Carbonara
E invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza ci apprende che il fondo, l’essenza dello spirito umano non è l’intelligenza ma 1’ attività, non il pensare ma il volere — nella forma , almeno, in cui attività e volere sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza — pur essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e di cui e condizione — resta subordinata all’ attività come la forma al proprio contenuto, come la riflessione al proprio oggetto, d’altra parte la Dottrina morale ci mostra il pro¬ cedimento con cui lo spirito umano si sforza — il che è preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante l’in¬ telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua essenza assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso che avvince la Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ; quella si deduce direttamente dai principi di questa, in quanto la moralità, secondo il Fichte, non è che uno dei momenti pii\ importanti, anzi il più essenziale, dell’ attua¬ zione di quell’ Io puro , di quella Libertà assoluta che la Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di ogni coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬ pirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito, XLII per via di limiti e determinazioni, all’ io empirico, relativo e finito, ossia dalla Libertà all’Intelligenza, è il problema a cui pili specialmente si applica la Dottrina della Scienza ; il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di superamenti e liberazioni, all’Io puro, assoluto, infinito, è il problema a cui più specialmente si applica la Dottrina morale. L’ un problema è il reciproco dell’ altro, e la so¬ luzione di entrambi dipende dalla soluzione dell’antinomia tra la finitezza dell’Io-intelligenza , attività oggettivante (= che pone oggetti, limitazioni, resistenze), e l’infinitezza dell’ Io-libertà , attività pura (= che ha per essenza 1’ as¬ solutezza, l’illimitatezza, l’autonomia). E come il Fichte risolve tale antinomia con quell’attività a un tempo finita e infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita, perchè lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infi¬ nità; attività infinita, perchè questa determinazioue non ha nulla di assoluto, di fisso, è un limite che l’attività fa indietreggiare incessantemente per conseguire l’infinità — , ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua filosofia, il cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno che dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non meno che della Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che della Dottrina morale. Nella Dottrina morale , a oui ora è ri¬ volta la nostra attenzione, lo sforzo esprime la tendenza dell’Io a identificare la sua attività oggettivante con la sua attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto nel rapporto tra queste due attività : l’infinita Libertà non può attuarsi se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita Attività pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi, — L 11 — — XL11I — può definirsi un’attività in cui l’infinito è posto non come stato attuale, ma come meta da raggiungere, un’attività in cui 1’ adeguazione del finito e dell’ infinito non è , ma dev'essere , un’attività, insomma, che ha per contenuto il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto. Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale. * *■ * La Dottrina morale si apre I) con un’ Introduzione , in cui sono sinteticamente presentati i presupposti filosofici dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali II) il primo trae da quei presupposti il principio della moralità, III) il secondo deduce da essi la realtà e 1’ applicabilità di questo principio, IV) il terzo fa l’applicazione sistematica del prin¬ cipio stesso, ed espone quindi la morale propriamente detta. I. - I presupposti filosofici dell' etica, contenuti nel¬ l’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina della Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia sol¬ tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui il soggettivo e l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬ zione di esso non siano divisi, ma facciano tutt’uno, e che un tal punto si trova nell’Egoità o Io puro, nell’Intel¬ ligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità del sog¬ getto e dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si lascia cogliere immediatamente come un dato della coscienza at¬ tuale, ma soltanto argomentare per via di ragionamento, la filosofia non approda a nessun risultato. Bisogna, dunque, ammettere un’Unità fondamentale e primitiva, la quale, tosto che nasce una coscienza attuale — o anche soltanto l’autocoscienza —, si scinde necessariamente in soggetto e — 3LIV — r oggetto, poiché “ solamente in quanto io, essere cosciente, mi distinguo da me, oggetto della coscienza, divengo co¬ sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere, inoltre, che l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e in generale possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e il suo dominio sulla natura. E appunto perchè il legame causale tra soggetto e oggetto è duplice — ognuna delle due parti è causa ed effetto dell’altra: il soggettivo è ef¬ fetto dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è effetto del soggettivo nell 'operare — , la filosofia si divide in teore¬ tica e pratica. Senonchè, come avemmo già occasione di notare (*), l’Io puro, ossia 1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora indi¬ visa, non è un fatto ( Thatsache ), ma un atto ( Thathand - tutiff), la sua natura originaria è attività: è, dunque, pra¬ tica. Perciò il principio : “ Io mi trovo come operante nel mondo sensibile „ ( 3 ) è di capitale importanza per il nostro conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ; senza la co¬ scienza della mia attività non è possibile nessuna autoco¬ scienza, senza l’autocoscienza nessuna coscienza di un quid diverso da me. Infatti, la percezione della mia atti¬ vità suppone una resistenza al di fuori di noi; “ ovunque e in quanto tu percepisci attività, tu percepisci necessa¬ riamente anche resistenza ; altrimenti tu non percepisci attività „ ( 4 ). Ora la resistenza è affatto indipendente dalla (') Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV, ediz. cit.), pag. 1 (nostra traduz. pag. 1). ( 2 ) Cfr. pvec. p. XXXIX, nota. ( 3 ) Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p. 3). ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p. 6). XI.V mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto e morto, die tende semplicemente a rimanere quel che è, qualcosa che nel proprio campo contrasta all’azione*della libertà, ma non può mai invadere il campo di questa. Un qualcosa di simile, dunque, è “ pura oggettività „ , e si chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la rap¬ presentazione di una tale materia, niente resistenza alla nostra attività, quindi niente attività, niente autocoscienza, niente coscienza, niente essere. La rappresentazione del puro oggettivo resta così dedotta necessariamente dalle leggi stesse della coscienza ( l ). Con la medesima necessità con cui viene dedotto il puro oggettivo, viene posto anche il suo contrario, il sogget¬ tivo, ossia 1’ attività propriamente detta, sotto la forma di un’ agilità (Agililàt) o forza efficiente. Ma poiché nella coscienza, quasi come in un prisma, ogni unità si rifrange in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo sdoppia¬ mento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il sog¬ gettivo si sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ at¬ tività propriamente detta, veduta come una forza reale, come un oggettivo esistente in me, dall’altra il soggettivo, fonie inesauribile di questa forza reale, fonte originaria non derivante da nessun oggettivo, e dalle cui profondità oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e talora impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬ presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia attività — ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua unità anteriore alla coscienza — , quando sia veduta attra- (*) Ibid. pp. 7-8 (itici, p. 7). XLVI verso il tramite della coscienza, appare come un oggettivo, che da un lato scaturisce da un soggettivo perennemente rinascente a ogni estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro de¬ termina l’oggetti vita pura dianzi chiamata materia (‘). Così si rivela alla coscienza la nostra assoluta auto-attività, la cui essenza sta nel produrre rappresentazioni, nel creare concetti, e la cui manifestazione sensibile dicesi libertà. Ciascun concetto, riguardato come determinante l’oggettivo in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line, e allora esso stesso appare un qualcosa di oggettivo e si chiama uua volizione; e lo spirituale che in noi si consi¬ dera come principio immediato delle volizioni dicesi volontà. Spetta, dunque , alla volontà agire sulla materia ed esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non le sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso stesso materia , ossia quel corpo articolato che è il nostro (‘) Nel Leon (op. cit. pp. 255-260) trovasi ben descritta la natura dell’attività spirituale nel senso fichtiano, attività clic è, a un tempo e continuamente, produzione di sè e riflessione sopra di sè, oggetti¬ vazione e soggettività, io reale e io ideale, attualità e potenzialità; chi voglia intendere una tale attività, che ha la caratteristica di esi¬ stere e di essere anteriore alla propria esistenza, devo ricordarsi che essa non va pensata alla maniera delle cose, perché, contrariamoute alla natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce tutta quanta nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi su di sé, può riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e cosi lontano dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale deter¬ mina l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà. Onde si vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato, senza però dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la creazione di un’ esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’ altra esi¬ stenza. E si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole, dotato d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui soltanto è possibile una causalità in forza di un concetto. XLVII organismo. E invero u io , consideralo come un principio di attività nel mondo dei corpi, sono un corpo articolato, e la rappresentazione del mio corpo non è altro che la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito aspetto della mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo sono quindi una medesima cosa , riguardata però da due lati diversi: una medesima cosa, perchè soltanto fin dove si estende l'immediata causalità della volontà sul corpo, si estende il corpo articolato , necessario strumento della causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬ versi , perchè , in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬ scienza, la volontà appare come il soggettivo che esercita la sua causalità sul corpo, e il corpo come 1 ’oggettivo i cui mutamenti coincidono con quelli di tutta l’oggettività o realtà corporea. Similmente una medesima cosa, riguar¬ data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e T ordinamento della materia , e la natura non cangiabile , ossia la materia pura : la natura mutevole è 1 ’ oggettivo considerato soggettivamente e in connessione con 1 ’ io, in¬ telligenza attiva ; la natura immutevolo è Soggettivo con¬ siderato oggettivamente e soltanto in sè. Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬ menti che l’analisi ritrova nella percezione della nostra causalità sensibile vengono dedotti dalle leggi della co¬ scienza e ridotti all' unità, all’ unico assoluto su cui si tonda ogni coscienza e ogni essere, all 'attività pura. Questa at¬ tività, in virtù della legge fondamentale della coscienza, (!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp. 10-11). V — XLVIII — per cui 1 essere attivo non si comprende senza una resi¬ stenza su cui agisce, non si comprende cioè se non come un Io-soggetto operante sopra un Non-Io-oggetto, appare sotto forma di efficienza su qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli elementi contenuti in questa apparenza, a partire dal con¬ cetto-fine propostomi assolutamente da me stesso, sino alla materia greggia del mondo esterno su cui esercito la mia causalità, non sono che anelli intermedi dell’apparenza totale, e perciò semplici apparenze anch’essi. L’unico reale 1 vero è la mia auto-attività, la mia indipendenza, la mia libertà. IL - Da tali presupposti bisogna ora dedurre il principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbliga¬ zione assoluta e categorica a fare o non fare certe azioni indipendentemente da ogni fine esteriore, la quale si ac¬ compagna immancabilmente con la natura umana e costi¬ tuisce la nostra caratteristica morale. Donde ha origine questa obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la leggo morale, ossia il' principio della moralità? Secondo che esige la Dottrina della Scienza , tale origine non va ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde il primo problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto ciò che non è io. „ (*). La soluzione di questo problema si ottiene così : Io non trovo me stesso se non nella mia volontà, se non come volente ; e trovarsi volente significa riconoscere in se una sostanza che vuole. L’intelligenza è la coscienza fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p. 20). — XLJX puramente soggettiva; la coscienza del proprio io in quanto io non può nascere che dalla volontà,. Ma la volontà non si concepisce se non supponendo qualcosa di diverso dal- 1’ io, perchè ogni volontà reale è una determinata volizione che ha un concetto-fine, che tende cioè ad attuare un og¬ getto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori di noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me stesso , bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno della mia volontà: ciò che rimane allora sarà il mio es¬ sere puro, la volontà assoluta, il principio della nostra filo¬ sofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale e distin¬ tivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa e indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determi¬ nare sè stesso in modo incondizionato e autonomo , è, in una parola, la libertà. Ora, appunto questa tendenza e questa libertà costituisce l’io preso in sè, l’io considerato all’ infuori di ogni relazione con checchessia di diverso da sè. Ma ogni essere non è se non in quanto viene riferito a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri termini suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se non in quanto si pone, non è se non in forza della coscienza che ha di sè; onde esso deve avere la coscienza di quella ten¬ denza alla libera auto-determinazione che dicemmo costi¬ tuire la sua essenza. E invero l’io che, mediante l’intelli¬ genza, pone sè stesso come tendenza all’autonomia assoluta o libertà, è un essere il cui principio si trova non in un altro essere, ma in un quid di categoria diversa — l’unico quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬ siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene come attività pura, come movimento dell’intelligenza senza restrizioni e senza fissità. Orbene, da questa intima fusione dell’io in quanto tendenza all’attività assoluta o libertà e dell’io in quanto intelligenza, dell’io in quanto essere e dell’ io in quanto riflessione , è possibile dedurre il prin¬ cipio della moralità. Come? L’Io assoluto, non ancora rifratto dal prisma della coscienza, è determinato, come abbiamo detto, dalla sua tendenza all’attività assoluta, e questa determinazione di¬ venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma , siccome l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua semplicità e identità originaria non può essere mai oggetto della co¬ scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬ meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere oggettivo e della riflessione soggettiva, mediante quella specie di espediente che consiste nel considerare il sog¬ gettivo e 1’oggettivo come determina»tisi reciprocamente 1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi come insepara¬ bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si con¬ cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama sentimento), essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬ cosa di per sè stante, di fisso .e permanente, si troverà che il contenuto del pensiero è immutabile e necessario e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge di una attività propria e assoluta. Se poi si concepisce l’oggettivo come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce quel- l’altra relazione psicologica che si chiama volontà), es¬ sendo il soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile, di attivo e indipendente, si troverà che l’io si pone come libero. Si arriverà cosi — combinando, i due risultati , la legge necessaria da una parte e la libertà illimitata dal- 1’ altra — all’ idea di una legge che l’io liberamente -im¬ pone a sè stesso : la legge ha per contenuto la libertà , e la libertà è sottoposta alla legge. Legge e libertà, per tal modo , si determinano reciprocamente : esse fanno insieme una sola e medesima unità. Tra la libertà ( = attività in- condizionata e illimitata) e l’autonomia ( = imposizione spontanea di una legge a sè stesso) non c’ è incompatibi¬ lità; esse nascono entrambe da quello sdoppiamento che è dovuto alla natura dell’ attività spirituale e che è a un tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto e soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel- 1’ unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra essenza come libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del- 1’autonomia, tra la libertà-concetto e la libertà-atto, e il legame che unisce 1’ una all’ altra è di causalità non Inec- canico-coercitiva ma psichico-imperativa, è di necessità non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere. La libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà- realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬ tuare l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza, quel ohe siamo in fondo al nostro essere assoluto anteriore alla coscienza, nel renderci cioè liberi ; e in ciò precisa¬ mente consiste il principio supremo di tutta la moralità, il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci proponevamo, dalla natura dell’ io. Posto l’io, è in pari tempo posta anche la tendenza all’assoluta auto-attività, alla libertà; ma la libertà non acquista valore se non per un’ intelligenza che ne faccia la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla legge della propria natura, che è la legge della libertà, senz’altro fine che la libertà, stessa. La moralità, appunto perchè esprime direttamente l’essenza dell’io, la sua pra¬ ticità assoluta e la sua autonomia, è una perpetua legisla¬ zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice rispetto : a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬ zione la quale non può essere che una libera sottomissione, una spontanea adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬ zione della legge a ciascun caso particolare, applicazione nella quale il giudizio morale è sempre un atto di auto¬ nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto al contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che ogni determinazione della volontà da parte di una causa estranea a sè stessa, che vai (pianto dire alla ragione, co¬ stituirebbe un’eteronomia affatto contraria alla legge mo¬ rale. Per tal modo si può concludere che la vita morale tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬ zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale; e dove questa autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬ ralità ('). IH- - Alla deduzione del . principio della moralità segue la deduzione della realtà e dell’ applicabilità del principio stesso, senza di che quest’ ultimo rimarrebbe un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un formalismo vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la legge morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ; onde il principio della moralità è non solo vero , logica¬ ci Tbid. p. 5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione della legge morale dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬ guenze della Dottrina della Scienza giova il seguente schema fornito — un — mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì reale e applicabile : reale, perchè è un concetto che deve attuarsi nel mondo sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo sensibile è tale, per origine e natura, da prestarsi* come strumento all’attuazione di quel principio. dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi. VI, Fichte unti seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale viene simboleggiato lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il suo reintegrarsi nella legge morale : Io Soggetto = Oggetto Coscienza (Divisione) Soggetto . Autoattività Causalità del Concetto Libertà Oggetto Materia Causalità della Materia Necessità Libertà = Necessità Legge della Libertà Libertà sotto la Legge della Libertà (Assoluta Autonomia) Legge Morale (‘) Come si vede, qui la realtà del principio morale non è la realtà già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico dei fatti naturali o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la realtà di ciò che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime due specie di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi naturali) o della coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui ora si tratta, è sotto la categoria della contingenza, della libertà (legge morale). « — LIV — Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto è a un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina da sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi- pendente e libero — il che costituisce la materia della legge morale —, e un principio pratico, in quanto l’io im¬ pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della propria natura — il che costituisce la forma (imperativa) della legge mo¬ rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬ rico ; Ovatterai ogni singolo io come un essere libero, ecco il principio pratico derivante, sotto forma di comando , da quel principio teorico. In sostanza la legge pratica della libertà potrebbe formularsi così : “ Opera secondo la cono¬ scenza che hai della natura e del fine originario degli es¬ seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo, che le nostre idee ; di qui l’armonia tra la determina¬ zione teorica degli oggetti e gl’ imperativi morali che da questa determinazione teorica scaturiscono rispetto agli og¬ getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni con la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬ tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo volere se non ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo impulso non è la legge morale, ma^ legge morale non può nulla comandare il cui oggetto non sia nella sfera di questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve porre sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo mondo mediante la rappresentazione ; e la sua libertà, che è un principio pratico, esige che questa determinazione teo¬ rica da parte del pensiero si mantenga e si completi me¬ diante l’azione da parte della volontà. L’azione della li- LV berta dell’ io sul mondo determinato come rappresenta¬ zione consiste nella modificazione di uno stato del mondo stesso mercè il dominio di un concetto anteriormente posto ; è la produzione di una realtà conformemente a un’idea data come suo principio ; significa, per conseguenza, proprio l’in¬ verso della rappresentazione, la quale è la determinazione di un concetto secondo una realtà anteriormente posta. E come l’enigma della rappresentazione, ossia il rapporto tra la cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità ori¬ ginaria dei due termini, essendo la cosa un prodotto in¬ conscio dell’ io, similmente qui il l’apporto tra il concetto e la realtà ha il suo fondamento nel fatto che la produ¬ zione di questa realtà non è la produzione di una cosa in sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza, una determinazione dell’ io. E allora non è più questione di sapere come sia possibile nel mondo una modificazione da parte della libertà, poiché, essendo il mondo esso stesso un prodotto della libertà , un limite che l’io pone a sè stesso, è questione di sapere come sia possibile, mediante la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modifi¬ cazione, è l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la legge della libertà, sotto la quale si operano nell’ io empirico queste modificazioni, esprime l’io puro, l’io assoluto, è evidente che il problema circa la realtà del principio mo¬ rale, circa l’attuazione della libertà , si riduce , in fondo , alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto (*). (‘) Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr. anche prec. pp. XLI-XLII. — I.VI — Per dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬ bilità del principio dell’ etica, bisogna dedurne la materia e la sfera d’ azioue, bisogna stabilire, cioè, anzitutto l'og¬ getto della nòstra attività in generale ('), poi la causalità reale dell’essere ragionevole (*). — Quanto al primo punto si ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non può attri¬ buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo qualcosa fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti, non può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e determinate come possibili per opera della libertà, e non può pensare nessun’ azione come reale e determinata, senza sup¬ porre all’ esterno qualcosa su cui quest’ azione sia eser¬ citata ( 3 ). Esiste, dunque, fuori di noi e posta dal pensiero, una materia a cui la nostra attività si riferisce e che può essere modificata all’ infinito. — Quanto al secondo punto si ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può trovare in sè nessun’ applicazione della propria libertà, ossia nessun volere reale, senza in pari tempo attribuire a sè stesso una reale causalità o efficienza sul mondo esterno r , e non può attribuirsi una siffatta causalità o.efficienza, senza deter¬ minarla in una certa maniera. Ora, l’attività pura non può essere determinata in sè, altrimenti non sarebbe più pura ; essa non può essere 'determinata se non da ciò che le si oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono es¬ sere percepiti se non nell’esperienza sensibile e, inquanto oggetto d’intuizione sensibile, consistono in una diversità o varietà di materia. Onde l’io, il quale non sarebbe at- (*) Ibid. pp. 75-88 (ibid. pp. 75-87). (*j Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98). ( 3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81 (ibid. pp. 75, 78 e 80). « LVII — tivo se non si sentisse limitato, viene posto come un’ at¬ tività che preme, per allargarli, sopra i limiti entro cui lo rinserra la diversa materia che gli resiste, il nou-io che gli si oppone. L’essere ragionevole, dunque, esercita una causalità reale nel mondo sensibile, e tale causajit.à con¬ siste non già nel creare o distruggere la materia su cui si esercita — tale materia è condizione indispensabile per l’attività dell’essere ragionevole —, ma nell’introdurvi ul¬ teriori determinazioni nuove ; u io ho causalità „ significa sempre: u io allargo i miei confini „, che vai quanto dire: “ io attuo progressivamente il concetto di libertà — se¬ condo che mi è imposto dalla legge morale —, pur non giun¬ gendo mai a un’ attuazione completa „. Di guisa che la no¬ stra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge mo¬ rale, nel mondo sensibile è azione reale: il punto in cui le due esistenze si riuniscono è la libertà intesa come facoltà assoluta di determinare 1’ azione mediante la legge (*). Risulta da quanto precede che il principio della mo¬ ralità, ossia la libertà, non può attuarsi se non opponendo all’attività pura dell’ io una limitazione o un sistema di limitazioni, e imponendo alla medesima attività un progres¬ si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). — Abbiamo qui una delle idee fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per noi di separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del dualismo, l’as¬ surdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un carattere noume- nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico. Secondo il Fichte — scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il sensibile è la condizione per l’intelligibile....; Benza il sensibile, il quale determinandolo lo attua, il puro intelligibile rimarrebbe allo stato di potenza indeterminata e vuota. Questa concezione segua la rovina del misticismo, che pretende isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in una sfera chimerica ; l'Io iichtiano non è fatto di singoli pezzi separabili ad arbitrio ; esso forma in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero organismo. LVIII sivo ampliameuto di questa limitazione o sistema di limi¬ tazioni. Il che si verifica anche quando si tratti non di un fine ultimo, come la libertà assoluta, ma di fini intermedi. Il più spesso’ci accade di non poter attuare immediata¬ mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà, e siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi già determinati in* antecedenza senza il nostro intervento : non perveniamo al nostro fine se non attraverso una serie di gradi interposti ; che equivale a dire : tra il sentimento da cui sono partito con la volontà e il sentimento a cui mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti, di cui ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬ miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬ dietreggiare ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva- mente la mia attività reale. La mia causalità, dunque, ap¬ pare come un’azione continua e diversa, come una serie ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ; poiché essa è assolutamente una e identica in quanto attività, ma pre¬ senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti oggetti esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬ mente da noi, per chi non adotti o ignori il punto di vista della filosofia trascendentale e rimanga al punto di vista della coscienza comune —. Intesa nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬ gionevole contiene in sé la sintesi assoluta della cono¬ scenza e dell’ attività, determinantisi reciprocamente nella concezione e nel perseguimento di un medesimo fine. L’es¬ sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se non in se¬ guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma d’altro canto non ha attività se non in seguito a una conoscenza LIX (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come identiche nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene questa sintesi? Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io oggettivamente considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta attività e nuli’altro che attività; e poiché l’attività, oggettivamente presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui egli non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬ pulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo impulso. Il sentimento o coscienza primitiva dell’impulso è, dunque, l’anello sintetico in cui con l’attività è posta la conoscenza e con la conoscenza l’attività. Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di vista pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬ scienza che accompagna qui l’impulso non è affatto la co¬ scienza riflessa e iu nessun grado una riflessione libera ; in essa non c’ è neppure quella specie di libertà che caratte¬ rizza la rappresentazione e che ci permette di non rappre¬ sentarci l’oggetto, di fare cioè astrazione da esso ; è una coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi con necessità, è un sentimento di cui non siamo in nessun modo padroni. Il sistema d’impalisi e di sentimenti di che s’intesse 1’ io empirico oggettivo deve quindi concepirsi come na¬ tura, come la nostra natura, come cioè qualcosa di dato, di non prodotto da noi, d’ indipendente dalla libertà , ma su cui la libertà può esercitarsi, e si esercita, allorché l’io-soggetto ne fa oggetto di riflessione e consente o no a soddisfarlo ; e invero, tosto che riflettiamo sui nostri impulsi originari, non siamo più dominati da essi ; sono essi, invece, dominati da noi, perchè dipende da noi asse¬ di Ibid. pp. 102-105 (ibid. pp. 99-102). condarli o no ; comincia allora il vero ufficio della nostra libertà cosciente. Nasce così la differenza tra la facoltà appetitiva inferiore del semplice impulso di natura e la facoltà appetitiva superiore del medesimo impulso sottoposto alla riflessione e alla libertà (*). Giova chiarire meglio la facoltà appetitiva inferiore, prima di passare alla superiore. Abbiamo detto che essa costituisce ciò che in noi si chiama natura; ma bisogna distinguere la natura nostra dalla natura delle cose in cui regna il puro meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è attività propriamente detta, c’ è soltanto una trasmissione di urti attraverso tutta la serie di cause ed effetti, senza che nessun anello produca o modifichi la forza trasmessa. Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera spontaneità, la quale non è ancora la libera causalità del pensiero, del concetto, perchè è una necessaria determinazione dell’esi¬ stenza reale per opera di questa esistenza stessa, ma sta tuttavia al disopra del puro meccanismo, perchè consiste in una determinazione proveniente da una serie di cause ed effetti disposta non più secondo un ordine lineare di suc¬ cessione, sì bene secondo un ordine ricorrente di recipro- canza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo ef¬ fetti e cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or- ( l ) Ibid. pp. 105-109 (ibid. pp. 102-106). — Per essere più chiari : l’impulso e il sentimento che l’accompagna mancano di libertà; la volontà e la riflessione che ne è condizione hanno per essenza la li¬ bertà; a parte, però, questa differenza di capitale importanza ma sol¬ tanto formale, l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro contenuto materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’og¬ getto a cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto libe¬ ramente accettato o ripudiato dalle seconde. LXI — gallismo, ossia una costituzione, la quale, lungi dal dipen¬ dere da un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio della propria determinazione, è dotata insomma di spontaneità,. La reciprocanza di azione tra le parti di un tutto orga¬ nico in natura si spiega così: a ciascuna di esse le altre non lasciano che una certa quantità di realtà, onde cia¬ scuna parte per la rimanente realtà che le manca non ha che una tendenza (o impulso) risultante dallo stato de¬ terminato delle altre parti : ciascuna tende a formare il tutto, a integrarsi con la realtà delle altre ; e cosi in un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di realtà; realtà e tendenzfP (o impulso) si completano a vicenda ; ciascuna parte tende a soddisfare il bisogno di tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare il bisogno di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la pro¬ pria essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice im¬ pilino plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel senso passivo della parola, perchè è la facoltà a un tempo così d’imprimere come di ricevere forme. Questa facoltà organizzatrice è universale, essenziale, inerente a tutte le parti e a tutti gli elementi, onde ciò che si chiama un tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può altresì chiamarsi un prodotto organico della natura, a costituire il quale certi elementi della natura, in virtù della causalità di cui questa è dotata, hanno riunito il loro essere e il loro operare in un solo e medesimo essere, in un solo e medesimo ope¬ rare ('). (*) (*) Ibid. pp. 109-122 (ibid. pp. 106-118j. LXI1 Ciò posto, ecco quanto accade in quel tutto organico della natura che è 1’ io individuale, empirico, a partire dai più bassi impulsi sino alle più alte tendenze. Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è un tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste in una tendenza a conservare unite a sè altre determinate parti, e siffatta tendenza, se attribuita al tutto, dicesi im¬ pulso all' autoconservazione ; alla conservazione, s’intende, non dell’esistenza in generale, che è un’astrazione, ma di un’esistenza determinata. L’impulso all’autoconservazione, che è poi la tendenza a perseverare nel proprio essere, porta 1’ essere organico a inferire a sè certi oggetti della natura; di qui l’appetito o la brama verso questi oggetti, appetito o brama dapprima vaghi e indeterminati, quasi come il primo grido inarticolato dell’orgauismo ancora in¬ fante, poi sempre più determinati e differenziati, come il linguaggio articolato dell’orgauismo adulto. E — si noti bene — non già la diversità degli oggetti determina lo specificarsi dei vari appetiti e desideri ; al contrario, i di¬ versi modi del desiderio, mediante le proprie determina¬ zioni, si creano i propri oggetti. La coscienza o l’intelli¬ genza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il riflesso dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra vita pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio fine in sè stessi, nella propria soddisfazione, e noi non per¬ seguiamo, attraverso gli oggetti, altro che i nostri desideri esteriorizzati nelle cose (‘). Ma se è così, se ciò che ci sfor¬ ziamo d’ottenere è non l’oggetto — il quale si riduce a (‘) Ibid. p. 124 (ibid. p. 120). LXIII im simbolo —, sì bene la soddisfazione della nostra _ten- • denza, della nostra brama, in altri termini, il nostro godi¬ mento, il nostro piacere, si comprende come, tanto dal punto di vista della pura natura irriflessa, quanto da quell» della riflessione sulla natura, sia il piacere il fine supremo della nostra condotta ; di guisa che, nel primo passaggio imme¬ diato dallo stato di pura natura allo stato di coscienza ri¬ flessa, la nostra azione cangia di forma — da necessaria e istintiva diventa libera e riflessa, e tale cangiamento ne modifica radicalmente il carattere — , ma il suo contenuto rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare che l’uomo con la riflessione non si elevi al di sopra della natura, se non per sottoporlesi meglio e perse¬ guire con pili luce e sicurezza il fine edonistico. Ora, finché è spinto al piacere e dipende dagli oggetti dei suoi appetiti, ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della facoltà appeti¬ ti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende con co- 1 scienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé, a rendersi indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa, quindi anche e soprattutto dal piacere; e allora la nostra azione si differenzia da quella compiuta allo stato di pura natura, oltreché per la forma, anche per il contenuto, es¬ sendo questo costituito non pili dal piacere — comunque ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà , cosciente e libera — , ma dalla libertà stessa, che è l’es senza nostra e il nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva cosi all’esercizio della facoltà appetitiva superiore, di quella che appartiene non a lui prodotto di natura, ma a lui spi¬ rito puro (*). (*) Ibid. pp. 122-131 (ibid. pp. 118-127). LXIV — Ciò non ostante, le due facoltà appetitive, l’inferiore e la superiore, costituiscono un solo e medesimo impulso origi¬ nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella facoltà appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi conce¬ pisco come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore, ossia nell’impulso spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre tutta la mia essenza si ritrova nell’ identità del soggetto e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto. Dall’azione reciproca dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ; ma en¬ trambi si fondono in un unico e medesimo io , onde deb¬ bono essere conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo : l’impulso superiore rinunzia alla purezza della propria at¬ tività — purezza che consiste nel non essere determinato da un oggetto —, lasciandosi determinare da un oggetto, e l’impulso inferiore rinunzia al piacere in quanto fine, al piacere per il piacere ; si ha così per risultato della loro unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine ultimo è un’ assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬ tura;'un fine, questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬ giungibile — raggiungerlo sarebbe porre termine in pari tempo all’attività e alla natura che dell’attività è il limite correlativo, la condizione indispensabile —; un fine , tut¬ tavia , a cui è possibile avvicinarsi sempre più, facendo uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore ('). (*) Ibid. p. 131 (ibid. p. 127). — Non si obietti qui — dice il Fichte ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp. 145-146) — che un’approssima¬ zione all’infinito è contraddittoria, in quantoche un infinito a cui po¬ tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere un infinito e diverrebbe in certo qual modo suscettivo di misura. L’infinito non è una cosa, un oggetto posto come dato e verso il quale si avanzerebbe come verso un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale, ossia appunto ciò che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato può esaurire ; LXV — ' Infatti, grazie alla sintesi dianzi descritta, l’io svelle sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori di lui, entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬ lutamente indipendente, essendo l’io riflettente indipen¬ dente per sè stesso, l’io riflettuto tutfc’ uno con l’io riflet¬ tente, ed entrambi uniti in una sola inseparabile persona, alla quale il riflettuto dà la forza reale e il riflettente la co¬ scienza. La persona così costituita non può più agire ormai se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò che ha la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto della libertà , cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non liberamente, anche quando non faccia che assecondare l’im¬ pulso di natura , perchè anche in tal caso egli non opera meccanicamente ma con coscienza, e in lui non più il cieco impulso naturale , si bene la coscienza da lui acqui¬ stata di questo impulso naturale è il primo fondamento del suo operare, il quale perciò è libero — come poco fa no¬ tammo — se non nel contenuto, almeno nella forma (‘). Ma che significa essere libero e agire liberamente? Prima di giungere alla riflessione l’io è di natura sua e questo ideale clie portiamo in noi stessi indietreggia dinanzi a noi man mano che ci eleviamo verso di esso. Noi possiamo bene allar¬ gare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso la libertà, ma non pos¬ siamo mai sopprimere totalmente questi limiti, attuare cioè la li¬ bertà; a qualunque grado di liberazione noi si giunga, la libertà as¬ soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con l’idea di un progress o infinito il Fichte risolve la contraddizione tra la libertà e la natura : la natura deve tendere alla libertà come a un fine infinito, e se l’infi¬ nito potesse essere attuato, la natura s’identificherebbe con la li¬ bertà ; la realtà di questo progresso non è nel conseguimento — im¬ possibile — di un fine fissato a un dato punto, ma nel valore sempre più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit. p. 276). (*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132). LXVI libero, ma per un’ intelligenza fuori di lui, non già per sè stesso ; per essere libero anche agli occhi propri egli deve porsi come tale , e come tale non si pone se non allorché diventa cosciente del suo passaggio dallo stato indetermi¬ nato a uno stato determinato. L’ io determinante e l’io determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sin¬ tesi del inflettente e del riflettuto , dell’ io-soggetto e del- 1’ io-oggetto. Per siffatta sintesi la concezione di un fine di¬ venta immediatamente azione e l’azione diventa conoscenza della libertà. Senonchè l’indeterminatezza non è soltanto uon-determinatezza (ossia zei'o), sì bene un deciso librarsi tra più possibili determinazioni (ossia una grandezza ne¬ gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e sa¬ rebbe un nulla. Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬ tiva superiore, non si vede in che modo la libertà possa scegliere tra più determinazioni possibili; perchè: o si trova in presenza del solo impulso naturale, e allora non ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi ha ogni ragione per seguirlo; ovvero si trova in presenza di più impulsi — la quale ipotesi non si comprende nel caso di cui ora si tratta — e allora seguirà naturalmente il più forte ; nel- l’una e nell’altra ipotesi, dunque, nessuna possibilità d’in¬ determinatezza. Siccome però l’essere ragionevole non può esistere senza quella tra le condizioni della sua ragione¬ volezza che si chiama sentimento morale e consapevolezza della libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso origi¬ nario delirio, un impulso ad acquistare la coscienza e della moralità e della libertà. Ma tale coscienza, si è visto, ha per condizione uno stato indeterminato, e non si produce se l’io obbedisce unicamente all'impulso naturale ; occorre, dunque, che vi sia nell’io un impulso o tendenza a trarre dal proprio Lxvn seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o l’oggetto dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una ten¬ denza alla libertà per sè stessa-, e che alla libertà formale — quella per cui lo stesso risultato, che la natura avrebbe prodotto se avesse potuto ancora agire, nasce invece da un nuovo principio, da una nuova forza, ossia dalla coscienza libera — si aggiunga la libertà materiale — quella per cui si ha non solo un nuovo principio operante, ma altresì una serie di effetti tutta nuova anche nel contenuto, onde non solo è l’intelligenza la forza che opera, ma essa in¬ telligenza opera qualcosa di ben diverso da ciò che avrebbe operato la natura — (‘). In virtù della libertà materiale io mi sento emancipato dall’ impulso di natura, gli oppongo resistenza, e tale resi¬ stenza, considerata come essenziale all’ io, quindi come im¬ manente, è essa stessa un impulso, l ’impulso pwro*dell’ io. L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione e, per il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla alla mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva sopra la natura e mi pone in grado di contrappormele con la più semplice risoluzione, si manifesta come tale da ispi¬ rarmi stima e da investirmi di una dignità, la quale, es¬ sendo al disopra di ogni natura, m’ impone rispetto verso me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere, porta al di¬ sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la conserva¬ zione della mia assoluta indipendenza e libertà (*). (*) Ibid. pp. 136-139 (ibid. pp. 132-185). (*) Ibid. pp. 139-142 (ibid. pp. 135-138). LXVI1I L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario significano rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i- deale tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e il reale stato accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi, il mio interesse — m’interessa, infatti, ossia tocca diretta- mente il mio sentimento, tutto ciò che lia immediata rela¬ zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si accompagnano, dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di capitale importanza — si tratta qui di stati affettivi che non hanno nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono in una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura non si confonde mai con quella del piacere o del dolore dei sensi. Il piacere sensibile che nasce dall’ accordo tra l’im¬ pulso naturale e la realtà non dipende da me in quanto sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale da strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da farmi dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario , e questa qualità lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬ trettanto vale del suo opposto, ossia del dolore sensibile. Il piacere morale, al contrario, che nasce dall’accordo tra l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo ma di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬ tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬ tarmi, invece, il piacere involontario ; esso, quindi, non mi trasporta fuori di me, anzi mi fa rientrare in me stesso e, meno tumultuario, ma più intimo del piacere sensibile, m’in- (‘) Intorno al concetto dell’ interesse il Fichte fa una specie di digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra traduz. pp. 138-142) per¬ meglio illuminare la sua trattazione sul sentimento morale e sulla coscienza morale. — LXIX -r fonde, in quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo coraggio' e nuova forza. Similmente il suo opposto, ossia il dolore morale, appunto perchè dipende dalla libertà, è un rimpro¬ vero interno, si associa a un sentimento di auto-disistima e sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di pro¬ varlo non ci risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvi¬ vasse la coscienza della nostra natura superiore e della no¬ stra assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas Oetoissen), vale a dire : la consapevolezza immediata dell’a¬ dempimento del dovere, dell’accordo cioè tra l’azione (nel mondo della natura) e il fine ideale (la libertà) (‘). ' Ora, la coscienza morale si connette strettamente con l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè parte¬ cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale. Come ? Ogni volizione reale tende all’azione e ogni azione si porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è em¬ pirica. E poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬ diante una forza fisica, la quale non proviene che dal- I’ impulso naturale, cosi ogni fine concepito dall’intelligenza finisce per coincidere con 1^ soddisfazione di un impulso naturale. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non già la na- /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio volere non può avere materia diversa da quella che la natura vorrebbe anch’essa, se di volere fosse capace : non c’ è li¬ bertà circa la materia delle azioni. E allora quale causalità rimane all’impulso puro, che pur non può esserne destituito? Affinchè rimanga una causalità all’ impulso puro, bisogna che la materia dell’azione sia conforme a esso non meno * (') Siltenlekre, p. 146 (nostra trai! uz. p. 142). che all’ impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬ prende soltanto così : 1’ impulso puro nell'operare tende alla piena emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività dell' io impone a sè stessa costringono l’operare entro i con¬ fini dell’ impulso naturale ; onde l’azione conforme a questo secondo impulso diventa conforme anche al primo quando al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla natura, si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale all’infinito, l’io si approssima sempre più all’indipendenza assoluta. Deve esservi una serie di tal genere, che muova dal punto in cui la persona si trova posta per la propria natura e si prolunghi all’ infinito verso il .fine supremo e ideale — si badi bene a questo appellativo che esclude ogni possibilità, di attuazione completa — di ogni attività, altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’ impulso puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere in ogni momento quale è il nostro dovere. Il principio della morale può, dunque, formularsi cosi : Adempì in ogni mo¬ mento la tua destinazione. Quel che in ogni momento è con¬ forme alla nostra destinazione morale, ossia al fine a cui si dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme all’impulso naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso natu¬ rale è conforme alla nostra destinazione morale. Appunto perciò l’impulso morale è misto: esso riceve dall’impulso na¬ turale la materia dell’operare, dall’impulso pui'O la forma; per esso io debbo agire con la coscienza di adempiere un do¬ vere ; gl’ impulsi ciechi della natura, come la simpatia, la compassione, la benevolenza spontanea, in quanto tali non hanno nulla di morale, perchè contraddice alla moralità il lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso morale differisce — 1.XX1 profondamente dal cieco impulso naturale, e molto ai av¬ vicina all’ impulso puro, perchè la sua causalità è ambigua (può avere effetto e può anche non averne), perchè esso co¬ manda: sii libero (cioè: sii in grado di fare e di a'stenerti dal fare). E in questo comando appare per la prima volta un imperativo categorico, un imperativo che è un prodotto nostro proprio (nostro in quanto siamo intelligenze capaci di agire per concetti), e il cui oggetto è il fine non subor¬ dinato a nessun altro fine. L’impulso morale, infatti, non ha per fine nessun godimento ; esso esige u la libertà per la libertà „. È poi evidente in questa formula imperativa il duplice significato della parola “ libertà „, la quale sta a designare nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬ ramente soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo che dev’essere conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto , la piena nostra indipendenza da tutto ciò che è fuori di noi. In altri termini : io debbo agire con libertà per divenire libero; e soltanto determinandomi da me stesso e non se¬ guendo altro che le ispirazioni del sentimento del dovere agisco con libertà e divengo veramente indipendente dalla natura, veramente libero. A questa distinzione tra la li¬ bertà come attività e la libertà come risultalo , che è di così grande importanza nel nostro sistema, se ne aggiunge un’ altra entro il concetto stesso di libertà intesa come at¬ tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la materia del- 1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione della dottrina morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬ matica del principio della moralità ; di che si tratta nel terzo libro ('). (*) Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152). — l.XXI! — IV. - Quest’ultimo libro si divide in tre parti: A) la prima discorre delle condizioni formali della moralità delle nostre azioni : B) la seconda del contenuto materiate della legge morale; C) la terza, infine, espone la dottrina dei doveri propriamente delta. A) Condizioni formali della moralità delle nostre azioni. — Il principio formale di ogni moralità può enun¬ ciarsi così : “ opera sempre secondo la convinzione che hai intorno al tuo dovere „. Questo imperativo o legge — che presuppone naturalmente e logicamente una libera volontà (') — si scinde in due precetti, di cui 1’ uno con¬ cerne la forma o la condizione : u procurati la convinzione di ciò che è tuo dovere „ , 1’ altro la materia o il condi¬ zionato : “ fai ciò che ritieni con convinzione tuo dovere 9 failo soltanto perchè lo ritieni tale Ora, la convinzione nasce dall’ accordo di un atto della facoltà giudicatrice con t’ impulso morale, e il criterio della giustezza della nostra convinzione è un sentimento intimo al di là del quale non si può risalire, perchè con esso si raggiunge 1’ espressione diretta della nostra essenza assoluta e della nostra finalità. Per conseguenza, la coscienza morale, che in quel senti¬ mento ha radice, va immune per natura sua da dubbio e da errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di rettifiche da parte di un’ inconcepibile coscienti più interiore, è essa stessa giudice di ogni convinzione e le sue sentenze non ammettono appello. Voler oltrepassare la propria coscienza morale per timore che possa essere erronea, sarebbe come voler uscire fuori di sè, voler separarsi da sè stesso. È condizione formale della moralità , quindi, non decidersi (*) Della volontà iu particolare e della sua natura cosi opposta al juro meccanismo, il Pielite tratta nel § 14 della Sitlenlehre, pp. 157-103 (nostra traduz. pp. 155-160). V — LXX1II — all’azione se non per soddisfare alla propria coscienza mo¬ rale, all’impulso originario dell’io puro, senza sottostare ad altra autorità che non sia quella della propria convin- zione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬ sultare la sua coscienza, senza essersi prima assicurato j delle decisioni di questa, agisce, come suol dirsi, senza co¬ scienza, e perciò immoralmente, è colpevole e non può im¬ putare la sua colpa ad altri che a sè stesso (*). Similmente opera senza coscienza, e perciò senza moralità, chi si lascia guidare dall’autorità altrui, perchè la convinzione della co¬ scienza morale e la certezza della sua giustezza non na¬ scono mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬ sivamente dal soggetto : sarebbe una flagrante contraddi¬ zione far-e di qualche cosa che non sono io stesso un sen- • timento di me stesso. In conclusione: in tutta la nostra condotta (si tratti della ricerca scientifica, ovvero della vita pratica) 1’ azione , per essere morale, deve uscire da un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa esprime veramente la nostra autonomia spirituale ; ogni azione fatta per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che non risponde in noi a una convinzione, ovvero del compi¬ mento di un’ azione che accettiamo come un ordine) va direttamente contro il verdetto della coscienza, è male, è I colpa (*). (') Giova ricordare che per il Fichte non vi sono azioni indiffe¬ renti; tutte debbono essere riferite alla legge morale, uon foss’altro per assicurarsi che sono lecite; onde anche le azioni più indifferenti iu apparenza, vanno sottoposte a matura riflessione, sempre iu vista della legge morale. ,(*) Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp. KìO-172). — Risulta qui ancora una volta definitivamente stabilito il primato della ragione pratica sulla ragione teorica; di quella ragione pratica che agli occhi — LXX1V — « > E facile argomentare da ciò quale sia la causa del male o della colpa nell’essere ragionevole finito. Quel che in generale costituisce l’essere ragionevole trovasi neces¬ sariamente ih ciascun individuo ragionevole, altrimenti questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la legge morale, P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo, deve tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬ ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla condizione del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬ scienza di tutto ciò che primitivamente e originariamente fa l’essenza dell’Io, se non mediante un lavoro successivo e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più o meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non abbiano compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio dallo stato d’ irriflessione al massimo sviluppo della co¬ scienza morale, c’ è sempre luogo nella nostra condotta al- l’immoralità, alla colpa, al male. Conviene, dunque, seguire questa storia dello sviluppo della coscienza emjnrica, per vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme della moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬ cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà, e in nessun modo da una meccanica legge di natura ('). Anzitutto, e al suo grado pivi dàsso, l’io empirico si riduce a un’attività istintiva ; l’istinto, senza dubbio, si ac¬ compagna con la coscienza, dista però ancor molto dalla del Fichte è veramente la ragione, e nella quale si attua l’accordo dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto, della produzione e della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la coscienza immediata dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del Fichte fluisca per essere in sostanza una morale del sentimento. (<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175). riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente M’ impulso naturale e, così facendo, è libero per un’ intelli¬ genza fuori di lui, ma per sè stesso è puro animale. I Tuttavia l’uomo può riflettere su questo stato; e tale riflessione è per natura sua un atto di libertà : essa non è nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto mo¬ ralmente obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬ stinazione e acquistare in sè la coscienza dell’ Io puro, deve riflettere su questo suo stato, e mercè tale riflessione si eleva, quasi, sopra sè stesso, si stacca dalla natura, se ne distingue e le si oppone come intelligenza libera ; ac¬ quista cosi il potere di differire ‘la propria autodetermi¬ nazione e di scegliere quindi tra più modi — la pluralità dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal differimento della risoluzione — di soddisfare l’impulso naturale. Tale scelta si compie secondo una massima liberamente adottata dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa dal prin¬ cipio supremo che scaturisce dalla legge morale e che non è, come la massima, un libero prodotto della coscienza em¬ pirica ; per conseguenza, nel caso di una massima cattiva, la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora, in questa se¬ conda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della rifles¬ sione, l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ im¬ pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di .condotta la massima della felicità. L’uomo rimane dunque ancora un animale, ma diventa un animale intelligente, prudente: è già formalmente libero; soltanto mette la sua libertà al servigio dell’ impulso naturale. La massima della felicità, per quanto sia un prodotto della sua libertà, non può es¬ sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le ob¬ bedisce necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con I.XXVT — essa il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di neces-, sario e non è detto che l’io individuale debba arrestarvi»]/ se vi si arresta è soltanto sua colpa; nulla lo costringe L progredire, è vero, ma egli deve e può progredire, facenti uso della propria libertà ed elevandosi liberamente a qn piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva ile non dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la propria libertà, onde a ragione il Kant riteneva il male radicale innato nell’uomo e nondimeno prodotto dalla sua libertà. Quando però — con nuovo miracolo della sua sponta¬ neità — 1’ uomo, nella fase ora descritta, esercita la pro¬ pria libertà, una seoonda riflessione si compie, che, al pari della precedente, ha carattere non di necessità fisica o lo¬ gica, ma di obbligatorietà morale, e in virtù di essa nasce una terza fase, nella quale l’io individuale prende coscienza della sua opposizione rispetto alla natura e della sponta¬ neità del proprio operare, ed erige questa spontaneità stessa, ossia la propria volontà, a nuova massima di con¬ dotta. Non piu la ricerca della felicità guida ora le sue azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io la quale non ammette freno al proprio capriccio e fa di sè stessa il proprio idolo. Si ha, quindi, un progresso verso la libertà assoluta, ma non ancora la vera libertà morale, non ancora la volontà riflessa sottoposta alla legge del do¬ vere. Anzi, mentre la massima della felicità è, si, man¬ canza di legge, ma non addirittura rovesciamento della l e gg®> n ® ostilità contro questa, lt^ massima della volontà egoistica e arbitraria, invece, può portare sino alla trasgres¬ sione intenzionale della legge. Il carattere della condotta ispirata a tale massima è soltanto la soddisfazione dell’amor L.XXVII proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare, ottenuta a qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto questa idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la storia umana : essa riempie grandissima parte del teatro del inondo con le sue lotte e le sue guerre, con, le sue vittorie e le sue sconfitte. u II soggiogamento dei corpi e delle anime dei popoli, le guerre di conquista e di reli¬ gione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è disono¬ rata non si spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'inva¬ sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo e fatica ? Sperava egli forse che per tal modo si ac¬ crescerebbero le fonti dei suoi godimenti sensitivi? No davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve accadere, a quel che io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio che lo mo¬ veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica certa¬ mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché giunge anche al disinteresse: non al disinteresse che deriva dall' obbedienza al dovere e che solo ha significato morale, ma a un disinteresse di carattere impulsivo, derivante dal desiderio di suscitare ammirazione, di cattivarsi stima, e che rimane tuttora una forma di amor proprio e di orgoglio. E un culto che porta sino al sacrifizio della vita — e ci vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo sacrifizio è senza valore etico, perché è fatto soltanto al proprio io individuale, è puro egoismo. «Certo, rispetto alla fase precedente, la quale non mirava che alla felicità sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e sta come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo morale ; ma dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬ li Ibid. p. 190 (ibid. p. 186). ì.xxvm luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a considerare come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬ rosi, e a considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio nostro si fa da Dio, dalla natura, dagli altri uomini, come nulla più che doveri verso di noi. Con siffatte pretensioni la massima della volontà egoistica e senza, freno, adottata in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce ad¬ dirittura col corrompere le stesse radici della moralità : “ >1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente giusto, in quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬ lore ; ma il secondo è assai più difficile a convertire del primo „ (*). Per elevarsi al disopra di questa terza fase basta che l’uomo — con un terzo atto di riflessione, al pari dei precedenti spontaneo ma inesplicabile, non necessario ma obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’ originario impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato (analo¬ gamente a un eminente grado di capacità intellettuale) come un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio della virtù, ma che, allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce un carattere assai immorale. Mercè la riflessione, quell’ im¬ pulso si trasforma in una legge assolutamente imperativa, e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è ri¬ flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione, e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà una legge di causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa di dovere assolutamente qualche cosa ; e affinchè questo sapere si tramuti in azione, bisogna che egli adotti la mas- (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187). LXXIX sima : adempì il Ino dovere perchè è tuo dovere. Sorge così la coscienza morale, la quale impone appunto alla volontà arbitraria, alla volontà senza regola uè freno della fase pre¬ cedente, l’obbedienza al principio assoluto della ragione. Una volta conseguita questa chiara coscienza del do¬ vere, la nostra condotta vi si conforma necessariamente, essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di proposito e con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a mancare al nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬ punto perchè è il nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre che una contraddizione evidente, una condotta veramente diabolica, se lo stesso concetto u diavolo „ non fosse contrad¬ dittorio (*). Soltanto può accadere che la chiara coscienza del do¬ vere si annebbii, si oscuri, che la riflessione non si mantenga sempre alle altezze della moralità, e la nostra condotta, perciò, cessi di essere conforme alla legge morale. Il do¬ vere primo, quindi, e anche il più alto, è mantenere la coscienza del dovere in tutta l’intensità della sua luce e «Iella sua forza. Bisogna vegliare continuamente su noi stessi, alimentare senza tregua il fuoco sacro della rifles¬ sione; possiamo fare di questa riflessione un’abitudine, •senza perciò renderla una necessità, senza pregiudizio cioè della libertà, allo stesso modo diesi può fare un’abitudine dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia, e persistere in essa, senza renderla perciò una necessità e senza escludere quindi 1’ esercizio della libertà ( 8 ). (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 188). (*> Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur Murai ( Ascetica conir ap~ pendice alta Morale) i 1708) — contenuta in Nuahgelarsene Werke , voi. Ili, pp. 119-144 e tradotta in inglese dal Kroeger nel voi. 1/XXX Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da non lasciar sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi The sciunce of Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il Pielite si adopera a fornire il mozzo pratico per mantener viva o luminosa, una volta nata per opera della libertà, la coscienza del dovere, 'l'ale mezzo consiste ned’associazione delle idee, intermediaria tra la ne¬ cessità della natura e la libertà della ragione, e precisamente nel- l’associare in precedenza la rappresentazione dell'atto futuro con la rappresentazione dell’atto conforme al dovere. Occorre, in altri ter¬ mini, che i due propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2) non voglio agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti in ima sintesi, e la funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto in questa associazione permanente e anticipata del concetto del do¬ vere non solo col concetto della nostra condotta in generale il che sarebbe ancora troppo vago e astratto — ma con i concetti di azioni determinate, soprattutto di quelle abituali, quotidiane, in cui più fa¬ cilmente possiamo peccare per omissione o violazione del dovere; mentre invece per le azioni eccezionali e straordinarie difficilmente manca I intervento della riflessione e la conseguente chiarezza della coscienza. Di qui due regole: 1) un esame di coscienza generale dei casi in cui siamo più esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la risoluzione ferma e sempre attiva di ridettero, in questi casi, sopra noi stessi e di sorvegliarci, opponendo alla forza cieoa e alla resi¬ stenza passiva di certi stati di coscienza, divenuti abitudini quasi invincibili, la causalità iutelligAte della coscienza morale: è noto ohe spesso basta ridettero sulla propria passione e rendersi consape¬ voli delle associazioni che la costituiscono per liberarsene, dissociando mentalmente i fattori da cui nasce e controbilanciando il piacere che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento col disprezzo che accom¬ pagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè l’esame della propria coscienza abbia valore etico, bisogna che non si riduca a una pura aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per semplice giuoco estetico; bisogna, invece, che si proponga la nostra riforma morale, il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione, del resto, si rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é tutta ri¬ volta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma agli artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i quali è frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico delle coso, di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la speculazione in azione. LXXXI ricadiamo in uno degli stati che precedono la moralità e operiamo secondo la massima o della felicità o del dominio arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci ri¬ mane ancora un sentimento vago e intermittente del dóvere. possono verificarsi le seguenti tre specie d’indeterminatezza corrispondenti alle tre condizioni che rendono determinato il dovere. L’indeterminatezza può concernere: a) la materia del dovere, cioè l’applicazione della legge morale a un dato caso : in ciascun singolo caso tra più azioni possibili non ce n è che una conforme al dovere ; ma, per insufficiente attenzione e riflessione, noi cediamo segretamente, e quasi a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e perdiamo il filo conduttore della coscienza ; b) il momento del do¬ vere : in ciascun singolo caso si deve adempiere subito ciò che è dovere; ma, per l’affievolirsi della coscienza, ci illudiamo che non occorra affrettarsi a ciò, procrastiniamo il nostro perfezionamento e ci abituiamo a procrastinarlo all’ infinito ; c) la forma del dovere : l’imperativo mo¬ rale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondi¬ zionata ; ma, se perdiamo di vista tale sua caratteristica, consideriamo il dovere, anziché come un comando, come un semplice consiglio che si può seguire quando piaccia e non costi troppa abnegazione, e con cui si può anche transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti con la propria coscienza che sono altrettanti modi di elu¬ dere la legge morale, altrettante cause di torpore per la riflessione, e che pongono nel massimo pericolo la nostra salvezza spirituale, quando per caso non sopravvenga dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a rientrare in noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬ tendere il dovere, infatti, accusa la morale di rigorismo LXXX1I impraticabile, sotto lo specioso pretesto che l’ adempimento del dovere impone troppi sacrifizi, quasi che non fosse ap¬ punto in ciò 1’ obbligo nostro: nel sacrificar tutto al dovere, la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente di¬ letta (*). Quale che sia il modo di oscurarsi della coscienza, si può dire in generale che la causa di questo suo oscurarsi e del conseguente smarrirsi della moralità, la causa iu- somma del male, va ricercata in una sconfitta della libertà. Se la riflessione che ci eleva alla libertà consiste in una creazione da parte della libertà e quasi in un colpo di grazia che ci strappa all’oppressione della natura, il man- tenimento della chiara coscienza del dovere non può es¬ sere che un perpetuo riprodursi di questo atto creativo, una creazione continuata, uno sforzo incessante della ri¬ flessione, dell’ attenzione ; e appunto perciò al menomo affie¬ volirsi della nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e il trionfo delle forze antagonistiche della natura, le quali sono sempre e necessariamente in azione : tosto che cessa lo sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente ha il sopravvento e, con la luce della coscienza, si spegue anche la virtù. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui s’inizia la sua vita in una specie d’innocenza — perchè sono ancora ignorati gli stati superiori in cui l’innocenza primitiva assume aspetto di colpa —, perviene necessariamente alla coscienza di sé stesso : a ciò gli basta riflettere sulla li¬ bertà che ha di scegliere tra più azioni possibili per sod¬ disfare 1’ impulso naturale; siamo allora in quella fase in cui egli opera secondo la massima dell’ interesse o della (') Siuenlehre, pp. 192-197 (nostra traduz. pp. 186-193). LXXXIII felicità. In questo grado di sviluppo rimano volentieri, trat- ' tenutovi dalla forza d 'inerzia che l’uomo, in quanto essere sensibile, ha in comune con tutta la natura fisica. È vero che, in virtù della sua natura superiore, egli deve 'strap¬ parsi a questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà ; ma proprio la sua libertà è impedita in questo stato, essendo essa alleata con quella forza d'inerzia, da cui dovrebbe in¬ vece svincolarsi ; come farà egli a elevarsi alla libertà, quando per questa elevazione stessa deve far uso della libertà ? donde attingerà la forza che faccia da contrap¬ peso nella bilancia per vincere la forza d’inerzia ? Cer¬ tamente non nella sua natura empirica, la quale in nessun modo fornisce alcunché di simile ; gli occorre, dunque, un aiuto superiore ; 1’ uomo naturale qui non può nulla da sé: vedremo presto da qual miracolo sarà salvato. Intanto sappiamo che F inerzia , la pigrizia — la quale a forza di riprodursi indefinitamente diviene impotenza morale — è il vizio radicale, il male innato, il peccato originale: l'uomo è per natura pigro, dice assai giusta¬ mente il Kant. — Da pigrizia nasce immediatamente viltà, il secondo vizio fondamentale dell’ uomo ; la viltà è la pigrizia d’affermare la propria libertà e indipendenza nello scambio ili azione con gli altri : donde tutte le specie di schiavitù fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha abbastanza coraggio dinanzi a coloro di cui si conosce la debolezza relativa, ma si è disposti a cedere, a umiliarsi, dinanzi a una supposta e temuta superiorità qualsiasi ; si preferisce la sottomissione piuttosto che lo sforzo neces¬ sario a resistere; precisamente come quel marinaio che pre¬ feriva le eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso di correggersi in questa vita. — Il vile si consola di questa I.XXX1V sottomissione forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da viltà nasce inevitabilmente il terzo vizio fondamentale : falsità. È questa il risultato di uno sforzo indiretto che si compie per ricuperare l’indipendenza perduta, quell’indipendenza che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi interamente come il pigro finge di fare per essere dispensato dalla fatica di difenderla in aperta battaglia. Falsità, menzogna, ma¬ lizia, insidia derivauo dall’esistenza di un oppressore, e ogni oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il vile è falso; il coraggioso non mente e non è falso: per orgo¬ glio, se non per virtù. Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui è radi¬ cata la pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza con cui' egli deve aiutarsi ? che cosa gli mauca propria¬ mente? — Non già t la forza, che egli ben possiede, ma la coscienza della forza e l’Impulso a farne uso. — E donde gli verrà questo impulso? — Non da altra foute che dalla riflessione: è necessario che 1’ io empirico, avendo in sè l’im¬ magine dell’Io assoluto, e vedendosi in tutta la propria bruttezza, senta orrore di sè ; soltanto per questa via potrà formarsi la coscienza di quel che deve essere, soltanto di là verrà l’impulso. In genere gl’ individui che formano la grande maggioranza degli uomini hanno bisogno di ap¬ prendere la propria libertà da altri individui liberi, che essi contemplano come modelli ; ma vi souo nella moltitu¬ dine spiriti eletti a cui fu dato di essere gl’ iniziatori della moralità e quasi i primi maestri dell' umanità, per es. i fondatori di religione. Si comprende come costoro, non avendo attinto dall’ esempio altrui la consapevolezza della propria indipendenza, e non trovando nella propria natura empirica il principio dell’ emancipazione da questa natura — l.XXXV empirica, si credano ispirati dall' alto da una grazia so¬ prannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non han fatto che obbedire alla propria natura superiore, all’Io as¬ soluto, di cui l’io finito e individuale deve divenire la copia fedele ( J ). B) Contenuto materiale della legge morale, ovvero veduta sistematica dei nostri doveri. — Una volta eman¬ cipato dalla schiavitù della natura e divenuto cosciente della propria libertà formale, 1’ uomo deve far uso di questa per compiere l’infinita serie di azioni diretta verso 1’ as¬ soluta libertà materiale. Quale la materia di queste azioni? In qual modo 1’ io individuale si eleverà gradatamente sino a quell’ indipendenza assoluta, a quello stato oggettivo di libertà, che è il fine ultimo della sua libera attività sog¬ gettiva? — L’accennammo già: l’attuazione dello stato di libertà non si ottiene se non determinando il mondo in funzione della libertà stessa, operando cioè come chi considera e tratta le cose dal punto di vista non della loro esistenza data, ma della loro finalità, non del loro es¬ sere, ma del loro dover-essere, e le modifica perciò e le adatta progressivamente nella direzione di questa finalità, di questo dovere. Tale determinazione del mondo secondo 1’ idea della libertà, determinazione posta come obbligatoria e come praticamente necessaria, costituisce il sistema dei nostri doveri, la materia della moralità. In altri termini, la morale propriamente detta non è che l’insieme delle con¬ dizioni a cui il mondo va sottoposto e a cui deve prestarsi per essere strumento all’ attuazione della libertà. Queste condizioni possono ridursi a tre, perchè triplice * (') 1 bici. pp. 198-205 (ibid. 194-201). I.XXXVI è il punto di vista da cui può considerarsi il mondo. Il mondo si può considerare : a) in sè, come pura e semplice materia, come natura corporea ; b) nel suo rapporto col pensiero, come materia di conoscenza ; c ) nel suo rapporto col volere, come oggetto indispensabile all’ esercizio dell’ at¬ tività, come il luogo d’incontro delle molteplici sfere di li¬ bertà individuale, come il teatro della società. E per la morale si tratta appunto di mostrare a) nella nostra na¬ tura corporea, b) nella nostra intelligenza, c) nella nostra vita sociale, gli strumenti per l’attuazione della libertà, la quale non può divenire reale se non operando sul mondo oggettivo, per mezzo del corpo, dell’intelligenza e della società. Come, dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine ideale da raggiungere, a) il corpo, b) l’intelligenza, c) la società ? ' « a) Il nostro corpo, essendo da una parte prodotto di natura, dall’ altra strumento della causalità del concetto, funziona da intermediario tra la necessità e la libertà. La volizione si esercita immediatamente su di esso, e per esso modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri concetti. Di qui risulta chiaro un triplice dovere rispetto al corpo : 1) un dovere negativo : non far mai del proprio corpo il fine ultimo delle proprie azioni ; 2) un dovere po¬ sitivo : conservare e coltivare il proprio corpo nell’interesse della libertà ; 3) un dovere limitativo : evitare come illecito ogni piacere corporeo che non si riferisca al fine ultimo della nostra attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio: se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio per voi ; non ce n’ è un’ altra „ (*). (*) Ibid. pp. 20C-21G (ibid. pp. 202-212). ì.xxx vi i b) L’intelligenza è la forma indispensabile attraverso cui può attuarsi la libertà, poiché soltanto la riflessione dà alla libertà la sua legge; fuori dell’intelligenza ci sarà 1’ istinto cieco, non già la coscienza morale ; l’intelligenza è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di più-: per la legge morale , mentre il corpo è condizione materiale pu¬ ramente esterna e soltanto della sua causalità, l’intel¬ ligenza è condizione materiale veramente interna e di tutta quanta la sua essenza. Di qui un triplice dovere anche verso l’intelligenza : 1) un dovere negativo : non subordinare mai materialiter — ossia nelle sue ricerche e cognizioni — l’intelligenza a nessuna autorità, foss’anche quella della legge morale ; la ricerca da parte della ragione teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata , non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto della conoscenza ; 2) un dovere positivo : formare l’intel¬ ligenza il più possibile ; il più possibile imparare, pensare, indagare ; 8) un dovere limitativo : subordinare formaliier l’intelligenza alla moralità, la quale rimane sempre il fine supremo ; riferire al dovere tutte le nostre investigazioni ; coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere, es¬ sendo essa strumento di moralità ('). c) La società, infine, può dirsi addirittura l’espres¬ sione vivente della libertà , in quanto questa non si con¬ cepisce come qualcosa d’individuale, ma soltanto come una recijjrocanza di rapporti tra più individui corporei, intelligenti e volenti. L’ideale della libertà, quindi, si attua non nel singolo uomo , ma nella comunità di tutti gli uomini, in seno alla quale V individuo diviene persona. (*) (*) Ibid. pp. 217-218 (ibid. pp. 213-214). LXXXV1I1 —■ e senza la quale per l’ individuo nessun perfezionamento, anzi nemmeno l’esistenza stessa, sarebbe possibile, essendo individuo e società termini correlativi, coudizionantisi a vicenda. Se così è, se 1’ io empirico non può porsi altri¬ menti che come individuo, e se come tale non può pre¬ scindere dai suoi rapporti con la società , che vai quanto dire dalla esistenza di altri individui e dalla loro libertà, è evidente che egli non può voler sopprimere questa esi¬ stenza e questa libertà, da cui sono determinate l’esistenza e la libertà sua propina. La mia tendenza all’indipendenza assoluta, fine supremo della mia attività, è dunque subor¬ dinata alla libertà .degli altri. Le libere azioni degli altri sono gli originari punti di confine della mia individualità, e a esse io reagisco f non meno liberamente, autodetermi- nandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da cui uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il mio essere in altro che nel mio operare. Soltanto che mentre il mio operare, rispetto a quegli originari punti di confine della mia individualità, ossia rispetto ai liberi in¬ flussi degli altri , mi appare 1’ effetto della mia assoluta autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti di confine , quei liberi influssi^ degli altri , invece , mi ap¬ paiono come predeterminati p priori ; alla stessa guisa che dal punto di vista altrui s’invertono le parti , e agli altri appare liberamente autodeterminato il loro agire su di me e predeterminato a priori il mio reagire su di loro. Il che dà luogo , è vero , a un’ antinomia tra predetermi¬ nazione e autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si risolve facilmente cosi : tutte le azioni libere (le mie come le altrui) sono predeterminate ab aeterno (ossia fuori del LXXXIX tempo) dalla ragione universale ; ma il momento in cui ciascuna deve accadere e gli attori di essa non sono pre- ^ determinati : ecco, quindi, predestinazione e libertà perfet¬ tamente conciliate (*). Ciò premesso - è evidente il-dovere fondamentale verso la società : non impedire , con 1’ eser¬ cizio della propria libertà, la libertà degli altri, hou trat¬ tare gli altri uomini come cose, come semplici strumenti della propria libertà. Ma anche nell’ interno di questo do¬ vere sembra annidarsi un’ antinomia : da una parte devo tendere all’ indipendenza assoluta , all’ emancipazione da ogni limitazione, dall’altra devo rispettare la libertà altrui, la quale è una vera limitazione alla mia libertà ; da una parte devo agire sul moudo sensibile si da farne, come il mio corpo, il mezzo per giungere al line supremo , all’ as¬ soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare i pro¬ dotti della libertà altrui. Come comporre questa nuova contraddizione ? Non difficile la soluzione : basta supporre tra le molteplici libertà individuali , anziché contrasto, vera comunanza di azione ; se dal punto di vista giuridico occorre una forza coercitiva (l’autorità dello Stato), la quale, restringendo l’esercizio delle libertà individuali an¬ tagonistiche , renda possibile il loro mutuo sviluppo , dal punto di vista morale, invece, tutti gli individui sottostanno alla medesima legge, tutti perseguono il medesimo fine , tutti sono in certo qual modo identici nella loro condotta conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo do¬ vere, e l’emancipazione degli uni, lungi dall’opporlesi, è necessaria all’ emancipazione degli altri, perchè l’indipen- (') Ibiil. pp. 226-220 (iliid. pp. 222-224). xc denza di ciascuno va di pari passo con l’indipendenza di tutti, perchè la libertà , intesa nel senso morale, non si attua se uon uella collettività, degli esseri liberi. Dunque, non già limitazione o interferenza tra le libertà indivi¬ duali, sì bene confluenza, collaborazione a un’opera comune, al trionfo della ragione : il rispetto della libertà altrui è qui compatibile con 1’ esercizio assoluto della libertà pro¬ pria, perchè questa e quella si accordano e si completano reciprocamente, la liberazione dell’uno è in pari tempo la liberazione di tutti. E invero , 1’ originaria tendenza all’ indipendenza as¬ soluta non si riferisce a un determinato individuo ; ha per oggetto la libertà assoluta, l’autonomia della ragione in generale. L’ultimo fine della moralità è il regno della ragione in quanto ragione, il che non si ottiene se non nella comunanza e con la cooperazioue di tutti gli esseri che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la libertà, — ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma dell' in¬ dividualità, essa è di natura essenzialmeute sociale e uni¬ versale, e non si attua nel singolo uomo se uon in quanto questi da u individuo „ si eleva a “ persona „ per confon¬ dersi in ispirito con tutti, gli esseri ragionevoli. Di qui trae luce e spiegazione la nota formula kantiana : u Opera in modo da poter pensare la massima della tua volontà come principio d’ una legislazione universale „ , formula più euristica che costitutiva della moralità, perchè non è un principio — come sembrava al Kant, a cui il metodo da lui adottato interdiceva di penetrare sino al fondo delle cose — ma soltanto una conseguenza di quel vero prin¬ cipio che consiste nel comando dell’ assoluta indipendenza XCI della ragione ('). Di qui deriva la necessità che tutti-siano veramente liberi , che nessuno sia impedito nell* esercizio dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che ciascuno si adoperi ad avvicinare sempre più quell’ ideale" — per quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che è la moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà contrario alla legge morale ho il dovere di annullare ; ma siccome ciascuno deve operare secondo le proprie convin¬ zioni , cosi mi è lecito cercar di determinare o modificare soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione. E poiché non si può agire sulle convinzioni degli altri uomini se non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via si ribadisce la necessità morale della società e il dovere per ognuno di vivere in essa. Segregarsi dalla società significa rinunziare ad attuare il fine della ragione ed essere indif¬ ferente al propagarsi della moralità, al trionfo della libertà, al bene dell’ umanità ; “ chi si propone di aver cura sola- (*) Ilari, p. 234 ibici. pp. 229-230). Secondo il Fichte la suddetta formula kantiana va intesa non già nel senso : — perchè un quid può essere principio di una legislazione universale, perciò dev’essere massima della mia volontà — ma nel senso opposto : — perchè un quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò può essere anche principio di uua legislazione universale — ; in altri termini, non la forma determina il contenuto della moralità, ma il contenuto deter¬ mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’ attuazione univer¬ sale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale operi di- siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria condotta come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime circostanze ; la proposizione kantiana, appunto con questa universalizzazione della condotta individuale , non fornisce altro che un eccellente mezzo di controprova per accertarci se, agli effetti della morale , la condotta di un individuo sopporti o no universalità, possa o no erigersi a legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non già costitu¬ tiva della moralità. xcn mente di sè , dal lato morale, in verità non ha cura nep¬ pure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il prendersi cura di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù, ma soltanto im servile, venale egoismo....; non già con una vita eremitica, dedita a pensieri sublimi e speculazioni pure, non già col fantasticare , ma soltanto con 1’ operare nella e per la società si soddisfa al dovere (*). La necessità etica della società e il dovere che ne deriva all’ individuo di vivere in essa e di lavorarvi alla moi'alizzazione degli uomini, operando sul loro spirito e formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di quella repubblica morale che i?i chiama la Chiesa e che è condi¬ zione indispensabile per la reciproca azione sociale diretta a produrre credenze pratiche concordi e con esse il pro¬ gresso della moralità. La Chiesa , infatti, rappresenta nel suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri, quell’accordo primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile una comunità spirituale. Ma il simbolo non è, nè può es¬ sere, che un punto di partenza o un mezzo, nou già un punto di arrivo o uu fine ; esso è indefinitamente perfet¬ tibile mercè la continua reciproca azione degli spiriti gli uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità , e non può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬ punto, l’intende il protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬ pismo, lavorare pur contro la propria convinzione a man¬ tenere il simbolo in una fissità assoluta, a rendere la ra¬ gione stazionaria, a costringere gli altri in una fede già superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione del dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres- (') Ibid. p. 235 (ibid. p. 230). xeni sione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a permettere la discussione delle diverse opinioni in vista dell’ ulteriore sviluppo morale della comunità, ma la for¬ mula definitiva di una verità assoluta e immutevole, il che sta in recisa opposizione con lo spirito della moralità, la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’ in¬ finito (*). Come la Cliiesa è istituzione necessaria al perfeziona¬ mento morale per quanto riguarda le convinzioni interne, così lo Stato è istituzione necessaria per quanto riguarda le azioni esterne, 1’ operare sul mondo sensibile. Ciò che sta fuori del mio corpo, ossia tutto il mondo sensibile , è patrimonio comune e il coltivarlo secondo le leggi della ragione non spetta a me soltanto, ma a tutti gli individui ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso inter¬ ferisce con l’ operare degli altri, e può accadermi , perciò, di arrecar danno alla libertà altrui, quando il mio operare non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà : il che assoluta- mente non mi è lecito. Quel che interessa tutti io non posso fare senza il consenso di tutti, e senza seguire, quindi, principi universalmente accettati, previo accordo, tacito o esplicito, circa una parziale restrizione volontaria e generale delle diverse libertà individuali. Il consenso a questa restrizione e 1’ accordo che determina i comuni di¬ ritti e la reciproca azione sul mondo sensibile è oggetto del cosidetto contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo Stato , grazie alle leggi conosciute e accettate da tutti i cittadini , rende possibile a ciascuno di essi di conciliare l’esercizio della propria libertà col rispetto dovuto alla (') Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp. 233-240). — xciv — libertà degli altri; rende passibile, iu altri termini, preve¬ nendo eventuali conflitti nell’incontro delle libertà indivi¬ duali, quella convivenza sociale die è condizione strie iy ua non della moralità'; di qui il suo alto significato e il suo valore etico ('). La necessità del simbolo nella Chiesa, il rispetto delle leggi nello Stato, impongono, non tanto alle convinzioni dell’ individuo — le quali sono incoercibili — quanto alla loro manifestazione e comunicazione, certi limiti che non si possono oltrepassare senza mettersi fuori del simbolo o fuori della legge, fuori, iusomma, della comunità morale e civile ottenuta iu un dato momento del progresso umano. E pur tuttavia si è tenuti non solo a formarsi una con¬ vinzione indipendente da ogni autorità, ma anche ad affer¬ marla e parteciparla agli altri. Come conciliare questa con¬ traddizione tra 1’ assoluta libertà delle singole coscienze e il rispetto alla fede comune ? come risolvere questo con¬ flitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una limita¬ zione reciproca dei due doveri , che vai quanto dire : am¬ mettere la libertà assoluta delle convinzioni e della loro comunicazione, ma circoscrivere questa libertà e questa comunicazione a quel particolare gruppo sociale che è il ■pubblico dotto (*). E invero, l’assoluta libertà delle convinzioni e della loro comunicazione, se è impraticabile nel vasto ambito della Chiesa e dello Stato , perchè per essere morale do¬ vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione una¬ nime di tutti i membri della comunità chiesastica e poli- (') Ibid. pp. 237-238 (ibid. pp. 232-233). ( ! ) Ibid. pp. 247-248 (ibid. 242-243). xcv tica, è, invece, praticabile nel ristretto pubblico dei dotti, il quale sta come anello di congiunzione tra la convinzione comune e la privata. Il carattere distintivo del pubblico dotto è uifa asso¬ luti libertà e indipendenza di pensiero ; il principio della sua costituzione è la massima di non sottoporsi a nes¬ suna autorità , di basarsi in tutto sulla propria riflessione e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò che non sia da questa confermato. Nella repubblica dei dotti non è possibile nessun simbolo, nessuna direttiva prestabilita, nessun riserbo ; tra dotti si deve poter dichiaral e tutto ciò di cui si è persuasi, appunto come si oserebbe dichia¬ rarlo alla propria coscienza ; giudice della verità sarà il tempo, ossia il progresso della coltura. E come assoluta¬ mente libera è l’investigazione scientifica, così pure libero a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per chi nel suo intimo non può più credere all’ autorità , è contro coscienza con¬ tinuare a credervi, è dovere di coscienza associarsi al pub¬ blico dotto. Lo Stato e la Chiesa debbono tollerare i dotti, altrimenti violerebbero» te coscienze, perchè nessuna po¬ tenza terrena ha il diritto d’imporsi in materia di co¬ scienza. Lo Stato e la Chiesa debbono anzi riconoscere la repubblica dei dotti, perchè questa è condizione del loro progresso morale , in quanto che soltanto in essa possono elaborarsi i concetti che modificheranno , perfezionandoli, e il simbolo e la costituzione dello Stato: sin anche come pubblici ufficiali — per es. nelle università — i dotti pos¬ sono lavorare all’educazione degli uomini e alla formazione scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti della Chiesa e dello Stato. È da aggiungere, però, che il dotto, insieme con l’incontestabile diritto che ha all’ esistenza, « XCV1 all' indipendenza e alla massima libertà di ricerca e cri¬ tica nel campo del pensiero, lia anche il preciso dovere di sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato nel campo deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte nè diffondere le propine convinzioni, ancora discutibili e non universalmente accettate, tra i fedeli e i cittadini che vivono fuori della repubblica dotta, nè , tanto meno , attuarle senz’ altro nel mondo sensibile , minando cosi, o addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli ordi¬ namenti e i poteri costituiti ; Stato e Chiesa hanno il di¬ ritto di impedire ciò. Sarebbe un’oppressione della coscienza proibire al predicatore di esporre in scritti scientifici le sue convinzioni dissenzienti, ma rientra perfettamente nel- 1’ordine vietargli di portarle sul pulpito, ed egli stesso, se'è illuminato, sentirebbe la propria immoralità quando facesse così. In conclusione: l’ultimo fine di ogni attività sociale è l’accordo universale tra gli uomini, accordo non possibile se non sul puro ragionevole, perchè qui soltanto ritrovasi ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un tale accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pub¬ blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬ videndo tutti le medesime convinzioni, a che servirebbe più il potere legislativo e coercitivo dello Stato? Riunite tutte le coscienze individuali nella visione diretta della verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli provvisori e mutevoli della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di ciascuno confluirebbe col pensiero e 1’ azione di tutti, la legge mo¬ rale troverebbe la sua espressione nella sublime armonia di tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema comu¬ nione dei santi, l’io empirico e individuale, completamente — xovrt liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente in seno all’Io puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della moralità è tutto in Questo perenne e progressivo attuarsi del regno della ragione nel regno della natura, è tutto in questa ascensione, in quest’approssimarsi del mondo verso lo Spirito, vei’so la Libertà ('). C) Dottrina dei doveri propriamente detta. —- Da quanto precede risulta evidente che l’io empirico q la persona è soltanto mezzo all’ attuazione del fine supremo morale. La proposizione del Kant : L’uomo è /ine in se, è giusta purché completata così : l'uomo è fine in .sr. ma per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e il suo fine è la ragione in generale , ossia 1’ umanità tutta quanta , ne segue che tutti sono fine a ciascuno , ma nes¬ suno è fine a se stesso ; 1’ attività di ciascuno è semplice strumento per attuare la ragione. Con che la dignità del- 1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a ciascun individuo vien affidato il raggiungimento del fine univer¬ sale della ragione e dalla cura e dall’ attività di lui di¬ pende l’intera comunità degli esseri ragionevoli, mentre egli , invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio nella misura che gli è possibile , ossia con riguardo alla libertà degli altri, e appunto perchè tutta la sua iudivi- dualità scompare, egli diventa pura rappresentazione della legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro. Errano di molto coloro che pongono la perfezione in pie medita¬ zioni, in un devoto covare sopra sé stessi, e di qui aspet¬ tano l’annientarsi della propria individualità e il loro con- (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp. 243-248). — xcvm fluire culi la divinità; la loro virtù è, o rimane, e geliamo ; essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La vera virtù, invece, consiste nell’operare, e nell’operare per la comu¬ nità : è quindi oblio, abnegazione intera di sè nell’interesse della totalità degli esseri ragionevoli. Se cosi è, se l’io empirico o individuale serve sola¬ mente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬ vento del regno della ragione, ne segue che i doveri verso l’io empirico sono mediati e condizionati di fronte a quelli che, riferendosi direttamente al fine supremo , diconsi im¬ mediati e incondizionati, ossia assoluti. Senonchè la pro¬ mozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù di una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe molto accadere in più modi, e molto non accadere affatto. È necessario, dunque, attuare una tale divisione di lavoro, mediante 1’ istituzione di divei'se professioni , da cui na¬ scono doveri diversi, che diremo particolari o trasferibili (perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella data professione) di fronte ai doveri che sono generali o intrasferibili (perchè s’impongono indistintamente a tutti gli esseri umani). Combinando questa seconda classifica¬ zione dei doveri, fatta dal punto di vista del soggetto della moralità, con la precedente, fatta dal punto di vista dell’oggetto della moralità, si hanuo quattro specie di doveri : 1) generali condizionati 2) particolari condizionati 3) generali incondizionati 4) particolari incondizionati (’). (') Ibid. pp. 257-251) (ibid. pp. 251-253). XOIX 1. I doveri generali condizionati — abbiamo dette — ' si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e strumento indispensabile per 1 adempimento della legge morale: primo tra essi, dunque , V autoconservazione , la conservazione , cioè , di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione * già richiesta dal diritto naturale come condizione ne¬ cessaria al I attuarsi di quel futuro da cui attendiamo la soddisfazione implicita nell’oggetto del nostro volere pre¬ sente , e perciò come qualcosa di relativo — diventa per la moralità materia di un comando assoluto ; per 1’ uomo morale si tratta non più di attendere un risultato più o meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo, ma di lavorare disinteressatamente all’attuazione di quel fine supremo di cui egli non potrà mai godere , perchè posto all’ infinito. Dal dovere dell’ autoconservazione nasce : — a) un divieto : evita tutto ciò che, secondo la tua coscienza, può mettere in pericolo la tua conservazione in quanto stru¬ mento della moralità (il digiuno e 1’ intemperanza in ri¬ guai do al corpo, l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo, l’occupazione irregolare, il disordine della fantasia, la col¬ tura unilaterale, ecc. in riguardo all’ intelligenza) ; non espone al pericolo la tua salute, il tuo corpo, la tua vita, quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò la più recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare di esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è la condizione stessa dell’ adempimento del dovere, e il sui¬ cidio, distruggendo la vita, la sottrae appunto al dominio della legge ; suicidarsi significa dichiarare di non voler più adempiere il dovere. — b) un comando : opera tutto quello che ritieni necessario alla tua conservazione (il buon mauteuimeuto del corpo, il nuo adattamento perfetto ai fini che deve conseguire, la coltura dell’intelligenza, la ricreazione estetica, eco.). Non va mai dimenticato, però, che il dovere dell’auto- conservazioue è condizionato , essendo l’io empirico sem¬ plice strumento della moralità : quindi , dove il fine della moralità non fosse compatibile col dovere «Iella conserva¬ zione , sarebbe moralmente necessario che la vita dell’ in¬ dividuo venisse sacrificata a quel fine, che il dovere coudi- zionato fosse subordinato al dovere incondizionato : quando la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la mia viltà — per es., quello di risparmiarmi la vita per operare ancora dell’ altro bene che altrimenti rimarrebbe incompiuto — andrebbero contro il dovere, il quale co¬ manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo adempimento ('). 2. Tra i doveri particolari condizionati — attinenti , cioè, ai diversi uffici e alle diverse professioni individua¬ li — sta anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare una professione nell’interesse della società, di contribuire in qualche misura all’ esistenza e all’ organizzazione sociale ; poi 1’ altro di scegliersi a ogni modo un ufficio , una pro¬ fessione, e non già secondo l’inclinazione, ma con la co¬ scienza d’ avere la migliore attitudine all’ uno o all’ altra , considerate le proprie forze , la propria coltura , le condi¬ zioni esterne dipendenti da noi , poiché non il sodisfaci- mento dei nostri gusti dev’ essere lo scopo della nostra vita, ma 1’ avanzamento del fine della ragione : onde gli (') Ibid. pp. 259-271 (ibid. pp. 254-2C5). CI — uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima d’essere giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a questa maturità si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo; infine il dovere di attendere con tutta coscienza all’ufficio o alla professione prescelta, formando sempre meglio all’uno o all’ altra il corpo e lo spirito , secondo che più occorre (all’agricoltore, per es., occorre più la forza e la resistenza fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità dei movimenti, allo scienziato la coltura spirituale in tutte le direzioni, ecc.). Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo il loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista sociale soltanto nel senso che le molteplici occupazioni umane sono subordinate le une alle altre come il condi¬ zionato e la condizione, come il mezzo e il fine ; ma dal punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore , tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide bene (*). 3. I doveri generali incondizionati si riferiscono non più allo strumento, ma al fine stesso della moralità , che è il dominio della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬ lità degli individui per opera di ciascun individuo. Primo tra essi il dovere verso quella libertà formale di tutti gli esseri ragionevoli, nella quale sta 1’ origine , la radice stessa della moralità. La libertà formale di eia- scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la perma¬ nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo che ue è 1’ organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬ porto tra il corpo individuale e il mondo sensibile che ne è la sfera d’ azione. Di qui due specie di doveri concer- * (*) Ibid. pp. 271-274 (ibiil. pp. 2G5-268). cn neuti l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della altrui libertà d’azione. A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬ plica : a) il divieto di esercitare qualsiasi violenza o coer¬ cizione fisica su altri (la condanna, quindi, della schiavitù, della tortura, dell’ omicidio eoe.), b) il comando d’aver cura della vita e della salute degli altri come della propria, essendo gli altri, al pari di noi, strumenti della moralità (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’ altrui libertà d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza dei rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia che il risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della volontà ; di qui il dovere della veracità, il quale implica : a) il divieto d’ingannare il prossimo (con l’inganno si dan- neggia la libertà degli altri, trattandoli non come persone ma come cose) e la conseguente condauna del venir meno alle promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita, neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna ne¬ cessaria, neppure col pretesto dell’interesse altrui, o, peggio ancora, con quello dell’ interesse della moralità, perchè la menzogna stessa, per essenza sua, nasce da viltà ed è sempre radicalmente immorale; b.) il comando d’illuminare e istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; — in secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel mondo sensibile senza la quale manca, oltreché la materia prima per attuare i disegni della propria volontà, altresì la sicura coscienza di non disturbare, con l’esercizio della propria libertà, la libertà degli altri, come esige la legge morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e della conserva¬ zione della proprietà, il quale implica : a) il divieto di distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera; b) il comando d’acquistarsi una proprietà e di procurarne una a ciascun individuo (come ogni oggetto dev’ èssere proprietà di ciascuno affinchè tutto il mondo sensibile rientri nel dominio della ragione, così ognuno deve avere una proprietà ; in uno Stato in cui un sol cittadino non abbia una proprietà, ossia una sfera esclusiva se non di oggetti, almeno di diritti a certe azioni, non esiste in ge¬ nerale nessuna legittima proprietà ; la beneficenza consiste non nel fare l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno il modo di vivere del proprio lavoro) (*).
No comments:
Post a Comment