita a Nerone dall' autore dell' Ottavia, v. 882, Stazio nella Silva dedicata alla vedova di Lucano (II, 7, 61) ha infan- dos domini nocentis ignes. In tutta la letteratura di opposizione a Nerone l'accusa dovè essere accolta con fervore. Alcune di versità di particolari dalla narrazione tacitiana sono nella cor- rispondenza apocrifa di Seneca e S. Paolo, che è del IV secolo (v. Ramorino, Vox Urbis, 1901, n. 4). Tra i moderni, oltre Aubè, Schiller ed altri, lo Herstlet negò con buone ragioni, l'attribu- zione a Nerone (Treppenwitz der Weltg. ■• pag. 165 segg.). Molti l'attribuiscono al caso (ad es. AUard, Marucchi). I particolari dell' incendio sono contrari a tale ipotesi: per ammetterla, biso- gnerebbe ritenere falsi tutti i particolari narrati dagli antichi. l' incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 127 orti di Tigellino e devastò un' altra parte della città. Del resto Tacito sembra nou aver ridotto ad unità di pensiero questa parte dell' opera sua: e aver piuttosto abbozzato appunti da fonti discordi: vedremo infatti essere molto probabile che una delle sue fonti accu- sasse esplicitamente i cristiani. "^ — Suetonio, abbiamo detto, accusa Nerone. E l'accusa egli fonda sopra tre fatti. In un banchetto, avrebbe un convitato detto in greco: « quando io sia morto, si mescoli la terra col fuoco », e Nerone avrebbe soggiunto; « auzi quando io sia vivo » ; di più, parecchi consolari sorpresero nei loro possedimenti i servi imperiali, con stoppa e faci; e per paura, neppur li molestarono; infine Nerone, de- '-> Altro indizio che Tacito non abbia riassunto in una con- cezione unica il fatto storico, ma abbia solo unito notizie di- scordi da fonti diverse, si trae anche da questo. Ei riferisce la voce che Nerone al tempo del disastro cantasse l'incendio di Troia sul teatro domestico. Ma qual teatro? Quando ei 'tornò da Anzio il palazzo imperiale bruciava ! Altra contraddizione è in ciò che narra alla fine del capo 50 (lib. X7), come tosto vedremo. — Debbo notare a tal proposito come a me abbia pro- dotto ingrata meraviglia, che del mio giudizio su Tacito altri abbia menato scalpore, come di giudizio a bella posta indotto per iscemare l'autorità di lui ed infirmarne la fede. Dopo tanti studii perseguiti da tanti anni, sul materiale storico di Tacito, sul suo fosco vedere, sulle sinistre interpretazioni sue, sulla sua costante avversione per alcuni personaggi, si avrebbe il diritto di pretendere che tanta mole di lavoro non fosse stata fatta invano. — Cfr. pure nota 27 in f. — Il Fabia, Le sources de Tacite, pag. 413, osserva, contro L. Von Ranke, che Tacito si astiene dall' accusare o dall' assolvere Nerone, adoperando frasi come pervaserat rumor, videbatur, crederetnr. Ma a me paiono giuste le seguenti considerazioni del Von Ranke, Weltgeschichte, III Th. II Abtheil. Leipzig, 1883, pag. 313: Es ware nun unsin- nig zu denken, dass Nero, der sich bei dern Brande wurdig betragen batte, jetzt, um eia durchaus falsches Geriicht nieder- zuschlagen, zur Verfolgung \inschuldiger Lente geschritten wàre. Man kann nicht anders als annehmen dass diese Stelle aus des zweiten Nero anklagenden Ueberlieferung stammt. Die \Nichtsw^iirdigkeit des Kaisers liegt eben darin, dass er den Brand selbst angelegt hat und auf anderen die Schuid schiebt. So die zwejte Ueberlieferung. 128 l'incendio di roma e i primi cristiani siderando sul Palatino l'area di alcuni granai costruiti con pietra, li fece prima abbattere e poi fece ad essi appiccare il fuoco. Anche Cassio Dione è esplicito, e (juasi a riprova della sua accusa apporta due fatti: die cioè Nerone aveva fatto voto di vedere la distru- zione di Roma e che egli chiamò felice Priamo, perchè aveva visto perire la patria sua. Or veramente, se questi sono i fondamenti della secolare accusa, lo storico spassionato dovrà rimanere ben perplesso prima di confermarla. Certo fu uomo di si efferate nefandezze Nerone, che non è a temere gli si gravi troppo la soma dei delitti con un altro misfatto; pure, giudicando senza prevenzioni, è facile scorgere quanta sia la vacuità delle ragioni che gli antichi apportano per incolparlo anche di questo. Quanto ai servi di lui, sorpresi ad incendiare, il fatto ha ogni verosimiglianza, ma ha ben altra spiegazione, come si dirà in seguito. Quanto ai granai del Pala- tino, è naturale che, quando tutto intorno era di- strutto, visti superstiti quegl' informi ruderi, ei li fa- cesse abbattere e incendiare, volendo liberare l' area per la futura sontuosa sua casa. *' Quanto all' aneddoto, raccontato da Dione Cassio, eh' egli avesse fatto voto di veder distrutta la città, esso è infirmato dal fatto che, .saputo appena che il fuoco s' approssimava al pa- " Questo passo di Suetonio (Ner., 38) ha fatto uscire di careggiata non pochi. L'abbattimento e l'incendio dei granai Suetonio lo apporta, perchè serve a dimostrare, secondo lui, che Nerone non fece mistero dell' ordine d' incendiare {incendit urbem tam palam ut bellicis machinis lahefactata atqiie infiammata sint, ecc.). E chiaro che 1' argomentazione non è va- lida. Se Nerone dette senza mistero 1' ordine di abbattere quei granai, dovè dunque darlo quando tornò da Anzio; e allora tutto intorno era già divorato dalle fiamme. l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 129 lazzo imperiale, egli rientrò in Roma, eppure non si potè impedire (dice Tacito) che il Palatino e la reggia e tutti i luoghi intorno fossero preda alle fiamme. ' Rimangono altri due aneddoti, e quello di Priamo e quello del banchetto. E non è improbabile che Nerone paragonasse sé stesso a Priamo, cui toccò di veder distrutta la patria sua, e si chiamasse, ammettiamo pure, fortunato di veder cosa unica al mondo: ma ciò non si può apportare qual prova a confermare che l'ordine partisse da lui. Ne tale deduzione si può trarre dai motti di spirito, che secondo Suetonio ri- ferisce, avrebbe egli scambiato con un suo convitato in un banchetto. Che anzi, chi ben guardi, l'inter- pretazione di qu3Ì motti è ben altra. Giacché se il convitato disse: Ivj.oò Savóvro? Y^ia at/Gr^uo ttd.oi egli vo- leva evidentemente significare: « purché io sia morto, si mescoli la terra col fuoco », e cioè, a un dipresso: purché io non abbia più a correrne pericolo, caschi pure il mondo! » Ed è naturale quindi che Nerone rispondesse: « anzi, purché io continui a vivere » (immo inquit, i'j.o'j Cwvioc). — Ci siamo indugiati in siffatti par- ticolari aneddotici, non per conchiudere da essi soli, che fu ingiusta l'accusa, ma solo per affermare che non ci è dato indagare la verità da siffatte fonti. Questi scrittori hanno poco discernimento critico. Quando raccolgono fatti, ci offrono materiale prezioso: quando li interpretano e ne tra^ggono deduzioni, sco- prono tutto il debole dell'arte loro. Noi dunque dob- biamo battere altra via. Dobbiamo esaminare le par- '' Ed era la casa sontuosa, eh' egli stesso aveva fatto smi- suratamente ingrandire, sicché comprendeva ormai tutta l'area dal Palatino all'Esquilino. Il nome di Domus Transitoria (Suet. Nei'., 31) trasse in uno strano errore il Renan, il quale credette vedere in quello l'intenzione di Nerone di far, poi, una casa definitiva. Ma transitoria significa solo che quella casa metteva in comunicazione, come dice Tacito {Ann. XV, 39) il Palatium con gli orti di Mecenate ! C. Pascal. 9 130 l/ INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI ticolarità tutte del disastro ìq relazione al carattere ed ai fatti di Nerone. * Dobbiamo vedere quale poteva essere per lui il movente ad emanare l'ordine sciagu- rato, quali i mezzi per attuare l' immane disegno. La capacità a delinquere di Nerone è fuori di ogni discussione; e veramente, se solo ad essa noi doves- simo aver ricorso, la questione non sussisterebbe più. Ma vi ha tempre e caratteri diversi di delinquenza: alcuni sono nati alle audacie più forsennate, alle più temerarie scelleraggini: altri praticano il delitto per coperte insidie e per nascosti raggiri. Nerone, quale cÀ risulta da tutti gli atti della sua vita, fu insi- dioso e vile; sospettoso di tutto e di tutti, sempre premuroso d' ingraziarsi il popolo con feste e largi- zioni; assalito alcuna volta da crisi convulse, e tre- pidante per divina vendetta, superstizioso come un fanciullo. Quando scoppiò l' incendio, egli era ad Anzio. Scoppiò per ordine suo? Ma allora il suo tristo segreto fu affidato non ad uno o due dei più intimi, ma a centinaia, forse a migliaia di servi e pretoriani!" Giacché per tutta Roma furono dissemi- ■^ Mi si è mosso rimprovero che tali particolarità io de- suma da quegli stessi scrittori, dei quali ho cercato infirmare la fede. Ma le dichiarazioni che qui precedono sono esplicite ; i fatti non sono certo inventati dagli scrittori : le deduzioni che essi ne traggono sono erronee. ■' In tutte le scelleratezze di Nerone si vede manifesto lo studio di coprire nel segreto dei pochi fidati il misfatto. Il man- dare l'ordine da Anzio a Roma a centinaia di servi e soldati, e il tornare poi in mezzo al popolo, suppone un coraggio che non pos- siamo davvero attribuirgli. Né è dato supporre che Nerone abbia confidato l'ordine solo a qualche intimo. Questi non avrebbe po- tuto fare se non trasmettere gli ordini imperiali; e Nerone capiva che 1' ordine sarebbe stato quindi annunziato ai servi o soldati solo come ordine suo. l' incendio di EOMA e I PRIMI CRISTIANI 131 nati coloro che impedivano ogni tentativo di estin- zione, *" ed erano come riferisce Dione Cassio, anche vigili e soldati che ravvivavano il fuoco. E si sup- ponga pure che costoro nell' ebbrezza forsennata di quelle notti infernali, obbedissero, senza esitanza, ad un ordine che si diceva lor mandato dall' imperatore lontano: ma quando poi l'imperatore tornò, e tentò arrestare le fiamme, (Tac. Ann. XV, 39), a chi obbe- divano coloro che dagli orti di Tigellino fecero pro- rompere novello incendio? " E, se avesse dato l' ordine, sarebbe tornato Ne- rone? '- — Un ordine, diffuso fra tanti servi e soldati, non poteva rimanere un segreto per il popolo: avrebbe *" Si potrebbe osservare : Perchè dovevano essere centi- naia ? Non bastavano forse anche pochi per appiccare l'incen- dio, se questo cominciò dalle bofteghe ripiene di merci accen- sibili, e fu alimentato dal vento? Sennonché supposto pure che pochi abbiano appiccato l' incendio, moltissimi dovevano pure essere quelli che ordirono il complotto. Ed infatti per tutta Roma erano sparsi coloro che impedivano ogni tentativo di estinzione. Questi dovevano essere a parte del segreto, e per essere sparsi in tutta Roma dovevano essere moltissimi. La qual notizia della impedita estinzione non può essere revocata in dubbio.- Se non v'era forte mano organizzata ad impedire 1' estinzione, molto prima dei nove giorni si sarebbero sedate le fiamme. ^^ Non potevano certo obbedire a Nerone, poiché da lui ri- cevevano ormai l'ordine di arrestare le fiamme, non di riaccen- derle. Si è sospettato potesse essere una finzione di Nerone il tentativo di arrestare le fiamme. Ma ad ogni modo questa fin- zione non poteva avere efletto se non con opere di estinzione. E non è consentaneo al carattere di Nerone che egli in mezzo alla disperazione del popolo si fosse esposto al pericolo di rin- novare l'ordine incendiario. E Tigellino non avrebbe fatto in- cominciare dalla casa sua, lasciando intatto il Trastevere. ^- Si può pensare: col non tornare, avrebbe accresciuto i sospetti. Ma questi apprezzamenti e calcoli di mente fredda di- sdicono al carattere di Nerone. Si esamini, di grazia, il suo contegno dopo 1' uccisione della madre (Tac. Ann. XIV, 10). E cosi quando gli fu annunziata la defezione degli eserciti, non osò presentarsi in pubblico, temendo esser fatto a brani (Suet. Ner. XLVII). 132 1/ INCENDIO DI ROMA E 1 PRIMI CRISTIANI egli affrontato la plebe, pazza d' ira e di terrore? '' E perchè l' avrebbe dato, quest' ordine ? Perchè, si ri- sponde, non soffriva le vie tortuose e irregolari, con le loro pestifere esalazioni, e voleva il vanto d'essere chiamato fondatore di Roma; ojDpure, perchè voleva godere lo spettacolo delle fiamme e cantare l'incendio. Ed altri ancora risponde : dette l' ordine in un accesso di pazzia. Or veramente, quanto alle vie tortuose e strette, la ragione non regge. L' incendio fu appiccato a tutte le regioni più nobili e suntuose di Roma; perirono i templi vetusti, i bagni, le passeggiate, i luoghi di de- lizia, le case più ricche. Le regioni dei poveri, rot>curo Trastevere, il centro della comunità giudaica e cri- stiana, furono rispettati. Eppure anche nel Traste- vere aveva Nerone i suoi orti Domiziani e il suo circo, che poteva desiderare di vedere sgombri dalle casu- pole e dalle viuzze che li circondavano. ** — Voleva godere lo spettacolo delle fiamme? Ma si sarebbe su- bito mosso da Anzio; il ritardo poteva togliergli l'oc- casione di goderlo! Rimane dunque che egli avesse ordinato l' incendio in un accesso di pazzia. Ma quando egli tornò a Roma, e, come riferisce Tacito {Ann. XV, 39\ cercò di opporsi al fuoco, ed aprì per ristoro al po- polo il campo di Marte, i portici e le terme di Agrippa, '■^ Che Nerone sin dalla prima notte del suo ritorno si ag- girasse senza guardie per la città, è afìermato da Tacito stesso, quando narra che Subrio Flavio aveva già prima della congiura Pisoniana fatto il disegno di uccidere Nerone cum ardente domo per noctem huc Ulne cursaret incustoditus ! {Ann., XV, 50j. '' Non poteva regolare, si può dire, la direzione delle fiam- me. — Ma certamente, se il suo scopo era quello di togliere le viuzze stretto e le case luride non sarebbe ricorso alle fiamme. Bastava che il suo disegno d' abbellire Roma egli enunciasse, per essere esaltato da tutto il popolo, e avere il concorso di tutti i cittadini. E quando anche alle fiamme avesse voluto ricorrere, avrebbe cominciato dai quartieri luridi, non da quelli nobili e sontuosi. l/ INCENDIO DI ROMA K I PRIMI CEI6TIAXI 133 gli orti suoi, e fece costrnire provvisorie capanne, e diminuì il prezzo del frumento, era certamente nel possesso delle facoltà sue : e allora chi rinnovò l' in- cendio negli orti di Tigellino? '* — Ed ancora, si ponga mente ad altre osservazioni. Nerone voleva sal- vare la casa sua, ed infatti vi si adoperò, tornato a Roma: avrebbe egli ordinato che si cominciasse ad appiccare il fuoco proprio a quella parte del circo. che era contigua al Palatino? '* — Nerone amava cre- dersi e farsi credere artista fine e di greco gusto. Non avrebbe egli fatto mettere al sicuro le più belle opere di scultura, i monumenti dei più chiari ingegni, i ca- pilavori dell'arte greca? Anche questi perirono tutti, e Nerone mandò gli emissarii suoi, per l'Asia e per la Grecia, a depredarne dei nuovi. — Quanto più si con- sideri l'accusa fatta a Nerone, tanto più essa risulta incoerente e contradditoria. Ma dunque, chi ordinò l'incendio? Quali furono gì' incendiarii? Quale scopo ebbero? Chi incolpò i Cristiani? E quali erano i Cri- stiani allora? Dobbiamo, per l' esposizione nostra, cominciare dall'ultimo quesito, e poi a mano a mano, attraverso gli altri, giungere sino al primo. Sulla prima comunità cristiana in Roma abbiamo '■' E opportuno pnre notare che J racconto riguardante Nerone, che sulle rovine «ii Roma canta i' incendio di Troia è ritenuto, per buone ragioni, una leggenda. Y. Renan, JJ Anii- christ (pag. 147, n. 2 , che prese probabilmente i suoi argomenti dalla nota del Fabricio a Cassio Dione. LXII, 18. •'' Non vale il dire: ricevuto il comando, non si badò più a nulla. Sta pur sempre, che se il primo incendio cominciò dalla casa di Nerone, e il secondo dalla casa di Tigellino, le fiaiume forono appiccate da nomini che erano nemici di tatto l'ordine sociale, che era rappresentato da quei di; e. 134 l' incendio di roma e i primi cristiani scarsissimi documenti: pure ci viene da essi qualche lume. Chi immagina i Cristiani al tempo di Nerone, e anche prima, tutti intenti a bizantineggiare su que- stioni di dogma, non può spiegare l' aggregarsi di sempre nuovi proseliti alla parola evangelica. Se Ta- cito dice che i cristiani erano allora « una immensa moltitudine », ninna ragione v' ha per iscemare il valore a siffatta testimonianza. *' Ora una immensa moltitudine non si poteva commuovere per contro- versie riguardanti solo il, dogma giudaico. Ci vuole altro per muovere le turbe. Se soltanto tali quesiti avessero formato oggetto della predicazione evange- lica, i gentili avrebbero probabilmente risposto come il proconsole Corinzio rispose ai Giudei che accusa- vano Paolo: « sono questioni di parole: pensateci voi ». Il cristianesimo dovè invece assumere ben presto in Roma un contenuto sociale ed economico. Quel che importava era il complesso delle aspirazioni e delle rivendicazioni messianiche, era la parola dolce, che per prima affermava 1' eguaglianza umana, e promet- teva lo sterminio degli empii, e prossimo il regno della giustizia. Ora questa sete ardente di rivendicazioni umane era comune tanto al giudaismo quanto al cri- stianesimo. La differenza era in ciò, che per il cri- stianesimo il Messia era già venuto, ma doveva tosto tornare a disperdere le potenze maleJBche sulla terra; il giudaismo non sapeva accomodarsi all'idea di un Messia, che non avesse levato sugli empi la sua spada di fuoco, e assicurato la supremazia al suo popolo " La testimonianza di Tacito è i-insaldata da quella di Clem. Rom. Ad, Cor., I, 6 (nokò t:).YjOoc;), e da quella dell' ^joo- calisse, VII, 9 {o/'koc, t:oXù<;) e da quella di S. Paolo che ai Fi- lippesi dice, parlando dei cristiani di Roma : « Molti dei miei fratelli nel Signore ». Contro siffatte testimonianze non v'è una sola prova di fatto. — Nulla trovo in proposito nel lavoro del- l' Harnach, GescJdchte der Verbreitung des Christenthuvis, in Sitzunysb. d. Akad. d. Wiss. zu Berlin, 1901. l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 135 eletto e feimato l' impero nella divina Gerusalemme, bella d'oro, di cipresso e di cedro. Ma in sostanza r una aspettazione e l' altra di un prossimo rinnova- mento umano aveva un contenuto sociale; e a guardar l'una e l'altra dal di fuori, era facile confonderle. Quindi è che Giuseppe Flavio e Giusto di Tiberiade non distinguono i cristiani dai giudei; e Tacito in un passo (Bist, V, 5) confonde gli uni e gli altri; cosi Suetonio, quando dice {Claud., 25) Jndaeos imimlsore Chresto assidne tumultuantes Roma expnUf, intende evi- dentemente (per quanto stranamente sia stato interpre- tato questo passo) per Judaei i Cristiani, immaginando Cristo ancor vivo ai tempi di Claudio,v anzi eccitatore dei Giudei nei loro tentativi di riscossa. '* — Che poi la coscienza umana si sia spostata non verso il giudai- smo, ma verso il cristianesimo, la ragione è manife- ** Impulsore non può voler dire « a cagione » bensi « per eccitamento ». È da mettere a riscontro questo passo di Sue- tonio con un passo degli Atti degli Apostoli, nel quale si ha questa notizia (XVIII, 2-3) < [Paolo ^ trovato un certo Giudeo, per nome Aquila, di nazione Pontico, da poco venuto in Italia, insieme con Priscilla sua moglie (perciocché Claudio aveva co- mandato che tutti i Giudei si partissero di Roma), si accostò a loro ; e poiché egli era della medesima arte, dimorava in casa loro ». Ora è importante il fatto che Aquila e Priscilla erano appunto cristiani: cfr. Rom., XVI, 3; I Corint., XVI, 19; II Tim., IV, 19; Ada, XVIII, 2, 18, 26. E che il fossero anche prima d'incontrarsi con Paolo si può con qualche probabilità dedurre dal fatto che appunto in casa loro andò ad abitare Paolo a Corinto. Paolo, Eom. XVI, 3, li chiama suoi « coope- ratori ». Cfr. De Rossi Bnll. ardi, crisi. 1867, pag. 43 segg. 1888-89 pag. 128 segg. ; Allard, Hist. des persécut., I, pag. 23. E probabile dunque che Claudio scacciasse dalla città i Giudei cristiani, non tutti i Giudei : tanto piìi che dei Giudei Cassio Dione (LX, 6) dice che Claudio ritenendo pericoloso a cagione del loro numero scacciarli dalla città, si limitò a interdirne le adunanze. — E che 1' espulsione ordinata da Claudio non riguar- dasse propriamente i Giudei viene indirettamente provato dal fatto che Giuseppe Flavio, solitamente cosi bene informato di tutto ciò che riguardai suoi compatrioti, non menziona di Clau- dio se non atti di favore per essi {Ant, Ind. XIX, 5, 2; XX, 1, 1). 136 l' incendio di roma k i primi cristiani sta. L'uno infatti rimaneva chiuso nel suo rigido par- ticolarismo di razza, l'altro abbracciava nell'amor suo l'universo. L'uno esaltava il popolo eletto dal Signore e destinato al trionfo; l'altro predicando l'eguaglianza umana volse la propaganda sua tra i Gentili. Di più ancora, gli uni spostavano indefinitamente i termini della dolce promessa, gli altri annunciando imminente il desiderato ritorno, parevano soddisfare la impazienza di rinnovamento umano, che è cosi caratteristica della società romana del primo secolo. È facile immaginare quanto larga e immediata diffusione avesse il cristianesimo tra gli schiavi, i quali sentivano più che mai prepotente la brama di riven- dicazioni e da secoli prorompevano di tratto in tratto alla rivolta. D' altra parte, come avviene in tutti i movimenti umani, si aggregava alle idee nuove quel sostrato tenebroso della società che spunta fuori solo nei giorni più torbidi, giungendo ad ogni eccesso cui spingano le bieche passioni e i rancori lungamente soffocati. Tali uomini gettavano fosca luce su tutta intera la chiesa. Tacito dice: « odiati pei loro delitti » i Cristiani, e meritevoli di ogni « pena più esemplare » (Ann., XY, 44); e Suetonio parla di essi come di gente « malefica » (Ner. 16). Tacito e Suetonio hanno delle virtù e delle colpe umane gli stessi concetti che ne abbiamo noi. Quando essi parlano di delitti e male- fizi, non è possibile assumere tali parole in signifi- cato men tristo dell'usuale. La castità, la temperanza, la rinuncia ai piaceri, l'odio per le turpitudini, erano pure per essi tali pregi, che ne avrebbero commosso di ammirazione reverente l'animo. Si potrebbe pen- sare a calunnie sparse ad arte nel popolo. Ma è pur l'incendio di eoma e r primi cristiani 137 vero che nelle stesse fonti cristiane abbiamo la prova che molti nelle varie chiese fossero indegni di predi- care la croce di Cristo. Paolo stesso, nella lettera scritta da Roma ai Filippesi, così parla di alcuni, che si erano aggregati alla nuova fede: « Molti dei fra- telli nel Signore, rassicurati per i miei legami, hanno preso vie maggiore ardire di proporre la parola di Dio senza paura. Vero è che ve ne sono alcuni che predicano Cristo anche per invidia e per contesa, ma pure anche altri che lo predicano per buona af- fezione. Quelli certo annunziano Cristo per contesa, non puramente, pensando aggiungere afflizione ai miei legami; ma questi lo fanno per carità, sapendo ch'io son posto per la difesa dell' evangelo ». A quante interpretazioni han dato luogo queste parole! Eppure a dichiarazione di esse mi pare che possano servire quelle che Paolo aggiunge poco dopo: « Siate miei imitatori, o fratelli, e considerate coloro che cammi- nano cosi.... Perciocché molti camminano, dei quali molte volte vi ho detto, e ancora al presente vi dico piangendo, che sono i nemici della croce di Cristo; il cui fine è perdizione, il cui Dio è il ventre, la cui gloria è nella confusione loro; i quali hanno il pen- siero e l'affetto nelle cose terrene. Noi viviamo nei cieli, come nella città nostra, onde ancora aspettiamo il Salvatore ». '"E più giù: « La vostra mansuetudine *'■' Tali parole scritte ai Filippesi liHiiiio riscontro con quelle della lettera ai Romani (16, 18-18j. « lo vi esorto, fratelli, che vi guardiate da coloro che commettono dissensi e scandali, con- tro la dottrina che avete imparato e vi ritragghiate da essi. Perciocché essi non servono al nostro Signore Gesù Cristo, ma al proprio ventre, e con dolce e lusinghevole parlare seducono il cuore dei semplici ». Dunque quelli che « non servono a Dio, ma al proprio ventre », non si trovavano solo a Filippi, ma an- che a Roma. Ingiusto è quindi l'appunto mossomi dal sig. Fr. Cauer, in Beri, philol. Wock. 1901, pag. 1520. Sulla recensione del Cauer v. anche App. II, nota 1. Circa le varie questioni ri- guardanti la lettera ai Filippesi, e propriamente la sua genui- 138 l' incendio di roma e i primi cristiani sia nota a tutti gii uomini, il Signore è vicino. Non siate con ansietà solleciti di cosa alcuna ». "" Il Signore è vicino! Dunque, egli dice, siate mansueti, e cioè non vi abbandonate a moti incomposti, aspettate con calma e fiducia. Il seme gettato aveva fruttificato do- vunque ; era seme di amore e fruttificò la rivolta. Ed in Roma quali erano coloro che predicavano Cristo per invidia e contesa? Erano quelli che avevano l'animo alle cose terrene, che avevano invidia dei beni al- trui, e prorompevano in contese e sommosse: questi, sì, aggiungevano afflizione ai legami di Paolo. Egli infatti doveva essere giudicato da Cesare e aveva tutto l'interesse che non apparisse perturbatrice dello Stato la sua dottrina; sul puro campo religioso l'as- soluzione era sicura, giacche Roma in religione non conobbe mai l' intolleranza. La nascente chiesa cri- stiana era già fin d' allora scissa in fazioni. AH' in- fuori delle dispute dommatiche che tanto travaglia- rono a Paolo la nobile vita, era vivo nel primitivo cristianesimo il dissenso tra quelli che cercavano in- culcare l'aspettazione fidente della divina giustizia, e quelli che volgevano le nuove dottrine a scopi di immediate rivendicazioni materiali. Dagli scrittori mo- derni è stato ampiamente studiato in che cosa consi- nità e l'unicità della sua composizione, v. gli autori citati presso Clemen, Proleqom. z. Chron. der Paulinischen Briefe, Halle, 1892, pag. 37-39. -'^ Qualche scrittore ha accennato che tutti questi passi si riferiscano a scismi e divisioni interne della nascente Chiesa, per questioni di dogmi e di gerarchia. Quale relazione abbiano il dogma e la gerarchia col ve>itre, di cui parla Paolo, col pen- siero e V affetto volto ai beni terreni, non so vedere. Che se poi invece si vuol parlare di scismi e divisioni riguardanti vera- mente l'attaccamento ai beni terreni, si vuol supporre cioè che avessero assunto il nome di Cristiani, uomini avidi ed invidiosi dei beni altrui, allora siamo pienamente d'accordo; ed io posso anche nutrire non vana speranza che i miei contraddittori siano per venire nell' avviso mio. l'iNCKNDIO di roma e 1 PRIMI CRISTIANI 139 stessero i dissensi dommatici; ma non per questo dob- biamo noi credere che solo ad essi si riducessero le divisioni della prima chiesa. Anzi, chi ben guardi, a riprovare il partito delle rivendicazioni sociali si tro- vavan concordi pur quelli che nel dogma eran dissen- zienti; e se da una parte Paolo protesta esservi nella Chiesa alcuni che sono nemici della croce di Cristo, perchè il loro Dio è il ventre, il loro affetto è alle cose terrene, Pietro parla a lungo di quelli tra i Cristiani che sono schiavi di lor lascivia, che come animali senza ragione vanno dietro all' impeto della natura, desti- nati a perire nella loro corruzione, essi che reputano tutto il loro piacere consistere nelle giornaliere de- lizie, e non restano giammai di peccare, adescando le anime deboli, ed avendo il cuore esercitato all' avarizia (II Petrij 2). E, come Paolo, anche Pietro, nella P'' epi- stola (la cui attribuzione è sicura) esorta i Cristiani alla soggezione verso le autorità terrene, i sovrani e i go- vernatori, e a ritenerli come inviati da Dio stesso, per punire i malfattori e premiare quelli che fanno bene (I, 2, 13-14). L'esortazione prova appunto che tra i Cri- stiani fosse una fazione turbolenta (cfr. I. Tim. 6, 3-4). È dato pensare col Eénan {Saint Paul, p. 475) a quelle sette cristiane che negavano la legittimità dell' im- posta, che predicavano la rivolta contro l' impero, e identificavano anzi l' impero al regno di Satana. La maggior parte della prima chiesa sarà stata di per- sone invase dall'amor del bene e da fraterna carità; ma la turbolenza fremeva in quella massa disforme, e la parola apostolica mal giungeva a frenarla. Or qui è da richiamare quel che abbiam sopra visto, riferito da Suetonio, che cioè sotto Claudio i Cristiani tumul- tuassero e fossero espulsi da Roma. Anche quel passo è stato soggetto a tante interpretazioni! Pure a con- ferma della nostra, basta rammentare il passo di Tacito [Ann. XV, 44) « quella perniciosa superstizione soffo- 140 l' incendio di roma e I PRIMI CBISTIAKI cata per il momento, prorompeva di nuovo », il quale passo ci lascia anche comprendere che più d' uno do- vettero essere i tentativi di soffocare il cristianesimo nascente. -' Perchè soffocarlo, se non fosse stata in esso una fazione rivoluzionaria? In Roma tutti i culti vi- vevano alla luce del sole. '" E che tal fazione avesse in Roma il Cristianesimo, si deduce dalia lettera stessa di Paolo ai Romani. Vi s' industria in ogni maniera di incutere il rispetto all' autorità, tenta perfino di far credere divina la potestà terrena: « Ogni persona sia sottoposta alle potestà superiori, perciocché non vi è potestà se non da Dio ; e le potestà che sono, sono da Dio ordinate. Talché chi resiste alla podestà, resiste all'ordine di Dio, e quelli che vi resistono riceveranno giudizio sopra di loro » ecc. (7?o?»., 13). Indi pure si spiega perchè ai cristiani si facesse accusa di professare l'odio del genere umano. Tacito anzi dice che 1' accusa fu provata (Ann.. XV, 44) odio humanis generis conoictì sunt ^'' Si è tentato d' interpretare il passo, adducendo -' Pih d" uno, ho detto.^Le parole di Tacito sono : Auctor nominis eius Christus, Tiberio iviperitante, jyer procuratorem P. Pilatum sujypiicio adfectus fuerat; represscique in praesens exi- tiabilis superstitio rursum erumpebnt. Se Tacito avesse voluto dire che la repressione fu una sola, avrebbe detto eruperat; invece eruinpebat è imperfetto iteratiro, in relazione con quel- V in praesens. E il significato è: « ogni volta che era repressa erompeva di nuovo ». 2- I provvedimenti repressivi presi in Roma contro certi culti e cerimonie fui-ono determinati da ragioni di moralità e di quiete pubblica ; cfr. Aubé, Histoìre des pemécutionfs, I, pag. 77 ; De Marchi, Rendiconti Istituto Lomb. Giugno 1900; Ferrini, Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano, Mi- lano, 1901, pag. 345 segg. Se il Cristianesimo avesse avuto un solo carattere religioso sarebbe stato tollerato, come era tol- lerato anzi qualche volta (Joseph. Ant. jud., XVI, 6, 2), anche favorito il giudaismo, che pur pretendeva all'esclusiva verità del suo unico Dio, e pure aveva contrario il sentimento pubblico 2^ Di simili accuse parlano spesso più tardi gli apologisti, v. Tertulliano, Apol. 37 ; hostes maluistis rocare generis humani; e tutto il cap. 35; sicché a me sembra vano il tentativo d'in- I.' INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI 141 la rinuncia, che i cristiani professavano, ai beni e ai piaceri della vita. Vani sforzi! Il mondo classico aveva visto in tal genere le aberrazioni estreme della scuola cinica, la quale tuttora vigeva (A)tn., XVI, 34); ed aveva ancora, fiorente nel suo seno, l'ideale della virtù stoica. Gli è elle ogni rivendicazione di una classe sociale contro l'altra, diventa necessariamente lotta e quindi odio di classe. Strana sorte! Cristo e i suoi apostoli insegnavano 1' amore; gettata la loro parola nelle mol- titudini, era seme che fruttava 1' odio umano. Fra quelle turbe, inasprite da secolari dolori, avide della agognata riscossa, passò la figura dolce e confor- tatrice di Paolo. Persegui tenacemente e con fervore divino, l'opera sua; diresse con la mansuetudine quei cuori tempestosi, convertì quanti più potè tra i Preto- riani ed i servi di Nerone (Ai Filipp., I, 13; IV, '22). Finito poi, con l'assoluzione, il processo a suo carico, non è certo che egli sia rimasto in Roma (63 dopo Cr.). '"' L' ajino seguente, proruppe l'incendio. Il Signore è vicino ! aveva annunziato Paolo, e tutta la letteratura evangelica contiene questo grido angoscioso di aspettazione : « Io vi dico in verità che alcuni di quelli che sono qui presenti, non proveranno la morte, primachè non abbiano veduto il Figliuolo dell' uomo venire nel suo regno ». — « Io vi dico che terpretare : « d' essere odiati dal genere umano ». Come può es- sere per alcuno un capo di accusa l'odio alti-ui? E si poteva asserir seriamente che tutto il genere umano si unisse ad odiare quella Chiesa segreta ed ignota? E ad ogni modo quando pur si volesse sforzare la frase sino a tal senso, ci si guadagne- rebbe ben poco. •' V. però su tutta la cronologia di Paolo, Harnack A., Die Chronologie des altchristlichen Litteratur, 1, 231-243. 142 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI questa generazione non perirà, prima che tutto questo avvenga. Cielo e terra periranno, ma non periranno le mie parole ». Così concordemente gli evangeli di Mat- teo, di Marco e di Luca. E la lettera di Jacopo : « Siate pazienti, fortificate i cuori vostri, la venuta del Signore è vicina ». E la lettera agli Ebrei : « Ancora un breve tempo e colui che deve venire, verrà e non tarderà ». E Paolo stesso ai Romani : « La notte è avanzata, e il giorno è vicino ». È noto che il dogma posteriore spostò indefinitamente la speranza di questo avvento divino : ma i cristiani di allora l'aspettavano per la loro ge- nerazione. Paolo nella prima ai Tessalonicesi così dice: « Noi viventi siamo riserbati sino alla venuta del Si- gnore ». E gli oppressi, i conculcati, i disprezzati, si estasiavano al prossimo adempimento della dolce pro- messa. Ma quando, quando tornerà il liberatore, a sol- levare gli umili, a punire gli empi ? « Quando avrete veduto l'abbominio della desolazione, detta dal profeta Daniele, posta dove non si conviene » rispondevano gli evangelii {Marc, 13). « In quei giorni vi sarà affli- zione tale, qual mai non fu dal principio della creazione delle cose finora, ed anche mai non sarà! E se il Si- gnore non avesse abbreviati quei giorni, ninna carne scamperebbe ; ma per gli eletti suoi, il Signore li ha abbreviati Allora se alcuno vi dice: Ecco qua Cristo, ovvero: Eccolo là, noi crediate Ma in quei giorni, dopo quell'afflizione, il sole oscurerà, la luna non darà più il suo splendore. E le stelle dal cielo cadranno, e le potenze nei cieli saranno scrollate. E allora gii uo- mini vedranno il Figliuolo dell'uomo venir dalle nuvole, con gran potenza e gloria». Così l'idea del prossimo ri- torno di Cristo era congiunta con quella della fine del mondo, cui doveva far seguito la rinnovazione delle cose, e la rigenerata umanità. Cristo stesso indicando i superbi palagi di Gerusalemme aveva detto : « Vedi tu questi grandi edifici ? Ei non sarà lasciata pietra l/ INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI 143 sopra pietra». E Griovanni aveva annunziato :.« Fi- gliuoli è l'ultima ora », (I Giov.^ '2, 18), e Pietro : « È prossima la fine delle cose ». È prossima? ma non era r età di Nerone 1' abbominio della desolazione di cui aveva parlato il profeta ? ^° E non aveva promesso il Signore, che sarebbero brevi quei giorni, perchè altri- menti niuno si salverebbe ? E dopo la distruzione, il rinnovamento : dopo le ingiustizie secolari, 1' egua- glianza e la pace ! E il recente convertito trovava nel fondo oscuro della sua coscienza le reliquie del pagane- simo, che vi persistevano tenaci : dunque, pensava, lo stoicismo non s'ingannava, e pure attraverso il mondo nostro era penetrato un raggio del vero: era penetrato per gli oracoli delle Sibille, per le predizioni etrusche, per le dottrine degli stoici : tutti annunziavano la fine delle cose e la novella progenie umana; tutti annun- ziavano il prossimo regno del Sole, cioè del fuoco, che rigenererebbe l' universo, e Vergilio stesso lo aveva cantato {Ed., IV, 10). Ma sopratutto lo stoicismo pareva dare a queste anime turbate il cupo consiglio, lo stoi- cismo, che essi sostanzialmente non distinguevano dal Cristianesimo per il suo contenuto morale, e che come contenuto sociale aveva le stesse aspettazioni di rinno- vamento umano. Or lo stoicismo predicava l'ecp^ros/V, combustione cosmica, come fine del mondo, e prin- cipio della nuova era umana. Per alcuni stoici questa combustione cosmica do- -'"' Nerone era veramente per i cristiani l'Anticristo, la be- stia nera {-o OY,piov lo chiama V Apocalisse), l'uomo del peccato, il figliuolo della perdizione, di cui parla la II di Paolo ai Tessa- lonicesi (2, 3). Il suo regno era dunque annunzio dell' imminente regno di Dio (v. la citata lettera di Paolo, cap. II); cfr. Renan, S. Paul, 252 e sogg. L' àvOpiD-o; T-r,v àv&[j.[a; è personificazione della potenza mondana, che deve rivelarsi con impeto prima della fine del mondo; cfr. Ferrar, The Life and Work of St. Paul, 1890, pag. 728 seg. — Sulla genuinità della Seconda ai Tessa- lonicesi, V. Weizsàcker, Zeilschr. f. iciss. TlievL, 1890, pag. 249; Briickner, Chronol. Reihenfolge, pag. 263 segg. 144 l' INCKNDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI veva essere preceduta dal diluvio, secondo l'idea antica di Eraclito (v. il framm. presso Clemente, Strom. V, 599). Tale è pure l' idea di Seneca, nel quale è così ardente il desiderio di rinnovamento, che alcune parole di lui sembrano uscite dalla bocca di un apostolo [Nat. Qw., Ili, 28-30). Anch' egli cupamente anìiunzia : « Non tarderà molto la distruzione ! » E come il vecchio Eraclito, e dietro di Ini le scuole stoiche, simboleggiando nel fuoco l'anima divina del- l' universo, aveva detto (presso Ippolito IX, 10) : « il fuoco tutto assalendo giudicherà ed invaderà », così nel dogma cristiano si assegnò all'incendio del mondo l'uf- ficio di purificazione e giudizio finale. Gli antichi pro- feti d'Israele erano t\itti pieni di fremiti sdegnosi, di ansiose aspettazioni dell' ora punitrice. Neil' anima di Isaia pare accogliersi tutta la protesta dei miseri, l'onta per la dominazione assira, l'odio per chi procurava la rovina al popolo. Egli scatta e minaccia : « Voi sarete come una quercia di cui son cascate le foglie, come un giardino senz' acqua. Il forte diventerà stoppa, l'opera sua favilla; l'una e l'altra saranno arse insieme: non vi sarà niuno che spenga il fuoco » (I, 30-31). Questi fremiti sdegnosi si risentiranno più tardi nell'Apoca- lisse cristiana. E l'idea della combustione del mondo fu pur congiunta, nel dogma cristiano, a quella del se- condo avvento di Cristo : « I cieli e la terra del tempo presente per la medesima parola son riposti, giac- ché sono riserbati al fuoco, nel giorno del giudizio e della perdizione degli empi. Or quest'unica cosa non vi sia celata, diletti, che per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno. Il Si- gnore non ritarda, come alcuni reputano, la sua promessa, anzi è paziente verso di noi, non volendo che alcuni pe- riscano, ma che tutti vengano a penitenza. E il giorno del Signore verrà come un ladro di notte ; in quello i cieli passeranno rapidamente, gli elementi divampati 1.' INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI 145 si dissolveranno ; la terra e le opere che sono in essa , saranno arse. Poiché tutte queste cose hanno da dis- solversi, quali vi conviene essere in sante conversazioni e pietà, aspettando e affrettandovi all' av venirti ento del giorno di Dio, nel quale i cieli infuocati si dissolve- ranno, gli elementi infiammati si distruggeranno ! (Così la così detta II Petri, 7-12. V. anche Cai-m. sibyll. IV, 172 e segg. ; VII, 118 e segg.). — E certamente, questi apostoli della dottrina avranno fatto ogni sforzo per provare che il fuoco era divino, non umano, e per esor- tare alla calma e all'aspettazione fidente di Dio. Questo risulta dalle parole che abbiamo citato, anzi risulta da tutta intera la letteratura apostolica, che è piena di consigli miti. Ma risulta altresì l'impazienza di alcuni. Gettate una dottrina come questa, dell'imminente fuoco, punitore di tutti i gaudenti della terra, in mezzo ad una turba di schiavi, di gladiatori, di oppressi; e voi vedrete a tale annunzio in diversa guisa manifestarsi r animo di ognuno, altri raccogliersi nelle trepidanze angosciose, altri, i più violenti, i tristi per natura, correre a sfogare le ultime agognate vendette. Rotti i vincoli e i freni umani, erompe l'animo dei tristi a sod- disfare con facile ardire le passioni prima represse o celate. Le vendette, le violenze e il saccheggio sono le forme consuete cui irrompono, in tal condizione di spi- riti, le turbe forsennate. Altri forse, illusi o fanatici, avranno creduto trovare giustificazione nella stessa jia- rola divina. Cristo stesso aveva detto : « io sono venuto a portare il fuoco sopra la terra » (Luca, 12), Essi cre- devano essere gli esecutori della divina vendetta, essi dovevano iniziare l'opera redentrice. Le masse esaltate dal fanatismo sprezzano i consigli della moderazione e della calma. Fermentano allora in quelle coscienze commosse tutte le ire e tutti i rancori ; perduti ritegni e timori umani e divini, gli animi si spingono ad ogni eccesso. e Pasotil. ' 10 14r; l' incendio di roma K 1 TRIMI CRISTIANI lu quale altra comunità romana in quel tempo po- tevano essere così vivaci gl'impulsi all'atto forsennato? Certo, anche gii Ebrei auguravano a Roma stermioio; ma non aspettavano fiamme vendicatrici per la loro generazione ; nella Corte di Nerone erano bene accetti; in lui non vedevano l'Anticristo, il mostro, l'uomo del peccato, annunzio del prossimo regno di Dio. Solo dunque 1' ultimo strato sociale, cui si era portata la parola dell' eguaglianza e dell'amore, poteva erompere all' opera distruttrice. QuelT ultimo strato sociale era abbeverato di odio contro tutto 1' ordine presente. Gli apostoli davano bensì consigli di obbedienza ai loro padroni; ma dalle loro stesse parole risulta che alcuni andavan predicando dottrine ben diverse. Si ascolti Paolo a Timoteo (IV, 1-5): « Tutti i servi che sono sotto il giogo reputino i loro signori degni di ogni onore, perchè non sieno bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. E quelli che hanno signori fedeli non manchino ai proprii doveri verso di essi, perchè son fratelli; anzi molto più li servano, perchè son fedeli diletti e che partecipano del benefiziG^. Insegna queste cose ed inculcale. /Se alcuno insegna/ diversa dottrina, e non si attiene alle sane parole del signore Gesù Cristo, e alla dottrina che è secondo pietà, esso si gonfia senza saper nulla, vaneggiando tra dispute e logomachie, onde sorgono odi, contese, bestemmie, tristi sospyetti, conjiitti di uomini viziati di mente e alieni dal vero, che credono la pietà abbia ad essere un guadagno ». Come scruta addentro nelle latebre dell'anima lo sguardo profondo di Paolo! L' amore universale, che egli aveva annunziato diven- tava naturalmente per il popolo pretesa di rivendica- zione : la pietà diventava guadagno. E non pure v' erano quelli che agitavano la questione dello scuotere il giogo secolare, come indubbiamente risulta dalle parole or citate di Paolo; ma contro tutta la compagine e l'orga- nizzazione sociale e l' imjjero stesso si appuntavano gli l' incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 147 odii loro. Anzi nel primitivo dogma era che allora av- verrebbe l' incendio del mondo e quindi il regno della giustizia, (luaiido avvenisse la fine dell' impero. Certo, in tale forma noi troviamo più tardi il dogma in Tertul- liano. « Noi preghiamo, egli dice {Apolog. 32), per 1' im- pero e per lo stato romano, noi i quali ben sappiamo che la massima rovina che sovrasta all'universo intero, il chiudersi dell' èra nostra, che ci minaccia orrende sciagure, di tanto sarà ritardata di quanto si prolun- gherà il romano impero » (così pure nel liher ad Sca- p ulani, cap. II). Qui 1' appressarsi del fato estremo è cagione di trepidanza, come nel mille; nell'epoca neroniana era aspettata con fervore di desiderio e si accusava Dio della ritardata promessa {11 Petri, 3, 9). Molti passi della letteratura apostolica attestano il fermento degli spiriti e la loro desiosa aspettazione dell'ora finale. A più eccitarli si facevano perfino correre false apo- calissi [li Tessal. 2, 2). Si spiega quindi come solo all' epoca neroniana, potè erompere l' impazienza al- l' atto forsennato. — E che anche nell'epoca neroniana si unissero i due concetti della fine del mondo e della fine dell' impero, si deduce da quel che sopra abbia- mo visto, che il regno di Dio doveva esser preceduto dal regno del mostro (11 Tessal. 2, 3-12); il mostro era Nerone. Se dunque la distruzione dell' impero, rauuienta- raento dell'Anticristo era il principio della divina giu- stizia, si richiederà, credo, una volontà ben salda per negare ancora che questi poveri fanatici, forse indotti da eccitamenti malvagi, abbiali voluto farla finita con r impero e con Roma. 11 fuoco, il fuoco devastatore avrebbe posto fine all'abbominio e rigenerata l'umanità neir innocenza. Come la potenza della luce era prece- duta da quella delle tenebre, e il regno di Dio da quello del mostro, cosi il fuoco divino doveva esser preceduto 148 !>' INCENDIO DI ROMA E I PRIMI CRISTIANI dal fuoco umano, che avrebbe annientata la sede stessa dell' impero. ■" Ed ora, dopo aver esaminato quali passioni fre- mevano nel cuore, quali dottrine esaltavano le menti di una parte di questa comunità cristiana, torniamo alla narrazione dell'incendio. Di tante centinaia di sol- dati e servi incendiari, è possibile che nessuno fosse riconosciuto ? Non è possibile, che anzi si sapeva che erano i servi del cubicolo imperiese e i soldati del pre- torio. E quando furono riconosciuti ed arrestati, perchè non avrebbero addotto 1' ordine di Nerone ? E Nerone si sarebbe messo, dinanzi al popolo, allo sbaraglio di questa terribile prova ? Invece i primi arrestati con- fessarono. « S' iniziò il processo primamente, dice Ta- cito {Ann. XV, 44), contro i rei confessi ; dipoi mol- tissimi altri, per denunzia di essi, non furono tanto convinti di avere appiccato il fuoco, quanto di odiare il genere umano » ^' (o secondo altri : di essere odiati !). •^' Non come prova, ma come elemento di fatto che può avere relazione col nostro argomento, crediamo far menzione di una curiosa scoperta fatta nel 1862 a Pompei. Sopra una muraglia, tracciate col carbone, si scopersero alcune lettere. Il Kiessling {Bull. Ist. corr. ardi. 1862, pag. 92) che primo, col Miuervini e col Fiorelli vide il documento, credette poter leggere ignì gavdb CHRISTIANE. Le lettere al contatto dell' aria si dileguarono. Due anni dopo il De Rossi non ne vide più nulla e dovette conten- tarsi di un fac-simile tracciato dal Minervini. Sul fac-simile credette dover leggere : avdi cukistianos ; e con altri residui di lettere sparsi qua e là per le muraglie, tentò tutta una ri- costruzione, a dir vero un po' romantica, contro la quale qual- che buona osservazione fece i' Aubé, lILst. des pers. I, pag. 418. •'■ Nell'interpretazione di questo passo troppe volte la pas- sione ha fatto velo all'intelligenza. Riportiamo tutto il passo, ed esaminiamo le singole espressioni, avvalendoci, in parte, delle prove già apportate da H. Schiller, in Commentationes in honorem Th. Mommseni, pag. 41 e segg., per quanto noi non vogliamo giungere alle esagerate sue conclusioni. l'incendio di roma e I PKim CRISTIANI 149 La reità dunque fu provata solo in parte per la prima accusa ; j)er tutti fu provata la seconda accusa, quella « Ergo, aholrndo rumori Nero subdidit reos et quaesitift- simis poenis affecit quos per flagitia invisos, vulgus christianos appellabat. Auctor noìinnis e'ms Christus, ecc. Igitur primiim. correpti qui fatebantur ; deinde indicio eorum mnltitudo ingens, haud perinde in crimine incenda quam odio humani generis convicti sunt ». Il subdidit reos si vori-ebbe spiegare « sostituì al vero col- pevole i falsi ». Rimandiamo, per il valore della frase, all' app. Ili di qnesto studio. Passiamo al primum correpti qui fate- bantur. Corripere denota l' inizio della procedura penale : cfr. Ann. II, 28; III, 49, 66; IV, 19, 66; VI, 40; XII, 42. Se la pro- cedura penale fu iniziata, dovè iniziarsi per il delitto di cui si tratta, il crimen incenda ; non potè essere per una causa di religione, che del resto si sarebbe dovuto svolgere dinanzi al Senato (cfr. Tac. Ann. II, 85; Suet. Tib. .86 : Dione LX, 6; Suet. Claudio, 25). Nerone era scelleratissimo, ma non era sciocco ; e una sciocchezza sarebbe stato accusare per il delitto d' in- cendio, e fare un processo di religione. Pretendere che Nerone abbia fatto questo, significa supporre senza prove che egli ab- bia introdotto nella legislazione penale un delitto nuovo ; e ciò proprio all'indomani dell'assoluzione di Paolo, il quale aveva potuto per due anni predicare Cristo con ogni franchezza e senza divieto {Atti upost. 28, 31). « Furono dunque prima- mente processati d'incendio quelli che via via confessavano ». Confessavano che cosa ? Quando fatevi o confiteri sono adope- rati assolutamente in relazione a un processo significano: «di- chiararsi reo di quello per cui si è accusati » ; cfr. Ili, 67 ; XI, 1 ; XI, 35 ; Cic. : Mil. 15 ; Lig. 10. Si vuole invece supplire se Christianos esse. Ma per tal significato il verbo di Tacito sa- rebbe stato profiteri; cfr. Ilist, III, 51; III, 54; IV, 10; IV, 40. Ann. I, 81 ; II, 10, 42. K dovendo giudicare dell' incendio era assurdo il chiedere la confessione di altra colpa, dì cui era competente a decidere solo il Senato. Altra colpa ? Si può pro- prio seriamente affermare che si ritenesse allora dai Romani colpa il professare una religione qualsiasi ? In ogni altro caso, trattandosi di una accusa determinata, quella dell' incendio, a niuno mai sarebbe venuto in mente che la confessione degli accusati potesse intendersi di altro che di incendio; e il pre sentare tale ipotesi sarebbe parsa tale enormità, qual sarebbe quella ad esempio di colui che nel passo di Cicerone, Mil. 15 « ni,si vidisset posse absolvi eum. qui fateretur » volesse inten- dere il fateretur in un significato diverso da quello di « essere reo confesso di omicidio ». Ma la passione spiega qualsiasi aberrazione. — Segue indicio eorum. Indicium è la denuncia se- 150 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI più generica. E cioè : i primi, gli esecutori materiali, confessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum): greta o la rivelazione fatta da accusati o da colpevoli contro al- tri colpevoli (Ann. VI, 3; XI, 35; XIII, 21; XIV, 44; XV, 51, 54, 55, 73). E poiché l'accusa qui è delV incendio, anche indicium si riferisce a tale accusa. Nella lettera di Plinio, X, 96 1' accusa è invece deire.<fser cristiani; e index quindi (§6) significa « denun- ziatore dei Cristiani » e per questo anche nella medesima lettera cuìifitentes vale « quelli che si confessavano cristiani » : l'accusa era proprio questa! — Si è obiettato che i Cristiani non pote- vano denunziare i loro fratelli. Il che può significare che questi non erano veri Cristiani, che erano povero volgo ignai-o, aggre- gatosi al partito delle novità per ispirito di rivolta; ma non ci potrà indurre a sostituire una interpretazione falsa ad una vera. Anche i Cristiani di Bitinia, interrogati da Plinio, non potevano maledire Cristo, sconfessare la fede e venerare l'im- magine di Traiano ; eppure « omnes et imaginem. tiiam deorum- que mnulacra venerati suni et Christo male dixenmt » (Plinio 7?p., X, 96, 6). — Segue : « haud, jìprinde in crimine incenda quam odio Immani generis convicti sunt*. Haud perinde quam, {haud proinde quam), non perinde quam significano : « non tanto..., quanto » ; cfr. Ann., VI, 46; XV, 37; XV, 42. La se- conda cosa si afferma dunque in proporzioni maggiori della prima, ma tutte e due si affermano. E cioè, nel caso nostro, la prova della partecipazione all' incendio si ebbe solo per al- cuni ; tutti furono provati rei {convicti sunt) deW odio Immani generis. Provati rei, da chi? mi si è detto. Dai ministri di Ne- rone. Non è questo il significato del convicti sunt, che non de- nota la dichiarazione di reità fatta da un giudice, bensi la prova inconfutabile e che non può essere disconosciuta dallo stesso accusato. Qualcuno ha suggerito invece del convicti co- niuncti del Mediceo. Il coniuncti è stato forse indotto ilal co- pista a cagione di quell' in crimine, che pareva non convenirsi alla costruzione del convicti. E ad ogni modo non potrebbe si- gnificare se non: « furono congiunti non tanto nell'accusa d'in- cendio quanto.... ». Il che tornerebbe a quel che dico io, indi- cherebbe cioè che 1' accusa di incendio non fu abbandonata : ma poiché non tutti furono trovati colpevoli d' incendio, furono tutti coinvolti nell'accusa di odio contro il genere umano. — Debbo pure avvertire che le parole di Tacito [im) : miseratio oriebatur, tamquam non utilitate pnblica sed in saevifiam unius absumerentur non significano già che Tacito credesse inno- centi i Cristiani, e non sono quindi in contraddizione con tutto ciò che precede Tacito non dice nam,.... absumebantur ; dice: < nasceva compassione nel popolo quasiché {tamquam) i Cri- stiani si facessero perire non per utilità pubblica, ma per sod- l' incendio di roma e 1 PRIMI CRISTIANI 151 allora non si volle sapere altro, si fece l'arresto in massa dei cristiani, e ninno di essi smenti la sua fede; solo questi ultimi- dichiararono non aver preso parte all'incendio, come i primi; ma era lo stesso, erano tutti rei di queir odio umano che aveva armato le mani di fiaccole : furono tutti condannati. Come si vede. Tacito prese questi particolari da una terza fonte, e credette doverli registrare come fatti accertati, pure cercando di smorzare le tinte e adope- rare espressioni un poco oscure, per non nuocere all'in- tento suo di gettare qualche sospetto su Nerone. Il che si rivela pure dalle parole seguenti : « na- sceva compassione (per i Cristiani condannati ai suppli- disfare la crudeltà di un solo », il che si riferisce alle voci che correvano nel popolo accusafcrici di Nerone. Quando il popolo vide tra i condannati i servi di Nerone e i soldati del pretorio, non potè non sospettare che essi avessero agito per ordine del- l' Imperatore. Tacito parla dei Cristiani come colpevoli, o con- vinti o confessi, ma distinguendo evidentemente gli esecutori materiali da colui che poteva aver dato 1' ordine, riferisce non senza qualche compiacimento le voci popolari accusatrici di Nerone. Cosi in Ann., XV, 67 gli fa volgere da Subrio Flavio l'accusa di incendiai'iìis. In principio, egli presenta due sole ipotesi : forte an dolo principis, parole alle quali si è attri- buito il senso che Tacito stesso escludesse ogni sospetto a ri- guardo dei Cristiani. Ciò non è esatto. Bisogna distinguere gli esecutori materiali da colui che poteva aver dato l' ordine. Quanto ai primi egli non ha alcun dubbio, poiché li chiama sontes et novissima exempla meì'itos, parole che mal s' inten- derebbero, se non si riferissero ad un determinato ed unico delitto. Quanto al secondo, egli esprime la convinzione che 1' ordine partisse da Nerone. Convinzione che egli derivò forse dalle Storie Cimlt di Plinio, e che ebbe del resto origine dal fatto che tra gli esecutori materiali furono veramente gli schiavi di Nerone : ma appunto tra questi schiavi erano numerosi i cristiani. Tacito riferisce pur l'ipotesi del caso: ma la sua nar- razione esclude l'ipotesi. Non altrimenti, ad esempio, ei dichiara non potersi incol- pare Tiberio per la morte di Druso, eppur getta su lui anche per questo qualche ombra. Non vuol pronunziarsi se Agricola sia morto di veleno per opera di Domiziano, ed ogni tanto l' insinua. 152 l'incendio di roma e i primi cristiani zii), benché si trattasse di uomini colpevoli e meritevoli di ogni più inaudita pena esemplare ». Ma perchè avrebbero confessato i primi cristiani? Perchè avrebbero denunciato i compagni ? E qui, oltre che può tornare in campo la ragione già detta del necessario riconoscimento di alcuni, si può volgere la mente anche ad altro. Neil' ardore del fanatismo, essi avranno creduto immediato il miracolo. Iddio, Iddio ora tornerebbe, egli che aveva promesso di tornare dopo la desola- zione estrema : non finirebbe la loro vita prima che Iddio tornasse. E confessavano, gloriosi, e denuncia- vano, per far partecipi alla gloria. " Immaginate que- sti esaltati a spiegare l'opera loro, la fede loro : l'egua- glianza dei diritti umani voluta da Dio, la distruzione di tutto, necessaria per 1' avvento suo. I Romani pri- mamente allora s' accorsero che quella fede aveva un contenuto sociale, ed era un pericolo per lo Stato. E la qualificarono dottrina di odio contro il genere umano. Era invece la rivendicazione degli oppressi e degli schiavi : ma questi con erano uomini. Ma c'è ancora di più: anche dopo, i cristiani non cessarono di sperare ancora quelle fiamme vendicatrici, e di auspicarne il ritorno. Alcuni anni dopo, il bagliore sinistro di quelle fiamme accende la fantasia allo scrit- tore deìV Apocalisse. Si riconosce oramai da tutti, anche dagli scrittori cattolici, che in questa, sotto il nome di Babilonia, si cela quello di Roma, Ora ascoltate il grido di maledizione e di vendetta su Roma, baccanale di -^ Ripugna il pensiero che i livori delle fazioni nella na- scente chiesa, quei livori dei quali abbiamo visto muovere la- gnanza Paolo, li spingessero alle reciproche accuse. Clemente Rom. (ad Cor., I, 3, 5, 6) dice che le sciagure dei Cristiani furono effetto della gelosia (St^/ Cr,)vOv). Anche l'Arnold, Die neronische Christenverfolgung, Leipz. 1888, pag. 69 e 114 crede che le denunzie contro i Cristiani sieno state fatte da Cristiani dissidenti. l' incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 153 Ogni turpitudine, che scaglia il profeta dell' Apocalisse : « Poi udii un' altra voce che diceva : uscite da essa, o popolo, mio, acciocché non siate partecipi dei suoi pec- cati, e non riceviate delle sue piaghe. I suoi peccati sono giunti l'uno dietro all'altro insiuo al cielo, e Iddio si è ricordato delle sue iniquità. Rendetele il cambio di quello che essa vi ha fatto ; anzi rendetele secondo le sue opere, al doppio : nella coppa nella quale ella ha mesciuto a voi, mescetele il doppio. Quanto ella si è glorificata ed. ha lu.<suriato, tanto datele tormento e cordoglio : perciocché ella dice nel cuor suo : io seggo regina e non sono vedova, e non vedrò giaminai duolo. Perciò in uno stesso giorno verranno le sue piaghe ; morte e cordoglio e fame : e sarà arsa col fuoco ; per- ciocché possente è il Signore Iddio, il quale la giudi- cherà. E i re della terra, i quali fornicavano e lussu- riavano con lei, la piangeranno, o faranno cordoglio di lei, quando vedranno il fumo del suo incendio ».... e così di seguito, per tutto il capitolo XVIII, che è un sol fremito di protesta, un sol grido di vendetta contro la meretrice « ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù ». E nel capitolo seguente si pregusta con voluttà frenetica la gioia della sua rovina; « Allel- luia! la salute e la potenza e la gloria e 1' onore al Si- gnore Iddio nostro. Perciocché veraci e giusti sono i suoi giudizii ; e infatti egli ha giudicato la gran me- retrice che ha corrotto la terra con la sua fornicazione, e ha vendicato il sangue dei servi suoi, dalla mano di lei.... Alleluia! e il, fumo di essa sale nei secoli dei secoli ». Come si vede, appena pochi anni dopo l'incendio, si tornava ai folli eccitamenti. Ed il sogno di Roma divenuta preda alle fiamme turbò anche in seguito le menti cristiane. In quella strana e lugubre miscela di fantasie giudaico-cristiane, non senza qualche elemento pagano, che é conosciuta sotto il nome di « Oracoli si- 154 l' incendio di roma e i primi cristiani billini » esso ritorna con cupa insistenza: VII, 113-114; Vili, 37-47; XII, 32-40. « Verrà dall'alto anche su te, superba Roma, la celeste sciagura : tu piegherai prima la cervice, tu sarai distrutta, il fuoco ti consumerà tutta, piegata sulle fondamenta; la tua ricchezza perirà; il tuo suolo sarà occupato dai lupi e dalle volpi; sarai allora tutta deserta, come se giammai fossi stata. Dove sarà allora il tuo Palladio ? Qual Dio ti salverà ? Un Dio d'oro, di pietra o di bronzo? Dove saranno allora i decreti del tuo Senato? Dove quelli di Rea o di Crono? E la schiatta di Giove e di tutti gli Dei che tu ado- ravi?... (VIII, 37 e segg.). Per quanto la punizione qui sia immaginata come celeste, non è possibile non sen- tirvi la voce di una umana vendetta. « Quando potrò io vedere tal giorno? » dice poco dopo (v. 151) il poeta. E pure il più antico dei poeti latini cristiani, il pio Commodiano, ha il medesimo voto {i'arm. ap. 923). Dov'è più la dottrina della mansuetudine e del per- dono? La disposizione d'animo dei primi cristiani era ben altra. Il loro grido di vendetta sembra, come si vede dagli esempii apportati, quasi echeggiare pure in tempi più lontani. « A noi basterebbe, dice Tertulliauo {Apol. 37), se volessimo vendicarci, una sola notte e qualche fiaccola ». E poi tosto soggiunge: « Ma non sia che con umano fuoco si vendichi la divina setta». "" Infine, notiamo che attribuendo a queste prime turbe cristiane, fanatiche ed avide delle loro rivendi- -^ Non vorrei che tali parole venissero tratte da critici benigni a peggior sentenza eh' io non tenni. Nelle parole di Tertulliano echeggia un grido di vendetta, cui tosto segue un consiglio di moderazione, non di perdono. La vendetta, la pu- nizione si aspetta ancora, si aspetta dal fuoco divino. Che cosa sia questo fuoco divino, spiegano a lungo gli apologisti, ad- l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI 155 cazioni, l' incendio, le particolarità di esso si spiegano tutte, che invece abbiamo mostrato inesplicabili, se- condo la tradizione comune. Anzi dalle notizie che ab- biamo, ci è dato discernere perfino il piano della scia- gurata impresa. Anzitutto, si proiittò della lontananza di Nerone da Roma; la vigilanza era allora diminuita; i principali cittadini, le cui case erano sacrate al fuoco devastatore, avevano seguito la corte imperiale. Tra i pretoriani ed i servi di Cesare erano numerosi i cri- stiani (Paolo, Ai FilijJ. I; 13 e IV, 22) : si stabilì che fossero questi ad appiccare 1' incendio e ad impedire l'estinzione: così tutti avrebbero creduto trattarsi di ordini imperiali e ninno avrebbe osato opporsi. Ri- chiesti perchè scagliassero le faci, risponderebbero che agivano per istigazione altrui, senza dir di chi (Tac: esse sihi mictorem vociferahantur); tutti avrebbero inter- pretato che essi avevano il comando da Cesare e il divieto di nominarlo. Tutti i portici, le passeggiate, le opere d'arte, che avevano allietatogli czii dei potenti, i templi ove si adoravano gì' idoli della corruzione e della menzogna, tutti andrebbero distrutti. Il Tra--te- vere, ove era stata primamente accolta l' idea reden- trice, le case dell' umile plebe, sarebbero salve. Si comincerebbe dai magazzini di materie infiammabili presso il Palatino : la prima a bruciare sarebbe la casa del mostro. Questo fu il piano attuato e riuscito. Finito il primo incendio, si doveva riappiccare l'in- cendio alla casa del secondo mostro dell'impero, il mi- nistro delle turpitudini imperiali, Tigellino. E di là nuovamente proruppero le fiamme devastatrici. Per questi fanatici illusi, Nerone, nel parossismo della ferocia, escogitò incredibili tormenti. Li fé' ero- ducendo i fulmini e i vulcani (Miuucio, 35; Tertul. Apol. 48): ina la distinzione sarà stata fatta sempre, o meglio ancora, sarà stata fatta mai dalle infime turbe ? 156 l'incendio di roma e I PRIMI CRISTIANI cifiggere, o sbranare dai cani, o dannare alle fiamme. Grli orti suoi furono illuminati da quelle fiaccole umane, in mezzo alle grida selvagge della turba briaca e plau- dente. Ma da quelle fiaccole spirò più gagliardo il soffio della idea cristiana. D' allora in poi quella idea, inocu- lata nel sangue della umanità, ne resse le sorti. Tutta la trama della storia umana si svolse intorno ad essa. Quella idea fu gloria e bassezza, eroismo e viltà, amore e ferocia. Per essa quanto altro sangue fu sparso, quante altre volte le turbe furono trascinate ad impeti forsen- nati! Pure, una volta, tornò a risuonare tra gli uomini la parola buona, ed aleggiò sugli spiriti l'amore, e sor- rise alle genti affaticate la pietà del Francescano. Quella volta Cristo re^nò sulla terra. \^^^-f;A.^(45'^l)^A^è(5^^^4^A'%,.^ APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE. APPENDICE I. Di una nuova fonte per l' incendio neroniano. {l>:i\V Atene e Roma, iiuiirgio 1901). « Ludis quos prò aeternitate imperii susceptos appel- lavi Maxiinos voluìt ex utroqiie ordine et sexit plerique ludicras partes sustinuerunt. Nntissimus eques romanus elephanto supersedens per catadromum decucurrit. Inducta est et Afranii togata qiiae Incendium inscribitur: conces- sumque ut scenici ardentis domus suppellectilem diriperentj ac sihi haberent. Sparsa et popido missilla omnium rerum per omnes dies ; singida (/uot/die millia avium cuiusque ge- neris^ multiplex 2)(^nus^ tesstrae frmnentarlae^ vestis, auruvi, argentum, gemmae, mn.rgaritae. tabulae pictae^ mancipia, iumenta, atque etiam maìistietae ferae; novissime naves, in- sulae, agri. Hos ludos spectavit e proscenii fastigio ». Così Snetonio in Nero^ XI-XII. In quale occa- sione celebrò Nerone questi ludi Maximiì Suetouio in questa parte dell' opera sua enumera disordinatamente gli spettacoli dati da Nerone. Quello qui accennato è stato identificato con quello di cui fa menzione Cassio Dione, o meglio il suo compendi atore Xifilino, in LXI, 17 e 18. La somiglianza infatti è grande: i nobili ro- 158 APPENDICI ALLO STUDIO PRKCKDENTE. mani che si prestarono a far da attori e giocatori, 1' elefante funambolo che portava sul dorso un uomo; i doni gettati al popolo. Di più Cassio Dione ram- menta le commedie e tragedie rappresentate. Chiama la festa |j.£7'.atT| 7.7.1 TtrAnizlzozc/.rq: ma l'unione dei due aggettivi parmi che mostri che [j.sYiatYj è una semplice qualifica data dall' autore alla festa, non è il nome proprio di essa, e non risponde perciò al Maximos di Suetonio. Così pure gli altri punti di simiglianza noii souo co^i caratteristici clie ci facciano concludere alla identità delle due feste. Elefanti camminanti sulla fune {per catadromum) si vedevano in tali feste (cfr. Siiet. Galb. 0) ; senatori e cavalieri lottanti nell' arena se ne videro spesso sotto Nerone (cfr. Suet. Kero^ 12); dona- zioni al popolo Nerone ne fece immense, ne fece, se- condo Tacito {Hist. I, 20) per più di due miliardi di sesterzi. Se dunque le somiglianze sono grandi, non sono tali che ci obblighino a credere all' identità tra i giuochi rammentati nel passo di Suetonio e quelli rammentati nel passo di Dione. ' Il passo di Dione parla di festività celebrate in onore della madre. Corrispondono queste ai circensi, rammentati da Tacito, in Ann. XIV, 14. E possibile che a tali circensi alluda Suetonio nelle parole immediata- mente precedenti a quelle da noi riportate: circensihus loca equitl secreta a ceteris trihuit ; di essi infatti dice Tacito che furono liaud promiscuo speciacido. — Noi cre- diamo che il passo di Suetonio riguardi i ludi celebrati dopo V incendio 1 e cioè, probabilmente, celebrati dopo ' È pur da notare che Cassio Dione (LXI, 21) parlando dei giuoclii detti Neronéi, li dice istituiti da Nerone per la in- columità e diuturnità del suo regno. Ma probabilmente confonde tali giuochi con quelli prò aeternitate impern, secondocliè già da gran tempo fu riconosciuto (Pauly, lì. Encycì. s. v. Nero, V, 580). I giuochi Neronéi furono gare quinquennali di arte e di foiza, istituite sul modello dei giuochi greci; cfr. Tac. Ann. XVI, 20-21; Suetonio, Nero, 12 e 21. APPKNDICK I. 150 che Roma era stata già in gran parte riedificata, per propiziarla agli dei. Saetonio dice che Nerone volle si chiamassero ludi maximi, e cioè, parmi, volle sostituire al positivo magni il superlativo maxìmi. Ora i ludi magni si celebravano in occasione di grandi [jericoli, da cui Roma fosse salva; in occasione cioè di guerre rischiose (Liv. 36, 2) o di tumulti (Liv. 4, 27). Si po- trebbe pensare che 1' adulazione avesse suggerito tale idea, adulazione a Nerone, che si diceva scampato dalle trame di Agrippina. Ma i ludi, menzionati da Suetonio, furono 2^'''^ aeternitate imperii; e mi par che questo ci porti ben lontano dall' ipotesi che si volesse alludere al preteso pericolo, da cui Nerone era scam- pato; e i ludi menzionati da Dione neppur furono per lo scampato pericolo di Nerone, ma anzi furono in onore della madre. Qual sarà dunque il fatto, durante il regno di Nerone, che metta in dubbio l' esistenza stessa dell' impero? Io credo che sia 1' incendio; e ciò crederei pure, quando non fosse molto suggestiva quella rappresentazione della togata di Afranio inti- tolata Incendinm. Che in questi ludi solenni, destinati ad auspicare, dopo la riedificazione di Roma, l'eternità dell'impero, sieno stati celebrati alcuni degli spettacoli che avevano più stupito i Romani durante i giuochi circensi fatti dopo la morte di Agri])pina, quale ad esempio quello dell' elefante funambolo, non può, credo, far meraviglia ad alcuno. Qualche altro indizio che andremo ora rac- cogliendo conferma la nostra ipotesi circa l'occasione e lo scopo di questi ludi maxìmi. Nerone, verista in arte, volle riprodurre sul teatro la scena deli' incendio : la casa rappresentata in mezzo alle fiamme (Suet. ar- dentis domiis) era probabilmente la casa sua, la domus transitoria che era bruciata (cfr. Tac. XV, 50 ardente domo). Egli volle che la scena dell' incendio fosse in- tera, che gli antori depredassero la casa e si tenessero 160 APPKNDICl ALLO STUDIO PRECEDENTE. la preda: ut scenici ardentis doinus stopellectilem diripe- I ì^eiit ac sihi habevent; cfr. Tao. Ann. XV, 38 ut raptus licentiiis exercerent. Se il carattere stesso dei ludi maximi deve con- netterli con una grande pubblica calamità, se la rap- presentazione dell' Incendium è così suggestiva per noi, ci si consenta ora di fermarci brevemente su quel che Suetonio dice, che i ludi furono sUscepti prò aeternitate imiperii. Nella ricostruzione, che noi tentammo, del pro- cesso, noi ponemmo che, dopo i primi confessi, arre- stati in massa i Cristiani, quando s' indagò più adden- tro la loro dottrina, e si seppe che essi aspettavano la fine dell'impero e l'imminente regno di Dio, la dot- trina stessa dovè essere qualificata « di odio contro il genere umano ». Questa parte della propaganda era stata certamente svolta solo nelle predicazioni segrete: quindi il modo misterioso, e per noi incomprensibile, con cui parla dell' Anticristo e del prossimo regno di Dio Paolo ai Tessalonicesi, (II Tess. 2, 2 e segg.; cfr. specialmente i n' 6 e 7). Fin da quando Caligola, con sacrilega follia aveva voluto essere adorato come Dio, era cominciato il fermento delle comunità cristiane che vedevano nell' imperatore divinizzato l' immagine vera dell'Anticristo, ed aspettavano quindi imminente la fine dell' impero ed il trionfo loro. A calmare tale fer- mento è appunto diretta quella parte della lettera di Paolo. E la dottrina sopravvisse pure all' eccidio; giac- che ancora in Tertulliano {Apolog. 32; Ad Scap. cap. Il) coincidono i due termini; la fine dell'impero e l'inizio del nuovo regno nel mondo. Se tal dottrina sentivano spiegare da quei fanatici i Romani, è naturale che la qualificassero dottrina di odio contro il genere umano, e cioè contro la civiltà romana, contro l' impero ro- APPENDICE I. 161 mano, ' ed è pur naturale che, riedificata Roma, auspi- cassero l'eternità dell'impero. Mi si consenta un' altra osservazione. Non fra le sole turbe impazienti e insoddisfatte era 1' aspettazione della prossima fine dell' impero. Era altresì negli alti gradi sociali, fra i filosofi, specialmente stoici, fra gli aristocratici di antica tempra. La congiura pisoniana mosse anzi, secondo Tacito, da questo principio: (Ann. XV, 50) cium scelera princlpis et tìnem adesse imperii deligendumque qui fessis rebus succurreret inter se aut inter amicos iaciunt. Dopo tal congiura gran parte della città doveva essere già riedificata; ed è naturale quindi che allora si celebrassero i ludi maximi. E poiché i due gravi avvenimenti ultimi avevan dato la prova di tante volontà decise ad aspettar la fine dell'impero, era naturale pure che all' eternità dell' impero si dedicas- sero i ludi. Il racconto dei quali doveva quindi cadere in una delle parti perdute di Tacito, dopo il cap. 35 del lib. XVI degli Annali. Tutto questo, si dirà, è una ricostruzione ipote- tica. Ma v' è pure un documento che può dare a tale ricostruzione non lieve conferma, documento che, ben- - Tac. Ann. XV, 44 odio Immani generis. Genus humanian in Tacito ed in altri scrittori vfvle egli abitanti dell'impero»; cfr. Coen, Persecuz. neron. pag. 69 dell' estr. — Un mio illustre maestro, il prof. A. Ohiappelli {in Atti della R. Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, voi. XXXIII) sostiene che odiiim humani generis debba essere interpretato per « misan- tropia». Che questo sia il significato della frase, quando sia adoperato in senso filosofico, niuno nega. Ma il nostro caso è diverso. La rinunzia ai piaceri, la vita ritirata e sdegnosa, la misantropia insomma, o fosse cristiana, come forse per Pom- ponia Grecina (Ami. XIII, 3'2), o fosse stoica, come per Rubellio Plauto {Ann. XIV, 22), Trasea Peto {Ann. XVI, 22) e tanti altri, desta l'ammirazione di Tacito, gli commuove di reverenza il C. Pascal. 11 162 APPENDICI AIA.O STUDIO PRECEDENTE. che non riguardi i ludi maccimi, riguarda però cerimo- nie pur dedicate all' eternità dell' impero. Questo do- cumento è un frammento degli Atti degli Arvali, che si riferisce all'anno 66 d. Cr. [Corp. Inscr. Lat. VI, p. I, pag. 491, n. '2044). Vi si notano i sagrifizii stabiliti dagli Arvaii ob detecta nefariorum Consilia, e tra gli altri quello aeternitati ìinperii (Un. 6). Così pure alla linea 21: reddito sacrificio, quod fratves Arvcdes voverant oh detecta nefariorum Consilia. Quali erano que- sti nefariorum Consilia? Qu&Ui dei congiurati di Pisone, giacché anch' essi, come abbiamo visto, aspettavano la fine dell' impero; ma pure quelli degl' incendiarli; giac- ché il nesso tra le cerimonie dedicate all' eternità del- l' impero e l' incendio è stabilita dal fatto, che durante quelle cerimonie si rappresentò la fabula Incendium. ' Né bisogna dimenticare un altro fatto. Riman- gono gli Atti degli Arvali del regno di Nerone, dal- l' anno 55 in poi (C. I. L. VI, n. 2037-2050); salvo quelli dell' anno 64, l' anno dell' incendio, e del se- guente. Ora gli Atti del 66 sono i primi nei quali alla serie di tutti gli altri voti, fatti alle altre divinità si aggiungono quelli all' Aeternitas imiMrii. Claudite rivos. Spero di non occuparmi più né dell' incendio né di Nerone. Non fu forse vana questa lizza d' ingegni, che ebbe origine, su tale speciale que- petto, non è da lui quaUficata fìagitmm, uon odium hìimoni generis. Non si possono dunque spiegare né i fìagitia ne V odùim con ia misantropia. Neil' un caso e nell'altro deve trattarsi, credo io, di ben altro. > È qui importante il notare che per Nerone sono distinti i vota prò aeternìtate imperii dai vota prò salute principis, che sono menzionati altrove (C. I. L. VI, parte I, pag. 493, lin. 2, 3 e 8: Tac. Ann. XVI, 22; Suet. NerOy 46). Per Domisciano invece le ce- APPENDICE I. IGB stione, dal romanzo del Sienkiewiecz ; lizza nella quale spiegarono armi poderose di critica e di dottrina uo- mini quali il Negri, il Coen, il Ramorino, il Chiap- pelli, il Semeria, il Boissier; né dovrò tacere i lavori, cosi corretti nella forma polemica, del Mapelli, del- l' Abbatescianni e del Profumo; ne quello, per più rispetti notevole, del Ferrara. * Impulsi non nobili e ambizioncelle presuntuosette e piccine trassero altri, impreparati, a scritture o invereconde o insensate, ^ ma in una questione siffatta, nella quale sembra esser così facile l' erudizione, era naturale aspettarselo. rimonie si congiunsero (C /. L. VI, 2064, pag. 510, lin. 3y segg.; 2065, pag. 512, lin. 9; 2067, pag. 520, lin. 40). Cosi pure per Set- timio Severo (C /. L. II, 259). V. De Ruggiero, Diz. epigraf. I, pag. 320. A Domiziano dunque allude Plinio il Giovane quando dice a Traiano {Fanegyr. 67): Nuncupare vota et prò aetei'nitate impeni et prò salute civium, immo prò salute principum ac pì'oj)ter illos prò aetermtate imperii solebamus. Haec prò impe- rio nostro in qiiae sint verba suscepta, ojjerae pretium est adno- tare : si bene rem ]}ublicavi , et ex utilitate omnium rexeris: digna vota quae semper suscìpiantur semperque sol- vantur. Diversa naturalnjente àdiW aeternitas imperii è V aeter- nitas Augusta, titolo che prima fu attribuito solo agli Augusti morti e consacrati (Boutkowski, Dici, num., pag. 804, n' 1544, 1546), e poi anche agli Augusti viventi; cfr. Eckhel, Doctr. num. VII, pag. 181. Aeternitas imperii non si trova, ch'io sap- pia, prima di Nerone, anzi prima dell'anno 66. Si trova poi più tardi, per Domiziano. Settimio Severo, sulle monete di Caracalla, di Geta, ecc.: cfr. Eckhel, VII, 202, 228, 238. ^ Non lavori speciali, ma riassunti o giudizii pubblicarono il Vaglieri, il Borsari, A. Avancini, D. Avancini, il Ricci (Corrado), il Thomas, il Toatain, il Martinazzoli, il Dufourcq, il Grasso, il Fabia, il Bouvier, il Reville, 1' Andresen, ed altri moltissimi. ^ Molti altri articoli ed opuscoli sbocciarono qua e là in confutazione del mio: nella maggior parte il fervore dell'in- tenzione non corrispose al valore. Chi ne vorrà sapere qualche cosa, potrà leggere i miei articoli in Vox Urbis, III. 24; e IV nn. 1 e 2 ; in Cultura, anno XIX, u. 13, e n. 15, e in Bollett. Filai, class, febbr. 1901. Ma, pur dopo, gli scritti continuarono; e vi fu perfino chi nascondendosi sotto il nome di Vindex pub- blicò un impudente volume. Fortunatamente si tratta di cosa destituita di ogni valore ; e disdice quindi alla dignità della scienza farne parola. 164 APPKNDICI ALLO STUDIO PIIECICDENTE, APPENDICE IL Osservazioni sopra (lue stiuìii riguardauti 1' fnrpiulio di Roma. Il prof. Achille Coen pubblicò ììbìV Atene e Roma (Anno III, 1900) un lungo studio sulla persecuzione neroniana. Crediamo opportuno informare i lettori della parte che riguarda le obbiezioni mosse alla mia tesi; e fare infine qualche breve osservazione circa l'ipotesi presentata dal chiaro Autore. Che l'una o l'altra delle opinioni che io mi provai ad avvalorare di argomenti nel mio opuscolo: L' in- cendio di Roma e i primi Cristiani fosse stata già addotta da altri, è cosa rimproveratami da più d'uno. Ma, a dir vero, i lettori del mio opuscolo debbono riconoscere che io esamino e discuto le sole fonti antiche, da cia- scuna delle quali cerco trarre qualche elemento, che mi giovi poi a ricostituire in una concezione unica il fatto storico. Il fare una rassegna, sia pur fugace, delle opinioni e interpretazioni moderne su ciascun passo, mi pareva lavoro arido, lungo e pressoché vano, e per giunta, di necessità monco e incompiuto (ad es., il Coen stesso non fa menzione dello Cliirac, che va molto al di là dell' Havet, Rev. Socialiste, Agosto 1S97). Fondamento principale alla mia tesi io posi nella credenza diffusa tra i cristiani del primo secolo, che fosse imminente l'incendio del mondo decretato da Dio, che dopo tale incendio verrebbe il regno della giustizia, che la distruzione del mondo presente coin- ciderebbe con la distruzione dell' impero romano. Tutta la letteratura apostolica mostra l'impazienza di al- APPliXDICK il. IfìÓ cune fazioni cristiane nell' aspettare il regno divino. Se c'è ipotesi che esca alla luce fornita di tutti i nu- meri delia probabilità, panni proprio questa, che tale impazienza abbia trascinato le turbe al fanatismo. Di tutto ciò non fanno quasi parola i miei contraddit- tori. Xel citare le antiche scritture cristiane, nelle quali tali dottrine sono contenute, io non ho preteso che proprio quelle i Cristiani di Roma leggessero. Ho addotto quei passi per dichiarare qual fosse il dogma dei Cristiani del j^rimo secolo, dogma che sarà stato spiegato principalmente mediante la predicazione orale, come del lesfco il Coen stesso riconosce (p. 302). Altra obbiezione mi muove il chiaro autore: onde io sappia che, prima del 64, Nerone fosse per i Cri- stiani r Anticristo. La seconda di Paolo ai Tessaloni- cesi, egli argomenta, è scritta, secondo la data più discreta, nel primo anno dell' impero di Nerone, o an- che prima; dunque i contemporanei non potevano ve- dere allusione a lui nelle parole dell'Apostolo. — Se- nonchè nel mio opuscolo io non sostengo che contro l'imperatore coìne persona si appuntassero gli odii di alcune fazioni cristiane; bensì come imperatore e ado- rato con divini onori (II Tessal. 2, 4). L'imperatore rappresentava 1' ordine costituito, che era per quelle fazioni il regno di Satana; come Roma rappresentava la forza e la potenza centrale di tal regno. Che ninno degli scrittori pagani (all' infuori di Tacito Ann, fslV, 44) parli dei Cristiani come colpe- voli dell'incendio, malgrado tutte le accuse volte con- tro di essi in seguito, io spiegai con l'ipotesi che r accusa contro Nerone nascesse tra i Pagani stessi, al vedere tra gì' incendiarli i servi di lui. Il Coen mi obietta: « Non consta che l'opinione la quale faceva Nerone autore dell' incendio sia invalsa in maniera così definitiva da far cadere in oblìo ogni altra ver- sione ». Consta anzi, egli dice, il contrario, se cin- 166 APPENDICI ALLO STUDIO PREGKUENTK. quant' anni dopo Tacito pone ancora l'ipotesi del caso. Che r opinione prevalesse in modo definitivo, solo dopo molti anni, credo probabile; ciò non è infirmato dall' accenno che Tacito fa al caso. Tutta la narra- zione che egli fa esclude 1' ipotesi del caso. Tacito però 1' ha registrata, perchè, com' egli dice, 1' ha tro- vata in una delle sue fonti. — Ma nessuna fonte po- teva contenere tale versione, obietta ancora il Coen, se fosse vera la ricostruzione eh' io faccio degli av- venimenti. Perchè nessuna f Una fonte trascurata o non informata di tutti i particolari narrati da Tacito,^ Suetonio e Dione. — Ed ora, il numero dei primi Cri- stiani in Roma. Tacito, Clemente Romano e l'Apo- calisse affermano che erano una gran moltitudine o nu- mero. I primi due, si dice, hanno esagerato; quanta all' Apocalisse si elevano dubbii di natura diversa. Esagerato? E perchè? Perchè altra volta Tacito esa- gera. E sarà vero; ma qual prova v' è che abbia esa- gerato questa volta ì E perchè avrebbe esagerato anche Clemente Romano? Sia lecito del resto rammentare che Paolo (^h* Filii). 1, 14), dice dei cristiani di Roma: « MOLTI dei fratelli nel Signore » e concludere quindi ancora una volta che ad infirmare 1' autorità di tali fonti non ?;'è una sola prova di fatto. Quanto ai Jìagitia, posso dispensarmi per ora dal discutere i singoli passi, se l'Autore stesso dichiara (p. 317) « flagitium contiene ordinariamente il duplice concetto di azione turpe e colpevole ad* un tempo y. Non sarà dunque errata nell' uso italiano la parola delitto. E che nei due paesi di Tacito (XV, 44) e di Plinio (X, 96) si tratti di veri e propri delitti, io con- fermo per la seguente ragione: che nell'uno seguono le parole: « colpevoli e meritevoli di ogni maggior pena », e nell' altro i flagitia son da mettere in relazione con gli scelera, dei quali Plinio parla dopo (v. qui appr. App. IH). APPKNDICE II. 167 Circa al fatebaiitur, io aspetterò dai miei contrad- dittori la prova, che esso, detto a proposito di uà pro- cesso, possa significare altro che la confessione di un reato. Per ora, rimangono le prove opposte, apportate nella mia nota 27. Mi sia lecito ora fare qualche breve motto, an- che sull'ultima parte dell'articolo del prof. Coen (n. 23, Nov. 1900). Questa parte tende a ricercare la ragione, per la quale gli occhi di Nerone si appuntarono sui Cristiani. L'indicazione gli sarebbe dunque venuta non dagli Ebrei, ma dal popolo stesso, che vedeva i Cristiani rifiutarsi alle cerimonie propiziatorie, e con- cepì su di essi il tristo sospetto. Con ciò 1' A., nella sua cauta riserva, rinunzia ad esprimere il suo avviso sugli autori veri dell' incendio. Lascia cioè sussistere ancora le due ipotesi: o il caso o l'ordine di Nerone. Io oso credere tuttora, che 1' una ipotesi e 1' altra non resistano all'esame di tutti i particolari dell'incendio, tramandatici dagli scrittori. Tale esame mi sono ado- perato a fare nel mio opuscolo; né credo sarebbe op- portuno ripeterlo qui. Mi basti solo accennare: per at- tribuire l'incendio o al caso o a Nerone bisognerebbe ritener falsi tutti i fatti narratici dagli antichi: che 1' ipotesi del caso non ispiega come mai vi fossero sca- gliatori notturni di faci; e l'ipotesi dell'ordine nero- uiano non ispiega (a tacer di altre ragioni minori) come mai l' incendio prorompesse proprio accanto al palazzo imperiale; e come mai, quando Nerone tornò a Roma, e cercò arrestare il fuoco, e prese tutti i provvedimenti atti a lenire il disastro, le fiamme di nuovo si rinnovassero dagli orti di Tigellino, il se- condo mostro dell' impero. Nuovo ordine anche questo? Tutto si può supporre; ma si può proprio credere che 168 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE. si sarebbero fatte abbruciare le regioni più belle e più nobili di Roma, lasciando intatto il lurido Tra- stevere, il ceutro della comunità giudaica e cristiana? Si può proprio credere che un uomo, dopo sei giorni d' incendio, mentre con tutte le sue forze si adopera a dar ric^to e pane alla plebe furibonda, possa ci- mentarsi, in mezzo alla disperazione del popolo, a rin- novare un ordine simile? Un uomo vile, e che dinanzi all' ira popolare fuggiva tremebondo, come Nerone? Le due ipotesi quindi, il caso e 1' ordine di Nerone, non possono, a mio parere, sussistere. Tacito le enun- cia, ma perchè utriimque auctores prodidere; ma la nar- razione stessa che egli fa, esclude 1' una ipotesi e l'al- tra. Egli evidentemente distingue gli esecutori matericdi dell' incendio, da colui che poteva aver dato 1' ordine; che i primi fossero i Cristiani non ha alcun dubbio, giacché parla di essi come confessi; solo è in dubbio chi fosse qiieìV auctor che essi dicevano averli incitati; e riferisce la voce popolare che 1' auctor fosse Nerone. E perciò appunto alla fine del cap. 44 aggiunge che i Cristiani benché colpevoli, e meritevoli delle mag- giori pene, muovevano a pietà, quasiché perissero non pel pubblico bene, ma per la soddisfazione della cru- deltà di un solo (in saevitiam unius), e cioè per averne eseguito gli ordini crudeli, secondochè mi pare che si debba interpretare questo passo. Ad ogni modo, l'ipotesi che il Coen oppone alla mia, che cioè l'indicazione dei Cristiani venisse fatta a Nerone dal popolo, sdegnato che essi si negassero di partecipare alle cerimonie di espiazione, non urta, se ben veggo, contro l' ipotesi mia. Per qualunque ragione tale indicazione sia stata fatta, quel che importa è di APPENDICE li, 169 vedere se 1' indicazione fu giusta o no. Io penso pur sempre che l' indicazione fu fatta per il necessario ri- conoscimento di molti. Non è jjossibile che non fossero riconosciuti, giacche anzi si sapeva che erano stati i pretoriani ed i servi di Nerone. Li dovettero, ad esem- pio, riconoscere quegli uomini consolari, i quali, come riferisce Suetonio, li sorpresero nei loro fondi ad ap- piccar l'incendio; e certamente anche molti altri. Ri- conosciuti, fu giuocoforza che essi confessassero, e che quindi contro di loro s'iniziasse il processo (Tac. car- repti qui fatebantur). E logico il supporre che nel fu- rore di repressione che invase gli animi a tale scoperta non si badasse più che tanto; non si distinguessero i Cristiani innocenti dai colpevoli, i calmi e pii dai fa- natici e dagli esaltati; è logico, perchè è umano; e in ogni repressione violenta avviene sempre cosi; si sup- ponga dunque pure che, oltre al necessario riconosci- mento di alcuni veri colpevoli, e alle denunzie di que- sti, molte indicazioni di Cristiani venissero fatte per la ragione supposta dal Coen; che cosa proverebbe ciò contro l' ipotesi mia? Senonchè la congettura del Coen si fonda sopra un presupposto, a proposito del quale pur mi tocca la mala ventura di non trovarmi d' accordo con lui. Su questo presupposto, cioè, che in momenti di furore, il popolo potesse aver tanta calma da ragionare così: gli ebrei sono nel loro diritto, di non partecipare alle nostre funzioni; i gentili noi sono. Sarebbero stati, credo io, ebrei e cristiani coinvolti insieme nella me- desima accusa; né i Cristiani erano allora considerati altrimenti che come fazione dei giudei. Esce fuori dei limiti della mia ricerca la seducente congettuì-a del Coen, sulle Banaidi menzionate da Cle- 170 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE. mente Romano, e sulla probabile relazione che è tra il passo di Clemente {ad Cor. I, 6) e il passo di Tacito: « profittata lurio per matronas^ prhnum in Capitolio, deinde apud proximum mare, vnde hausta aqua temphim et simu- lacrum deae perspersiìm est ». Poiché le cerimonie qui descritte sono, come il Coen ben nota (pag. 347-348), singolari, mi piace richiamare a proposito di quella lu- strazione apud proximum mare, alcuni versi oraziani: « Vel nos in inare proximum Gemmas et lapides aurum et inutile, Summi materiem mali, Mittamus, scelerum si bene paenitet ». {Carm. Ili, 24, 47-50). La cerimonia apud proximum mare era adunque rituale per espiazione di delitti? Anche Gaston Boissier ha voluto volgere al no- stro argomento la sagacia del suo ingegno; e gli stu- diosi saran certo grati al grande scrittore ed erudito francese dello studio pubblicato nel Journal des Savants, Mars 1902, Dopo una esposizione sommaria della que- stione e della tesi da me sostenuta, il Boissier così dice (pag. 161): « Assurément, tout cela n'est pas im- possible: quelques insensés, quelques anarchistes se seraient glissés parmi les premiers disciples du Maitre, qu'il n'en faudrait pas étre trop surpris, ni en l'en- dre le christianisme responsable. Remarquons pour- tant qua la société paienne n'avait pas encore mani- feste sa baine implacable pour les chrétiens, et n'ayant pas eu encore l'occasion de leur étre trop sevère, leur devait étre moins odieuse. C est plus tard, quand'ils furent poursuivis sans miséricorde qu'on rn'> s' éton- nerait de trouver chez eux des fanatiques capables de APPENDICE li. 171 tous les excés. Or, nous voyons qn'à ce moment; méme, où ils sont si durement traités par l'autorifcè et par le peuple, ils se vantent d'étre des sujets soumis, ir- reprochables, d'accepter Jes persécutions sans ré volte, de prier pour les princes qui les envoient au supplice, et de ne répondre que par le bien au mal qu'on leur faisait: il serait dono assez surprenant qu'ils eussent mis le feu à Rome lorsqa'ils avaient moins à se venger d'elle ». Se non m'inganno, questo che il Boissier ha notato, è il corso fatale di ogni setta, è la condizione stessa del suo vivere. Ogni setta cioè comincia per es- sere rivoluzionaria, e, messa allo sbaraglio delle dure prove, delle persecuzioni, dei tentativi di soppressione di ogni sorta, va perdendo a poco a poco il suo ca- rattere di opposizione e d' intransigenza, cerca acco- modarsi ai tempi, vivere nei suoi tempi, diventare, come oggi si dice, legalitaria. È un processo naturale ed umano: che meraviglia è che il vediamo riprodotta qui nella storia del cristianesimo? Non vediamo noi un fatto che a prima giunta può parere più straordi- nario ancora : che cioè quando le persecuzioni cessa- rono e il cristianesimo si fu affermato vittorioso, al- lora appunto esso cominciò più tenacemente ad abbattere istituzioni, monumenti, templi, cui gli editti imperiali mal giungevano a salvare da quelle furie devastatrici? Non potrebbe qui pure il Boissier domandarsi: perchè abbattere tutto, se ormai non avevano più da odiare o da temere nulla, essi, i vittoriosi? li vero è che du- rante le repressioni violente non scattano gl'impeti sovversivi; scattano prima, quando ogni furia sembra ministra di giustizia contro un ordine di cose odiato; scattano dopo, nell'irruenza dell'agognata vittoria: e scattano nei più impulsivi e più fanatici, pur contro i consigli di moderazione e di calma dei prudenti. Il Boissier continua: « Tout ce qu'on peut dire c'est que M. Pascal s'est fort habilement servi de son hj'^po- 172 APPENDICI Al>1.0 STUDIO PKECEDENTE. thèse pour expliquer les iacidents dont il vient d'étre question dans le récit de Suétone et de Tacite. Si l'on crut recounaìtre, dans le gens qui jetaient sur les mai- sons des étoupes eiiflamraées, des serviteurs de l'empe- reur, c'est qu'en effet il y avait des chrétiens dans le palais de Néron ; saint Paul nous le dit, et M. Pascal pense que ce sout ceux-là qui ont allume l'inceudie. Les consulaires, qui avaient l'occasion de les reucon- Irer souvent au Palatin, ne s'y sont pas trompés et l'on comprend que, saisis de frayeur à leur aspect, et croyant qu'ils agissaient par l'ordre du prince, ils les aient laissés faire. L'hypothèse est ingénieuse, mais ce n'est qu'uue hypothèse; pour voir si elle est d'ac- cord avec les faits, reprenons le récit de Tacite ». E qui il Boissier si fa ad esaminare il famoso passo di Tacito, di che è discorso nel nostro studio nella nota 27 e qui appresso in app. III. Egli riconferma la sua opi- nione, già altre volte espressa, sopra il gran numero dei cristiani di Roma; ed in ciò ho la fortuna di tro- varmi d' accordo con lui. Ma tal fortuna non mi tocca per 1' interpretazione del fatehantur tacitiano. Se il processo era d' incendio, avevo detto io, la confessione dei cristiani non può intendersi se non per il delitto d'incendio. E il Boissier mi oppone (pag. 163): « La nouvelle a dù s'en repandre partout; si elle était aussi sùre, aussi evidente que le texte de Tacite, inter- prete de cette manière, semble le dire, Néron avait tout intérét àia propager; il est impossible qu'il n'ait pas profité avec empressement de cet aveu, qu'il tra- vaillait à obtenir, pour se giustifier lui-méme. Quel- que détesté qu'il pùt étre, il u'j' avait pas moyen qu'on persistàt à l'accuser d'un crime dont d'autres se reconnaissaient les auteurs. Comment se fait-il donc que Tacite, presque au moment méme où il nous rap- porte cet aveu, ait pu dire qu'on ne sait s'il faut attribuer l'incendie au hasard ou à la malveillance? Et APPENDICE ir. 173 Suétone, si bien informe d'ordinaire, comment n'a-t-il rien su de cette procedure, qui, pourtaiit, dufc étre ren- due publique? Comment le peuple, qui perdait tout à ce désasfcre, a-t-il été touché de pitie pcur des gens, qui en étaient la cause et a-t-il crii qu'on les sacri- fìait uniquement à la cruauté d'un homme? M. Coen fait remarquer avec beaucoup de force qu'il est aussi fort étrange que dans la suite, lorsqu'on poursuivait avec tant d'acharnement les chrétiens et pour tant de crimes imaginaires, aucune allusion n' ait été faite à celui dont ils ne pouvaient pas se défendre puisqu'ils l'avaient avoué ». Ora a ciascuna di queste ragioni le risposte furono da me qua e là date: e mi converrà ri- peterle ora, poiché quelle ragioni, messe cosi tutte in- sieme in fila serrata, sembrano invitto manipolo. Nerone, dice il Boissier, aveva il maggiore interesse a divulgare la confessione. Certo, ed anzi appunto per questo forse egli diede la maggiore pubblicità alle pene nefande! — Secondo quesito: « se Tacito pone il dubbio che l'in- cendio fosse dovuto al caso, come può parlare di rei confessi d'incendio? » A mia volta domanderò: « se Ta- cito pone il dubbio che l'incendio fosse dovuto al caso, come può dire che vi erano coloro che impedivano ogni tentativo d'estinzione, aggiungendo l'ipotesi che ciò facessero per comando altrui? Gli è che Tacito non sempre è conseguente (v. note 25 e 27 in f.); prende da una fonte la ipotesi del caso, ma la sua narrazione tutta esclude tale ipotesi. — Terzo quesito: « Suetonio, sì bene informato, come non ha saputo niente di questo processo, che pur dovette essere pubblico? » O chi dice che non abbia saputo niente? Suetonio accusa Nerone di avere ordinato l'incendio, non di averlo appiccato: dice che gli esecutori materiali furono i servi di Ne- rone; e del processo non fa menzione, forse appunto perchè si trattava di uomini di infima condizione, che egli supponeva esecutori di ordini imperiali. In altro 174 APPENDICI ALLO STUDIO PKECEDENTK. luogo però pone tra le cose lodevoli del regno di Ne- rone i supplizii inflitti ai Cristiani. — Quarto quesito: come il popolo, che perdeva tanto, fu mosso da pietà per questi uomini, e credette che essi fossero immolati alla crudeltà di un solo? » Tacito dice che il popolo fu mosso a pietà per l'inaudita crudeltà delle pene, « òeu- chè si trattasse dì uomini colpevoli, e meritevoli delle lìing- giori pene»; si può esser più chiari? ed aggiunge; « come se essi fossero immolati non al bene pubblico, ma alla crudeltà di un solo », di quel solo cioè, che, secondo egli presume, aveva ad essi dato 1' ordine. Erano poveri schiavi esecutori di ordini : erano colpevoli, si, ma vittime della crudeltà di chi aveva dato 1' ordine : questo il pensiero di Tacito. Ma come potè spargersi la fama di quest' ordine dato da Ne- rone ? A me non par difficile ravvisarlo. Dice Tacito, che durante l' incendio, gì' incendiarli interrogati ri- spondevano agir per ordine. Probabilmente lo stesso risposero al processo, né discoprirono il loro tristo consigliere. E poiché tra quelli colti in flagrante e processati erano pure i servi di Nerone, l' ordine fu interpretato da molti come ordine dell' imperatore. Si potè credere che essi non volessero nominarlo per paura di peggio, o jDerchè ne sperassero le ultime grazie. Ad ogni modo , nato nel popolo il sospetto della colpa di Nerone, non era possibile che si dile- guasse : ne si dileguò. — Ultimo quesito : « ma come mai, dopo, furono accusati i cristiani di tutti i delitti, ma non di questo ?» È facile rispondere : i pagani stessi accusarono Nerone; la persecuzione contro i cri- stiani fu messa come cosa affatto indipendente dall'in- cendio, e come tale è già in Suetouio ; chi più pensava che il fanatismo religioso fosse stato impulso all'incen- dio ? Il popolo aveva ormai formato la leggenda sua : l'ordine dato da Nerone ai propri! servi, per loro stessa confessione : chi distingueva tra quei servi i cristiani APPENDICE II. 175 dai non cristiani? I due fatti, incendio e persecuzione, furono interamente disgiunti ; e la leggenda di Nerone incendiario tenne il campo incontrastato. Il Boissier aggiunge due considerazioni d' indole filologica (pag. 164). Affinchè la frase famosa di Ta- cito correpti qui fatebanhir, avesse il significato eh' io le attribuisco, egli crede che dovrebbe suonare cosi: qui c07-repti erant confessi sunt. Ma coìtìjjìo non ha il significato di « arrestare », bensì quello di « iniziare il procedimento penale » ; cfr. nota 27 ; dunque cor- ì-epti qui fatebantur ha precisamente il significato di: « si processarono quelli che erano rei confessi, e cioè di volta in volta che alcuno confessava, veniva sotto- posto a processo ».* Egli aggiunge che nel significato da me voluto, si sarebbe aspettato confiteri, non fatevi, trattandosi di delitto, e cita Cicerone, Pro Caecina^ IX: ita libenter confitelur ut non solum fatevi sed etiam projìtevi videatur. Faccio osservare prima di tutto che, secondo la ipotesi mia, i cristiani confessi non dovevano pen- tirsi o vergognarsi di quel che avevano fatto ; e poi, che, quando pure le norme dello stile ciceroniano po- tessero valere per Tacito, questa che qui si j)one, non è costante neppure per Cicerone: giacche Cicerone stesso adoperava /aferi per la confessione di omicidio (Mil. 15). Ma, aggiunge il Boissier, se Tacito avesse voluto dire ' Il signor Fr. Cauer cosi sentenzia {Beri, philolog. Woch.. 1901, pag. 1519): « Tacitus sagt : Die Gestàndigen wurden verhattet, nicht: die zuerst Verhafteten waren gestilndig. Das Gesttlndnis ging also der Verhaftung vorheri-. Ma covrepti non designa la cattura, bensì il processo; ed è naturale clie la confessione fosse anteriore al processo. - Bene dunque hanno fatto il Gerber e il Greef nel loro Lexikon 2'aciteum, col sottin- tendere al fatebantur del nostro passo .se incendisse urbeni. 176 APPENDICI ALI.O STUDIO PRECEDENTE. che i priini cristiani si vantavano nel confessare l'in- cendio, si sarebbe servito di yrofiteri. O donde mai que- sta regola? Si vuole un esempio di Tacito in qwì fatevi^ denota un delitto confessato e di cui il colpevole si glo- ria? Eccolo qui: Ann. XI, l: « praecipuum auctorem Asiaticum interficiendi C. Caesaris non extimuisse in contiene populi Romani fateri gloriamque facino- ris ulfcro petere. Infine circa il capo di accusa contro i Cristiani, la conclusione cui giunge il Boissier è la seguente : pag. 116 n.) « L'expression non tam in crimine incendii qtiam odio generis Immani coniunctì siint (cosi egli legge), semble bien indiquer qua l'accusation d'incendie ne fut pas abandonnée, mais que, comme ou n'esperait guère la faire accepter du public, on la dissimula suos celle à^odium generis immani, qu'on étendit à tout le monde ». Il che mi pare corrisponda all' opinione mia, che ho scritto apj)Uuto: « i primi, gii esecutori materiali, con- fessarono e denunciarono i compagni (indicio eorum) : allora non si volle sapere altro, si fece 1' arresto in massa dei ci'istiani, e ninno di essi smentì la sua fede; solo questi ultimi dichiararono non aver preso parte al- l'incendio, come i primi; ma era lo stesso, erano tutti rei di queir odio umano che aveva armato le mani di fiaccole : furono tutti condannati ». — Ed aggiungerò che la pena stessa del vivicomburio è un indizio che l'accusa d'incendio rimase; giacché tal pena è ap- punto quella che fino dal tempo delle XII Tavole era comminata per gì' incendi dolosi (cfr. Ferrini, Espo- sizione storica e dottrinale del diritto penale romano, 1901, pag. 148). APPENDICE 111. 177 APPENDICE III. Osservazioni sul passo di Tacito riguardante l'accusa contro i Cristiani. SUL SIGNIFICATO DI FLAGITIUM E DI SUBDERE IN TACITO. (Uallfi Rivista di Filologia, Luglio 1901). Una delle molte qne.stioni scaturite dalla tratta- zione di una tési, che è stata in questi ultimi tempi in vario senso discussa, e che tuttora è oggetto di di- scussioni non poche, si è quella relativa al significato della voce jlagitium. Può Jlagitiuvi equivalere a « de- litto « « scelleraggine, » oppur sempre si deve limi- tarne il significato, si che esso designi un' azione che sia solo « ignominiosa « o « vergognosa » ? Affinchè tal questione non sembri peccare di sottigliezza sover- chia, e si ravvisi anzi subito qual vantaggio ridondi dalla soluzione di essa all'intelligenza di alcuni passi, ci si consenta richiamare qui il ricordo di quei luoghi, dalla cui controversa interpretazione questo nostro pic- colo quesito si può dire sbocciato. Tacito in Ann. XV, 44 chiama i Cristiani jper fiagitia invisos. Così Plinio il Giovane, nella famosa lettera a Traiano sui Cristiani di Bitinia (X, 96) parla, a proposito di essi, di fiagitia cohaerentia nomini. Che cosa è dunque che si imputa ai e. l'ancal. 12 178 APPENDICI ALLO STUDIO PEECEDEKTE. Cristiani con la -pavola, Jlagitia? Quelli che ne vogliono limitare il significato entro i termini più angusti, ram- mentano come alla mente dei pagani dovessero sem- brare vergognosi i severi disdegni dei Cristiani per tutto ciò che fosse piacere ed ambizione terrena; e come tutto insomma il contegno loro di rinunzia e di avversione al mondo si avesse tal taccia. Ma non pochi scrittori e traduttori vedono in quei Jiagitia dei veri « delitti », che i pagani, a ragione o torto, attribui- vano alla nascente sètta cristiana. Non istarò, per ora, ad esaminare se sia giusto il concetto, che, agli occhi di scrittori, quali Tacito e Plinio, potesse sembrar ver- gognoso il contegno austero di rinunzia e di spregio per tutti i piaceri mondani, che si suole attribuire ai Cristiani; scrittori i quali, anzi, pare che allora solo si commuovano di ammirazione reverente, quando si tro- vino a discorrere di uomini nei quali sia invitta l'ener- gia del carattere, non cedevole a lusinghe di ambizione e di potenza o a blandizie ed allettamenti terreni. Keppur domanderò, se, qualora di semplice rinunzia al mondo si voglia parlare, trovino spiegazione le per- secuzioni feroci delle quali Plinio stesso si rese colpe- vole, condannando, senza processo, i Cristiani; e trovi spiegazione la domanda che egli fa a Traiano, quando, sgomento dal continuar la persecuzione, si ferma a porre il quesito, se la sètta cristiana in sé stessa o i Jiagitia ad essa inerenti egli debba imnire; era dunque passibile di pena, per un Plinio, pure la rinunzia ai mondo? Gioverà però, all' infuori di tali questioni, trattare l'argomento nostro; ed esaminati altri esempli ed indagato il significato di fiagìtium in essi, tornare poi, col risultato ottenuto, al quesito onde prendemmo le mosse. L'opinione che il significato di Jlagitiuin debba re- stringersi in più angusti confini rispetto a quello di malejìcium, scehis, e simili, trova qualche consenso negli APPENDICE HI. 179 scrittori di siuouimie. '■ Così lo Schmaifed, Lateìnisclie Syìionymik, § 209, pag. 183: « Flagitiwn heisst eine den, der sie ausfiihrt, e n teli rende Haudluug, Schandthat und b) oft geradezu Schande, infamia, dedecus », e il passo apportato (pag. 184) a suffragare tal signifi- cazione è quello noto della Germania di Tacito, 12: « tamquam scelera estendi oporteat dum puniuutur, fiagitia abscondi », passo nel quale la parola flagltia si riferisce alle colpe degl' ignavi et imhelles. Con lo stesso esempio tacitiano prova lo Schultz, Sinon. la- tini, trad. Germano-Serafini, § 243, la sua definizione: « Flagitium^ bruttura, è un delitto contro sé stesso, una violazione di sé stesso, non già con azioni violente, ma con azioni moralmente turpi e vergognose ». Con lo stesso esempio infine il Coen, La persecuzione nero- niana dei Cristiani, pag. 13 dell' esbr., conferma che '^fiagitia significhi azioni turpi piuttostochè crinunose »; e a pag. 83, sulla scorta anche di altri passi, determina il suo concetto cesi: « ftagitium contiene ordinariamente il duplice concetto di azione turile e colpevole ad un tempo; però quello della turpitudine primeggia; e pri- meggia tanto che qualche volta l'altro manca ». Ora in quel passo di Tacito, e in altri passi affini, è evidente che fagitium è adoperato in significato ben ristretto. Ma quando tal significato si vuol porre come costante in Jlagitium, ed applicarlo in tutti i casi, a me pare che si vada troppo oltre. Un utile riscontro può esser dato dalla nostra parola « vergogna ». Certo se « vergogna » è adoperato da solo, in opposizione a pa- role di significato più grave, quali « scelleratezze » o « delitti », ciascuno intenderà trattarsi, di azioni mo- ralmente, non penalmente condannabili. Ma « una fa- miglia coperta di vergogna » si dirà pur quella, nella ^ Nulla trovo nello Schmidt, Handbuch des Lat. u. Griech, Synonymik, Leipzig, 1889. 180 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE. quale il figlio sia ladro o la moglie adultera; e del figlio, ad es., di un assassino si dirà che egli sente il peso delle familiari vergogne. Gli è che tali parole hanno duplice significato: l'uno specifico e l'altro ge- nerico; e per questo secondo significato si trovano ad essere applicate a quelle medesime azioni, a denotare le quali si richiederebbero nomi specifici ben più gravi. Ne segue che a determinare di volta in volta il significato di tali parole, occorra anzi tutto vedere a quali fatti si accenni, dei quali sia nei singoli passi discorso. Non altrimenti io credo sia il caso per jla- gitium. Credo cioè che, quando jlagltnim sia adoperato in senso specifico, denoti azione turpe e sol moral- mente condannabile; ma che in senso più lato, e con riferimenti a fatti concreti, possa applicarsi ad azioni ben più gravi, a vere scelleratezze. A conferma del qual significato, ne sia lecito apportare qualche esempio, che io sceglierò esclusivamente da Tacito: Hist. IV, 58, « an si ad moenia urbis Germani Gallique duxerint, avvia patriae inferetisì horret animus tanti flagitiì imagine ». Trattandosi qui del portare le armi contro la patria, credo non si reputerà adatta a rendere quel Jiagitium qualche parola come « turpitudine » o « bruttura »; qui si tratterà invece di vera e propria « scelleratezza » o « infamia » o « delitto » ; si tratterà insou^ma di uno scelìis; e scelus è infatti, immediatamente dopo, chia- mata una tale azione: « quis deinde t^celeris exitus, cwn Romanae legiones se cantra derexerint) » La medesima identità tv a Jiagitium e scelus si scorge pure nel capitolo precedente, a proposito del giura- mento fatto dai soldati romani allo straniero. Ivi in- fatti si legge: {Hist. IV, 57) « ut, flagitium incognitum Romani exercitus, in externa verba iurarent, pignusquò tanti sceleris nece aut vinculis legatorum daretur ». Pure utile al nostro intento è 1' altro passo {Ann. I, 18, 10) « leviore flagitio legatnm ìnterficietis, qnam ab impe- APPENDICE III. 181 ratore descìscitis », e 1' altro (Ann. XV, 45, 8) nel quale il liberto Aerato, inviato nella Grecia e nell'Asia a commettere sacrilegi nei templi, è chiamato « cuicum- queflagitioiyvomptus », e l'altro ancora (i4?in. XIV, 11,9), nel quale si dice che Nerone imputava ad Agrippina tutti i flagìtia di Claudio, ^a^tYm dai quali quindi non si potrebbero logicamente escludere le uccisioni di Si- lano e di Statilio Tauro e delle ricche matrone e dei molti cavalieri, procurate da Agrippina, dopo il matri- monio con Claudio. Non sarebbe difficile addurre altri esempii: quelli addotti mi paiono per ora sufficienti a provare questo: che fiagitium sia parola di significato molto vario circa la gravità del fatto che con esso si imputa; tanto vario, che da semplice azione « scanda- losa » può di grado in grado discendere fino a denotare vera e propria azione « delittuosa » e « scellerata »; ed essere, come abbiamo già visto, sinonimo di scelns. Il che tanto più deve valere, se la parola è adoperata in senso giudiziario: scelas, peccatnm, Jlagitùcm, maleficium, ^jrohriim, facinus si usano, dice il Ferrini, [Esposizione storica e dottrinale del diritto penale romano^ P^g- 18j, promiscuamente nelle fonti medesime, per indicare gli stessi reati. Vuol dire che, a determinare la gravità della colpa indicata da fiagitium, converrà esaminare nei singoli passi a quali fatti esso alluda. E poiché nel passo di Tacito, Ann. XV, 44 « per fiagitia invisos » si tratta di tali tatti, per i quali l'A. ritiene evideate- mente non disdicevole ai Cristiani 1' accusa di « incen- diarli », quell'accusa cioè per la quale egli dice poco dopo i Cristiani « colpevoli e meritevoli delle maggiori pene » ; e poiché nel passo di Plinio (X, 96) « fiagitia cohaerentia nomini » non può esser dubbio che i fiagitia sieno gli scelera dei quali l'A. parla poco dopo {/urta, latrocinia ecc.), deve rimaner ferma la conclusione che anche in questi due -pàssi fiagitia denoti vere e proprie « scelleratezze » o « delitti ». 182 APPENDICI ALLO 8TUDI0 PRECEDENTE, II. È stata oggetto di controversia la frase sitbdere reum, che si ritrova tre volte adoperata da Tacito. I passi sono i seguenti: Ann. I, 6 17 «■ metuens ne reus suhderetuv ». Ann. I, 39, 6 « mos vulgo [esf] quamvis falsis reum suhdere ». Ann. XV, 44, 10 « abolendo rumori Nero stihdidit reos... qiios... ». La maggior battaglia si è veramente addensata sul terzo passo, quello riguardante i Cristiani. Che cosa vuol dire Tacito? Che Nerone accusò falsamente i Cristiani? Che li sostituì a se quali colpevoli dello incendio? O semplicemente che, per isviar la voci pubbliche che lo accusavano, fece iniziare il processo contro di loro? Sull'opinione di molti ha avuto cer- tamente efficacia non poca la frase sìibdere testamen- tum « far comparire un altro testamento » e cioè, evi- dentemente, falso), che si ritrova in Tacito stesso, Ann. XIV, 40, 5. Ma questo verbo siibdere ha sì sva- riati significati, che, se dovesse valere questa ragione analogica, si potrebbe, con pari diritto, giungere alle più avventate conclusioni. E per limitarci a Tacito solo, si vegga di grazia quanti sono gli usi e i signifi- cati diversi che può presentare tal verbo. Pugionem capiti subdere in Hist. II, 49, 9 è certamente « nascon- dere il pugnale sotto al guanciale » ; facem subdere in Hist. II, 35, 6 e Ann. XV, 30, 4 è « accostar di sotto la face » ; amphitheatro fundamenta subdere in Ann. IV, 62, 5 e animalia aratro subdere in Aìdi. XII, 24, 5 è « sotto- porre »; imj)erio aliquem subdere in Ann. XII, 40, 16 è « assoggettare all' imperio » ; rumor eni subdere in Hist. III, 25, 1 e Ann. VI, 36, 3 è « far circolare la voce »; subditis qui accusatorum nomina sustinerent m APPENDICE III. 183 Ann. IV, 59, 12 è « avendo subornato alcuni a soste- nere le parti di accusatori » e « subornare » è pure in XI, 2, 10. Una espressione poi che si accosta molto alla nostra è quella degli Ann. Ili, 67, 13 « ne qìds necessarionim iuvaret j^ericUtantem^ maiestatis crìmina suh- dehantur ». Qui si tratterà probabilmente dell'» imbastire processi di maestà ». Che sia pur questo il significato della frase subdere reos? Al passo nostro Ann. XV, 44, 10 « abolendo rumori Nero subdidit reos.... quos » tal signi- ficato non disconverrebbe. Da tutto il passo risulta anzi che il processo contro i Cristiani fu raffazzonato o imbastito alla peggio; tanto è vero, che non solo i rei confessi d' incendio furono condannati, ma altresì tutti gli altri che essi denunciarono quali aggregati alla loro sètta, e che quindi furono convinti delVodium humani generis. Ma v' è un altro passo cui tal signifi- cato non s' attaglia ed è Ann. I, 39, 6 « utcjue mas vìdgo qìiamvis falsis reum .subdere ». Qui evidentemente Tacito vuol dire che il volgo suole delle sue disavventure in- colpare sempre qualcuno, anche se colpa in realtà non esista. Saremmo dunque qui a un semplice « incolpare » o « attribuir la colpa », ma è da notare che reus è qui adoperato in un senso traslato, non nel senso giudizia- rio; negli altri due passi invece nei quali si ritrova presso Tacito 1' espressione subdere reiim, si tratta di vero e proprio processo, e reus ha quindi il suo signi- ficato proprio di « accusato ». Qual sarà dunque in que- sti due passi il significato della frase ? A me pare che l'uno di essi sia molto chiaro, e ci dia pur modo di scorgere il significato di quello cosi controverso. Questo uno è il passo Ann. I, 6, 17, che narra della uccisione di Agrippa Postumo. Tacito dice probabile che Tiberio e Livia abbian procurato la morte di quel giovane so- spetto ed odiato. Ma quando il centurione andò ad an- nunziare a Tiberio essere stato eseguito l'ordine, Tibe- rio rispose non aver nulla ordinato, e che se ne doveva 184 APPENDICI ALLO STUDIO PRECEDENTE. rendere ragione al Senato, Allora cominciò a temere Sallustio Crispo, il quale era a parte del segreto, ed aveva mandato al tribuno il biglietto con 1' ordine della uccisione; cominciò a temere che non ci andasse di mezzo lui, che non fosse incolpato lui, semplice man- dabario: mefuens ne reus subderetnr. Si tratta dunque qui di un mandante che rimane nell' ombra, e di un man- datario, il quale agisce per ordine suo, e si compro- mette, e può essere incolpato lui di tutto. Il caso del processo contro i Cristiani è identico a questo. Tacito cioè fa capire ogni tanto che Nerone possa essere il mandante^ quegli che ha dato 1' ordine (cfr. dolo jprinci- pis'. mssum incendium): ma non ha dubbio che i Cristiani sieno gli esecutori^ giacché anzi li dice confessi; ^ quando dunque dice che Nerone suhdidit reos i Cristiani, egli vuol solo dire che li « mise sotto processo »; benché egli come mandante avesse la colpa maggiore. ' Questo il pensiero di Tacito: altra questione è poi se sia at- tendibile la notizia, oppur solo il sospetto, che l'ordine partisse realmente da Nerone. Intanto mi preme ram- mentare come questa frase del suhdidit reos sia stata addotta da moltissimi come lo scoglio contro cui sa- rebbe sempre andata a infrangersi l' interpretazione ohe di tutto il passo Ann. XV, 44 presentai nell' opu- scolo. « L'incendio di Roma e i primi Cristiani ». Questi rei erano dunque subditicii! si è detto. Sì, subditicìij a 2 Tac. Ann. XV, 44: correpti qui fatehantur. Fatevi adope- rato assolutamente a proposito di un processo può riguardare solo la confessione di quello appunto, che forma materia di ac- cusa. V. V ine. di Roma, nota 27, in questa ediz. Qui si tratta di un processo d'incendio; dunque la confessione è d'incendio. Nella lettera di Plinio X, 96 [97J l' accusa è « di esser cri- stiani » ; e confitentes sottintende se Christianos esse. ■'■ Tacito stima più colpevole chi ordina il male che chi lo eseguisce per ordine. Cfr. An7i. XIV, 14 « et eius flagitium est, qui jìecuniam oh delieta.... dedit » ; e poco dopo : < merces ab eo qui iubere potest vim necessifatis affert ». APPENDICE HI. 185 quello stesso modo che era subditìcius Sallustio Crispo, che per comando di Tiberio aveva fatto uccidere Po- stumo! Nell'uno caso e nell'altro il maggior colpevole per Tacito è chi ha dato V ordine, non chi 1' eseguisce. Questo passo, non che dunque infirmi, conferma anzi tutta l' interpretazione mia; la quale fu, sempre, ap- punto questa: che, nella mente di Tacito, i colpevoli di avere appiccato le fiamme fossero i Cristiani, il col- pevole di averlo ordinato fosse Nerone.
Friday, May 20, 2022
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