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Monday, May 16, 2022

GRICE E CAPUA

 DI CAPUA, Leonardo   ADVERTISING Nacque a Bagnoli Irpino (prov. Avellino) il 10 ag. 1617, da famiglia agiata. Nella sua Vita di Lionardo di Capoa, l'Amenta ci dice che il D. si dedicò agli studi con passione, tanto da esibire all'età di undici anni una appropriata conoscenza dei fondamenti della fede, un retto uso della retorica e dello scrivere in latino. Seguì una sua sorella a Napoli, dove frequentò la scuola dei padri della Compagnia di Gesù, studiando per sette anni filosofia e teologia. A diciotto anni si dedicò agli studi giuridici e quindi alla medicina, dei cui fondamenti classici si mostrerà critico precoce. A ventidue anni, carico di libri e di progetti di ricerca, fece ritorno a Bagnoli, con l'intenzione di approfondire le sue conoscenze naturali e anatomiche. Negli anni seguenti prende forma il suo pensiero critico intorno al giudizio dei sensi, all'incertezza delle cose e alla fallacia delle apparenze e quindi alla inadeguatezza del giudizio secondo ragione. Degli anni di ritiro a Bagnoli non abbiamo ulteriori notizie biografiche. L'Amenta ci riferisce di una certa attività letteraria: duemila sonetti amorosi in stile petrarchesco, composti nell'arco di tre anni; due tragedie alla maniera di G. Della Porta, Il martirio di s. Tecla e Ilmartirio di s. Caterina; alcune commedie; una favola boschereccia; infine, innumerevoli scritti in prosa, tutti andati perduti a causa di un assalto di banditi, subito dal D. in viaggio per Napoli.  Non sappiamo quando si stabilì definitivamente a Napoli. Poiché, comunque, ciò non accadde anteriormente ai primi degli anni Quaranta, si può ragionevolmente ritenere che la sua venuta a Napoli fosse incentivata dal ritorno di Tommaso Cornelio, di cui era amico, reduce da un lungo viaggio a Firenze, Bologna e Roma, dopo una lunga preparazione alla scuola galileiana e un contatto col Torricelli nonché con un ambiente favorevole al libertinismo e alla nuova scienza. Dal Cornelio, che nel '53 otterrà una cattedra di matematica e poi di medicina teoretica, il D. viene indirizzato alla ricerca scientifica nella linea segnata dal Galilei e da Cartesio. L'opzione era senz'altro a favore di quel nuovo mondo che la filosofia sperimentale sembrava introdurre all'interno di una cultura legata al passato e organizzata politicamente. Ai primi degli anni Sessanta, gli animi già possono dirsi divisi da controversie e da uno spirito polemicistico per nulla produttivo. Particolarmente ostile la medicina ufficiale nei confronti dei "moderni", essa arriverà a far sopprimere la divulgazione di un libro di S. Bartoli così come osteggerà le lezioni di chimica e la difesa di essa quale scienza fondamentale per il rinnovamento della medicina.  È il periodo della lettura dei grandi filosofi contemporanei di Europa, da Bacone a Galilei, a Hobbes e Cartesio. La volontà di emulare quei grandi e di fondare anche a Napoli la "nuova filosofia" condusse il D., con il Cornelio, F. D'Andrea, P. Lizzardi, G. A. Borelli ed altri, a dar vita all'Accademia degli Investiganti. Di ritorno nel 1649 da un viaggio a Roma, il Cornelio aveva portato con sé a Napoli, anche per esplicita richiesta del D., quanti più libri possibile sui nuovi orizzonti filosofico-scientifici. L'Accademia veniva fondata l'anno successivo; fu poi disciolta nel 1657 a causa della peste e poi ricostituita nel 1662 sotto la protezione di Andrea Concublet marchese d'Arena. Essa ebbe un ruolo specifico nella vita intellettuale e civile napoletana, orientata negli anni Cinquanta ad un risveglio culturale. Si tenevano rapporti letterari e scientifici con sodalizi d'Oltralpe, in particolare con la Società reale di Londra e con l'Accademia delle scienze di Parigi. Si tenevano salotti, alcuni dei quali specializzati nelle singole discipline. La casa del D. era frequentata in particolar modo da medici antigalenisti. Lo stesso Vico, da giovane, frequentò la casa del D., tanto da essere ascritto al novero degli appartenenti al partito capuistico, durante la polemica iniziata verso il 1680 intorno alla natura dell'iride tra il D. e Domenico Aulisio. Uno degli scritti che contribuì a caratterizzare l'ambito della ricerca scientifica e il clima delle controversie tra l'Accademia e la cultura tradizionale fu il Parere.  L'opera è del 1681. Con essa, affrontando il problema della filosofia naturale e razionale, il D. si proponeva di dimostrare "quanto vana, quanto priva d'ogni salda dottrina fosse la filosofia di Aristotele" (p. 94). Questo è il punto centrale della disamina critica del D., nonché il motivo primo delle future polemiche. Di esse parlò anche il Vico nella sua Autobiografia. Il Parere manifesta la esigenza di un nuovo orientamento di pensiero. Vi si dichiara di condividere le idee dei "modemi nostri filosofanti", quali Copernico e Keplero, Bruno e Galilei, Bacone, Cartesio, Gassendi, Boyle, nonché il "dottissimo Obbes". Tutti questi filosofi, stimati per la loro opposizione agli aristotelici, i quali opprimono lo spirito e la ricerca scientifica, insegnano a "sostener la filosofica verità" e a "far mostra in ogni luogo d'esser libero" (pp. 57, 59, 61). E queste rivendicazioni, peraltro giuste, sembrano essere per gli Investiganti la cosa più importante, prioritaria anche rispetto alla necessità di far luce sulla incompatibilità di pensiero tra filosofi così lontani e così entusiasticamente accolti quali un Cartesio e un Hobbes. Il che può gettare il sospetto sulle reali possibilità degli Investiganti di andare oltre una senz'altro positiva, ma poco costruttiva, operazione di rinnovamento culturale di tipo sincretistico. Nella Napoli degli anni Ottanta, quella libertà dell'indagare, aprendo la possibilità di una riflessione generale sulla vita, si traduceva, invero, anche sul piano civile, in una critica degli eccessi nell'uso del potere politico, amministrativo e culturale delle varie classi dominanti. In breve si assiste ad una radicale politicizzazione della cultura, da cui lo stesso Parere non rimase esente.  L'Amenta ci riferisce che la pubblicazione del Parere fu proibita per il suo spirito di opposizione alla corte pontificia (p. 46). In questo contesto vanno lette le Lettere apologetiche che il gesuita G. B. De Benedictis aveva scritto per confutare il Parere. La polemica avrà notevoli ripercussioni, indirettamente anche durante il "processo agli ateisti", e coinvolgerà un Valletta e un Gravina. Il D. fu difeso dalle Lettere da uno dei più rinomati e colti avvocati dell'ambiente anticurialistico e antiaristotelico: Francesco D'Andrea.  Il De Benedictis rappresentava la parte più attiva della Accademia dei Discordanti, seguaci di Aristotele. Il gesuita, nelle sue Lettere pubblicate nel 1694 con lo pseudonimo di Benedetto Aletino (il processo agli ateisti durava già da sei anni), tacciava di "libertini" e "ateisti" i seguaci della nuova filosofia con i suoi due allettamenti: la "novità" dell'opinione e la "libertà" dell'opinare (Benedetto Aletino, Lettere apologetiche in difesa della teologia scolastica e della filosofia peripatetica dedicate al Sig. D. Carlo Francesco Spinelli principe di Tarsia, Napoli 1694, pp. 256, 258, 267). Egli presentava il D. e i suoi amici, quali il D'Andrea e il Grimaldi, come giansenisti, sebbene quelli avversassero il giansenismo ed ogni rigorismo morale, oltre al fatto che solo dopo la morte del Vico il giansenismo fa la sua comparsa a Napoli, e più nella forma dell'atteggiamento antigesuitico e regalista che come dottrina teologica. Tuttavia questi erano i principali capi d'accusa rivolti al D. e ai capuisti, colpiti indirettamente attraverso i loro allievi o simpatizzanti nel processo svoltosi a Napoli tra il 1688 e il 1697 per volere della Curia di Roma.  Già nel 1671 la congregazione dell'Inquisizione aveva scritto al cardinale I. Caracciolo, arcivescovo di Napoli, per metterlo in guardia dai pericoli derivanti dalla propagazione delle idee di Cartesio. Veniva consigliato di stroncare la diffusione di quelle idee e di comunicare alla congregazione il loro apparire. Alla lettera del cardinale fece seguito a Napoli la dispersione degli Investiganti e l'isolamento di quanti sembravano aderire alle nuove idee. Sappiamo anche che nel 1685, al tempo della visita di G. Burnet a Napoli, erano rivolte al D. e ai capuisti quelle stesse accuse che, a detta del Burnet, venivano rivolte al Valletta e ai suoi seguaci, i quali erano "vus de mauvais oeil par le clergé, qui les traite d'athées et de disciples de Pomponatius" (cfr. F. Nicolini, Aspetti della vita italo-spagnuola..., Napoli 1934, p. 202). Il processo agli ateisti fu visto da molti come un processo alle stesse idee propagatesi a Napoli in favore dell'atomismo, del gassendismo, del cartesianesimo. In tal senso lo intese il Valletta, il quale vide nella opposizione al pensiero aristotelico e in una nuova riappropriazione della tradizione platonica, non esclusi Pitagora e Democrito, il mantenimento della integrità della fede stessa. Il Valletta arriverà a sostenere che la filosofia aristotelica è l'unica causa e origine di tutte le eresie, opinione che venne sostenuta anche dal Vico nella sua Historia filosofica del 1714. Le affermazioni del Valletta facevano invero da eco a quanto scriveva D. nel suo Parere: e cioè che non si vuole negare l'autorità di Aristotele, ma si esige che essa sia convalidata e suffragata dall'esperienza.  Sullo stesso piano si manterrà la Risposta del D'Andrea alle Lettere del De Benedictis: essa, infatti, difendendo il pensiero del D., si profila nell'orizzonte di una polemica intesa in senso antiscolastico e non in senso antimetafisico. Il che equivale a dire che il vero oggetto della controversia era il "metodo" dell'indagine scientifica e non i fondamenti metafisici del conoscere umano. In aperto conflitto erano non singole dottrine ma due modi di vedere opposti, inconciliabili. Ne è prova la polemica sorta, immediatamente dopo la pubblicazione del Parere, tra il D. e l'Aulisio. Il Cotugno ritiene che la polemica, tra i fautori del naturalismo e i conciliatori del meccanicismo con la teologia, indicasse in realtà un atteggiamento orientato nel senso di un moderatismo. Ad ogni modo, non si andò, nei confronti del D., oltre le confutazioni dottrinali e gli attacchi polemici; per quanto riguarda il processo agli ateisti, poi, il D. non fu coinvolto personalmente, sebbene imputati, quali un Giannelli e un De Cristofaro, sostenessero di aver appreso da lui le prime nozioni della nuova filosofia. Né gli atti conclusivi del processo intaccarono la memoria del D., morto ormai da due anni.  Il D. aveva superato già i quarant'anni di età, quando si sposò con la giovane Annamaria Orilia. Abitarono nel rione di S. Gennaro all'Olmo, nei cui libri battesimali fu registrata nel 1673 una loro figlia, morta appena nata. Nella loro casa si discuteva anche di letteratura. Il Vico, nella sua Autobiografia, confermando il giudizio dell'Amenta, ebbe a scrivere del D.: "L'eruditissinio signor Lionardo da Capova aveva rimessa la buona favella toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria" (p. 21).  Invero, il D. diede il suo contributo per il superamento delle forme parossistiche del marinismo esasperato, che a Napoli aveva assunto la forma di un "secentismo del secentismo". Il D. darà egli stesso il modello d'una teoria letteraria con la sua biografia storica su Andrea Cantelmo, che ben presto fu assunta come manifesto letterario dai capuisti: ritorno all'aureo toscano del Trecento e del Cinquecento, quale necessità basilare d'un retto formarsi in prosa della lingua e dello stile di uno scrittore.  Il processo agli ateisti era ancora aperto e le polemiche di certo non mitigate, quando il 17 giugno 1695, a Napoli, il D. venne a mancare. Fu sepolto nella chiesa di S. Pietro a Maiella e sulla sua tomba fu tenuto un "elogio funebre", che ne esaltò non solo la figura morale e cristiana, ma anche la statura intellettuale di maestro e di guida.  La prima e più complessa opera è senz'altro ilParere del Sig. Lionardo di Capua. Divisato in otto ragionamenti, nei quali partitamente narrandosi l'origine e il progresso della medicina, chiaramente l'incertezza della medesima si manifesta, pubblicato a Napoli nel 1681; ristampato nel 1689 a Napoli, dove vide una terza ristampa nel 1695. L'ultima edizione, accresciuta delle Lezioni intorno alla natura delle mofete, in tre tomi, in 80, fu pubblicata a Bologna nel 1714. Esso ebbe molta risonanza nella cultura del tempo; contro di esso scrisse il già ricordato De Benedictis. Muovendo dalla tesi secondo cui Aristotele ha ignorato la prova sperimentale, il D. intuisce la necessità di orientarsi verso una nuova filosofia della "mente". Invero, il D. pensa la mente come realtà connessa con il processo della natura, non allontanandosi con ciò dai ragionamenti svolti dal Cornelio nei suoi Progymnasmata physica del 1663 circa la teoria dell'etere-mente. Fondamentale è per il D. il discorso intorno agli aspetti chimici della materia e ad una implicita metafisica, inerente alla originaria forza interna alla materia, ripresa ed ampliata nelle Lezioni sulle mofete. Il punto di partenza è la questione dell'"aria", sviluppata secondo la teoria dei corpi eterei. Questa è pensata come condizione di possibili attività implicite in ogni punto dell'universo così che la stessa cartesiana "res cogitans" conosce solo in quanto sollecitata dalle "sensazioni" provocate dal movimento materiale delle cose, necessariamente ordinato in senso teleologico. Bisogna dire che il D. non riesce a separarsi del tutto dalla tradizione sensistica e vitalistica del Rinascimento. Sebbene egli affermi di affidarsi, in ultima sede, alla "prova sperimentale", la sua teoria dell'etere-mente, che soprattutto gli impedisce una piena accoglienza e comprensione di Cartesio, è profondamente radicata nella tradizione di un Telesio e d'un Bruno. Consentaneamente al modello proposto dal Cornelio, il D. ascrive molta importanza alla chimica, alle scienze sperimentali e mette al primo posto la matematica. Nel Parere egli asserisce che per essere medico bisogna prima essere filosofo, ma per essere filosofo bisogna in primo luogo sapere di "geometria" (Parere..., Bologna 1714, II, p. 73). Ilmedico, dunque, deve essere ricercatore e teorico della scienza; a causa delle incertezze della medicina, cui fa riscontro la "oscurità" della filosofia, il medico deve prepararsi in tutte le scienze. E l'"eruditissimo" D. (il Vico mise in rilievo più la sua crudizione che una qualche originalità di pensiero) rimanda alla sapienza degli antichi, i quali si accontentavano del "solo probabile" nello spiegare le cause delle realtà naturali. Invero tutto il Parere è teso a dimostrare perché la medicina debba mantenersi entro i limiti dell'esperienza e della "debole" ragione. Tuttavia il pensiero del D. trova le maggiori difficoltà proprio in ciò che costituisce il rapporto tra esperienza e ragione.  Nel 1683 il D. stampa a Napoli le Lezioni intorno alla naturadelle mofete. L'opera è introdotta da una specie di filosofia della storia, in cui è sviluppato il rapporto tra storia e scienza. Nel 1689, obbedendo ad una richiesta della regina Cristina di Svezia, il D. aggiunge al Parere i Tre ragionamenti intorno all'incertezza deimedicamenti, pubblicato a Napoli. L'opera fu ristampata con l'aggiunta di una presentazione di T. Donzelli, a Napoli, nel 1695. Del 1693 è la Vita di Andrea Cantelmo, edita a Napoli. L'opera è legata al tema dell'individuo. Vengono descritti i rapporti tra virtù e fortuna, tra storia individuale e storia naturale, tra ragione e natura.  Fonti e Bibl.: N. Amenta, Vita di Lionardo di Capoa, Venezia 1710; G. B. Vico, Autobiografia, a cura di B. Croce, Bari 1911, pp. 21, 111; C. Minieri Riccio, Cenno stor. delle Accademie fiorite nella città di Napoli, in Arch. stor. per le prov. nap., IV (1879), pp. 531 ss.; R. Cotugno, La sorte di G. B. Vico e le polemiche scientifiche e letter. dalla fine del XVII alla metà del XVIII secolo, Bari 1914, pp. 37 ss., 52-57, 73 ss.; F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico(1666-1700), Bari 1932, pp. 79-90, 154-164; N. Badaloni, Introd. a G. B. Vico, Milano 1961, pp. 124-147, 157-164, 246 ss., 301 s., 314 s., 352-359; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 90, 157- 176; A. Quondam, Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle "risposte" di F. d'Andrea a Benedetto Aletino, in Riv. stor. ital., LXXXII (1970), pp. 887-916; L. Osbat, L'Inquisizione a Napoli. Il processo agli ateisti(1688-1697), Roma 1974, pp. 13-19, 58 s., 93 s., 163-166.

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