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Sunday, May 15, 2022

 Carbonara 


 E invero, mentre da un lato la Dottrina della Scienza  ci apprende che il fondo, l’essenza dello spirito umano  non è l’intelligenza ma 1’ attività, non il pensare ma il  volere — nella forma , almeno, in cui attività e volere  sono accessibili all’ uomo — , e che l’intelligenza — pur  essendo inseparabile dall’attività, da cui è condizionata e  di cui e condizione — resta subordinata all’ attività come  la forma al proprio contenuto, come la riflessione al proprio  oggetto, d’altra parte la Dottrina morale ci mostra il pro¬  cedimento con cui lo spirito umano si sforza — il che è  preciso suo dovere — di prendere coscienza, mediante l’in¬  telligenza, di quell’attività pura, di quella volontà, di  quella libertà infinita, che è appunto il fondo suo , la sua  essenza assoluta. Dal che risulta evidente lo stretto nesso  che avvince la Dottrina morale alla Dottrina della Scienza ;  quella si deduce direttamente dai principi di questa, in  quanto la moralità, secondo il Fichte, non è che uno dei  momenti pii\ importanti, anzi il più essenziale, dell’ attua¬  zione di quell’ Io puro , di quella Libertà assoluta che la  Dottrina della Scienza pone al di là dei limiti di ogni  coscienza , e da cui 1’ io empirico deriva e a cui 1’ io em¬  pirico aspira. Il passaggio dall’ Io puro, assoluto e infinito,     XLII    per via di limiti e determinazioni, all’ io empirico, relativo  e finito, ossia dalla Libertà all’Intelligenza, è il problema  a cui pili specialmente si applica la Dottrina della Scienza ;  il passaggio dall’io empirico, relativo e finito, per via di  superamenti e liberazioni, all’Io puro, assoluto, infinito, è  il problema a cui più specialmente si applica la Dottrina  morale. L’ un problema è il reciproco dell’ altro, e la so¬  luzione di entrambi dipende dalla soluzione dell’antinomia  tra la finitezza dell’Io-intelligenza , attività oggettivante  (= che pone oggetti, limitazioni, resistenze), e l’infinitezza  dell’ Io-libertà , attività pura (= che ha per essenza 1’ as¬  solutezza, l’illimitatezza, l’autonomia). E come il Fichte  risolve tale antinomia con quell’attività a un tempo finita  e infinita che è lo sforzo (Streben) — attività finita, perchè  lo sforzo implica una limitazione, una determinazione, che  impedisce l’immediato compimento dell’atto nella sua infi¬  nità; attività infinita, perchè questa determinazioue non  ha nulla di assoluto, di fisso, è un limite che l’attività fa  indietreggiare incessantemente per conseguire l’infinità — ,  ne segue che l’idea dello sforzo è , nella sua filosofia, il  cardine fondamentale dell’ attività teoretica non meno che  dell’ attività pratica, dell’ Intelligenza non meno che della  Volontà, della Dottrina della Scienza non meno che della  Dottrina morale. Nella Dottrina morale , a oui ora è ri¬  volta la nostra attenzione, lo sforzo esprime la tendenza  dell’Io a identificare la sua attività oggettivante con la sua  attività pura, e lo svolgimento dell’ Io è tutto nel rapporto  tra queste due attività : l’infinita Libertà non può attuarsi  se non at traverso la limitazione e l’Intelligenza, ma non  c’è limitazione uè Intelligenza se non rispetto all’infinita  Attività pura elle di continuo le sorpassa. Lo sforzo, quindi,     —    L 11    —    — XL11I —   può definirsi un’attività in cui l’infinito è posto non come  stato attuale, ma come meta da raggiungere, un’attività  in cui 1’ adeguazione del finito e dell’ infinito non è , ma  dev'essere , un’attività, insomma, che ha per contenuto  il Dovere e che del Dovere è a sua volta il contenuto.   Diamo, in breve, il disegno della Dottrina morale.   *   *■ *   La Dottrina morale si apre I) con un’ Introduzione ,  in cui sono sinteticamente presentati i presupposti filosofici  dell’etica; e si svolge in tre Libri, dei quali II) il primo  trae da quei presupposti il principio della moralità, III) il  secondo deduce da essi la realtà e 1’ applicabilità di questo  principio, IV) il terzo fa l’applicazione sistematica del prin¬  cipio stesso, ed espone quindi la morale propriamente detta.   I. - I presupposti filosofici dell' etica, contenuti nel¬  l’Introduzione e perfettamente conformi alla Dottrina della  Scienza , muovono dal principio che la vera filosofia sol¬  tanto allora è possibile, quando si abbia un punto in cui  il soggettivo e l’oggettivo, l’essere in sè e la rappresenta¬  zione di esso non siano divisi, ma facciano tutt’uno, e che  un tal punto si trova nell’Egoità o Io puro, nell’Intel¬  ligenza o Ragione. Senza questa assoluta identità del sog¬  getto e dell’oggetto nell’Io, la quale peraltro non si lascia  cogliere immediatamente come un dato della coscienza at¬  tuale, ma soltanto argomentare per via di ragionamento,  la filosofia non approda a nessun risultato. Bisogna, dunque,  ammettere un’Unità fondamentale e primitiva, la quale,  tosto che nasce una coscienza attuale — o anche soltanto  l’autocoscienza —, si scinde necessariamente in soggetto e      — 3LIV —    r   oggetto, poiché “ solamente in quanto io, essere cosciente,  mi distinguo da me, oggetto della coscienza, divengo co¬  sciente di me stesso „ ( 1 ). Bisogna ammettere, inoltre, che  l’oggettivo abbia causalità sul soggettivo, e viceversa il  soggettivo sull’oggettivo, per rendere concordi tra loro, e  in generale possibili, il pensiero e il pensato, la ragione e  il suo dominio sulla natura. E appunto perchè il legame  causale tra soggetto e oggetto è duplice — ognuna delle  due parti è causa ed effetto dell’altra: il soggettivo è ef¬  fetto dell’oggettivo uel conoscere , Soggettivo è effetto del  soggettivo nell 'operare — , la filosofia si divide in teore¬  tica e pratica.   Senonchè, come avemmo già occasione di notare (*),  l’Io puro, ossia 1’ U.nità soggettivo-oggettiva ancora indi¬  visa, non è un fatto ( Thatsache ), ma un atto ( Thathand -  tutiff), la sua natura originaria è attività: è, dunque, pra¬  tica. Perciò il principio : “ Io mi trovo come operante nel  mondo sensibile „ ( 3 ) è di capitale importanza per il nostro  conoscere. Da esso comincia ogni coscienza ; senza la co¬  scienza della mia attività non è possibile nessuna autoco¬  scienza, senza l’autocoscienza nessuna coscienza di un  quid diverso da me. Infatti, la percezione della mia atti¬  vità suppone una resistenza al di fuori di noi; “ ovunque  e in quanto tu percepisci attività, tu percepisci necessa¬  riamente anche resistenza ; altrimenti tu non percepisci  attività „ ( 4 ). Ora la resistenza è affatto indipendente dalla    (') Sittenlehre (Stimanti. Werke, Voi. IV, ediz. cit.), pag. 1 (nostra  traduz. pag. 1).   ( 2 ) Cfr. pvec. p. XXXIX, nota.   ( 3 ) Sittenlehre, p. 3 (nostra traduz. p. 3).   ( 4 ) Ibid. p. 7 (ibid. p. 6).     XI.V    mia attività, è anzi il suq opposto; è qualcosa che esiste  soltanto e in nessun modo agisce, qualcosa di quieto e  morto, die tende semplicemente a rimanere quel che è,  qualcosa che nel proprio campo contrasta all’azione*della  libertà, ma non può mai invadere il campo di questa. Un  qualcosa di simile, dunque, è “ pura oggettività „ , e si  chiama., col suo proprio nome, materia. Senza la rap¬  presentazione di una tale materia, niente resistenza alla  nostra attività, quindi niente attività, niente autocoscienza,  niente coscienza, niente essere. La rappresentazione del  puro oggettivo resta così dedotta necessariamente dalle  leggi stesse della coscienza ( l ).   Con la medesima necessità con cui viene dedotto il puro  oggettivo, viene posto anche il suo contrario, il sogget¬  tivo, ossia 1’ attività propriamente detta, sotto la forma di  un’ agilità (Agililàt) o forza efficiente. Ma poiché nella  coscienza, quasi come in un prisma, ogni unità si rifrange  in soggetto e oggetto, così in essa, avvenuto lo sdoppia¬  mento dell’Io puro in soggettivo e oggettivo, anche il sog¬  gettivo si sdoppia a sua volta, e si ha da una parte 1’ at¬  tività propriamente detta, veduta come una forza reale,  come un oggettivo esistente in me, dall’altra il soggettivo,  fonie inesauribile di questa forza reale, fonte originaria  non derivante da nessun oggettivo, e dalle cui profondità  oscure e inaccessibili sgorga, con libero, spontaneo e talora  impetuoso moto interno, l’infinita varietà delle nostre rap¬  presentazioni, dei nostri concetti ; per conseguenza la mia  attività — ossia il soggettivo ancora indiviso nella sua  unità anteriore alla coscienza — , quando sia veduta attra-    (*) Ibid. pp. 7-8 (itici, p. 7).       XLVI    verso il tramite della coscienza, appare come un oggettivo,  che da un lato scaturisce da un soggettivo perennemente  rinascente a ogni estrinsecarsi dell’oggettivo, dall'altro de¬  termina l’oggetti vita pura dianzi chiamata materia (‘). Così  si rivela alla coscienza la nostra assoluta auto-attività, la  cui essenza sta nel produrre rappresentazioni, nel creare  concetti, e la cui manifestazione sensibile dicesi libertà.  Ciascun concetto, riguardato come determinante l’oggettivo  in virtù della propria causalità, diventa un concetto-line,  e allora esso stesso appare un qualcosa di oggettivo e si  chiama uua volizione; e lo spirituale che in noi si consi¬  dera come principio immediato delle volizioni dicesi volontà.   Spetta, dunque , alla volontà agire sulla materia ed  esercitare causalità nel mondo sensibile ; ma ciò non le  sarebbe possibile se non avesse uno strumento che sia esso  stesso materia , ossia quel corpo articolato che è il nostro    (‘) Nel Leon (op. cit. pp. 255-260) trovasi ben descritta la natura  dell’attività spirituale nel senso fichtiano, attività clic è, a un tempo  e continuamente, produzione di sè e riflessione sopra di sè, oggetti¬  vazione e soggettività, io reale e io ideale, attualità e potenzialità;  chi voglia intendere una tale attività, che ha la caratteristica di esi¬  stere e di essere anteriore alla propria esistenza, devo ricordarsi che  essa non va pensata alla maniera delle cose, perché, contrariamoute  alla natura di queste ultime, la cui realtè si esaurisce tutta quanta  nell'essere oggettivo, l’attività spirituale può ripiegarsi su di sé,  può riflettersi. E a ciò si deve quel fenomeno meraviglioso e cosi  lontano dal meccanismo materiale, per cui 1’ esistenza ideale deter¬  mina l’esistenza reale, l’idea ha causalità, lo spirito è libertà. Onde  si vede che la libertà è proprio (come il Kant aveva ailermato, senza  però dimostrarlo) il comiuciamento assoluto d’uno stato, la creazione  di un’ esistenza seuza rapporto di dipendenza reale con un’ altra esi¬  stenza. E si vede altresì che solamente 1’ essere ragionevole, dotato  d’intelligenza e riflessione, è capace di libertà, poiché in lui soltanto  è possibile una causalità in forza di un concetto.           XLVII    organismo. E invero u io , consideralo come un principio  di attività nel mondo dei corpi, sono un corpo articolato,  e la rappresentazione del mio corpo non è altro che  la rappresentazione di me stesso come causa nel inondo  materiale 5 e perciò, mediatamente, non altio che un ceito  aspetto della mia attività assoluta „ ('). Volontà e corpo  sono quindi una medesima cosa , riguardata però da due  lati diversi: una medesima cosa, perchè soltanto fin dove  si estende l'immediata causalità della volontà sul corpo,  si estende il corpo articolato , necessario strumento della  causalità sulla materia; riguardata però da due lati di¬  versi , perchè , in virtù dell’ azione sdoppiatrice della co¬  scienza, la volontà appare come il soggettivo che esercita  la sua causalità sul corpo, e il corpo come 1 ’oggettivo i  cui mutamenti coincidono con quelli di tutta l’oggettività  o realtà corporea. Similmente una medesima cosa, riguar¬  data però anch’ essa da due lati diversi, sono la natura  che la mia causalità può cangiare, ossia la costituzione e  T ordinamento della materia , e la natura non cangiabile ,  ossia la materia pura : la natura mutevole è 1 ’ oggettivo  considerato soggettivamente e in connessione con 1 ’ io, in¬  telligenza attiva ; la natura immutevolo è Soggettivo con¬  siderato oggettivamente e soltanto in sè.   Secondo il precedente ragionamento , i molteplici ele¬  menti che l’analisi ritrova nella percezione della nostra  causalità sensibile vengono dedotti dalle leggi della co¬  scienza e ridotti all' unità, all’ unico assoluto su cui si tonda  ogni coscienza e ogni essere, all 'attività pura. Questa at¬  tività, in virtù della legge fondamentale della coscienza,    (!) Sittenlehre, p. 11 (nostra traduz. pp. 10-11).     V    — XLVIII —   per cui 1 essere attivo non si comprende senza una resi¬  stenza su cui agisce, non si comprende cioè se non come un  Io-soggetto operante sopra un Non-Io-oggetto, appare sotto  forma di efficienza su qualcosa fuori dell'Io. Ma tutti gli  elementi contenuti in questa apparenza, a partire dal con¬  cetto-fine propostomi assolutamente da me stesso, sino  alla materia greggia del mondo esterno su cui esercito la  mia causalità, non sono che anelli intermedi dell’apparenza  totale, e perciò semplici apparenze anch’essi. L’unico reale 1   vero è la mia auto-attività, la mia indipendenza, la mia  libertà.   IL - Da tali presupposti bisogna ora dedurre il  principio della moralità. L’ uomo trova in sè un’ obbliga¬  zione assoluta e categorica a fare o non fare certe azioni  indipendentemente da ogni fine esteriore, la quale si ac¬  compagna immancabilmente con la natura umana e costi¬  tuisce la nostra caratteristica morale. Donde ha origine  questa obbligazione o Dovere, che vai quanto dire la  leggo morale, ossia il' principio della moralità? Secondo  che esige la Dottrina della Scienza , tale origine non va  ricercata altrove che in noi stessi, nell’ Jo. Onde il primo  problema da risolvere a tal fine è:^ u Pensare sè stesso  come puramente sè stesso, ossia come distaccato da tutto  ciò che non è io. „ (*).   La soluzione di questo problema si ottiene così : Io  non trovo me stesso se non nella mia volontà, se non  come volente ; e trovarsi volente significa riconoscere in  se una sostanza che vuole. L’intelligenza è la coscienza    fl ) Ibid. p. 18 (ibid. p. 20).        — XLJX    puramente soggettiva; la coscienza del proprio io in quanto  io non può nascere che dalla volontà,. Ma la volontà non  si concepisce se non supponendo qualcosa di diverso dal-  1’ io, perchè ogni volontà reale è una determinata volizione  che ha un concetto-fine, che tende cioè ad attuare un og¬  getto concepito come possibile, un oggetto che stia fuori di  noi. Ne segue che, per trovare me stesso e nuli’altro che me  stesso , bisogna fare astrazione da questo oggetto esterno  della mia volontà: ciò che rimane allora sarà il mio es¬  sere puro, la volontà assoluta, il principio della nostra filo¬  sofia. Ne segue altresì che il carattere essenziale e distin¬  tivo dell’ io è una tendenza ad agire di propria iniziativa  e indipendentemente da ogni impulso estraneo, a determi¬  nare sè stesso in modo incondizionato e autonomo , è, in  una parola, la libertà. Ora, appunto questa tendenza e  questa libertà costituisce l’io preso in sè, l’io considerato  all’ infuori di ogni relazione con checchessia di diverso  da sè.   Ma ogni essere non è se non in quanto viene riferito  a un’ intelligenza, la quale sa che esso è ; in altri termini  suppone una coscienza. L’io, quindi , non è se non in  quanto si pone, non è se non in forza della coscienza che  ha di sè; onde esso deve avere la coscienza di quella ten¬  denza alla libera auto-determinazione che dicemmo costi¬  tuire la sua essenza. E invero l’io che, mediante l’intelli¬  genza, pone sè stesso come tendenza all’autonomia assoluta  o libertà, è un essere il cui principio si trova non in un  altro essere, ma in un quid di categoria diversa — l’unico  quid che possa concepirsi oltre l’essere — e cioè nel pen¬  siero , inteso non come qualcosa di sostanziale, sì bene  come attività pura, come movimento dell’intelligenza senza     restrizioni e senza fissità. Orbene, da questa intima fusione  dell’io in quanto tendenza all’attività assoluta o libertà e  dell’io in quanto intelligenza, dell’io in quanto essere e  dell’ io in quanto riflessione , è possibile dedurre il prin¬  cipio della moralità. Come?   L’Io assoluto, non ancora rifratto dal prisma della  coscienza, è determinato, come abbiamo detto, dalla sua  tendenza all’attività assoluta, e questa determinazione di¬  venta oggetto o contenuto dell’ intelligenza. Ma , siccome  l’Io assoluto nella sua unità integrale, nella sua semplicità  e identità originaria non può essere mai oggetto della co¬  scienza , bisogna che questa si sforzi di apprenderlo , al¬  meno per approssimazione, attraverso la dualità dell’essere  oggettivo e della riflessione soggettiva, mediante quella  specie di espediente che consiste nel considerare il sog¬  gettivo e 1’oggettivo come determina»tisi reciprocamente  1’ uno 1’ altro, come complementari, quindi come insepara¬  bili e impensabili l’uno senza l’altro. E allora, se si con¬  cepisce il soggettivo come determinato dall’ oggettiv'o (nel  qual caso nasce quella relazione psicologica che si chiama  sentimento), essendo l’oggetto, rispetto al soggetto, qual¬  cosa di per sè stante, di fisso .e permanente, si troverà  che il contenuto del pensiero è immutabile e necessario  e che l’intelligenza impone a sè stessa la legge di una  attività propria e assoluta. Se poi si concepisce l’oggettivo  come determinato dal soggettivo (nel qual caso nasce quel-  l’altra relazione psicologica che si chiama volontà), es¬  sendo il soggetto, rispetto all’ oggetto, qualcosa di mobile,  di attivo e indipendente, si troverà che l’io si pone come  libero. Si arriverà cosi — combinando, i due risultati , la  legge necessaria da una parte e la libertà illimitata dal-        1’ altra — all’ idea di una legge che l’io liberamente -im¬  pone a sè stesso : la legge ha per contenuto la libertà , e  la libertà è sottoposta alla legge. Legge e libertà, per tal  modo , si determinano reciprocamente : esse fanno insieme  una sola e medesima unità. Tra la libertà ( = attività in-  condizionata e illimitata) e l’autonomia ( = imposizione  spontanea di una legge a sè stesso) non c’ è incompatibi¬  lità; esse nascono entrambe da quello sdoppiamento che è  dovuto alla natura dell’ attività spirituale e che è a un  tempo posizione di sè e riliessione sopra di sè, oggetto e  soggetto. In altri termini, si ha qui l’intima fusione, nel-  1’ unità dell’ io, tra 1’ intelligenza, che concepisce la nostra  essenza come libertà, e la volontà, che è 1’ attuazione del-  1’autonomia, tra la libertà-concetto e la libertà-atto, e il  legame che unisce 1’ una all’ altra è di causalità non Inec-  canico-coercitiva ma psichico-imperativa, è di necessità  non teorica ma pratica, è il legame morale del dovere. La  libertà-idea non può non tradursi, dece tradursi in libertà-  realtà; il Dovere, obbligazione per eccellenza, sta nell’at¬  tuare l’essenza nostra, nel divenire, attraverso la coscienza,  quel ohe siamo in fondo al nostro essere assoluto anteriore  alla coscienza, nel renderci cioè liberi ; e in ciò precisa¬  mente consiste il principio supremo di tutta la moralità,  il quale per tal guisa risulta dedotto, come ci proponevamo,  dalla natura dell’ io.   Posto l’io, è in pari tempo posta anche la tendenza  all’assoluta auto-attività, alla libertà; ma la libertà non  acquista valore se non per un’ intelligenza che ne faccia  la legge determinante delle nostre azioni ; ne segue che  l’io deve sottoporsi con coscienza e quindi con libertà alla  legge della propria natura, che è la legge della libertà,    senz’altro fine che la libertà, stessa. La moralità, appunto  perchè esprime direttamente l’essenza dell’io, la sua pra¬  ticità assoluta e la sua autonomia, è una perpetua legisla¬  zione dell’io imposta a sè stesso, sotto un triplice rispetto :  a) rispetto all’adozione stessa della legge morale, ado¬  zione la quale non può essere che una libera sottomissione,  una spontanea adesione alla logge; h) rispetto all’applica¬  zione della legge a ciascun caso particolare, applicazione  nella quale il giudizio morale è sempre un atto di auto¬  nomia, un consenso di noi con noi stessi ; c) rispetto al  contenuto della legge, uel quale contenuto è evidente che  ogni determinazione della volontà da parte di una causa  estranea a sè stessa, che vai (pianto dire alla ragione, co¬  stituirebbe un’eteronomia affatto contraria alla legge mo¬  rale. Per tal modo si può concludere che la vita morale  tutta quanta non è altro che una ininterrotta auto-legisla¬  zione dell’io, una perenne autonomia dell’essere razionale;  e dove questa autolegislazione cessa, ivi comincia l’ immo¬  ralità (').   IH- - Alla deduzione del . principio della moralità  segue la deduzione della realtà e dell’ applicabilità del  principio stesso, senza di che quest’ ultimo rimarrebbe  un’ astrazione e la morale si ridurrebbe a un formalismo  vuoto e sterile. Invece la morale ha una realtà, la legge  morale ha efficacia nel mondo sensibile in cui viviamo ;  onde il principio della moralità è non solo vero , logica¬    ci Tbid. p. 5C ibid. p. 55). A chiarire ancor meglio la deduzione  della legge morale dall’Io, ricollegandola con i principi e le conse¬  guenze della Dottrina della Scienza giova il seguente schema fornito        — un —    mente possibile e giustificato dalla ragione, ma altresì  reale e applicabile : reale, perchè è un concetto che deve  attuarsi nel mondo sensibile (*) ; applicabile, perchè il mondo  sensibile è tale, per origine e natura, da prestarsi* come  strumento all’attuazione di quel principio.    dal Fischer ( Geschichte der neuem Philosophie, voi. VI, Fichte unti  seine Vorgànger, 4 a ediz. 1914, p. 458) e nel quale viene simboleggiato  lo sdoppiarsi dell’ Io nella coscienza teorica e il suo reintegrarsi nella  legge morale :    Io    Soggetto = Oggetto   Coscienza  (Divisione)    Soggetto .  Autoattività  Causalità del Concetto  Libertà    Oggetto  Materia  Causalità della Materia  Necessità    Libertà = Necessità  Legge della Libertà    Libertà sotto la Legge della Libertà  (Assoluta Autonomia)   Legge Morale   (‘) Come si vede, qui la realtà del principio morale non è la realtà  già attuata di ciò che esiste nel mondo meccanico dei fatti naturali  o nel mondo giuridico della convivenza sociale , ma la realtà di ciò  che deve esistere nel mondo morale della volontà; le prime due specie  di realtà sono sotto la categoria della necessità (leggi naturali) o della  coercizione (leggi sociali), l’ultima, invece, di cui ora si tratta, è  sotto la categoria della contingenza, della libertà (legge morale).    «                — LIV —   Infatti, il principio della moralità dianzi dedotto è a  un tempo un principio teorico, in quanto l’io si determina  da sè dinanzi a sè stesso come essere assolutamente indi-  pendente e libero — il che costituisce la materia della  legge morale —, e un principio pratico, in quanto l’io im¬  pone da sè a sè stesso 1’ attuazione della propria natura  — il che costituisce la forma (imperativa) della legge mo¬  rale —. Ogni singolo io è libero, ecco il principio teo¬  rico ; Ovatterai ogni singolo io come un essere libero,  ecco il principio pratico derivante, sotto forma di comando ,  da quel principio teorico. In sostanza la legge pratica della  libertà potrebbe formularsi così : “ Opera secondo la cono¬  scenza che hai della natura e del fine originario degli es¬  seri Giusta i principi della Dottrina della Scienza, le  cose che abbiamo posto fuori di noi non sono, in fondo,  che le nostre idee ; di qui l’armonia tra la determina¬  zione teorica degli oggetti e gl’ imperativi morali che da  questa determinazione teorica scaturiscono rispetto agli og¬  getti stessi. La spiegazione dell’ accordo dei fenomeni con  la nostra volontà sta nell’accordo della volontà con la na¬  tura, a cominciare dalla natura nostra : noi non possiamo  volere se non ciò a cui ci spinge 1’ impulso naturale ; questo  impulso non è la legge morale, ma^ legge morale non  può nulla comandare il cui oggetto non sia nella sfera di  questo impulso. L’essere ragionevole, il quale deve porre  sè stesso come assolutamente libero e indipendente, non può  far ciò senza in pari tempo determinare teoricamente il suo  mondo mediante la rappresentazione ; e la sua libertà, che  è un principio pratico, esige che questa determinazione teo¬  rica da parte del pensiero si mantenga e si completi me¬  diante l’azione da parte della volontà. L’azione della li-        LV    berta dell’ io sul mondo determinato come rappresenta¬  zione consiste nella modificazione di uno stato del mondo  stesso mercè il dominio di un concetto anteriormente posto ;  è la produzione di una realtà conformemente a un’idea data  come suo principio ; significa, per conseguenza, proprio l’in¬  verso della rappresentazione, la quale è la determinazione  di un concetto secondo una realtà anteriormente posta. E  come l’enigma della rappresentazione, ossia il rapporto tra  la cosa e l’idea, trovava la sua soluzione nell’identità ori¬  ginaria dei due termini, essendo la cosa un prodotto in¬  conscio dell’ io, similmente qui il l’apporto tra il concetto  e la realtà ha il suo fondamento nel fatto che la produ¬  zione di questa realtà non è la produzione di una cosa in  sè, di una realtà assoluta, che sarebbe in qualche modo  esteriore alla coscienza, ma è sempre uno stato di coscienza,  una determinazione dell’ io. E allora non è più questione  di sapere come sia possibile nel mondo una modificazione  da parte della libertà, poiché, essendo il mondo esso stesso  un prodotto della libertà , un limite che l’io pone a sè  stesso, è questione di sapere come sia possibile, mediante  la libertà, un cangiamento nell’io, un’estensione dei suoi  limiti ; e se si osserva che 1’ io, oggetto di questa modifi¬  cazione, è l’io limitato., ossia l’io empirico, e che la legge  della libertà, sotto la quale si operano nell’ io empirico  queste modificazioni, esprime l’io puro, l’io assoluto, è  evidente che il problema circa la realtà del principio mo¬  rale, circa l’attuazione della libertà , si riduce , in fondo ,  alla questione già esposta anteriormente circa i rapporti  tra l’io empirico, naturale, e l’io eterno, assoluto (*).    (‘) Sittenlehre, pp. 63-75 (nostra traduz. pp. 63-74). — Cfr. anche  prec. pp. XLI-XLII.      — I.VI —    Per dedurre ora la realtà e la conseguente applica¬  bilità del principio dell’ etica, bisogna dedurne la materia  e la sfera d’ azioue, bisogna stabilire, cioè, anzitutto l'og¬  getto della nòstra attività in generale ('), poi la causalità  reale dell’essere ragionevole (*). — Quanto al primo punto si  ha questo teorema: “ L’essere l'agionevole non può attri¬  buirsi nessun potere, senza pensare in pari tempo qualcosa  fuori di sè a cui quel potere sia diretto „ ; egli, infatti, non  può attribuirsi la libertà, senza pensare più azioni reali e  determinate come possibili per opera della libertà, e non può  pensare nessun’ azione come reale e determinata, senza sup¬  porre all’ esterno qualcosa su cui quest’ azione sia eser¬  citata ( 3 ). Esiste, dunque, fuori di noi e posta dal pensiero,  una materia a cui la nostra attività si riferisce e che può  essere modificata all’ infinito. — Quanto al secondo punto  si ha quest’altro teorema: u L’essere ragionevole non può  trovare in sè nessun’ applicazione della propria libertà, ossia  nessun volere reale, senza in pari tempo attribuire a sè stesso  una reale causalità o efficienza sul mondo esterno r , e non  può attribuirsi una siffatta causalità o.efficienza, senza deter¬  minarla in una certa maniera. Ora, l’attività pura non può  essere determinata in sè, altrimenti non sarebbe più pura ;  essa non può essere 'determinata se non da ciò che le si  oppone, ossia dai suoi limiti. Questi limiti non possono es¬  sere percepiti se non nell’esperienza sensibile e, inquanto  oggetto d’intuizione sensibile, consistono in una diversità  o varietà di materia. Onde l’io, il quale non sarebbe at-    (*) Ibid. pp. 75-88 (ibid. pp. 75-87).   (*j Ibid. pp. 89-101 (ibid. pp. 87-98).   ( 3 ) Ibid. pp. 75, 79 e 81 (ibid. pp. 75, 78 e 80).    «     LVII —    tivo se non si sentisse limitato, viene posto come un’ at¬  tività che preme, per allargarli, sopra i limiti entro cui lo  rinserra la diversa materia che gli resiste, il nou-io che  gli si oppone. L’essere ragionevole, dunque, esercita una  causalità reale nel mondo sensibile, e tale causajit.à con¬  siste non già nel creare o distruggere la materia su cui si  esercita — tale materia è condizione indispensabile per  l’attività dell’essere ragionevole —, ma nell’introdurvi ul¬  teriori determinazioni nuove ; u io ho causalità „ significa  sempre: u io allargo i miei confini „, che vai quanto dire:  “ io attuo progressivamente il concetto di libertà — se¬  condo che mi è imposto dalla legge morale —, pur non giun¬  gendo mai a un’ attuazione completa „. Di guisa che la no¬  stra esistenza, mentre uel mondo intelligibile è legge mo¬  rale, nel mondo sensibile è azione reale: il punto in cui  le due esistenze si riuniscono è la libertà intesa come facoltà  assoluta di determinare 1’ azione mediante la legge (*).   Risulta da quanto precede che il principio della mo¬  ralità, ossia la libertà, non può attuarsi se non opponendo  all’attività pura dell’ io una limitazione o un sistema di  limitazioni, e imponendo alla medesima attività un progres¬    si Ibid. pp. 91-92 (ibid. pp. 89-90). — Abbiamo qui una delle idee  fondamentali del sistema ficbtiauo, cioè: l’impossibilità per noi di  separare il sensibile dall’intelligibile, la negazione del dualismo, l’as¬  surdità di concepire nell’ àmbito della coscienza un carattere noume-  nico radicalmente distinto dal carattere fenomenico. Secondo il Fichte  — scrive il Léon (op. cit. p. 269) — il sensibile è la condizione per  l’intelligibile....; Benza il sensibile, il quale determinandolo lo attua,  il puro intelligibile rimarrebbe allo stato di potenza indeterminata e  vuota. Questa concezione segua la rovina del misticismo, che pretende  isolare lo spirito dal corpo e relegarlo in una sfera chimerica ; l'Io  iichtiano non è fatto di singoli pezzi separabili ad arbitrio ; esso forma  in tutti i suoi elementi una gerarchia, un vero organismo.          LVIII    sivo ampliameuto di questa limitazione o sistema di limi¬  tazioni. Il che si verifica anche quando si tratti non di un  fine ultimo, come la libertà assoluta, ma di fini intermedi.  Il più spesso’ci accade di non poter attuare immediata¬  mente un determinato fine scelto dalla nostra volontà, e  siamo costretti, per conseguirlo, a servirci di certi mezzi  già determinati in* antecedenza senza il nostro intervento :  non perveniamo al nostro fine se non attraverso una serie  di gradi interposti ; che equivale a dire : tra il sentimento  da cui sono partito con la volontà e il sentimento a cui  mi sforzo di giungere intercedono altri sentimenti, di cui  ognuno è l’esponente dei limiti che mi si oppongono, li¬  miti che con la mia causalità, con la mia azione, io fo in¬  dietreggiare ogni volta di più, estendendo cosi pi-ogressiva-  mente la mia attività reale. La mia causalità, dunque, ap¬  pare come un’azione continua e diversa, come una serie  ininterrotta di sforzi e di sentimenti svariati ; poiché essa è  assolutamente una e identica in quanto attività, ma pre¬  senta tuttavia infiniti aspetti multiformi a causa della  multiforme resistenza che incontra da parte degl’ infiniti  oggetti esterni; — esterni, s’intende, e posti indipendente¬  mente da noi, per chi non adotti o ignori il punto di vista  della filosofia trascendentale e rimanga al punto di vista  della coscienza comune —.   Intesa nel modo descritto, la causalità dell’ essere ra¬  gionevole contiene in sé la sintesi assoluta della cono¬  scenza e dell’ attività, determinantisi reciprocamente nella  concezione e nel perseguimento di un medesimo fine. L’es¬  sere ragionevole, infatti, non ha una conoscenza se non in se¬  guito a una limitazione della propria attività (tesi); ma d’altro  canto non ha attività se non in seguito a una conoscenza         LIX    (antitesi) ; conoscenza e attività sono poste come identiche  nella volontà (sintesi) ( l ). Come si ottiene questa sintesi?  Basta pensare all’ essenza originaria dell’ io oggettivamente  considerato : sappiamo che tale essenza è assoluta attività e  nuli’altro che attività; e poiché l’attività, oggettivamente  presa, è impulso, e nell’io nulla esiste o accade di cui egli  non abbia coscienza, cosi, posto nell’ io oggettivo un im¬  pulso, vien posto altresì iu esso un sentimento di questo  impulso. Il sentimento o coscienza primitiva dell’impulso  è, dunque, l’anello sintetico in cui con l’attività è posta la  conoscenza e con la conoscenza l’attività.   Soltanto è da aggiungere che, se dal punto di vista  pratico la conoscenza e l’attività sono inseparabili, la co¬  scienza che accompagna qui l’impulso non è affatto la co¬  scienza riflessa e iu nessun grado una riflessione libera ; in  essa non c’ è neppure quella specie di libertà che caratte¬  rizza la rappresentazione e che ci permette di non rappre¬  sentarci l’oggetto, di fare cioè astrazione da esso ; è una  coscienza tutta spontanea, che s’impone a noi con necessità, è  un sentimento di cui non siamo in nessun modo padroni.  Il sistema d’impalisi e di sentimenti di che s’intesse  1’ io empirico oggettivo deve quindi concepirsi come na¬  tura, come la nostra natura, come cioè qualcosa di dato,  di non prodotto da noi, d’ indipendente dalla libertà ,  ma su cui la libertà può esercitarsi, e si esercita, allorché  l’io-soggetto ne fa oggetto di riflessione e consente o no  a soddisfarlo ; e invero, tosto che riflettiamo sui nostri  impulsi originari, non siamo più dominati da essi ; sono  essi, invece, dominati da noi, perchè dipende da noi asse¬    di Ibid. pp. 102-105 (ibid. pp. 99-102).      condarli o no ; comincia allora il vero ufficio della nostra  libertà cosciente. Nasce così la differenza tra la facoltà  appetitiva inferiore del semplice impulso di natura e la  facoltà appetitiva superiore del medesimo impulso sottoposto  alla riflessione e alla libertà (*).   Giova chiarire meglio la facoltà appetitiva inferiore,  prima di passare alla superiore. Abbiamo detto che essa  costituisce ciò che in noi si chiama natura; ma bisogna  distinguere la natura nostra dalla natura delle cose in cui  regna il puro meccanismo. Nel mondo meccanico non c’è  attività propriamente detta, c’ è soltanto una trasmissione  di urti attraverso tutta la serie di cause ed effetti, senza  che nessun anello produca o modifichi la forza trasmessa.  Nella natura nostra, al contrario, c’è una vera spontaneità,  la quale non è ancora la libera causalità del pensiero, del  concetto, perchè è una necessaria determinazione dell’esi¬  stenza reale per opera di questa esistenza stessa, ma sta  tuttavia al disopra del puro meccanismo, perchè consiste in  una determinazione proveniente da una serie di cause ed  effetti disposta non più secondo un ordine lineare di suc¬  cessione, sì bene secondo un ordine ricorrente di recipro-  canza ; quivi, infatti, le singole parti sono a un tempo ef¬  fetti e cause del tutto, onde si ha quel che si dice un or-    ( l ) Ibid. pp. 105-109 (ibid. pp. 102-106). — Per essere più chiari :  l’impulso e il sentimento che l’accompagna mancano di libertà; la  volontà e la riflessione che ne è condizione hanno per essenza la li¬  bertà; a parte, però, questa differenza di capitale importanza ma sol¬  tanto formale, l’impulso e il sentimento, per quanto riguarda il loro  contenuto materiale, sono identici alla volontà e alla riflessione; l’og¬  getto a cui tendono necessariamente i primi diventa l’oggetto libe¬  ramente accettato o ripudiato dalle seconde.      LXI —    gallismo, ossia una costituzione, la quale, lungi dal dipen¬  dere da un’azione esterna, Ira in sè stessa il principio della  propria determinazione, è dotata insomma di spontaneità,.  La reciprocanza di azione tra le parti di un tutto orga¬  nico in natura si spiega così: a ciascuna di esse le altre  non lasciano che una certa quantità di realtà, onde cia¬  scuna parte per la rimanente realtà che le manca non  ha che una tendenza (o impulso) risultante dallo stato de¬  terminato delle altre parti : ciascuna tende a formare il  tutto, a integrarsi con la realtà delle altre ; e cosi in  un’ unità organica la realtà è in proporzione inversa  della tendenza (o impulso) derivante dalla mancanza di  realtà; realtà e tendenzfP (o impulso) si completano a  vicenda ; ciascuna parte tende a soddisfare il bisogno di  tutte, e tutte a loro volta tendono a soddisfare il bisogno  di ciascuna ; ogni singola parte tende a combinare la pro¬  pria essenza e la propria azione con l’essenza e l’azione  delle rimanenti, e questa tendenza giustamente si dice im¬  pilino plastico (Bildungstrieb), cosi nel senso attivo come nel  senso passivo della parola, perchè è la facoltà a un tempo  così d’imprimere come di ricevere forme. Questa facoltà  organizzatrice è universale, essenziale, inerente a tutte  le parti e a tutti gli elementi, onde ciò che si chiama un  tutto naturale, ossia un tutto chiuso, può altresì chiamarsi  un prodotto organico della natura, a costituire il quale certi  elementi della natura, in virtù della causalità di cui questa  è dotata, hanno riunito il loro essere e il loro operare in  un solo e medesimo essere, in un solo e medesimo ope¬  rare ('). (*)    (*) Ibid. pp. 109-122 (ibid. pp. 106-118j.           LXI1    Ciò posto, ecco quanto accade in quel tutto organico  della natura che è 1’ io individuale, empirico, a partire dai  più bassi impulsi sino alle più alte tendenze.   Iu ciascun io individuale, appunto perchè esso è un  tutto organico della natura, l’essenza delle parti consiste  in una tendenza a conservare unite a sè altre determinate  parti, e siffatta tendenza, se attribuita al tutto, dicesi im¬  pulso all' autoconservazione ; alla conservazione, s’intende,  non dell’esistenza in generale, che è un’astrazione, ma di  un’esistenza determinata. L’impulso all’autoconservazione,  che è poi la tendenza a perseverare nel proprio essere,  porta 1’ essere organico a inferire a sè certi oggetti della  natura; di qui l’appetito o la brama verso questi oggetti,  appetito o brama dapprima vaghi e indeterminati, quasi  come il primo grido inarticolato dell’orgauismo ancora in¬  fante, poi sempre più determinati e differenziati, come il  linguaggio articolato dell’orgauismo adulto. E — si noti  bene — non già la diversità degli oggetti determina lo  specificarsi dei vari appetiti e desideri ; al contrario, i di¬  versi modi del desiderio, mediante le proprie determina¬  zioni, si creano i propri oggetti. La coscienza o l’intelli¬  genza* che ci rappresenta gli oggetti non è che il riflesso  dei nostri istinti,, inclinazioni, tendenze, della nostra vita  pratica in generale; non, dunque, gli oggetti suscitano, quasi  loro fine, gli appetiti, ma gli appetiti hanno il proprio  fine in sè stessi, nella propria soddisfazione, e noi non per¬  seguiamo, attraverso gli oggetti, altro che i nostri desideri  esteriorizzati nelle cose (‘). Ma se è così, se ciò che ci sfor¬  ziamo d’ottenere è non l’oggetto — il quale si riduce a    (‘) Ibid. p. 124 (ibid. p. 120).          LXIII    im simbolo —, sì bene la soddisfazione della nostra _ten- •  denza, della nostra brama, in altri termini, il nostro godi¬  mento, il nostro piacere, si comprende come, tanto dal punto  di vista della pura natura irriflessa, quanto da quell» della  riflessione sulla natura, sia il piacere il fine supremo della  nostra condotta ; di guisa che, nel primo passaggio imme¬  diato dallo stato di pura natura allo stato di coscienza ri¬  flessa, la nostra azione cangia di forma — da necessaria e  istintiva diventa libera e riflessa, e tale cangiamento ne  modifica radicalmente il carattere — , ma il suo contenuto  rimane ancora il medesimo, è ancora il piacere: al punto da far sembrare che l’uomo con la riflessione non si elevi al di  sopra della natura, se non per sottoporlesi meglio e perse¬  guire con pili luce e sicurezza il fine edonistico. Ora, finché è  spinto al piacere e dipende dagli oggetti dei suoi appetiti,   ]' uomo rimane confinato nell’ esercizio della facoltà appeti¬  ti va inferiore. Ma l’attività ragionevole in lui tende con co- 1  scienza e riflessione a determinarsi assolutamente da sé, a  rendersi indipendente da ogni oggetto che non sia essa stessa,  quindi anche e soprattutto dal piacere; e allora la nostra  azione si differenzia da quella compiuta allo stato di pura  natura, oltreché per la forma, anche per il contenuto, es¬  sendo questo costituito non pili dal piacere — comunque  ricercato, per istinto cieco e necessario, ovvero per volontà ,  cosciente e libera — , ma dalla libertà stessa, che è l’es  senza nostra e il nostro vero fine supremo. L’ uomo si eleva  cosi all’esercizio della facoltà appetitiva superiore, di quella  che appartiene non a lui prodotto di natura, ma a lui spi¬  rito puro (*).    (*) Ibid. pp. 122-131 (ibid. pp. 118-127).     LXIV —    Ciò non ostante, le due facoltà appetitive, l’inferiore e la  superiore, costituiscono un solo e medesimo impulso origi¬  nario dell’io, dell’io veduto da due lati diversi : nella facoltà  appetitiva inferiore, ossia nell’ impulso naturale, mi conce¬  pisco come oggetto, uella facoltà appetitiva superiore, ossia  nell’impulso spirituale, mi concepisco come soggetto, mentre  tutta la mia essenza si ritrova nell’ identità del soggetto  e dell’oggetto, ò soggetto-oggetto. Dall’azione reciproca  dei due impulsi nascono tutti i fenomeni dell’ io ; ma en¬  trambi si fondono in un unico e medesimo io , onde deb¬  bono essere conciliati, unificati ; ed ecco in qual modo :  l’impulso superiore rinunzia alla purezza della propria at¬  tività — purezza che consiste nel non essere determinato  da un oggetto —, lasciandosi determinare da un oggetto,  e l’impulso inferiore rinunzia al piacere in quanto fine, al  piacere per il piacere ; si ha così per risultato della loro  unione un’ attività oggettiva, il cui oggetto e fine ultimo  è un’ assolute libertà, un’assoluta indipendenza da ogni na¬  tura;'un fine, questo, proiettato all’infinito e perciò irrag¬  giungibile — raggiungerlo sarebbe porre termine in pari  tempo all’attività e alla natura che dell’attività è il limite  correlativo, la condizione indispensabile —; un fine , tut¬  tavia , a cui è possibile avvicinarsi sempre più, facendo  uso della libertà e della facoltà appetitiva superiore (').    (*) Ibid. p. 131 (ibid. p. 127). — Non si obietti qui — dice il Fichte  ( Sittenlehre, p. 150, nostra traduz. pp. 145-146) — che un’approssima¬  zione all’infinito è contraddittoria, in quantoche un infinito a cui po¬  tessimo avvicinarci cesserebbe d’essere un infinito e diverrebbe in  certo qual modo suscettivo di misura. L’infinito non è una cosa, un  oggetto posto come dato e verso il quale si avanzerebbe come verso  un termine fissato in precedenza, ma è igu ideale, ossia appunto ciò  che si oppone alla realtà del dato, ciò che nessun dato può esaurire ;     LXV — '    Infatti, grazie alla sintesi dianzi descritta, l’io svelle  sè stesso da tutto ciò che sembra trovarsi fuori di lui,  entra in possesso di sè e si pone dinanzi a sè come asso¬  lutamente indipendente, essendo l’io riflettente indipen¬  dente per sè stesso, l’io riflettuto tutfc’ uno con l’io riflet¬  tente, ed entrambi uniti in una sola inseparabile persona,  alla quale il riflettuto dà la forza reale e il riflettente la co¬  scienza. La persona così costituita non può più agire ormai  se non secondo e mediante concetti, e poiché tutto ciò che  ha la propria ragion d’ essere in un concetto è un prodotto  della libertà , cosi d’ ora innanzi l’io non agirà più se non  liberamente, anche quando non faccia che assecondare l’im¬  pulso di natura , perchè anche in tal caso egli non opera  meccanicamente ma con coscienza, e in lui non più il  cieco impulso naturale , si bene la coscienza da lui acqui¬  stata di questo impulso naturale è il primo fondamento del  suo operare, il quale perciò è libero — come poco fa no¬  tammo — se non nel contenuto, almeno nella forma (‘).   Ma che significa essere libero e agire liberamente?  Prima di giungere alla riflessione l’io è di natura sua    e questo ideale clie portiamo in noi stessi indietreggia dinanzi a noi  man mano che ci eleviamo verso di esso. Noi possiamo bene allar¬  gare i nostri limiti, inalzarci sempre più verso la libertà, ma non pos¬  siamo mai sopprimere totalmente questi limiti, attuare cioè la li¬  bertà; a qualunque grado di liberazione noi si giunga, la libertà as¬  soluta rimane sempre un ideale. Insomma, .con l’idea di un progress o  infinito il Fichte risolve la contraddizione tra la libertà e la natura : la  natura deve tendere alla libertà come a un fine infinito, e se l’infi¬  nito potesse essere attuato, la natura s’identificherebbe con la li¬  bertà ; la realtà di questo progresso non è nel conseguimento — im¬  possibile — di un fine fissato a un dato punto, ma nel valore sempre  più alto della nostra azione. (Cfr. Léon, op. cit. p. 276).   (*) Ibid. pp. 133-136 (ibid. pp. 129-132).        LXVI    libero, ma per un’ intelligenza fuori di lui, non già per sè  stesso ; per essere libero anche agli occhi propri egli deve  porsi come tale , e come tale non si pone se non allorché  diventa cosciente del suo passaggio dallo stato indetermi¬  nato a uno stato determinato. L’ io determinante e l’io  determinato scftio un solo e medesimo io, prodotto dalla sin¬  tesi del inflettente e del riflettuto , dell’ io-soggetto e del-  1’ io-oggetto. Per siffatta sintesi la concezione di un fine di¬  venta immediatamente azione e l’azione diventa conoscenza  della libertà. Senonchè l’indeterminatezza non è soltanto  uon-determinatezza (ossia zei'o), sì bene un deciso librarsi  tra più possibili determinazioni (ossia una grandezza ne¬  gativa) ; altrimenti essa non potrebbe essere posta e sa¬  rebbe un nulla. Ora, finché non intervenga la facoltà appeti¬  tiva superiore, non si vede in che modo la libertà possa  scegliere tra più determinazioni possibili; perchè: o si  trova in presenza del solo impulso naturale, e allora non  ha nessuna ragione per non seguirlo, anzi ha ogni ragione  per seguirlo; ovvero si trova in presenza di più impulsi  — la quale ipotesi non si comprende nel caso di cui ora  si tratta — e allora seguirà naturalmente il più forte ; nel-  l’una e nell’altra ipotesi, dunque, nessuna possibilità d’in¬  determinatezza. Siccome però l’essere ragionevole non può  esistere senza quella tra le condizioni della sua ragione¬  volezza che si chiama sentimento morale e consapevolezza  della libertà, bisogna bene ammettere, nell’ impulso origi¬  nario delirio, un impulso ad acquistare la coscienza e della  moralità e della libertà. Ma tale coscienza, si è visto, ha per  condizione uno stato indeterminato, e non si produce se l’io  obbedisce unicamente all'impulso naturale ; occorre, dunque,  che vi sia nell’io un impulso o tendenza a trarre dal proprio      Lxvn    seno, e non già dall’impulso naturale, il contenuto o l’oggetto  dell’azione; occorre, in altri termini, che vi sia una ten¬  denza alla libertà per sè stessa-, e che alla libertà formale  — quella per cui lo stesso risultato, che la natura avrebbe  prodotto se avesse potuto ancora agire, nasce invece da un  nuovo principio, da una nuova forza, ossia dalla coscienza  libera — si aggiunga la libertà materiale — quella per  cui si ha non solo un nuovo principio operante, ma altresì  una serie di effetti tutta nuova anche nel contenuto, onde  non solo è l’intelligenza la forza che opera, ma essa in¬  telligenza opera qualcosa di ben diverso da ciò che avrebbe  operato la natura — (‘).   In virtù della libertà materiale io mi sento emancipato  dall’ impulso di natura, gli oppongo resistenza, e tale resi¬  stenza, considerata come essenziale all’ io, quindi come im¬  manente, è essa stessa un impulso, l ’impulso pwro*dell’ io.  L’impulso naturale si manifesta come iuclinazione e, per  il fatto che io posso dominare la sua forza e sottoporla alla  mia libertà, questa forza diventa qualcosa di cui non fo  stima. L’impulso puro, invece, in quanto mi eleva sopra  la natura e mi pone in grado di contrappormele con la  più semplice risoluzione, si manifesta come tale da ispi¬  rarmi stima e da investirmi di una dignità, la quale, es¬  sendo al disopra di ogni natura, m’ impone rispetto verso  me stesso; l’impulso puro, anziché al piacere, porta al di¬  sprezzo del piacere ed esige l’affermazione e la conserva¬  zione della mia assoluta indipendenza e libertà (*).    (*) Ibid. pp. 136-139 (ibid. pp. 132-185).  (*) Ibid. pp. 139-142 (ibid. pp. 135-138).        LXVI1I    L’adempimento di questa esigenza e il suo contrario  significano rispettivamente l’accordo e il disaccordo tra l’i-  deale tendenza essenziale dell’ io puro all’assoluta libertà e  il reale stato accidentale dell’io empirico ; suscitano, quindi,  il mio interesse — m’interessa, infatti, ossia tocca diretta-  mente il mio sentimento, tutto ciò che lia immediata rela¬  zione col mio impulso fondamentale (‘) —, si accompagnano,  dunque, a piacere o dolore ; ma — e questo è di capitale  importanza — si tratta qui di stati affettivi che non hanno  nulla a fare con l’affettività comune, perchè consistono  in una contentezza e in un disgusto di sè la cui natura  non si confonde mai con quella del piacere o del dolore dei  sensi. Il piacere sensibile che nasce dall’ accordo tra l’im¬  pulso naturale e la realtà non dipende da me in quanto  sono un io, ossia in quanto sono libero ; esso è tale da  strappare me a me, da rendermi estraneo a me stesso e da  farmi dimenticare in esso ; è, in una parola, involontario ,  e questa qualità lo caratterizza nel modo più esatto. Al¬  trettanto vale del suo opposto, ossia del dolore sensibile.  Il piacere morale, al contrario, che nasce dall’accordo tra  l’impulso puro e la realtà, è qualcosa non di estraneo ma  di dipendente dalla mia libertà, qualcosa che potrei aspet¬  tarmi in conformità d’una regola, come non potrei aspet¬  tarmi, invece, il piacere involontario ; esso, quindi, non mi  trasporta fuori di me, anzi mi fa rientrare in me stesso e,  meno tumultuario, ma più intimo del piacere sensibile, m’in-    (‘) Intorno al concetto dell’ interesse il Fichte fa una specie di  digressione ( Sittenlehre, pp. 142-147, nostra traduz. pp. 138-142) per¬  meglio illuminare la sua trattazione sul sentimento morale e sulla  coscienza morale.         — LXIX -r    fonde, in quanto soddisfazione e auto-stima, nuovo coraggio'  e nuova forza. Similmente il suo opposto, ossia il dolore  morale, appunto perchè dipende dalla libertà, è un rimpro¬  vero interno, si associa a un sentimento di auto-disistima  e sarebbe insopportabile se il sentirci ancora capaci di pro¬  varlo non ci risollevasse dinanzi a noi stessi, e non ravvi¬  vasse la coscienza della nostra natura superiore e della no¬  stra assoluta libertà, insomma la coscienza morale fdas  Oetoissen), vale a dire : la consapevolezza immediata dell’a¬  dempimento del dovere, dell’accordo cioè tra l’azione (nel  mondo della natura) e il fine ideale (la libertà) (‘). '   Ora, la coscienza morale si connette strettamente con  l’impulso morale, il quale è di natura mista, perchè parte¬  cipa a un tempo dell’impulso puro e dell’impulso naturale.  Come ?   Ogni volizione reale tende all’azione e ogni azione si  porta sopra un oggetto : ogni volizione reale, quindi, è em¬  pirica. E poiché non posso agire sugli oggetti se non me¬  diante una forza fisica, la quale non proviene che dal-  I’ impulso naturale, cosi ogni fine concepito dall’intelligenza  finisce per coincidere con 1^ soddisfazione di un impulso  naturale. Certo, chi vuole è l'io -intelligenza non già la na-  /M/'fl-iucoscieuza ; ma, quanto al contenuto, il mio volere  non può avere materia diversa da quella che la natura  vorrebbe anch’essa, se di volere fosse capace : non c’ è li¬  bertà circa la materia delle azioni. E allora quale causalità  rimane all’impulso puro, che pur non può esserne destituito?  Affinchè rimanga una causalità all’ impulso puro, bisogna  che la materia dell’azione sia conforme a esso non meno    *    (') Siltenlekre, p. 146 (nostra trai! uz. p. 142).           che all’ impulso naturale. Tale duplice conformità si com¬  prende soltanto così : 1’ impulso puro nell'operare tende alla  piena emancipazione dalla natura ; ma i limiti che l’attività  dell' io impone a sè stessa costringono l’operare entro i con¬  fini dell’ impulso naturale ; onde l’azione conforme a questo  secondo impulso diventa conforme anche al primo quando  al pari di esso tenda alla piena emancipazione dalla natura,  si trovi cioè in una serie di sforzi, continuando la quale  all’infinito, l’io si approssima sempre più all’indipendenza  assoluta. Deve esservi una serie di tal genere, che muova  dal punto in cui la persona si trova posta per la propria  natura e si prolunghi all’ infinito verso il .fine supremo e  ideale — si badi bene a questo appellativo che esclude  ogni possibilità, di attuazione completa — di ogni attività,  altrimenti uon sarebbe possibile una causalità dell’ impulso  puro : questa serie si può chiamare la destinazione morale  dell’ essere ragionevole finito, e seguendola possiamo sapere  in ogni momento quale è il nostro dovere. Il principio della  morale può, dunque, formularsi cosi : Adempì in ogni mo¬  mento la tua destinazione. Quel che in ogni momento è con¬  forme alla nostra destinazione morale, ossia al fine a cui si  dirige l’impulso puro, è in pari tempo conforme all’impulso  naturale, ma uon tutto quel che è conforme all’impulso natu¬  rale è conforme alla nostra destinazione morale. Appunto  perciò l’impulso morale è misto: esso riceve dall’impulso na¬  turale la materia dell’operare, dall’impulso pui'O la forma;  per esso io debbo agire con la coscienza di adempiere un do¬  vere ; gl’ impulsi ciechi della natura, come la simpatia, la  compassione, la benevolenza spontanea, in quanto tali non  hanno nulla di morale, perchè contraddice alla moralità il  lasciarsi spingere ciecamente. L’impulso morale differisce    — 1.XX1    profondamente dal cieco impulso naturale, e molto ai av¬  vicina all’ impulso puro, perchè la sua causalità è ambigua  (può avere effetto e può anche non averne), perchè esso co¬  manda: sii libero (cioè: sii in grado di fare e di a'stenerti  dal fare). E in questo comando appare per la prima volta  un imperativo categorico, un imperativo che è un prodotto  nostro proprio (nostro in quanto siamo intelligenze capaci  di agire per concetti), e il cui oggetto è il fine non subor¬  dinato a nessun altro fine. L’impulso morale, infatti, non  ha per fine nessun godimento ; esso esige u la libertà per  la libertà „.   È poi evidente in questa formula imperativa il duplice  significato della parola “ libertà „, la quale sta a designare  nel primo posto un operare in quanto tale, ossia un pu¬  ramente soggettivo, e nel secondo posto uno stato oggettivo  che dev’essere conseguito, ossia 1’ ultimo fine assoluto , la  piena nostra indipendenza da tutto ciò che è fuori di noi.  In altri termini : io debbo agire con libertà per divenire  libero; e soltanto determinandomi da me stesso e non se¬  guendo altro che le ispirazioni del sentimento del dovere  agisco con libertà e divengo veramente indipendente dalla  natura, veramente libero. A questa distinzione tra la li¬  bertà come attività e la libertà come risultalo , che è di  così grande importanza nel nostro sistema, se ne aggiunge  un’ altra entro il concetto stesso di libertà intesa come at¬  tività : la distinzione, cioè, tra la forma e la materia del-  1’ attività libera ; distinzione da cui nasce la divisione della  dottrina morale e con cui si passa all’ applicazione siste¬  matica del principio della moralità ; di che si tratta nel  terzo libro (').    (*) Ibid. pp. 142-156 (ibid. pp. 188-152).         — l.XXI! —   IV. - Quest’ultimo libro si divide in tre parti: A) la  prima discorre delle condizioni formali della moralità  delle nostre azioni : B) la seconda del contenuto materiate  della legge morale; C) la terza, infine, espone la dottrina  dei doveri propriamente delta.   A) Condizioni formali della moralità delle nostre  azioni. — Il principio formale di ogni moralità può enun¬  ciarsi così : “ opera sempre secondo la convinzione che  hai intorno al tuo dovere „. Questo imperativo o legge  — che presuppone naturalmente e logicamente una libera  volontà (') — si scinde in due precetti, di cui 1’ uno con¬  cerne la forma o la condizione : u procurati la convinzione  di ciò che è tuo dovere „ , 1’ altro la materia o il condi¬  zionato : “ fai ciò che ritieni con convinzione tuo dovere  9 failo soltanto perchè lo ritieni tale Ora, la convinzione  nasce dall’ accordo di un atto della facoltà giudicatrice con  t’ impulso morale, e il criterio della giustezza della nostra  convinzione è un sentimento intimo al di là del quale non  si può risalire, perchè con esso si raggiunge 1’ espressione  diretta della nostra essenza assoluta e della nostra finalità.  Per conseguenza, la coscienza morale, che in quel senti¬  mento ha radice, va immune per natura sua da dubbio e  da errore, non può ingannarsi, nè è suscettiva di rettifiche  da parte di un’ inconcepibile coscienti più interiore, è essa  stessa giudice di ogni convinzione e le sue sentenze non  ammettono appello. Voler oltrepassare la propria coscienza  morale per timore che possa essere erronea, sarebbe come  voler uscire fuori di sè, voler separarsi da sè stesso. È  condizione formale della moralità , quindi, non decidersi   (*) Della volontà iu particolare e della sua natura cosi opposta al  juro meccanismo, il Pielite tratta nel § 14 della Sitlenlehre, pp. 157-103  (nostra traduz. pp. 155-160).      V    — LXX1II —   all’azione se non per soddisfare alla propria coscienza mo¬  rale, all’impulso originario dell’io puro, senza sottostare  ad altra autorità che non sia quella della propria convin-  zione, del proprio giudizio. Chi, dunque, agisce senza con¬  sultare la sua coscienza, senza essersi prima assicurato  j delle decisioni di questa, agisce, come suol dirsi, senza co¬   scienza, e perciò immoralmente, è colpevole e non può im¬  putare la sua colpa ad altri che a sè stesso (*). Similmente  opera senza coscienza, e perciò senza moralità, chi si lascia  guidare dall’autorità altrui, perchè la convinzione della co¬  scienza morale e la certezza della sua giustezza non na¬  scono mai da giudizi estranei, ma traggono origine esclu¬  sivamente dal soggetto : sarebbe una flagrante contraddi¬  zione far-e di qualche cosa che non sono io stesso un sen-  • timento di me stesso. In conclusione: in tutta la nostra  condotta (si tratti della ricerca scientifica, ovvero della  vita pratica) 1’ azione , per essere morale, deve uscire da  un’ intima convinzione, perchè soltanto allora essa esprime  veramente la nostra autonomia spirituale ; ogni azione fatta  per autorità (si tratti dell’ accettazione di una verità che  non risponde in noi a una convinzione, ovvero del compi¬  mento di un’ azione che accettiamo come un ordine) va  direttamente contro il verdetto della coscienza, è male, è  I colpa (*).    (') Giova ricordare che per il Fichte non vi sono azioni indiffe¬  renti; tutte debbono essere riferite alla legge morale, uon foss’altro  per assicurarsi che sono lecite; onde anche le azioni più indifferenti  iu apparenza, vanno sottoposte a matura riflessione, sempre iu vista  della legge morale.   ,(*) Siltenlehre, pp. 1 B8-175 (nostra tradnz. pp. KìO-172). — Risulta  qui ancora una volta definitivamente stabilito il primato della ragione  pratica sulla ragione teorica; di quella ragione pratica che agli occhi      — LXX1V —    « >   E facile argomentare da ciò quale sia la causa del  male o della colpa nell’essere ragionevole finito. Quel che  in generale costituisce l’essere ragionevole trovasi neces¬  sariamente ih ciascun individuo ragionevole, altrimenti  questi non sarebbe più tale. Ora, secondo la legge morale,  P io individuale, finito, empirico, che vive nel tempo, deve  tendere a divenire un’esatta copia dell’Io primitivo, ori¬  ginario, infinito, extra-temporale; ma, sottoposto com’è alla  condizione del t^mpo, non può acquistare la chiara co¬  scienza di tutto ciò che primitivamente e originariamente  fa l’essenza dell’Io, se non mediante un lavoro successivo  e una progressione nel tempo. Finché questo lavoro più o  meno faticoso e questa progressione più o meno lenta non  abbiano compiuto nell’ io empirico individuale il passaggio  dallo stato d’ irriflessione al massimo sviluppo della co¬  scienza morale, c’ è sempre luogo nella nostra condotta al-  l’immoralità, alla colpa, al male. Conviene, dunque, seguire  questa storia dello sviluppo della coscienza emjnrica, per  vedere attraverso quali fasi germogli e maturi il seme della  moralità, notando a tal proposito ohe tutto sembrerà suc¬  cedere come casualmente, perchè tutto dipende dalla libertà,  e in nessun modo da una meccanica legge di natura (').   Anzitutto, e al suo grado pivi dàsso, l’io empirico si  riduce a un’attività istintiva ; l’istinto, senza dubbio, si ac¬  compagna con la coscienza, dista però ancor molto dalla    del Fichte è veramente la ragione, e nella quale si attua l’accordo  dell’essere e dell’agire, dell’oggetto e del soggetto, della produzione e  della riflessione, e che ci fornisce l’intuizione, la coscienza immediata  dell’ Io assoluto. E risulta anche come la morale del Fichte fluisca  per essere in sostanza una morale del sentimento.   (<) Jhid. pp. 177-178 (ibid. pp. 171-175).      riflessione; l’uomo allora segue meramente e semplicemente  M’ impulso naturale e, così facendo, è libero per un’ intelli¬  genza fuori di lui, ma per sè stesso è puro animale.   I Tuttavia l’uomo può riflettere su questo stato; e tale  riflessione è per natura sua un atto di libertà : essa non è  nè fisicamente nè logicamente necessaria, ma soltanto mo¬  ralmente obbligatoria: chi vuole adempiere la propria de¬  stinazione e acquistare in sè la coscienza dell’ Io puro,  deve riflettere su questo suo stato, e mercè tale riflessione  si eleva, quasi, sopra sè stesso, si stacca dalla natura, se  ne distingue e le si oppone come intelligenza libera ; ac¬  quista cosi il potere di differire ‘la propria autodetermi¬  nazione e di scegliere quindi tra più modi — la pluralità  dei modi nasce appunto dalla riflessione e dal differimento  della risoluzione — di soddisfare l’impulso naturale. Tale  scelta si compie secondo una massima liberamente adottata  dall’ io individuale, e perciò profondamente diversa dal prin¬  cipio supremo che scaturisce dalla legge morale e che non  è, come la massima, un libero prodotto della coscienza em¬  pirica ; per conseguenza, nel caso di una massima cattiva,  la colpa spetta tutta all’ io individuale. Ora, in questa se¬  conda fase di sviluppo, dovuta al primo grado della rifles¬  sione, l’io acquista coscienza del fine a cui tende 1’ im¬  pulso naturale, lo fa suo e adotta come regola di .condotta  la massima della felicità. L’uomo rimane dunque ancora  un animale, ma diventa un animale intelligente, prudente:  è già formalmente libero; soltanto mette la sua libertà al  servigio dell’ impulso naturale. La massima della felicità,  per quanto sia un prodotto della sua libertà, non può es¬  sere diversa da quella che è, e, una volta posta, egli le ob¬  bedisce necessariamente. Senonchè la massima stessa, e con    I.XXVT —    essa il carattere ohe ne risulta, non ha nulla di neces-,  sario e non è detto che l’io individuale debba arrestarvi»]/  se vi si arresta è soltanto sua colpa; nulla lo costringe L  progredire, è vero, ma egli deve e può progredire, facenti  uso della propria libertà ed elevandosi liberamente a qn  piu alto grado di riflessione. Il male morale non deriva ile  non dal fatto che l’uomo il più delle volte non esercita la  propria libertà, onde a ragione il Kant riteneva il male  radicale innato nell’uomo e nondimeno prodotto dalla sua  libertà.   Quando però — con nuovo miracolo della sua sponta¬  neità — 1’ uomo, nella fase ora descritta, esercita la pro¬  pria libertà, una seoonda riflessione si compie, che, al pari  della precedente, ha carattere non di necessità fisica o lo¬  gica, ma di obbligatorietà morale, e in virtù di essa nasce  una terza fase, nella quale l’io individuale prende coscienza  della sua opposizione rispetto alla natura e della sponta¬  neità del proprio operare, ed erige questa spontaneità  stessa, ossia la propria volontà, a nuova massima di con¬  dotta. Non piu la ricerca della felicità guida ora le sue  azioni, ma il godimento di un’ indipendenza dal nou-io  la quale non ammette freno al proprio capriccio e fa di sè  stessa il proprio idolo. Si ha, quindi, un progresso verso  la libertà assoluta, ma non ancora la vera libertà morale,  non ancora la volontà riflessa sottoposta alla legge del do¬  vere. Anzi, mentre la massima della felicità è, si, man¬  canza di legge, ma non addirittura rovesciamento della  l e gg®> n ® ostilità contro questa, lt^ massima della volontà  egoistica e arbitraria, invece, può portare sino alla trasgres¬  sione intenzionale della legge. Il carattere della condotta  ispirata a tale massima è soltanto la soddisfazione dell’amor        L.XXVII    proprio, dell’ orgoglio, del bisogno di dominare, ottenuta a  qualsiasi costo, anche di dolori corporei ; e appunto questa  idolatria della volontà egoistica spiega pressoché tutta la  storia umana : essa riempie grandissima parte del teatro  del inondo con le sue lotte e le sue guerre, con, le sue  vittorie e le sue sconfitte. u II soggiogamento dei corpi e  delle anime dei popoli, le guerre di conquista e di reli¬  gione, e tutti i misfatti cou cui l’umanità si è disono¬  rata non si spiegano altrimenti. Che cosa indusse l'inva¬  sore, l - oppressore a perseguire il proprio fine con pericolo  e fatica ? Sperava egli forse che per tal modo si ac¬  crescerebbero le fonti dei suoi godimenti sensitivi? No  davvero. 1 Ciò ohe io voglio deve accadere, a quel che  io dico si deve stare ’ : ecco 1’ unico principio che lo mo¬  veva „ (‘). Un siffatto culto della volontà egoistica certa¬  mente non è senza una certa aureola di grandezza, poiché  giunge anche al disinteresse: non al disinteresse che deriva  dall' obbedienza al dovere e che solo ha significato morale,  ma a un disinteresse di carattere impulsivo, derivante dal  desiderio di suscitare ammirazione, di cattivarsi stima, e che  rimane tuttora una forma di amor proprio e di orgoglio.  E un culto che porta sino al sacrifizio della vita — e ci  vuole del coraggio a vincere in noi la natura — , ma questo  sacrifizio è senza valore etico, perché è fatto soltanto al  proprio io individuale, è puro egoismo. «Certo, rispetto  alla fase precedente, la quale non mirava che alla felicità  sensibile, la fase ora descritta segna un progresso e sta  come a rappresentare 1’ età eroica dello sviluppo morale ;  ma dal punto di vista della moralità nulla di più perico¬    li Ibid. p. 190 (ibid. p. 186).         ì.xxvm    luso che arrestarvisi, perchè essa ci abitua a considerare  come nobili e meritori, come rari e ammirevoli, come  opera mpererogativa, atti che sono semplicemente dove¬  rosi, e a considerare d’ altra parto tutto ciò che a vantaggio  nostro si fa da Dio, dalla natura, dagli altri uomini, come  nulla più che doveri verso di noi. Con siffatte pretensioni  la massima della volontà egoistica e senza, freno, adottata  in questa fase, è peggiore di ogni altra, perchè finisce ad¬  dirittura col corrompere le stesse radici della moralità :  “ >1 pubblicano peccatore non vale più del fariseo sedicente  giusto, in quanto che nessuno dei due ha il menomo va¬  lore ; ma il secondo è assai più difficile a convertire del  primo „ (*).   Per elevarsi al disopra di questa terza fase basta che  l’uomo — con un terzo atto di riflessione, al pari dei  precedenti spontaneo ma inesplicabile, non necessario ma  obbligatorio — acquisti coscienza chiara di quell’ originario  impulso all’ indipendenza assoluta che, considerato (analo¬  gamente a un eminente grado di capacità intellettuale)  come un dono gratuito della natura, può chiamarsi genio  della virtù, ma che, allo ^tato d’impulso cieco, pi'oduce  un carattere assai immorale. Mercè la riflessione, quell’ im¬  pulso si trasforma in una legge assolutamente imperativa,  e poiché ogni riflessione limita e determina ciò che è ri¬  flettuto, anche quell’impulso sarà limitato dalla riflessione,  e da cieco impulso verso una causalità sconfinata diventerà  una legge di causalità condizionata ; riflettendo, l’uomo sa  di dovere assolutamente qualche cosa ; e affinchè questo  sapere si tramuti in azione, bisogna che egli adotti la mas-    (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 187).        LXXIX    sima : adempì il Ino dovere perchè è tuo dovere. Sorge così  la coscienza morale, la quale impone appunto alla volontà  arbitraria, alla volontà senza regola uè freno della fase pre¬  cedente, l’obbedienza al principio assoluto della ragione.   Una volta conseguita questa chiara coscienza del do¬  vere, la nostra condotta vi si conforma necessariamente,  essendo inconcepibile che noi ci decidiamo di proposito e  con piena chiarezza a ribellarci alla nostra legge, a mancare  al nostro dovere, appunto perchè è la nostra legge, ap¬  punto perchè è il nostro dovere : vi sarebbe in ciò, oltre  che una contraddizione evidente, una condotta veramente  diabolica, se lo stesso concetto u diavolo „ non fosse contrad¬  dittorio (*).   Soltanto può accadere che la chiara coscienza del do¬  vere si annebbii, si oscuri, che la riflessione non si mantenga  sempre alle altezze della moralità, e la nostra condotta,  perciò, cessi di essere conforme alla legge morale. Il do¬  vere primo, quindi, e anche il più alto, è mantenere la  coscienza del dovere in tutta l’intensità della sua luce e  «Iella sua forza. Bisogna vegliare continuamente su noi  stessi, alimentare senza tregua il fuoco sacro della rifles¬  sione; possiamo fare di questa riflessione un’abitudine,  •senza perciò renderla una necessità, senza pregiudizio cioè  della libertà, allo stesso modo diesi può fare un’abitudine  dell’irriflessione, con cui la coscienza empirica comincia, e  persistere in essa, senza renderla perciò una necessità e  senza escludere quindi 1’ esercizio della libertà ( 8 ).    (*) Ibid. p. 191 (ibid. p. 188).   (*> Nella sua Ascetih «fa Animili/ zur Murai ( Ascetica conir ap~  pendice alta Morale) i 1708) — contenuta in Nuahgelarsene Werke ,   voi. Ili, pp. 119-144 e tradotta in inglese dal Kroeger nel voi.           1/XXX    Se la coscienza morale svanisce del tutto, si da non  lasciar sopravvivere più nessun sentimento del dovere, noi    The sciunce of Elltics bij Fichte (1907) dianzi ricordato — il Pielite  si adopera a fornire il mozzo pratico per mantener viva o luminosa,  una volta nata per opera della libertà, la coscienza del dovere, 'l'ale  mezzo consiste ned’associazione delle idee, intermediaria tra la ne¬  cessità della natura e la libertà della ragione, e precisamente nel-  l’associare in precedenza la rappresentazione dell'atto futuro con  la rappresentazione dell’atto conforme al dovere. Occorre, in altri ter¬  mini, che i due propositi : 1) voglio fare quest’ azione, 2) non voglio  agire se non conforme al dovere, siano indissolubilmente uniti in  ima sintesi, e la funzione propria dell’ Ascetica consiste appunto in  questa associazione permanente e anticipata del concetto del do¬  vere non solo col concetto della nostra condotta in generale il che  sarebbe ancora troppo vago e astratto — ma con i concetti di azioni  determinate, soprattutto di quelle abituali, quotidiane, in cui più fa¬  cilmente possiamo peccare per omissione o violazione del dovere;  mentre invece per le azioni eccezionali e straordinarie difficilmente  manca I intervento della riflessione e la conseguente chiarezza della  coscienza. Di qui due regole: 1) un esame di coscienza generale dei  casi in cui siamo più esposti al pericolo di cadere in colpa; 2) la  risoluzione ferma e sempre attiva di ridettero, in questi casi, sopra  noi stessi e di sorvegliarci, opponendo alla forza cieoa e alla resi¬  stenza passiva di certi stati di coscienza, divenuti abitudini quasi  invincibili, la causalità iutelligAte della coscienza morale: è noto  ohe spesso basta ridettero sulla propria passione e rendersi consape¬  voli delle associazioni che la costituiscono per liberarsene, dissociando  mentalmente i fattori da cui nasce e controbilanciando il piacere  che ci aspettiamo dal suo soddisfacimento col disprezzo che accom¬  pagna la trasgressione del dovere. Ma, affinchè l’esame della propria  coscienza abbia valore etico, bisogna che non si riduca a una pura  aulocontemplazione, a un’ analisi fatta quasi per semplice giuoco  estetico; bisogna, invece, che si proponga la nostra riforma morale,  il miglioramento della nostra attività. Tale esortazione, del resto, si  rivolge non già agli uomini privi di coltura, la cui vita é tutta ri¬  volta all’azione, ond’essi non ridettono se non per agire, ma agli  artisti, ai letterati, e persino ai lilosotì e ai sacerdoti, per i quali è  frequente il grave pericolo di dimenticare il valore pratico delle coso,  di arrestarsi alla contemplazione e di nou tradurre la speculazione  in azione.      LXXXI    ricadiamo in uno degli stati che precedono la moralità e  operiamo secondo la massima o della felicità o del dominio  arbitrario della nostra volontà egoistica. Se, invece, ci ri¬  mane ancora un sentimento vago e intermittente del dóvere.  possono verificarsi le seguenti tre specie d’indeterminatezza  corrispondenti alle tre condizioni che rendono determinato  il dovere. L’indeterminatezza può concernere: a) la materia  del dovere, cioè l’applicazione della legge morale a un dato  caso : in ciascun singolo caso tra più azioni possibili non  ce n è che una conforme al dovere ; ma, per insufficiente  attenzione e riflessione, noi cediamo segretamente, e quasi  a nostra insaputa, a qualche altra sollecitazione e perdiamo  il filo conduttore della coscienza ; b) il momento del do¬  vere : in ciascun singolo caso si deve adempiere subito  ciò che è dovere; ma, per l’affievolirsi della coscienza, ci  illudiamo che non occorra affrettarsi a ciò, procrastiniamo  il nostro perfezionamento e ci abituiamo a procrastinarlo  all’ infinito ; c) la forma del dovere : l’imperativo mo¬  rale è categorico, esige obbedienza assoluta e incondi¬  zionata ; ma, se perdiamo di vista tale sua caratteristica,  consideriamo il dovere, anziché come un comando, come  un semplice consiglio che si può seguire quando piaccia e  non costi troppa abnegazione, e con cui si può anche  transigere; di qui quei compromessi, quegli accomodamenti  con la propria coscienza che sono altrettanti modi di elu¬  dere la legge morale, altrettante cause di torpore per la  riflessione, e che pongono nel massimo pericolo la nostra  salvezza spirituale, quando per caso non sopravvenga  dall’esterno una forte scossa, la quale ci sia occasione a  rientrare in noi, a ravvederci. Quest’ultima maniera d’in¬  tendere il dovere, infatti, accusa la morale di rigorismo        LXXX1I    impraticabile, sotto lo specioso pretesto che l’ adempimento  del dovere impone troppi sacrifizi, quasi che non fosse ap¬  punto in ciò 1’ obbligo nostro: nel sacrificar tutto al dovere,  la vita, l’onore e ogni cosa all’uomo più caramente di¬  letta (*).   Quale che sia il modo di oscurarsi della coscienza, si  può dire in generale che la causa di questo suo oscurarsi  e del conseguente smarrirsi della moralità, la causa iu-  somma del male, va ricercata in una sconfitta della libertà.  Se la riflessione che ci eleva alla libertà consiste in una  creazione da parte della libertà e quasi in un colpo di  grazia che ci strappa all’oppressione della natura, il man-  tenimento della chiara coscienza del dovere non può es¬  sere che un perpetuo riprodursi di questo atto creativo,  una creazione continuata, uno sforzo incessante della ri¬  flessione, dell’ attenzione ; e appunto perciò al menomo affie¬  volirsi della nostra vigilanza consegue la nosti-a caduta e  il trionfo delle forze antagonistiche della natura, le quali  sono sempre e necessariamente in azione : tosto che cessa  lo sforzo morale, l’impulso^ naturale inevitabilmente ha il  sopravvento e, con la luce della coscienza, si spegue anche  la virtù. Ogni uomo, dallo stato di natura, con cui s’inizia  la sua vita in una specie d’innocenza — perchè sono ancora  ignorati gli stati superiori in cui l’innocenza primitiva  assume aspetto di colpa —, perviene necessariamente alla  coscienza di sé stesso : a ciò gli basta riflettere sulla li¬  bertà che ha di scegliere tra più azioni possibili per sod¬  disfare 1’ impulso naturale; siamo allora in quella fase in  cui egli opera secondo la massima dell’ interesse o della    (') Siuenlehre, pp. 192-197 (nostra traduz. pp. 186-193).       LXXXIII    felicità. In questo grado di sviluppo rimano volentieri, trat- '  tenutovi dalla forza d 'inerzia che l’uomo, in quanto essere  sensibile, ha in comune con tutta la natura fisica. È vero  che, in virtù della sua natura superiore, egli deve 'strap¬  parsi a questo stato, e può farlo perchè dotato di libertà ;  ma proprio la sua libertà è impedita in questo stato, essendo  essa alleata con quella forza d'inerzia, da cui dovrebbe in¬  vece svincolarsi ; come farà egli a elevarsi alla libertà,  quando per questa elevazione stessa deve far uso della  libertà ? donde attingerà la forza che faccia da contrap¬  peso nella bilancia per vincere la forza d’inerzia ? Cer¬  tamente non nella sua natura empirica, la quale in nessun  modo fornisce alcunché di simile ; gli occorre, dunque, un  aiuto superiore ; 1’ uomo naturale qui non può nulla da sé:  vedremo presto da qual miracolo sarà salvato.   Intanto sappiamo che F inerzia , la pigrizia — la quale  a forza di riprodursi indefinitamente diviene impotenza  morale — è il vizio radicale, il male innato, il peccato  originale: l'uomo è per natura pigro, dice assai giusta¬  mente il Kant. — Da pigrizia nasce immediatamente viltà,  il secondo vizio fondamentale dell’ uomo ; la viltà è la  pigrizia d’affermare la propria libertà e indipendenza  nello scambio ili azione con gli altri : donde tutte le specie  di schiavitù fisica e morale tra gli uomini. In genere si ha  abbastanza coraggio dinanzi a coloro di cui si conosce la  debolezza relativa, ma si è disposti a cedere, a umiliarsi,  dinanzi a una supposta e temuta superiorità qualsiasi ; si  preferisce la sottomissione piuttosto che lo sforzo neces¬  sario a resistere; precisamente come quel marinaio che pre¬  feriva le eventuali pene dell’ inferno al lavoro faticoso di  correggersi in questa vita. — Il vile si consola di questa     I.XXX1V    sottomissione forzata con 1’ astuzia e con la frode ; da viltà  nasce inevitabilmente il terzo vizio fondamentale : falsità.  È questa il risultato di uno sforzo indiretto che si compie  per ricuperare l’indipendenza perduta, quell’indipendenza  che nessun nomo può sacrificare ad altri cosi interamente  come il pigro finge di fare per essere dispensato dalla fatica  di difenderla in aperta battaglia. Falsità, menzogna, ma¬  lizia, insidia derivauo dall’esistenza di un oppressore, e  ogni oppressore deve aspettarsi tali frutti. Soltanto il vile  è falso; il coraggioso non mente e non è falso: per orgo¬  glio, se non per virtù.   Ma come pud aiutarsi l’uomo, quando in lui è radi¬  cata la pigrizia, la quale paralizza appunto l’unica forza  con cui' egli deve aiutarsi ? che cosa gli mauca propria¬  mente? — Non già t la forza, che egli ben possiede, ma la  coscienza della forza e l’Impulso a farne uso. — E donde  gli verrà questo impulso? — Non da altra foute che dalla  riflessione: è necessario che 1’ io empirico, avendo in sè l’im¬  magine dell’Io assoluto, e vedendosi in tutta la propria  bruttezza, senta orrore di sè ; soltanto per questa via potrà  formarsi la coscienza di quel che deve essere, soltanto di  là verrà l’impulso. In genere gl’ individui che formano la  grande maggioranza degli uomini hanno bisogno di ap¬  prendere la propria libertà da altri individui liberi, che  essi contemplano come modelli ; ma vi souo nella moltitu¬  dine spiriti eletti a cui fu dato di essere gl’ iniziatori della  moralità e quasi i primi maestri dell' umanità, per es. i  fondatori di religione. Si comprende come costoro, non  avendo attinto dall’ esempio altrui la consapevolezza della  propria indipendenza, e non trovando nella propria natura  empirica il principio dell’ emancipazione da questa natura    — l.XXXV    empirica, si credano ispirati dall' alto da una grazia so¬  prannaturale, da uno spirito divino, mentre invece non han  fatto che obbedire alla propria natura superiore, all’Io as¬  soluto, di cui l’io finito e individuale deve divenire la  copia fedele ( J ).   B) Contenuto materiale della legge morale, ovvero  veduta sistematica dei nostri doveri. — Una volta eman¬  cipato dalla schiavitù della natura e divenuto cosciente  della propria libertà formale, 1’ uomo deve far uso di questa  per compiere l’infinita serie di azioni diretta verso 1’ as¬  soluta libertà materiale. Quale la materia di queste azioni?  In qual modo 1’ io individuale si eleverà gradatamente sino  a quell’ indipendenza assoluta, a quello stato oggettivo di  libertà, che è il fine ultimo della sua libera attività sog¬  gettiva? — L’accennammo già: l’attuazione dello stato di  libertà non si ottiene se non determinando il mondo in  funzione della libertà stessa, operando cioè come chi  considera e tratta le cose dal punto di vista non della  loro esistenza data, ma della loro finalità, non del loro es¬  sere, ma del loro dover-essere, e le modifica perciò e le  adatta progressivamente nella direzione di questa finalità,  di questo dovere. Tale determinazione del mondo secondo  1’ idea della libertà, determinazione posta come obbligatoria  e come praticamente necessaria, costituisce il sistema dei  nostri doveri, la materia della moralità. In altri termini, la  morale propriamente detta non è che l’insieme delle con¬  dizioni a cui il mondo va sottoposto e a cui deve prestarsi  per essere strumento all’ attuazione della libertà.   Queste condizioni possono ridursi a tre, perchè triplice    *    (') 1 bici. pp. 198-205 (ibid. 194-201).       I.XXXVI    è il punto di vista da cui può considerarsi il mondo. Il  mondo si può considerare : a) in sè, come pura e semplice  materia, come natura corporea ; b) nel suo rapporto col  pensiero, come materia di conoscenza ; c ) nel suo rapporto  col volere, come oggetto indispensabile all’ esercizio dell’ at¬  tività, come il luogo d’incontro delle molteplici sfere di li¬  bertà individuale, come il teatro della società. E per la  morale si tratta appunto di mostrare a) nella nostra na¬  tura corporea, b) nella nostra intelligenza, c) nella nostra  vita sociale, gli strumenti per l’attuazione della libertà, la  quale non può divenire reale se non operando sul mondo  oggettivo, per mezzo del corpo, dell’intelligenza e della  società. Come, dunque, dobbiamo trattare, in vista del fine  ideale da raggiungere, a) il corpo, b) l’intelligenza, c) la  società ? ' «   a) Il nostro corpo, essendo da una parte prodotto  di natura, dall’ altra strumento della causalità del concetto,  funziona da intermediario tra la necessità e la libertà. La  volizione si esercita immediatamente su di esso, e per esso  modifica mediatamente il mondo esterno secondo i nostri  concetti. Di qui risulta chiaro un triplice dovere rispetto  al corpo : 1) un dovere negativo : non far mai del proprio  corpo il fine ultimo delle proprie azioni ; 2) un dovere po¬  sitivo : conservare e coltivare il proprio corpo nell’interesse  della libertà ; 3) un dovere limitativo : evitare come illecito  ogni piacere corporeo che non si riferisca al fine ultimo  della nostra attività. u Mangiate e bevete in onore di Dio:  se questa morale vi sembra troppo austera, tanto peggio  per voi ; non ce n’ è un’ altra „ (*).    (*) Ibid. pp. 20C-21G (ibid. pp. 202-212).       ì.xxx vi i    b) L’intelligenza è la forma indispensabile attraverso  cui può attuarsi la libertà, poiché soltanto la riflessione  dà alla libertà la sua legge; fuori dell’intelligenza ci sarà  1’ istinto cieco, non già la coscienza morale ; l’intelligenza  è il veicolo stesso della moralità. Diciamo di più-: per la  legge morale , mentre il corpo è condizione materiale pu¬  ramente esterna e soltanto della sua causalità, l’intel¬  ligenza è condizione materiale veramente interna e di  tutta quanta la sua essenza. Di qui un triplice dovere  anche verso l’intelligenza : 1) un dovere negativo : non  subordinare mai materialiter — ossia nelle sue ricerche  e cognizioni — l’intelligenza a nessuna autorità, foss’anche  quella della legge morale ; la ricerca da parte della ragione  teorica dev’ essere assolutamente libera e disinteressata ,  non deve preoccuparsi di altro che non sia l’acquisto  della conoscenza ; 2) un dovere positivo : formare l’intel¬  ligenza il più possibile ; il più possibile imparare, pensare,  indagare ; 8) un dovere limitativo : subordinare formaliier  l’intelligenza alla moralità, la quale rimane sempre il fine  supremo ; riferire al dovere tutte le nostre investigazioni ;  coltivare la scienza non per curiosità ma per dovere, es¬  sendo essa strumento di moralità (').   c) La società, infine, può dirsi addirittura l’espres¬  sione vivente della libertà , in quanto questa non si con¬  cepisce come qualcosa d’individuale, ma soltanto come  una recijjrocanza di rapporti tra più individui corporei,  intelligenti e volenti. L’ideale della libertà, quindi, si  attua non nel singolo uomo , ma nella comunità di tutti  gli uomini, in seno alla quale V individuo diviene persona. (*)    (*) Ibid. pp. 217-218 (ibid. pp. 213-214).       LXXXV1I1 —■    e senza la quale per l’ individuo nessun perfezionamento,  anzi nemmeno l’esistenza stessa, sarebbe possibile, essendo  individuo e società termini correlativi, coudizionantisi a  vicenda. Se così è, se 1’ io empirico non può porsi altri¬  menti che come individuo, e se come tale non può pre¬  scindere dai suoi rapporti con la società , che vai quanto  dire dalla esistenza di altri individui e dalla loro libertà,  è evidente che egli non può voler sopprimere questa esi¬  stenza e questa libertà, da cui sono determinate l’esistenza  e la libertà sua propina. La mia tendenza all’indipendenza  assoluta, fine supremo della mia attività, è dunque subor¬  dinata alla libertà .degli altri. Le libere azioni degli altri  sono gli originari punti di confine della mia individualità,  e a esse io reagisco f non meno liberamente, autodetermi-  nandomi a quella serie di azioni che prescelgo e da cui  uscirà costituita la mia personalità, non essendo io se non  quel che mi fo • con le mie azioni, e non consistendo il  mio essere in altro che nel mio operare. Soltanto che  mentre il mio operare, rispetto a quegli originari punti di  confine della mia individualità, ossia rispetto ai liberi in¬  flussi degli altri , mi appare 1’ effetto della mia assoluta  autodeterminazioue, della mia libera causalità, quei punti  di confine , quei liberi influssi^ degli altri , invece , mi ap¬  paiono come predeterminati p priori ; alla stessa guisa  che dal punto di vista altrui s’invertono le parti , e agli  altri appare liberamente autodeterminato il loro agire su  di me e predeterminato a priori il mio reagire su di loro.  Il che dà luogo , è vero , a un’ antinomia tra predetermi¬  nazione e autodeterminazione, ma a un’ antinomia che si  risolve facilmente cosi : tutte le azioni libere (le mie come  le altrui) sono predeterminate ab aeterno (ossia fuori del      LXXXIX    tempo) dalla ragione universale ; ma il momento in cui  ciascuna deve accadere e gli attori di essa non sono pre-  ^ determinati : ecco, quindi, predestinazione e libertà perfet¬  tamente conciliate (*). Ciò premesso - è evidente il-dovere  fondamentale verso la società : non impedire , con 1’ eser¬  cizio della propria libertà, la libertà degli altri, hou trat¬  tare gli altri uomini come cose, come semplici strumenti  della propria libertà. Ma anche nell’ interno di questo do¬  vere sembra annidarsi un’ antinomia : da una parte devo  tendere all’ indipendenza assoluta , all’ emancipazione da  ogni limitazione, dall’altra devo rispettare la libertà altrui,  la quale è una vera limitazione alla mia libertà ; da una  parte devo agire sul moudo sensibile si da farne, come il  mio corpo, il mezzo per giungere al line supremo , all’ as¬  soluta libertà, dall’ altra non mi è lecito modificare i pro¬  dotti della libertà altrui. Come comporre questa nuova  contraddizione ? Non difficile la soluzione : basta supporre  tra le molteplici libertà individuali , anziché contrasto,  vera comunanza di azione ; se dal punto di vista giuridico  occorre una forza coercitiva (l’autorità dello Stato), la  quale, restringendo l’esercizio delle libertà individuali an¬  tagonistiche , renda possibile il loro mutuo sviluppo , dal  punto di vista morale, invece, tutti gli individui sottostanno  alla medesima legge, tutti perseguono il medesimo fine ,  tutti sono in certo qual modo identici nella loro condotta  conforme al dovere. perchè tutti hanno il medesimo do¬  vere, e l’emancipazione degli uni, lungi dall’opporlesi, è  necessaria all’ emancipazione degli altri, perchè l’indipen-    (') Ibiil. pp. 226-220 (iliid. pp. 222-224).       xc    denza di ciascuno va di pari passo con l’indipendenza di  tutti, perchè la libertà , intesa nel senso morale, non si  attua se uon uella collettività, degli esseri liberi. Dunque,  non già limitazione o interferenza tra le libertà indivi¬  duali, sì bene confluenza, collaborazione a un’opera comune,  al trionfo della ragione : il rispetto della libertà altrui è  qui compatibile con 1’ esercizio assoluto della libertà pro¬  pria, perchè questa e quella si accordano e si completano  reciprocamente, la liberazione dell’uno è in pari tempo la  liberazione di tutti.   E invero , 1’ originaria tendenza all’ indipendenza as¬  soluta non si riferisce a un determinato individuo ; ha per  oggetto la libertà assoluta, l’autonomia della ragione in  generale. L’ultimo fine della moralità è il regno della  ragione in quanto ragione, il che non si ottiene se non  nella comunanza e con la cooperazioue di tutti gli esseri  che partecipano della ragione, di tutta l’umanità ; la libertà,  — ripetiamo — non hì concepisce sotto la forma dell' in¬  dividualità, essa è di natura essenzialmeute sociale e uni¬  versale, e non si attua nel singolo uomo se uon in quanto  questi da u individuo „ si eleva a “ persona „ per confon¬  dersi in ispirito con tutti, gli esseri ragionevoli. Di qui  trae luce e spiegazione la nota formula kantiana : u Opera  in modo da poter pensare la massima della tua volontà  come principio d’ una legislazione universale „ , formula  più euristica che costitutiva della moralità, perchè non è  un principio — come sembrava al Kant, a cui il metodo  da lui adottato interdiceva di penetrare sino al fondo delle  cose — ma soltanto una conseguenza di quel vero prin¬  cipio che consiste nel comando dell’ assoluta indipendenza      XCI    della ragione ('). Di qui deriva la necessità che tutti-siano  veramente liberi , che nessuno sia impedito nell* esercizio  dulia ragione e nell’adempimento del dovere, che ciascuno  si adoperi ad avvicinare sempre più quell’ ideale" — per  quanto destinato a rimanere sempre un ideale — che è  la moralizzazione dell’umanità. Soltanto l’uso della libertà  contrario alla legge morale ho il dovere di annullare ; ma  siccome ciascuno deve operare secondo le proprie convin¬  zioni , cosi mi è lecito cercar di determinare o modificare  soltanto la convinzione degli altri, mai la loro azione. E  poiché non si può agire sulle convinzioni degli altri uomini  se non vivendo in mezzo a essi, anche per questa via si  ribadisce la necessità morale della società e il dovere per  ognuno di vivere in essa. Segregarsi dalla società significa  rinunziare ad attuare il fine della ragione ed essere indif¬  ferente al propagarsi della moralità, al trionfo della libertà,  al bene dell’ umanità ; “ chi si propone di aver cura sola-    (*) Ilari, p. 234 ibici. pp. 229-230). Secondo il Fichte la suddetta  formula kantiana va intesa non già nel senso : — perchè un quid  può essere principio di una legislazione universale, perciò dev’essere  massima della mia volontà — ma nel senso opposto : — perchè un  quid dev’ essere massima della mia volontà, perciò può essere anche  principio di uua legislazione universale — ; in altri termini, non la  forma determina il contenuto della moralità, ma il contenuto deter¬  mina la forma: se la moralità ha per contenuto 1’ attuazione univer¬  sale della ragione, ne segue che ciascun individuo il quale operi di-  siuteressatameute, secondo ragione, può pensare la propria condotta  come un dovere per chiunque altro operi nelle medesime circostanze ;  la proposizione kantiana, appunto con questa universalizzazione della  condotta individuale , non fornisce altro che un eccellente mezzo di  controprova per accertarci se, agli effetti della morale , la condotta  di un individuo sopporti o no universalità, possa o no erigersi a  legge per tutti: è perciò una proposizione euristica, non già costitu¬  tiva della moralità.       xcn    mente di sè , dal lato morale, in verità non ha cura nep¬  pure di si, perchè suo fine ultimo dev’essero il prendersi  cura di tutto il genere umano, la sua virtù non è virtù,  ma soltanto im servile, venale egoismo....; non già con una  vita eremitica, dedita a pensieri sublimi e speculazioni  pure, non già col fantasticare , ma soltanto con 1’ operare  nella e per la società si soddisfa al dovere (*).   La necessità etica della società e il dovere che ne  deriva all’ individuo di vivere in essa e di lavorarvi alla  moi'alizzazione degli uomini, operando sul loro spirito e  formando le loro convinzioni, implica l’istituzione di quella  repubblica morale che i?i chiama la Chiesa e che è condi¬  zione indispensabile per la reciproca azione sociale diretta  a produrre credenze pratiche concordi e con esse il pro¬  gresso della moralità. La Chiesa , infatti, rappresenta nel  suo simbolo, accettato da tutti i suoi membri, quell’accordo  primitivo e, a dir così, minimo, che solo rende possibile  una comunità spirituale. Ma il simbolo non è, nè può es¬  sere, che un punto di partenza o un mezzo, nou già un  punto di arrivo o uu fine ; esso è indefinitamente perfet¬  tibile mercè la continua reciproca azione degli spiriti gli  uni sugli altri e il conseguente sviluppo della moralità ,  e non può, quindi, rimanere fisso e invariabile. Così, ap¬  punto, l’intende il protestantismo. Iuvece, come fa il pa¬  pismo, lavorare pur contro la propria convinzione a man¬  tenere il simbolo in una fissità assoluta, a rendere la ra¬  gione stazionaria, a costringere gli altri in una fede già  superata , significa, oltre che ignoranza , trasgressione del  dovere, perchè allora si fa del simbolo non più 1’ espres-    (') Ibid. p. 235 (ibid. p. 230).     xeni    sione puramente prdVvisoria di un accordo destinato a  permettere la discussione delle diverse opinioni in vista  dell’ ulteriore sviluppo morale della comunità, ma la for¬  mula definitiva di una verità assoluta e immutevole, il  che sta in recisa opposizione con lo spirito della moralità,  la cui essenza consiste nello sforzo e nel progresso all’ in¬  finito (*).   Come la Cliiesa è istituzione necessaria al perfeziona¬  mento morale per quanto riguarda le convinzioni interne,  così lo Stato è istituzione necessaria per quanto riguarda  le azioni esterne, 1’ operare sul mondo sensibile. Ciò che  sta fuori del mio corpo, ossia tutto il mondo sensibile , è  patrimonio comune e il coltivarlo secondo le leggi della  ragione non spetta a me soltanto, ma a tutti gli individui  ragionevoli ; di guisa che il mio operare su di esso inter¬  ferisce con l’ operare degli altri, e può accadermi , perciò,  di arrecar danno alla libertà altrui, quando il mio operare  non sia all’ unisono con 1’ altrui volontà : il che assoluta-  mente non mi è lecito. Quel che interessa tutti io non  posso fare senza il consenso di tutti, e senza seguire,  quindi, principi universalmente accettati, previo accordo,  tacito o esplicito, circa una parziale restrizione volontaria  e generale delle diverse libertà individuali. Il consenso a  questa restrizione e 1’ accordo che determina i comuni di¬  ritti e la reciproca azione sul mondo sensibile è oggetto  del cosidetto contratto sociale e costituisce lo Stato. Lo  Stato , grazie alle leggi conosciute e accettate da tutti i  cittadini , rende possibile a ciascuno di essi di conciliare  l’esercizio della propria libertà col rispetto dovuto alla    (') Ibid. p. 230 e pp. ‘241-245 (ibid. p. 231 e pp. 233-240).              — xciv —   libertà degli altri; rende passibile, iu altri termini, preve¬  nendo eventuali conflitti nell’incontro delle libertà indivi¬  duali, quella convivenza sociale die è condizione strie iy ua  non della moralità'; di qui il suo alto significato e il suo  valore etico (').   La necessità del simbolo nella Chiesa, il rispetto delle  leggi nello Stato, impongono, non tanto alle convinzioni  dell’ individuo — le quali sono incoercibili — quanto alla  loro manifestazione e comunicazione, certi limiti che non  si possono oltrepassare senza mettersi fuori del simbolo o  fuori della legge, fuori, iusomma, della comunità morale e  civile ottenuta iu un dato momento del progresso umano.  E pur tuttavia si è tenuti non solo a formarsi una con¬  vinzione indipendente da ogni autorità, ma anche ad affer¬  marla e parteciparla agli altri. Come conciliare questa con¬  traddizione tra 1’ assoluta libertà delle singole coscienze e  il rispetto alla fede comune ? come risolvere questo con¬  flitto di doveri ? Non altrimenti che mediante una limita¬  zione reciproca dei due doveri , che vai quanto dire : am¬  mettere la libertà assoluta delle convinzioni e della loro  comunicazione, ma circoscrivere questa libertà e questa  comunicazione a quel particolare gruppo sociale che è il  ■pubblico dotto (*).   E invero, l’assoluta libertà delle convinzioni e della  loro comunicazione, se è impraticabile nel vasto ambito  della Chiesa e dello Stato , perchè per essere morale do¬  vrebbe raccogliere — cosa impossibile — 1’ adesione una¬  nime di tutti i membri della comunità chiesastica e poli-    (') Ibid. pp. 237-238 (ibid. pp. 232-233).  ( ! ) Ibid. pp. 247-248 (ibid. 242-243).       xcv    tica, è, invece, praticabile nel ristretto pubblico dei dotti,  il quale sta come anello di congiunzione tra la convinzione  comune e la privata.   Il carattere distintivo del pubblico dotto è uifa asso¬  luti libertà e indipendenza di pensiero ; il principio della  sua costituzione è la massima di non sottoporsi a nes¬  suna autorità , di basarsi in tutto sulla propria riflessione  e di rigettare assolutamente da sè tutto ciò che non sia  da questa confermato. Nella repubblica dei dotti non è  possibile nessun simbolo, nessuna direttiva prestabilita,  nessun riserbo ; tra dotti si deve poter dichiaral e tutto  ciò di cui si è persuasi, appunto come si oserebbe dichia¬  rarlo alla propria coscienza ; giudice della verità sarà il  tempo, ossia il progresso della coltura. E come assoluta¬  mente libera è l’investigazione scientifica, così pure libero  a tutti deve essere 1’ adito a essa. Per chi nel suo intimo  non può più credere all’ autorità , è contro coscienza con¬  tinuare a credervi, è dovere di coscienza associarsi al pub¬  blico dotto. Lo Stato e la Chiesa debbono tollerare i dotti,  altrimenti violerebbero» te coscienze, perchè nessuna po¬  tenza terrena ha il diritto d’imporsi in materia di co¬  scienza. Lo Stato e la Chiesa debbono anzi riconoscere la  repubblica dei dotti, perchè questa è condizione del loro  progresso morale , in quanto che soltanto in essa possono  elaborarsi i concetti che modificheranno , perfezionandoli,  e il simbolo e la costituzione dello Stato: sin anche come  pubblici ufficiali — per es. nelle università — i dotti pos¬  sono lavorare all’educazione degli uomini e alla formazione  scientifica degli insegnanti e dei funzionari tutti della  Chiesa e dello Stato. È da aggiungere, però, che il dotto,  insieme con l’incontestabile diritto che ha all’ esistenza,        «    XCV1    all' indipendenza e alla massima libertà di ricerca e cri¬  tica nel campo del pensiero, lia anche il preciso dovere  di sottomettersi all’autorità della Chiesa e dello Stato nel  campo deU’azioue ; onde non è lecito a chi ne faccia parte  nè diffondere le propine convinzioni, ancora discutibili e  non universalmente accettate, tra i fedeli e i cittadini  che vivono fuori della repubblica dotta, nè , tanto meno ,  attuarle senz’ altro nel mondo sensibile , minando cosi, o  addirittura sovvertendo, senza il consenso di tutti, gli ordi¬  namenti e i poteri costituiti ; Stato e Chiesa hanno il di¬  ritto di impedire ciò. Sarebbe un’oppressione della coscienza  proibire al predicatore di esporre in scritti scientifici le  sue convinzioni dissenzienti, ma rientra perfettamente nel-  1’ordine vietargli di portarle sul pulpito, ed egli stesso,  se'è illuminato, sentirebbe la propria immoralità quando  facesse così.   In conclusione: l’ultimo fine di ogni attività sociale  è l’accordo universale tra gli uomini, accordo non possibile  se non sul puro ragionevole, perchè qui soltanto ritrovasi  ciò che agli uomini è comune. Col presupposto d’ un tale  accordo cade la differenza tra un pubblico dotto e un pub¬  blico non dotto ; scompaiono anche Chiesa e Stato. Condi¬  videndo tutti le medesime convinzioni, a che servirebbe  più il potere legislativo e coercitivo dello Stato? Riunite  tutte le coscienze individuali nella visione diretta della  verità assoluta, a ohe servirebbero più i simboli provvisori  e mutevoli della Chiesa ? Il pensiero e l’azione di ciascuno  confluirebbe col pensiero e 1’ azione di tutti, la legge mo¬  rale troverebbe la sua espressione nella sublime armonia  di tutti gli esseri ragionevoli e buoni, nella suprema comu¬  nione dei santi, l’io empirico e individuale, completamente    — xovrt    liberato da ogni limitazione, svanirebbe completamente in  seno all’Io puro e assoluto, si attuerebbe, insomma, nella  realtà l’Ideale, l’Infinito, Dio. Il contenuto materiale della  moralità è tutto in Questo perenne e progressivo attuarsi  del regno della ragione nel regno della natura, è tutto in  questa ascensione, in quest’approssimarsi del mondo verso  lo Spirito, vei’so la Libertà (').   C) Dottrina dei doveri propriamente detta. —- Da  quanto precede risulta evidente che l’io empirico q la  persona è soltanto mezzo all’ attuazione del fine supremo  morale. La proposizione del Kant : L’uomo è /ine in se,  è giusta purché completata così : l'uomo è fine in .sr. ma  per gli altri. Siccome la legge si dirige a ciascuno e il  suo fine è la ragione in generale , ossia 1’ umanità tutta  quanta , ne segue che tutti sono fine a ciascuno , ma nes¬  suno è fine a se stesso ; 1’ attività di ciascuno è semplice  strumento per attuare la ragione. Con che la dignità del-  1’ uomo non è abbassata, è anzi inalzata, poiché a ciascun  individuo vien affidato il raggiungimento del fine univer¬  sale della ragione e dalla cura e dall’ attività di lui di¬  pende l’intera comunità degli esseri ragionevoli, mentre  egli , invece, non dipende da nulla. Ciascuno diventa Dio  nella misura che gli è possibile , ossia con riguardo alla  libertà degli altri, e appunto perchè tutta la sua iudivi-  dualità scompare, egli diventa pura rappresentazione della  legge morale nel mondo sensibile, vero Io puro. Errano  di molto coloro che pongono la perfezione in pie medita¬  zioni, in un devoto covare sopra sé stessi, e di qui aspet¬  tano l’annientarsi della propria individualità e il loro con-    (‘) Ibid. pp. 248-253 (ibid. pp. 243-248).         — xcvm    fluire culi la divinità; la loro virtù è, o rimane, e geliamo ;  essi vogliono fare perfetti soltanto se stessi. La vera virtù,  invece, consiste nell’operare, e nell’operare per la comu¬  nità : è quindi oblio, abnegazione intera di sè nell’interesse  della totalità degli esseri ragionevoli.   Se cosi è, se l’io empirico o individuale serve sola¬  mente di mezzo all’attuazione del fine supremo, ossia all’av¬  vento del regno della ragione, ne segue che i doveri verso  l’io empirico sono mediati e condizionati di fronte a quelli  che, riferendosi direttamente al fine supremo , diconsi im¬  mediati e incondizionati, ossia assoluti. Senonchè la pro¬  mozione del fine supremo è possibile soltanto in virtù di  una ben disegnata divisione di lavoro, altrimenti potrebbe  molto accadere in più modi, e molto non accadere affatto.  È necessario, dunque, attuare una tale divisione di lavoro,  mediante 1’ istituzione di divei'se professioni , da cui na¬  scono doveri diversi, che diremo particolari o trasferibili  (perchè s’impongono soltanto a chi abbia scelto quella  data professione) di fronte ai doveri che sono generali o  intrasferibili (perchè s’impongono indistintamente a tutti  gli esseri umani). Combinando questa seconda classifica¬  zione dei doveri, fatta dal punto di vista del soggetto  della moralità, con la precedente, fatta dal punto di vista  dell’oggetto della moralità, si hanuo quattro specie di  doveri :   1) generali condizionati   2) particolari condizionati   3) generali incondizionati   4) particolari incondizionati (’).    (') Ibid. pp. 257-251) (ibid. pp. 251-253).       XOIX    1. I doveri generali condizionati — abbiamo dette — '   si riferiscono all’io empirico in quanto mezzo e strumento   indispensabile per 1 adempimento della legge morale: primo   tra essi, dunque , V autoconservazione , la conservazione ,   cioè , di questo mezzo o strumento. *L’ autoconservazione   *   già richiesta dal diritto naturale come condizione ne¬  cessaria al I attuarsi di quel futuro da cui attendiamo la  soddisfazione implicita nell’oggetto del nostro volere pre¬  sente , e perciò come qualcosa di relativo — diventa per  la moralità materia di un comando assoluto ; per 1’ uomo  morale si tratta non più di attendere un risultato più o  meno egoistico e interamente conseguibile nel tempo, ma  di lavorare disinteressatamente all’attuazione di quel fine  supremo di cui egli non potrà mai godere , perchè posto  all’ infinito.   Dal dovere dell’ autoconservazione nasce : — a) un  divieto : evita tutto ciò che, secondo la tua coscienza, può  mettere in pericolo la tua conservazione in quanto stru¬  mento della moralità (il digiuno e 1’ intemperanza in ri¬  guai do al corpo, l’inerzia intellettuale, il soverchio sforzo,  l’occupazione irregolare, il disordine della fantasia, la col¬  tura unilaterale, ecc. in riguardo all’ intelligenza) ; non  espone al pericolo la tua salute, il tuo corpo, la tua vita,  quando non vi sia necessità morale. Segue da ciò la più  recisa condanna del suicidio : la moralità può comandare  di esporre la vita, non già di distruggerla ; la vita è la  condizione stessa dell’ adempimento del dovere, e il sui¬  cidio, distruggendo la vita, la sottrae appunto al dominio  della legge ; suicidarsi significa dichiarare di non voler  più adempiere il dovere. — b) un comando : opera tutto  quello che ritieni necessario alla tua conservazione (il buon     mauteuimeuto del corpo, il nuo adattamento perfetto ai  fini che deve conseguire, la coltura dell’intelligenza, la  ricreazione estetica, eco.).   Non va mai dimenticato, però, che il dovere dell’auto-  conservazioue è condizionato , essendo l’io empirico sem¬  plice strumento della moralità : quindi , dove il fine della  moralità non fosse compatibile col dovere «Iella conserva¬  zione , sarebbe moralmente necessario che la vita dell’ in¬  dividuo venisse sacrificata a quel fine, che il dovere coudi-  zionato fosse subordinato al dovere incondizionato : quando  la moralità lo esige, ho il dovere di arrischiare la mia  vita, e tutti i pretesti con cui cercassi di nascondere la  mia viltà — per es., quello di risparmiarmi la vita per  operare ancora dell’ altro bene che altrimenti rimarrebbe  incompiuto — andrebbero contro il dovere, il quale co¬  manda in modo assoluto e non ammette indugi al suo  adempimento (').   2. Tra i doveri particolari condizionati — attinenti ,  cioè, ai diversi uffici e alle diverse professioni individua¬  li — sta anzitutto quello d’avere un ufficio, d’esercitare una  professione nell’interesse della società, di contribuire in  qualche misura all’ esistenza e all’ organizzazione sociale ;  poi 1’ altro di scegliersi a ogni modo un ufficio , una pro¬  fessione, e non già secondo l’inclinazione, ma con la co¬  scienza d’ avere la migliore attitudine all’ uno o all’ altra ,  considerate le proprie forze , la propria coltura , le condi¬  zioni esterne dipendenti da noi , poiché non il sodisfaci-  mento dei nostri gusti dev’ essere lo scopo della nostra  vita, ma 1’ avanzamento del fine della ragione : onde gli    (') Ibid. pp. 259-271 (ibid. pp. 254-2C5).       CI —    uomini uou dovrebbero scegliersi uno stato prima d’essere  giunti alla necessaria maturità della ragione, e sino a  questa maturità si dovrebbe educarli tutti allo stesso modo;  infine il dovere di attendere con tutta coscienza all’ufficio  o alla professione prescelta, formando sempre meglio all’uno  o all’ altra il corpo e lo spirito , secondo che più occorre  (all’agricoltore, per es., occorre più la forza e la resistenza  fisica , all’ artista la destrezza e 1’ agilità dei movimenti,  allo scienziato la coltura spirituale in tutte le direzioni, ecc.).  Di una gerarchia delle professioni e degli uffici secondo il  loro grado di dignità , si può parlare dal punto di vista  sociale soltanto nel senso che le molteplici occupazioni  umane sono subordinate le une alle altre come il condi¬  zionato e la condizione, come il mezzo e il fine ; ma dal  punto di vista morale esse hanno tutte lo stesso valore ,  tutte la stessa dignità : quel che importa è adempieide  bene (*).   3. I doveri generali incondizionati si riferiscono non  più allo strumento, ma al fine stesso della moralità , che  è il dominio della ragione nel mondo sensibile e nella tota¬  lità degli individui per opera di ciascun individuo.   Primo tra essi il dovere verso quella libertà formale  di tutti gli esseri ragionevoli, nella quale sta 1’ origine ,  la radice stessa della moralità. La libertà formale di eia-  scun individuo poggia sopra due condizioni : A) la perma¬  nenza del rapporto tra la volontà individuale e il corpo  che ue è 1’ organo esecutivo ; B) la permanenza del rap¬  porto tra il corpo individuale e il mondo sensibile che ne  è la sfera d’ azione. Di qui due specie di doveri concer-    *    (*) Ibid. pp. 271-274 (ibiil. pp. 2G5-268).      cn    neuti l’inviolabilità: A) del corpo altrui; B) della altrui  libertà d’azione. A) L'inviolabilità del corpo altrui im¬  plica : a) il divieto di esercitare qualsiasi violenza o coer¬  cizione fisica su altri (la condanna, quindi, della schiavitù,  della tortura, dell’ omicidio eoe.), b) il comando d’aver  cura della vita e della salute degli altri come della propria,  essendo gli altri, al pari di noi, strumenti della moralità  (ama il tuo prossimo come te stesso). B) L’ altrui libertà  d’azione esige : — in primo luogo l’esatta conoscenza dei  rapporti tra le cose, senza la quale manca ogni garanzia  che il risultato dell’ azione sarà conforme al disegno della  volontà ; di qui il dovere della veracità, il quale implica :   a) il divieto d’ingannare il prossimo (con l’inganno si dan-  neggia la libertà degli altri, trattandoli non come persone  ma come cose) e la conseguente condauna del venir meno  alle promesse e del mentire (nessuna menzogna è lecita,  neppure la menzogna pietosa, o la pretesa menzogna ne¬  cessaria, neppure col pretesto dell’interesse altrui, o, peggio  ancora, con quello dell’ interesse della moralità, perchè la  menzogna stessa, per essenza sua, nasce da viltà ed è  sempre radicalmente immorale; b.) il comando d’illuminare  e istruire il prossimo e di comunicargli la verità ; — in  secondo luogo la proprietà, ossia quella sfera d’azione nel  mondo sensibile senza la quale manca, oltreché la materia  prima per attuare i disegni della propria volontà, altresì  la sicura coscienza di non disturbare, con l’esercizio della  propria libertà, la libertà degli altri, come esige la legge  morale ; di qui il dovere dell’ istituzione e della conserva¬  zione della proprietà, il quale implica : a) il divieto di  distruggerla, usurparla o menomarla in qualsiasi maniera;   b) il comando d’acquistarsi una proprietà e di procurarne    una a ciascun individuo (come ogni oggetto dev’ èssere  proprietà di ciascuno affinchè tutto il mondo sensibile  rientri nel dominio della ragione, così ognuno deve avere  una proprietà ; in uno Stato in cui un sol cittadino non  abbia una proprietà, ossia una sfera esclusiva se non di  oggetti, almeno di diritti a certe azioni, non esiste in ge¬  nerale nessuna legittima proprietà ; la beneficenza consiste  non nel fare l’elemosina, ma nel fornire a ciascuno il modo  di vivere del proprio lavoro) (*).

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